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ISSN 1827-8817 00528

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Quando due uomini in affari sono sempre d’accordo, uno dei due è superfluo Ezra Pound

9 771827 881004

di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • VENERDÌ 28 MAGGIO 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Il Pd fa il solito mezzo passo avanti: «L’esecutivo non chiuda al confronto e non metta la fiducia»

La verità della Marcegaglia «Giusta la manovra. Ma non basta: ora misure per la crescita» Appoggia la strategia del governo però avverte: è lunga la strada per risanare il debito. E poi ci vuole più sviluppo. Berlusconi la propone ministro e la sala lo gela. E all’Ocse cita Mussolini: «Non ho poteri» L’assemblea a Via dell’Astronomia

Non contano solo i numeri

Movimenti trasversali

Grandi riforme, Lega e Pdl si dividono

La seconda Fisco e pensioni, manovra due rivoluzioni di Confindustria solo sfiorate di Francesco Pacifico

di Gianfranco Polillo

stata una giornata di politica economica e di teatro. All’Assemblea di Confindustria tutti si aspettavano il giudizio degli imprenditori sul “collega” Berlusconi. Marcegaglia prima ha lodato i numeri della finanziaria, poi però ha chiesto più attenzione allo sviluppo. Berlusconi ha risposto con un siparietto: rivolto alla platea ha chiesto: «Chi la volete ministro alzi la mano», riferendosi a Marcegaglia. Ma solo un paio di mani si sono alzate. Poi la sera, dopo i lavori dell’Ocse ha citato Mussolini: «Chi governa non ha poteri».

n giudizio meditato sulla manovra potrà essere dato solo a “bocce ferme”: quando si conoscerà il testo effettivo del decreto, ancora al vaglio del Presidente della Repubblica. Non è un eccesso di prudenza. Il provvedimento investe anche delicati profili costituzionali ed è nel dettaglio che si annida la coda del diavolo. Un esempio tra tanti. Si è discusso a lungo della soppressione di alcune province. Si è parlato addirittura di un numero minimo di abitanti. Nulla di tutto questo, sembra.

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di Errico Novi

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CompleanniGli 80 anni di un mito

Quattro esperti valutano i tagli

«Ha ragione Emma»

Gli economisti d’accordo: manca un piano per il futuro «Una grande operazione di ragioneria non sempre fa politica economica»: la finanziaria secondo Dell’Aringa, Pelanda, Sapelli e Vaciago

on finisce qui. Ma non nel senso che ci sarà una resa dei conti. Semplicemente «questa è una manovra d’urgenza che risponde a necessità ben precise, in sintonia con altri governi europei». Quello che c’è, dunque, «va bene». Il problema è trovare «altre occasioni per intervenire con misure più strutturali, che restituscano al governo un profilo riformatore». Nella maggioranza si disucte di questo: riforme sì o riforme no. E soprattutto: quando? Ormai le divisioni attraversano i partiti e le correnti.

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Franco Insardà • pagina 4

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L’operazione «top kill» è riuscita. Intanto Obama licenzia Elizabeth Birnbaum

Clint, La falla nell’Atlantico è stata chiusa l’eretico In trentasette giorni sono usciti 43 milioni di litri di petrolio che Dopo Katrina, un altro disastro “tra i poveri” conquistò Barack e la maledizione il mondo L della Louisiana di Alessandro D’Amato

Dopo il lungo ostracismo, Hollywood riconosce la sua grandezza

o sapremo con certezza soltanto stamattina, ma ci sono fondate speranze che la Marea Nera nell’Atlantico si sia fermata. Secondo una dichiarazione dell’ammiraglio Thad Allen della Guardia Costiera, gli ingegneri hanno fermato il flusso di petrolio e gas nel Golfo del Messico che ormai da oltre un mese usciva dalla piattaforma della Bp. L’operazione “Top Kill” ha funzionato.

a marea di petrolio che soffoca le coste della Louisiana, dell’Alabama e della Florida determinando il disastro ecologico più grave della storia degli Stati Uniti è stata fermata. Ma sulle coste dello Stato giàù fiaccato dall’uragano Katrina restano 43 milioni di litri di greggio.

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Orio Caldiron • pagina 12 seg1,00 ue a p(10,00 agina 9CON EURO

I QUADERNI)

• ANNO XV •

NUMERO

102 •

di Anna Camaiti Hostert

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WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


pagina 2 • 28 maggio 2010

prima pagina

Imprese. In viale dell’Astronomia si teme che i sacrifici del governo non siano sufficienti e che l’Europa chiederà ulteriori sforzi

La manovra di Confindustria All’assemblea annuale Emma Marcegaglia chiede «di rafforzare il rigore» e richiama Palazzo Chigi su pensioni, sanità e liberalizzazioni di Francesco Pacifico

ROMA. «La manovra economica contiene misure che Confindustria chiede da tempo. Mancano però interventi strutturali per incidere sui meccanismi di formazione della spesa pubblica». A viale dell’Astronomia temono che non saranno sufficienti i 24,9 miliardi della manovra licenziata 48 ore dal Consiglio dei ministri. Che entro fine anno saranno necessari ulteriori sacrifici.

L’approccio diplomatico imposto dal suo ruolo spinge Emma Marcegaglia a affidarsi a un giro di parole per lanciare un allarme più condiviso di quanto si pensi. E un tema tanto centrale per il presente e il futuro del Paese non poteva che essere il leit motiv della sua relazione, pronunciata ieri all’assemblea annuale di Confindustria, che ha segnato il centenario dell’associazione. Meno accorta, la leader degli imprenditori, sarebbe stata nella giunta di mercoledì sera, quella che le ha assegnato un consenso bulgaro: il 98,7 per cento. Davanti ai suoi colleghi Emma Marcegaglia avrebbe spiegato che soltanto il livello di spread tra il Bund tedesco e i titoli di Stato delle economie più appesantite dal debito potrà dirci se saranno sufficienti i 24,9 miliardi messi che si accinge a rastrellare Giulio Tremonti. Che in caso contrario, nessuno – Berlusconi in primis – dirà di no a nuovi sforzi se chiesti dall’Europa. Questo insieme di sensazioni e timori sarebbe alla base della timida accoglienza riservata ieri a Berlusconi. E forse è uno dei motivi dietro il no della Marcegaglia a succedere a Claudio Scajola al ministero dell’Economia: la paura di non essere liberi di criticare le scelte di un esecutivo che complice la crisi tanto ha promesso e poco realizzato. Non a caso il premier, ancora alla ricerca di un tecnico per quella poltrona, dopo aver invitato la platea di imprese a spingere la loro leader in via Veneto, ha replicato al loro no con un secco «allora non lamentatevi più del governo». Di conseguenza bisogna fare i conti soprattutto con l’euro che si indebolisce e, nonostante i possibili benefici che ne trarrebbe l’export italiano, con la consapevolezza che difficilmente crescerà la domanda con una Germania pronta ad alzare le tasse, dopo aver promosso di tagliarle. Eppoi la disoccupazione destinata a crescere, con lo Stato costretto a trasferire su questo versante le risorse destinati in altri momenti allo sviluppo. Per non parlare dell’interbancario che cresce, che rende ancora difficile – soprattutto per chi lavora con i fidi – l’accesso al credito. È di tutto questo che ieri mattina parlavano gli imprenditori – grandi o piccoli accorsi all’Auditorium della musica di Roma. E in questo contesto per Confindustria consiglia due direttrici sulle

Ma il premier fallisce il siparietto sul ministero ROMA. In Confindustria, Silvio Berlusconi si sente a casa, così ieri ha riservato ai suoi amici e sodali imprenditori uno di quei teatrini che l’hanno reso noto nel mondo e che mezzo mondo hanno fatto ridere. Oggetto dello spettacolo, ieri, è stato il corteggiamento governativo a Emma Marcegaglia. Dopo averle chiesto già nei giorni scorsi in privato di occupare la scottante poltrona dello Sviluppo economico lasciata vacante dal ministro “immobiliarista” suo malgrado Claudio Scajola, Berlusconi ieri è tornato alla carica, ma questa volta pubblicamente. Salvo avere un secondo, forse definitivo diniego. Con il suo solito stile sornione (e populista), cercando di coinvolgere l’uditorio nella decisione, Berlusconi ha detto rivolgendosi direttamente a Marcegaglia dandole del “tu”, come sempre: «Quando ti ho fatto la proposta di entrare a far parte dell’esecutivo, mi hai risposto che tra i tuoi dubbi c’era la possibile reazione degli ambienti di Confindustria. Bene, possiamo fare subito una prova». E così, rivolgendosi alla platea, il premier ha chiesto agli industriali quanti di loro avrebbero gradito una partecipazione diretta della Marcegaglia all’azione dell’esecutivo: «Alzi la mano chi vedrebbe bene Emma ministro». Nella mente del premier, questo coup-dethéâtre, ovvero un’acclamazione popolare, avrebbe dovuto essere un vincolo dal quale la presidente di Confindustria non avrebbe di fatto potuto sottrarsi. Ma il colpo di scena è stato un flop: giusto un paio di industriali hanno alzato la mano. Ma Berlusconi, intrattenitore navigato, non ha perso tempo: «Nessuno? Bene, e allora non lamentatevi più del governo!».

quali muoversi: il taglio alla spesa – «La spesa pubblica italiana deve diminuire di almeno un punto di Pil all’anno per i prossimi tre anni» – e la pace sociale. Obiettivi che hanno spinto la Marcegaglia a promuovere, seppure con tante riserve, l’ultima manovra. A chiedere ai sindacati – «A tutti senza eccezioni» – e alle altre associazioni datoriali «una grande assise dell’Italia delle imprese e del lavoro. Incontriamoci subito. Diamoci l’obiettivo di una grande intesa per la crescita, entro l’estate». Nella speranza, però, di far decollare il nuovo modello contrattuale rigettato dalla Cgil e che può essere un’importante leva per coniugare produttività e potere salariale. Ma se è il presente è fare quadrato intorno al governo e far uscire la Cgil dal cono d’ombra nel quale si è cacciato, il futuro non può trascendere dalle riforme. Ieri Confindustria ha rilanciato un’agenda che accompagna la politica italiana da almeno quindici anni e che comprende tagli agli stipendi pubblici, aumenti dell’età effettiva di pensionamento, revoca delle false invalidità, tagli alla sanità».

Ma al centro del cahiers de doleances non potevano che esserci le liberalizzazioni mancate. «In Italia c’è bisogno di più mercato, ancora poco presente o assente in troppi settori della vita pubblica». Per poi aggiungere: «Si manifestano segni sempre più preoccupanti di una vera e propria allergia al mercato», mentre in Parlamento c’è «l’allarmante corsa a ripristinare barriere all’ingresso e tariffe minime per i servizi professionali e se Governo e maggioranza persistono in questa marcia indietro sulle liberalizzazioni nel commercio e nelle professioni, noi ci metteremo di traverso e sarà opposizione dura». Della manovra varata dal governo sono proprio le misure che vanno nella direzione del mercato e del taglio delle spese a piacere di più. Non a caso a margine dell’assemblea Antonio Costato, vicepresidente che da poco si è visto conferire le deleghe sul federalismo, a margine dell’assemblea si complimentava per l’intervento su Roma Capitale, che «fa recuperare i 300 milioni necessari sul territorio», con gli aumenti delle utenze pubbliche e l’introduzione dei pedaggi sul Gra. «Misure draconiane, certo, ma che aiutano a responsabilizzare la classe politica locale». In questa logica diventa centrale per Confindustria la discussione sull’introduzione dei costi standard per l’individuazione e il riparto del fondo sanitario nazionale. Costi che devono ricalcare quelli dei modelli più virtuosi, non delle Regioni con il picco massimo di addizionali Irpef e Irap. Al riguardo, e senza aspettare i tempi della riforma, la leader degli imprenditori ha chiesto che si «impongono a tutte le regioni costi standard negando ogni copertura a chi li supera».


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E nel Pdl vacilla il tabù delle riforme «Condizioni propizie per interventi di lungo periodo», dicono berlusconiani e finiani di Errico Novi

ROMA. Non finisce qui. Ma non nel senso che ci sarà una resa dei conti. Semplicemente «questa è una manovra d’urgenza che risponde a necessità ben precise, in sintonia con altri governi europei». Quello che c’è, dice dunque Benedetto Della Vedova, «va bene». Si troveranno però «altre occasioni per intervenire con misure più strutturali, che restituiscano al governo un profilo riformatore». Solo un auspicio? Non è detto. Al di là dell’insofferenza esibita dal premier in queste ore, il varo della correzione tremontiana potrebbe aver prodotto un esito positivo ai vertici dell’esecutivo, e in generale in larghi settori della maggioranza. Come lo stesso Della Vedova ritiene «plausibile oltre che auspicabile», Berlusconi dovrebbe aver acquisito più di un elemento utile a superare la propria personale ritrosia alle riforme strutturali. Il motivo è semplice. Con una manovra tutta rigore e tagli come quella appena presentata si estingue obiettivamente la narrazione berlusconiana dello sviluppo, della crescita da mordere sempre, dello slancio positivo da cavalcare senza soste.

Marcegaglia, ma anche dall’Udc, dalle voci davvero riformiste del Pd, in buona parte dal Cisl e Uil come dalle associazioni di categoria. Assecondare chi invoca un’accelerazione, adesso, può essere per il presidente del Consiglio l’unica carta da giocare. «Spero che riflessioni del genere si facciano strada nella legislatura», dice con un tono non disilluso Della Vedova. Il quale rappresenta quella componente finiana del Pdl con cui Berlusconi ha ripreso a confrontarsi. È stato significativo l’incontro di mercoledì mattina a Palazzo Grazioli con Andrea Augello e Italo Bocchino, viste le tensioni registrate negli ultimi tempi con quest’ultimo. E tanto per fermarsi alle cose esibite pubblicamente, non può nemmeno passare inosservato il saluto rivolto da Berlusconi a Fini durante l’intervento all’assemblea di Confindustria: «Io e il presidente della Camera garantiremo la coesione della maggioranza nel dibattito parlamentare sulla manovra».

Dovrebbe essere diventato chiaro cioè che gli interventi di lungo periodo sono l’unica via, in una situazione del genere, per dare impulso allo sviluppo. Giocare in difesa non dà alcun altro sbocco, ed è comunque una funzione assolta già benissimo da Giulio Tremonti. A Berlusconi, se davvero gli interessa lasciare un segno riconoscibile, non resta che accogliere richieste come quelle ribadite ieri da Emma

Vuol dire che già nella conversione del decreto Berlusconi e Fini potrebbero promuovere insieme un arricchimento del testo in senso riformatore? «Direi di no: credo che i contenuti della manovra siano positivi nel merito e nel metodo e vadano salvaguardati anche dal desiderio di fare “troppo” con questo singolo strumento», osserva Della Vedova. Ciononostante, sostiene quello che tra i deputati finiani

Il timore infatti è un nuovo aumento dell’Irap negli enti in rosso. Se viene considerata giusta la decisione di non ripianare coi fondi Fas i deficit sanitari delle Regioni, «ma se questo dovesse comportare un aumento delle tasse, quelle in più non chiedetele alle imprese, che non votano. Chiedetele ai cittadini che manderanno a casa col voto chi non ha saputo gestire i soldi pubblici».

ha forse la vocazione più spiccatamente liberale, «continuo a pensare che pensioni, privatizzazioni, liberalizzazioni dei servizi pubblici locali, concorrenza, siano tutti capitoli da aprire». Come e quando? «Con la Finanziaria, ma anche con specifici disegni di legge». E Berlusconi appunto potrebbe decidersi anche in virtù della fatica con cui ha dovuto assumersi quest’ultima svolta rigorista: «Sì, in effetti credo che le condizioni si siano fatte particolarmente propizie», dice Della Vedova. E aggiunge: «Vedremo anche la scelta del ministro per lo Sviluppo economico: quanto più sarà attrezzato e determinato, tanto più chiara e praticabile sarà una accelerazione in senso riformatore».

Della Vedova: «Decisiva anche la scelta del successore di Scajola». Valducci: «Innovare innanzitutto le istituzioni»

Al riguardo non piace neppure la stretta annunciata sulla spesa farmaceutica. «Un ulteriore taglio», dice sarebbe, «sarebbe inaccettabile», visto che l’industria del settore «è l’unica che da anni contribuisce a ripianare i disavanzi regionali». Il presidente di Farmindustria, Sergio Dompé, anche ieri ha ripetuto i rischi di un trasferimento del business in economie emergenti come quelle

Dove può scattare l’incrocio decisivo? Secondo un berlusconiano di rango come Mario Valducci «il nodo da sciogliere è soprattutto quello della governance della presidenza del Consiglio. Da lì discende tutto il resto, a cominciare dalla possibilità di intervenire con misure nel campo dell’economia che intacchino le sacche di privilegio, le corporazioni». Le riforme strutturali invocate da Confindustria e da quasi tutte le parti sociali, dunque, si intrecciano fatalmente con le riforme istituzionali. Discorso che non cela alcuna intenzione dilatoria, spiega il presidente della commissione Trasporti di Montecitorio: «Interventi strutturali sarebbero au-

asiatiche. Il suo predecessore, e uno dei titolari dei principali marchi italiani, Diana Bracco, ha commentato: «Se devono essere sacrifici, che almeno lo siano per tutti».

Ma la parola sacrifici finisce sempre per intersecarsi con il timore di nuovi sforzi finanziari. Dai quali nessuno può tirarsi indietro. Infatti la Marcegaglia ha

spicabili, e credo sia da considerare come un dato importante per esempio la riforma del mercato del lavoro messa a punto da Sacconi». Ma non si può prescindere dalla «governance», dice Valducci, «e ancora, dal superamento del bicameralismo perfetto, dalla diminuzione del numero dei parlamentari: sono innanzitutto queste le forme di innovazione del sistema che consentirebbero all’Italia di riprendere slancio».

Tesi care ai berlusconiani che potrebbero stavolta coniugarsi con aspettative di modernizzazione diffuse al di fuori del Palazzo, ma anche al suo interno, in altre componenti della stessa maggioranza, come quella che fa capo al presidente della Camera. Liberalizzare le professioni, fa notare l’Ocse, farebbe guadagnare all’Italia 14 punti di competitività: «Si va a incidere su sacche di privilegio, ci si imbatte in resistenze corporative forti, e a maggior ragione serve un governo messo nelle condizioni di decidere secondo i tempi e le esigenze assai mutate della nostra società. Personalmente sono un sostenitore delle liberalizzazioni e credo che potrebbe avere grande rilievo simbolico applicarne il principio anche ad ambiti particolari come la Rai, dove i privilegi sono consolidati». È un punto di vista non coincidente, sicuramente diverso, ma nemmeno incompatibile con quello della Marcegaglia. Molto dipenderà dalla capacità della maggioranza e del suo leader di reagire in modo positivo alla frustrazione per le scelte obbligate della manovra. ricordato che «il fardello del debito pubblico e l’aumento della disoccupazione saranno un lascito duraturo della crisi e peseranno a lungo sulle prospettive di crescita». E questo scenario impone al governo di «non sbagliare tattica e strategia, perchè forse è già tardi. Le misure di rigore della manovra economica non vanno indebolite in Parlamento, vanno rafforzate».


l’approfondimento

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Gli esperti mettono a confronto le soluzioni proposte dal governo e le richieste fatte da Confindustria

«Ha ragione Emma»

Un grande esercizio di ragioneria senza politica economica: è una manovra rigorosa nei conti (imposti dall’Europa) ma con poche prospettive, come ha detto Marcegaglia. Dell’Aringa, Pelanda, Sapelli e Vaciago aspettano un secondo atto di Franco Insardà

ROMA. «Indispensabile e inutile», l’economista Giacomo Vaciago conferma il suo giudizio sulla manovra sulla quale Emma Marcegaglia ha, però, aggiunto che «mancano interventi strutturali per incidere sui meccanismi di formazione della spesa pubblica». Per Vaciago la posizione di Confindustria è condivisibile «perché non basta tirare la cinghia, senza crescita i costi sono inevitabilmente maggiori. Ridurre il deficit oggi senza prevedere lo sviluppo farà ritornare la situazione fra due anni allo stesso punto». la ricetta per il professor Vaciago è chiara: «Dobbiamo diventare tedeschi: bilancio in pareggio, anche le Regioni e gli enti locali, stabilendo in quanti anni e, magari con un governo di grande coalizione». «Di fronte a una malattia si interviene con una medicina, senza stare a sottilizzare sugli effetti collaterali che pure esistono», è questa l’istantanea di Carlo Dell’Aringa, professore di Economia politica alla Catto-

lica di Milano, che sulla posizione confindustriale aggiunge: «La Marcegaglia fa parte di tutte quelle forze politico-sociali che riconoscono la fondatezza e l’urgenza dell’intervento e si rendono conto che ci potrebbero essere degli effetti negativi sulla nostra economia. Dal punto di vista degli imprenditori, infatti, si registrerà la riduzione dei consumi, i sindacati, anche quelli più ragionevoli, temono una manovra sbilanciata dal punto di vista dell’equità sociale. Tutti questi soggetti hanno, però, la consapevolezza che si tratta dell’ultimo appello dei mercati all’Italia perché si metta in riga».

Il professor Dell’Aringa si dice d’accordo con chi sostiene che «la manovra bisognava farla, ma non è detto che la medicina sia risolutiva. È ovvio che Confindustria e gli altri chiedano le riforme che consentano la ripresa e che in questa manovra non ci sono, mentre si tratta soltanto di tagli, in molti casi, indiscriminati, che in altre

circostanze storiche non sarebbero stati accettati. Il problema è che si fanno tagli, ma per la crescita non si prevede nulla. Non c’è traccia della madre di tutte le riforme: quella del fisco. C’è un sottofondo di insoddisfazione e la Marcegaglia ha cercato di trasformarlo in positivo proponendo un patto di crescita a sindacati e associazioni datoriali per fare in modo che il Paese esca non solo da questa fase critica, ma anche da un decennio di crescita molto modesta. Ovviamente se i mercati reagiscono male a questa manovra la riforma del fisco è inevitabile con una più credibile lotta all’evasione. E se non cambia l’approccio prevedere sette miliardi di gettito è del tutto ottimista: occorrerà metterla in pratica».

Ancora più pessimista si dichiara Giacomo Vaciago: «Secondo me nella previsione c’è uno zero di troppo. La lotta all’evasione non deve essere usato come strumento di finanziamento della spesa, occorre, in-

vece, un patto tra cittadini e Stato che garantista un abbassamento delle tasse per le classi più povere».

Proprio la lotta all’evasione, secondo Giulio Sapelli, professore di Storia Economica presso l’ Università degli Studi di Milano, invece è «una luce in questa manovra. È questo il fatto stupefacente che, senza arrivare al dogmatismo vischiano, Tremonti, dimostrando un equilibrio e una fermezza notevole, è riuscito a inserire la tracciabilità, accettata da Retitalia e dalle piccole imprese. Un’operazione del genere Prodi non l’aveva fatta fare al ministro Visco. Questa è sicuramente una riforma strutturale che potrà garantire un gettito forse superiore a quello previsto». Il professor Carlo Pelanda che insegna Politica ed Economia internazionale presso la University of Georgia, si dice d’accordo «con lo spirito dell’intervento della Marcegaglia che ha avvertito il governo, una volta superata l’emergenza, della ne-

cessità di cambiare modello. È senza dubbio una posizione di buon senso, ma caricherei meno i toni nei confronti della politica. Bisognerebbe tagliare lo stato sociale, ma allo stesso tempo va ridisegnato per mantenere la socialità e l’equilibrio nel mercato. L’Italia deve tagliare la spesa la spesa strutturale per dodici miliardi all’anno per il prossimo quinquennio, considerando la crescita migliore del Pil di almeno il 2 per cento. E questo è soltanto l’inizio. Le preoccupazioni degli imprenditori sono legittime perché temono che la politica non sia in grado a farlo. Diamo, però, il tempo alla politica di apprendere che il mondo è cambiato e verifichiamo se saranno in grado o meno di produrre un pacchetto sistemico».

Sulle riforme strutturali insiste anche il professor Sapelli: «questa manovra è un po’ un pannicello caldo dal punto di vista delle riforme strutturali, si avvicina, ma non prevede la riforma strutturale principe


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Un’operazione a due facce: solo i numeri sono trattati con grande attenzione

Le pensioni e il fisco, due riforme solo sfiorate

Tremonti gioca d’anticipo per evitare possibili sorprese del mercato, ma le aspettative di crescita per il futuro ancora non sono chiare di Gianfranco Polillo n giudizio meditato sulla manovra potrà essere dato solo a“bocce ferme”: quando si conoscerà il testo effettivo del decreto, ancora al vaglio del Presidente della Repubblica. Non è un eccesso di prudenza. Il provvedimento investe anche delicati profili costituzionali ed è nel dettaglio che si annida la coda del diavolo. Un esempio tra tanti. Si è discusso a lungo della soppressione di alcune province. Si è parlato addirittura di un numero minimo di abitanti. Nulla di tutto questo, sembra. Secondo le ultime dichiarazioni le province uscirebbero indenni dalla mannaia del Ministro dell’economia. La ragione? Si tratta di organi previsti dalla Costituzione, che di conseguenza non possono essere toccati con legge ordinaria. Risposta debole. La Costituzione prevede solo l’istituto, che comunque non era del tutto soppresso. E non l’elenco puntuale dei singoli capoluoghi, che sono sede amministrativa di un più vasto circondario. La spiegazione più semplice è tutta politica. La Lega si è opposta. E alla fine ha di nuovo vinto questa sua antica battaglia.

U

stiamo ad un barlume di ripresa che nei prossimi mesi – dice sempre l’Istat – dovrebbe consolidarsi. La speranza è che queste attese non siano gelate da una manovra che trae origine da una crisi soprattutto esogena, come dicono gli economisti. Derivante cioè dalle turbolenze europee che hanno costretto sia i reprobi che i paesi più virtuosi ad intervenire sulle loro economie. Che l’Italia non faccia parte dei Pigs – i porecellini: (Portogallo, Inghilterra, Grecia e Spagna) – è ormai definitivamente accalorato. L’ultima autorevole conferma viene dall’Fmi. La sostenibilità delle finanze italiane è più o meno solida come quella tedesca. Lo sforzo fiscale che dovremo realizzare nel prossimo decennio è simile, ma pari alla metà di quello francese, spagnolo o portoghese ed addirittura ad un terzo di quello inglese ed americano. Questo è il dato di partenza, che trova conferma nei numeri forniti

C’è un barlume di ripresa che dovrebbe consolidarsi. La speranza è che le attese non siano vane

Non è solo questo il trofeo che porta a casa. Prendiamo il taglio delle retribuzioni dei manager pubblici. Disposizione indubbiamente popular, ma che rischia di creare più problemi di quanto non ne risolve. Quanto sarà il risparmio? Vedremo dalla Relazione tecnica. Ma certo non risaneremo con questa misura il bilancio dello Stato. E allora? Ancora una volta traspare l’insofferenza non tanto verso lo statalismo, visto che la Lega è il grande difensore del “socialismo municipale”, quanto contro “Roma ladrona”. E “Roma ladrona” può essere facilmente identificata con il volto di quei funzionari che avranno pure tante colpe, ma non sono certo responsabili esclusivi – salvo alcune mele marce – del più generale cattivo andazzo dell’Italia. Si pensi solo ai manager delle grandi banche. Devono la loro fortuna alla non contendibilità delle rispettive aziende, dove la presenza delle Fondazioni bancarie – un ibrido istituzionale – è determinante. Guadagnano cento volte tanto, ma dalla manovra – alla faccia del principio di uguaglianza – rimangono esclusi. Come rimangono esclusi – simbolismo per simbolismo – gli “scudati” del rientro dei capitali. Come si vede, il puzzle potrà essere composto solo quando avremo davanti agli occhi il testo normativo. Nel frattempo occupiamoci dei grandi numeri. Ripetiamo quanto abbiamo scritto più volte e che ora trova autorevole conferma nel recente rapporto dell’Istat. Assi-

dalla Ragioneria generale dello Stato. Se non intervenissimo, il deficit di bilancio per il 2012 sarebbe pari al 4 per cento. Con la manovra lo ridurremo al di sotto del 3 per cento, in coerenza con le regole, ancora in gestazione, di “Maastricht due”. Questo sgombra il terreno da ogni equivoco: la manovra andava fatta. Potevamo realizzarla con la massima calma. Giulio Tremonti ha, invece, preferito giocare d’anticipo. Scelta indubbiamente saggia per prevenire l’imponderabile, nella speranza, tuttavia, che non si abbiano effetti collaterali. Lo vedremo nel corso dei prossimi mesi.

Sempre dal punto di vista dei grandi numeri, la manovra ha una doppia faccia. Rigorosa sul piano fiscale, meno efficace da un punto di vista strutturale. I rubinetti della spesa si chiudono, infatti, solo in misura limitata. A ricordarcelo sono soprattutto i dati della Ragioneria generale. Che cos’è che non riusciamo a comprimere? La spesa per le pensioni e l’evasione erariale. Secondo l’andamento del “tendenziale” – la proiezione in

avanti delle attuali poste di bilancio – la spesa pensionistica aumenterà, nel confronto con il 2006, di circa 1,4 punti di PIL, nel 2012. Un salto rilevante, se solo si considera che la spesa sanitaria – croce e delizia del welfare italiano – nello stesso periodo aumenterà solo di 0,6 punti di PIL. Siamo, quindi, alle solite. Chiuderemo – è vero – qualche finestra, ma non è questa la soluzione del problema. In attesa – come dice Silvio Berlusconi – che l’Europa si svegli, continueremo a sostenere i padri e dare solo qualche osso ai figli. Le altre prestazioni sociali aumenteranno, infatti, di un modesto – si pensi alle indennità di disoccupazione – 0,5 per cento del Pil.

Il secondo grande buco della finanza pubblica italiana è rappresentata dall’evasione fiscale. Non solo quella storica, ma quella che, proprio in questi ultimi anni, è notevolmente aumentata. La pressione sui contribuenti è rimasta più o meno stabile. Quello che, invece, è profondamente cambiato è la sua composizione. L’imposizione personale (Irpef, Ires ecc.) è in linea con i fondamentali economici. Al 2012 darà un gettito aggiuntivo pari allo 0,4 per cento del Pil. Il disastro è dato dalle imposte indirette, soprattutto nell’Iva, che subisce un vero e proprio tracollo: 1,3 punti di Pil, dal 2006 al 2012. Se poi la commisuriamo all’andamento dei consumi – in termini di contabilità nazionale – la caduta è ancora maggiore: circa 2 punti di Pil. La spiegazione è evidente. Nelle imposte personali, il peso dei lavoratori dipendenti è prevalente. Per l’Iva esistono solo imprenditori, professionisti e commercianti. La manovra prevede un drastico giro di vite: tracciabilità dei pagamenti all’insegna della ragionevolezza sociale, fattura elettronica, redditometro e maggiore impiego della guardia di finanza. Al di là delle singole misure, si vuole cambiare il clima complessivo. Dobbiamo pagare tutti per pagare di meno. Ridurre l’area di evasione è condizione essenziale per abbassare il livello di pressione fiscale alla fine del triennio. Obiettivo che resta ben scolpito nella testa di Silvio Berlusconi. Va da se che superare questo scoglio diventa la sfida delle sfide. E non solo per contribuire alla sostenibilità del quadro finanziario, ma per realizzare quella piccola rivoluzione copernicana che è nelle speranze di tutti: da Giulio Tremonti a Carlo De Benedetti. Dobbiamo passare dalle tasse sulle “persone” a quelle sulle “cose”. Ma se le imposte indirette presentano un margine di evasione maggiore quel sogno rischia di trasformarsi in un vero e proprio incubo.Tale da mettere in discussione l’intera strategia.

che è quella previdenziale. Aumentare l’età pensionabile a 67 anni per donne e uomini è essenziale, altrimenti tra crisi demografica e fiscale che si incrociano siamo morti. È un’occasione mancata perché si vota fra tre anni e poteva essere il momento giusto per mettere a posto la vicenda previdenziale». Più critico ancora Vaciago secondo il quale come metodo questa manovra non guarda ai problemi del Paese, ma «ci consente di tirare avanti. Le caratteristiche di una manovra dovrebbero, invece, essere: efficienza, equità stabilità e crescita. Queste misure ci sono state imposte dai mercati finanziari e dall’Europa per motivi di stabilità, ma a noi interessa che risolva i problemi dell’Italia secondo quei principi che le dicevo. L’Europa ci chiede il bilancio in pareggio, la manovra va fatta per aumentare la concorrenza, cioè l’efficenza, o per far stare meglio le fasce più deboli, l’equità, o per far crescere il Pil. Guardandola tenendo presente questa prospettiva la manovra fa acqua, si tratta soltanto di un assaggio e tra un anno bisogna farne un’altra: è un errore di metodo e tiene l’economia frenata perché non si sa l’anno prossimo a chi toccheranno i tagli. In Germania la Merkel ha portato le misure da adottare per i prossimi sei anni».

Il futuro, ovviamente, è l’incognita sulla quale gli economisti si sbilanciano meno. «L’anno prossimo - dice Sapelli - bisognerà aumentare i tagli, senza deprimere l’economia, sperando in un piccolo aumento dell’inflazione insieme al calo del valore dell’euro». Per il professor Vaciago vanno fatti quegli investimenti «grazie ai quali troviamo lavoro per i giovani che bisogna spostare da inutili settori pubblici a utili comparti privati. La riforma della pubblica amministrazione è indispensabile, ma non usando la scure dei tagli lineari di Tremonti. Così facendo non si garantisce il futuro». La riforma della pubblica amministrazione per Giulio Sapelli non è un compito da attribuire alla manovra: «È necessario che Brunetta continui nel lavoro iniziato, superando la visione illuministica bassaniniana, con gli opportuni accorgimenti. A questo bisogna aggiungere la necessaria eliminazione degli enti inutili come l’Istituto per il commercio estero e altri. L’Ice non serve, non aiuta gli imprenditori e sarebbe sufficiente far funzionare gli uffici delle ambasciate, evitando delle duplicazioni. Discorso diverso va fatto per le province, perché in alcuni casi servono, ma bisognerebbe eliminare le comunità montane e tutti quegli enti sovracomunali che si dividono le competenze territoriali. Non bisogna fare, cioè, dei tagli lineari, ma circostanziati».


diario

pagina 6 • 28 maggio 2010

L’appello del Papa. All’assemblea dei vescovi italiani il Pontefice richiama Conferenza episcopale, politica e impresa alla solidarietà

«Tutelate lavoro e cultura»

Ratzinger torna sullo scandalo pedofilia: «Sprone per un’autoriforma morale» no sguardo dentro la Chiesa e uno nella società italiana società. Uno sguardo preoccupato, critico, ma intonato alla speranza e alla ricostruzione. Nel discorso tenuto alla sessantunesima edizione dell’assemblea generale dei vescovi italiani, parlando di emergenza educativa Benedetto XVI è tornato sulla dolorosa vicenda degli scandali sessuali che in questi mesi hanno investito il mondo cattolico ma ha anche affrontato il dramma della crisi economica italiana, sollecitando gli attori sociali e istituzionali a fare il possibile per salvaguardare il lavoro: «Rinnovo l’appello ai responsabili della cosa pubblica e agli imprenditori a fare quanto è nelle loro possibilità per attutire gli effetti della crisi occupazionale».

U

Il pontefice ha augurato alla comunità della Chiesa una stagione di rinnovamento che possa cancellare al più presto «le ferite di cui la comunità ecclesiale è segnata duramente per le debolezze e i peccati di alcuni suoi membri. Questa umile e dolorosa ammissione non deve però far dimenticare il servizio appassionato di tanti credenti e di tanti sacerdoti». Ma all’ammissione dei peccati della Chiesa segue una diagnosi critica sui mali della società italiana. L’Italia, dice il Papa, vive una crisi culturale e spirituale, altrettanto seria di quella economica in una stagione «marcata da un’incertezza sui valori, evidente nella fatica di tanti adulti a tener fede agli impegni. Sarebbe illusorio pensare di contrastare l’una, ignorando l’altra». Per questo il pontefice chiede una politica capace di «condividere risorse economiche e intellettuali, morali e spirituali imparando ad affrontare insieme, in un contesto di reciprocità, i problemi e le sfide del Paese». Una prospettiva – riconosce Ratzinger alla Cei – «ampiamente sviluppata nel recente documento su Chiesa e Mezzogiorno». La preoccupazione del Papa è dunque prima di tutto per l’attuale “contesto culturale” che anche in Italia mette spesso in dubbio “la dignità della persona”,“la bontà della vita”, “il significato stesso della verità” e del bene. «In effetti quando al di là dell’individuo nulla è riconosciuto

di Riccardo Paradisi

come definitivo, il criterio ultimo di giudizio diventa l’io e la soddisfazione dei suoi bisogni immediati. Si fa, allora improbabile la proposta alle nuove generazioni del pane della verità, per il quale valga la pena spendere la vita».

«L’Italia vive una crisi spirituale seria come quella economica in una stagione di grandi incertezze»

Ma la Chiesa Italiana non deve scoraggiarsi. E questo nemmeno davanti all’emergere degli scandali causati dalla pedofilia. Anzi lo scandalo deve essere sprone ad un autoriforma decisa ed energica il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, aveva espresso poco prima, nel suo saluto, l’appoggio dei vescovi all’azione di autoriforma promossa da Benedetto XVI «perché la Chiesa sia all’altezza della sua vocazione e diventi sempre più quella che corrisponde al disegno di Dio, la cui presenza è necessario rendere presente al mondo contemporaneo, fin dentro le condizioni quotidiane dell’esistenza». Considerazioni che seguono a quelle del segretario generale della Cei Monsignor Crociata che ha ricordato co-

me i casi di abusi sessuali commessi da sacerdoti «rilevati in Italia con procedimenti canonici nell’ultimo decennio» sono un centinaio. Si tratta, secondo il prelato, di «un dato che indica il quadro complessivo della situazione», ricordando che «anche un solo caso è sempre di troppo». In Italia, comunque, «non c’è bisogno di alcuna commissione speciale». Secondo monsignor Crociata, «le indicazioni del Papa ai cattolici irlandesi e le lineeguida della Congregazione per la Dottrina della fede contengono tutti gli elementi necessari per continuare ad affrontare i casi che si presentano», motivo per cui una commissione simile a quella istituita dalla conferenza episcopale tedesca sarebbe inutile in Italia.

Il numero due della Cei ha sottolineato che dal punto di vista canonico la Congregazione dell’ex Sant’Uffizio e da quello civile le autorità competenti «hanno nei responsabili della vita della chiesa tutta la collaborazione possibile per accertare la verità dei fatti». L’esortazione rivolta da Ratzinger a tutti i cattolici «a riflettere sui presupposti di una vita buona e significativa, che fondano quell’autorevolezza che sola educa» deve anche aprire a non perdere mai la fiducia nei giovani e deve spingere gli educatori ad andare loro incontro portandoli a frequentare anche le dimensioni dove i giovani socializzano di più compreso quello delle nuove tecnologie di comunicazione “che ormai permeano la cultura

in ogni sua espressione”. «Non si tratta – chiarisce Benedetto XVI - di adeguare il Vangelo al mondo, ma di attingere dal Vangelo quella perenne novità, che consente in ogni tempo di trovare le forme adatte per annunciare la Parola che non passa, fecondando e servendo l’umana esistenza». «Educare - ricorda infine il Papa incoraggiando la Cei a rispondere all’emergenza educativa - è formare le nuove generazioni, perché sappiano entrare in rapporto con il mondo, forti di una memoria significativa, della vera sapienza che, mentre riconosce il fine trascendente della vita, orienta il pensiero, gli affetti e il giudizio». Appello che cade mentre vengono diffusi gli allarmanti dati Istat sulla condizione giovanile italiana che disegna un esercito di circa sette milioni di giovani tra i 19 e i 34 anni costretti a vivere ancora assieme ai genitori. Ragazzi nullafacenti per costrizione più che per scelta, demotivati e con poche speranze sul futuro. Una generazione che sta pagando più duramente i riflessi di questa drammatica crisi economica e che per soprammercato ha subito le critiche più dure come se l’essere costretti a vivere in famiglia fosse una loro colpa.

Nel corso dei suoi lavori in Vaticano, l’Assemblea generale dei vescovi italiani ha anche provveduto alle nomine dei presidenti delle 12 commissioni episcopali. Tra i nuovi presidenti delle 12 Commissioni episcopali ci sono mons. Marcello Semeraro, vescovo di Albano, presidente della Commissione episcopale per la dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi; mons. Gianni Ambrosio, vescovo di PiacenzaBobbio, presidente della Commissione episcopale per l’educazione cattolica, la scuola e l’università; mons. Claudio Giuliodori, vescovo di Macerata-Tolentino-Recanati-CingoliTreia, presidente della Commissione episcopale per la cultura e le comunicazioni sociali.


diario

28 maggio 2010 • pagina 7

Il Mib chiude al +4,16%. Al palo soltanto Atene (-1,21%)

Il governatore: «Il mio modo di lavorare non cambierà»

Rialzi in tutta Europa: vola anche Piazza Affari

Regioni, Errani riconfermato presidente della Conferenza

MILANO.

Giornata di forte rialzo a Piazza Affari e, in genere, nelle Borse europee. A Milano, alla chiusura, il Ftse Mib segnava +4,54%a 19.631 punti. Bene soprattutto le banche, guidate da Intesa SanPaolo (+6,87%) e Unicredit (+6,07%). Forti anche Fiat (+5,4%), Generali (+5,46%) e Impregilo (+5,25%). Nel Vecchio Continente, i mercati finanziari confermano la voglia di riscatto dopo lo scivolone della vigilia. L’indice europeo Stxe 600 segna un rialzo del 2,76%, sintesi dell’andamento dei diversi listini, che provano ad agganciarsi alle previsioni sulla ripresa dell’economia dell’Ocse per esorcizzare i timori persistenti sulla situazione debitoria di molti Paesi dell’Eurozona. Resta al palo solo Atene (-1,21%) che ha azzerato i guadagni di inizio seduta mentre i sindacati greci hanno indetto nuove manifestazioni la prossima settimana e si preparano a un altro sciopero generale.

A guidare i rialzi, tra le piazze maggiori, proprio Milano all’indomani del via libera del governo a una manovra con tagli per 24 miliardi. A livello settoriale corrono le materie prime (+4,25% il Dj stoxx del comparto) e le auto (+3,22%). In linea col rialzo generale degli indici

Commissione d’inchiesta sul caso Rizzoli-Corsera? Proposta di legge degli “ultraberlusconiani” del Pdl di Marco Palombi gli inizi degli anni ottanta il gruppo Rizzoli-Corriere della Sera è stato vittima di una vera e propria spoliazione (…) in favore di potentati industriali e bancari del cosiddetto “salotto buono”. C’è stato uno spostamento del controllo del grande gruppo editoriale in favore di gruppi di potere finanziario e politico, e tutto questo è avvenuto in modo quantomeno poco trasparente». Il PdL, o sarebbe meglio dire un’ala ultraberlusconiana della Forza Italia che fu, si butta a corpo morto nella querelle tra Angelo Rizzoli e gli azionisti del Corsera con una proposta di legge - incardinata ieri in commissione Cultura alla Camera, prima firmataria Deborah Bergamini - che chiede l’istituzione di una commissione d’inchiesta “che faccia luce sull’intera vicenda giudiziaria, politica ed economica che ha portato alla vendita del gruppo Rcs”a Gemina (famiglia Agnelli), Montedison, Mittel (Giovanni Bazoli) e all’industriale Giovanni Arvedi. «Una vicenda - scrive la ex“consulente per la comunicazione” di Silvio Berlusconi, poi inviata in Rai a capo del marketing che determinò allora nuovi assetti ed equilibri di potere che ancora oggi influenzano la vita politica, culturale e finanziaria del nostro Paese».

«A

guidato proprio da Bazoli – titolare di un credito cospicuo verso la società oltre che del 40% delle azioni tramite Centrale Finanziaria. Prezzo pagato dai subentranti: 9 miliardi di lire. Prezzo indicato dalla perizia del professor Guatri (Bocconi): 270 miliardi.

La ricostruzione storica della vendita di Rcs – vicenda davvero complessa e non del tutto chiara – contenuta nella presentazione della pdl è però completamente schiacciata sulla versione di Angelo Rizzoli («una vera e propria spoliazione»), il quale ha intentato causa contro gli acquirenti di allora per 650 milioni di euro: la prima udienza è fissata al Tribunale di Milano il 15 giugno prossimo. L’ex proprietario di Rcs intanto, condannato all’epoca per aver sottratto 85 miliardi di lire dalle casse del Corriere, si è visto recentemente cancellare la condanna dalla Cassazione e ha iniziato la sua battaglia legale «per farla pagare a tutti i responsabili». Quei miliardi, infatti, sarebbero finiti in realtà sui conti esteri di Ortolani, Gelli e Tassan Din, i piduisti che avevano invaso via Solferino per manovrare il giornale. In realtà Rizzoli – iscritto anche lui alla loggia – non è stato assolto, sostiene il deputato dipietrista Zazzera, la condanna è stata cancellata «per abolitio criminis, ovvero come conseguenza della riforma del 2006 del diritto societario che ha abrogato l’ipotesi di bancarotta patrimoniale nelle società in amministrazione controllata». Nessuna spoliazione, dice poi il “democratico” Ricardo Levi, al contrario «per la cattiva gestione e le distrazioni sue e di Bruno Tassan Din» (l’ad voluto da Gelli e dall’Ambrosiano di Calvi, ndr) l’azienda «era nei fatti fallita» e poi, semplicemente, venne sottratta «all’influenza di un gruppo di potere eversivo, criminale ed affaristico». E poi, conclude l’ex sottosegretario, «davvero questa maggioranza, questo governo, hanno interesse a che si riapra e si rilegga l’elenco degli iscritti P2?». La tessera 1816, infatti, fu rilasciata all’attuale presidente del Consiglio.

Ma tutto è basato su una ricostruzione storica completamente schiacciata sulla versione dell’ex proprietario di Rcs

invece le banche (+2,1%). Il segno positivo, comunque, accomuna tutte le Borse europee: Londra +3,12%; Parigi +3,42%; Francoforte +3,11%; Madrid +3,23%; Lisbona +3,57%; Amsterdam +2,65%; Stoccolma +2,21%; Zurigo +2,06%. Dopo lo scivolone di mercoledì, determinato dai timori sulla stabilità nell’area con la ripresa delle ostilità tra le due Coree e dalla crisi che ha portato l’euro sui minimi nei confronti dello yen, hanno ripreso quota anche le principali borse di Asia e Pacifico. A risollevare i listini le attese degli investitori su una ripresa della domanda cinese, che ha fatto schizzare verso l’alto i titoli delle materie prime.

ROMA. Il presidente della Regione Emilia Romagna, Vasco Errani, è stato eletto ieri presidente della conferenza delle regioni e delle province autonome. Per lui si tratta di una riconferma, visto che ha ricoperto questo incarico dal 2005 fino a oggi. Anche Michele Iorio, presidente della Regione Molise, è stato riconfermato vicepresidente. Nello specifico, dell’Ufficio di presidenza fanno parte le Regioni Lombardia, Molise, Basilicata e Calabria e, di diritto, il coordinatore delle Regioni a Statuto speciale, il presidente della Sardegna, Ugo Cappellacci. Vasco Errani ieri ha raccolto consensi bipartisan: a suo favore infatti si sono espressi anche il presidente del

Insomma, l’obiettivo di Bergamini (che riesce nell’impresa di scrivere tre pagine sull’argomento facendo una sola volta il nome di Gelli e mai quello della P2) pare essere l’attuale assetto azionario del Corsera, non proprio una notizia tranquillizzante data la situazione proprietaria del sistema mediatico italiano. «È un avvertimento», dice Giuseppe Giulietti, portavoce di Articolo 21. Notevole che tra le 33 firme che seguono quella di Bergamini ci sia anche quella di Antonio Martino, la cui domanda di affiliazione alla loggia segreta, con tanto di curriculum vitae, fu trovata tra le carte sequestrate al venerabile Gelli. Nel 1984 il gruppo di Angelo Rizzoli, infiltrato e saccheggiato dalla P2, indebitato fino al collo, in crisi nera, fu venduto alla cordata per decisione del Nuovo Banco Ambrosiano –

Consiglio Silvio Berlusconi, i governatori regionali del centrodestra e anche il ministro leghista Roberto Calderoli.

La conferenza delle Regioni «ha scelto il presidente in piena autonomia». È stato questo il primo giudizio di Vasco Errani commentando, al termine della riunione in cui è stato riconfermato alla guida della conferenza delle Regioni, il comunicato della presidenza del Consiglio che l’altra sera informava che la maggioranza aveva deciso di offrirgli la Presidenza. «Sono stato il presidente della conferenza delle regioni per cinque anni e mi appresto al mio nuovo mandato. Il mio modo di fare il presidente non cambierà». «Io - ha aggiunto non rappresento né la maggioranza né la minoranza, ma ci sono le regioni e la conferenza delle regioni. Il Presidente viene eletto qui e in nessun altro luogo. L’autonomia della conferenza è un riferimento irrinunciabile. Poi il fatto che la composizione della Conferenza indichi appartenenze politiche diverse è importante perché dimostra come questo sia un luogo istituzionale. Le Regioni italiane hanno dato dimostrazione di come sia giusto salvaguardare le istituzioni».


mondo

pagina 8 • 28 maggio 2010

Usa. Presentata la nuova strategia per la sicurezza nazionale della Casa Bianca su economia, terrorismo e ambiente

Ecco l’America di Obama Al Qaeda nel mirino, no al protezionismo, sviluppo sostenibile e libero commercio di Pierre Chiartano bama sta ormai mettendo la sua firma su quasi ogni aspetto della politica americana. E se molti vedono analogie, anche discutibili, con il new deal roosveltiano, non è possibile non dare atto al nuovo inquilino della Casa Bianca di una certa determinazione e costanza nel perseguire ciò che aveva promesso in campagna elettorale, fatta eccezione per la chiusura della prigione di Guantanamo. Ora l’amministrazione americana lavorerà per «resistere al protezionismo» e «promuovere la libertà di commercio», per «tagliare la dipendenza dal petrolio straniero» e assicurare una crescita «equilibrata e sostenibile». Lo afferma il documento sulla nuova strategia per la sicurezza nazionale della Casa Bianca presentato ieri a Wa-

O

shington. Così facendo gli Usa sfrutteranno la crisi per ricostruire un modello che costerà qualche sacrificio, ma che potrebbe garantire a Washington una nuova leadership mondiale. La nuova strategia per la sicurezza della Casa Bianca non fa più riferimento alla dizione «guerra al terrorismo» e indica in al Qaida il principale avver-

consulenti di Barack Obama, nei mesi scorsi, si erano già messi all’opera per sbianchettare da ogni documento presidenziale, da ogni discorso e intervento inerente la Nss, ogni riferimento a questioni religiose. Molti documenti sono stati riscritti in maniera da non presentare la comunità musulmana attraverso la lente del terro-

Nel nuovo documento strategico si parla di nuove partnership di Washington con Cina, India, Brasile, Sudafrica e Indonesia per disegnare un nuovo modello di gestione delle crisi planetarie

era solo un’anticipazione dei contenuti resi noti ieri. A cominciare dalla promessa di smantellare l’arsenale nucleare e di limitarne il concetto operativo d’utilizzo.

sario degli Usa, secondo quanto si legge nel documento che Barack Obama ha presentato ieri. Già nella National security startegy si potevano leggere alcuni cambiamenti sostanziali. I

Il cambiamento d’approccio è radicale ed è partito dal discorso fatto da Obama all’università del Cairo in Egitto, dove il presidente Usa aveva promesso «un nuovo inizio». Allo-

rismo. Un cambiamento che a Tel Aviv qualche preoccupazione deve aver sollevato, ma che nulla toglie alla storica alleanza tra Usa e Israele. Ma questa specie di riscrittura della Nss

ra fu messa in piedi una squadra di quattro esperti che hanno elaborato una nuova strategia. Si chiama Global engagement directorate. Si tratta di parlare al mondo musulmano di quello che si può fare insieme, dall’economia alla guerra alla poliomielite. Servirebbe ingaggiare i Paesi musulmani su argomenti come l’economia, l’educazione e la sanità. La cosa più incredibile di questa ini-

Si evolvono gli scenari mondiali e i teatri di guerra. Devono evolvere di conseguenza anche alleanze e strategie militari

Ma il Pentagono balla da solo ossiamo affermare che gli Usa divengono molto più realisti e abbandonano molte delle illusioni del loro più recente passato, ma che tutto ciò, pur andando in genere in una direzione auspicata dagli alleati, potrebbe risolversi in maggiori problemi, in primo luogo per gli alleati stessi. Non è che ogni nuovo presidente cambi la politica estera e di difesa degli Stati Uniti, né tanto meno il quadro delle alleanze internazionali. Abbiamo al contrario l’esperienza di un alto tasso di continuità, anche se a volte mascherato da qualche mutamento di linguaggio o di accento: e Barack Obama non fa veramente eccezione.Tuttavia, al di là dell’ideologia e dei pronunciamenti politici, il fatto è che la situazione internazionale sta rapidamente evolvendo e che gli Stati Uniti e i loro alleati debbono far fronte a problematiche militari e di sicurezza diverse da quelle del passato. Ciò richiede importanti adeguamenti sia in campo dottrinale, sia per quel che riguarda la pianificazione operativa e finanziaria, sia infine la gestione delle coalizioni e delle alleanze. Gli Stati Uniti si confrontano con la moltiplicazione degli scenari di crisi che mettono a dura prova le loro pur ampie risorse. Dalla fine della Guerra Fredda, lo scenario di riferimento usato dal Pentagono per pianificare le Forze al suo comando puntava a disporre di capacità sufficienti a condurre contemporaneamente due importanti guerre “regionali” (così definite per distinguerle dalla passate guerre mondiali). Oggi invece il Pentagono si è esercitato su tre diversi scenari, ognuno volto a esaltare l’importanza di disporre di diverse capacità. Il primo scenario prevede che gli Usa siano contempora-

P

di Stefano Silvestri neamente impegnati in una grande operazione di gestione di crisi e stabilizzazione, in un aperto conflitto con un importante attore regionale, tecnologicamente avanzato, e in operazioni di concorso alle autorità civili per rispondere ad una catastrofe umanitaria o ambientale sul territorio nazionale. Ciò dovrebbe dimostrare la capacità delle Forze armate di condurre una guerra regionale pur mantenendo importanti capacità sia all’estero che in ca-

È impossibile per gli Usa rispondere efficacemente alla molteplicità di scenari che ha davanti senza l’aiuto fondamentale degli alleati con cui collaborano militarmente sa propria. Il secondo scenario, più simile a quello tradizionale, prevede di affrontare allo stesso tempo due avversari regionali, mentre il restante delle Forze viene mantenuto al più alto livello di allarme, sia in patria che all’estero. È lo scenario volto a testare la capacità delle Forze di condurre importanti operazioni militari congiunte.Il terzo scenario prevede infine una grande operazione di gestione di crisi e stabilizzazione, una grande operazione dissuasiva e di contenimento in un teatro operativo separato dal precedente, un conflitto di media importanza caratterizzato da operazioni contro-guerriglia e attività di supporto alle autorità civili in patria. Es-

so mira in particolare ad evidenziare le necessità delle forze speciali e di contro guerriglia nonché le procedure e le capacità di stabilizzazione, state-building, contenimento e dissuasione. Se tutto questo gli Usa pensano di farlo da soli, ciò non toglie che siano anche perfettamente consapevoli dell’impossibilità di rispondere efficacemente a una tale molteplicità di scenari senza l’aiuto fondamentale degli alleati e dei paesi con cui collaborano militarmente, per due ragioni in particolare: il contributo di capacità militari e competenze aggiuntive da un lato e la disponibilità alla concessione di basi avanzate per la condotta delle operazioni e le missioni di dissuasione e contenimento dall’altro.

Sul piano più strettamente militare tuttavia ciò implica un’accresciuta cooperazione internazionale per garantire la piena interoperabilità delle Forze, sia in termini dottrinali ed operativi, sia grazie a maggiori capacità linguistiche e di comunicazione dei dati (ad esempio la condivisione dell’intelligence, non solo al livello tattico), sia grazie a maggiori trasferimenti tecnologici. In altri termini, il successo nei nuovi conflitti richiederebbe idealmente che la modernizzazione e l’adeguamento delle Forze alleate accompagni quello delle Forze americane e vada nella stessa direzione. Ciò tuttavia da un lato accresce le pressioni sui bilanci della difesa dei paesi alleati e d’altro lato tende a predeterminare ed indirizzare le loro scelte dottrinarie e tecnologiche, secondo le linee scelte dall’amministrazione e dall’industria americane. Si pone qui un problema di concertazione e negoziale, all’interno in par-


mondo

28 maggio 2010 • pagina 9

Da oggi in edicola il bimestrale Risk

Leggere la Difesa Usa

risk

alle guerre in Afghanistan e Iraq alle nuove sfide di difesa Tre presidenti ma una sola “vision” ambientale. La Quadrennial Defense Review, il IL PENTAGONO documento che definisce la VA ALLA GUERRA politica di difesa americana, Parola d’ordine, è tutto questo. Ma definisce niente tagli! anche le scelte strategiche, Gli alleati e il loro scontento organizzative e gli investiL’industria militare mette le ali menti del Paese che più spende per la propria sicurezza e che più influenza le scelte strategiche dell’Europa e dell’Italia. Chi si aspettava che Obama avrebbe tagliato la spesa militare per contenere il deficit federale non ha valutato che gli Usa sono in guerra. Quindi non solo niente tagli, ma un aumento della spesa che continua a crescere di un bel 2 per cento al netto dell’inflazione e senza il minimo ridimensionamento del bilancio. Basti pensare che lo stanziamento per il 2011 ammonta a 708 miliardi di dollari (160 dei quali destinati ad Afghanistan e Iraq). Tutto questo sul numero di Risk da oggi in edicola, di cui pubblichiamo ampi stralci del testo di Stefano Silvestri.

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2010 marzo-aprile

numero 56 anno XI euro 10,00

quaderni di geostrategia

registrazione Tribunale di Roma n.283 del 23 giugno 2000 sped. in abb. post. 70% Roma

Nata nel 1997 con Clinton, la Qdr non è cambiata né con Bush né con Obama MARIO ARPINO

La Quadrennial Defense Review e la nuova politica di difesa Usa ANDREA NATIVI

La Casa Bianca ragiona sempre più da sola. Un grave errore STEFANO SILVESTRI

Spazio e cyberspazio al centro del grande business, senza dimenticare la deterrenza MICHELE NONES ALESSANDRO MARRONE

L’Eurozona a rischio Bretton Woods John Makin

I piemontesi che uccisero il generale Moore Virgilio Ilari

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ziativa è che ha preso spunto dall’azione di un altro inquilino della Casa Bianca: Ronald Reagan. Nel suo viaggio in Cina, nel 1984, il vecchio presidente repubblicano aveva parlato all’università di Fudan a Shangai.Ora Obama annuncerà nuove regole per un più forte controllo sulle trivellazioni petrolifere offshore e una moratoria di sei mesi sui permessi di trivellazione in acque profon-

de, ha detto un consigliere della Casa Bianca. La nuova strategia della sicurezza della Casa Bianca indica in al Qaida il principale avversario.

Gli Usa – si afferma inoltre – devono espandere le proprie alleanze alla Cina, l’India, il Brasile, il Sudafrica e l’Indonesia. Le famose «nuove alleanze» spesso citate da Obama che rappresentano sia una neces-

ticolare della Nato, che la Quadrennial Defense Review Usa non prende neanche in considerazione, ma che invece sembra erroneo sottovalutare - perché è tutto da dimostrare l’assunto implicito nella Qdr che le scelte statunitensi siano necessariamente le migliori, anche quando, per la loro importanza e peso finiscano per diventare le uniche possibili. Nello stesso tempo è chiaro dal contesto della Qdr come gli Usa si siano ormai rassegnati all’inevitabilità di condurre quelle operazioni di lungo periodo di stabilizzazione, anti-terrorismo, gestione di crisi e state-building, che per troppi anni gli Alti Comandi americani ritenevano essere del tutto improprie e per le quali le loro Forze erano significativamente impreparate. Anche qui è evidentemente essenziale la dimensione della cooperazione internazionale e della integrazione delle operazioni militari con le attività di altri soggetti, quali ad esempio le Nazioni Unite. Semmai, in questo campo, un lettore europeo è portato ad esprimere qualche dubbio sulla prospettiva che l’insieme di tali attività debba necessariamente avere una conduzione militare e non piuttosto civile, e quindi sulla catena di comando e controllo delle operazioni stesse. La tendenza americana ad operare autonomamente dagli alleati e dalle organizzazioni internazionali di cui fanno parte pone grossi problemi politici e di coordinamento. Ciò peraltro si accompagna alla constatazione della opportunità di costruire nuove architetture multilaterali di sicurezza regionale, a partire ad esempio da reti di sistemi difensivi contro i missili balistici, ma includendo anche l’estensione di garanzie dissuasive e difensive e l’approntamento di maggiori capacità per condurre operazioni di contrasto, distruzione e se necessario di contenimento dei danni collegati alle armi di distruzione di massa e alla loro proliferazione. Inevitabilmente, una tale politica porterà ad estendere notevol-

sità che un’opportunità. Una necessità, primo per evitare che l’eccessivo allungamento e allargamento del sistema militare ed economico Usa porti al collasso di quel modello; secondo per facilitare la mission americana nel mondo che vorrebbe essere più medico che poliziotto e a cui servono più mediatori culturali che flanker armati, anche se saranno utili anche i partner militari. Una

opportunità, perché potrebbe essere ancora Washington, pur ferita e ridimensionata, a plasmare un nuovo modello di gestione planetaria, di cui potrebbe diventare il project leader. Ma il passaggio più significativo del nuovo documento è quello relativo al terrorismo: Obama rimuove la formula «guerra al terrorismo», coniata dolo l’11 settembre, e indica nella sola Al Qaeda il principa-

mente il numero e l’importanza degli impegni americani nei confronti dei paesi alleati ed amici, accrescendo anche le probabilità di impiego delle Forze e la rigidità del loro dispiegamento.

Vi è qui una possibile contraddizione con la ricerca di una maggiore flessibilità e libertà di impiego e con il dimensionamento delle Forze disponibili che può essere corretta solo da una maggiore cooperazione e integrazione delle Forze alleate, a condizione però che ciò sia reso politicamente, strategicamente e tecnologicamente possibile. Un aspetto particolare di questo problema traspare anche da altri documenti e dichiarazioni dell’amministrazione americana. Così ad esempio, nella sua Npr (la Nuclear Posture Review, appena completata dal presidente Obama), oltre a ribadire l’obiettivo del disarmo nucleare generale e completo, ribattezzato con linguaggio più evocativo “opzione zero”, si modifica la dottrina nucleare inserendo una sorta di principio di no-first-use (rinun-

le avversario degli Usa. Nel documento Obama evita persino di accostare la connotazione «islamica» all’estremismo, indicandolo più genericamente come «violento». «Gli sforzi per contrastare l’estremismo violento – si legge nel testo, secondo il New York Times – sono alcuni degli elementi della nostra strategia, e non possono definire l’approccio americano con il resto del mondo».

cia all’uso per primi dell’arma nucleare contro gli avversari),“alleggerito”e corretto dalla affermazione che tale principio non vale nei confronti di stati che non siano parte del Tnp o che siano in violazione di esso. La cosa non è stata molto commentata, ma potrebbe in realtà nascondere alcuni problemi destinati ad accrescere le divisioni tra alleati e a complicare il lavoro in corso nella Nato per definire il nuovo Concetto Strategico. Si afferma in particolare che tale rinuncia corrisponde alla nuova realtà di una diminuita minaccia convenzionale, in particolare in Europa, cosicché, ad esempio, non è più necessario ipotizzare l’uso di armi nucleari contro un attacco condotto da un avversario in posizione di schiacciante superiorità convenzionale. Ma se questo può essere vero per quel che riguarda ad esempio la Germania o l’Italia, ormai lontane dalla vecchia linea del fronte, non può essere invece applicato ad altri paesi membri della Nato, come le Repubbliche Baltiche, che infatti hanno guardato con notevole trepidazione all’intervento militare russo in Georgia e all’assenza di una risposta militare occidentale, ovvero ad un alleato fortemente esposto a crisi e minacce convenzionali, non convenzionali o asimmetriche come la Turchia. Che lo esprimano pubblicamente o meno, è certo che tali paesi vedano in simili dichiarazioni un appannamento delle garanzie difensive e dissuasive americane nei loro confronti e temono l’emergere di nuove vulnerabilità non pienamente compensate dalla loro partecipazione all’Alleanza Atlantica. Si delinea insomma una sorta di mixed blessing. Da un lato gli alleati vedono riconosciuta la crescente importanza del loro contributo, d’altro lato è evidente anche l’aumento della domanda contributiva americana, mentre sembra cambiare, non sempre a loro favore, l’antico e consolidato equilibrio tra reciproche responsabilità e rischi.


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panorama

ragioni&torti di Giancristiano Desiderio

La scuola del Sud non merita il 6 politico risultati degli esami di maturità dello scorso anno evidenziarono una sorta di questione meridionale di tipo scolastico. Mentre le scuole del Nord furono piuttosto avare e fecero registrare un numero non alto di diplomati con il massimo dei voti (100), le scuole del Sud furono generose e la percentuale degli studenti licenziati con il massimo dei voti fu consistente. Ne nacque un dualismo dell’istruzione su base geografica che diede luogo anche ad un’aspra polemica il cui senso era il seguente: o gli studenti del Nord sono meno bravi e capaci o gli insegnanti del Sud sono di manica larga. In realtà, tutti sanno molto bene come stanno le cose: sulla scuola meridionale grava il peso della pressione della società e delle famiglie che chiedono facilitazioni e comprensione e le scuole non riuscendo a fare argine a questa forte ancorché ingiusta richiesta sacrificano il rigore o il ragionevole equilibrio con delle “aggiustatine”. Solo qualche settimana fa Giuseppe Galasso chiedeva dalle pagine del Corriere del Mezzogiorno una scuola meridionale critica con se stessa. Giocando un po’, ma non troppo, con le parole si potrebbe dire che serve una nuova scuola meridionalistica.

I

Così Anas e Ferrovie hanno isolato il Sud Bloccati da mesi i collegamenti veloci con Puglia e Calabria di Ruggiero Capone

NAPOLI. La politica è spesso fatta di sorpassi, e Ci sono delle novità. Quest’anno il divario scolastico tra Nord e Sud potrebbe accorciarsi o spostarsi. Tutto dipende da quale sarà l’effetto del cambiamento della regola madre del gioco per l’ammissione agli esami di Stato. Infatti, mentre lo scorso anno gli alunni, per essere ammessi a sostenere gli esami, dovevano raggiungere con i voti la media del 6, quest’anno per essere ammessi c’è bisogno di avere necessariamente il 6 pieno in ogni singola disciplina. È una novità di non poco conto che nella sostanza introduce un maggior rigore eliminando quello che si potrebbe chiamare la logica del 6 politico. Il risultato della novità dipende in gran parte dai professori i quali hanno la possibilità di applicare con rigore e ragione il nuovo criterio di ammissione oppure, limitandosi a far passare tutto in cavalleria, alzando semplicemente i voti, possono vanificare il nuovo indirizzo di studi. Che cosa accadrà? Ci sarà anche quest’anno il divario così evidente nella valutazione degli studenti tra la scuola del Nord e la scuola del Sud? Siamo pronti a scommettere che la percentuale di ammessi agli esami di Stato sarà superiore nella scuola meridionale. Ma è meglio attendere i risultati. Una considerazione di fondo può essere però legittimamente fatta.

Se il divario scolastico dovesse uscire non ridotto ma addirittura rafforzato ci troveremmo di fatto davanti a una scuola federalista e a un sistema scolastico nazionale che è difeso in astratto come un valore irrinunciabile ma è negato nella concretezza della vita scolastica. Se la questione meridionale scolastica, neutralizzando la scelta del rigore, confermasse la sua natura familistica sarebbe davvero difficile criticare la rivendicazione autonomistica di Roberto Formigoni dicendo che ci sarebbe il rischio di dividere o disarticolare la scuola italiana.

oggi la Lega ignora che i gestori di Trenitalia ed Anas hanno spaccato per davvero l’Italia, isolando il Mezzogiorno. Moretti e Ciucci (rispettivamente vertici di Ferrovie ed Anas) si guardano bene dallo sbandierare i rispettivi successi politici. Il Sud ora è davvero isolato, e guai a dirlo troppo forte, gli uffici legali di Trenitalia ed Anas minacciano querele e denunce per «procurato allarme». Peccato che non possano impedire la convocazione di «un incontro straordinario e urgente», chiesto ai sottosegretari Gianni Letta e Guido Bertolaso dal presidente dell’Unione delle province pugliesi, Francesco Schittulli. Quest’ultimo chiede da mesi che s’individui la soluzione all’interruzione della linea ferroviaria Lecce-Bari-Roma, causata dalla frana di Montaguto (territorio campano). Schittulli (presidente della provincia di Bari), a nome di tutti sottolinea che, dopo la frana, il territorio pugliese è rimasto isolato, e i telegiornali sembrano non essersi accorti di nulla.

sponsabilità sulla frana: RFI (la società che gestisce la Rete ferroviaria) punta il dito contro gli enti locali, le comunità montane contro i consorzi di bonifica, questi ultimi chiedono conto alle regioni (Puglia e Campania). La colpa è del cielo: fortunatamente nessuno s’è fatto male (grazie al Santo).

Anche la Calabria, comunque, è isolata, e sull’Anas e sui suoi manager s’appuntano le attenzioni di opposizioni e giornali: Gianfrancesco Turano de L’Espresso rammenta decenni d’inadempienze Anas sul tratto autostradale Salerno-Reggio. Anas ribatte a Turano e accusa il giornalista di «non aver attinto alle informazioni Anas». Queste ultime (veline degli 007 Anas) vantano i cantieri (ancora altri 10) e i fiumi di soldi (altri 1,5 miliardi di Euro) spesi per la Salerno-Reggio del futuro. Anas fissa l’ennesima data di consegna (parziale) dell’opera, il 2013. La consegna totale suonerebbe forse come una pietra tombale sul disservizio? Le cronache ci dicono che, negli ultimi anni, quel tratto autostradale è stato più volte sequestrato dalla magistratura per «evidente cattiva manutenzione» e, a monte, per essere stato realizzato in maniera «non conforme alla prevenzione d’infiltrazione idrica». Eppure in Calabria sarebbero state impiegate per le strade, in quasi 20 anni, le stesse risorse spese da quattro regioni del centro-nord. La Salerno-Reggio è un progetto vecchio di circa 40 anni. L’ultimo blocco è per «distaccamento d’una parete subverticale posta ad oltre 300 metri di distanza dalla sede autostradale». Motivo del disastro? I tecnici Anas non avevano notato che sulla Salerno-Reggio insistevano «lavori privati non autorizzati e non attinenti la ricostruzione della A3».

Una frana interrompe la linea che collega Napoli e Bari, mentre continuano i disagi sull’autostrada Salerno-Reggio

Il movimento franoso è fra le stazioni di Savignano-Greci e Montaguto-Panni. Ricorda non poco la celebre pellicola di Totò Destinazione Piovarolo: Totò era capostazione a Piovarolo, la carriera dell’uomo del Sud è bloccata ed altrettanto la circolazione dei treni a causa della frana. La pellicola sembrerebbe vivere di stridente attualità nelle attuali cronache ferroviarie. Dal Sub-appennino Dauno ci viene riferito che abbiano ripreso a circolare persino i vecchi torpedoni OM e Lancia. Per i viaggiatori avanti negli anni è stato un piacevole ritorno. I più giovani si sono chiesti come potessero i loro padri farsi tutti quei chilometri su poltrone lignee, senza aria condizionata e con un costante olezzo di gasolio. In molti denunciano d’aver passato l’albeggio all’adiaccio, nella fredda Benevento. Dalle Ferrovie ammettono, a labbra strette, che «saranno necessari ancora due mesi per ripristinare la linea ferroviaria interrotta da una frana dal 10 marzo scorso». Qualche malalingua rammenta che la manutenzione sui tratti ferroviari Milano-Bologna e Roma-Firenze è quotidiana, mentre sul tratto Caserta-Foggia le autorità avrebbero confidato sulla protezione di San Padre Pio... Così ha inizio il rimpallo di re-

Così un manipolo di operai “antagonisti” (non Anas) ha favorito il «rotolamento d’una parte di montagna lungo il pendio». Alla Prefettura di Reggio Calabria hanno spianificato gli interventi «di messa in sicurezza del tratto autostradale»: non è dato sapere come questa precarietà stradale possa conciliarsi con il progetto “efficentista” rilanciato dalla manovra di questi giorni, che prevede «rapido scorrimento sulla Salerno-Reggio» e, soprattutto, il pagamento del pedaggio autostradale.


panorama

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Sta per iniziare una nuova stagione di sfide, in vista del voto in alcune grandi città amministrate dalla vecchia Unione

Pd, gli esami non finiscono mai Bersani e Letta sperano di “bloccare” il partito prima delle elezioni di primavera di Antonio Funiciello

ROMA. La tregua dentro il Pd si spiega, anzitutto, in termini di rapporti di forza e di scarsa competitività del partito in vista delle prossime elezioni politiche, quando ci saranno. Il Pd è inchiodato nei sondaggi al 26-27%. Anche chi, come Bersani e Letta, insiste per rimettere convintamene in piedi una alleanza tipo-Unione, sa bene che, con un Pd al 27%, il centrosinistra non ha alcuna possibilità di competere per il governo. Nel 2006, quando l’Unione di Prodi vinse (o quasi) le elezioni, la lista unitaria di Ds e Margherita ottenne il 31%. Non solo. A sinistra del Pd, le forze radicali erano sopra il 15%. Bersani e Letta non possono, quindi, limitarsi a rianimare la galassia radicale alla loro sinistra, ma devono imprescindibilmente riportare il Pd stabilmente sopra la soglia del 30%. Le elezioni regionali di due mesi fa hanno detto loro tutt’altro: il Pd galleggia e, alla sua sinistra, si è ben lungi dal far riemergere l’arcipelago delle forze radicali. In più, hanno indicato che quel percorso di avvicinamento tra Pd e Udc, strategico per la nuova segreteria, si è bruscamente interrotto.

previsto per la primavera del 2011. Milioni di italiani saranno chiamati alle urne per scegliere i sindaci di sei capoluoghi di regione (Torino, Milano, Bologna, Cagliari, Napoli, Catanzaro), di una ventina di capoluoghi di provincia, di molte città sopra ai 15mila abitanti e di una miriade di piccoli comuni. Se si aggiunge pure una manciata di elezioni provinciali e che il voto è distribuito in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale, si può ben capire che si tratta di un test fondamentale per un Pd che intenda verificare, a quel punto

dopo un anno e mezzo di segreteria Bersani, se l’agognato cambio di passo ci sia stato o meno. In più, nel prossimo voto primaverile, il Pd parte in vantaggio. Quattro dei sei capoluoghi di regione - Torino, Bologna, Napoli e Catanzaro - sono governati dal centrosinistra, mentre Milano e Cagliari dal centrodestra. Stando ai risultati delle regionali in queste città, il centrosinistra conserva un scarto in suo favore a Torino (16%, al netto eventualmente da riproporre dell’alleanza con l’Udc) e a Bologna (23%); mentre a Napoli è sotto di 3 punti, a Milano di 8 e a Catanzaro, dove la volta scorsa aveva vinto per una manciata di voti, per la stessa misura è andato sotto alle regionali. Considerando così il recente voto amministrativo e il vantaggio che il Pdl alleato con l’Udc conserva a Cagliari, il 4 a 2 per il centrosinistra diventa, a bocce ferme, 4 a 2 per il centrodestra.

In gioco ci sono gli equilibri interni alla sinistra, tra dipietristi e antagonisti senza rappresentanza

I capoluoghi di provincia al voto sono, invece, 18: centrosinistra in vantaggio 15 a 3. In Romagna (Ravenna e Rimini) e in Toscana (Arezzo, Grosseto e Siena), il Pd non farà fatica a riconfermare i suoi sindaci. Altra storia lontano dall’Appennino. Stando infatti ai risultati regionali, al Nord, dove il centrodestra conserverà Novara e Varese, il centrosinistra perderà quasi certamente

L’aggravante è dietro l’angolo: malgrado quanto si va dicendo, non è affatto vero che finalmente l’Italia è attesa da un lungo periodo senza voti. Subito dopo l’estate si aprirà una nuova stagione elettorale per il rinnovo di svariate amministrazioni comunali,

Rovigo (vinta per un soffio nel 2006), tenendo la sola Savona. Al Sud, eccezion fatta per Salerno, molto è in bilico, col centrodestra in netto vantaggio in città importanti a guida Pd come Caserta e Cosenza e in capoluoghi di provincia “minori” come Crotone e Carbonia. Incerte le altre città. Insomma, il voto della prossima primavera rappresenta così uno snodo essenziale per la tregua siglata nel Pd e incassata dal segretario Bersani. Se il partito riuscisse a tenere le amministrazioni comunali a rischio e magari a piazzare qualche colpo, come la vittoria a Milano, la linea di Bersani e Letta ne sarebbe rafforzata, all’interno del partito e in rapporto allo scomodo alleato dipietrista.

Considerate le difficoltà della rianimazione artificiale di Ferrero, Diliberto e compagni, e le complicazioni nel dialogo con Casini, Bersani e Letta dovrebbero puntare non solo a raggiungere, ma anche a superare la vetta del 33% dei consensi conquistata nel 2008. Fatto sta che i testi d’indirizzo politico approvati dall’ultima Assemblea nazionale su temi come lavoro, green economy, scuola e università, rispondono più a una logica di rassicurazione dello zoccolo duro degli elettori democratici, che a un tentativo di ampliamento dell’offerta politica. L’incongruenza tra obiettivi obbligati e strumenti inadeguati a perseguirli è, così, sotto gli occhi di tutti.

Rivelazioni. Dopo ventisette anni parla ancora l’ex mafioso che lo accusò ingiustamente

L’ultima (inutile) verità su Tortora di Angela Rossi

ROMA. Ventisei anni per chiedere scusa e rivelare la verità. Ventisei anni per riabilitare definitivamente Enzo Tortora dopo averlo accusato di spacciare cocaina e fatto arrestare. Gianni Melluso, il grande accusatore del presentatore, in un’intervista pubblicata su L’Espresso oggi in edicola e della quale sono stati anticipati alcuni stralci, chiede scusa alla famiglia Tortora per tutte le calunnie e le invenzioni che decise di raccontare ai magistrati napoletani.

Era il giugno del 1983 quando i due boss della camorra, Barra e Pandico, fanno il nome di Tortora e lo fanno accusare di associazione camorristica finalizzata allo spaccio di droga; accusa che porta Tortora in carcere, sotto l’occhio delle telecamere che lo mostrano più volte con le manette ai polsi e con un risalto che non fu lo stesso quando venne scarcerato. Nel febbraio dell’anno successivo entra in scena Melluso che afferma, davanti ai magistrati, di aver fornito a Tortora cocaina da spacciare nel mondo dello spettacolo. Alla fine e dopo tante battaglie Tortora riuscì a

dimostrare la sua innocenza ma il carcere, la vergogna e l’ingiustizia patite gli costarono la vita. Si ammalò di tumore, infatti, e mori poco dopo. All´epoca anche Leonardo Sciascia, in una serie di articoli sul Corriere della Sera e su L’Espresso, prese le difese del presenta-

mia. È difficile che accettino di perdonarmi, lo so, ma sento il dovere di contribuire con la massima onestà a questa storia.Voglio dichiarare una volta per tutte che il presentatore era innocente. Che non c’entrava con la camorra, la droga o qualsiasi forma di malavita organizzata.Tortora è stato una vittima, e come tale va onorato. Lo ribadisco ora che sono uscito dal carcere e riassaporo la libertà: vorrei fosse vivo per inginocchiarmi davanti a lui. Una persona perbene, finita nel tritacarne delle menzogna». Oggi Melluso afferma di non voler essere ricordato come colui che accusò falsamente il presentatore e dichiara di volersi liberare dal peso del rimorso che lo avrebbe accompagnato per tutti questi anni. «Sento il bisogno di liberarmi la coscienza», spiega. Dopo ventisei anni e la morte di un innocente di giustizia non si può parlare, ma almeno viene scritta la verità definitiva su una pagina vergognosa di cronaca giudiziaria italiana.

«Mi inginocchierei davanti a lui e chiedo scusa a tutti. Soprattutto alle figlie», dice il presunto pentito Gianni Melluso appena uscito di galera tore accusato ingiustamente. Tutto inutile. Quando l´iter giudiziario giunse alla fine era troppo tardi.

Oggi Gianni Melluso rivela che sul conto di Tortora furono dette solo calunnie inventate ad arte. E sul numero del settimanale in edicola si rivolge alle figlie. «Chiedo scusa, profondamente scusa, ai familiari di Enzo Tortora. Mi rivolgo soprattutto alle figlie Gaia e Silvia, che hanno patito l’inferno per colpa


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essun altro autore statunitense ha saputo più e meglio di Clint Eastwood rievocare nella sua trentina di regie oltre un secolo e mezzo di storia americana, dall’epos della frontiera di Lo straniero senza nome (1973) alla guerra di secessione di Il texano dagli occhi di ghiaccio (1976), dalla seconda guerra mondiale di Flags of Our Fathers e Lettere da Iwo Jima, entrambi del 2006, dall’assassinio di Kennedy citato in Un mondo perfetto (1993) all’era Reagan celebrata, con la sua nostalgia per la guerra fredda e la corsa agli armamenti sempre più tecnologicamente sofisticati, in Firefox-Volpe di fuoco (1982). Senza contare i ritratti dall’interno del cantante country di Honkytonk Man (1982) e del musicista jazz di Bird (1988), altrettanti viaggi dentro l’America profonda, le voci, i suoni, i ritmi di una straziante cognizione del dolore.

N

Quando oggi lo si considera da più parti un’istituzione, l’ultimo dei classici, o addirittura l’icona americana per eccellenza – in grado di fare un film dietro l’altro, con un progetto in cantiere mentre è appena uscito il titolo precedente – si trascura il lungo apprendistato di attore televisivo e cinematografico che precede la sua affermazione divistica, ma anche il percorso tutt’altro che scontato e lineare della sua carriera di regista. Sbarcato a Roma nell’aprile 1964 con una valigia piena di pistole, cinturoni, stivali, jeans spiegazzati, scatole di cigarillos, si scontra subito con Sergio Leone sui dialoghi del film che gli sembrano ridondanti e riesce a farli ridurre all’osso. Sul set di Almerìa - una piccola Babele con copioni in italiano, inglese, tedesco, e spagnolo, ma pochissime persone in grado di parlare decentemente inglese - il professionismo maniacale e l’eccitazione infantile del regista conquistano l’attore che lo trova irresistibile quando, con occhialini e cappello da cowboy, cerca di impersonarlo per spiegargli una scena. La troupe adotta lo spilungone con l’andatura da gatto che, rannicchiato dentro una cinquecento, riesce a dormire tra un ciak e l’altro, svegliandosi solo per ammazzare due o tre banditi con l’energia e la velocità necessarie. Il clamoroso successo europeo di Per un pugno di dollari (1964) – e subito dopo di Per qualche dollaro in più (1965) e Il buono, il brutto, il cattivo (1966) gli altri capitoli della leoniana “trilogia del dollaro” – con cui si avvia la lunga, ridondante fioritura del western autarchico rappresenta la svolta fondamentale nella carriera di Clint che a ventisei anni scalpita nei panni di Rowdy Yates, il deuteragonista di Rowhide, la serie televisiva a cui deve l’inizio della sua notorietà. Nel cinema, da quando è nella scuderia di giovani promesse della Universal, non è andato oltre le fugaci apparizioni di poche battute. Senza smettere mai di aggirarsi negli studios e di interessarsi all’intero processo produttivo, cercando di rubare i segreti delle star di passaggio e soprattutto ai cameramen e ai montatori, che incarnano la lezione del grande artigianato hollywoodiano in cui si riconosce. Si ritrovano qui, in questo importante momento della sua formazione, anche le regole non scritte del futuro cineasta, dal coinvolgimento senza risparmio in ogni progetto all’ossessione del controllo che sul set non esclude l’attenzione al lavoro degli attori, senza trascurare la tenace passione per il jazz a cui s’ispira il gusto per le variazioni musicali che attraversa, ora più esplicito ora più sottotraccia, il suo stile registico.

È stato un attore solitario e controverso. Ma come regista, nessuno negli Stati Uniti ha saputo rievocare meglio di lui un secolo e mezzo di storia americana

L’eretico che conquistò il mondo Clint Eastwood sta per compiere ottant’anni. E dopo un lungo periodo di ostracismo, finalmente Hollywood ha riconosciuto la sua grandezza di Orio Caldiron

L’incontro con Don Siegel per L’uomo dalla cravatta di cuoio (1969) gli consente di voltar pagina e di traghettare il personaggio dello straniero senza nome dello spaghetti-western nello scenario inquietante del thriller metropolitano, nel momento in cui conquista il box-office diventando uno degli attori americani più redditizi a fianco di John Wayne e Paul Newman. Il sodalizio – dopo il flop di La notte brava del soldato Jonathan (1971), un“gotico”spiazzante e beffardo che molti considerano oggi un capolavoro – prosegue con il cla-

moroso successo planetario di Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! (1971), destinato a diventare in un polverone di polemiche il film più popolare e controverso dell’attore, che deve moltissimo al fatto di essere stato citato da John Fitzgerald Kennedy in un suo discorso pubblico, subito rimbalzato nelle agenzie giornalistiche di tutto il mondo. Stroncato dai critici del New York Times e del Village Voice che lo accusano di paranoia filonixoniana se non addirittura di fascismo, il film inaugura la serie di “Dirty Harry”,


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da Una 44 Magnum per l’Ispettore Callaghan (1973) a Cielo di piombo ispettore Callaghan (1976) fino a Coraggio... fatti ammazzare (1983), che appare oggi nella sua esasperazione del politicamente scorretto un documento quasi archeologico dell’immaginario di un’epoca. La scomunica ideologica peserà a lungo sui suoi personaggi ma anche sull’attore-autore, più che mai deciso a proseguire comunque per la propria strada senza badare troppo agli umori del pubblico e a quelli della critica.

Solo qualche anno prima aveva fondato una piccola casa di produzione, la Malpaso, che sempre più avrà voce in capitolo nella sua carriera, soprattutto quando sin dall’inizio degli anni settanta si misura con la regia, definendo progressivamente la sua statura professionale e la sua personalità d’autore. Nel frattempo l’attore “legnoso”e “inespressivo”, sbrigativamente identificato con il personaggio del superpoliziotto dai modi brutali, si rivela interprete di rara sottigliezza che si affida alla più rigorosa economia di gesti, sguardi, silenzi, ma anche regista di singolare efficacia che predilige le inquadrature essenziali, il montaggio serrato, la secchezza del racconto. Il successo commerciale dei suoi film più riusciti e l’oculato intervento della sua casa di produzione, che è venuta crescendo prima all’ombra della Universal

rapporto con la tradizione del cinema americano – a cui Clint Eastwood si rifà come attore e come regista prima della consacrazione degli anni novanta che gli assicura l’aureola della classicità – ne fa per parecchio tempo un personaggio che rischia di essere o almeno di apparire fuori moda. Quando l’estroverso istrionismo di Jack Nicholson, Al Pacino, Robert De Niro, domina la scena sembra non esserci posto per uno stile di recitazione che trova il suo modello di riferimento nell’understatement di Gary Cooper e di James Stevart, ormai lontani dalla sensibilità delle nuove generazioni di spettatori. Negli anni dell’affermazione della Nuova Hollywood, che scompagina il sistema dei generi e manda all’aria le strutture narrative, rischia di sembrare anacronistico un regista come Eastwood che riprende l’iconografia e la sintassi dei cineasti classici, dei padri fondatori del racconto cinematografico in cui l’apparente schematismo non nasconde la complessità delle strategie espressive in grado di affrontare le contraddizioni e le zone d’ombra, i nodi irrisolti e i punti di rottura. Si è scomodato spesso John Ford, ma anche Raoul Walsh, Howard Hawks o addirittura David W.Griffith, senza trascurare Anthony Mann, singolare narratore di storie poliziesche e western che per tanti versi gli assomiglia. Ma il rapporto con il classicismo resta più complesso e sfumato di quanto solitamente si creda, collegato alle strategie di una scrittura sempre più consape-

ritmo picaresco di Il texano dagli occhi di ghiaccio l’eroe vendicatore passa attraverso un doloroso processo di iniziazione che lo avvicina all’altra faccia della storia americana, quella dei perdenti, dagli indiani ai sudisti, dai vagabondi ai pionieri. Si spinge ancora più in là con Il cavaliere pallido (1985), dove il predicatore-pistolero si staglia sullo scenario della frontiera in bilico tra mito e dissoluzione, dando vita a un film di esterni immersi nella luce in cui lo scenario naturale tra montagne innevate e folti boschi incarna le passioni tempestose degli uomini.

Soltanto con Gli spietati (1992) – che segna la definitiva accettazione da parte di Hollywood, fino a allora avara di riconoscimenti nei confronti di un autore appartato e indipendente – chiude i conti con il genere in una rilettura cupa e disillusa, segnata da un senso opprimente di morte. Non è tanto una revisione dell’epica del west quanto un viaggio scarnificato nei sentieri selvaggi di un mondo in cui è impossibile ogni ulteriore rielaborazione mitica. Nello scompaginamento irrimediabile della iconografia tradizionale, nessuno corrisponde all’immagine che dovrebbe avere, gli uomini di legge sono sadici, i pistoleri non sono infallibili, le prostitute non hanno il cuore d’oro. Nel segno dell’ambiguità si apre la grande stagione dei capolavori di un cineasta maturo, stilisticamente rigoroso, ossessionato dal ruolo centrale della visione e dei

Da cineasta ha ripreso l’iconografia e la sintassi dei classici, dei padri fondatori del racconto cinematografico in cui l’apparente schematismo non nasconde la complessità delle strategie espressive in grado di affrontare nodi irrisolti e zone d’ombra e poi della Warner, gli consentono di affrontare progetti insoliti e rischiosi anche al di fuori dei territori collaudati del western e del film d’azione, destinati a restare ancora per qualche tempo i suoi scenari d’elezione, in cui più esplicitamente affiora la lezione del cinema classico, sia nella capacità di muoversi con grande disinvoltura e abile accortezza nei segreti degli studios, sia nell’attitudine a andare controcorrente inseguendo ritmi e stili estranei alle tentazioni del modernismo. Si dimentica spesso che il

vole nella sua capacità di riesaminare spregiudicatamente i miti delle origini di un’intera società oltre che della sua leggenda cinematografica.

Nel corso degli anni settanta e ottanta il lavoro sui generi approfondisce il ruolo fantasmatico del cavaliere solitario in bilico tra il mondo dei vivi e il regno dei morti, un’apparizione intermittente che non viene dalle praterie del western storico ma dalla cittadina irreale dipinta di rosso inferno di Lo straniero senza nome. Nel

suoi meccanismi allucinatori. Un mondo perfetto, sconcertante nella sua costruzione a flashback tra la scena iniziale della notte di Halloween e quella finale dell’agonia del fuggiasco, è una ricognizione senza illusioni sul senso di colpa e la perdita dell’innocenza, tra la paternità impossibile dell’evaso nei confronti del bambino in ostaggio e l’apparente indifferenza del ranger incaricato dell’indagine, pieno di dubbi e reticenze. I ponti di Madison County (1995) è un’immersione inconsueta ma trascinante nelle situazio-

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ni canoniche del melodramma, dal colpo di fulmine del primo incontro alla difficoltà del rapporto sentimentale di durare nel tempo, fino alla magistrale cerimonia d’addio della fine in auto sotto la pioggia, appena uno sguardo che racchiude in pochi fotogrammi il fuoco di una passione incapace di sottrarsi alle convenzioni sociali. Potere assoluto (1977) è un affondo vibrante, chirurgico, nell’immagine del potere e insieme nel potere dell’immagine, che porta in primo piano la corruzione e la violenza insite nel cuore stesso della democrazia americana, vista attraverso il voyeurismo del protagonista, un’altra incarnazione dell’eroe eastwoodiano, destinato a trovare ancora una volta il coraggio di andare fino in fondo tra dubbi e perplessità. Fino a prova contraria (1999) conferma la capacità del regista di fare della corsa contro il tempo di un cinico giornalista per salvare un condannato a morte, forse colpevole forse innocente – e cioè di una situazione tipica del cinema noir – l’occasione privilegiata per dimostrare l’importanza decisiva, nella messinscena come nella vita dei particolari apparentemente insignificanti, mentre si dipana la cronaca di un universo pieno di figurine grottesche e di ammiccanti ambiguità.

Mystic River (2003) esalta la fertile creatività del regista alle presa con la tragedia dell’amicizia e della violenza, ancora una volta un dramma famigliare sullo sfondo corale della metropoli, che stringe i protagonisti in un abbraccio mortale. Serrato, livido, sgradevole, è un film che non dà quartiere allo spettatore, costringendolo a rivivere fino in fondo il trauma del male, della sopraffazione vampiresca che attanaglia le vittime insieme ai colpevoli, mentre la città è in festa, tra sventolii di bandiere e incedere di majorette. Si potrebbe continuare con Million Dollar Baby (2004), Changeling (2008) Gran Torino (2009), altrettante impietose rivisitazioni del sogno americano che sostituiscono le certezze di un tempo con un senso di vuoto e di smarrimento incolmabili. Ogni nuovo film dell’ottantenne regista fa discutere, scuote e emoziona come al cinema hollywoodiano capita sempre più di rado. Chi rifiuta il nichilismo e il fatalismo delle sue sconsolate conclusioni deve comunque fare i conti con i personaggi di questo grande narratore, anche quando continuano a dire che non sanno niente, che non c’è niente nel loro cuore. Sbagliano tutto e sanno di farlo, guadagnandosi una qualche paradossale grandezza, mentre l’America amara, amarissima, di Clint Eastwood è un mondo decisamente imperfetto, dove chi guarda è sempre più vulnerabile. Nei suoi occhi al posto della verità si riflette il pozzo profondo della contraddizione, la vertigine dell’ombra.


mondo

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Ambiente. L’annuncio arriva proprio nel giorno in cui Obama licenzia Elizabeth Birnbaum, responsabile delle trivellazioni

«La falla è stata chiusa» Riesce l’operazione ”Top Kill”. Ma è stato il peggior disastro della storia degli Usa di Alessandro D’Amato o sapremo con certezza soltanto nella notte, o stamattina. Ma ci sono speranze che la Marea Nera si sia fermata. Secondo una dichiarazione dell’ammiraglio Thad Allen della Guardia Costiera, gli ingegneri hanno fermato il flusso di petrolio e gas nel Golfo del Messico che ormai da settimane fuorisciva dalla piattaforma della società petrolifera British Petroleum. L’operazione “Top Kill”, iniziata mercoledì pomeriggio in sinergia tra la BP e ingegneri inviati dal governo, ha pompato liquido di perforazione sufficiente a bloccare tutto il gas e il petrolio che sgorgavano dal pozzo, ha dichiarato Allen. La pressione esercitata dal pozzo è molto bassa, ma persiste ancora, aggiunge il comandante federale delle operazioni. “Top Kill”in realtà è stato un tentativo molto rischioso, quasi un azzardo, come commentavano i giornali fino a ieri: molto potrebbe ancora andare male.

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La pressione del liquido iniettato potrebbe danneggiare il foro già esistente ed addirittura aumentare la perdita di greggio peggiorando la situazione. Il liquido viscoso si potrebbe dirigere in una direzione differente da quella sperata, ovunque,e non necessariamente do-

ve gli ingegneri preferiscono. «C’è un buco, ma è un po’ come spingere del dentifricio attraverso un percorso ad ostacoli», ha detto Bruce Bullock, direttore della Energy Institute Maguire alla Southern Methodist University, per spiegare cosa sta succedendo. Solo quando la pressione sarà completamente azzerata, si potrà procedere alla cementificazione del pozzo, e solo allora si potrà dichiarare con certezza che l’incubo della marea nera è finito e che l’operazione “Top Kill” è stata vera-

verrà rilasciata una stima di quanto petrolio in realtà è veramente uscito: la Guardia Costiera ha stimato un flusso di 5.000 barili al giorno, ma alcuni calcoli indipendenti indicano che è stato molto più elevato, forse decine di migliaia di barili al giorno. Undici operai sono rimasti uccisi nell’esplosione iniziale sulla piattaforma Deepwater Horizon cinque settimane fa. Sono state le prime vittime di una catastrofe ambientale che non ricorda precedenti. Da allora nulla è più co-

La Guardia Costiera ha stimato un flusso di 5.000 barili al giorno, ma alcuni calcoli indipendenti indicano che è stato molto più elevato, forse decine di migliaia. Più gli undici operai morti mente un successo, come invece pareva fosse stato affermato fino a poco tempo fa. Secondo l’Ammiraglio, inoltre, la prima nave contenente il liquido ad alta viscosità che ha bloccato la fuoriuscita, si è praticamente svuotata; ma già una seconda è in arrivo per poter continuare a fermare il greggio. Con un po’ di ottimismo - dopo i fallimenti relativi ai precedenti tentativi afferma: «Riusciremo ad avere la situazione sotto controllo», aggiungendo di sentirsi incoraggiato dai risultati. Presto

me prima nel Golfo del Messico, milioni di barili di greggio hanno determinato la morte ecologica di tutta la zona, e le cose della Louisiana hanno patito e patiscono gravissimi danni. Ieri le 125 barche da pesca che partecipano alle operazioni di ripulitura della marea nera al largo della Lousiana (sud degli Usa), sono state richiamate perché alcuni membri degli equipaggi si sono ammalati. Secondo quanto dichiarato da fonti della guardia costiera quattro marinai a bordo di tre imbarca-

zioni «hanno detto di aver avuto problemi di nausea, vertigini, mal di testa e dolori al petto». Il capo della guardia costiera locale, Robinson Fox, ha precisato anche che «nessun altro membro degli equipaggi ha segnalato analoghi sintomi, ma abbiano deciso di richiamare le barche per precauzione».

Questo perché il petrolio greggio come quello su cui stanno lavorando i pescatori che si sono sentiti male nel golfo del Messico è un mix molto pericoloso di sostanze, ed è difficile proteggersi dall’esposizione. Lo afferma Giuseppe Spagnoli, esperto di sicurezza del lavoro ed ex dirigente dell’Ispesl. «Nel greggio ci sono diverse sostanze, tutte pericolose

- spiega Spagnoli - si va dagli idrocarburi più grandi, che sono i responsabili delle irritazioni come quelle riscontrate nei pescatori ma sono anche quelli meno pericolosi a lungo termine, a quelli più piccoli, che a lungo andare possono sfociare in malattie professionali che arrivano anche ai tumori. Inoltre ci sono composti solforati, anch’essi irritanti ma che possono portare a danni respiratori».Tutto questo succede immediatamente a ridosso delle decisioni prese dal presidente Obama che, in una conferenza stampa, delineerà norme e regolamenti più severi nel settore della trivellazione petrolifera offshore e bloccherà le perforazioni esplorative nell’Artico almeno fino al prossimo anno. La

Dopo Katrina, il “peggior disastro ambientale” nella storia degli Stati Uniti. Che ha colpito di nuovo lo Stato meridionale

Obama e la maledizione della Louisiana a marea di petrolio che soffoca le coste della Louisiana, dell’Alabama e della Florida determinando il disastro ecologico più grave della storia degli Stati Uniti è stata fermata. Dopo un mese di tentativi andati a vuoto da parte del gigante petrolifero British Petroleum proprietario della piattaforma petrolifera nella cui esplosione sono morti ad aprile 11 lavoratori si è riusciti finalmente a trovare una soluzione al problema. L’ultima prova per fermare la fuoruscita del greggio, cioè quella di colare uno spesso fango sulla bocca del condotto che riversa quotidianamente nell’oceano 5.000 barili di petrolio per poi riempirlo con una colata di cemento che ne bloccherebbe defini-

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di Anna Camaiti Hostert tivamente il flusso, sembra almeno inizialmente funzionare. Il danno che interessa tutto il golfo del Messico ormai da più di un mese è di proporzioni colossali. La situazione ha attirato feroci criti-

che su proposta di Obama ha bloccato le trivellazioni che si sarebbero dovute compiere nell’Artico da parte della compagnia petrolifera Shell, ha recentemente affermato che «l’amministrazio-

Il Fondo di Difesa ambientalista ritiene “compromesso per sempre” l’ecosistema dello Stato, e con esso le 110 specie di uccelli migratori tropicali che passano a milioni nell’area che all’amministrazione Obama accusata di essersi troppo fidata delle promesse della compagnia petrolifera inglese senza avere un piano alternativo. Il ministro degli Interni Ken Salazar,

ne ha fatto tutto ciò che era possibile fare per spingere la BP a fermare la perdita e contenerne l’impatto. Di fronte alla legge la BP è responsabile per questo disastro e sarà ritenuta perseguibile ci-

vilmente e in qualsiasi modo si ritenga necessario». Uno degli appelli più drammatici per risolvere il problema era venuto dal governatore dello stato della Louisiana Bobby Jindal che aveva chiesto di non attendere più e di avere un piano alternativo in fretta prima che l’economia già debole dello Stato della Lousiana «vada del tutto a rotoli».

Già l’uragano Katrina, distruggendo quasi completamente la città di New Orleans, aveva determinato un forte degrado all’economia di uno Stato già compromesso pesantemente da problemi di occupazione e di miseria. La ricostruzione della città si sta ancora protraendo senza giungere a risultati che


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ereditato da precedenti amministrazioni un sistema rudimentale di regolamentazione e una assoluta mancanza di pianificazione di contingenza per una simile emergenza. E’ anche vero che il governo federale deve fare affidamento sull’industria petrolifera che ha competenza tecnica in questi casi. Allo stesso tempo, la Casa Bianca è stata eccezionalmente lenta nell’usare tutta la sua autorità legale per controllare efficacemente il ritmo e l’intensità di tale domanda tecnologia. Le dure critiche nel governo sono state contraddette dalla Guardia Costiera, che insiste sul fatto che British Petroleum sta facendo tutto il possibile. Forse, ma la Casa Bianca deve dimostrare che si sta attivando per fornire un aiuto attivo ai funzionari dello Stato locali che stanno già lavorando per attenuare le terribili perdite ambientali ed economiche che si stanno accumulando.

mossa di Obama arriva proprio mentre la sua amministrazione affronta pesanti critiche per la gestione della crisi della Marea Nera nel Golfo del Messico. Ma oltre alle conseguenze ambientali ci saranno pesanti ripercussioni economiche; per la Briti-

l’ampliamento delle possibilità di ricerca di petrolio e gas offshore, insieme allo sviluppo delle energie rinnovabili, e che con le ultime novità è stato notevolmente ridimensionato. Una prima reazione da Washington è arrivata: è stata li-

La stampa americana continua ad accusare la Bp: avrebbe risparmiato su materiali impiegati per il rivestimento del pozzo scegliendo, tra due opzioni, quella più economica ma anche più rischiosa sh Petroleum le cui azioni sono immediatamente salite del 5% ma che ha perso circa un quarto del suo valore di mercato dopo l’esplosione; ma soprattutto per il piano energetico di Barack Obama, che prevedeva

cenziata la responsabile dell’Us Minerals Management Service (Mms) Usa, Elizabeth Birnbaum, capo dell’ agenzia che dà il via libera alle trivellazioni petrolifere. Ma chissà se basterà. È vero che Obama ha

Il tenente generale Russel Honore, che ha diretto le più efficaci azioni di soccorso postKatrina, ha suggerito di dichiarare la zona, disastro nazionale e con l’autorità che viene fornita da una tale dichiarazione iniziare a colpire BP con multe quotidiane. «I soldi – suggerisce – dovrebbero andare in un apposito fondo di risarcimento per i danni». L’inazione su questo fronte rischia un ulteriore pubblico disincanto, due settimane fa, i sondaggi hanno mostrato che solo un terzo degli americani disapprovava l’approccio dell’amministrazione per la fuoriuscita, questa settimana, erano già più della metà. Intanto ieri il New York Times ha lanciato nuove accuse alla Bp. La compagnia petrolifera avrebbe risparmiato su materiali di rivestimento del pozzo sottomarino scegliendo, tra due opzioni, quella più economica ma anche più rischiosa. Le rivelazioni arrivano da un documento ricevuto da un investigatore del Congresso Usa. vedere di poter fermare l’afflusso continuo di greggio lungo la costa.

possano rimettere in piedi un sistema economico fortemente provato. E proprio adesso che si poteva cominciare a vedere un po’ di luce fuori dal tunnel questo nuovo disastro rimette in ginocchio uno degli stati più poveri del paese. Obama - che sotto molte pressioni e obtorto collo aveva ricominciato le trivellazioni di petrolio in questo Stato del sud - si è trovato in mezzo ad uno dei più grossi guai che gli sono capitati do-

po le elezioni. Il senso di impotenza e di disperazione che si è registrato in tutti gli strati sociali dello stato della Lousiana è senza precedenti. «Ormai non dormo più da giorni. Io e mia moglie abbiamo due figli. Perderemo tutto ciò per cui abbiamo lavorato per tutta la vita» afferma tra le lacrime John Blanchard, un pescatore di ostriche la cui vita è stata distrutta da questo disastro ecologico. È perfino andato con altri pescatori per

Un altro pescatore, Donny Campo, cerca di mascherare la sua rabbia con qualche battuta di spirito, ma non funziona: «Loro ci hanno messo fuori uso e noi cerchiamo di ripulire tutto questo casino. Certo che sono furioso. Alcuni di noi fanno questo mestiere da generazioni. Ho 46 anni e mio figlio, che si diploma quest’anno, aveva già imparato a pescare le ostriche. È un sistema di vita che ormai è distrutto». I rischi causati dall’esplosione della piattaforma di Deepwater Horizon sono così profondi che non si potranno più rimarginare, neanche dopo il clean up. Le paludi della costa della Louisiana dove il Mississippi si riversa dentro il golfo sono tra le risorse naturali più importanti del mondo. E sono inoltre essenziali per tutta l’economia degli Stati Uniti. Terreni per la pesca dei gamberi e delle ostriche son inoltre ideali nidi per gli uccelli migrato-

rie e le anatre. Un ecosistema che secondo Paul Harrison - studioso del Mississippi e del suo hinterland al Fondo di Difesa ambientalista - è compromesso per sempre e con esso le 110 specie di uccelli migratori tropicali. Circa 25 milioni di essi passano ogni giorno in quell’area. Il fatto che 11 persone siano state uccise nell’esplosione (i loro corpi non sono mai stati ritrovati) è divenuta inoltre solo una riflessione secondaria. Questi lavoratori, così come i pescatori di ostriche e di gamberi, l’ecosistema delle paludi e le spiagge distrutti sembrano passare in secondo piano rispetto ai profitti del gigante petrolifero che ha esitato a trovare soluzioni immediate. Questa è la realtà del presente, un periodo nel quale il grosso business ha cementato una alleanza con alcune lobby contro gli interessi dei comuni cittadini. L’America delle lobby ha forse avuto la prevalenza su quella della maggioranza dei cittadini vendendo la sua anima agli interessi del petrolio?


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Rapporti. Il gruppo chiede un’azione mondiale contro l’uso della violenza e n’è davvero per tutti nel nuovo rapporto di Amnesty international sullo stato dei diritti umani nel mondo. E a differenza delle precedenti edizioni del documento le critiche colpiscono direttamente i le grandi potenze, che «bloccano i progressi della giustizia internazionale mettendosi al di sopra della legge sui diritti umani, difendendo i propri alleati dalle critiche e agendo solo quando politicamente conveniente». Centocinquatanove paesi censiti e nessuno assolto: Iran, Sri Lanka, Sudan, ma anche Cina, Stati Uniti, Russia, Israele, Gran Bretagna e Italia. Colpevoli in parole, opere ed omissioni. Il rapporto riprende le preoccupazioni già espresse nel 2009 per una crisi globale dei diritti umani, ma accentua la dimensione politica e tira in ballo i grandi della terra e le organizzazioni internazionali. Sono 111 i Paesi accusati di essersi resi colpevoli di torture, una cifra esorbitante. Non hanno sorpreso le critiche all’Iran per le repressioni, le violenze e gli arresti arbitrari durante le manifestazioni seguite alle elezioni presidenziali. L’accusa che sia il governo dello Sri Lanka sia le «Tigri» tamil abbiano commesso crimi di guerra contro la popolazione civile durante la guerra civile del 2009 è preoccupante, ma rispecchia ipotesi già avanzate in precedenza da Amnesty.

C

Il dato che colpisce maggiormente è che l’organizzazione umanitaria invochi un concorso di colpa da parte delle grandi potenze. Sugli stessi abusi nello Sri Lanka l’Organizzazione delle Nazioni Unite viene dichiarata omertosa: davanti ad almeno 7000 vittime civili il Consiglio di Sicurezza è rimasto

Amnesty: 111 Paesi «usano la tortura» Stati Uniti, Gb e Israele si uniscono ai “soliti” violatori Cina, Russia e Corea di Lorenzo Biondi

commesso a Gaza sono stati gli Stati Uniti ed alcune nazioni dell’Unione europea a stendere un velo di silenzio, usando la loro posizione di forza nel Palazzo di vetro per difendere l’alleato israeliano. Per di più il mancato riconoscimento della Corte penale internazionale da parte di Stati Uniti, Russia, Cina, India, Indonesia e Turchia è un grave intralcio po-

L’organizzazione parla di concorso di colpa da parte delle grandi potenze. Sugli abusi in Sri Lanka, l’Onu viene definita “omertosa” parallizato dai giochi di potere tra i suoi membri. Delegando addirittura la stesura di una risoluzione sulla situazione del paese al governo di Colombo, che non ha potuto che assolvere se stesso e auto-congratularsi per la vittoria conseguita. Accuse simili sulla guerra nei territori palestinesi: nonostante il rapporto Gladstone né le autorità di Tel Aviv né Hamas hanno accettato le proprie responsabilità. E sui crimini contro l’umanità che Israele «potrebbe» aver

sto ad un funzionamento efficace del tribunale. Ma le grandi potenze non avrebbero solo ostacolato la giustizia internazionale: ci sono anche violazioni dirette. La Cina continua a limitare la libertà di espressione e a revocare la licenza legale agli avvocati per i diritti umani. La Russia viene bacchettata per il comportamento dei suoi militari in Abkhazia e Ossezia. Stati Uniti e Gran Bretagna sono ancora sotto accusa per le torture nel carcere di Guantanamo, che ri-

Criticata la politicizzazione della giustizia

E Bashir è il più cattivo Un applauso, una speranza, una polemica. Il rapporto 2010 di Amnesty International sui diritti umani accoglie come un «evento storico» il mandato d’arresto emanato dalla Corte penale internazionale nei confronti di Omar Hassan Al Bashir, presidente sudanese accusato di aver ordinato crimi di guerra e contro l’umanità durante la guerra in Darfur. «Neppure un Capo di Stato in carica può ritenersi al di sopra della legge», scrive l’Ong nel documento. Ma le preoccupazioni forse prendono il sopravvento sui festeggiamenti. In primo luogo, Amnesty prende atto del fallimento dell’Unione africana a cooperare col Tribunale. Mentre più di trecentomila contadini del Darfur venivano uccisi, milioni deportati ed un numero imprecisato di donne veni-

va violentato, l’organizzazione del continente nero è rimasta a guardare (come anche il resto delle comunità internazionale). E poi rimane il rifiuto da parte di un gran numero di Paesi, inclusi sette membri del G20, di riconoscere l’autorità della Corte. Che intanto rimane incapace di attuare le proprie sentenze. L’arresto di Al Bashir può essere condotto legalmente solo dalla polizia sudanese. Ma per la legge del paese, il Capo di Stato ha l’immunità da qualsiasi imputazione, anche penale. La polizia dovrebbe quindi disapplicare una legge nazionale per seguire le direttive internazionali: una mossa praticamente impossibile, soprattutto se la sentenza non viene riconosciuta come valida dalla totalità delle grandi potenze extraeuropee.

mane aperto nonostante le promesse di Barack Obama. «Dal nuovo presidente ci aspettavamo molto di più», hanno polemizzato quelli dell’organizzazione umanitaria. Nel Foreign Office di Londra il documento di Amnesty ha provocato un piccolo terremoto amministrativo. Claudio Cordone - segretario generale ad interim dell’Ong, avvocato italiano cresciuto tra il Medio oriente, Roma e gli Stati Uniti - ha chiesto al nuovo governo britannico di «guardare sotto ad ogni pietra». E il responsabile locale di Amnesty, Tim Hancock, ha lanciato un appello diretto ai due partiti della coalizione: «Entrambi i partiti hanno criticato il governo precedente sul piano dei diritti umani, ed è vitale che si attengano alle proprie belle parole ora che sono entrati in carica».

Le critiche agli ex-ministri David Miliband (titolare degli Esteri) e Alan Johnson (già responsabile degli Interni) vanno dal supporto logistico dato ai rapimenti illegali condotti dalla Cia dopo l’11 settembre all’utilizzo della tortura in interrogatori dell’MI5 e MI6. Il nuovo ministro William Hague ha colto la palla al balzo per annunciare un’inchiesta che scuota alle fondamenta il Foreign Office, probabilmente anche in un tentativo di eliminare qualche residuo di tredici anni di potere laburista. Ma i «mandarini» del ministero hanno espresso forti perplessità, ricordando al ministro che ci sono già dei processi aperti contro alcuni funzionari, e che nessun’altra inchiesta potrà essere aperta finché i tribunali non avranno emanato le loro sentenze. Il rischio è che il documento di Amnesty si vada ad inserire in una lotta di potere tutta politica tra il nuovo governo e i «tecnici» del ministero, perdendo il suo valore di analisi «imparziale» dei fatti.Polemica forte anche nei confronti dell’Italia. Sotto accusa ci finiamo - insieme a inglesi, tedeschi e polacchi - non solo per la pratica di spedire i sospetti terroristi in paesi in cui verranno sottoposti a tortura, ma anche e soprattutto per le violazioni dei diritti di immigrati e minoranze. Il rischio, secondo Amnesty, è che per inseguire una «retorica populista» si prendano decisioni gravi come quella di rispedire barche cariche di clandestini in Libia, dove non esistono procedure d’asilo, o la «distruzione» di cento campi rom nell’area della Capitale.


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La dirigenza cerca di evitare nuovi episodi, senza successo

Ma 268 non sanno neanche perché sono finiti in galera

Nuovo tentato suicidio alla Foxconn: è “crisi grave”

Teheran, in prigione 470 prigionieri di coscienza

PECHINO. Un altro giovane

TEHERAN. Sono 470 i prigio-

operaio ha cercato ieri di suicidarsi alla Foxconn di Shenzhen, proprio poche ore dopo che il padrone della ditta, Terry Guo, aveva condotto 200 giornalisti a visitare gli ambienti di lavoro, di riposo e di svago della compagnia. In un anno vi sono stati 10 suicidi nella ditta, tre in questa settimana. Notizie non ancora confermate parlano di un tentato suicidio da parte di una ragazza ancora ieri mattina. La fabbrica – una piccola città che racchiude anche dormitori, mense e impianti sportivi – dà lavoro a oltre 400mila persone e serve marchi famosi come Apple, Dell e HewlettPackard. Proprio qui si producono i tanto famosi iPhone e iPad della Apple.

nieri “di coscienza” in Iran, ossia le persone incarcerate per le loro opinioni, politiche e non, scritte o espresse altrimenti. Tra i detenuti, ci sono 39 donne e 28 condannati a morte. Un lungo elenco reso noto da Reporters and Human Rights Activists in Iran (Rahana), che precisa che i carcerati sono divisi in 25 diversi istituti di pena e che ben 268 di loro non conoscono le accuse per le quali sono privati della libertà. E l’elenco, aggiunge, non è completo in quanto «non comprende i nomi di tutti i prigionieri di coscienza in Iran». Le violazioni dei diritti umani fondamentali, insomma, continuano a imperversare nel Paese degli ayatol-

In Israele «la politica è inadatta alle donne» Lo sostiene un rabbino di Nablus. La furia delle femministe di Massimo Ciullo

Le famiglie dei giovani suicidi – tutti giovani intorno ai 20 anni – accusano le condizioni di lavoro della fabbrica: lunghi orari di lavoro, straordinario obbligatorio, quasi obbligo del silenzio fra i colleghi, controllo militaresco della produzione. Per frenare le critiche - che stanno anche avendo conseguenze economiche – Guo, un taiwanese miliardario, ha portato 200 giornalisti in visita allo stabilimento di Longhua (Shenzhen), mostrando loro le sale di lavoro, le piscine olim-

TEL AVIV. Le femministe israeliane sono sul piede di guerra. Le dichiarazioni di un rabbino ortodosso sulla partecipazione politica delle donne stanno suscitando un vespaio di polemiche in Israele e provocando un grande imbarazzo all’interno dei movimenti della destra religiosa e nei gruppi dei coloni. La diatriba è stata scatenata dalle dichiarazioni di Elyakim Levanon, rabbino capo dell’insediamento di Elon Moreh, nei pressi di Nablus, West Bank. Il leader religioso ha “consigliato”alle residenti di sesso femminile di non presentare candidature per la segreteria comunale, per essere in regola con i precetti religiosi e le tradizioni delle famiglie ebraiche, dove l’ultima parola spetta sempre al marito. Finora nessuno delle 750 donne residenti (con il diritto di elettorato passivo) ha annunciato di voler concorrere al posto di segretaria nelle elezioni che si terranno mercoledì prossimo. Le remore delle appartenenti al gentil sesso si sono concretizzate quando il rabbino ha risposto ad una lettera inviatagli da una giovane donna che ha chiesto la sua opinione riguardo ad un’eventuale partecipazione alla competizione elettorale. Nella missiva, la ragazza (rimasta anonima), ha scritto: «Sono una giovane donna e penso di avere il desiderio e l’energia per impegnarmi. Ritengo anche che sia un vantaggio scegliere una donna come segretaria, perché non spetta solo agli uomini decidere come gestire la comunità». La risposta del leader religioso è arrivata dalle pagine del giornale pubblicato dai coloni dell’insediamento e non ha lasciato adito a dubbi: la carica di segretario non è adeguata per una donna. Per confortare la sua opinione, Levanon ha citato gli insegnamenti di un altro esponente ultraortodosso vissuto nel secolo scorso, Rav Kook, rabbino di origine lettone appartenente al movimento chassidico ashkenazita: «Il primo problema è quello di conferire autorità alle donne, ed essere segretario significa avere autorità» ha scritto Levanon nel suo intervento. «Il secondo problema riguarda la

mescolanza tra uomini e donne. Gli impegni del segretario sono tenuti di sera e a volte si prolungano fino a tardi. Non è appropriato essere in compagnie miste in simili situazioni» ha rincarato il religioso ebraico.

La chiosa finale del suo articolo ha fatta imbufalire buona parte dell’opinione pubblica laica e progressista dello Stato ebraico: le donne, in pubblico, dovrebbero esprimere le loro opinioni solo attraverso i propri mariti. «Questo è il modo più opportuno per prevenire situazioni nelle quali la donna vota in un modo e il marito in un altro», ha concluso Levanon. Il rabbino di Elon Moreh non ha però escluso del tutto la possibilità per le donne di partecipare alla vita politica della colonia, magari nel consiglio, ma mai come segretarie. Le posizioni di Levanon sono state immediatamente criticate da molti residenti dell’insediamento e da altre comunità di coloni nei dintorni. Daniela Weiss, ex-capo del consiglio dell’insediamento di Kedumin, ha replicato affermando che nella tradizione ebraica sono esistite anche donne profeta pur mantenendo ben distinti i ruoli nella società. «È dimostrato da tempo che le donne hanno dato prove di grande affidabilità e competenza» ha aggiunto. Più dura Nurit Tsur, a capo dell’associazione delle femministe israeliane (Israel Women’s Lobby), che ha bollato come anti-democratiche e medievali le dichiarazioni di Levanon. «Il suo posto è in uno Stato halachic (una sorta di teocrazia ebraica) non in uno democratico» ha detto Tsur. La leader femminista ha poi invitato i leader religiosi ad esprimere pubblicamente il proprio dissenso rispetto alle posizioni del rabbino di Elon Moreh. «Quando si ascoltano certe cose fuori da contesti privati sul preciso ruolo delle donne ebraiche in Israele, mi aspetto che i leader religiosi chiariscano pubblicamente quale sia la loro posizione e chiariscano che il ruolo delle donne nelle assemblee nazionali e locali è necessario e vitale» ha concluso Tsur.

Il religioso ha risposto a una lettrice che voleva candidarsi alle comunali: «Per le femmine devono parlare i maschi»

pioniche, i punti di svago. Ma gli operai affermano che le ore di lavoro sono così grandi e la pressione così tanta che nessuno ha tempo di andare a fare una nuotata. Inoltre, i giovani che vi lavorano, cercano di guadagnare il più possibile per mandare soldi alle loro famiglie e accettano la paga di 900 yuan al mese (circa 90 euro), la minima stabilita dalle autorità a Shenzhen. Parlando con i giornalisti, Guo ha fatto notare che le cause più profonde dei suicidi sono i problemi sociali della Cina e qualche problema personale. Egli ha varato una linea di “telefono amico”, un centro anti-stress e ha impiegato psichiatri e monaci buddisti.

lah. Ci sono persone, afferma Rahana, imprigionate solo per le loro opinioni e convinzioni o per aver criticato il regime. La sezione della organizzazione che si occupa della tutela dei diritti dei carcerati precisa che dei 470 carcerati dei quali si conosce il nome, 120 sono curdi (che rappresentano all’incirca il 7% della popolazione iraniana), 101 sono attvisti politici, 59 studenti, 49 giornalisti o blogger, 43 appartenenti a minoranze religiose, soprattutto Bahai. La tristemente famosa prigione di Evin è quella che ospita il maggior numero di prigionieri politici, seguita, dalla Orumiyeh Central Prison (34 prigionieri politici), Sanandaj Central Prison (33) e Rajai Shahr Prison (28).

Mancano informazioni sulla situazione di 134 persone e in alcuni casi esse si limitano al nome del carcerato e della prigione.Dall’elenco sono stati cancellati i nomi di Farzad Kamangar, Shirin Alam Hooli, Mehdi Eslamian, Ali Heydarian e Farhad Vakili, giustiziati due settimane fa. La loro sorte preoccupa in modo particolare, in quanto è vista come l’atteggiamento vigente nel sistema giudiziario iraniano nel postOnda verde.


cultura

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Effetto Brown. Da oggi in sala il film tedesco che racconta la leggenda di Giovanna, la donna che secondo il folklore ascese al soglio di Pietro

La Papessa dei tarocchi Le statue di Siena e la falsa iscrizione, la “tastatina” e i dettagli bizzarri: eccoci servita l’erede di Maddalena di Osvaldo Baldacci n Papa che partorisce in mezzo alla strada. Sì, partorisce. Perché è donna, e nemmeno casta. E da allora in poi ai Papi vengono controllati gli attributi maschili, per evitare altri equivoci. Un tema irresistibile, una storia la cui pruderie non può non catturare. Un racconto perfetto per ogni propaganda anti-papale. E infatti la narrazione torna a galla ciclicamente da quasi mille anni, con tutte le strizzatine d’occhio del caso. È la storia della Papessa Giovanna, che ha lasciato traccia in molte realtà: per esempio secondo alcuni è una carta degli arcani maggiori dei tarocchi (si gioca la paternità, anzi la maternità, con un’altra papessa, una Visconti, stavolta storica ma eretica, nominata a Milano nel Rinascimento).

U

A riportare di attualità il tema è il film tedesco in uscita oggi nelle sale italiane, La Papessa. Tratto dal romanzo di successo del 1996 dell’autrice statunitense Donna Woolfolk Cross, il film è diretto dal regista tedesco Sönke Wortmann. Un film sullo stesso tema, La papessa Giovanna, fu prodotto in Inghilterra nel 1971. Già si può immaginare l’effetto che farà questa nuova produzione su un pubblico poco preparato e sempre più facile preda del complottismo, della superficialità, dei pregiudizi. Anche perché come al solito l’autrice fece pubblicità a un romanzo che poteva anche essere divertente affermando che si tratta di verità, che lei conosce (come?) e la Chiesa occulta. Evidentemente tira l’effetto Dan Brown, e basta dare addosso alla Chiesa per avere facile successo. Recentissimo è anche il ritorno alla ribalta dell’antica Ipazia, protagonista anti-cattolica del film

Agorà. Magari sono anche opere d’intrattenimento piacevoli, ma anziché sviluppare uno spirito critico e un’analisi storica, preferiscono appellarsi a interpretazioni scenografiche e sensazionalistiche e poco storiche,

La bizzarra storia vuole che rimase incinta del suo segretario, cadde da cavallo, partorì per strada e una volta scoperta, fu lapidata

che fanno leva sui pregiudizi contro una Chiesa disegnata sempre come nemica delle donne, della ragione, della scienza, della libertà, e ricca invece di scandali, complotti, oscure manovre di occultamento. La colpa di questa disinformazione però non è tanto di chi la fa, per motivi di lobby culturale, di rivalità o di cassetta, quanto del fatto che noi occidentali, e gli italiani specialmente, siamo sempre meno preparati culturalmente e criticamente, e nel vuoto lasciato dall’assenza di cultura attecchiscono facilmente le peggiori e più insensate caricature. In attesa del film, che

magari sarà anche bello, vedremo, cerchiamo allora di conoscere un po’ di più la storia. Una giovane donna di origine inglese ma la cui storia parte dalla Germania, si traveste da uomo e diventa monaco dedicandosi agli studi fino a essere riconosciuta come una dottissima teologa. Trasferitasi da Magonza a Roma, sempre in abiti maschili e talari, scala la gerarchia ecclesiastica fino a farsi eleggere Papa, assumendo il nome di Giovanni.

Dopo un paio d’anni di pontificato, rimasta incinta del suo segretario, durante una processione cade da cavallo ed è presa dalle doglie nel mezzo della strada. Il popolo, ripresosi prima dallo spavento e poi dallo choc, lincia e lapida la Papessa, anche se una diversa versione parla del suo pentimento e riti-

Nella foto grande, un’immagine de “La Papessa”, film tedesco del regista Sönke Wortmann (in alto a destra, la locandina) A sinistra, alcune illustrazioni popolari dedicate nel corso dei secoli alla leggendaria Giovanna, monaco “en travesti” che secondo il folklore ascese al soglio di Pietro, per poi essere scoperta e lapidata dalla folla ro. Questa storia ha diverse ambientazioni cronologiche, e fa inoltre riferimento a interpretazioni folkloristiche di alcuni elementi reali, anche se non veritieri. La prima menzione di questa leggenda apparve nella Chronica universalis del 1240 del domenicano Jean de Mailly, che colloca l’episodio nell’XI secolo e non dà un nome alla protagonista. Nella versione ritoccata della Chronica de romanis pontificibus et imperatoribus di un altro domenicano, Martino Polono (poco dopo il 1270), il racconto prese forma definitiva, chiamando la papessa Giovanni l’inglese e datando il suo pontificato all’853-855. Anche Boccaccio racconta della Papessa Giovanna nel capitolo 101 del suo De claris mulieribus, e un riferimento alla leggenda compare persino nel Liber Pontificalis, il libro della storia dei Papi, in una nota nella versione del Platina del XV secolo. Ma se la trama si è andata codificando, meno facile fu la collocazione cronologica della vicenda. La prima versione che parlava del 1100 era del tutto inverosimile, perché chiara, ben documentata e persino allora recente era la successione dei pontefici Vittore III (1087), Urbano II (1088-99, quello della Prima Crociata) e Pasquale II (1099-1110). Più facile era spostare la datazione a

un periodo non solo più lontano ma decisamente più oscuro come il IX secolo. C’era stato un antipapa Giovanni VIII nell’844, un tentativo di antipapa all’elezione di Benedetto III (855), un altro Giovanni VIII dall’872 all’882. Per cui si andò consolidando la collocazione della Papessa Giovanni VIII tra l’853 e l’855, presuntivamente in mezzo ai pontificati di Leone IV e Benedetto III. Ma anche questa ricostruzione è del tutto fasulla. Leone IV morì nell’855 e Benedetto III venne eletto immediatamente e consacrato nel giro di settimane, come oggi confermano anche diversi documenti d’archivio originali e alcuni reperti archeologici. Insomma, nella storia dei Papi non c’è posto per una Papessa Giovanna VIII, e questo lo dicono i documenti e gli storici, benché i complottisti non rinuncino a denunciare un occultamento da parte della Chiesa. Occultamento che non c’è stato, tanto che per alcuni secoli la storia fu ritenuta vera senza particolari scandali né levate di scudi da parte degli ambienti ecclesiastici. Anzi, le notizie sulla leggenda vengono proprio da ambienti e studiosi ecclesiastici, e a questi si sono rifatti i successivi polemisti. Semmai è vero il contrario: nel IX secolo era violentissima la polemica contro il papa di Roma da parte della Chiesa di Co-


cultura

stantinopoli guidata da Fozio: in quelle violente invettive non c’è mai nessun riferimento a un episodio del genere, benché la Papessa sarebbe stata davvero utile. E poi, a dire il vero, in quei secoli la Chiesa ha visto diverse “papesse” nella sua storia, non elette al soglio ma certo molto potenti: le vere padrone di Roma poco prima del mille Teodora e la figlia Marozia, amanti, madri e assassine di diversi papi, tra cui Giovanni XI (931-935) che per alcuni potrebbe essere il soggetto sbeffeggiato dalla satira della papessa; poi in seguito altre protagoniste, come ad esempio Donna Olimpia o Lucrezia Borgia.

La storia della Papessa, di probabile origine popolare, ha quindi attecchito nei secoli soprattutto per motivi satirici e poi per propaganda antipapista prima con Federico II di Svevia, poi con i pamphlettisti protestanti, in seguito con quelli illuministi, massonici e risorgimentali, e infine forse oggi di nuovo coi laicisti e le femministe, e soprattutto con i danbrownisti. Basti dire che appena dopo l’umanesimo cominciò la storiografia critica, la storia

non resse a nessuna seria verifica.Va inoltre senz’altro notato che a smontare la storia della Papessa ci aveva pensato con rigore già nel 1647 non un papista, ma un pastore protestante francese, David Blondel. Tra gli elementi usati a conferma della leggenda ci sono altre “leggende”, cioè interpretazioni folkloristiche, forzate e immaginarie di elementi che nulla hanno a che fare con il tema. Probabilmente la storia è nata dalla fantasia popolare romana, dalla sua voglia di satireggiare l’autorità, e anche dalla tendenza a creare fantasiose spiegazioni a

quel che una leggenda nella leggenda dice al riguardo del Duomo di Siena, costruito nel medio evo: ancora adesso circola la leggenda che la Papessa sia raffigurata tra i busti papali che ornano la chiesa, e quindi di fatto riconosciuta fosse dalla Chiesa dell’epoca della loro realizzazione nel Quattrocento. Chi scrive ha personalmente verificato che si tratta di una balla, ripetuta sul posto per motivi pubblicitari ma senza che nessuno sappia indicare dove sia il suo busto. Le diverse voci indicano altre raffigurazioni che però non presentano niente di diverso da quello che sono, cioè altri Papi storici nella giusta sequenza. C’è chi indica il “busto effeminato di Giovanni VIII”, ma la scultura, che tratti effeminati non ne ha, rappresenta esattamente il vero Giovanni VIII, collocato nel suo giusto posto nella sequenza cronologica dei Papi. Altri dicono che il busto della Papessa fu poi trasformato in quello di Zaccaria, non si spiega perché proprio lui: comunque anche Papa Zaccaria sta semplicemente dove deve essere, e se

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non ci fosse mancherebbe dalla serie, e non si capisce perché; inoltre è qualche posizione prima di quella in cui eventualmente dovrebbe trovarsi la papessa. All’interno del Duomo mi hanno detto che in effetti la Papessa è presente non in effigie, ma nascosta sotto il simbolo di un uccello; in effetti ci sono sculture di volatili, e uno è proprio dopo Benedetto III, ma nulla ha a che fare con Giovanna: di sculture così non ce n’è una sola ma molte, ogni volta che c’era da riempire uno spazio vuoto. Quindi una decorazione, non un simbolo. Con buona pace delle guide turistiche.

Ma il bello è che qualche appiglio di verosimiglianza nella storia c’era, e a questi si è attaccata la fantasia popolare. Parte essenziale della storia è ad esempio la cerimonia per la quale da dopo Giovanna in poi il nuovo Papa doveva essere “tastato” per verificare che fosse maschio: niente del genere si è mai verificato, però davvero il Papa si insediava in San Giovanni sedendo su troni che avevano dei fori e che risalivano all’epoca imperiale romana (ben prima della Papessa, quindi). In realtà questa cerimonia di intronizzazione, che comprendeva due sedie di porfido e una di marmo detta stercoraria, che oggi si trovano una a San Giovanni in Laterano, una ai Musei Vaticani e una al Louvre, erano reperti di epoca imperiale. I fori, attestati anche in altri casi, potevano avere varie funzioni, tra cui la più diffusa e probabile quella di servire da water. O anche sedie per i parti. Resta il fatto che il motivo per cui le usavano i papi, specie quelle di porfido cioè del colore imperiale della porpora, era per richiamarsi al potere temporale dell’impero romano ed affermare quindi una continuità con quell’autorità. Nessuna verifica genitale. Forse nella cerimonia veniva anche mima-

to un parto, ma questo era un richiamo al simbolo allora molto in voga della Chiesa madre. Non c’è però da stupirsi se la fervida fantasia popolare si sia sbizzarrita su queste strambe cerimonie, e che poi la propaganda anti-romana dei protestanti tedeschi abbia largamente ripreso la storia della “tastatina”. C’è poi un altro elemento interessante: la collocazione topografica dell’evento del parto rivelatore, vicino al Colosseo, in prossimità di San Giovanni in Laterano. Lì esisteva davvero un Vicus Papissae accanto a San Clemente, tra via dei Querceti e via dei ss. Quattro Coronati: è lì che la tradizione colloca il parto. C’è anche un’edicola con una Madonna che allatta il bambinello, che il folklore vuole sia il luogo dove Giovanna e il figlio vennero sepolti, con l’immagine di culto che da loro deriverebbe. Ma la verità è un’altra: il nome della via deriva da un’antica famiglia che vi abitava, i Papes, con un palazzo posseduto da un Giovanni Papa, e una nobildonna romana della famiglia dei Papes, di nome proprio Giovanna e sepolta ad Ostia. Da quella strada però la processione papale non è mai passata, e quando il dettaglio di una deviazione del percorso dovuto all’infausto incidente divenne parte della leggenda popolare, nel XIV secolo, il papato era ad Avignone, e non c’erano processioni papali a Roma. È probabilmente vero che più o meno a quell’altezza eventuali precedenti cortei papali svoltassero (ma fin dall’antichità) ma questo è dovuto solo alla geomorfologia del Monte Celio e alla strettezza dei vicoli, come ha ricostruito lo studioso Cesare D’Onofrio. Un altro elemento popolare poi si aggiunge: nella leggenda compare anche un’iscrizione che reciterebbe: “Pietro, Padre dei Padri, rendi Pubblico il Parto della Papessa”. In realtà l’iscrizione antico romana recitava: “P.P.P. Pap. pater patrum”, che vuol dire “proprie pecuniâ posuit Papirius pater patrum”, cioè “collocò a proprie spese Papirio padre dei padri”, titolo quest’ultimo dei sacerdoti di Mitra, e un mitreo è lì a pochi metri, sotto San Clemente.\\\\u2028

Ecco dunque come si è originata la leggenda in un’epoca dove la cultura era privilegio di pochissimi: bizzarre cerimonie, approssimative interpretazioni di monumenti antichi, satira contro il potere, ironia sulla decadenza morale, paura di un ruolo “pericoloso” delle donne, il tutto rilanciato a varie riprese dai nemici politici. E la Papessa Giovanna è servita.


cultura

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ROMA. “Grande sorpresa”, “sentimento dell’inatteso”, “lieto imprevisto”. Lo stato d’animo che accompagnò l’annuncio del Concilio Vaticano II, svolta epocale nella storia della Chiesa, è stato rievocato nei giorni scorsi dagli ospiti illustri della Fondazione Rubbettino, nella tavola rotonda organizzata presso il sontuoso salone della Crui, la Conferenza dei Rettori delle Università Italiane, nella sede romana di Piazza Rondanini. Il cardinal Georges Cottier, “grande vecchio” dei lavori conciliari, Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio che del Vaticano II fu frutto maturo, nonché storico a Roma Tre, Giacomo Marramao, suo collega di Ateneo e filosofo, con la presenza nell’uditorio di monsignor Agostino Marchetto, segretario del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti, hanno a lungo interloquito tra il ricordo personale e l’analisi storica. Certo, molta cronaca e qualche suggestione storiografica non sono sufficienti per decifrare i segni di un evento che non ha ancora detto quel che doveva dire, né esaurito lo spirito di profezia, la tensione teologica e spirituale che specialmente gli ultimi due pontefici hanno ripensato e rilanciato. «Silete historiarum scriptores in munere alieno». Tacete storici in ciò che non vi compete. È sembrato questo il senso dell’intervento di monsignor Marchetto, un garbato, sottile rimprovero a uno stile di pensiero, più che a una forma di sapere, che ha richiamato il celebre j’accuse che Alberico Gentili ri-

sanzionato dalla Dignitatis humanae, al riconoscimento del valore positivo delle religioni, contenuto nella dichiarazione sul dialogo interreligioso Nostra aetate; dagli enunciati contro l’antisemitismo, nel quadro della crisi mediorientale, alla Pacem in terris e alla Populorum Progressio, foriere di una rinnovata universalità della Chiesa che, dismesso il tradizionale abito eurocentrico, si apriva all’Oriente, all’Africa e al Terzo Mondo; dalla istituzione del Segretariato pontificio per i Non Credenti all’enorme contributo per l’ecumenismo e l’avvicinamento delle altre confessioni cristiane.

Storia. Luci e ombre della Chiesa d’oggi in un convegno di Crui e Fondazione Rubbettino

Il Concilio Vaticano II “tradito” dal ’68? di Giulio Battioni l’atomica, dalla decolonizzazione africana e asiatica, dalle istanze di superamento del torpore degli anni Cinquanta e da una indomita fiducia verso il futuro. L’entusiasmo durò poco e la “decade breve” si consumò nel ’68 che si portò via la spe-

riformistiche e paleoclericali ereditate dal secolo precedente. Un’attenzione presto confusa, tuttavia, da una “ossessione per il consenso” non ancora completamente guarita, forse, nonostante lo sforzo spirituale e intellettuale di Benedetto XVI e

Il Vaticano II fu comunque molto sofferto, molte tesi furono accolte, altre rigettate. Il profitto spirituale è stato enorme ma l’effetto-’68 ha inciso, eccome, nella ricezione e implementazione di alcune sue acquisizioni. Sul piano dottrinale e pedagogico, ad esempio, nelle università ecclesiastiche le scienze sociali hanno invaso il mondo degli studi introducendo un grande sicurezza metodologica nel campo della ricerca etica, giuridica e politica. Ma spesso questa metodologia non è stata esente dagli abusi ideologici e, soprattutto, non sempre è stata accompagnata da quel discernimento spirituale indispensabile per chi conduce una vita religiosa o un apostolato “secolare”. La dottrina sociale della Chiesa, infatti, è una “teologia morale applicata alla società”, bisognosa di alimento spirituale e di una profondità intellettuale che non sem-

bolezze di una “casta meretrix” che chiede e offre il suo perdono ottenendo in cambio indifferenza, se non quando odio.

Ma il Concilio Vaticano II fu un evento di straordinaria complessità. Il Concilio fu un

Il cardinal Georges Cottier, “grande vecchio” dei lavori conciliari, Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio e il professore di Roma Tre Giacomo Marramao a confronto sulla svolta epocale del 1962 volse ai “theologi” quasi cinque secoli fa. Il Concilio Vaticano II, aperto nel 1962 da Giovanni XXIII, papa di transizione, fu concluso da Paolo VI, quattro anni dopo, nel segno di una “contestazione” che papa Montini non aveva immaginato potesse essere travolta e tradita dall’integralismo ideologico e dalla “rivoluzione borghese”del ’68. Il teatro di questo tradimento fu la decade dei Sessanta, iniziata nel segno di una riforma di cui la Chiesa abbisognava, specialmente in Occidente, in un contesto mondiale dominato dalla coppia Kennedy-Kruscev, dalla paura del-

ranza nell’illusione distruttiva di un “altro mondo possibile”, cantato dai Beatles e perseguito dalle guerriglie e dai vari terrorismi che hanno insanguinato mezzo pianeta. «Siamo dei contestatori», disse Paolo VI esortando il suo “gregge” a rivolgere l’attenzione alle sollecitazioni dei non credenti. Attenzione necessaria e vitale per una Chiesa ancora impastoiata nelle polemiche contro-

laboratorio di idee che diede alla luce un enorme corpus di documenti: encicliche, costituzioni dogmatiche, decreti, dichiarazioni. Notevoli furono le conquiste culturali: dalla distinzione fra “TradizioA fianco, ne” e nostalgia alGiovanni XXIII. la riscoperta delle A sinistra, fonti primarie delil cardinal Cottier. la Rivelazione, la A destra, Sacra Scrittura e Andrea Riccardi. la sua esegesi meIn alto, diata dal magisteil Concilio ro ecclesiale; dalVaticano II l’affermazione del principio della libertà religiosa,

la santità carismatica di Giovanni Paolo II. Una ossessione latente, e spesso evidente, anche a causa delle umane ingenuità e delle umane, gravi de-

pre il clero e il laicato cattolico postconciliari hanno avuto. D’altronde anche il “crollo della liturgia”, contro il quale papa Ratzinger si sta spendendo molto, è un’altra stonatura del Concilio e dei suoi fraintendimenti successivi. Non si può negare, però, che il Concilio, nel suo autentico soffio, abbia dato alla Chiesa una maggiore consapevolezza dei tempi moderni e del suo essere soggetto storico globale. Il solo, forse, da sempre, in grado di includere l’universalità di ogni persona umana e di garantire la dignità del suo passaggio nella storia.


spettacoli

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Dischi. La band newyorchese che omaggia il grande scrittore russo stupisce tutti con il nuovo album: “Trans-Continental Hustle”

Gogol, le anime storte del gipsy di Alfredo Marziano

Mau, se i paralleli possono servire a tracciare qualche linea di confine. Con Rubin è stato un incontro d’anime: «Riesce sempre a vedere la luce, anche in fondo ai processi creativi più caotici. È un mistico-pratico, un uomo che irradia energia», ha raccontato Hütz ammirato, spiegando di avere accettato di venire a patti con il diavolo (la major Sony) solo perché c’è Rick di mezzo: «Io ho firmato con lui, con la sua etichetta American. Il resto è venuto di conseguenza».Tre mesi di registrazioni nei Document Room Studios di Malibu, California, ore e ore a parlare di arte, spiritualità e cose della vita come piace a Rubin. Eugene e i Gogol Bordello ne sono usciti rigenerati e un tantino più disciplinati, pieni di energia ma più lucidi di quanto fossero mai stati in passato (anche quando ad aiutarli c’era Steve Albini, il produttore dei Nirvana e del loro album finora più fortunato, Gipsy Punks: Underdog World Strike). Hütz, che ammira Jimi Hendrix, i Fugazi e i Parliament/Funkadelic, riconosce esplicitamente in Strummer e Manu Chao i suoi modelli ispiratori. Li ha anche incontrati di risconpersona, trando che «i portatori di quella scuola di pensiero erano persone vere. Democratiche, umili e facilmente avvicinabili» (la stessa stima non sembra nutrirla nei confronti di Goran Bregovic, che accusa apertamente di “sfruttare la tradizione per fare soldi”).

n cantante ucraino, un chitarrista israeliano, un bassista etiope, un percussionista ecuadoriano, una batterista di Trinidad, più un americano, uno scozzese e un paio di russi (alla fisarmonica e al violino, i due strumenti leader della formazione). I Gogol Bordello sono la perfetta incarnazione di quel “trambusto transcontinentale”, Trans-Continental Hustle, che intitola il nuovo album da poco nei negozi. Un disco importante, probabilmente di svolta, per la pittoresca band multietnica che ha preso forma nel Lower East Side newyorkese e che s’è guadagnata un seguito crescente al ritmo di duecento concerti all’anno: ubriacanti happening musicali in cui la band ama mettere in scena colorite pantomime e suonare a rotta di collo davanti a un pubblico altrettanto multilingue e intergenerazionale, pronto a ballare/saltare fino allo sfinimento e a identificarsi con quei testi che parlano di immigrazione e umiliazione, di sofferenza e di speranza.

U

A guidarli in studio di registrazione, stavolta, è stato nientemeno che Rick Rubin: il barbutissimo santone del rock che ha inventato la fusion tra rock e hip hop mettendo insieme Aerosmith e Run D.M.C. (Walk This Way, anno di grazia 1986), che ha lanciato in orbita i Metallica e ha regalato una tardiva giovinezza artistica a Johnny Cash con la straordinaria serie di American recordings giunta da poco al sesto (e postumo) capitolo. «Sono la miglior band

Che Hütz, baffoni spioventi e look gitano, sia un gran personaggio non lo si scopre certo oggi: non per niente, già nel 2005, il regista Liev Schreiber gli aveva affidato un ruolo da protagonista accanto a Elijah Wood nella trasposizione cinematografica di Ogni cosa è illuminata (utilizzando anche la band al completo, in una sequenza del film); non per nien-

riferimento a Nikolai Gogol, scrittore che importò “di contrabbando” la cultura ucraina nell’Unione Sovietica, a ricordargli la sua missione: infiltrare nel mondo anglosassone e occidentale la musica gypsy delle regioni balcaniche. Intendiamoci, l’approccio al folk dell’Est

Il pittoresco combo nato nell’East Side della Grande Mela si è guadagnato un seguito crescente al ritmo di duecento concerti all’anno: ubriacanti happening musicali a base di colorite pantomime dal vivo del pianeta!», aveva messaggiato a Rubin Tom Morello, chitarrista dei Rage Against The Machine, mentre assisteva estasiato a uno show dei Gogol. Il guru non s’è fatto pregare ed è andato a vedere con i suoi occhi al Palladium di Hollywood, innamorandosene all’istante. Nell’amalgama razziale del gruppo gli è sembrato di rivedere gli Specials dello ska revival fine anni Settanta, nella passione e nel carisma del leader Eugene Hütz il fantasma di Joe Strummer dei Clash: un altro fervente predicatore del rock globalizzato, stroncato troppo presto, nel dicembre 2002, da un infarto e ancora in cerca di un degno erede.

te Madonna gli ha cucito addosso il soggetto di Filth And Wisdom – Sacro e profano, il suo esordio alla regìa.

È un giramondo, il nostro, che dopo aver lasciato l’Ucraina ai tempi del disastro nucleare di Chernobyl ha vissuto da profugo tra Polonia, Ungheria, Austria e Italia, prima di trasferirsi a New York City con una chitarra malandata, 400 dollari in tasca e un pugno di vinili pirata da smerciare. Però ha conservato un forte attaccamento alle radici, come rivela il nome scelto per la sua congrega di musicisti. Bordello è una parola calzante per il loro approccio gioiosamente casinaro, ma è il

europeo, che TransContinental Hustle sviluppa con la massima coerenza, è tutt’altro che ortodosso e canonico: Hütz e i suoi suonano con l’energia e la rabbia di un gruppo punk, inglobando nel loro melting pot sonoro elementi di klezmer ebraico, di reggae giamaicano, di teatro brechtiano, di taranta salentina ma anche di salsa sudamericana e di samba brasiliano, ora che con la fidanzata rumena e ballerina il leader è andato a vivere a Rio de Janeiro. Un incrocio tra i Gipsy Kings, gli angloirlandesi Pogues, i vecchi Mano Negra di Manu Chao e i nostri Mau

In queste pagine, il gruppo multietnico dei Gogol Bordello, pittoresca formazione musicale nata nel Lower East Side newyorchese che ha stupito tutti per vigore interpretativo e originalità musicale immessi nel nuovo album: “Trans-Continental Hustle”. Il nome della band è un omaggio al grande scrittore russo

I Gogol Bordello appartengono alla stesso ceppo: la musica, la danza e l’umore festaiolo sono, anche per loro, uno strumento per innescare cambiamenti positivi. È uno zingaro utopista, Hütz, che oggi incide per una multinazionale e non disdegna di salire sul palco con Madonna: è successo al Live Earth del 7 luglio 2007, a Londra, per una improbabile medley tra la sua Pala tute e La Isla bonita dell’ex Material Girl. Così va la musica del terzo millennio.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE

Ma è davvero questa la riforma delle libere professioni? Ci sono avvocati in Italia che tentano di avvicinarsi ai consumatori, adeguando le proprie parcelle al mercato, ma l’ordine forense è intervenuto immediatamente, sanzionandoli. È la vicenda che ha coinvolto Avvocati point, un pool di professionisti esperti in cause di separazione. Accusati di aver leso dignità e decoro della categoria, per aver proposto e pubblicizzato su un quotidiano locale una tariffa vantaggiosa, 612 euro (Iva inclusa) per l’assistenza in cause di separazione consensuale e divorzio, sono stati sospesi per due mesi in primo grado dall’ordine forense di Monza. La vicenda è significativa e dice quanto siano ancora arroccati ad anacronismi e lontani dalla realtà le associazioni di categoria. La denuncia arriva da Altroconsumo che ha segnalato la vicenda con una lettera formale al presidente dell’Autorità garante della Concorrenza e del mercato. Gli elementi contrari alla modernizzazione del settore da sottolineare in quanto successo e soprattutto nel disegno di legge 1198, in analisi in Parlamento in revisione della riforma Bersani, sono: l’ottica della reintroduzione delle tariffe minime, che ingessano e umiliano la concorrenza dell’offerta; l’introduzione dell’esclusiva nella conciliazione e nella consulenza; l’innalzamento di altre barriere per l’accesso alla professione.

Liliana Cantone

LE ALLERGIE E IL FEGATO Siamo ormai in piena stagione primaverile. In tale periodo alucuni iniziano a soffrire di fenomeni allergici, naso chiuso, occhi che lacrimano, starnuti eccessivi, fino ai casi più severi della fenomenologia allergica, che possono impedire il normale svolgere delle attività quotidiane. La terapia classica è la coscrizione di antistaminici, che attenuano la sintomatologia. La prevenzione va iniziata qualche mese prima del manifestarsi del periodo stagionale. Un consiglio è alleggerire il carico invernale di tossine. È soprattutto il fegato, che nella stagione primaverile modula la risposta allergica. Detossificare e drenare, è il sistema migliore per alleviare, e di molto, i disturbi di natura allergica. Molta attenzione va impiegata per l’alimentazione. È necessario passare ai cibi meno calorici e grassi, preferendo il

Donna in giallo al Taj Mahal

cucinare a vapore o al barbecue le verdure, soprattutto quelle a foglia verde, assumere almeno 4-5 dosi di frutta preferibilmente quella stagionale. Praticare un’attività fisica con regolarità, attenua fino a contrastare le forme allergiche, non solo quelle di natura stagionale.

Giuseppe Parisi

IL CALCIO TORNI AD ESSERE UN GIOCO E NON UN LUOGO DI VIOLENZE Dobbiamo riconoscere un grande tributo per la grande professionalità messa in campo dalla questura di Udine in ogni settore della sicurezza. Grazie alla cultura della sicurezza si può anche agevolare il percorso di integrazione verso quanti sono disposti ad accettare le regole di convivenza. Ognuno di noi deve sentire su di sé il dovere di partecipare al miglioramento

Il Taj Mahal di Agra, nell’India settentrionale, è da sempre considerato una delle più notevoli bellezze architettoniche dell’India e del mondo. Dal 1983 è tra i patrimoni dell’umanità dell’Unesco

dei livelli di sicurezza. In questo senso la polizia di prossimità si presenta come avamposto vicino ai cittadini che, a loro volta, diventano ulteriori sentinelle del territorio. Il binomio prevenzione e tolleranza zero contro chi delinque ha dimostrato di produrre risultati concreti in Italia che, con Schengen, è diventata ancora più monitorata, grazie alle collaborazioni con le forze dell’ordine slovene ed austriache, implementando così l’importanza di una sicurezza integrata con i Paesi vicini. Se il calcio non ritorna ad essere un gioco, non

L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

ha più alcun senso di esistere. Sempre più spesso assistiamo a episodi gravi di violenza, odio, razzismo, è inaccettabile che un gioco si trasformi in tutto questo. Se deve poi restare confinato in un luogo blindato, è evidente che ha perso le sue connotazioni originali. È poi assolutamente spropositato che le forze dell’ordine siano costrette ad impiegare ingenti risorse e mezzi per prevenire, reprimere le forme di violenze che si scatenano. È un gioco, o una guerriglia?

Ferruccio

da ”Spiegel Online” del 27/05/10

Bandidos di Germania andidos ed Hells Angels se le danno di santa ragione. Sembrerebbe una cronaca da contee californiane, un faccenda da risolvere all’interno di un ufficio dello sceriffo. Invece le due bande di biker, i centauri delle due ruote – che proprio non si sopportano – e che hanno, negli ultimi mesi, dato vita a una vera escalation di scontri e risse, sono tedesche. Si muovono sulle strade dei lander germanici, in maniera particolare di quelle dello Scheswig-Holstein. Si tratta dunque di easy rider teutonici che hanno cominciato a creare seri problemi di ordine pubblico. Per questo motivo sembra che le parti in conflitto vogliano raggiungere un accordo, una tregua. Anche perché le autorità si sono stancate è hanno ”bandito”i Bandidos e i loro acerrimi nemici, gli angeli dell’inferno. E molti altri lander stanno prendendo in considerazione misure simili. Potrebbe però non essere più necessario. Le due gang, nemiche giurate, sono state coinvolte in un crescendo di scontri per il controllo di varie attività criminali e del territorio a partire dall’inizio del 2009. Lunedì scorso ci sarebbe stata la svolta, con una dichiarazione di pace.

B

Il vicepresidente dei Bandidos europei, Peter M. e Frank H. presidente degli Angeli di Hannover sigleranno la tregua con «una stretta di mano» in uno studio legale di questa città. L’annuncio è arrivato appena in tempo, perché in questi giorni si riunirà il consiglio dei ministri degli Interni dei sedici lander tedeschi. E non tirava un’aria tanto salutare per gli scapestrati sulle due ruote. Si stava pensando di far emettere un bando nazionale per le due bande di biker . «Violano la legge e mettono a repentaglio l’ordine costituzionale», come aveva affermato, a fi-

ne aprile, Klaus Schive, il responsabile del dicastero degli Interni nello Stato ScheswigHolstein. Un dichiarazione fatta per giustificare l’emissione della proscrizione e per far capire che le autorità non sarebbe arretrate di un centimetro. Tolleranza zero verso chi creava tanti problemi.

I portavoce delle due gang avevano già dichiarato che c’era stato un primo tentativo di tregua che durava da circa otto settimane. E in effetti non si erano registrati incidenti di rilievo in questo periodo. In un comunicato che è stato pubblicato sui loro siti internet le due bande hanno annunciato che, dopo due mesi di preparazione, «un percorso di coesistenza per il futuro è stato trovato e che ogni conflitto tra i due club è ufficialmente terminato, con effetto immediato». Ogni violazione della tregua verrà regolata e punita come un faccenda interna alla gang, si legge nel comunicato. Questa guerra tra motociclisti aveva trovato ampio spazio nei titoli di quotidiani e telegiornali negli ultimi tempi. Erano diventati protagonisti di attacchi condotti piuttosto brutalmente con coltelli, macete, pistole e anche con bombe a mano. «Non vogliamo, più essere descritti come dei criminali» aveva dichiarato a Spiegel, Micha, un membro dei Bandidos . Insomma questa storia «deve finire». Il processo di pace vorrebbe proprio essere un chiaro sforzo per migliorare questa immagine. «I biker sembra si siano

resi conto che con questi scontri continui rischiavano di soccombere e che le occasioni di guadagnare del denaro diminuiscono sempre di più» l’analisi, fatta per Spiegel, di un criminologo che ha studiato per anni il fenomeno delle bande motorizzate. La notizia della tregua sembra non aver impressionato troppo le forze di polizia. «Non ci interessa davvero chi abbia fato pace e con chi» ha affermato Uwe Keller, il portavoce dell’ufficio Investigazioni criminali dello Scheswig-Holstein.

La Polizia accusa gli easy rider tedeschi di una lunga serie di azioni criminali e di violazioni della legge, compresa l’associazione a delinquere per lo sfruttamento della prostituzione, le rapine, i ricatti, lo spaccio di droga, la ricettazione e il possesso illegale di armi da fuoco. Alla faccia del tentativo di ripulirsi la faccia e di lucidare le moto di Angels e Bandidos.


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LETTERA DALLA STORIA

Riconoscerai la grafia di colui che ti amò appassionatamente Mia carissima Teresa, ho letto questo libro nel tuo giardino; amore mio, tu non c’eri, o io non avrei potuto leggerlo. È uno dei tuoi favoriti e lo scrittore era un amico mio. Tu non capirai queste parole inglesi, e altri non le capiranno, ecco la ragione per cui non le ho scarabocchiate in italiano. Ma riconoscerai la calligrafia di colui che ti amò appassionatamente, e capirai che, su un libro che era tuo, poteva solo pensare all’amore. In questa parola, bellissima in tutte le lingue, ma soprattutto nella tua - Amor mio - è compresa la mia esistenza qui e dopo. Io sento che esisto qui, e sento che esisterò dopo, per quale scopo lo deciderai tu; il mio destino riposa con te, e tu sei una donna di diciotto anni, che ha lasciato il convento due anni fa. Desidererei che fossi rimasta lì, con tutto il mio cuore, o, almeno, che non ti avessi incontrata nel tuo stato di donna sposata. Ma per questo è troppo tardi. Io ti amo e tu mi ami o almeno, cosi dici, e agisci come se mi amassi, il che comunque è una grande consolazione. Ma io ancor più ti amo e non posso cessare di amarti. Pensa a me qualche volta, quando le Alpi e l’oceano ci divideranno, ma non sarà cosi a meno che tu non voglia. Lord Byron a Teresa Guiccioli

LE VERITÀ NASCOSTE

Il nuovo nemico di Khamenei? Il fuoco TEHERAN.Che l’islam iraniano non fosse proprio liberale si sapeva da tempo. Ma, dopo le violente repressioni dell’Onda verde, gli ayatollah hanno deciso di concentrare la propria attenzione contro un nuovo nemico: il fuoco, adorato da buona parte della popolazione che subisce ancora gli influssi della religione persiana. La Guida Suprema dei sunniti iraniani, l’ayatollah Ali Khamenei, ha infatti iniziato una campagna contro la Festa del Fuoco – il Charhanbe Soori – dichiarato ufficialmente “anti-islamico” perché «procura molto male alle persone». La Festa è antichissima, e segna l’ultimo mercoledì prima del Nowrouz, il capodanno persiano: nella notte del primo giorno di celebrazioni, lunghe una settimana, la popolazione salta attraverso grandi fuochi accesi nei campi per rendere omaggio al fuoco e chiedergli protezione contro il male. Nel corso dell’ultima edizione, il 16 marzo, sono morte sette persone durante incidenti banali. Per Khamenei «non esistono basi legali nella shari’a, la legge coranica, che permettano questa festa. Inoltre, il giro di denaro che la circonda porta alla corruzione, ed ecco perché è utile evitarla». Il cambio di rotta è tanto più strano se si pensa che – negli ultimi anni – le autorità iraniane hanno fatto di tutto per aiutare la popolazione ad organizzare l’evento. Alcuni analisti sottolineano però che il salto nel fuoco simboleggia un’allegorica liberazione dal male e dalla paura, e questo il regime teocratico può difficilmente tollerarlo. Le antiche tradizioni, e lo spiritualismo animista persiano, hanno aiutato una popolazione relativamente poco numerosa a conquistare il più grande impero d’Oriente. Oggi, gli iraniani potrebbero usarli per far crollare una dittatura.

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

OPPIO PER PARTORIRE ALL’OSPEDALE CAREGGI DI FIRENZE Se all’ospedale Careggi di Firenze la sperimentazione di massa con l’oppio fosse una alternativa all’epidurale per il parto senza dolore, a fronte di mille pazienti arruolate per la sperimentazione almeno qualche parto in analgesia peridurale su indicazione della partoriente (e non del solo medico) dovrebbe risultare. Se a Careggi non esiste la possibilità di partorire con l’epidurale, ovviamente l’oppio risulta non una alternativa, ma una scelta indotta. E per quanto il Comitato etico di questo ospedale abbia dato il via libera ad un arruolamento di massa per l’uso di un farmaco il cui foglietto illustrativo ne sconsiglia l’uso in travaglio (4.6), dopo le modifiche realizzate lo scorso novembre su indicazione europea di non usarlo in pazienti coscienti a respirazione spontanea, forse anche il comitato etico, se non gli stessi medici che lo propongono alle partorienti si dovrebbero porre qualche dubbio. A seguito di una procedura di mutuo riconoscimento, infatti, è stato modificato il foglio illustrativo e le indicazioni d’uso, sia nella parte riguardante la posologia e modalità di somministrazione (4.2) che nelle speciali avvertenze e precauzioni per l’uso (4.4). Resta invariato il punto 4.6 che sconsiglia l’uso in travaglio e che recita «Non esistono dati sufficienti per raccomandare l’uso di remifentanil durante il travaglio e il parto cesareo. Il remifentanil attraversa la barriera placentare e può causare depressione respiratoria nel bambino». Nessuna contrarietà alla sperimentazione, purché le partorienti siano messe in condizioni di scegliere e di avere alternative.

Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci,

Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

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“Riforme istituzionali” - Circoli liberal Lombardia SEGRETARIO

Donatella Poretti

Robert Kagan, Filippo La Porta, Direttore da Washington Michael Novak

ACCORDI PROGRAMMATICI E NON POLITICI Con riferimento agli articoli che evidenziano un malessere del partito dell’Unione di centro rispetto alle scelte operate nell’ambito della composizione della giunta regionale e di quella comunale, mi preme sottolineare che l’intero partito provinciale, da me rappresentato, avendo stipulato un accordo programmatico con il presidente Scopelliti e non un accordo politico con il centrodestra, non ha mai preteso di essere coinvolto nelle decisioni che riguardano il rimpasto della giunta della città capoluogo, e che quindi nessun disagio poteva essere evidenziato da alcun iscritto all’Udc di Reggio Calabria se non evidentemente a titolo personale. Il partito che a quanto mi risulta in provincia di Reggio Calabria non è strutturato in correnti, ha una unica “anima”, che ha accolto con grande senso di responsabilità e con serenità le decisioni operate nella composizione dell’esecutivo regionale, che non ha visto la presenza di alcun esponente reggino dello scudo crociato (nella fattispecie l’onorevole Pasquale Tripodi) nominato in giunta, malgrado l’alta percentuale di voti riportati dall’Udc in provincia. Nel ribadire massima lealtà e fiducia nell’accordo che ha portato l’onorevole Scopelliti alla guida della regione Calabria, è bene rimarcare che non essendo il partito provinciale sotto tutela di nessuno, le scelte che riguardano le future alleanze alla provincia e al comune di Reggio Calabria, saranno operate nei tempi e nei modi idonei e, soprattutto, in piena autonomia e senza alcun condizionamento di appartenenza precostitutita all’uno o all’altro schieramento, ma avendo come basilare ed unico interesse il miglioramento sociale ed economico delle popolazioni che andremo a governare. Su tale decisione vi è l’assoluta convergenza di tutti i dirigenti del partito e in principal modo del consigliere regionale Pasquale Tripodi. Rimanendo sempre a completa disposizione della stampa e degli organi di informazione, il partito attraverso il segretario provinciale riconferma la propria disponibilità al confronto con tutte le forze politiche e sociali. Paolo Mallamaci S E F R E T A R I O PR O V I N C I A L E UD C RE G G I O CA L A B R I A

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ULTIMAPAGINA Architettura. Presentato nella Capitale l’atteso (e controverso) “Maxxi”

Da ieri anche Roma ha il suo di Gabriella Mecucci na grande costruzione curvilinea di cemento con il tetto di vetro, che abbraccia e ingloba un edificio ottocentesco, la caserma di via Guido Reni. La nuova architettura è abbagliante, immensa, audace. E vale davvero la pena esplorarla passo dopo passo, con le sue linee sinuose, le sue curve, le sale con le pareti bianchissime e quella luce che entra, sbatte, dialoga, modifica le architetture. Ieri, con l’anteprima per la stampa del Maxxi, ha preso il via a Roma una sorta di tre giorni dell’arte contemporanea. Ci sarà oggi l’inaugurazione ufficiale e poi la presentazione del “Macro” al Testaccio. Ieri dunque al Flaminio si è celebrata la prima festa della creatività dei nostri tempi. Eppure per qualche minuto l’attenzione, anziché essere attratta dall’opera di Zaha Hadid o dal gigantesco scheletro umano di Gino De Dominicis, Calamita cosmica, si è concentrata sulle parole di Sandro Bondi e sui fischi e i “buuu” che hanno provocato. Il ministro dei Beni culturali ha infatti iniziato il suo intervento da par suo, rivendicando a Berlusconi e al ministro Matteoli il merito di aver portato a termine il mega cantiere del Maxxi. I rumori di fastidio della foltissima platea (almeno 400 giornalisti, nonché intellettuali, politici, ex personalità di governo) sono scattati alle prime sillabe del cognome del premier. E sono continuati con una certa insistenza.

U

Bondi si è fermato un attimo, e, smaltiti i fischi, ha proseguito: «Desidero anche riconoscere il ruolo essenziale dei governi precedenti nell’avvio dei lavori». Poi ha citato una folta schiera di suoi predecessori di destra e di sinistra che hanno dato impulso al progetto: da Veltroni alla Melandri (presente ed elegantissima), da Urbani a Buttiglione a Rutelli. A quel punto la tensione si è sciolta e finalmente, cessato il piccolo contenzioso col ministro, gli occhi dei convenuti hanno iniziato a vagare per l’immensa architettura. Bianca, luminosissima, con la luce che entra dappertutto, la struttura è bella, molto più bella della teca dell’Ara Pacis di Mayer e, soprattutto, collocata in un luogo dove dà molto meno fastidio agli amanti della conservazione costi quel che costi.

Una ragione per moderare i toni del dibattito che già si è tuttavia scatenato. Il Maxxi conterrà due musei: uno di arte contemporanea, diretto da Anna Mottirolo, e l’altro di architettura, diretto da Margherita Guccione.

Il presidente del Maxxi è Pio Baldi, storico direttore generale dei Beni culturali. Spirali elicoidali, gallerie, flussi rendono il nuovo gigantesco edificio molto innovativo, capace di far saltare ogni schema espositivo e quindi di provocare anche in questa direzione un profondo cambiamento. Non sono mancati fra le centinaia di partecipanti alla “prima” del Maxxi ,quanti lo hanno paragonato al Guggenheim di Bilbao. Questa architettura sarebbe piaciuta al Papa del barocco, Urbano VIII? Si è chiesto nei giorni scorsi il New York Times. E si è risposto: «Forse ne sarebbe stato entusiasta. Questo Pontefice del Seicento capì che l’aspetto di una città non deve rimanere congelato nel tempo e affidò ad artisti quali Gian Lorenzo Bernini i pro-

chi l’ha definita una first lady e chi ha preferito un inginocchiato her majesty. Lei si è intrattenuta, ha raccontato il suo primo viaggio a Roma da bambina: «Ho ancora una foto davanti alla Fontana di Trevi, mi rimase nel cuore così come Napoli e Pompei». Non c’è dubbio che questa signora, di origine iraniana, ha lasciato un potente segno sull’Urbe eterna. E la sua opera sarà oggetto di studi, di analisi, ma anche di polemiche. A proposito di queste, ieri c’era anche Sgarbi, consigliere di Bondi per il Maxxi. Il sempiterno Vittorio nei giorni scor-

GUGGENHEIM si si era scatenato contro il mega progetto: «Non dovrebbe aprire, anzi dovrebbe nascere un’inchiesta come quella sulla Maddalena; è un luogo di possibile corruzione e di soldi buttati. Nasce un museo sottratto alla volontà estetica italiana». E il critico Francesco Bonanni ha parlato di «maxifallimento». È solo un antipasto delle polemiche che si svilupperanno. Intanto oggi l’inaugurazione ufficiale e il 30 l’apertura delle mostre: su Gino De Dominicis, curata da Achille Bonito Oliva, sull’architetto Luigi Moretti e su un giovane protagonista del segno contemporaneo, il turco Kutlug Ataman. Roma - dopo dieci anni di lavori, discussioni, perdite di tempo, inutili sprechi - ha finalmente un museo di arte contemporanea.

Oggi l’inaugurazione ufficiale della struttura dell’archistar Zaha Hadid: una grande e luminosa costruzione curvilinea di cemento con il tetto di vetro. Ieri alla “prima” del Museo, fischi per Sandro Bondi alla frase: «È tutto merito di Silvio Berlusconi» getti di rinnovamento». Zaha Hadid come Bernini? Ne dovrà passare di acqua sotto i ponti di Roma...Intanto l’archistar è apparsa ieri alla presentazione stampa come una stella del cinema, circondata dalla security, vestita da una tuta nera con spolverino asimmetrico e con le unghie celeste polvere. Un po’ sofferente, camminava a fatica e non ha voluto concedere interviste. Ma è riuscita indubitabilmente a tenere la scena come pochi altri. Si sono sprecati gli appellativi adulatori per questa signora dell’architettura: c’è


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