he di c a n o r c
00529
Sei amato solo dove puoi
mostrarti debole senza provocare in risposta la forza Theodor W. Adorno
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • SABATO 29 MAGGIO 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Berlusconi a Confindustria: «Rileggetevi il testo». E Fini: «Le insidie non vengono solo dalle dittature»
Risiko sul federalismo Grandi manovre intorno alla manovra:in ballo la tenuta delle Regioni (in rivolta) e quella del governo.Tra Lega,Tremonti e Fini,premier sempre più “ingabbiato”
IL BIVIO DELLA MAGGIORANZA
CONSIGLI ALL’OPPOSIZIONE
Silvio e Giulio: due strade molto differenti
Votate a favore, ma pretendete riforme strutturali
«È possibile che ci siano state delle coperture», dice il presidente Cei. Poi chiede più equità nella politica italiana Riccardo Paradisi • pagina 10
di Francesco D’Onofrio
di Enrico Cisnetto
ono state svolte molte considerazioni sul rapporto tra il presidente Berlusconi e il ministro Tremonti alla luce soprattutto della conferenza stampa nella quale essi hanno illustrato la manovra finanziaria dei ventiquattro miliardi di euro in due anni. Non si tratta soltanto di fatti personali, perché è opportuno rilevare alcuni aspetti di struttura politico-costituzionale nel difficile rapporto tra i due.
uesto vuol essere un appello alle forze parlamentari che svolgono un ruolo di opposizione non pregiudiziale: l’Udc, le componenti più ragionevoli del Pd, i gruppi misti. La manovra correttiva varata dal governo tra mille complicazioni sarà fra poco sottoposta all’esame del Parlamento. Votarla chiedendo in cambio riforme strutturali è un’occasione unica per cambiare il Paese.
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L’allarme di Bagnasco sulla pedofilia in Italia
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Intercettazioni e indagini, Il Pdl fa marcia indietro
Giornata di sangue a Lahore: si apre una nuova fase della battaglia per il controllo dell’area
Guerra per il Pakistan Ottanta morti,duemila persone in ostaggio per ore,l’intero Paese paralizzato: il terrorismo islamico punta a far suo lo snodo decisivo per vincere anche a Kabul MASSACRO IN MOSCHEA
CRISI IN COREA
Ora è minacciata la sopravvivenza di Islamabad
Ma c’è una buona notizia: Pechino scarica Pyongyang
di Osvaldo Baldacci
di Vincenzo Faccioli Pintozzi
ntegralisti islamici che attaccano i fedeli in moschea durante la preghiera del venerdì. C’è qualcosa che stride in questa frase, che però ben illustra il paradosso del Pakistan. Un Paese ormai in allarme permanente, dove la situazione si è molto aggravata negli ultimi anni, superando forse in certe aree persino le criticità dell’Afghanistan. E ieri, il paradosso ha prodotto decine di morti e centinaia di feriti.
lla fine, Pechino ha preso la sua decisione. Della Corea del Nord – storico alleato e vicino più ingombrante – la Cina non si fa più garante. Lo ha detto il primo ministro Wen Jiabao, nel corso della riunione a tre che si è svolta ieri a Seoul. Wen ha infatti detto chiaramente che il proprio Paese «condanna tutti gli atti destinati a distruggere la pace e la stabilità nella penisola coreana».
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I QUADERNI)
• ANNO XV •
NUMERO
103 •
Undici emendamenti per alleggerire le multe e ammettere i riassunti. Ma solo quelli degli atti (non delle telefonate) Francesco Lo Dico • pagina 8
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WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
mobydick
Buenos Aires e i dolori del giovane Borges Arrivano in libreria i versi nei quali il grande scrittore argentino scoprì se stesso e i segreti della sua città Marco Ferrari • pagina 16 19.30
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pagina 2 • 29 maggio 2010
Effetti collaterali. Bocchino tenta il leader con emendamenti “anti-tremontiani” alla manovra. Dal cofondatore stoccata sulle «dittature»
Il federalismo dimezzato
Berlusconi minimizza ma Bossi «è allarmato», dicono i suoi: vacilla l’architrave della maggioranza, e il Cavaliere cerca la pace con Fini di Errico Novi
ROMA. Fini ha obblighi istituzionali e questo Berlusconi lo sa. È vero dunque che la frase del presidente della Camera sulle «nuove insidie, diverse dalle dittature» contiene una punta di sarcasmo per l’uscita su Mussolini. Ma è una bacchettata che al premier conviene mandar giù: la tregua con il cofondatore è possibile, ma a condizione che Berlusconi stesso rispetti delle regole. E accetti anche un ripiegamento, nei toni, entro il perimetro del buon costume istituzionale. Ambito in cui Fini gioca in casa, certo: ma non è che il Cavaliere in questo momento abbia molte alternative. Ricostruire un rapporto con l’ex leader di An è una delle poche opzioni disponibili. A questo punto di alleanze il Cavaliere ha un enorme bisogno. Anche perché dopo il poderoso giro di vite imposto dall’Europa e attuato da Tremonti, nella maggioranza si aggira un nuovo fantasma: il crac del federalismo fiscale. Troppi sono gli indizi che mettono in pericolo il progetto caro a Bossi: il malumore di governatori del Pdl come Roberto Formigoni e la minaccia (di cui diamo conto in altra parte del giornale, nda) di tutti gli altri, pronti a far saltare il secondo decreto attuativo, quello sul trasferimento delle imposte, se non verrà alleggerito il peso della manovra. Un quadro improvvisamente disordinato, in cui nessuno, nemmeno la Lega, può sentirsi tranquillo, evidentemente. Con l’eventuale fallimento dell’intesa Bossi-Tremonti si intravede una conseguenza gravissima per l’esecutivo: cioè la sua fine prematura. Ecco perché il presidente del Consiglio ha bisogno di uno schema più solido su cui appoggiarsi, ora che ha verificato l’incompatibilità tra la strategia sua e quella del suo miFini nistro. può tornargli indispensabile, anche se non è detto che una
La manovra va modificata in Aula, ma è un’occasione da non perdere
Appello alle opposizioni: dite sì, in cambio di riforme di Enrico Cisnetto uesto vuol essere un appello a quelle forze parlamentari che svolgono un ruolo di opposizione non pregiudiziale: l’Udc, le componenti o i singoli più ragionevoli del Pd, i membri dei gruppi misti. La manovra correttiva varata dal governo tra mille complicazioni sarà fra poco sottoposta all’esame del Parlamento. Essa può essere criticata da molti punti di vista: è solo congiunturale, presenta lacune evidenti e zone d’ombra inquietanti (la norma sulle Province c’è o non c’è?), è potenzialmente recessiva, è limitata nella portata (i 12+12 miliardi relativi al biennio 2011-2012 sono esattamente i tagli di deficit corrente chiesti dalla Ue ben prima dello scoppio della crisi dell’euro).
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regionali e quindi dall’ingresso nel “triennio senza urne”che tanto è stato sbandierato come il momento giusto per dedicarsi alle grandi scelte. Dunque, è indispensabile che quelle forze di opposizione non pregiudiziale cui questo mio appello è rivolto si muovano per prime e, possibilmente, insieme.
Le condizioni politiche di questo passaggio ci sono tutte. Il governo ha bisogno come l’aria di trovare in parlamento una sponda costruttiva. Probabilmente ne ha necessità anche per regolare alcune e non marginali divergenze che già ci sono e che a Camera e Senato emergeranno con ancora maggiore evidenza. E questo crea spazi di movimento che vanno sfruttati. Inoltre la critica che Confindustria, seppure con qualche timidezza di troppo, ha avanzato al decreto – è solo una manovra a breve, manca di respiro strategico e di iniziative forti per lo sviluppo – è la perfetta premessa per un’iniziativa politica che coinvolga anche le parti sociali e la società civile. Si prenda quindi l’iniziativa senza indugio, agendo su due fronti: il miglioramento del decreto, che essendo molto articolato si presta a modifiche e, perché no, anche a qualche stravolgimento; la preparazione di una sorta di manovra integrativa basata su elementi strutturali di riforma, riguardanti la previdenza, la sanità, il fisco, la pubblica amministrazione e in particolare l’articolazione del decentramento amministrativo, il debito pubblico e possibile interventi una-tantum di sua riduzione.Avendo cura di non limitarsi al pur necessario lavoro parlamentare, ma coinvolgendo il Paese attraverso alcune iniziative di pubblico dibattito. Le quali avranno anche il decisivo compito di fare quella “operazione verità” – dire agli italiani come stanno davvero le cose, premessa indispensabile perché abbiano cittadinanza e consenso anche misure apertamente impopolari ma inderogabili – che lo stile berlusconiano dell’ottimismo prima di tutto e a tutti i costi di questo governo ha fin qui impedito che ci fosse.
Intervenire su previdenza, sanità, fisco, pubblica amministrazione e soprattutto bisogna ridurre il debito dello Stato
Ma, alla fine, per questi difetti deve essere avversata e respinta in toto, oppure – anche da chi sta all’opposizione – va accettata e votata in nome dell’interesse nazionale visto che si tratta pur sempre del principale strumento con cui l’Italia contribuisce a respingere l’attacco speculativo all’euro e, di conseguenza, ai propri titoli di Stato? La risposta più saggia credo che sia: se la maggioranza, come sarebbe ragionevole, accetta contributi costruttivi tesi al suo miglioramento, la manovra va responsabilmente votata. Ad una condizione, però: che parallelamente sia subito posta la questione delle riforme strutturali, quelle da fare – per ridare competitività al sistema economico e produttivo, per rilanciare gli investimenti e per ridisegnare il welfare – e quelle da smontare, come il federalismo. Ma non c’è da aspettarsi che la proposta venga dal governo e dalla maggioranza, altrimenti lo avrebbero già fatto in questi primi due anni di legislatura o quantomeno nei due mesi che ormai ci separano dalle elezioni
È un’occasione d’oro, per il bene del Paese e per preparare il passaggio alla Terza Repubblica. Cerchiamo di non farcela scappare. (www.enricocisnetto.it)
rafforzamento dell’asse fondativo del Pdl possa bastare a tenere in piedi il governo.
A riprova che la strada è assai impervia va citato anche l’intervento del cardinale Bagnasco che all’assemblea della Cei torna sul federalismo: «Salvaguardi l’unità del Paese e la crescita solidale di tutte le sue parti». Come si fa a coniugare tre esigenze diverse come il rigorismo imposto dalla crisi, l’ansia lumbàrd per la riforma federalista e le sollecitazioni che arrivano dalla Chiesa per politiche più solidali? Proprio un moderato del Pdl come Formigoni oltretutto lancia l’allarme più serio, dal punto di vista del Cavaliere: «Con i tagli annunciati le risorse per il federalismo non ci sono», dice il governatore lombardo a Repubblica. Vacilla la ragione sociale dell’attuale maggioranza. Non a caso il presidente del Consiglio, in un’intervista con Maurizio Belpietro a Mattino 5, si preoccupa innanzitutto di escludere «rallentamenti» sulla riforma cara a Bossi. È sufficiente come garanzia? Non sembrerebbe. Dalla Lega raccontano di un Senatùr «allarmato». Sia per le ricadute della crisi sia «per l’ostilità registrata nel Pdl, soprattutto tra i finiani». E Tremonti? Non basta lui a tranquillizzare Umberto? «Prima del default greco il ministro ripeteva che proprio il federalismo ci avrebbe fatto uscire dalle difficoltà. Dopodiché non ha pronunciato più una parola sull’argomento», fanno osservare fonti interne al Carroccio. I rapporti tra Bossi e il ministro dell’Economia «sono sempre buoni», confermano, «e nessuno mette in discussione la buonafede di quest’ultimo: ma il timore dello stesso Bossi è che stiano venendo a mancare i presupposti». Ammissioni fatte in forma riservata. Perché pubblicamente invece i due neogovernatori lumbàrd Roberto Cota e Luca Zaia si dichiarano soddisfatti dalle frasi del premier: «Il federalismo si farà, non solo non costa niente ma è proprio quella riforma strutturale invocata da Confindustria», secondo il presidente piemontese. Intanto però Berlusconi sente il bisogno di ridimensionare anche l’allarme di Emma Marcegaglia: «Suggerisco di leggere la manovra con maggiore attenzione, ci sono novità strutturali proprio in chiave di sviluppo, dai contratti di produttività alla fiscalità di van-
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L’Upi si dichiara tranquilla per le rassicurazioni ricevute
Tutte le Province minuto per minuto
Continua il giallo degli enti cancellati: il premier dice di no, ma nella bozza l’abolizione c’è di Franco Insardà
ROMA. Il giallo si infittisce ora dopo ora e
Malgrado gli abbracci, sarebbe in fredda i rapporti tra Bossi e Berlusconi. Colpa delle tensioni sul federalismo. Nella pagina a fronte, il centrista Pier Ferdinando Casini taggio per il Sud». Difficile negare che attorno all’esecutivo l’aria si sia fatta meno serena. Non avrà tratto certo incoraggiamento, il Cavaliere, dal sondaggio di Swg che dà in crescita la fiducia per Tremonti e in calo quella per il governo nel suo insieme. Oltretutto da una delle poche sponde rimastegli, quella finiana, Berlusconi registra sollecitazioni per introdurre in manovra più incentivi alla crescita: «Presenteremo emendamenti per il taglio di ulteriori sprechi e per favorire la ripresa economica», annuncia Italo Bocchino attraverso il sito di Generazione Italia, «le riforme strutturali non sono più rinviabili, si possono trovare risorse dall’eliminazione di altri enti inutili e da scelte diverse sulle municipalizzate: 25mila poltrone nelle società a controllo pubblico sono uno scandalo, ha ragione la Marcegaglia».
Si sa che delle utilities la Lega è molto gelosa: nei piani di Bocchino evidentemente sono messe in conto anche le inevitabili tensioni con l’alleato. D’altra parte è il premier ad annunciare di aver accolto un suggerimento di Fini non esattamente condiviso da Bossi: sul federalismo, dice, «abbiamo deciso di varare una commissione
all’interno del Pdl che concluderà il suo esame entro l’estate». Scelta necessaria «per non lasciare spazio a retropensieri». A Mattino 5 il presidente del Consiglio non dice di quali retropensieri si tratti. Nei giorni scorsi però, tra le tante voci smentite, ne sono circolate anche su presunti sospetti di Palazzo Chigi per i tagli eccessivi: forzature con cui, secondo qualche fonte della maggioranza, Berlusconi pensa che Tremonti voglia accantonare un tesoretto utile a coprire i costi del federalismo. Quale migliore strumento per accertarlo che la commissione chiesta da Fini? E d’altronde, come suggerisce un berlusconiano di rango, «l’intesa con Gianfranco consente a Silvio di trattare con uno solo anziché con le varie sottocorrenti dell’ex An». Anche questa è una svolta. E dalle parti della maggioranza non pare l’unica.
bozza dopo bozza. L’ormai famoso comma 12 dell’articolo 5 della manovra che prevede la soppressione delle Province con meno di duecentoventimila abitanti, è il più gettonato. Tutti gli interessati, e sono tanti, ormai lo recitano a memoria e sperano che quando si arriverà alla versione definitiva non ci sia più. «Mi fido delle parole del presidente Berlusconi - dice a liberal il presidente dell’Unione province italiane Giuseppe Castiglione - non abbiamo avuto mai eccessive preoccupazioni. L’articolo 12 è scomparso dalla bozza della manovra e nel testo definitivo non ci sarà. Mi è stato riferito dal sottosegretario Letta che in Consiglio dei ministri si è parlato della Carta delle Autonomie per affrontare la questione della riorganizzazione delle Province. E questa è esattamente la nostra posizione, anche perché abolirne alcune non produrrebbe un risparmio immediato, ma differito alle prossime elezioni. Molti non conoscono neanche le tante competenze delle Province. Difendiamo le nostre funzioni e siamo, tra l’altro, gli unici che hanno già ridotto le spese e il numero di consiglieri e assessori. Due anni fa, quando sono diventato presidente della provincia di Catania, ho nominato nove assessori invece di quindici. Lezioni non me ne faccio dare da nessuno».
ri enti locali». Anche in questo caso la soglia sarà il numero di abitanti previsto in duecentoventimila e le province “sacrificate” saranno Biella, Vercelli, Fermo, Ascoli Piceno, Massa Carrara, Rieti, Matera, Isernia, Crotone e Vibo Valentia.
Secondo Gian Luca Galletti, responsabile economia dell’Udc, «il disegno è chiaro: le Province usciranno rafforzate e nello stesso decreto legislativo sul federalismo demaniale hanno un ruolo importante. Della manovra ho visto tre bozze una diversa dall’altra, parlare di abolizione delle Province e prevederne la soppressione soltanto di dieci è una semplice operazione di facciata. Sta diventando imbarazzante continuare a ragionare su una manovra fantasma. È preoccupante che anche quelle poche manovre strutturali, come il tanto sbandierato taglio delle Province, siano sparite come in un gioco di prestigio». A dimostrare, se ce ne fosse stato bisogno, l’interesse della Lega per le province ci ha pensato il presidente del Veneto Luca Zaia: «Questo governo ha a cuore la sorte delle Province, prova ne sia che non c’è alcuna ipotesi di eliminazione». Anzi Giuseppe Castiglione sostiene che «è stato chiarito, e non solo dall’Upi ma anche da governo e da buona parte del Parlamento, che inserire l’abolizione delle Province nella manovra non fosse possibile, sia perché il procedimento non avrebbe prodotto alcun risultato in termini di risparmi economici, sia perché il dettato costituzionale non lo permette. Stiamo dando il nostro contributo alla Carta delle Autonomie locali, il cui iter di approvazione alla Camera procede speditamente, e contiene norme che porteranno alla rivisitazione delle circoscrizioni provinciali, definendo l’area vasta, le città metropolitane oltre che alla soppressione di tanti enti inutili che generano sprechi e creano burocrazia». Lo stesso Castiglione ha replicato al segretario della Cisl Raffaele Bonanni secondo il quale «è sbagliato non abolire le Province perché da qui potrebbe partire il vero federalismo». Il presidente dell’Upi ha detto di non comprendere «le ragioni di tanta apprensione» e ha invitato Bonanni «ad aprire un confronto con noi su questo tema». Intanto quelle che continuano a dormire sonni tranquilli sono le 8 province della Sardegna (Cagliari, Sassari, Oristano, Nuoro, Olbia-Tempio, Ogliastra, Carbonia-Iglesias e Medio Campidano) che proprio domani e lunedì dovranno rinnovare i loro consigli.
Donato Bruno: «Giovedì spero di leggere il decreto firmato da Napolitano». Galletti: «È imbarazzante ragionare su una manovra fantasma»
Più realista Donato Bruno, presidente della Commissione Affari costituzionali della Camera, che chiarisce: «Ho rinviato a giovedì la riunione della commissione per poter avere la possibilità di leggere il decreto augurandoci che per quella data venga pubblicato, dopo la firma del presidente della Repubblica. Solo allora si potrà stabilire se la norma, prevista dall’articolo 14, per il riordino delle Province dovrà essere contenuta nella Carta per le Autonomie o meno. Sicuramente saranno meglio specificate le funzioni delle Province e i rapporti tra i va-
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l’approfondimento
Basta entrare nelle pieghe del provvedimento del governo per capire l’entità della stretta alle amministrazioni
Regioni & Torti
Davvero i governatori saranno costretti a tagliare sanità, trasporti e sicurezza? Loro (anche quelli di centrodestra) dicono di sì. E scendono sul piede di guerra puntando a un risarcimento: i trasferimenti del federalismo… di Francesco Pacifico
ROMA. E se d’incanto la manovra da 24 e più miliardi lievitasse fino a 36 miliardi di euro? Il dubbio serpeggia al Pirellone come a Palazzo d’Orleans, alla Pisana come a Ca’ Balbi, nelle Regioni ricche come in quelle commissariate per i buchi della sanità, visto che si scaricano su questi enti i maggiori oneri – per la cronaca 14 miliardi nel prossimo biennio – necessari a sistemare la finanza pubblica.
Tutta colpa di una frase di Giulio Tremonti al vertice di mercoledì scorso, fatto sta che i governatori aspettano di leggere la relazione tecnica della manovra per capire se dopo la prima sforbiciata da 12 miliardi per il 2011, i successivi 12,9 per il 2012 vadano calcolati su un monte di spesa già defalcato del primo taglio.Va da sé che se le cose stessero in questo modo, il conto definitivo salirebbe a 36 miliardi, con un conseguente sforzo per i governatori di 21 miliardi. Complice le celebrazioni della festa delle Repubblica, le Re-
gioni sperano di essere convocate dal governo entro due settimane. Ma le voci incontrollate sull’entità della manovra la dicono lunga sia della fiducia che i governatori nutrono in Tremonti sia della dialettica tra il centro e la periferia del Paese. Che sulla direttrice verso via XX settembre è inesistente. Difficilmente i rapporti potrebbero essere diversi vista l’entità della partita. E dei tagli. Perché in gioco non ci sono soltanto quelli previsti dalla manovra (4,5 miliardi sulle materie trasferite dalla Bassanini e altri 2,5 da stringere sul patto di stabilità). Sullo sfondo ci sono il prossimo decreto sul federalismo fiscale, quello sul trasferimento tributi, la riforma della ripartizione del fondo sanitario nazionale e, soprattutto, il passaggio da costi storici a standard nel computo della spesa. Va da che sé che i governatori che cedono sulla Finanziaria presenteranno “richiesta di risarcimento” sugli altri fronti. Con il conto che rischia di esse-
re salato per il governo centrale, visto che soltanto il fondo sanitario nazionale ha toccato nel 2009 quota 103,7 miliardi di euro. Altrimenti sarà esercitato il potere di veto in Conferenza Stato-Regioni. Non a caso ieri ha forzato la mano su questi punti Roberto Formigoni. E non soltanto perché, da leader della prima Regione italiana dovrà rinunciare a oltre tre miliardi di euro, senza dimenticare il veto dell’esecutivo (da parte di Tremonti se non dallo stesso Berlusconi) al-
Per il via libera gli enti locali chiedono cambi al testo della riforma
la sua elezione a presidente della Conferenza delle Regioni. Il governatore lombardo oltre a chiedere di estendere il taglio del 10 per cento a «tutti i livelli della Repubblica» – cosa che di per sé ridurrebbe il conto per le Regioni – ha anche messo in dubbio il dogma sul quale si fonda l’asse del Nord tra Bossi e Tremonti. E di riflesso lo stesso governo. «Questa manovra», ha detto in un’intervista a Repubblica, «mette a forte rischio il federalismo fiscale». Dalla regione Lombardia spiegano che tagliando i finanziamenti per le materie delegate dalla Bassanini (innanzitutto assistenza sociale, trasporti, incentivi alle imprese, e turismo) finisce a rischio un monte risorse da 4,5 miliardi, che doveva costituire il primo fondo per attuare il federalismo fiscale. Lo stesso timore è sentito dal ministro per la Semplificazione, Roberto Calderoli. Il quale, per evitare strascichi al processo federale, ha fatto non poca fatica a inserire negli articoli della manovra clausole di sal-
vaguardia ogni qualvolta si parla di tagli alle Regioni.
L’esponente leghista ieri ha voluto rassicurare «i governatori che ancora non hanno potuto leggere il testo definitivo, che i trasferimenti che dovranno essere fiscalizzati per realizzare l’autonomia impositiva delle Regioni, prevista dalla legge 42 sul federalismo fiscale, non dovranno tenere conto del taglio previsto dal decreto legge e quindi resteranno gli stessi di prima». In verità la delega sul federalismo fiscale dice che vanno garantiti al 100 per cento dallo Stato centrale soltanto i trasferimenti per sanità, ambiente, giustizia,istruzione e sicurezza. Va da sé, come spiegano dal governo, «che il confronto tra Palazzo Chigi e Regioni si concentrerà sulla flessibilità con la quale applicare le clausole di salvaguardia. Il timore è che anche questa volta ci troviamo di fronte a tagli lineari che colpiscono gli investimenti e non gli sprechi. Lavorando più su questo fronte, la
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Nel duello a colpi di fioretto ci sono due concezioni differenti dello Stato
Tra il Cavaliere e Tremonti un vero contrasto di strategie Il dissidio tra il premier e il ministro non riguarda solo i ruoli di governo. Ma anche le rispettive “ideologie”. Sia economiche sia politiche di Francesco D’Onofrio ono state svolte molte considerazioni sul rapporto tra il Presidente Berlusconi e il Ministro Tremonti alla luce soprattutto della conferenza stampa nella quale essi hanno illustrato la manovra finanziaria dei ventiquattro miliardi di euro in due anni. È ben comprensibile che vi siano approfondimenti specifici sui rapporti tra l’uno e l’altro e più in generale sulle condizioni attuali del centro-destra. Ma non si tratta soltanto di fatti personali, perché è opportuno rilevare soprattutto alcuni aspetti per così dire di struttura politico-costituzionale che risultano essere stati evidenti in questa vicenda della manovra finanziaria più che in altri episodi degli ultimi tempi. Si tratta infatti dell’Italia in quanto tale, del contesto europeistico nel quale essa è inserita e di quello più largo della globalizzazione non solo atlantica. Si è infatti da gran tempo affermato che nel processo di costruzione dell’unità europea si sono andate progressivamente sbiadendo alcuni specifici aspetti della sovranità nazionale italiana senza che si sia purtuttavia giunti ad una vera e propria sovranità politica e democratica europea. Siamo in qualche modo in una fase storica di passaggio dalle vecchie sovranità degli stati nazione dell’Ottocento al nuovo contesto europeo che non è ancora confederale, pur avendo assistito alla nascita di una moneta unica – l’euro – che definisce quella strana figura istituzionale chiamata l’«eurozona». In questa situazione l’Italia è da una parte un vecchio Stato nazione e dall’altra un partner essenziale dell’eurozona: dal primo punto di vista pertanto conta soprattutto il rapporto tra popolo e governo, rapporto tipico degli stati nazione dell’Ottocento, e dall’altro punto di vista occorre valutare che non vi è un rapporto tra popolo europeo ed euro, ma un complicatissimo rapporto tra l’eurozona, i mercati finanziari e i governi nazionali.
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In questo contesto è come se l’Italia fosse contemporaneamente sovrana per un verso e commissariata per altro verso: questo sembra il punto nodale del rapporto tra il presidente del consiglio che vive una stagione di sovranità nazionale e il ministro del tesoro del governo italiano che vive invece la stagione del
commissariamento dell’Italia da parte dell’Europa. Dal punto di vista della sovranità nazionale è di tutta evidenza che risulta essenziale il rapporto fra il popolo italiano e il suo governo, presidente del Consiglio dei ministri innanzitutto; dal punto di vista del commissariamento da parte dell’eurozona occorre capire invece che sono estremamente ridotti i margini per una decisione finanziaria autenticamente nazionale. In termini di cultura istituzionale e politica questa situazione pone ulteriormente in evidenza l’insufficienza dell’affermazione ripetutamente svolta in virtù della quale l’Italia si troverebbe già in una sorta di democrazia elettorale, nella quale il rapporto diretto tra il popolo e il capo del governo nazionale costituisce legittimazione non solo democraticamente necessaria ma anche sufficiente a governare l’Italia anche nell’attuale situazione storica. Questa affermazione non è invece da condividere quanto meno per quel che concerne la legittimazione europea a governare, come la recentissima vicenda della manovra finanziaria del ventiquattro miliardi di euro dimostra.
Abbiamo infatti appreso che non si tratta di una manovra decisa per autonoma valutazione economico-finanziaria nazionale, ma di una manovra in qualche modo “imposta” dall’Europa, per tale intendendosi quanto meno l’eurozona. Manovra finanziaria dunque imposta all’Italia dal contesto europeo che ha deciso – questa volta in termini molto significativi – il se ed il quanto della manovra medesima. Ma non anche il come. Questo è il punto nel quale
entrano in gioco i diversi modi di intendere da un lato la sovranità nazionale e dall’altro il contesto degli interessi economici fondamentali della nostra comunità nazionale. In breve si tratta di decidere ancora una volta quale è l’idea di Italia che si ha in mente: si tratta di un soggetto nazionale unitario, anche se destinato a sperimentare una articolazione federalistica, o si tratta di fatto di più entità territoriali che convivono in attesa di dividersi proprio a seconda del diverso modo di raccordarsi al contesto europeo? Si tratta in particolare di decidere se l’Italia subisce soltanto o condivide anche il come della manovra finanziaria che ad oggi sembra tutta orientata a comprimere lo stato sociale, che ha rappresentato per molti anni una specifica differenza di quella che chiamavamo l’Europa occidentale rispetto agli Stati Uniti d’America.
Chi ritiene che occorre un nuovo equilibrio tra economia sociale di mercato e mercato in quanto tale potrebbe essere portato a considerare doverosa la manovra finanziaria perché imposta dall’eurozona ma non anche a votarla per come è nelle sue conseguenze sull’economia sociale di mercato ecologicamente compatibile. La scelta che sembra imposta dai mercati globalizzati nel senso di una riduzione drastica del debito pubblico può essere considerata una scelta necessaria per consentire all’eurozona di affrontare i mercati finanziari mondiali in termini di maggiore affidabilità monetaria. Ma si tratterebbe in tal caso di una scelta nella quale le conseguenze della depressione economica dell’intera area dell’eurozona entrerebbero in rotta di collisione con le scelte dell’attuale governo statunitense di Barack Obama, orientate come sono ad operare più nel senso dello sviluppo largo dell’economia statunitense che non dei limiti rigorosi del disavanzo pubblico medesimo. Rigore economico finanziario da un lato e possibilità di sviluppo dall’altro sono pertanto due perni del problema che consegue alla partecipazione dell’Italia al processo di integrazione europeo: si tratta di una grande questione di politica non solo finanziaria, sulla quale sono in gioco non solo i rapporti tra Berlusconi e Tremonti, ma più in generale i rapporti tra la cultura dell’economia sociale di mercato e la sudditanza supina agli orientamenti del mercato mondiale.
manovra potrebbe essere modulata meglio, salvaguardando però i saldi». Stando ai paletti imposti dal nuovo Patto per la salute, l’ultima Finanziaria non può toccare i bilanci per la sanità. Ma siccome non tutte le Regioni possono toccare le addizionali su Irap e Irpef, i tagli da 14 miliardi di euro rischiano di tramutarsi in minori servizi nel campo dell’assistenza agli anziani, trasporti e incentivi alle imprese. «Senza contare quelli su materie già delegate ai Comuni», fanno notare dal Pirellone, «come in materia abitativa».
Eppure da queste voci a quella della sanità il passo è breve. Spiega il tributarista Gilberto Muraro: «Il bilancio è unico e siccome la parte sanitaria occupa l’80 per cento dei budget, è lì che si andrà a finire». Secondo l’economista padovano che in passato ha diretto la commissione per la spesa pubblica, «questi tagli sono necessari. Ma sono stati decisi senza alcuna discussione preventiva – e con un metodo che indica un centralismo opposto agli obiettivi delle autonomie – finirà con lo spingere le Regioni ad aumentare le addizionali e a introdurre i ticket». Se questo è lo scenario, allora gli enti più colpiti dalla manovra non potranno che chiedere un risarcimento su questo sanitario. Iniziando dai Fas per ripianare i loro deficit sanitari. Questa facoltà, concessa dall’ultimo patto della Salute, è stata congelata nelle scorse settimane per tutte le Regioni commissariate (Lazio, Campania, Calabria e Molise). Ma come ricorda Raffaele Calabrò, senatore del Pdl e soprattutto principale consulente del governatore campano Caldoro, «all’ultimo tavolo di monitoraggio trimestrale sulla spesa il ministro Fazio nella nota finale non è stato precluso l’utilizzo dei Fas se le Regioni commissariate possono avvalersi di un piano di rientro nel quale è centrale una riorganizzazione delle attività ospedaliere». Ma se l’obiettivo del governo è incentivare la despedalizzazione, centrali saranno le trattative sulla definizione dei nuovi costi standard (ieri Calderoli ha promesso di presentarli a fine giugno) e della nuova ripartizione del fondo sanitario. Sul primo versante le Regioni del centro e quelle del Sud vogliono che i quozienti non siano calcolati guardando soltanto alle Regioni più virtuose come Lombardia, Emilia-Romagna o Toscana. Sull’altro, si chiede che nella ripartizione del fondo sanitario non valgano soltanto i criteri di anzianità della popolazione, ma anche gli investimenti da fare sul versante delle attrezzature e le diverse patologie da affrontare. Se il governo sarà disponibile ad autorizzare questi cambienti, allora per le Regioni il conto da 14 miliardi sarà meno salato.
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il personaggio della settimana L’operazione-tagli è stata “ispirata” dal ministro Tremonti ma poi scritta da un tecnico...
Il vero manovratore È Mario Canzio, il ragioniere generale dello Stato. Nel 2005 sostituì Vittorio Grilli che si era scontrato con Berlusconi. «Sono un artigiano dello Stato», dice di sé. Ma è lui che tiene i cordoni della borsa di Alessandro D’Amato ui ama definirsi un “artigiano dello Stato”. Forse con un pizzico di modestia di troppo, per uno che ha lavorato con trentasei governi. Eppure Mario Canzio è fatto così: anche quando è stato nominato diciannovesimo Ragioniere generale dello Stato, al posto di quel Vittorio Grilli che non aveva tantissimi estimatori nel governo Berlusconi, non ha stappato bottiglie di champagne. Perché è un tipo estremamente tranquillo: gli piace lavorare, per parafrasare il titolo di un film di successo, e non dare troppa mostra di sé. Questo ha fatto anche in occasione dell’ultima manovra economica che il suo ministro, Giulio Tremonti, ha varato, si dice, con la sua assistenza (qualcuno, che forse non conosce bene il carattere deciso del titolare di via XX Settembre, osa dire addirittura “regìa”). Perché in effetti, vista l’attenzione con cui i tecnici sono andati a tagliare e rammendare le pieghe del bilancio dello Stato, si può ragionevolmente pensare che questa sia una manovra molto più “tecnica” che politica; quella che farebbe qualcuno che le “carte” le conosce a menadito. Uno come Mario Canzio, insomma. Nato a Salerno il 16 marzo del 1947, sposato e con due figli, si lau-
L
rea a 23 anni in economia e commercio a Napoli e nel 1972 entra a far parte del personale del ministero del Tesoro.Tredici anni con la qualifica di funzionario e poi, nel 1985 la nomina a dirigente coordinatore dell’Ispettorato Generale del Bilancio; nel 1998 diventa dirigente generale del Bilancio, e due anni dopo capo dell’Ispettorato Generale per gli Affari Economici. Il grande salto arriva nel 2005: con la nomina a Ragioniere generale arriva a capo di una struttura che, dice il sito internet, si occupa della «predisposizione del bilancio di previsione e del rendiconto generale (bilancio consuntivo) dello Stato, della tenuta della contabilità, della vigilanza sulla spesa pubblica - in particolare degli agenti contabili - e dell’accertamento delle entrate. Riveste inoltre compiti di vigilanza sull’attività finanziaria e contabile degli enti pubblici e degli enti locali (attraverso l’esame degli atti deliberativi degli enti stessi, tramite ispezioni o a mezzo di propri revisori). La Ragioneria Generale dello Stato inoltre monitora la spesa concernente il pubblico impiego, opera previsioni, stime e proiezioni correlate con le proposte legislative del governo». «Alla guida – prosegue il sito internet - è preposto il Ragioniere generale dello Stato che viene nominato dal Governo su proposta del Ministro dell’Economia e delle Finanze. Il Ragioniere Generale dello Stato è la figura che assicura l’unità di indirizzo e il coordinamento delle attività della Ragioneria Generale e del sistema delle Ragionerie da essa dipendenti. Egli ha inoltre la personale responsabilità per l’esattezza e la prontezza delle registrazioni contabili e per l’efficace servizio del riscontro contabile su tutta l’amministrazione dello Stato. Ha anche funzioni consultive per il Ministro dell’Economia e delle Finanze relativamente alla predisposizione di provvedimenti in materia di contabilità».
Un ruolo di altissima qualifica, con ventimila dipendenti, cinque direzioni generali, ma anche uffici che sono una galleria di ritratti illustri, dal mi-
tico Quintino Sella a Carlo Azeglio Ciampi, oltre alla gestione di un portafoglio di aziende dove figurano ancora rilevanti partecipazioni dell’ Eni e dell’ Enel. Ma soprattutto il timone – tecnico – della politica economica. Chi ha in mano la Ragioneria, ha in mano i rubinetti della spesa pubblica, può dire sì o no al presidente del Consiglio in persona, può negare a ministri e deputati il finanziamento di provvedimenti e iniziative legislative parlamentari. Può diventare, in momenti nei quali la politica ufficiale latita o i suoi rappresentanti non hanno le necessarie conoscenze tecniche, anche più importante del ministro. Oppure può esserne la controparte. Grilli, di dieci anni più giovane di Canzio, veniva spesso accusato di mettersi troppo di traverso, quando nel 2005, da rappresentante dei cosiddetti Ciampi Boys, venne sostituito dall’attuale Ragioniere e se ne andò al Tesoro a fare il direttore generale. Sembrò quasi una liberazione, per quei giornalisti che spesso rincorrevano voci che fosse sull’orlo delle dimissioni, per i contrasti con gli altri ministri del governo Berlusconi.
E per quelli con il premier. Grilli forse passerà alla storia per aver inventato il primo decreto taglia-spese, quello che faceva scattare una sorta di ghigliottina automatica sui capitoli di bilancio. Le cronache dell’epoca però lo ricorderanno soprattutto per l’epico litigio che lui e Siniscalco ebbero con Berlusconi quando dovettero spiegargli che le risorse per finanziare il «secondo modulo» della riforma Irpef - uno dei cavalli di battaglia elettorali del Cavaliere, che veniva sbandierata ogni volta che si sentiva odore di elezione - non c’ erano. Solo dopo un lungo braccio di ferro furono trovate: ma si dovette ricorrere al condono edilizio e all’aumento delle marche da bollo. Un precedente rimasto nella memoria degli uomini di Forza Italia. E anche in quella di tanti ex-An, fra i quali ce n’era qualcuno che si faceva scappare ad alta voce qualche brutto pensiero su una non-neutralità ormai conclamata del Ragioniere. Meglio
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Un esperto di conti, premiato al merito Mario Canzio è nato a Salerno, 16 marzo 1947. Nel 1970 si è laureato in Economia a Napoli e nel 1972 è entrato al Ministero dell’Economia dove è sempre rimasto fino a quando è diventato Ispettore generale per gli affari economici della Ragioneria. Il 20 maggio 2005 è stato nominato Ragioniere generale dello Stato a seguito di deliberazione del Consiglio dei ministri, in sostituzione di Vittorio Grilli. Attualmente, è il 19° Ragioniere generale dello Stato italiano dal 1870, quando la carica fu istituita. nel 2009 è stato insignito dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana, una riconoscenza riservata a cittadini che abbaino dimostrato onestà, produttività, impegno e attaccamento al loro Paese.
cambiare, si sentiva ripetere soprattutto alla destra del Cavaliere.
Per questo, quando Mario Canzio arriva alla poltrona più alta, su Repubblica si scrive chiaro e tondo che «non a caso durante la riunione del governo un ministro di An avrebbe salutato l’ arrivo di Canzio con la seguente battuta: “Con lui faremo la Finanziaria di cui abbiamo bisogno”». E così si descrive l’attuale Ragioniere: «Alla scrivania che fu di Andrea Monorchio arriva invece Mario Canzio. Un cinquantenne che conoscono solo gli addetti ai lavori per averlo intravisto in Parlamento durante le lunghe trafile per l’ approvazione delle leggi Finanziarie. Canzio è un uomo di struttura, cresciuto professionalmente dentro la Ragioneria: uno di quelli che nel gergo degli uffici viene definito un “bilancista”. Della scuola di Monorchio lo è e per un periodo è stato anche capo della segreteria del “decano” dei Ragionieri generali. Difficile decifrare le sue simpatie politiche: ma certamente il nulla osta alla sua nomina è giunto dai partiti della maggioranza ed è noto che An ha avuto rapporti assai conflittuali con Grilli». Canzio, si suggerisce, per anni, è stato incaricato dalla Ragioneria a seguire i preconsigli, le riunioni preparatorie del Consiglio dei ministri. Era l’ uomo delle bollinature, insomma. Mentre si ricorda che Grilli va a lavorare con Siniscalco, che con lui si è sempre «trovato molto bene». Forse proprio per questo dettaglio nel settembre dello stesso anno darà le sue dimissioni, schiudendo le porte al ritorno di Giulio Tremonti nell’esecutivo giusto in tempo per la lunga campagna elettorale che precederà la sconfitta del 2006. E per un’esperienza professionale forse irripetibile (ma mai dire mai, nella politica italiana), ovvero quella di dover scrivere due finanziarie nel giro di quindici giorni, prima con Siniscalco e poi con Tremonti: “Beato lui che è contento”, dicevano scherzando i funzionari di Palazzo Chigi che lo vedevano uscire a notte fonda con i faldoni della trava-
gliata Finanziaria 2006 sotto il braccio, pronto a fare la spola con via XX Settembre; senza apparentemente nemmeno rendersi conto che lo stava facendo di nuovo a quindici giorni di distanza dall’ultima volta che lo aveva fatto. Non sembrava gli costasse nessuna fatica: “Gli piace lavorare, si vede”, diceva qualcuno.
Eppure, già qualche mese prima dell’addio di Siniscalco, Canzio aveva firmato il primo atto da Ragioniere per niente “organico”, come speravano che fosse alcuni all’epoca: una contestazione all’appena varata legge Maroni
miare 1042 milioni di euro, ma di questi la parte relativa al bonus resta a questo punto incerta. Nei giorni scorsi l’Inps parlò di «frenata» delle pensioni di anzianità e individuò la causa nel bonus, o superbonus. In realtà la riduzione delle uscite in anzianità nel primi trimestre dell’ anno è fisiologica e dovuta all’ aumento dei requisiti contributivi intervenuta nel 2004 tant’ è che quest’ anno si prevede che vadano in anzianità 70 mila individui contro i 125 mila del 2004». Insomma, un chiaro invito alla prudenza che proveniva proprio da quell’uomo che si pensava dovesse essere il “Signor
Allievo di Andrea Monorchio, gestisce un colosso con ventimila dipendenti. Ma soprattutto può dire di no anche al premier che consentiva di rimanere al lavoro grazie al «superbonus». Per la Ragioneria, scriveva sempre Repubblica, il «superbonus ha un effetto assai limitato giacché, dice una lettera ufficiale del 15 giugno 2005 inviata al ministero del Welfare, l’84 per cento delle domande accolte si riferisce a soggetti che già stanno posticipando la pensione, “in quanto riguarda lavoratori che avrebbero potuto accedere al pensionamento prima della data della presentazione della domanda”. Con quali effetti? Il primo è che i risparmi del bonus sono in dubbio. La previsione di prestazioni istituzionali avrebbe dovuto far rispar-
Sì”, in contrapposizione con quel “Signor No” di Grilli.
Quando al ministero arriva Tommaso Padoa Schioppa, poi, le cose parrebbero complicarsi. Perché, si racconta, Canzio non è per nulla simpatico a Vincesco Visco, che di Tps fa il vice senza nascondere che avrebbe voluto averne il posto. In più Prodi, al momento dell’avvicendamento al vertice della Ragioneria, aveva detto che quella di dare a Canzio il posto di Grilli era una scelta “sbagliata”. Ma alla fine succede quello che nessuno si aspetta che succeda: niente. Sia lui
che Grilli rimangono dove sono, perché godono della piena fiducia del ministro. Salvo che accanto a lui, alla prima audizione alle commissioni Bilancio di Camera e Senato c’è Canzio, e non Grilli. Il quale Canzio rimane al proprio posto anche quando torna Tremonti, con Berlusconi a Palazzo Chigi. Anzi, proprio a Berlusconi Canzio chiede in pubblico, durante un’audizione parlamentari, «maggiori fondi per la sua struttura» dato che i continui tagli alla spesa pubblica hanno «ridotto del 30-40% le disponibilità della stessa Ragioneria che ora si trova in difficoltà per far fronte ai suoi compiti istituzionali». Il riferimento è alla famosa banca dati sui bilanci degli enti locali, snodo fondamentale per calcolare i costi del Federalismo, per la quale mancano i fondi e che la Ragioneria si candida a gestire.
E dice anche di più: ricorda che sarebbero necessari controlli su alcuni organismi pubblici che assorbono circa 18 miliardi di euro senza dover rendere conto a nessuno. È il caso delle agenzie fiscali, delle Authority, delle Università oltre alla presidenza del Consiglio, del Parlamento e della Corte dei Conti «che, pur ricevendo risorse dallo Stato, non sono attualmente soggette a forme di vigilanza e di conoscenza». Che coraggio: ma non era soltanto l’«uomo delle bolli nature»? Nel 2009 Gianni Letta consegna i diplomi dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana a cittadini che hanno dimostrato onestà, produttività, impegno e attaccamento al loro Paese. Tra i premiati, insieme a Pesenti e Faissola, c’è anche Mario Canzio. Ma dell’onoreficenza non c’è traccia nella sintetica biografia che compare sito internet della Ragioneria. Forse si sarà dimenticato di farla aggiornare. Magari era troppo impegnato a guardare nelle pieghe del bilancio, per vedere se si può risparmiare ancora qualcosa, tagliando qua e là. D’Altronde, è questo il dovere di un «artigiano di Stato».
diario
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Polemiche. Ancora tensioni sulla ”legge-bavaglio” che lunedì arriverà in discussione in Aula al Senato
Intercettazioni, si cambia
Undici emendamenti Pdl, ma la vera partita sarà sulla riforma della giustizia ROMA. «Realizzeremo con la nostra maggioranza sia la riforma fiscale che quella sulla giustizia, se l’opposizione dovesse sprecare l’opportunità di un approccio costruttivo e responsabile», aveva proclamato Silvio Berlusconi.Ma a dimostrazione di quanto siano precari gli attuali equilibri della maggioranza, che infliggono al premier l’amara sensazione di sentirsi un Duce dimezzato, sono apparsi sul sito del Pdl al Senato gli undici emendamenti presentati dal centrodestra al ddl intercettazioni. La prima proposta di modifica prevede la possibilità di pubblicare gli atti delle indagini “per riassunto“. In un’altra è vietata la pubblicazione anche parziale, per riassunto o nel contenuto delle intercettazioni, anche se non più coperte dal segreto fino alla conclusione delle indagini preliminari. Anche in questo caso è vietata la pubblicazione anche parziale, per riassunto o nel contenuto, delle ordinanze emesse in materia di misure cautelari. Stesso divieto vale anche per le richieste di tali misure. Si potrà pubblicare il contenuto solo dopo che l’indagato o il suo difensore siano venuti a conoscenza dell’ordinanza del giudice. Resta sempre vietata la pubblicazione delle intercettazioni di cui sia stata ordinata la distruzione o che riguardino fatti, circostanze e persone estranee alle indagini. margine della manifestazione. Regna grande confusione, insomma, ma questo potrebbe essere nient’altro che l’aperitivo di un caos se possibile più devastante. La prossima riforma della giustizia annunciata da Alfano,
di Francesco Lo Dico
sono ancora costretti a fare plichi e raccomandate, operazioni che debbono essere ripetute anche per sei o sette volte con notevole spreco di tempo e denaro. Altro punto da cui ripartire per riorganizzare la giustizia sarebbe l’eliminazione dei tribunali inutili, che producono poco e insistono su bacini molto limitati di cinquanta o sessantamila persone». Ma da Michele Vietti, capogruppo dell’Udc in commissione Giustizia, arriva un distinguo: «Prima di ragionare su qualunque tipo di riforma, bisogna abbandonare la prospettiva massimali-
Una delle nuove norme autorizza a pubblicare i contenuti ma solo dopo che l’indagato sia venuto a conoscenza dell’ordinanza del giudice preoccupa non poco. Ma che cosa occorre fare se davvero, come annunciato dal guardasigilli, l’obiettivo è ridare velocità alla macchina giustizia? «Dare nuovo impulso al sistema – spiega il segretario dell’Anm, Giuseppe Cascini – significa innanzitutto eliminare tutte le troppe facilitazioni a disposizione di quanti intendono ritardare i tempi del giudizio. E intervenire in secondo luogo su molti orpelli inutili come il sistema ancora in uso per le notifiche del processo penale. Al tempo di internet i magistrati
sta. Se su ogni singola questione e procedimento, si pretende il massimo del risultato possibile – spiega Vietti – si ottiene soltanto conflittualità e ostruzionismo. Un meccanismo per cui si arriva spesso a risultati al limite della costituzionalità o della criminalizzazione di magistrati e giornalisti» E a proposito del logorante conflitto tra toghe e politica, il responsabile Riforme del Pd, Luciano Violante aggiunge: «Negli anni ’50 la magistratura era alla periferia del sistema politico, una sorta di branca
Giuseppe Cascini (Anm) replica al Guardasigilli
«Il ddl aumenta i costi» «Se il ddl sulle intercettazioni dovesse essere approvato cosi com’è – spiega il segretario generale dell’Anm, Giuseppe Cascini –dovremmo affidare alla riforma della giustizia il compito di limitare i danni. Privare i magistrati di uno strumento di indagine essenziale nell’individuazione di gravi reati di mafia e terrorismo, o decidere che non ne possano disporre oltre un certo periodo di tempo, creerebbe gravi ripercussioni a danno della sicurezza dei cittadini. E inoltre si finirebbe a fare i conti con costi assai superiori a quelli delle intercettazioni. «Ricorrere a metodi di indagine alternativi – prosegue Cascini – non solo significherebbe spendere di più, ma in molti casi anche a vanvera. Se ad esempio il magistrato ricorre al pedinamento di un uomo sospetto che ne incontra un altro in un bar, può dimostrare soltanto che Tizio e Caio avevano un appuntamento. L’in-
tercettazione, al contrario, oltre a costare meno, ci dice anche che cosa si sono detti, e perché si sono incontrati». «Chi afferma che si può benissimo fare a meno delle intercettazioni, come accadeva una volta, trascura il fatto che la malavita si è evoluta insieme alla società. E che è impensabile pensare di contrastare seriamente il crimine organizzato, quanto mai attivo nelle comunicazioni telefoniche e telematiche, ricorrendo soltanto alle pratiche investigative di cinquant’anni fa», fa notare Cascini. «Giustificare la stretta alle intercettazioni con l’abbattimento dei costi, non è molto ragionevole – conclude – Basterebbe semplicemente fare il raffronto tra i denari impiegati per mettere alcuni telefoni sotto controllo, e quelli che grazie alle intercettazioni sono stati riportati nelle tasche dello Stato attraverso il sequestro dei beni alla criminalità».
dell’amministrazione. Oggi è invece una componente essenziale del sistema di governo, e la cosa ha prodotto due atteggiamenti simmetrici: a destra viene percepita come un potere avverso o concorrente, a sinistra come un servizio che può essere discusso per migliorarne l’efficienza». «Per riformare la giustizia e tutelare l’indipendenza dei giudici – continua Violante – bisogna costituire un organismo disciplinare per tutte le magistrature, e non solo per il Csm». E, in vista della grande riforma di Alfano, c’è poi il nodo dell’obbligatorietà dell’azione penale, che sembra ormai vicina all’estinzione. «L’obbligatorietà dell’azione penale – spiega Giuseppe Cascini – non può essere messa in discussione perché questo significherebbe delegare a qualcuno la decisione di quali processi fare o non fare. Sarebbe così violata l’ugugaglianza dei cittadini davanti alla legge, e andrebbero perdute le garanzie che spingono il cittadino ad affidarsi alla giustizia». «Di certo va tutelata – gli fa eco il centrista Michele Vietti – perché in un Paese ad alta tentazione di criminalità ci vuole garanzia di eguaglianza per il cittadino. Semmai si può ragionare sul fatto che possano essere introdotti criteri di priorità sulla base di un’interlocuzione costruttiva tra singoli uffici giudiziari, enti locali, Csm e Parlamento. La discrezionalità non può essere lasciata solo ai pubblici ministeri. Essa è sensata in America, dove vengono eletti, mentre in Italia il magistrato non risponde a nessuno». «Eliminare l’obbligatorietà dell’azione penale significherebbe affidare la discrezionalità al ministero degli Interni – avvisa Luciano Violante – una soluzione che fu attuata sotto il regime fascista, e sappiamo bene con quali risultati». «Porre l’azione penale nell’alveo della discrezionalità – avverte Giuseppe Cascini – significa ratificare il male: se facciamo fatica a celebrare i processi, allora stabiliamo quali devono essere fatti, e quali vanno accantonati. Un ragionamento inaccettabile. È evidente che alcune procure e uffici giudiziari italiani sono in sofferenza, ma certo abolire l’obbligatorietà non è la soluzione giusta. È come se un paziente ha la febbre, e si decide di guarirlo sparandogli», conclude il segretario dell’Anm.
diario
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L’azienda: «Faremo subito ricorso, Antonio Di Bella resta»
La nostra candidatura esclusa subito. Abete: «Andiamo avanti sereni»
Raitre, il giudice reintegra Paolo Ruffini
Euro 2016 alla Francia, doccia fredda per l’Italia
ROMA. Il giudice del lavoro di Roma ha disposto ieri il reintegro di Paolo Ruffini, accogliendo il suo ricorso dopo la sua sostituzione alla direzione di RaiTre, alla fine dello scorso novembre, con Antonio Di Bella. Da parte sua la Rai ha annuciato immediato ricorso. Sulla vicenda, si legge in una nota, la Rai «prende atto dell’ordinanza del Giudice del lavoro, avverso la quale proporrà immediato reclamo al Giudice superiore». «La Rai - continua la nota - sottolinea che l’ordinanza peraltro non caduca la delibera di nomina del nuovo Direttore di Raitre che pertanto potrà continuare a svolgere regolarmente il proprio mandato».
ROMA. La Francia organizzerà gli Europei di calcio del 2016. Lo ha annunciato ieri il presidente dell’Uefa Michel Platini a Ginevra. Il Comitato Esecutivo dell’Uefa, del quale per l’occasione non hanno fatto parte il Presidente Michel Platini (Francia), il primo vicepresidente Senes Erzik (Turchia) e il nostro presidente federale Giancarlo Abete, ha proceduto alla votazione e ha scelto la Francia, che ha avuto la meglio sull’Italia e la Turchia. Dunque l’Italia è stata bocciata al primo round. Nella prima votazione, in cui ciascun membro ha indicato l’ordine delle tre preferenze, con un sistema che prevede 5 punti per la Federazione prima indicata, 2 punti per la se-
Il consigliere Rai Nino Rizzo Nervo ha sottolineato: «L’azienda non minimizzi quanto è accaduto e soprattutto non trasformi la vicenda in una contesa tra due ottimi professionisti: Ruffini e Di Bella. Sull’ex direttore di Raitre il giudice ha pronunciato parole chiare che provano la gravità di quanto è avvenuto e che io avevo denunciato con il mio no alla rimozione di Ruffini. La Rai è stata protagonista di un episodio di discriminazione politica intollerabile non degno di un servizio pubblico. Adesso per la sua credibilità - ha concluso Rizzo Nervo - può
Il primato (mancato) della meritocrazia Ancora fermo il progetto sul rientro dei «cervelli» di Lucio Lussi
ROMA. Meritocrazia e valorizzazione del talento sono due miraggi dell’Italia berlusconiana. Lanciati come linee-guida dell’azione di governo, sono rimasti al palo, inseriti in oscuri disegni di legge pascolanti nelle commissioni. «Non sembra che il merito faccia parte del programma di governo, abbiamo visto soltanto dichiarazioni di intenti e propaganda a cui non è seguito nulla», dice Francesco Boccia del Pd. Il ministro della Pubblica Istruzione Mariastella Gelmini, un mese fa, annunciava la “riforma delle riforme”in tema di meritocrazia: «Apposite commissioni di grandi pensatori valuteranno 150 mila insegnanti italiani, di ogni ordine e grado, e decideranno quali meritino più di altri di riuscire ad arrivare a fine mese». Incentivi economici, dunque. Bene ministra, brava, bis! Peccato che il disegno di legge sia ancora fermo in Commissione. Altro esempio. Sul sito del Ministero della Gioventù compare la scritta: la rivoluzione del merito. «Vogliamo fornire a tutti le stesse opportunità di partenza e consentire a ciascuno di misurarsi» afferma, sul sito, il ministro Meloni, «è un noobiettivo stro concedere, per chi saprà impegnarsi, il gusto dolce della vittoria». La Meloni ha rilanciato alcune idee già note: il prestito d’onore per gli studenti universitari, il progetto Pacchetto Impresa a favore dell’imprenditoria giovanile e un test per inserire i migliori laureati nella Pubblica Amministrazione.
merito» sia ancora un eufemismo. Ugo Lisi del Pdl affronta l’argomento in modo saggio: «La meritocrazia è un concetto forte, che coinvolge non solo l’azione del governo ma tutti i settori della vita quotidiana. Ogni cittadino deve contribuire alla costruzione di una società basata sul merito».
Il ruolo dei cittadini è fondamentale, certamente, ma l’esempio della classe dirigente è indispensabile. E il caso parentopoli scoppiato all’interno della Protezione Civile, che dal 2004 ad oggi ha visto crescere il numero dei dipendenti da 320 a 800 attraverso una serie di assunzioni per chiamata diretta e senza concorso, calpesta la meritocrazia. Non è la prima volta che il talento delle giovani generazioni viene mortificato di fronte alla «mano santa di qualcuno», e non sarà l’ultima. In questo modo, però, vengono ostacolati i migliori talenti e rinviata la crescita del nostro paese, oberato dal debito pubblico e dotato di un Pil cresciuto, tra il 2005 ed il 2008, 8 punti in meno della media dell’area-euro e calato nel 2009 di circa un punto in più. Le cose non vanno meglio se diamo uno sguardo alla fotografia fatta dall’Istat alle giovani generazioni. La percentuale, poi, si impenna nel Mezzogiorno, dove coinvolge i due terzi delle giovani generazioni. I dati sono allarmanti: nel 2009, 300 mila giovani hanno perso il lavoro, mentre due milioni di essi non hanno lavorato né studiato e, sfiduciati dinnanzi alla continua umiliazione del talento, hanno preferito fermarsi. Fortunatamente un primo passo è stato fatto e consiste nella proposta di legge sul“controesodo”approvata dalla Camera con voto bipartisan. Il provvedimento prevede incentivi fiscali e procedure più snelle per facilitare il rientro in Italia dei “cervelli in fuga all’estero”. Applausi. Adesso è opportuno che l’opinione pubblica vigili su quella che appare una delle migliori mosse del governo Berlusconi, sperando che la proposta di legge non resti sulla carta e approdi presto sulla Gazzetta Ufficiale.
Il governo ne aveva fatto una bandiera ma le norme proposte da Gelmini e Meloni restano solo buoni propositi
porvi rimedio in un solo modo: restituendo da subito la direzione di Raitre a Ruffini come la sentenza gli impone. Il direttore generale legga con attenzione il dispositivo di reintegro e si accorgerà delle responsabilità che il giudice gli addebita e si ricordi che l’ordinanza non può essere disattesa a meno che non si voglia violare anche il codice penale». Sul fronte politico, il presidente dell’Idv Di Pietro ha tuonato: «La vicenda Ruffini è l’ennesima conferma del tentativo di sopraffazione e di bavaglio da parte del padre padrone che vuole il controllo completo sul servizio pubblico radiotelevisivo. Ed è un caso che non può passare in cavalleria».
Buoni propositi, ma in Parlamento non è arrivato nulla, e anche se non sono mancati i provvedimenti concreti (lo stanziamento di 135 milioni per 180 mila studenti universitari, consulenti del lavoro a tariffe agevolate per le piccole e medie imprese costituite da giovani e, tra gli altri, il Bando Giovani Protagonisti che prevede «15 milioni di euro di finanziamento per i progetti volti a sostenere la creatività, il protagonismo e la cultura del merito tra le giovani generazioni») è fin troppo evidente che parlare di «rivoluzione del
conda e 1 punto per la terza, la Francia ha totalizzato 43 voti, mentre la Turchia 38 e l’Italia solamente 23 ed è stata eliminata al primo turno. Nella seconda fase la Francia si è aggiudicata l’organizzazione dell’evento per un solo voto, 7 contro 6 assegnati alla Turchia.
«Andremo avanti con serenità, in particolare nella rimodernizzazione degli stadi, anche senza Euro 2016». Queste le prime dichiarazioni del presidente della Figc Giancarlo Abete, che ha aggiunto: «Abbiamo preso questa candidatura come una sfida sportiva, e nello sport bisogna saper accettare le sconfitte, anche se ovviamente siamo amareggiati. Non abbiamo però nulla da rimproverarci. Ci abbiamo messo passione, competitività, spirito europeo». «Euro 2016 è un gran sollievo per la Francia. Questa elezione dimostra che la Uefa è democratica. Se il presidente fosse un despota, il risultato sarebbe stato 13-0-0». Questo invece il commento di Michel Platini, che ha proseguito: «Avevamo 3 straordinarie candidature. Il successo odierno (di ieri, ndr) è un grande sollievo per il calcio francese, che ne aveva bisogno per rifare gli stadi e competere con gli altri Paesi».
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panorama
Rivelazioni. Il presidente della Cei non esclude «coperture» nella Chiesa del nostro Paese
Bagnasco: possibili casi di pedofilia anche in Italia di Riccardo Paradisi opo l’appello del Papa a un’energica autoriforma della Chiesa, pronunciata giovedì all’assemblea dei vescovi italiani in riferimento alle scabrose vicende di pedofilia all’interno della Chiesa è il cardinal Angelo Bagnasco a tornare sul tema, rispondendo alle domande dei cronisti sull’argomento: «È possibile che ci siano in Italia casi di vescovi che hanno insabbiato accuse contro preti pedofili – ha detto il presidente della conferenza episcopale – qualora ciò fosse accertato il giudizio della Chiesa è noto: è una cosa di per se sbagliata e da superare». Ma se la pedofilia resta il sofferto sfondo delle preoccupazioni delle gerarchie – sfondo peraltro non rimosso – la Chiesa e i vescovi italiani non rinunciano al loro compito di indirizzo e orientamento. E tornano a chiedere un particolare sostegno alle famiglie e alle piccole e medie imprese, a cui gli aiuti invece non arrivano. Bagnasco non entra nel merito della manovra del governo ma nella conferenza stampa di chiusura della 61 conferenza episcopale italiana denuncia il grande affanno in cui vivono le famiglie, anticamera del “suicidio demografico del Paese”. Un disagio collegato a quello delle piccole e medie imprese, ossatura dell’economia italiana, anche esse lasciate sole, senza sufficienti aiuti.
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Nella sua analisi della situazione italiana anche alla luce del più recente dibattito politico Bagnasco ha affrontato anche il nodo del federalismo che deve essere intonato secondo l’opinione della Cei, all’unità nazionale e alla crescita solidale. Un federalismo che non dovesse garantire questa crescita delle diverse parti sarebbe un federalismo iniquo e pericoloso. Sul fronte delle intercettazioni ci sono invece da salvaguardare dei valori fondamentali, quello dell’informazione e quello della riservatezza personale.“Beni fondamentali”li definisce Bagnasco e compatibili tra loro. Insomma un invito a perseguire la via di mezzo tra la libertà di informazione e la tutela della privacy, i due polmoni attraverso i quali respira una democrazia. Ma è lo stesso Benedetto XVI a intervenire di nuovo nella dimensione politica. Ricevendo il nuovo ambasciatore del Benin Comlanvi Theodore Loko per la presentazione delle lettere credenziali il Pontefice ha voluto sottolineare come combattere la corruzione in ambito politico significa radicare nelle coscienze il principio dell’equità: «È la ricerca di interessi personali a scapito del bene comune il male da combattere in politica e nella società, poiché corrode le istituzioni pubbliche, impedendo il pieno sviluppo degli esseri umani». Piuttosto occorre sviluppare la fraternità: «Espressione concreta della pari dignità di tutti i cittadini la fraternità è un principio fondamentale e una virtù ba-
silare per costruire una società autenticamente illuminata, perchè consente di valorizzare tutte le potenzialità umane e spirituali».
Nel suo discorso il Papa mette anche in risalto il valore della sacralità della vita, verso la quale è necessario trarre le conseguenza di ciò che la riguarda, in particolare in ambito legislativo. Ricevendo in mattinata in udienza i partecipanti alla plenaria del pontificio Consiglio per i migranti che si è svolta in questi giorni in Vaticano il Papa ha affrontato il tema dell’immigrazione: «È giusto ha detto dare vita a prassi amministrative che garantiscano la legalità dell’immigrazione e, in tal senso, vanno tutelati i diritti d’asilo, quello dei rifugiati e i ricongiungimenti famigliari». Nell’attuale contesto storico infatti, ha spiegato il Pontefice, «gli ordinamenti a livello nazionale e internazionale che promuovono il bene comune e il rispetto della persona incoraggiano la speranza e gli
«Se dovessero emergere casi scabrosi non verranno coperti ma saranno colpiti senza riserve», ha detto il Cardinale. Poi torna a chiedere aiuto per le famiglie e per le piccole imprese e sui passaggi politici: «Il federalismo sia equo e la legge sulle intercettazioni equilibrata»
sforzi per il raggiungimento di un ordine sociale mondiale basato sulla pace, sulla fraternità e sulla cooperazione di tutti, nonostante la fase critica che le istituzioni internazionali stanno attraversando, impegnate a risolvere le que-
stioni cruciali della sicurezza e dello sviluppo a beneficio di tutti». Purtroppo, registra Benedetto XVI si assiste al riemergere di istanze particolaristiche in alcune aree del mondo ma è pur vero che ci sono latitanze ad assumere responsabilità che dovrebbero essere condivise, anche perché «l’avvenire delle nostre società poggia sull’incontro tra i popoli, sul dialogo tra le culture nel rispetto delle identità e delle legittime differenze e i diritti fondamentali della persona possono essere il punto focale dell’impegno di corresponsabilità delle istituzioni nazionali e internazionali». Tanto più che «prospettive di convivenza tra i popoli possono essere offerte tramite linee oculate e concertate per l’accoglienza e l’integrazione, consentendo occasioni d’ingresso nella legalità, favorendo il giusto diritto al ricongiungimento famigliare, all’asilo e al rifugio, compensando le necessarie misure restrittive e contrastando il deprecabile traffico tra persone».
Apertura sagace dunque e non indiscriminata, una via razionale ed equa a cui tutti gli attori internazionali devono concorrere. «Le diverse organizzazioni a carattere internazionale, in cooperazione tra di loro e con gli stati possono fornire il loro peculiare apporto nel conciliare il riconoscimento dei diritti della persona e il principio di sovranità nazionale, con specifico riferimento alle esigenze della sicurezza, dell’ordine pubblico e del controllo delle frontiere». Insomma non è una posizione utopistica quella di Benedetto XVI per il quale l’acquisizione di diritti da parte degli immigrati va di pari passo con l’accoglienza dei doveri: «È apprezzabile lo sforzo di costruire un sistema di norme condivise che contemplino diritti e doveri dello straniero come pure quelli delle comunità di accoglienza, tenendo conto, in primo luogo, della dignità di ogni persona umana». Alla difesa dei diritti e della vita dei migranti il Papa rinnova il suo appello anche per l’apertura alla vita e per le politiche in favore della centralità e integrità della famiglia: «istituzione che nello scenario dell’incontro e del dialogo tra popoli e culture diverse mantiene il suo ruolo fondamentale».
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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
STORIE Breve viaggio nei “feuilleton” del Terzo Millennio
DELL'ALTRO MONDO di Pier Mario Fasanotti
ormai famosissimo romanziere spagnolo Carlos Ruiz Zafòn (succesEnnio Flaiano e Tonino Guerra, il cinema si rivolge spesso ai romanzi. Il teatro so internazionale con L’ombra del vento, oltre 10 milioni di copie praticamente li ignora e per questo rimane o nel cortile delle memorie Personaggi (reiterate) o in quello delle rimasticature sperimentali. Occorre dire vendute) dice una grande verità: «Molti autori classici, se del passato, alieni, che le fonti narrative oggi sono enormi. A parte gli autori o i befossero vivi, si farebbero coinvolgere in sceneggiature st-seller di estrema qualità, c’è una vasta produzione che va per la televisione, che nel bene e nel male è il grande palmisteri raccontati con i criteri ascritta alla voce «intrattenimento». coscenico del nostro tempo». E magari le case produtdell’investigazione moderna e con ritmo Vasta offerta, dicevo. Così straripante, e nemmetrici insistessero in questa ricerca. Il risultato sacinematografico. Sono i cardini dell’odierna no di basso livello, da ricordare quella splenrebbe quello di alzare la qualità. Come del redida abitudine dell’Ottocento (durata fino ai sto è avvenuto nella televisione italiana negli letteratura d’intrattenimento che sforna primi del Novecento) che si chiamava feuilleton. anni Sessanta e Settanta con i grandi sceneggiati senza sosta ponderosi volumi. tratti da Dickens,Tolstoj, Manzoni, Hugo e tanti altri. La Romanzi a puntate, su quotidiani e periodici. Oggi chi ricetta è buona in sé, occorre però valutare il tipo di «entrapromuove la lettura dimentica spesso l’uovo di Colombo, coCibo per la fantasia ture» (parola-chiave del marketing di oggi, leggi anche raccomanme se ce ne dovessimo vergognare. Ossia che la lettura è diverti(e per gli editori) dazione, presentazione, corteggiamento dei potenti, fortuna, eccetera) mento. Il vecchio feuilleton è, nell’epoca attuale, il «romanzone» che si che possono avere certi autori. Finito il tempo dei soggettisti geniali come ispira al mistero e alle vicende storiche.
L’
Parola chiave Passato di Sergio Valzania La grande bouffe dei Rolling Stones di Stefano Bianchi
NELLE PAGINE DI POESIA
Rapimenti notturni da Omero a Ugo Foscolo di Roberto Mussapi
Fratture dell'anima a Buenos Aires di Marco Ferrari Lev, Sof'ja, un cane e l’apocalisse di Anselma Dell'Olio
Alla riscoperta del Novecento romano di Marco Vallora
storie dell’altro
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mondo
Le stelle del firmamento new gothic na valanga di romanzi sui vampiri. Come mai l’inquietante e terribile (dread in inglese) figura del conte Dracula, letterariamente nato nel 1897, ha spazzato via la moda delle streghe e dei maghi e si è posto in questi ultimi anni al centro della suggestione fantastica? Il primo vampiro è stato creato dall’irlandese Bram Stocker. Si possono scomodare concetti filosofici, ma sarebbe scorretto dimenticare un particolare biografico: lo scrittore si documentò per dieci anni sul misterioso principe ungherese Vlad Topes Dracul. Non solo. Stocker fino all’età di otto anni, per una malattia non ben diagnosticata, fu incapace di alzarsi dal letto. Non è un caso che nel suo Dracula ci siano due temi dominanti: il sonno senza fine e la resurrezione dei morti. Il vampiro lega poi a sé il conflitto tra bene e male, eterno motore di storie. A riprendere le avventure delle creature smorte è stata Stephenie Meyer con Twilight (tradotto da Fazi): un successo strepitoso, continuato e ampliato dall’omonimo film. Le tormentate vicende di Bella ed Edward non si srotolano più nei foschi Balcani, ma in una cittadina dello Stato di Washington. Rimane il quesito sull’attrazione verso i nuovi vampiri. Le risposte sono tante. Si possono scomodare Freud, Platone, Hobbes e perfino la Bibbia che proibiva agli ebrei di nutrirsi di carne sanguinolenta. Il docente di filosofia William Irwin si è impegnato ad analizzare i tanti aspetti di un fenomeno con il saggio La filosofia di Twilight (Fazi). Tra i passi più originali, c’è questa osservazione: «La Meyer, con Edward, ha dato vita alla quintessenza delle fantasie femminili: un “ragazzo” che in realtà è molto più grande e maturo di quanto non sembri; che ama Bella per quella che è e non per il suo aspetto; che vuole dormire con Bella ma senza farci sesso; che è protettivo e
U
Due elementi che di solito vanno infilati in quel frullatore chiamato suspence. Non più, o non solo più, il libro giallo, ma enigmi e personaggi della storia immersi nella pentola del liquido giallo. Le vendite confortano gli editori, i successi di vendite varcano velocemente i confini bypassando anacronistici controlli doganali, in altre parole scavalcando certe resistenze del nazionalismo letterario (forte ancora oggi in America, per esempio). La fame di storie è davanti agli occhi di tutti, anche dei meno esperti a scegliere tra gli scaffali di librerie che per l’abbondanza delle offerte sono luoghi di vertigine e smarrimento. Ma davanti a tutti il cibo per la fantasia non manca proprio.
Ricordo quel che diceva un tale (George Dawson) verso la fine degli anni Trenta dinanzi a una commissione parlamentare inglese: «In questo paese suscitiamo nella gente il desiderio di leggere, ma non le forniamo il materiale. Per un uomo è una disgrazia aver tanto interesse per la lettura se non ha la possibilità di soddisfarla». Che fecero i britannici di quel tempo? Alcuni editori misero in vendita a prezzi assai contenuti romanzi a puntate di media qualità. Elevata tiratura, fascicoli mensili. La carta vincente era il tema della paura. Ed ecco che nacque la collana penny dreadful. Insomma, tanti Stephen King.Tra il 1845 e il ’47 apparve (autore anonimo) Varney il vampiro. Novecento pagine con testo su due colonne in ogni pagina. Narrativa popolare sanguinolenta, che in questi ultimi anni è riapparsa vistosamente, trainata da film come Twilight e da serie televisive come True Blood (vedi articolo in alto). Ma lasciando da parte denti aguzzi e avventure sotto la luna, c’è un gran proliferare di trame di puro intrattenimento. Gli esempi che facciamo qui di seguito non sono esaustivi, né possono esserlo, visto la gran quantità di libri di questo genere. Tutti, bisogna riconoscerlo, sono come vagoni ferroviari che portano nitidamente, almeno anno III - numero 21 - pagina II
molto ricco, con una famiglia affettuosa e solidale che accetta Bella nonostante le evidenti differenze culturali ed economiche. Onestamente, come non amarlo? Ecco perché ragazze e donne dagli otto ai quarantotto anni impazziscono per Edward». Bella vorrebbe essere trasformata in vampiro. Ha paura della mortalità, che considera garanzia di fallimento e viatico verso un’esistenza senza senso. Irwin ricorda La confessione di Lev Tolstoj, in cui il grande russo rifletteva sull’assurdità della vita in assenza di un aldilà. Ma a questo punto ci viene un dubbio: che siano più profonde le analisi e le ipotesi degli studiosi rispetto al testo collocato sotto il vetrino dell’interpretazione? Non è da escludere. In ogni caso il vampirismo è come l’edera, oggi: s’allunga e figlia. C’è posto per tutti. Anche per Charlaine Harris, con la sua miscela di umorismo, erotismo, horror e romance. C’è il Club dei Morti, c’è l’élite dei vampiri. Da qui il serial televisivo True Blood. Ancora sangue, dunque. Un successo dopo l’altro sono i romanzi «sanguigni» editi dalla Newton Compton. Lisa Jane Smith è un’autrice di punta. Ha inaugurato una saga, ora nota in tutto il mondo e utilizzata dalla televisione. Tra i suoi maggiori successi: Il diario del vampiro, Dark Visions e La setta dei vampiri (Il segreto, Le figlie dell’oscurità, L’incantesimo e L’angelo nero). La Smith è considerata l’ultima stella del firmamento new gothic. Basta scorrere il catalogo di questo genere della Newton Compton: libri che van via come il pane, come si diceva una volta. E l’editore Longanesi ripropone oggi un classico: Intervista col Vampiro della famosissima Anne Rice, raffinata maestra del genere. Frase chiave: «Il male è sempre possibile, il bene è eternamente difficile». Torna così l’antenato nobile di Edward. Si (p.m.f.) chiama Lestat, con il dono, o la maledizione, della vita eterna.
per chi sa leggere bene, la scritta «viaggio in terre lontane». Dan Brown ha insegnato a scovare misteri dappertutto. Con il rischio di precipitare nel ridicolo o nell’inverosimile. In ogni caso quelli del marketing o comunque gli editori che hanno più sensibilità commerciale sanno bene che il lettore di oggi apprezza molto una storia che abbia un aggancio con eventi del passato. Basta saperla raccontare con criteri dell’investigazione moderna. E con un ritmo televisivo o cinematografico. L’esempio più vistoso di questi ultimi anni è un signore che si chiama Glenn Cooper, americano che ha scommesso di sfidare mister Brown. Con la sua prima prova, La biblioteca dei morti (Nord editore) è partito come se fosse in un Gran Premio. Milioni di copie vendute in ogni parte del mondo. In questi giorni è uscito il suo sequel, Il libro delle anime (stesso editore), dove un detective dell’Fbi mostra di conoscere l’«Area 51», il nascondiglio dove il governo Usa occulta le prove dell’esistenza degli alieni. Cooper riprende il tema della biblioteca medievale dove sono stati scritti i destini della gente fino al 2027. Cooper dice di avere come modello Umberto Eco. Già impegnato nella stesura del terzo romanzo, si limita ad anticipare che affronterà il tema religioso, con un’ambientazione al presente. Il cardine è il mistero, la sonda che cattura gli interrogativi eterni dell’uomo. Sempre l’editore Nord sta mandando in libreria Il fuoco segreto di Martin Langfield (già noto per Lo scrigno del male). Ovviamente c’è un manoscritto, addirittura di Isaac Newton, contenente ricerche alchemiche e tonalità mistiche. C’è pure Heinrich Himmler, capo delle SS, alle prese con un progetto diabolicamente rivoluzionario (appunto «il fuoco segreto») che altro non è, né poteva essere altrimenti, l’arma più micidiale mai con-
cepita dall’uomo. Salto temporale: siamo nel 2007 a New York, dove una donna trova una ricetrasmittente della nonna, che risale alla seconda guerra mondiale. Il meccanismo riprende a funzionare e… Non riveliamo lo sviluppo, ovviamente.
Dicevamo poco prima del fascino di certi personaggi storici. La Newton Compton (oggi ha una linea editoriale nuova e di notevole impatto sul pubblico) farà uscire la prossima settimana La regina eretica. Il romanzo di Nefertari, di Michelle Moran (oltre 10 mila copie vendute con La regina dell’eternità. Il romanzo di Nefertiti). Nefertari, nipote della fascinosissima Nefertiti, è l’unica superstite dell’incendio che ha devastato il palazzo reale di Tebe. Scattano gli intrighi di corte quando il principe Ramses (futuro re) s’innamora di lei, e la sposa. Storia d’amore tra mille avversità, sullo sfondo della migrazione degli ebrei liberati dalla schiavitù egiziana. Ora «viaggiamo» nel centro-Europa. L’americano Kenneth Wishnia viene tradotto da Longanesi. Il suo romanzo, Il quinto servitore, ci porta nella Praga del 1592. Il tema è storicamente delicato visto che parte dal ritrovamento di una bambina cristiana trovata sgozzata in una bottega ebraica. Come si sa, gli ebrei furono accusati (ingiustamente) di efferati crimini contro i seguaci di Cristo. Gli inquisitori sollevano lo spettro della stregoneria, il popolo vomita la sua furia vendicativa contro i giudei. Interviene anche l’imperatore Rodolfo. In ogni caso si deve risolvere il caso del bottegaio ebreo in soli tre giorni: sarà possibile con il ricorso all’arte del ragionamento e alla millenaria sapienza rabbinica. Non che questo sia sufficiente a spegnere la rancorosa brace antisemita che trova alimento (l’«invenzione» del nemico è di vecchia data, come si sa) in tutta l’Europa. E così via: i romanzi toccano molti angoli della Storia, dalla corte dei Medici alle imprese dei legionari romani. Minimo comune denominatore: l’avventura, il gusto del feuilleton.
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parola chiave
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PASSATO ome funamboli sul filo siamo in bilico fra passato e futuro. Scrutiamo il primo per sapere come comportarci in vista del secondo, mentre il presente ci scivola sulla pelle. La storia ci interessa in tutte le sue forme, da quella immensa dell’universo a quella discreta del pianeta su cui viviamo, fino a quella piccola dell’umanità e a quella infinitesimale, ma per noi decisiva, legata alla nostra propria persona. Ogni volta che ci interroghiamo sul passato scopriamo qualche fatto nuovo, persino imprevisto, in un intreccio cangiante di persone, eventi e situazioni. Il passato non è un deserto roccioso e immobile, piuttosto ha i caratteri di una foresta lussureggiante e vitale, da esplorare con curiosità. La attraversano autostrade piene di traffico, carrozzabili battute con frequenza, ma anche un intreccio di sentieri appena visibili lungo i quali ci si avventura solitari e a fatica, alla scoperta di particolari solo in apparenza secondari. E di punti di vista sorprendenti. L’attività degli storici non consiste solo nella ricerca di documenti nascosti. Importantissimo è anche il lavoro di interpretazione, di collegamento, di ricostruzione del senso di quello che è avvenuto e delle personalità dei protagonisti del passato. Per ottenere buoni risultati in questo campo occorre sapersi liberare del nostro modo di pensare, delle nostre abitudini culturali, evitare il grande rischio della storia, l’anacronismo, ossia l’imposizione a uomini diversi da noi di modelli di comportamento che sono nostri.
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Il passato non è una festa in maschera, alla quale partecipano nostri contemporanei con indosso abiti bizzarri. Quando vediamo affreschi e arazzi raffiguranti personaggi dell’antichità rappresentati in abiti cinque o seicenteschi sorridiamo, eppure capita di frequente che le azioni dei nostri avi vengano raccontate e valutate considerandoli nostri simili per abitudini e mentalità. In modo diverso lo stesso vale per le altre forme del passato. Da quello più remoto della Terra e dei suoi abitanti, che troppo spesso è riletto solo come un’anticipazione di quello che ne è seguito, al nostro personale, relativo agli ultimissimi anni, agli accadimenti dei quali siamo stati protagonisti o testimoni. Riflettere su di essi e confrontare le memorie dirette che se ne sono conservate produce molte sorprese. Oltre che allargare la mente. È raro che quello che accade sia del tutto esplicito, che ogni volontà coinvolta in un evento sia del tutto chiara ed espressa. Di solito le intenzioni, anche quando i fatti sono definiti, rimangono in parte celate, o non si presta sufficiente attenzione a esse. Con i più piccoli, con i bambini, accade di frequente che le motivazioni di quello che fanno non vengano colte, in particolare quando la fretta impedisce agli adulti di prestare loro l’attenzione di cui avrebbero diritto. Il condizionamento culturale dei più giovani è, per fortuna, ancora imperfetto: come uti-
Non è un deserto immobile, ma una foresta vitale da esplorare con curiosità. Per farlo, per comprendere il senso di ciò che è avvenuto, occorre liberarsi del nostro modo di pensare, delle nostre abitudini culturali
Quelle impronte sulla sabbia di Sergio Valzania
Mentre il presente ci scivola sulla pelle, la storia ci interessa in tutte le sue forme, da quella immensa dell’universo a quella infinitesimale legata alla nostra persona. In più, per i credenti, è lo spazio dove si è già realizzato l’incontro con Dio e dove se ne prepara uno nuovo, nel futuro lizzano la lingua in forme creative e imprevedibili allo stesso modo saggiano i limiti degli usi relazionali attraverso tentativi arrischiati. Oppure richiamano l’attenzione degli adulti con tecniche che questi ultimi hanno dichiarato vincenti a volte senza volerlo. Possibili letture alternative di identici avvenimenti derivano dalle circostanze più diverse, anche se su tutte domina la difficoltà a rinunciare al proprio pensiero, al proprio punto di vista, per considerare che ne esistono in ogni oc-
casione altri, a volte migliori. Alcuni studiosi del comportamento hanno rivolto la loro attenzione alle modalità di punteggiatura che persone diverse impongono allo svolgersi degli avvenimenti, ossia a quando vengono poste le cesure temporali dei fatti che accadono. In particolare in relazione ai momenti conflittuali. Quand’è che comincia un litigio? Fino a che punto vengono fatte risalire nel tempo le motivazioni per le quali è scoppiato? Quasi tutti coloro che si trovano coinvolti in un
dissapore ritengono di essere vittime di una prevaricazione o oggetto di una provocazione alla quale si sono limitati a rispondere. Le radici della questione sono spostate a volte molto indietro nel tempo. Il gesto più innocuo di una persona, anche cara, può essere letto come la ripresa di un conflitto sorto nel passato. La locuzione «lei, o lui a scelta, sa bene che facendo così mi irrita» è comune e spesso non supportata da una base reale. Il presunto aggressore ignora di aver messo in atto un comportamento tale da suscitare una reazione indispettita e pensa di essere lui l’aggredito. Riportata su scala ben maggiore è questa la ragione per la quale è difficile risalire alle cause di una guerra, che rarissimamente sono quelle dichiarate dai contendenti prima e dopo il conflitto, le motivazioni del quale sono complesse, intricate e affondano le proprie radici in contrasti anche molto lontani nel tempo.
Per i credenti in questo corpo vivente del passato si va in cerca delle tracce della propria storia d’amore con Dio. Se si crede o ci si sforza di credere nella sua esistenza si fa affidamento sulla sua presenza caritatevole e misteriosa nel corso di tutta la vita. Il Dio dei cristiani non è una figura assente, un creatore che si disinteressa di ciò che ha creato. Al contrario, se la cifra che lo caratterizza è quella dell’amore, come ha ricordato Benedetto XVI nella sua prima enciclica, si può far conto sulla sua costante attenzione premurosa per ciascuna delle sue creature. Non possiamo pensare che Dio sia un amante distratto, che si ricorda appena di mandare i fiori il giorno dell’anniversario. Perciò il passato, la storia, la nostra vita o anche solo la giornata di ieri rappresentano lo spazio fisico e temporale dove un incontro si è già realizzato e se ne prepara uno nuovo, proiettato nel futuro. Questo non significa che tutto vada sempre per il meglio secondo il metro della nostra comprensione umana. Il progetto divino non ha le forme, i caratteri, le progressioni di quelli degli uomini. I suoi criteri e le sue modalità ci sfuggono, soprattutto nei momenti tristi e dolorosi. Allora può essere di conforto ricordare che nell’Apocalisse di Giovanni è scritto «io tutti quelli che amo li rimprovero e li castigo» (3,19). Le concordanze della Bibbia di Gerusalemme ci avvertono che l’ammonizione è già presente nei Proverbi: «Il Signore corregge chi ama come il padre il figlio prediletto» (3,12) e trova un’espressione chiara nella lettera agli Ebrei: «ogni correzione, al momento, non sembra causa di gioia, ma di tristezza; dopo però arreca un frutto di pace e di giustizia» (12,11). Certo, tutto questo non avviene in maniera meccanica, il mondo è più complesso e misterioso di quanto appare, ce lo insegna perfino la scienza con le scoperte della fisica, ma credere in Dio significa far conto sul suo agire. Il passato è la sabbia sulla quale possiamo andare in cerca delle sue impronte.
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Rock
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musica
Con Cloud computing DI MALE IN PEGGIO di Bruno Giurato
di Stefano Bianchi a Grande Abbuffata del rock si consuma nell’estate 1971. Dopo aver chiuso gli anni Sessanta con Beggar’s Banquet e Let It Bleed, i Rolling Stones incassano il successo planetario di Sticky Fingers. Da un anno sono concentrati su un pugno di canzoni, ma Londra per loro è off-limits.Tartassati dal fisco, volano in esilio (dorato) in Costa Azzurra. A Villefranche-sur-Mer, Keith Richards affitta Villa Nellcôte. Il nuovo disco prende forma qui, fra gli stucchi e le cantine, con gli Stones indecisi se continuare a fare i ribelli o darsi una regolata; atteggiarsi a eterni adolescenti, o assumersi responsabilità da adulti. Keith sa quel che vuole: farsi d’eroina con la sua donna Anita Pallenberg, bere come una spugna e concepire grande musica. Mick Taylor, l’altro chitarrista, lo segue viziosamente a ruota mentre Mick Jagger si coccola Bianca sposata a Saint Tropez e in attesa di Jade. Bill Wyman (basso) e Charlie Watts (batteria) vanno e vengono mal sopportando quel carosello di spacciatori, groupies, intrusi e scrocconi che infesta la villa. Eppure, nella Grande Abbuffata Keith suona da dio, Mick canta da straordinario tarantolato e alle Pietre Rotolanti si aggiungono Nicky Hopkins e Ian Stewart (piano), Billy Preston (organo), Bobby Keys (sax), Jim Price (tromba) e una pattuglia di coriste. Nasce, grezzo, il doppio album Exile On Main Street che viene rifinito a Los Angeles all’inizio del ’72 per poi uscire a maggio apostrofato così da Jagger: «Un disco fottutamente pazzo e molto amatoriale». Diciotto pezzi snobbati. Il tempo, però, ha dato ragione a Richards: «l’album di Keith», come hanno riconosciuto fans e critici, s’è trasformato nel capolavoro degli Stones. Ovvio, quindi, che riveda la luce rimasterizzato e rim-
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Jazz
zapping
n giorno del sottoscritto penserete «quel fesso aveva ragione». Perché c’è in giro una subdola strategia elitista, esclusivista: una strategia contro la coscienza estetica (quindi etica) del popolo. La tecnologia in studio presso le lorde cucine dell’informatica mondiale si chiama Cloud computing. Ci sta lavorando Google e ci sta lavorando Apple, che però è ancora indietro nello sviluppo. L’idea consiste in questo: invece di tenere i nostri file musicali dentro al disco del computer è meglio averli in rete, e potervi accedere in qualunque momento, via internet, con computer e telefonino. Non dovremo più spostare i file delle canzoni dal computer all’iPod, o dal computer al telefonino, basterà collegarsi da qualsiasi luogo (tranne gallerie autostradali, metro, treno e tutti quei luoghi dove non c’è rete, compresa la vostra grotta preferita sui monti Sibillini, piccolo inconveniente di non facile soluzione per ora) e ascoltare la nostra libreria musicale in streaming. Pratico, comodo, veloce. Anzi democratico e quasi solidale, dato che password permettendo potremmo ascoltare musica della libreria altrui. Una volta a una bella donna si poteva regalare un bel disco, ora magari le lascerai la password della tua collezione on line. E vabbè. Ma c’è un ma. La qualità dell’ascolto dello streaming è molto peggio di quella degli mp3, che è a sua volta peggiore di quella della musica non compressa, cioè del formato standard digitale. E non di poco. Lo streaming in tempo reale da Internet ammazza la qualità, è un bel passo indietro, trasforma i timpani in padelle, il basso in un rutto, gli acuti in vetri rotti. Riusciranno a sfiancarci, a farci stufare dell’emozione sonora. Resteranno forse i quattro appassionati alle prese con un oggetto ormai da Nonna Speranza: l’impianto stereo. Vedrete vedrete, e un giorno penserete: «quel fesso aveva ragione».
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La grande bouffe dei
Rolling Stones
polpato da dieci brani inediti. «Gran parte dei nostri riferimenti musicali sono americani», ha dichiarato Jagger. «Arrivo perfino a dire che siamo stati una band a stelle e strisce con un minuscolo tocco inglese». Ne è prova lampante Exile On Main Street, che fila alla radice del blues e lo sbianca. Che distilla rhythm & blues, country e gospel per poi filtrarli con un rock al vetriolo, «stoniano». Solo loro sono riusciti a mettere in fila un piano honky tonk e i fiati rhythm & blues di Rocks Off; un country speziato dal calypso (Sweet Black Angel) e ancora un country col sassofono black e il coro gospel (Sweet Virginia); uno dei rock and roll più veloci in carriera (Rip This Joint), il ritmo asprigno e ciondolante di Casino Boogie, l’errebì di Tumbling Dice; una ballata da pelle d’oca
(Torn And Frayed) e un blues verace (ShakeYour Hips); post-psichedelìa «voodoo» (I Just Want To See His Face) e l’Hammond che titilla Shine A Light. Gli inediti, poi, sono tutt’altro che quisquilie: a parte le versioni alternative di Loving Cup e Soul Survivor (intonata da Keith Richards), c’è il funky latineggiante di Pass The Wine (Sophia Loren); la maestosa, densa Plundered My Soul; il blues sudista di I’m Not Signifying; la ballata Following The River, stile Wild Horses, in origine strumentale, che Mick Jagger canta «ex novo»; il country e l’honky tonk di Dancing In The Light; la soffusa, psichedelica So Divine (Aladdin Story) alla quale Keith Richards ha aggiunto nuove parti chitarristiche; Good Time Women che ricalca, velocizza e migliora Tumbling Dice; il boogie strumentale (chitarra, basso, batteria e stop) di Title 5. Dopo Exile On Main Street (spremuto fra sesso, droga e rock & roll) i Rolling Stones hanno campato di rendita. The Rolling Stones, Exile On Main Street, Polydor/Universal, 25,90 euro
Fluido e vorticoso… lo stile “made in Giuliani” ent’anni fa quando Rai-Radiouno indisse il primo concorso per giovani talenti jazz sponsorizzato dalla Yves St. Laurent, fra i tanti nuovi musicisti europei che si presentarono a quella competizione, ne emerse immediatamente uno. Suonava il sassofono contralto, veniva da Terracina e nessuno ovviamente lo aveva mai sentito nominare. Ma furono sufficienti le sue uscite in assolo, durante il concerto finale di quell’orchestra di giovani talenti europei diretta dal flautista James Newton, perché il suo nome divenisse immediatamente popolare. Era Rosario Giuliani. Aveva ventitré anni e immediatamente Enrico Pieranunzi lo volle al suo fianco. Con il pianista romano ha inciso quattro dischi e con l’ultimo appena pubblicato, la sua discografia ha superato le venti unità. Lo troviamo fra gli altri con Flavio Boltro e Dado Moroni, due musici-
V
di Adriano Mazzoletti sti ai quali è particolarmente legato. Del primo dice: «Flavio è per me come un fratello. Fra noi c’è un rapporto di affinità musicale. Quando ascoltavamo i brani che avevamo registrato ci sembrava di ascoltare un unico suono, magari in alcuni momenti anche non perfettamente intonato, ma comunque un unico suono, un unico modo di vedere la musica e di andare nella stessa direzione. Magari uno cammina più veloce e l’altro più lento, ma siamo certi che quando si giungeva a destinazione, il tempo era quello giusto». E del
pianista genovese: «Conoscevo la sua grandezza, la sua fantasia armonica, la sua tecnica, lo swing incredibile, ma quello che lui ha fatto nel disco Anything Else ha creato la differenza. Ha dato veramente un suono al disco e, mi permetto di dire, un suono realmente jazz attraverso i soli, attraverso il modo di accompagnare i solisti e, soprattutto, nel modo di affrontare le composizioni. È stata una sorpresa». Nel suo ultimo cd Lennie’s Pennies, appena giunto nei negozi, Giuliani suona invece con il pianista francese
Pierre De Bethmann e gli americani Darryl Hall e Joe La Barbera. Undici brani di cui sei originali, due standard Love Letters di Victor Young e How Deep the Ocean di Irving Berlin e tre composizioni di Lennie Tristano - lo splendido Lennie’s Pennies -, Joe Zawinul e del pianista Jimmy Rowles. Malgrado sia in possesso di una tecnica strumentale prodigiosa non ne approfitta, anche se impressiona l’ascoltatore per il fraseggio fluido, nervoso, a tratti vorticoso, che a volta ricorda quello dei suoi sassofonisti preferiti «Cannonball» Adderley, Art Pepper, John Coltrane. Ma a differenza di molti altri solisti italiani ed europei, Rosario Giuliani, ha saputo formare un suo stile con una sonorità immediatamente riconoscibile. Rosario Giuliani, Lennie’s Pennies, Dreyfus, 17,90 euro
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arti Mostre
ì, è una curiosa coincidenza che, mentre con gran trombe e pompe magne, il Maxxi e il Macro si accingono ad ammainare le vele del segreto e a mostrare finalmente i prodigi dell’architettura contemporanea, nell’accesa battaglia sulla primazia museale, il più possibile glamour e anche cosmopolita, un’altra istituzione, sopita e silente, come la Galleria Comunale d’arte Moderna di Roma (altra cosa, da non confondere, con la Galleria Nazionale, che si chiama Gam e che sta a Valle Giulia) senta il bisogno di battere qualche colpo e di ricordare che esiste. Non lo fa riaprendo la bella e addormentata sede di via Francesco Crispi, dove per un breve periodo, anni fa, ha mostrato la qualità dei suoi tesori, talvolta trattenuti nei depositi e soprattutto l’importanza della pittura romana e locale, agli inizi del Secolo XX. Ma poi, come capita, ci son stati problemi di messa a norma del locali, ristrettezze economiche nelle sovvenzioni, insomma problemi vari, che han portato alla triste chiusura dei portoni della Galleria, di cui Elisa Tittoni ci racconta l’avventurosa esistenza, tra scippi, sgarbi, tensioni, che vedono alla ribalta nomi come Muñoz, Bottai, Pietrangeli. Istituzione trascurata, che ora trova però l’escamotage di affiancarsi alla sede più agile e agibile del Casino dei Principi, in Villa Torlonia, dove ha sede già l’Archivio della Scuola Romana, e dove da qualche anno si sussegguono interessanti mostre, di nicchia ma ben mirate, per far conoscere quel periodo fecondo e in fondo ancora poco arato della romanità artistica, non immediatamente schierata con il galoppare ufficiale delle Avanguardie. E il bello è scoprire non tanto dei veri e proprio artisti «nuovi», che in fondo sono già tutti piuttosto studiati e coccolati dalle poche gallerie specializzate, che in questi anni hanno tenuta l’attenzione desta su un’arte sì tradizionale, ma non meno sperimentale di quella accanita nel trionfo del Nuovo, semmai di singo-
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Architettura
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Alla riscoperta del ‘900 romano di Marco Vallora le opere interessanti, sinora trattenute nella bambagia di depositi poco sarchiati. È incredibile, per esempio, scoprire, dal saggio di Cinzia Virno, che l’imponente e distesa tela, che si chiama, quasi baudlerianamente, e comunque simbolicamente Serenità, di Felice Carena (risposta dolce al cézannismo imperante delle Bagnanti) non era mai stata esposta prima nella «sua» Roma. Perché è vero che il pittore veneziano, che avrebbe poi anche segnato molto il gusto della Torino casoratiana, venendoci a insegnare, è stato forse più influente in altre aree d’accademia, ma Roma fu comunque importante per la sua stessa cultura
e il suo bagaglio di archeologismo stemperato (in modo diverso da Funi, che pure è presente qui con un bellissimo scorcio di Colosseo, sbaffato d’azzurro crepuscolare, quasi un verso di Libero de Libero, il poeta che era anche gallerista e amico di pittori. E in modo ancora più lontano, e meno armato, di quella arcadicità sofferta e murata, che spira nella solenne maternità fangosa, scultorea, della Famiglia del Pastore di Sironi). Bella compresenza, non soltanto di talenti in dialogo o battaglia, ma anche di correnti polemiche e di movimenti contrapposti, a partire da quella compagine (intelligente) di regime (ma di regime co-
munque: ne era coinvolta anche quella donna volitiva e intelligente che era Margherita Sarfatti). Ma non è il solo movimento ufficiale, o l’unico incresparsi delle placide correnti artistiche, secondo brezze un poco scomposte e molto capricciose. Percorsi del Novecento romano si divide, per comodità, in vari capitoli, a partire da quel divisionismo che avrebbe nutrito le prossime generazioni futuriste (e com’è curioso quel taglio iperealista e fotografico del carboncino di Balla 1907, non ancora «futurBalla»!). Ed ecco il capitolo piuttosto compatto della pittura futurista, in particolare aereo-futurista, con tutte le varianti del caso: dalle spirali aviatorie alla spinta medianica, dal ribaltamento ottico alla suggestione pre-op art, sull’onda di quella singolare tela precoce di Benedetta Cappa, in Marinetti, che c’invischia nelle spire scheggiate e geometriche d’una scia di motoscafo, ebbro di cielo e di mare (per omaggiare il dannunzianesimo mascherato del consorte). Ma poi ecco il realismo magico di Socrate, Donghi e Capogrossi, ecco gli incendi cromatici della Scuola romana di Via Cavour, con il portentoso Cardinale già felliniano di Scipione e le case diroccate dalla guerra di Mafai, ecco il loro mentore Longhi, «caricato» dalla pittura tonale di Bartoli, ecco un bellissimo Trombadori e i tetti pulciosi di Pirandello, Guttuso,Tozzi, Cavalli. Su tutti si segnalano due bellissime nature morte, di Afro e Casorati, e, senza dimenticare le sculture, singolari opere del sottovalutato Melli.
Percorsi del Novecento Romano, Roma, Villa Torlonia, fino al 4 luglio
Quando il moderno (con Platz) divenne tradizione tile - scriveva Peter Behrens nel 1900 - è effetto combinato di particolari elementi di forma uniti in una espressione comune». La stilizzazione di una forma monumentale, compressa e semplificata, è l’inizio della architettura del Novecento. L’estetica moderna dovrà unire Arte e Tecnica, e tecnica e cultura. Avrà una attitudine sintetica, e ricercherà, insistendo sul nesso fra forma e funzione, una nuova bellezza aderente ai nuovi scopi; saprà estrarre un sistema di leggi, che presto diventeranno prescrizioni, da acciaio, cemento e masse gigantesche. La Neue Sachlichkeit, nuova oggettività, derivava da un auspicato ritorno alle cose stesse, a una differente relazione con gli oggetti in quanto tali, divenuti ora freddi e impersonali: classico e romantico si fondono, con scientifica obiettività, nel neutro e anonimo del moderno. L’Oggettività è radicale, progressiva, pratica, utile, attenta alla società, semplice e lineare, chiara e pura; e nuda, priva di ornamenti applicati. Essa reca un ideale normativo di fondamenti rigenerati. L’Architettura della nuova epoca, Die
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di Guglielmo Bilancioni Baukunst der neusten Zeit, di Gustav Adolf Platz, pubblicato a Berlino nel 1927, può essere considerato il primo manuale sistematico sull’architettura moderna. Viene pubblicato ora dalla Editrice Compositori, con la ottima cura di Michele Stavagna, che mostra, in profondità, come Platz si muova nell’ambito di Behrendt e di Muthesius, e di Adolf Behne, che nel 1926 aveva scritto Die Moderne Zweckbau sull’edificio funzionale, di Giedion, che nel 1928 aveva studiato le costruzioni in ferro in Francia; e come abbia creato le premesse teoriche di Pioneers of Modern Movement di Sir Nikolaus Pevsner, pubblicato nel 1936. Nell’architettura dei pionieri ideologie e forze espressive si formano reciprocamente, la struttura diventa forma e lo spazio, in involucri di vetro messi in tensione dal ferro, diviene astratto. Equidistante fra tradizione e modernità, il libro di Platz fonda una tradizione del moderno, in una sintesi dialettica che mira al superamento delle differenze fra Baukunst e Stilarchitektur, o fra tipo e indi-
vidualità, come alla risoluzione del conflitto di idealismo e positivismo. Come modelli vengono presentate e discusse le opere di Peter Behrens, figura centrale, attorno al quale ruotano tutti i grandi del Movimento Moderno in Germania: la classicità di Mies van der Rohe, l’espressionismo di Poelzig, Mendelsohn e Taut, la severità poetica di Tessenow, lo spirito democratico di Oud e Dudok, e le linee poderose di Bonatz, Fahrenkamp e Kreis. Platz spiega nel suo trattato lo Zeitgeist del moderno. «I monumenti più importanti del nostro tempo saranno non soltanto scuole ospedali e uffici amministrativi, ma stabilimenti balneari e biblioteche; anche i luoghi del riposo, teatri e sale da concerto, cinematografi e sale di riunione, musei e padiglioni espositivi sono monumenti dell’epoca, che li si consideri domicili delle muse o luoghi di barbarie». Il libro di Platz è l’epopea di una Monumentalità moderna, fondata sulle proporzioni, sulla stereometria più che sugli ornamenti, su masse semplici e simmetriche che saranno in grado di unire, nel ritmo e nella finezza di gradazione, Potenza e Bellezza. Poiché, come scriveva Ernst Bloch nel Principio Speranza, «la nudità costringe a inventare». Gustav Adolf Platz, L’Architettura della nuova epoca, Editrice Compositori, 292 pagine, 38,00 euro
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di Marco Ferrari quel tempo cercavo i tramonti, i sobborghi e l’infelicità; ora cerco i mattini, il centro e la serenità». Sta in queste poche parole della prefazione scritta nel 1969 il senso del libro Fervore di Buenos Aires di Jorge Luis Borges (Adelphi, 198 pagine, 14,00 euro), riproposizione della sua prima opera poetica del 1923 di cui si conoscono almeno nove revisioni. Della Buenos Aires dei guappi, dei coltelli, della malavita sorta nei conventillos di latta e legno degli emigranti e nella sensuale promiscuità del tango, alla fine degli anni Sessanta rimaneva oramai poco. Il quartiere Palermo, della sua schietta e barbara gioventù, era già inurbato dentro la metropoli degli intrighi e delle beffe, pronta a gettare al vento la sua felice stramberia di Europa rovesciata per la protervia e l’ignoranza del potere. Nel barrio, che deve il nome a un grossista siciliano di carne, si giocava al Truco («quaranta carte al posto della vita» cita la poesia omonima), i patii odoravano di mate e le macellerie erano «più turpe di un bordello».
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In quella città, di ritorno dall’Europa, dopo il soggiorno a Ginevra dal 1914 al ‘18 e in Spagna sino al 1921, lo scrittore portò la metafora ultraista adattata alla tradizione criolla, così fortemente esaltata dalle celebrazioni del centenario dell’indipendenza argentina del 1910 che trasformarono il cuore spurio e ibrido porteño in un’originale qualità del vivere. Rieditandole e riscrivendole quarant’anni dopo, le poesie sembrano determinare una frattura del tempo ma anche una frattura dell’anima: la Buenos Aires di una volta con le modeste case basse dei barrios già odorosi di pampa rispetto a quella dei grattacieli e dei grattacapi (l’inizio della catena dei colpi dei stato); la spiritualità delle radici personali di Borges impiantate nel sobborgo di Palermo rispetto alla centralità del suo vivere in un quadrato urbano di perfetta metamorfosi tra biblioteche e bassifondi, alberghi e giardini, gallerie commerciali e ritrovi di milonga. Dal 1944, infatti, prima in compagnia della madre e poi di Maria Kodama, sua ex alunna, ex segretaria e quindi seconda moglie, Borges andò a vivere in centro, nella parallela di Florida, Maipu 994, sesto piano e uno splendido androne di marmo giallo da dove partono la marmorea scala elicoidale e un piccolo ascensore. Siamo a due isolati dall’alberata Plaza San Martin, visibile dalle finestre di casa, appena dopo Palacio Paz, lo storico palazzo Kavanagh e un altro edificio dalla facciata parigina. Là, Borges andava «in cerca della sera», come scrive nell’omonima poesia, «sotto l’assoluzione degli alberi» jacarandas, acacie - che attenuano l’imponenza della statua di José de San Martin. Qualcuno, ancora, vi può indicare la panchina dove Borges era solito sedersi in quella che lui stesso definisce «facile tranquillità» segnata da un suono greve e
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Un salto del tempo. Un inno mancato alla patria, luogo di barrios, case basse odorose di pampa, guappi, coltelli e vagiti di tango prima… geometrica metropoli poi. È lo sfondo dell’opera poetica giovanile di Jorge Luis Borges, uscita nel 1923, dedicata alla sua città. Riedita da Adelphi ci racconta di “schiamazzante energia” e di “plebe dolente”, di sere cercate “sotto l’assoluzione degli alberi”
Fratture dell’anim sassoso di bandoneón mosso con minimo sforzo ma grande intensità da un suonatore ambulante anonimo, cieco come lui.
Arrivava a San Martin quasi ogni sera, verso le 18, con il soprabito blu e il bastone comprato in Egitto, dopo una capatina nella Galeria del Este, proprio in faccia alla sua abitazione. Lì, al numero civico 971, si trova la minuscola Libreria la Ciudad della signora Elizabeth Blast che, adesso, presenta una vetrata interamente dedicata alle opere originali di Borges, tra le quali Cosmogonías, edita proprio dalla casa libraria. La signora la mattina scriveva sotto dettatura di Borges e il pomeriggio riscriveva le correzioni che lo scrittore le dettava.
Ad esempio La rosa profonda fu dettato interamente agli amici da una scrivania quasi attaccata alla vetrina del negozio di libri. Con sagace preveggenza, superando le barriere del tempo, che nei versi di Rosas definisce «immortalità instancabile», Bor-
mente, lo hanno allontanato per sempre dal monumentale Cementerio.
Antiperonista, direttore della Biblioteca Nazionale Argentina dal 1955 al 1973, Borges sembra passare indenne tra i tur-
Le radici dello scrittore argentino erano impiantate nel sobborgo di Palermo, poi si trasferì vicino a Plaza San Martin, dove nella libreria “Ciudad” dettava i suoi testi alla proprietaria
ges annuncia la sua futura condizione fisica («Come un cieco le cui presaghe mani/ scostano muri e intravedono cieli» scrive in Forgiatura) e il suo eterno riposo. Nei versi di La Recoleta definisce il monumentale camposanto «luogo delle mie ceneri», In alto, un’immagine di Borges anche se poi venne sepolto al Plain Palais e una sua foto con Italo Calvino. di Ginevra, città dove morì di cancro al feA fianco, due ballerini gato nel 1986. Alla Recoleta, passeggiava di tango. Nell’altra pagina, con Adolfo Bioy Casares, Silvina e Victoria alcuni quartieri Ocampo, Leopoldo Marechal per scoprire di Buenos Aires dove le tombe dei padri della patria. Le polemiha vissuto lo scrittore e la copertina che degli ultimi anni di vita relativi ai desadel libro “Fervore parecidos e alla sciagurata invasione delle di Buenos Aires” isole Malvinas, che disapprovò pubblica-
bolenti anni Sessanta che segnarono i primi ritardi e primi distacchi della nazione latino-americana rispetto alla madre europea. In quel tempo l’influenza italiana sulla cultura, il costume e la politica argentina era ancora esorbitante come testimoniato dalla visite di Stato a Buenos Aires di Gronchi nel 1961 e di Saragat nel 1965. Il radicale Arturo Ercole Frondizi, originario di Gubbio, in carica dal 1958 al 1962, sembrò fornire una certa stabilità alla nazione argentina. Partito da posizioni di sinistra, cercò di tranquillizzare il mondo imprenditoriale con una linea moderata non dissimile da quella della Democrazia cristiana
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maggior numero di psicologi al mondo, rispetto alla popolazione, alla prese con una malattia comune: sradicamento. Cominciò allora a farsi largo l’idea che l’emigrazione fosse stata un doppio inganno: dopo aver tolto le radici a milioni di persone, non concedeva una nuova e salda identità, frantumata nella fine del sogno di stabilità che un pavido militarismo ogni giorno minava. Ne sono testimonianza la profonda malinconia del tango innovativo di Astor Piazzola, le immagini della Boca di Alfredo Lazzari e Quinquela Martin, le opere di Manuel Puig e Julio Cortàzar. Il rifugio in una prosa metafisica contagiò, oltre a Jorge Luis Borges e Ernesto Sabato, altri autori che diedero vita a una nuova corrente letteraria di respiro internazionale. In quel contesto Marco Denevi (Cerimonia segreta, Rosaura alle dieci, Assassini dei giorni di festa) creò il mito della città tentacolare dove il nero, il funereo e il macabro si celano dentro indistinti condomini di gente che neppure si saluta e si conosce.
mo Viejo, quartiere diviso dall’altra Palermo dalla grande Avenida Santa Fe, diverrà il notturno cuore mitologico della città. Là dove visse da bambino, in calle Serrano, tra Paraguay e Guatemala, in una casa che la modernità ha portato via, c’erano gauchos porteños, donne da strada, magnaccia, odore delle stalle, vagiti di tango. Ancora non esisteva la paura dello spaesamento, il perdersi all’altro capo del mondo.
Nel decennio Sessanta Buenos Aires divenne una geometrica costruzione, quasi uno zodiaco, in cui «le linee orizzontali dominano quelle verticali» e «quattro infiniti attraversano ogni crocevia», spiega Borges. L’ondata migratoria, infervorata dalla fine della seconda guerra mondiale e dal distacco dalla martoriata Europa, era oramai al capolinea. La nuova identità urbana e nazionale si definì nella ricerca di radici ibride a cui Borges portò il suo contributo quale direttore della Biblioteca National, allora in Calle Mexico 564, dove un paese senza storia depositava la tradizione alessandrina di conservazione della memoria. Vicino alla ex Biblioteca Nazionale, al civico 524, un edificio color crema è ancora se-
ma a Buenos Aires italiana, anche se poi venne deposto da un colpo di stato che portò al potere José Guido, presidente del Senato. Arturo Umberto Illia Francesconi, in carica dal 1963 al 1966, originario di Samolaco, in provincia di Sondrio, medico ferroviario, denominato «l’apostolo dei poveri», diede fiato a una politica di nazionalizzazioni senza perdere di vista il legame ancestrale con l’Italia, come evidenziato dalla trionfale tournée di Luigi Tenco nel dicembre 1965, nonostante fosse sotto le armi, primo in classifica in Argentina con Ho capito che ti amo e soprattutto dal personaggio del film Il Gaucho di Dino Risi del 1964. Ma anche il buon senso di Illia fu sconfitto: infatti venne deposto da Juan Carlos Ongania, quasi un parente, generale in pensione, famiglia di Varenna, provincia di Lecco, una manciata di chilometri di distanza da Sondrio. Illia uscì dalla Casa Rosada a piedi, passò tra la folla tumultuosa, chiamò un taxi poiché tutte le auto di servizio erano state vendute e andò in esilio a casa del fratello. Ongania e il capo dei militari Pistarini attuarono una politica antiliberale arrivando a proibire la minigonna, i capelli lunghi e persino le canzoni italiane, così amate dai loro padri e nonni. Alla crisi economica fece da riscontro una depressione generale che portò Buenos Aires a essere la città con il
de della Sade, la società argentina degli scrittori, di cui Borges fu presidente. Quando aveva ospiti di riguardo, mostrava i patii a cui si accede passando attraverso cancellate in ferro battuto.Altre volte amava mostrare, nel vicino pasaje San Lorenzo, la strana casa del civico 380 di appena due metri di larghezza, l’edificio più stretto della metropoli rioplatense. Di certo apprezzava Palazzo Barolo, ideato come santuario dantesco di Buenos Aires dall’architetto Mario Palanti e dall’industriale Luigi Barolo che là volevano depositare i resti mortali del Sommo Poeta per sottrarli alla possibile distruzione bellica
le grandi metropoli europee.Per questo Fervore di Buenos Aires è un inno mancato alla sua patria di cui, all’epoca, si poteva notare «la schiamazzante energia di certe vie centrali e l’universale plebe dolente che frequenta i porti», come scrisse nella prefazione del 1923. C’era nella città di allora un certo fatalismo, definito «burlone e criollo», «che fa vedere al termine di ogni sforzo il fallimento». Borges la chiama «una nobile tristezza», pronta a saccheggiare la quiete dell’anima, già facendo intravedere le delusioni della grande ondata migratoria europea. Resta contrapposta a questa città, specchio di altre
Borges avrebbe voluto essere sepolto a “La Recoleta”. Ma la sua opposizione ai desaparecidos e all’invasione delle Malvinas lo ha allontanato per sempre dal monumentale cimitero di un’Europa lacerata e divisa. In quella visione eclettico modernista, monumentale e neoclassicheggiante, la capitale argentina assunse dai primi decenni del secolo scorso una dignità stilistica che le permise di confrontarsi e rivaleggiare con
città, quella più antica, dei sobborghi, delle case basse, pronta a inghiottire l’imbrunire della sera e del tempo, segnato dal lento tramonto del sole nella terra infinitamente piatta. Quei sobborghi saranno, poi, il centro della prosa di Borges. Paler-
I vicoli Bollini e Russell, che furono i suoi preferiti, conservano ancora oggi le facciate bianche e rosa delle case dove ambientò il racconto Juan Muraña. Non lontano, al civico 3784 di Honduras si incontra la casa, oggi biblioteca municipale, di Evaristo Carriego, «il primo spettatore - secondo Borges - dei nostri quartieri poveri». A pochi metri di distanza, Borges situa il punto esatto della Fundaciòn mitica de Buenos Aires. All’angolo delle vie Borges e Guatemala, apre le proprie porte in legno «El viejo almacen. El almacen, padrino del malevo, dominaba la esquina», spaccio trattoria, «padrino del malaffare», a cui sono dedicati diversi poemi, che conserva la propria architettura originale. L’altra Palermo, tra il Giardino Botanico e il Giardino Zoologico, ospita mirabili palmeti, aree verdi, giochi per bambini, bar affollati, crocchi di persone e una luce obliqua, riflesso del Rio de La Plata. Il mistero si annida qui, tra grandi palazzi, quartieri dalla vita autonoma, città nella città (un po’ come Genova o Barcellona) che tutto inghiotte, macina, nasconde, priva di memoria. Quest’ultima sta solo nei libri, nel labirinto della scrittura a cui l’inventore dell’Aleph era legato, nei testi di Schopenhauer, de Quincey, Stevenson, Shaw, Léon, Bloy più quelli istituiti dalla critica (Kafka, Poe, Quevedo, Swift, Unamuno e Wells), a cui aggiungere quelli che sono considerati suoi figli legittimi (tra i quali gli italiani Umberto Eco e Italo Calvino). Del resto il 16 ottobre 1984 a Roma, Calvino pronunciò un discorso proprio di fronte al maestro argentino intitolandolo «I gomitoli di Jorge Luis», cioè un filo attorcigliato attorno a un centro, «la rivincita dell’ordine mentale sul caos del mondo». Fervore di Buenos Aires come opera prima prefigura, secondo l’autore, tutto quello che scrisse in seguito. Per Tommaso Scarano, curatore del libro riedito da Adelphi, pare una valutazione eccessiva. E ha ragione. La contrapposizione tra la Capitale prima e dopo l’infornata migratoria, tra criollismo e ibridazione, sarà infine risolta con il sogno, il fantastico, il mistero, la visione dell’Aleph («il luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli») in un modesto sottoscala di una trafficata strada porteña, Calle Garay.
Narrativa
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ra gli esordi letterari di buono spessore annoveriamo quest’anno anche il libro di Matteo Nucci, giovane saggista e filosofo romano. Il titolo, Sono comuni le cose degli amici, mutuato da un’affermazione di Platone, si stringe sul tema dell’amicizia, un tema di tradizione letteraria e filosofica, ma di poco successo narrativo. Il tema dell’amicizia giace sul fondo di un racconto tutto versato sui temi della famiglia dove compaiono amore matrimonio e figli come elementi in combinazione tra loro. La storia di Lorenzo, il protagonista, narrata in terza persona comincia in medias res e procede per svelamenti e scoperte. Lorenzo sta organizzando il funerale del padre, la giornata è quella che precede il funerale, una giornata calda ed estiva. Leonardo, il padre di Lorenzo e Martina, giace sul letto composto e vestito in attesa della cerimonia. La casa è piena di gente in visita per salutare la famiglia e prendere congedo dal defunto. L’aria è sospesa e pesante, c’è la tristezza dell’evento e la gestione degli affetti, gli amici che imbarazzati sostano in casa e le persone che si incontrano anche non volendo. Seguiamo Lorenzo che vive una sorta di tempesta emotiva resa chiara dai continui dialoghi, caratteristici di questo testo che mette in evidenza una sorta di elementarità mimetica del dialogo, provando nella mimesi del discorso a evidenziare proprio la semplicità e l’impianto naturale di un parlato non costruito ma viscerale o immediato. Lorenzo è stato un figlio amato da un padre di cui il romanzo pian piano scoprirà l’identità, un’identità ambigua che Lorenzo sente come una sorta di schiacciante eredità. Certo proprio una domanda aleggia in tutto il testo: i genitori sono trasmettitori non di genetica ma di comportamenti, stili di vita e scelte? Lorenzo si consuma, dal giorno della morte del padre, in questo dubbio e comincia una vera e propria ricerca di profondo scavo, sul tema in questione. La morte è quindi fattore scatenante di una riflessione sull’essere e sui rapporti fra sé e gli al-
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Il bibliofilo
libri Matteo Nucci SONO COMUNI LE COSE DEGLI AMICI Ponte alle Grazie, 224 pagine, 14,50 euro
La famiglia in dettaglio È di spessore l’esordio di Matteo Nucci, opera di scavo, costruita sui dialoghi, incentrata sui rapporti con gli altri e la comprensione di sé di Maria Pia Ammirati tri, in particolare all’interno della famiglia. Pian piano seguendo i pensieri e i dialoghi di Lorenzo si arrivano a conoscere piccole verità quotidiane. Il romanzo è diviso in tre parti: la prima si esaurisce con l’annuncio della celebrazione dei funerali che noi non vedremo, ma di cui capiremo l’importanza nella seconda e nella terza parte. Nel dettaglio ogni parte ha un suo punto caldo e focale den-
tro il quale la storia trova delle soluzioni; la prima parte si intuisce e lentamente si comprende, polarizza il ruolo delle donne che girano attorno a Lorenzo, la madre, una ex moglie, una fidanzata. La morte del padre diviene un’occasione per Lorenzo per rimettere in discussione una stabilità affettiva che si percepisce già incrinata. Rivedere Carolina per Lorenzo è mettere in discussione le sue scelte. Lo-
renzo infatti è commosso dalla presenza dell’ex moglie che sente come un’appartenenza profonda, la profondità del tempo che costruisce i rapporti. Nella seconda parte troviamo Lorenzo e Sara, la fidanzata, in Grecia in vacanza. Lorenzo ha convinto Sara ad andare al mare in Grecia per poter stare solo e riflettere sull’improvvisa mancanza del padre, ma la Grecia diviene la prova dell’impossibilità di ristabilire contatti normali con il mondo circostante. Lorenzo sente montare dentro di sé la rabbia di non aver stabilito intorno a sé rapporti decenti, sente di ritornare continuamente alla moglie, sente la giovinezza passata con il padre come un cumulo di ricordi, e tra tutte le cose sente la mancanza dell’amico Marco, l’unico che non ha partecipato al funerale del padre. Perché Marco non c’era in quel caldo pomeriggio al Verano? La domanda è solo per noi, Lorenzo se la rimastica come una maledizione. Marco, come meglio scopriremo nella terza parte dedicata alla madre, era il fidanzato di Sara. Lorenzo è nudo di fronte alla verità, suo padre era stato un uomo difficile, ambiguo, forse cinico, aveva avuto e tradito molte donne, aveva intrecciato molte amicizie che erano naufragate per altrettanti tradimenti, aveva abusato di cibo e alcool, aveva abusato del gioco. Il padre aveva tradito gli amici come la madre, era questo il destino di Lorenzo. Aver tradito la moglie tradendo contemporaneamente anche l’amico d’infanzia? Il romanzo non dà risposte, sposta l’attenzione sul mondo, sulle piccole cose, sui dettagli invisibili dell’esistenza normale.
Le inquietudini di Slataper-Pennadoro
a rivista Belfagor (n. 2 del 31 marzo 2010) ospita un articolo ritrovato di Scipio Slataper, originariamente pubblicato nel Nuovo Giornale di Firenze del 5 gennaio 1909. In questo testo, intitolato Una notte all’Ospedale di Napoli, Slataper racconta le impressioni riportate dopo essere partito volontario per soccorrere una frangia di sopravvissuti, trasferiti nella città partenopea, al terremoto che il 28 dicembre 1908 devastò Messina e Reggio Calabria. L’impegno civico che contrassegna questo scritto, tipico dello Slataper, si inscrive in quel particolare momento storico che prelude all’immane carneficina della «grande guerra» nella quale lo stesso autore perse la vita, appena ventisettenne. La vicenda biografica e intellettuale di Slataper si configura tra le più paradigmatiche del primo Novecento, in virtù soprattutto di quel formidabile connubio tra valenza etica, tipica della cultura vociana di cui faceva parte, e la forte componente lirica che caratterizza tante sue pagine. Nato a Trieste il 15 luglio 1888, dopo un’infanzia serena in cui ha occasione di misurarsi con l’ambiente del Carso per riprendersi da una forma di anemia, si stabilisce a Fi-
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di Pasquale Di Palmo renze nel 1908 per completare gli studi. Qui conosce e frequenta Prezzolini, Soffici, Papini, Jahier e comincia a collaborare a La Voce, pubblicando le Lettere triestine, una serie di interventi incentrati sul tema dell’irredentismo, destinati a procurargli parecchi oppositori nella sua città natale. Nel 1910 la fidanzata Gioietta, soprannominata Anna, si suicida a Trieste. Ci sono pervenute le lettere a lei inviate dallo scrittore, oltre che alle amiche Elody Oblath (la futura moglie di Giani Stuparich) e Gigetta Carniel, che Scipio sposerà nel 1913. Alle tre amiche, com’è intitolato il libro che uscì per Mondadori nel 1958 (una precedente edizione vide la luce nel 1931, in tre volumi, per i tipi dei Fratelli Buratti, con il titolo Lettere), doveva costituire, secondo le intenzioni dell’autore, una sorta di «romanzo di formazione», ideale prosecuzione di Il mio Carso. Il mio Carso apparve nel 1912, ventesimo quaderno della Libreria della Voce, in 2000 copie non numerate. Nel frontespizio della collana, diretta da Giuseppe Prezzolini, è presente il logo disegnato
L’edizione del 1912 di “Il mio Carso”, composto dallo scrittore triestino in una grotta di Ocisla
da Ardengo Soffici, raffigurante un contadino che zappa la terra. Il titolo originario dell’opera era Il mio Carso e la mia città, modificato su suggerimento dello stesso Soffici. Si tratta di una brochure di 124 pagine, con il titolo che campeggia in caratteri rossi in copertina; sulla quarta si legge: «I Quaderni della Voce si propongono di intensificare e allargare l’azione del giornale La Voce di Firenze». Oggigiorno si può trovare il volumetto a un prezzo che si aggira intorno ai 150 euro. Slataper, il cui nome in ceco significa Pennadoro («Tu sai che io sono slavo, tedesco e italiano», scriveva a Gigetta nel 1912), compose buona parte del libro in una grotta di Ocisla, sul Carso, che lui stesso aveva predisposto per questa funzione. Lo scrittore troverà la morte sul Monte Podgora, il 3 dicembre 1915, ucciso da un soldato bosniaco sotto i reticolati austriaci. In una lettera indirizzata qualche anno prima a Elody aveva scritto: «E un giorno, ancora giovane, camminando nel Carso, quando i sassi e i fiori mi diranno le cose che io ho già dette, allora uno slavo mi scaglierà addosso un sasso corroso e forte e pieno di spigoli. E io cadrò giù, sul Carso. [...] Voglio morire alla sommità della mia vita, non giù. Sarà l’ultima Calata, portato a spalla».
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poesia
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L’anima del mondo si rivela nel buio di Roberto Mussapi li incanti del buio: dal rapimento notturno, da quella condizione di interruzione del tempo e di irruzione del sogno, ha origine una costola della letteratura universale. Non un genere, ma una costola. Il buio è come il mare, come il viaggio, come il sole, come il cielo: i grandi scenari che, pur pieni di bellezza e senso, e anzi forse proprio perché traboccanti di pienezza, attendono, desiderano il completamento umano, la poesia, l’opera. Conosciamo il buio cosmico che precede l’avvento della luce e con essa confligge: il buio delle cosmologie che si oppone all’esplosione della vita, al trionfo del regno della luce. Questo buio persiste, ma non univocamente negativo come può apparire a prima vista: atra e nera è la tenebra dell’inferno dantesco, ma senza il viaggio in quel regno non sarebbe possibile nemmeno partire, l’impresa stessa dell’alta ascesa alla luce si troverebbe monca sul nascere, privata delle radici. Acheronte, il fiume Stige, sono regni tenebrosi assoluti per le bolge dei dannati, non per il poeta che senza quel porto cupo e disperato non avrebbe punto da cui salpare.
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Buio e atro, una notte senza speranza di respiro e luce, è l’oltretomba greco, che Dante riprende nelle forma, ma trasforma nell’essenza: la notte più triste e cupa è il regno di Ade, dove Ulisse scende vivo, in uno dei grandi viaggi agli Inferi dell’uomo e della poesia, per piangere sgomento di fronte all’ombra vacua e opaca del grande Achille, e a quella, disperata, della propria madre. Per questo, a causa di questo oltretomba disperatamente buio, i greci portano ai vertici il genio plastico, poliscono, levigano il marmo per estrarre dalla pietra la luce perenne della scultura. Il buio e la notte mantengono la valenza sinistra, negativa, annichilente e nichilista nei voli stregati del mago Faust di Goethe, nelle sue diaboliche, infernali scorribande notturne, il buio eterno e irredimibile affiora dalla terra che si splanca davanti al Dottor Faustus di Marlowe, il precursore di Faust, mentre il pendolo scandisce il tempo della sua vita che sta per scadere. Sotto, inevitabile punzione al mago che ha venduto l’anima a Mefistofele, il buio atro e perenne della terra che si spalanca. Ma doppia è la valenza del buio, letteralmente doppia: quando scende la sera e poi giunge la notte, si mani-
il club di calliope
festa la potente realtà siderale, il mondo degli LLA SERA astri che tracciano le rotte nel cielo, i segni tramati dall’alto, imperscrutabili nella luce del giorno. Le palpebre si chiudono, il sogno Forse perché della fatal quiete irrompe. A pochi esseri superiori è concessa tu sei l'imago a me sì cara vieni la conoscenza, sensoriale e intellettiva, nel buio: il Gufo Reale, Bubo Bubo, e in genere i o Sera! E quando ti corteggian liete rapaci notturni suoi parenti, allocchi, barbale nubi estive e i zeffiri sereni, gianni, civette, uccelli che vedono nel buio, percepiscono ogni vibrazione, custodiscono vigili e tesi i nostri sogni. e quando dal nevoso aere inquiete La notte, in letteratura come nella vita, è anche e forse supremante il regno dell’incanto: tenebre e lunghe all'universo meni lo comprese e sancì indelebilmente Leopardi sempre scendi invocata, e le secrete nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, lo attesta il più grande libro narrante vie del mio cor soavemente tieni. mai scritto accanto all’Odissea, Le mille e una notte. Qui la notte, anzi la successione delle notti, sono il cuore stesso dell’esperienza delVagar mi fai co' miei pensieri su l'orme la vita, dell’amore, del viaggio, il segreto della trasformazione. Solo nella notte, insegna il che vanno al nulla eterno; e intanto fugge magico libro arabo, l’immaginazione, represquesto reo tempo, e van con lui le torme sa o controllata durante il giorno, entra potentemente in scena, alfiere del sogno. Analogamente nel capolavoro teatrale sul sodelle cure onde meco egli si strugge; gno, il sogno dei sogni, la notte delle notti, la commedia liminare, se Sogno di una notte di e mentre io guardo la tua pace, dorme mezza estate di Shakespeare non è solo quello spirto guerrier ch'entro mi rugge. un’avventura nel sogno notturno, ma di una notte di mezza estate, di quel periodo dell’anno che precede la piena esplosione estiva e Ugo Foscolo ha già lasciato alle spalle le inquietudini primaverili: un periodo che è una soglia, un periodo di accesso alla piena luce, al calore assoluto. Il Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare con il suo bosco fatato e i capricci dei si- to da tre spiriti che ne tramuteranno felicemente il cuore. gnori delle fate che influenzano, tramite il sogno, le azio- Notti mistiche ed estatiche, capaci di contrastare altre ni degli umani, è la quintessenza del teatro, dove le trame notti funeste, quella di Dracula, quella tenebrosa degli si fanno e disfanno impercettibilmente, dove la realtà not- spalti del castello di Elsinore, dove si propizia e consuma turna, stravolgendo le regole del giorno, in realtà le tra- la tragedia di Amleto. E le notti in cui cammina cammina sforma, consegnandoci modificati al risveglio, al nuovo per le vie di Parigi Charles Baudelaire, e quelle veneziane, ebbre e danzanti di Byron… giorno. Rigenerati dal sogno e dalla notte. Pensiamo ancora alle magiche notti delle poesie per l’infanzia di Stevenson, dove il bambino si addormenta e il Alla selva buia di Dante, ai notturni di Tasso, alle notsuo letto diviene una nave, le ombre del salone dal cami- ti astrali di Leopardi, il quarto supremo poeta italiano, no prendono forme di vascelli e guerrieri… E poi gli Inni Ugo Foscolo, aggiunge un gioiello insuperabile: un soalla notte di Novalis, la commozione dell’uomo nella netto dedicato non alla notte ma alla sera, all’attimo del grandiosità trionfale del buio, e le magiche notti genove- trapasso, a quel breve e fatale tempo di interruzione cosi di Campana… E l’usignolo di Keats, il balcone di Giu- smica in cui si passa dal tumulto alla quiete. Il mondo dei lietta nella incantata notte veronese, il Tamigi nella notte sogni e della sospensione incombe, l’affanno e il travalondinese dei romantici, i presaghi e straordinari nottur- glio del divenire stanno per svanire: la sera è cantata con ni di Tasso… La notte nella sua bellezza serena, piena, la prodigiosa sapienza del poeta che coglie in quel passvelante: la notte in cui il giovane Jim, nell’Isola del Teso- saggio il mutamento eterno e quotidiano della realtà dalro, nascosto nel barile delle mele scopre l’ammutinamen- la luce al buio. La quiete che scende in lui è la quiete delto, la notte in cui Scrooge, l’avaro londinese dell’immor- l’universo. La voce del poeta non parla a nome di un intale Racconto di Natale di Charles Dickens, è frequenta- dividuo, ma dell’anima del mondo.
A
L’ANTIMINIMALISMO DI LAUREANO ALBÁN in libreria
(…) Perché la donna non è cielo, è terra carne di terra che non vuole guerra: è questa terra, che io fui seminato, vita ho vissuto che dentro ho piantato, qui cerco il caldo che il cuore ci sente, la lunga notte che divento niente. Femmina penso, se penso l'umano la mia compagna, ti prendo per mano. Edoardo Sanguineti (da Ballata delle donne)
di Loretto Rafanelli
aureano Albán è un poeta costaricano assai noto nel mondo ispanoamericano (nonché diplomatico presso Onu e Unesco), cantore della straordinaria civiltà precolombiana (Azteca, Maya, Inca), con la sua complessa spiritualità, ma pure della complicata realtà di oggi. Il suo è un lirismo pieno di intensa immaginazione, di strenua creatività, di stupefacente fantasia, sfociante in un andamento epico e onirico imponente. I versi che possiamo leggere in Gli infimi crepuscoli (Via del vento edizioni, 36 pagine, 4,00 euro), sono solo un assaggio, ma illustrano già la nitida grandezza della sua poesia. La sua poetica, antiminimalista e ondeggiante sui grandi percorsi della storia, dell’uomo, della natura (come già in Walcott), lo porta a un senso di pienezza e di vitalità come raramente capita di leggere. E il mare è l’elemento che accompagna questo filo espressivo: «perché il mare è un viaggio/ di unisoni cavalli di cenere./…/ perché il mare è il viaggio/ permanente del corpo,/ il legno e la luce,/ gli occhi inabissati».
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di Pier Mario Fasanotti
Q
uando un serial funziona, i grandi produttori sono tentati di adattare il format a paesi diversi da quello in cui è nato. Accade con Law and Order (su Fox Crime). Cambia qualcosa? Certamente sì, a partire dall’ambientazione. Invece dei lucidissimi grattacieli americani ci prendiamo una vacanza geografica, ed estetica (ci perdonino gli States ma è così visto che tutte le loro città si assomigliano), con Londra. Le vicende, nella loro trama non difficile da dipanare, ne risentono poco, ma comunque assorbono, nel ritmo in cui vengono raccontate, il clima umano e cultural-storico del nuovo scenario. Law and OrderUk (la serie inglese, appunto) è un prodotto medio. Ma qui sta il bello. Tra penose ambizioni di novità e la resa agli stereotipi più banali, magari con l’aggravante della vena pseudo-comica, la res media ruba il trono della qualità e ci sale sopra. Chi ha dimestichezza con il genere giallo non si lascia sorprendere così facilmente dai colpi di scena. Ma c’è sempre una percentuale di inatteso, che deriva dal fatto che il telespettatore, più ancora del lettore, si affida interamente allo svolgimento delle scene. Se poi gli indizi sono tali da portarlo nelle braccia della verità finale prima del tempo, c’è sempre la soddisfazione di poter dire «ecco, io lo pensavo…». Cardine, questo, dell’antico spettacolo teatrale. Di qui la necessità del regista di curare il contorno, che è fatto di personaggi, caratteri, brevi incursioni nella loro vita familiare, ma anche di scenari. Nell’episodio intitolato Sepolto viene ritrovato a distanza di 25 anni lo scheletro di un bambino di otto anni nello scantinato della casa di fronte alla quale lui abitava assieme alla madre vedova. È una specie di cold case, ossia un crimine vecchio (letteralmente «freddo») che, per un caso, reclama oggi e solo oggi una soluzione. Emergono allora due modi di investigare diversissimi: il detective che s’era occupato del caso automaticamente s’accanì contro un omosessuale, ignorando che la pedofilia è strettamente legata all’eterosessualità (sia pur malata) e all’ambiente familiare. Se decenni fa si dava la caccia
danza
Televisione
MobyDICK
spettacoli DVD
Law&Order-Uk nell’oltretomba della memoria
MISS SCICOLONE, NASCITA DI UNA DIVA cicolone per l’anagrafe, Lazzaro per i fotoromanzi, per tutti Sophia Loren. Anima di un pezzo di storia d’Italia, e corpo di un sogno, l’attrice di Pozzuoli rivive in tutto lo splendido intreccio romanzesco che la portò dal Vesuvio alle vette di Hollywood, nel bel documentario di Roberto Olla e Danila Satta. Cercando Sophia, di nuovo in videoteca per Surf Video, racconta la donna, tanto quanto la diva. Perché la Loren è stata dolcissima e acerrima nell’inseguire i suoi desideri: dal sofferto matrimonio con Ponti agli stenti patiti in guerra, dai 19 giorni di carcere all’irta strada che l’ha incoronata signora del cinema.
S
PERSONAGGI
VASCO ROSSI A FUMETTI, LA FANTASIA AL POTERE l mondo che vorrebbe ce l’ha fatto intravedere, ma adesso che non ha più le sue illusioni, che cosa gliene importa della realtà? Molto, ma alla sua maniera. La stessa che trasforma Vasco Rossi nell’eroe di una graphic novel. Ho fatto un sogno, da questa settimana in libreria per le edizioni Rizzoli, racconta l’inconfondibile Blasco in un prezioso bianco e nero che riproduce le sue movenze, il cappelletto, le espressioni tenere e beffarde. Perché mister Rossi diventa un fumetto, lo spiega lui stesso nella prefazione dell’opera: «Il fumetto aiuta a combattere il grigiore quotidiano». Utile quanto mai, in «un mondo che ha bisogno di trovare un colpevole perché non sa affrontare le colpe» .
I al «finocchio», oggi ci si avvale di studi, di psicologi e di statistiche. Il bimbo scomparso, Tommy, frequentava la casa di fronte dove un buon padre di famiglia lo trattava affettuosamente. Julia, la figlia di questi, era la sua amichetta di giochi. Ed è su Julia che gli investigatori che devono riferire ai Procuratori della Corona si soffermano dopo aver notato minime anomalie nel suo modo di riferire i ricordi, allora e oggi. La police britannica si avvale di una psicologa. Due le convinzioni. La prima: da bambini si può essere indotti a credere a versioni alternative degli eventi. La seconda: se ci sono ricordi «sepolti» il soggetto ha forse una vaga sensazione del sommerso - che si traduce in di-
sagio relazionale - ma non necessariamente la consapevolezza dell’esistenza dell’oltretomba mnemonico. Attraverso un metodo sperimentale Julia è la prima a spaventarsi di fronte ai propri ricordi «veri», che furono «spostati» da un’autorità paterna soffocante e deviata. L’argomento dell’abuso sessuale sui figli e in genere sui minori è orrendamente attuale. L’episodio che abbiamo citato mostra bene come le stratificazioni sociali, culturali, emotive coprano la verità. Oltre a questo pesa un modo di investigare fortemente agganciato ai pregiudizi. Non illudiamoci che nella vita reale i cambiamenti televisivi siano ugualmente marcati.
di Francesco Lo Dico
Una Biennale all’insegna del respiro Diana Del Monte i è aperta con una boccata di ossigeno questa settima edizione del Festival di Danza Contemporanea della Biennale di Venezia dedicata alle emozioni. Intitolato Capturing emotions, il festival è stato inaugurato mercoledì da Oxygen di Ismael Ivo, coreografia portata sul palco dai 20 danzatori dell’Arsenale della danza, il progetto formativo fortemente voluto e avviato l’anno scorso dal coreografo e direttore artistico del festival. «Fai un respiro profondo e inala una buona quantità di aria. Trattienila per tre secondi. Preparati a un’immersione immaginaria. Mentre espiri l’aria, rilassati e abbandona il corpo come se stessi per perdere l’equilibrio. Quando sei sul punto di cadere, fai un passo. È l’occasione per un nuovo inizio». Dopo il triennio dedicato al corpo Body Attack, Under Skin, Body & Eros
S
- e l’anno di Beauty (2008), nel 2009 Ismael Ivo ha portato la «sua» Biennale al Grado Zero. Oggi, il coreografo afrobrasiliano riapre la rassegna con uno spettacolo ispirato all’attività più naturale e necessaria dell’uomo, il respiro. Primo atto della vita di un bambino, respirare è la funzione primaria del corpo umano, ma è soprattutto la molecola del movimento, l’elemento minimo della danza che Ivo mette in scena con la complicità della musica rarefatta di Arvo Part posta in contrapposizione al tessuto sonoro di John Adams. Dopo l’apertura affidata a Ivo, questa settima edizione, che si concluderà il 12 giugno con una maratona di brevi performance danzate intitolata Marathon of the unexpected, si avvia verso la ricognizione di un’ampia area geografica che va dal Canada, già da tempo tappa per un ipotetico grand tour contemporaneo della nuova danza, all’Australia, luogo di inaspettate
prospettive per la scena futura. Immancabili, in questo quadro, le performance dell’irriverente e focosa personalità della québeccoise Marie Chouinard (28/05) e del più tradizionale ensemble dei Grands Ballets Canadiens de Montreal che stasera porterà per la seconda volta sulle scene lagunari il Sacre du printemps di Stijn Celis insieme a Bella Fugura e six dances di Jiri Kylian. In questo panorama ampliato fino agli antipodi geografici, ai nomi già noti si uniscono, poi, le nuove proposte, quali le formazioni dei Kidd Pivot (30/05), dal Canada, e dei Chunky Move (5-6/06), dall’Australia. Italiani, invece, sono i due progetti realizzati in coproduzione con la Biennale e sostenuti dal progetto Enparts (European network of performing arts) che saranno presentati in prima assoluta durante questo festival veneziano.
Il 9 e 10 giugno l’appuntamento è con Cristina Caprioli con Cut-outs & trees, mentre il 10 e 11 giugno va in scena Tristi tropici di Virgilio Sieni, spettacolo liberamente ispirato al famoso libro/diario dell’antropologo Claude-Lévi Strauss. Quest’anno, infine, Leone d’oro a William Forsythe per aver «rivoluzionato il mondo della danza rigenerandone il linguaggio classico, di cui ha ricostruito e decostruito le forme dall’interno, diventando punto di riferimento per le giovani generazioni» che, per l’occasione, porterà al Teatro Piccolo Arsenale un suo recente quartetto N.N.N.N.
Cinema
MobyDICK
egli ultimi anni del matrimonio di Lev e Sof’ja Tolstoj c’era più guerra che pace. La prima star letteraria della modernità, riverita e osannata come un monumento vivente, era stata travolta da un’oceanica crisi mistica, ed era in rivolta contro la sua vita privilegiata di aristocratico possidente terriero, ulteriormente arricchita dal successo internazionale dei suoi libri. The Last Station, tratto dal romanzo di Jay Parini, racconta il suo ultimo anno di vita. Molti personaggi presenti in quei tormentati mesi hanno lasciato scritto le loro versioni dei fatti, e il regista e sceneggiatore Michael Hoffman ne tira le somme, piantandosi saldamente nel campo di Sof’ja, che combatteva perché proprietà e diritti d’autore restassero in famiglia. Il romanzo è meno tenero con la moglie. L’avversario era il discepolo in capo del movimento tolstojano,Vladimir Chertkov (Paul Giamatti), che sosteneva l’anziano patriarca nel suo desiderio di devolvere tutti i suoi beni all’avanzamento della sua filosofia: resistenza passiva (poi adottata da Ghandi), astinenza dalla carne (nei due sensi, alcool e tabacco, e vita comunitaria votata alla coltivazione dello spirito e a beni in comune. La storia è vista attraverso lo sguardo di Valentin Bulgakov (il fantastico James McAvoy di Espiazione), ardente tolstojano, assunto da Chertkov come segretario dell’autore e come spia in occasioni intime che non prevedono la sua ormai contenziosa presenza in casa Tolstoj. Infatti l’organizzatore delle comunità tolstojane e il divulgatore delle sue idee viveva in esilio in un’altra tenuta. Tolstoj non è il primo idealista a promuovere comportamenti ascetici che non pratica. «Sei sempre il primo alla mangiatoia», gli sibila Sof’ja (Helen Mirren) quando il marito esprime il desiderio di abnegazione monacale. Il fascino della storia è nella lotta di potere nella coppia litigiosa e sensuale, decisa a non andare docile verso il sonno eterno. Lev e Sof’ja, sposati da quarantotto anni, avevano avuto tredici figli (solo otto sopravissuti) e una passione reciproca che quando non sfogava nella lite incendiava l’alcova, con giochi erotici scippati a galli e gallina dell’ormai celebre tenuta di Jasnaja Poljana, oggi adibita a museo tolstojano. Mirren (come attrice protagonista) e Christopher Plummer (come attore non protagonista) sono stati candidati all’Oscar, e se non siamo pienamente d’accordo non è colpa loro. Sono attori di rango anche quando vanno sopra le righe (e qui succede spesso), ma i difetti del film, in particolare l’intrigante, viscido Chertkov, un cattivo da cinema muto nell’interpretazione di Giamatti, sono da attribuire a Hoffman. Come avrebbe fatto un uomo di quella statura, autore di Anna Karenina, a sopportare un leccapiedi così ovviamente interessato a strappare a Sof’ja l’eredità che preferiva gestire Chertkov «per il bene dell’umanità»? Lo stile altalenante (che rispecchia l’eterogenea filmografia dell’autore) tra duello epico, melodramma e biografia letteraria in costume alla James Ivory, non si trasforma mai in uno sguardo personale fluido, armonioso, equilibrato, personale. Eppure sarebbe un peccato perdere una storia che vale la pena di conoscere e di approfondire.
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N
Lev, Sof’ja, un cane
e l’apocalisse di Anselma Dell’Olio È un film godibile ma il finale è falso: Sof’ja non è stata ammessa nella stazione; è un risarcimento post-mortem che le viene dedicato. Da vedere.
The Road, film su un mondo post-apocalittico in cui un Uomo e suo Figlio (privi di altri) cercano di sopravvivere contro pericoli mortali in un panorama di rovine: catastrofe ambientale, fame, predoni e bande di criminali ridotti a cannibali. Tratto dal romanzo di Cormac McCarthy (La strada) è un racconto morale che riflette e s’interroga su quel che resta quando tutto quello a cui si dà il nome di civiltà - quelle cose che ci differenziano dalle bestie - è spazzato via. Il cielo è buio, il sole non si vede più da anni, lavarsi è impossibile, fa freddo da spaccare le pietre, e quando nevica, i fiocchi sono grigi. Il padre (Viggo Mortenson, perfetto) e il figlio (Kodi Smit-PcPhee, ottimo) hanno solo una pistola (e due pallottole) per difendersi e un vecchio carrello arrugginito da supermercato per trasportare le poche cose utili che riescono a racimolare da case e supermercati ripuliti da tempo. Non sappiamo con precisione cosa è successo circa dieci anni prima, forse una serie di terremoti e incendi, forse una vasta esplosione nucleare, ma la devastazione rende la sopravvivenza una lotta quotidiana. I flashback della vita famigliare perduta, soffusi di luce e di colori caldi, sono un sollievo, anche se un pochino oleografici, mentre il romanzo non lo è mai, ma senza il classico refrain: «Il film non è all’altezza del racconto». Stephanie Zacharek di Salon.com è dell’avviso che il film sia superiore al «machismo retorico» del libro di McCarthy, che definisce «Pulp fiction travestito da Arte Alta». C’è della verità in questo giudi-
Stile altalenante ed errori di regia nel film di Hoffman sull’ultimo anno di vita di Tolstoj. Convince invece “The Road”, tratto dal romanzo di Cormac McCarthy: c’è chi lo preferisce al libro. Da non perdere “Le quattro volte” di Frammartino, prova di puro cinema sommessamente in concorso a Cannes
zio, ma si sa: le opere più geniali sono spesso in bilico tra il sublime e il ridicolo. Quando i pareri sono così discordi era meglio il romanzo, no è meglio il film - vuol dire che va visto. Charlize Theron, la madre che abbandona la famiglia perché non sopporta il degrado che li aspetta, è bravissima nel trasmettere la tragedia nella tragedia: la perdita dell’elemento tenero e accarezzante in un mondo ormai privo di pietas. Si astengano le anime belle che non sopportano temi «deprimenti». Da vedere.
Le quattro volte non era stato idolatrato come contributo italiano al Festival di Cannes, ma è l’unico a portarsi a casa premi e una barca di recensioni entusiaste. Molto più inchiostro s’è versato per le paturnie «Berlusconi fa schifo» di Sabina Guzzanti e quelle di Daniele Luchetti («Fa schifo ma si nomina»), film infinitamente inferiori (specie Draquila) alla meditativa, originale, coinvolgente opera anomala di Michele Frammartino; priva di dialoghi e di musica, è puro cinema. Ha vinto due premi a Cannes: l’Europa Cinema Label per miglior film alla Quinzaine des Realisateurs, che ha lo scopo di dare una mano a far conoscere il film e a farlo durare nelle sale (ne avrà bisogno). Il secondo riconoscimento è spiritoso e calza perfettamente con l’umorismo lieve del film e con la bravura di un protagonista. È il Premio speciale della giuria del Palm Dog per la migliore interpretazione canina. Il bastardino bianco e nero è strepitosamente bravo, e chissà come ha fatto il regista o l’addestratore a istruire tanto magnificamente il cane. È vero che è un pastore, ma (in un unico piano sequenza) l’animale è regista, aiuto-regista (fa spostare a suo piacimento comparse e un camion) e attore. Le scene del gregge di capre in fuga anarchica, che entrano in casa del pastore, montano sul tavolo di cucina, entrano in camera da letto è insieme poesia dell’imprevisto e slapstick Zen. Sono stati evocati i nomi di Antonioni, Robert Bresson e Raymond Depardon. Noi troviamo il tocco di Jacques Tati e di Otar Iosseliani. Attenzione: non è un documentario, né un documento etnografico, pur avendo elementi delle due cose. Da vedere sul grande schermo.
Cristalli sognanti
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MobyDICK
ai confini della realtà
I vasi comunicanti della creatività
vrei potuto scegliere tanti argomenti di sintesi per affrontare un pezzo sull’ultima edizione del Salone del Libro di Torino. Un tema poteva essere il sostanziale aumento del pubblico pagante, oppure l’incremento dei nuovi giovani lettori. O anche il momento d’oro della narrativa storica e degli autori italiani. O, infine, le commistioni multimediali che nemmeno tanto in punta di piedi, hanno fatto il loro ingresso dalla porta principale del tempio italiano della lettura. E invece ho deciso di farmi prendere dalla corrente, di seguire il suo flusso e di raccontarvi la fiera del libro sulla base dei libri che mi hanno attirato di più, che mi hanno spinto a mettere mano al portafogli e che, alla fine, come in una sorta di archivio all’impronta di titoli e copertine, possono rappresentare la mia personale cronaca di uno dei più importanti eventi mondiali legati alla lettura.
A
Premetto che il fruscio della carta mi piace ancora, che il profumo dell’inchiostro fresco riesce a inebriarmi più e meglio di una fascinosa essenza floreale e dunque non vi tedierò raccontandovi la mini invasione di piattaforme e-book che neanche troppo timidamente hanno cercato di convincere i paganti il biglietto che leggere su uno schermo a cristalli liquidi sia più economico, comodo e utile del perdere tempo a fare orecchie alle pagine, usare segnalibri, far schioccare la brossura male incollata di un libercolo a basso budget o sottolineare con penna e matita una frase o un incipit.Vi parlerò di libri: quelli veri. Sono un lettore onnivoro, al limite del compulsivo. Per le mie scarse finanze di giornalista di vecchio stampo risulta molto più pericolosa una sosta in una libreria che in un grande magazzino o in un negozio di dolci. Non riesco a uscirne senza portare via qualche chilo di carta rilegata e, naturalmente, scritta. Per questo non ho perso tempo negli stand delle grandi case editrici dando per scontato che non vi avrei trovato nulla di nuovo o diverso da quanto già razziato solo fino a qualche giorno prima dall’apertura dei cancelli del Lingotto. Ho passato invece più di una mezz’ora allo stand della Ecig, una piccola casa editrice genovese, portata avanti da gente appassionata e competente e specializzata in saggi monografici particolarmente attenti alle antiche civiltà, alle religioni e agli ordini cavallereschi. Me ne sono andato via con almeno una mezza dozzina di volumi, non tutti di recentissima pubblicazione, per approfondire temi legati alle mie prossime scritture compiacendomi che, una volta tanto, ci sia qualcuno in grado di realizzare libri interessanti e che non si scrivono certo in pochi mesi, pur contenendone i prez-
di Roberto Genovesi
Un fumetto ispirato a un format tv presentato a una fiera dedicata ai libri. Una catena che riassume l’anima nuova della “buchmesse” torinese da poco conclusa. È una delle suggestioni captate al Lingotto insieme ad altre, proposte da piccoli editori, collegamenti arditi tra antico e moderno, videogiochi... In alto, la copertina del nuovo manga sulla celebre serie C.S.I. Sopra, due immagini dei videogiochi “Halo” e “Metro 2033” a cui sono ispirati i relativi fumetti. A fianco, la copertina di “Carthago” di Franco Forte
zi di copertina.Vi consiglio, in particolare, i libri della collana Nuova Atlantide tra i quali mi hanno colpito un volume di Ubaldo Lugli dedicato alla rappresentazione dei fantasmi nella Roma antica e le monografie su Illiri, Germani e Russi.
Allo stand della Bietti ho trovato Inferni, il nuovo romanzo di Errico Passaro che ha scelto proprio l’ultimo giorno del salone per presentarlo a pubblico e stampa (ne ha parlato, proprio su questa pagina, Gianfranco de Turris sabato scorso). Passaro è uno scrittore che conosco molto bene e non solo perché ho scritto con lui almeno un romanzo e alcuni racconti.
Ne conosco l’approccio alla scrittura che è sempre stato legato allo stupore nella scoperta e nella riscoperta dei collegamenti più arditi tra antico e moderno, vera forza di tutte le sue fortunate opere letterarie. Come Passaro, anche Franco Forte viene dalla letteratura fantastica. Il suo percorso lo ha portato negli ultimi tempi a provare le sue notevoli qualità narrative nel filone della storia antica con incursioni nel Medioevo. Come molti tra gli scrittori più seri, Forte non ama i riflettori a cui preferisce la scrittura e la riservatezza. Ma questo non gli impedisce di collezionare successi come per il suo ultimo romanzo, Carthago, che presto sarà tradotto in numerose lingue, che si inserisce nel progetto Mondadori che, sotto l’egida di Valerio Massimo Manfredi, ha affidato ad alcune delle migliori menti creative italiane, il compito di raccontare in modo nuovo e appassionato la storia di Roma. Un tema usato e abusato che qualche volta accompagna al numero spropositato di titoli sui banchi delle librerie il rischio di nascondere le sue perle migliori. Per fortuna ciò non accade agli spettacolari romanzi di Andrea Frediani, tutti pubblicati da Newton Compton i quali, proprio al Salone di Torino, sono stati tra quelli più acquistati dai veri intenditori del genere. A partire da Dictator, primo di una trilogia dedicata a un giovane e sorprendente Caio Giulio Cesare. Alla fine non sono riuscito a resistere alle incursioni multimediali del padiglione giallo, come da alcuni è stata ribattezzata la sezione dell’area dedicata - per la prima volta al Salone - a fumetti, videogiochi e cross-medialità. Ne sono uscito con un bottino interessante e «pesante». A contribuire ci ha pensato il nuovo atlante della saga di Halo, splendido maxi volume pubblicato da Multiplayer.it e dedicato all’universo dell’ormai mitico eroe della saga videoludica simbolo della consolle Xbox Microsoft. Sempre allo stand della giovane e ultraspecialistica casa editrice ternana ho trovato Metro 2033, un romanzo di un giovane scrittore russo che deve il suo successo alla viralità della rete. Un tassello editoriale di un progetto cross-mediale composto al momento da un videogioco e da alcune incursioni nel mondo mobile e che, a detta della stessa Multiplayer, si arricchirà nei prossimi mesi di spinoff realizzati da autori ingaggiati da ogni parte del mondo per rappresentare nelle metropolitane delle loro grandi città il format del capitolo originario. Concludo questa breve e, per forza di cose incompleta e personale carrellata, con un manga ispirato alla celebre saga di Csi. Si tratta di Tirocinio letale, proposto dalla ReNoir e curato da Davide Caci. È forse il titolo che più di ogni altro rappresenta l’anima nuova del Salone del Libro di Torino appena concluso. Un fumetto ispirato a un format televisivo, presentato a una fiera dedicata ai libri. Dio benedica il principio dei vasi comunicanti e chi lo ha scoperto. La creatività ne ha davvero bisogno.
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando,Giuseppe Baiocchi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato,Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Gennaro Moccia, Angelo Maria Sanza
Il Federalismo può incentivare l’alleanza fra territori e famiglie
LE VERITÀ NASCOSTE
Le priorità indicate dalla Cei per il futuro dell’Italia sono preziose indicazioni su cui occorre riflettere. Importante il monito dei vescovi sulla necessità di nuove politiche fiscali e sociali in sostegno delle famiglie numerose, in quanto generatrici di valori economicamente rilevanti. Purtroppo l’attuale crisi economica ha rallentato l’introduzione del quoziente familiare. Esso rimane prioritario per arrivare ad un fisco più equo e invertire quel trend, così negativo, che vede l’Italia agli ultimi posti in Europa in tema di natalità. Non dimentichiamo che la sfida demografica, in quanto fattore di cambiamento più rilevante dei prossimi decenni, condizionerà ogni aspetto della vita pubblica, dalla propensione ai consumi alla sostenibilità previdenziale fino alle scelte socio-assistenziali. Il federalismo fiscale può rappresentare un’occasione unica per rilanciare nuove e più incisive politiche a favore della famiglia. La stessa legge delega ha previsto il principio del favor familiae quale criterio direttivo dell’intera disciplina del nuovo sistema tributario. L’auspicio è che la grande riforma federale possa divenire il terreno di un innovativo rapporto tra famiglia ed enti territoriali per una vera sussidiarietà orizzontale.
Barbara Saltamartini
GOLFO DEL MESSICO: GLI UCCELLI CHE RISCHIANO LA CATASTROFE
larmente vulnerabili in molti dei luoghi sulla costa dove il petrolio è arrivato.
Decine di specie di uccelli nidificanti e migratrici sono a grave rischio a causa della macchia di petrolio che ha raggiunto alcune isole del Golfo del Messico e le coste della Lousiana e del Missisipi. Le specie più vulnerabili sono quelle che nidificano nei pressi della costa o nelle zone umide, come il pellicano bruno, che era appena stato escluso dalla lista statunitense delle specie minacciate di estinzione, diverse sterne, gabbiani, ma anche aironi, ibis, anatre e altre specie come la schiribilla nera americana e il passero delle coste. A forte rischio anche gli uccelli marini pelagici, che passano larga parte della loro vita nel mare, tra i quali si segnala la fregata magnifica. Allarme anche per gli uccelli migratori come pivieri e piovanelli, che si fermano in gran numero sulle spiagge e sulle isole per riposarsi durante il lungo viaggio che li porta dai luoghi di svernamento in Sudamerica alle aree di nidificazione a Nord nelle foreste boreali e nella tundra artica. In Florida l’associazione Audobon ha reclutato volontari e ha predisposto il suo Centro per gli uccelli rapaci per le operazioni di pulizia e riabilitazione degli uccelli colpiti dal petrolio. Per gli uccelli è il momento peggiore, la nidificazione è già iniziata ed essi sono partico-
Lipu-BirdLife
LA CLANDESTINITÀ FULCRO DELLA CRIMINALITÀ Per il Nord il problema criminalità è prioritario. Lo confermano i dati dell’ultimo rapporto Istat. Soltanto in Veneto lo considerano tale 64 cittadini su 100, che motivano la loro preoccupazione anche in riferimento alla presenza di sacche di immigrazione clandestina, che fa da serbatoio alla malavita e alla criminalità. I veneti non sono razzisti: chiedono soltanto che si prenda atto della realtà con onestà intellettuale e si rinunci a cavalcare l’onda mediatica puntando il dito contro il leghista “brutto e cattivo”. La stragrande maggioranza dei reati commessi da stranieri in Italia è opera di clandestini, e nel Nord delinquono per il 60% in più degli italiani. Quale integrazione ci potrà essere nelle periferie delle nostre città - non nei centri storici - senza sicurezza e rispetto delle regole? A questo domanda nessuno ha dato risposta.Va anche sottolineato un altro problema, sollevato da Artigianfidi: il 42% degli stranieri nella sola provincia di Padova non restituisce i prestiti erogatigli. Esistono delle regole: e devono essere uguali per tutti. Questo non è negoziabile.
Luca Z.
L’IMMAGINE
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dell’atteggiamento dell’Europa dell’Est nei confronti di Mosca, e rimane divisa fra pro e anti russi: la penisola di Crimea ha adottato da ieri la lingua di Mosca come primo idioma regionale, mentre la città occidentale di Leopoli ha vietato nel suo territorio il termine di “Grande guerra patriottica” per ricordare la seconda guerra mondiale del 1941-45. La Crimea, un tempo russa ma regalata nel 1954 a Kiev dal leader sovietico Nikita Krushev, ha deciso di utilizzare la lingua russa in ogni sfera della vita pubblica (la maggioranza di abitanti di quel territorio parla il russo e si considera russa). Per contro a Leopoli, roccaforte del nazionalismo ucraino che da tempo utilizza la lingua ucraina, il parlamento locale ha abolito ogni termine legato alla sovietica “Grande guerra patriottica” perché il termine «non risponde alla realtà storica ucraina, si legge in comunicato del Comune. Leopoli ha anche deciso di sostituire la festa della vittoria contro i nazisti del 9 maggio con una “Giornata della memoria per le vittime della seconda guera mondiale». Il parlamento di Leopoli vuole rendere soprattutto omaggio agli ucraini «caduti vittime del regime tedesco nazista e del regime totalitario comunista di Mosca», si legge nella nota.
L’AGENZIA DELL’ENTRATE DICE NO ALL’IVA SU TASSA RIFIUTI La tariffa sui rifiuti (Tia) ha natura tributaria e come tale non può essere assoggettata all’Iva. Lo ha scritto l’Agenzia delle Entrate rispondendo a un interpello della società Trevisoservizi. Dunque gli utenti a Treviso saranno esentati dal pagamento dell’Iva sulla Tia. Il concetto è lo stesso affermato anche dalla Corte Costituzionale con la sentenza del luglio 2009. Mentre il Governo continua a tacere su questo buco normativo. La situazione deve essere sbloccata per tutti i cittadini in tutti i comuni italiani e bisogna riavere indietro l’Iva pagata gli anni scorsi.
EQUO COMPENSO E DECRETO BONDI
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e di cronach
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KIEV. L’Ucraina si conferma specchio
Lettera firmata
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La scissione ucraina. Sulla Russia
La chiesa del buon pastore Montagne svizzere, prati inglesi, fiumi e laghi scozzesi, fiordi norvegesi e spiagge californiane. E una vecchia chiesa in collina, all’irlandese. Tutto questo (e qualcosa di più) è la Nuova Zelanda
Il sovrapprezzo imposto ai consumatori dal Decreto Bondi per il famigerato equo compenso per copia privata su cellulari, decoder, console per videogiochi, oltre che su cd, dvd, vergini e masterizzatori è iniquo e poco trasparente. Contro il decreto le associazioni di consumatori sono intervenute al Tar Lazio. Gli effetti nefasti del decreto sono quelli di pesare sulle tasche dei consumatori, fornire alla Siae il beneficio gratuito di somme complessive notevoli e essere un freno concreto allo sviluppo delle tecnologie e del mercato dei contenuti digitali nel nostro Paese. Il consumatore, ignaro, acquistando un cellulare paga 90 centesimi in più; per un decoder da 6,44 a 28,98 euro in più a seconda dell’ampiezza della memoria e così via per tutti gli altri devices, anche se non saranno mai utilizzati per fare copie private di opere dell’ingegno protette dal diritto d’autore.
Chiara Pezzella
mondo
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Crisi. A Islamabad si decidono le sorti dell’area, con un occhio speciale a Kabul. Ecco perché i talebani non molleranno mai
Musulmani contro Un gruppo di terroristi contro le moschee ahmadi di Lahore. Pakistan sull’orlo del caos di Osvaldo Baldacci ntegralisti islamici che attaccano i fedeli in moschea durante la preghiera del venerdì. C’è qualcosa che stride in questa frase, che però ben illustra il paradosso del Pakistan. Un Paese ormai in allarme permanente, dove la situazione si è molto aggravata negli ultimi anni, superando forse in certe aree persino le criticità dell’Afghanistan. In tre anni sono stati effettuati circa 400 attentati e altrettanti attacchi da parte dei miliziani talebani alleati di al Qaeda, il cui bilancio è di più di 3.300 morti in tutto il Paese, tra cui personaggi di spicco. Non è certo la prima volta che i guerriglieri estremisti arrivano a colpire nel cuore di grandi città, allontanandosi dalle aree tribali dove sono più protetti. D’altro canto non è vero che gli estremisti armati si annidano solo nel cuore delle montagne del nord, dato che movimenti militanti addestrati alla guerra sono diffusi ovunque. Tollerati a lungo per una cultura che è militarista, ma soprattutto perché utilizzati in chiave anti-indiana. Ora però che la miccia dell’islamismo oltranzista si è accesa, e allo stesso tempo si sono attenuate minacce strategiche come India e Urss, quelle stesse milizie allevate dal potere pachistano si stanno rivelando una grave minaccia alla stabilità del Pakistan, forse alla sua stessa sopravvivenza come Stato, e certamente alla sua autorità in diverse regioni del Paese.
I
L’eclatante attacco di ieri è avvenuto a Lahore, grande e ricca città storica del Punjab. Nel mirino di un attacco combinato due moschee distanti alcuni chilometri l’una dall’altra nei quartieri di Model Town e Garhi Shahu, ma accomunate dall’appartenenza al movimento Ahmadiyya nell’Islam, un sottogruppo che fa riferimento ai sunniti ma in realtà è poco benvoluto tanto dai sunniti quanto dagli sciiti. Gli Ahmadi sono stati spesso oggetto di attacchi e discriminazioni, anche nel Punjab dove il movimento si è originato nell’ottocento. Gli ahmadi sono stati dichiarati apostati dal governo musulmano a metà degli anni Settanta.
Quello degli ahmadi è solo un esempio delle tante minoranze, compresi cristiani e sciiti, che nel Pakistan sempre meno sicuro sono oggetto di crescenti violenze e persecuzioni, altro segnale della crisi del Paese. I gruppi di miliziani appartenenti al gruppo Tehrik-e Taleban-e Pakistan del Punjab, armati di granate e mitra, hanno assalta-
ore. Il bilancio delle vittime cresce di momento in momento, ma si avvia verso i cento morti e moltissimi feriti. Quel che più preoccupa è che la rete dei fondamentalisti islamici in Pakistan è forte e radicata, con una fitta serie di collegamenti attraverso le regioni del Paese e ovviamente la proiezione specialmente in Afghani-
La rete dei fondamentalisti islamici è forte e radicata, con una fitta serie di collegamenti attraverso le regioni del Paese e ovviamente la proiezione verso il fronte caldo dell’Afghanistan to i due luoghi di preghiera dove erano riuniti in preghiera migliaia di fedeli. Nella moschea di Model Town gli stessi fedeli sono riusciti a fuggire facendo massa, e cinque dei sette membri del commando del Ttp sono stati uccisi, mentre nell’altro luogo sacro oltre mille oranti sono stati presi in ostaggio dai terroristi, e lo scontro a fuoco con le forze dell’ordine è durato oltre due
stan. Ma anche solidi collegamenti internazionali tramite alQaeda. I Talebani del Pakistan hanno rivendicato il fallito attentato a Times Square. Il gruppo minaccia di allargare raggio d’azione e obiettivi. Il Ttp è considerato come il principale autore dell’ondata di attentati che insanguina il Pakistan dal 2007. Il gruppo nasce ufficialmente nel dicembre 2007, quando una serie di gruppi
estremisti si riuniscono sotto la guida di Baitullah Mehsud, originario del Sud Waziristan.
Il gruppo è distinto dai talebani afghani, cui offre riparo e assistenza nell’attacco alle truppe internazionali in Afghanistan, e opera autonomamente in Pakistan. Il programma d’azione del Ttp prevede: applicazione della sharia; unità d’azione contro le truppe internazio-
nali in Afghanistan; jihad in Pakistan e rifiuto di negoziare con il governo; liberazione di decine di esponenti incarcerati; abolizione dei checkpoint e stop alle operazioni militari nella Valle dello Swat e nel Nord Waziristan.Tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009 il Ttp stringe una alleanza formale con i talebani del Mullah Omar e con alQaeda che porta alla formazione di un consiglio unitario. Il
Il direttore di AsiaNews e missionario Pime spiega: «Gli estremisti cercano di compiacere il popolo»
«Islamabad paga le sue ambiguità» ROMA. L’attacco compiuto ieri contro due moschee della minoranza ahmadi a Lahore, rivendicato dai talebani del Pakistan, «sottolinea la gravità dello squilibrio politico che agita il Paese. Chi lo governa cerca di convivere con un gruppo di fondamentalisti che usa la violenza per attirarsi le simpatie della popolazione, e questo lo penalizza». È l’opinione espressa a liberal da padre Bernardo Cervellera, direttore dell’agenzia AsiaNews e missionario del Pontificio Istituto Missioni Estere, che commenta il massacro avvenuto ieri in due moschee di Lahore. Direttore, da dove nasce l’instabilità sociale del Pakistan? In Pakistan esiste uno squilibrio di tipo politico, che nasce dall’ambiguità che il governo
di Simone Carla
ha sempre dimostrato nei confronti dei talebani. Questi sono stati ospitati, tollerati e si è arrivati persino a cedere alla loro giurisdizione la gestione di in-
teri territori e province. Questo è stato fatto con la speranza che i fondamentalisti potessero in qualche modo convivere con i governi statali, salvando gli uni e gli altri. Si vede invece sempre di più che lo scopo dei talebani è quello di prendersi tutto il Pakistan: vogliono fare della nazione uno di quei Califfati che, nelle loro parole, vogliono costruire in tutta l’Asia. Per arrivare a questo scopo, eliminano con la violenza tutti i loro ostacoli: per guadagnare stima e simpatia da parte della popolazione, colpiscono soprattutto le minoranze. Colpendo gli ahmadi, troveranno sicuramente dei musulmani sunniti contenti per quanto fatto; e lo stesso avviene quando attacca-
no i cristiani. Accrescono la loro base di simpatia popolare con questi metodi. Bisogna ricordare infatti che gli ahmadi sono una minoranza, ma dell’islam stesso: la loro particolarità è quella di non ritenere Maometto l’ultimo profeta, ma cercano ancora l’ultimo emissario di Allah. Per questo sono ritenuti eretici sia dagli sciiti che dai sunniti, che li colpiscono in ogni modo possibile. Prima di Zardari alla presidenza c’era Musharraf, un leader più militare ma anche più laico. La situazione era migliore? Il problema con Musharraf era lo stesso di quello odierno: l’ambiguità. Certo, non è una condizione che si possa imputare alla leadership politica: siamo davanti a un Paese che
mondo
29 maggio 2010 • pagina 25
Il generale Mini: «Ora vediamo se il nuovo approccio di Obama funzionerà»
Scambio di accuse con gli Stati Uniti La guerra nelle aree tribali non ha dato i risultati previsti Parte il “blame game” tra Washington e l’alleato asiatico di Pierre Chiartano attacco di ieri pur con l’apparenza di una sanguinosa faida interna al mondo islamico – la moschea appartiene a una setta Ahmadiya, accusata di apostasia già dagli anni Settanta – è il termometro di un Pakistan, dove la guerra alle aree tribali non deve aver funzionato benissimo. Abbiamo chiesto a un esperto di geopolitica e questioni strategiche, come il generale Fabio Mini già comandante di Kfor, di fare una breve analisi della situazione. Soprattutto come regirà Washington che sperava, dopo aver lasciato l’allora presidente Musharraf al suo destino, in un destino migliore per islambad. «Non penso che Washington abbia in mente alcun intervento drastico in Pakistan. Cercherà di continuare a reggere la situazione così com’è. Senza farla degenerare». Ma in pieno change obamiano quali potrebbero essere gli strumenti utilizzati dalla diplomazia americana? Per Mini sono quelli tradizionali della «pressione sull’attuale governo pachistano, visto che non è che stia facendo così bene. A dire la verità, a Islamabad non sono tanto contenti di come gli Usa abbiano trattato la questione delle aree tribali. Ora molte di quelle responsabilità le stanno scaricando sugli americani, che li hanno spinti a varare operazioni che sarebbe stato meglio condurre in modo differente». Insomma, per il generale, tra Washington e Islamabad sarebbe in atto quello che gli anglosassoni chiamano il blame game, una sorta di scarica barile. E in questo clima c’è poco da stare allegri, anche per i futuri sviluppi della situazione pachistana che ricordiamo è una potenza atomica, con un certo numero di testate nucleari. Esiste infatti un piano del Pentagono per una operazione di ”esfiltarzione” di questi ordigni, nel caso il Pakistan dovesse cadere nel caos e fosse alto il rischio che alcune testate atomiche finiscano in mano agli ultrafondamentalisti.
L’
governo di Islamabad li accusa di aver ordito l’assassinio di Benazir Bhutto nel dicembre 2007. Dopo la morte di Beitullah Mehsud, il nuovo capo del Ttp è Hakimullah Mehsud, ricomparso in un video in aprile. Dell’organizzazione fanno parte, adesso, esponenti di almeno sette tribù e numerosi distretti della North-West Frontier Province pachistana. Il numero totale degli “operativi” è stato stimato
non vuole ritornare laico. Ecco perché i vari presidenti fanno, nei confronti dell’estremismo islamico, un passo avanti e uno indietro. Devono tenere conto di una popolazione educata al fondamentalismo. Quale potrebbe essere la soluzione a questa situazione? La Chiesa locale, ad esempio, propone semplicemente che ci siano uno Stato di diritto e un governo realmente funzionanti. Poi chiedono che vengano ridotte quelle leggi che penalizzano i non musulmani, come la legge sulla blasfemia: si tratta di un decreto che punisce con la morte chi offende Maometto o il Corano, una legge molto criticata e profondamente ingiusta che fa decine di vittime ogni anno proprio fra gli ahmadi. Tra l’altro, la popolazione pakistana molto spesso non aspetta neanche che una corte si pronunci, quando si trova davanti a dei casi di blasfemia. Sono numerose nella cronaca le testimo-
l’ultima volta nel 2008 in almeno 30.000 unità. Secondo Amir Rana, direttore dell’Istituto pachistano per gli studi di pace, i talebani del Pakistan sono divisi al loro interno in molte fazioni con capi tribali che controllano solo piccole porzioni di territorio. Il movimento ha stabilito inoltre un’alleanza strategia con i gruppi di combattenti del Punjab, la regione degli attacchi di ieri.
nianze di folle rabbiose che si fanno giustizia da sole, spesso colpendo anche i cristiani. Aggiungerei poi le Ordinanze Hudood, che rendono impossibile ai non musulmani (e agli ahmadi, ovviamente) il salire la scala sociale. Per questo i cattolici chiedono che venga garantita la vita delle minoranze. Il governo deve guadagnarsi la fiducia della popolazione e questo implica una pulizia morale e un aumento dei servizi sociali. Perché in Pakistan esistono più di ventimila madrasse (scuole coraniche) di stampo fondamentalista? Certamente per l’aumento dell’influenza talebana, ma anche perché Islamabad non risponde alla richiesta di educazione da parte della popolazione. La proposta che va fatta, a tutti i Paesi islamici, è quella di aumentare i contributi alle scuole: in questo modo chiunque può scegliere una formazione laica e pacifica, senza dover per forza farsi educare al fondamentalismo.
“
governativa – ha preso il sopravvento. Non vedo ancora una situazione di sovvertimento tale da dover pensare ad una operazione di salvataggio delle testate nucleari. Il Pakistan ha ancora degli apparati militari e paramilitari fortissimi. Forse potrebbe esserci un cambio di vertice, di leadership». Insomma dopo il cambio di cavallo della passata amministrazione Usa, con l’abbandono del generale Musharraf, qualcuno a Washington avrebbe qualche rimpianto. «Gli americani hanno mantenuto Musharraf fino all’ultimo e poi si sono decisi a cambiarlo. Un cambio non così felice come immaginavano. Non penso che stiano rimpiangendo il genera-
Il Paese ha ancora degli apparati militari e paramilitari fortissimi. Potrebbe esserci un cambio di vertice: il dopo-Musharraf non è stato così felice come immaginavano
«Sarebbe un’operazione modellata su ciò che già si è fatto in Khazakistan. La questione è difficile, non penso che i pachistani vogliano derogare alla propria sovranità. Anzi stanno cercando di accentuare il grado d’autonomia nei confronti di Washington, proprio col blame game. Non è un gioco alla luce del sole, ma sotterraneo. Con la caccia all’uomo e la chiusura delle aree tribali hanno solo ottenuto di accentuare la voglia di autonomia delle tribù, che peraltro si è rafforzata. Per un po’si sono ritirati e hanno ceduto all’azione militare, ma non si sono mosse dal territorio. Nel frattempo la parte ideologica – della rivolta antioccidentale e anti-
”
le, però credo stiano pensando che forse sarebbe stata meglio un’altra soluzione». Mini non pensa che si debba cedere agli islamici, ma certamente qualche concessione dovrà essere fatta. Dunque Washington nelle prossime settimane non farà nulla di visibile. «Gli Usa hanno preso una linea politica di non intervento unilaterale. Un netto distacco dal passato. Tutto da dimostrare che funzioni. Ricordiamo Obama quando afferma “mai più senza alleati”. Non vuole dei partner yes man, vuole degli alleati che gli tirino la giacca e qualche castagna dal fuoco». È un nuovo approccio della Casa Bianca, storicamente talmente innovativo, mai adotta in precedenza «che non sappiamo se funzionerà». Insomma una storia complicata quella tra Washington e i propri alleati. «Gli Usa si sono fatti fregare con la Seato – l’hanno fatta sciogliere – con l’Anzus – sta lì appesa – con la Conferenza del Golfo – che non si capisce cosa sia. L’unica struttura ancora in piedi è la Nato, ma penso che si siano stancati anche di quella.
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India. Ancora poco chiare le dinamiche dello scontro, almeno 200 i feriti DELHI. Non è ancora stata chiarita la dinamica dell’attentato che ha provocato lo scontro tra due treni nel Bengala occidentale, India. Secondo un bilancio provvisorio, il deragliamento ha provocato la morte di almeno 80 persone. Almeno 200 persone sono rimaste ferite e il numero delle vittime sembra destinato ad aumentare. I soccorritori sono infatti ancora al lavoro per cercare di liberare i passeggeri intrappolati tra le lamiere. Dubbi anche sulla paternità dell’attentato, attribuito dalla polizia indiana ai ribelli maoisti. Il Gyaneshwari Express era partito da Calcutta e si stava dirigendo a Mumbai, quando verso l’una e trenta del mattino (le 22 in Italia) la locomotiva e tre vagoni sono andati a finire contro un treno merci che proveniva dalla direzione opposta. Il ministro dei Trasporti ferroviari, Mamata Banerjee, ha parlato di una bomba sui binari, ma la polizia indica altri metodi di «sabotaggio» attraverso la rimozione dei «coprigiunti» dei binari. La conferma è arrivata dal capo della polizia della regione, Bhupinder Singh, che ha parlato di un «chiaro caso di sabotaggio, messo in atto dai maoisti». L’ufficiale ha anche precisato che i maoisti hanno rivendicato l’attentato. Anche il ministro dell’Interno P. Chidambaram è più propenso a credere che si sia trattato di «un caso di sabotaggio in cui un tratto della linea ferroviaria è stato rimosso. Non è ancora chiaro se sia stato impiegato dell’esplosivo». L’area di Jangham, dove è avvenuto il disastro, è nota come una roccaforte dei maoisti, che avevano preannunciato una «settimana nera» per rispondere all’offensiva dell’esercito. Ma l’agenzia di stampa indiana Press
Bengala, attacco ai treni: 80 morti I ribelli rivendicano il gesto e poi ritrattano Mentre la popolazione chiede di sterminarli di Massimo Ciullo
sua attenzione sui gruppi della guerriglia. «Sospettiamo un gruppo di Naxalites», ha ribadito Bhupinder Singh poco dopo l’attacco, riferendosi al movimento maoista fondato a fine anni Sessanta nella zona di Naxalbari nel Bengala Occidentale. Un gruppo che, secondo il primo ministro indiano Manmohan Singh, rappresenta la minaccia principale alla
L’obiettivo dei maoisti è quello di rovesciare l’esecutivo bengalese, guidato dal partito comunista marxista-leninista, che li odia Trust (Pti) ha reso noto che i ribelli del Comitato popolare contro le atrocità della polizia (Pcpa) hanno smentito la rivendicazione dell’attentato. A negare qualsiasi coinvolgimento del gruppo maoista è stato Asit Mahato, un portavoce del comitato. «Non siamo coinvolti in alcun modo. Non si tratta di una nostra azione», ha detto Mahato, chiamando la sede della Pti a Calcutta. La smentita non ha convinto però, il capo della polizia bengalese che concentra la
sicurezza interna, essendo accusato della morte di oltre 1300 persone nelle violenze scatenate dal gennaio 2009. Il capo della polizia ha inoltre precisato che sul luogo del deragliamento sono stati rinvenuti dei volantini dei ribelli. Prima ancora della polizia, Vivek Sahai, funzionario delle Ferrovie indiane, aveva parlato di «sabotaggio» dei ribelli maoisti aggiungendo che «il conducente del treno ha udito un forte scoppio». L’episodio aumenterà le pressioni sul governo
Chi sono e cosa pensano i “rossi” del Paese
I naxaliti, eredi di Mao I maoisti indiani, conosciuti anche come naxaliti, sono una delle principali sfide per la sicurezza interna del Paese asiatico. Dispongono di 20mila guerriglieri e hanno basi in sette Stati del nord, est e sud, occupando un “corridoio rosso” che si estende dallo Stato meridionale dell’Andhra Pradesh fino al West Bengala e al Nepal, attraverso il Chhattisgarh. Utilizzano spesso i sabotaggi dei binari ferroviari come metodo di lotta. Secondo stime del governo, i ribelli comunisti sono presenti in un terzo dei 600 distretti indiani, in prevalenza campagne e foreste popolate da comunità tribali. Qualche anno fa il primo ministro, Manmohan Singh, li ha definiti «la minaccia pù grande da quando l’India è indipendente». Noti come “naxaliti” dall’insurrezione del 1967 a Naxalbari, Bengala Occidentale, sono un movimento con diverse sfaccettature. L’ideologia marxista comunista a cui si ispirano continua a sedurre le masse agricole e le comunità tribali rimaste
escluse dal boom economico. Ma i sanguinosi attentati, le estorsioni e i rapimenti per finanziarsi li hanno confinati dietro un muro di ostilità dell’opinione pubblica. In loro favore si sono tuttavia levate voci di intellettuali di sinistra come la scrittrice pacifista Arundhati Roy, che s’è detta pronta a me-
diare in un eventuale negoziato di pace. In effetti, i leader della guerriglia avevano chiesto una tregua a Dalhi, che l’ha rifiutata: quest’ultimo attentato dimostra che tutto è ricominciato.
affinché invii i militari a sedare la rivolta maoista che va avanti da quarant’anni e si è estesa a gran parte delle aree rurali dell’India orientale e centrale. L’obiettivo dei maoisti è quello di rovesciare l’esecutivo bengalese guidato dal partito comunista marxista-leninista. Negli ultimi mesi avevano dato vita ad una tregua unilaterale, sospendendo gli attentati. Ma la ripresa dell’offensiva da parte dell’esercito, ha indotto i capi della rivolta a riprendere le attività terroristiche. I guerriglieri controllano ampi territori in India, soprattutto le zone rurali che beneficiano poco del grande sviluppo economico che sta trasformando il Paese.
Da alcuni mesi il governo ha lanciato una vasta operazione negli Stati segnati dalla guerriglia maoista. L’operazione, dal nome “Caccia verde”, ha portato ad alcune vittorie della polizia, ma ha provocato anche centinaia di morti, vittime di attacchi indiscriminati. All’inizio della settimana, i maoisti hanno promesso di lanciare una «settimana nera» per condannare «le atrocità contro i villaggi» e per fermare la campagna armata contro di loro. Si calcola che essi siano fra 10 e 20mila guerriglieri, che rivendicano una lotta violenta in difesa dei contadini senza terra e delle minoranze etniche locali. Lo scorso anno il governo indiano ha dichiarato fuorilegge il movimento maoista e inserito il loro partito (CpiM) nella lista delle organizzazioni terroristiche. Scelta criticata dai maoisti che hanno rinfacciato all’esecutivo di Nuova Delhi di non volere una soluzione politica del conflitto che dagli anni ‘90 anni caratterizza la vita del Bengala occidentale. Fonti non ufficiali affermano che dal 2005 ad oggi almeno 3mila persone sono morte negli attacchi messi a segno dai maoisti in tutto il Paese. Il movimento ribelle è presente in 13 dei 28 Stati dell’India. I nassaliti, dal nome della città di Naxalbari (West Bengala) dove ha preso le mosse nel 1967, unisce l’ideologia maoista alle rivendicazioni delle popolazioni tribali degli Stati in cui è presente. In diverse zone di Jharkhand, Chhattisgarh, Andhra Pradesh, Orissa, Bihar, West Bengala e Maharashtra impone tasse che alcuni stimano fruttino sino a 15 miliardi di rupie, pari a oltre 200 milioni di euro, e ha dato vita anche ad un amministrazione parallela a quella del governo locale.
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La Bp chiede altre 24 ore, mentre Obama visita le coste
L’ex primo ministro thai interviene dopo le rivolte
Entro oggi si scopre la sorte di “Top Kill”
Thailandia, parla Thaksin: «Persecuzione politica»
WASHINGTON. Entro oggi si dovrebbe capire se è andato a buon fine il tentativo di fermare definitivamente la perdita di greggio nel Golfo del Messico. Lo ha affermato ieri l’ammiraglio della Guardia Costiera Thad Allen, coordinatore delle operazioni di contenimento della marea nera. Il capo della Bp, Tony Hayward, ha preso invece più tempo: 48 ore. Al momento la fuoriuscita di greggio sembra bloccata, ma «è troppo presto per cantare vittoria» e i tecnici hanno ripreso a pompare fango e cemento nel pozzo. Hayward ha detto che l’operazione Top Kill per chiudere il pozzo petrolifero «sta andando abbastanza bene». Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha visitato ieri la costa della Louisiana dove la marea nera sta colpendo pesantemente l’ecosistema e l’economia legata alla pesca, facendo infuriare i residenti ancora alle prese con i retaggi dell’uragano Katrina del 2005.
BANGKOK. L’ex premier in esilio Thaksin Shinawatra, accusato di essere l’eminenza grigia che ha manovrato la protesta e le violenze delle scorse settimane, nega ogni coinvolgimento e minimizza il pericolo di essere arrestato. Bangkok ha chiesto l’intervento dell’Interpol per catturare il leader del movimento di opposizione antigovernativo. In un’intervista telefonica Thaksin ha risposto che l’agenzia di intelligence – con base a Parigi – non agisce per accuse di natura “politica” e imputa all’esecutivo un atteggiamento di “confronto”, più che di “riconciliazione”per il bene del Paese. Thakisn Shinawatra ha rotto il silenzio che ha seguito la repressione del gover-
Il leader Usa ha sottolineato come la sua amministrazione abbia preso il comando della situazione, «una catastrofe terribile». «Mi assumo la piena responsabilità» della situazione, ha detto il presidente Obama nel corso di una conferenza stampa alla Casa Bianca prima
I suicidi in fabbrica «figli dell’indifferenza» Parla Lee Cheuk Yan, sindacalista e deputato di Hong Kong di Massimo Fazzi
HONG KONG. Dietro la scia di suicidi alla fabbrica Foxconn «c’è l’indifferenza e lo sfruttamento del governo cinese e della comunità internazionale, che vogliono entrambi manodopera a basso costo e stabilità sociale nel Guangdong. Ma, prima o poi, Pechino dovrà permettere l’ingresso dei sindacati nel suo territorio e migliorerà le condizioni dei lavoratori, soprattutto di quelli migranti. Il rischio è che la società esploda». Lo dice a liberal Lee Cheuk Yan, sindacalista e membro del Consiglio Legislativo di Hong Kong. Lee, 52 anni, è responsabile della Federazione dei sindacati del territorio e membro del gruppo pan-democratico. Durante i moti di Tiananmen – come tutta la popolazione di Hong Kong – egli ha aiutato i giovani di Pechino e poco prima del massacro del 4 giugno, era riuscito a portare loro il denaro raccolto che doveva servire per acquistare tende, fax, cibo. Arrestato per alcuni giorni, è stato poi estradato ad Hong Kong. Da allora Lee è una delle poche persone a cui è vietato andare in Cina, per le sue responsabilità verso il movimento di Tiananmen, ma soprattutto a causa del suo impegno a favore dei lavoratori di Hong Kong e della Cina. Sui 14 suicidi avvenuti nella fabbrica, dove si producono gli i-Pad e iPhone, dice: «Sono il risultato di una politica gestionale oppressiva e cieca. Per i lavoratori, soprattutto per i migranti, la situazione è terribile: sono trattati come bestie nonostante abbiano lasciato casa e famiglia per cercare un lavoro. Non hanno il sostegno della famiglia, affrontano pressioni incredibili e non hanno alcun sostegno umano: scelgono la via più estrema perché non hanno alternative. Qui a Hong Kong non abbiamo giurisdizione sulla Cina continentale: ma possiamo fare pressione affinché le fabbriche trattino i loro operai in maniera umana. Non c’è altro modo per evitare i suicidi». La responsabilità di questa situazione, prosegue, «è sicuramente del governo cinese. Ma anche la comunità internazionale ha le sue colpe, perché cerca soltanto ma-
nodopera a basso costo senza preoccuparsi del modo in cui questo lavora. Ecco perché dobbiamo fare in modo che ci sia più consapevolezza della situazione: si deve lottare, insieme, per garantire diritti di base alla forza lavoro. Ma questo, come dicevo, interessa per ora molto poco anche al resto del mondo: la crisi spinge tutti a cercare prodotti a basso costo».
Il caso della Foxconn, e l’interesse mediatico che si era sviluppato intorno ad essa, aveva fatto pensare a una sorta di ‘boicottaggio’ nei confronti della compagnia, che produce per il gigante Apple (oltre che per Dell e Hewlett Packard). Secondo Lee, «questo non c’entra niente. Io credo che l’interesse sia nato dopo la pubblicazione di un operaio con il terribile contratto che gli imponeva di non suicidarsi. Ma questo è ancora più triste: si guarda ai problemi dei lavoratori in Cina come a una cosa ‘di colore’, su cui farsi quattro risate». Il futuro, almeno quello prossimo, non riserva grandi sorprese: «La Cina deve capire che, per migliorare sé stessa e la propria popolazione, deve permettere ai sindacati di operare liberamente sul territorio. Ma questo è oggi impensabile: basta pensare a come viene trattata la libertà di espressione per capire che Pechino non lo permetterà a breve. Ma gli scioperi nelle grandi fabbriche, come quello avvenuto alla Honda, fanno ben sperare per il futuro: prima o poi i politici cinesi capiranno che, senza tutele del lavoro, rischiano un’esplosione sociale senza precedenti». La piaga dello sfruttamento della manodopera prosegue in Cina da almeno un decennio: nella “fascia del sole” - le quattro province meridionale dove hanno sede le più grandi industrie del mondo - si aggirano ogni anno circa 200 milioni di lavoratori migranti. Si tratta di persone senza alcuna formazione e tutela giuridica, che fuggono dalle campagne in cerca di una sistemazione migliore. Sono il motore della crescita economica della Cina, sempre meno tutelati da governo e Nazioni Unite.
La scia di morti alla Foxconn «emerge soltanto come una notizia “di colore”. Ma questo è il nostro vero dramma»
della sua partenza: «È mio dovere assicurare che venga fatto tutto il possibile per chiudere la falla». Il riversamento di greggio in mare dal 20 aprile scorso, anche in base alla migliore delle stime, è ormai complessivamente di 68 milioni di litri, una quantità superiore a quella della Exxon Valdez in Alaska, considerata finora la peggiore catastrofe ambientale negli Usa (allora furono 42 milioni di litri). Contrariamente a quanto annunciato dalla Bp, che ha sempre parlato di una perdita di 5mila barili al giorno di greggio dalla falla sul fondo del Golfo, secondo le stime preliminari del governo sono usciti invece 12-19mila barili al giorno.
no contro le“camicie rosse”, che per due mesi hanno occupato intere aree della capitale. La peggior crisi politica attraversata dalla Thailandia nella storia recente ha causato 88 morti e oltre 1900 feriti. L’ex premier – secondo l’Afp rifugiato in Montenegro – è intervenuto in diretta telefonica nel programma Lateline del network australiano ABC per raccontare la sua versione dei fatti.
Le autorità thai hanno emesso un mandato di arresto con l’accusa di terrorismo per Thaksin, che potrebbe sfociare anche in una condanna a morte. Egli parla di “ragioni politiche” alla base dell’incriminazione, che a suo dire “non hanno fondamento”. «Ho sempre chiesto proteste pacifiche – aggiunge – e ho sempre detto al mio popolo che noi, la Thailandia, abbiamo bisogno di riconciliazione». Intanto sono stati arrestati due stranieri, un britannico e un australiano, con l’accusa di aver partecipato e fomentato le rivolte. L’ex premier tenta di allontanare le ombre, secondo cui sarebbe responsabile delle violenze delle ultime settimane. Egli avrebbe infatti finanziato i manifestanti e garantito il rifornimento di armi per assalti e incendi.
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l’approfondimento
Coree. Il clamoroso cambio di rotta annunciato dal premier Wen Jiabao. E Obama annuncia “pieno sostegno” al Sud
Pechino sceglie Seoul
Nel balletto diplomatico in corso dall’affondamento della corvetta Cheonan, la Cina entra a gamba tesa contro l’alleato storico: «Non copriremo più chi minaccia la pace». Ora la parola passa all’Onu, ma Pyongyang è rimasta sola lla fine, Pechino sembra aver preso la sua decisione. Della Corea del Nord – storico alleato e vicino più ingombrante – la Cina non si fa più garante: anzi, «non darà rifugio». Lo ha detto il numero due del governo cinese, il primo ministro Wen Jiabao, nel corso della riunione a tre che si è svolta ieri a Seoul: gli altri due partecipanti, il presidente sudcoreano Lee Myung-bak e il premier giapponese Yukio Hatoyama, hanno manifestato “soddisfazione” per la decisione presa. Ma il vero sentimento è la sorpresa: Wen ha infatti detto chiaramente che il proprio Paese «condanna tutti gli atti destinati a distruggere la pace e la stabilità nella penisola coreana. Per i responsabili di gesti simili non vi sarà rifugio alcuno». La Cina ha dunque abbandonato al suo destino lo storico alleato nordcoreano.Wen, parlando di“atti contro lo pace”, si riferiva all’affondamento della corvetta sudcoreana Cheonan e alla conseguente morte di 46 marinai. Secondo un’inchiesta indipendente internazionale, l’affondamento è stato provocato da un missile sparato dal regime comunista. Fino ad ora, i risultati dell’inchie-
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di Vincenzo Faccioli Pintozzi sta erano stati accettati da Stati Uniti, Giappone e Corea del Sud. Pechino aveva invitato alla calma, invocando l’uso della diplomazia nel rapporto con Pyongyang. Il prossimo passo è ora la richiesta alle Nazioni Unite di “sanzioni severissime” contro la Corea del Nord: il documento verrà portato il prossimo 31 maggio al Palazzo di Vetro. Certo, Wen ha precisato che Pechino non ha deciso se accettare le conclusioni dell’indagine della commissione internazionale di esperti voluta dalla Corea del Sud che ha accusato Pyongyang per l’affondamento.
Pechino, secondo quanto ha riferito un portavoce sudcoreano, «deciderà la sua posizione oggettivamente e ragionevolmente giudicando cosa è giusto e cosa sbagliato, ma sempre nel rispetto dell’indagine internazionale e delle risposte dei Paesi più coinvolti». Intanto Giappone e Stati Uniti, i due principali alleati di Seoul, hanno annunciato che il premier Yukio Hatoyama e il presidente Barack Obama sosterranno nel Consiglio di sicurezza dell’Onu
qualsiasi misura punitiva contro Pyongyang che dovesse essere richiesta dalla Corea del Sud. Il Giappone ha anche imposto nuove sanzioni alla Corea del Nord per l’affondamento della corvetta, avvenuto il 26 marzo. All’atto pratico, ci saranno ulteriori restrizioni alle rimesse in patria dei lavorati nordcoreani e il Parlamento ha anche approvato una legge che autorizza la Guardia costiera a ispezionare in alto mare le navi che si sospetta trasportino materiale nucleare per la Corea del Nord. Quella di Wen a Seoul è la seconda visita nel Paese,
«Condanniamo tutti gli atti che vogliono minare la stabilità della penisola»
ma la prima dopo la firma del patto di collaborazione strategica tra Cina e Corea del Sud avvenuto nel 2008. Nei tre giorni di permanenza, il premier parteciperà al terzo incontro a tre tra Cina, Giappone e Corea del Sud nell’isola di Jeju. Ma la Corea è soltanto la prima tappa di un tour di visite ufficiali in Asia, che lo porterà in Giappone, Mongolia e in Myanmar. Secondo quanto riferito dal vice ministro degli esteri Zhang Zhijun in conferenza stampa, la visita nel Paese «vuole sollecitare la nascita di una zona di libero scambio con la Corea del Sud e
aumentare la cooperazione nei settori dell’istruzione, della ricerca, della cultura e del turismo». Nel frattempo, a Pyongyang, lo stato di agitazione è salito alle stelle.
Tanto che, per rispondere al voltafaccia di Pechino, è stato organizzato un evento più unico che raro: una conferenza stampa. In uno dei regimi più repressivi al mondo – dove la libertà di stampa semplicemente non esiste - la Commissione nazionale di Difesa ha convocato i media (anche non coreani) per negare il proprio coinvolgimento sull’affondamento della corvetta Cheonan. Il potentissimo organismo a capo del regime, presieduto dal “Caro Leader” Kim Jong-il, ha ripetuto la propria versione dei fatti: un incidente, punto e basta. Nel frattempo, sembra essersi scatenato il panico nella parte nord della penisola. Reduci da una disastrosa riforma valutaria e da una crisi economica che dura da decenni, i nordcoreani stanno attuando – secondo fonti locali – alcune manifestazioni di protesta contro il regime. Secondo un operatore umanitario, che visita regolarmente la parte nord della pe-
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L’estremo avamposto demilitarizzato è già da tempo teatro di scontro aperto, anche se a parole
Volantini, amplificatori e radio: inizia la guerra degli slogan I due “fratelli coltelli” rispolverano l’antica arma della propaganda per cercare di fiaccare lo spirito di entrambi gli eserciti. Inutilmente uerra sì, ma quale? Sul Trentottesimo parallelo ne conoscono diverse. E non parliamo soltanto dell’ultimo secolo, sicuramente sfondo temporale di uno dei massacri più sanguinosi della Guerra Fredda. Per avere un’idea di quanto la penisola coreana sia stata una delle mete preferite delle anime belligeranti dell’Asia si può semplicemente ricordare la lista dei “padroni” che, di volta in volta, hanno issato il proprio vessillo nella zona. Mongoli, cinesi pre-unificazione imperiale, due dinastie di cinesi post-unificazione imperiale, giapponesi, americani, cinesi post-imperiali e neo-comunisti. Ovviamente, il 1950 e i tre anni che l’hanno seguito sono stati i peggiori: dieci milioni di morti, di venticinque nazionalità diverse che hanno contribuito a tracciare una linea immaginaria che usa, appunto, il Trentottesimo parallelo come confine. Sul quale, oggi, la guerra sta ricominciando. Seoul e Pyongyang sono però pur sempre “fratelli diversi”, e prima di usare le armi convenzionali di un conflitto hanno – quasi in accordo – deciso di rispolverare alcuni metodi noti ma sempre nuovi: i mezzi di propaganda, che dal 24 maggio hanno ripreso a “sparare” con potenza e precisione.
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A scendere in campo per primi sono stati gli imponenti amplificatori, che le due nazioni avevano bandito di comune accordo nel 2004, quando sembrava che le relazioni inter-coreane fossero destinate a migliorare in maniera netta. Gli amplificatori sono posizionati in quattordici postazioni diverse nella Zona demilitarizzata: dietro di loro, due battaglioni di soldati con audiocassette (proprio quelle vecchie, a nastro) che “sparano” nell’aria messaggi su “come è bella la vita nel Sud”. Al momento è soltanto Seoul a utilizzarli: Pyongyang li aveva accesi nel 2004, invitando i “corrotti”leader meridionali a cambiare vita e passare dalla loro parte. L’accensione “unilaterale”ha indispettito i militari stalinisti, che minacciano di aprire il fuoco di precisione contro le “bocche”del Sud. Forse per evitare problemi di questo tipo, o forse per bypassarli, Seoul ha autorizzato la propria radio nazionale a rilanciare nell’etere una vecchia programmazione chiamata “Voce della Libertà”. Trattasi di quattro ore registrate e di altre quattro in diretta, che vengono inviate tre volte al giorno sulle frequenze di oltre confine. Nel primo programma live è stato trasmesso il discorso del presidente sudcoreano Lee Myung-bak, alcune testimonianze di libertà e democrazia, una canzone sulla libertà di scelta e una chicca niente male: l’intervista a un medico del Sud, secondo cui il maggior problema della nazione «è l’obesità». Ma forse i messaggi audio potrebbero
non bastare, ed ecco che dopo l’orecchio si è passati a colpire anche l’occhio. Undici pannelli giganti, composti da led a intermittenza e posizionati sulle alture più rilevanti del confine: con questo metodo, Seoul proietta verso il Nord inviti alla fuga e richiami democratici. Il Nord non è rimasto a guardare, ma purtroppo non ha i led: ed ecco che, sul monte Kumgang, è apparso un lungo messaggio cartonato (del tipo reso celebre dalla scritta Hollywood, ma molto più amatoriale) che recita: “Lunga vita al sole del Ventunesimo Secolo, il generale Kim Jong-il”. Sempre sul piano visivo, ma entrando in campi più tecnici, rientrano anche i “volantini”: la Corea del Sud spara con cannoni di potenza inferiore alla norma dei pacchi di volantini che si disperdono nell’area.
La tecnica è usata sin dai tempi della guerra civile, ma questa volta il contenuto è ben diverso: mentre prima erano di carattere belligerante, questa volta i volantini spiegano il nucleo della vicenda. Se la tensione è infatti decollata dopo l’affondamento della corvetta sudcoreana Cheonan, in cui sono morti 46 marinai, lo scontro è esploso dopo la pubblicazione dei risultati di un’inchiesta internazionale che dimostra come, dietro all’affondamento, c’è un missile nordcoreano. Pyongyang ha risposto negando sdegnata ogni coinvolgimento, ed ecco che i volantini spiegano nel dettaglio i risultati dell’inchiesta. Nella campagna sono intervenuti anche gli attivisti pacifisti del Sud, che già da tem-
po usano la tecnica dei volantini per chiedere giustizia per i nordcoreani. Per uno strano contrappasso del destino, i pacifisti erano incappati nell’ira di Seoul per l’uso proprio di questo stesso metodo. Non è poi possibile tacere sullo strumento principe di questa guerra, ovvero la stampa del regime del Nord. Non è propriamente uno strumento di guerra soltanto perché non ha mai smesso di funzionare dal 1953, anno della fine del conflitto inter-coreano. Ma i proclami con cui risponde alle accuse di Seoul sono degni di un film: partendo dalla “banda di pupazzi”, il nome semiufficiale del governo sudcoreano, si passa a titoli come “Il Nicaragua riconosce l’importanza primaria della Juche [la filosofia “dell’auto-sufficienza” lanciata dal primo presidente del Nord, Kim ilsung] per finire con l’annuncio della nascita della Kimjongilia, un piccolo fiore creato in laboratorio in onore del dittatore. Ma in questa strana guerra sono coinvolti anche avamposti e coloni: in questo caso parliamo dei due piccoli villaggi costruiti all’interno della Zona demilitarizzata. Nella seconda metà degli anni Cinquanta, Pyongyang vi ha costruito Kijongdong, modernissimo complesso residenziale pensato (ed estremamente pubblicizzato) come il nuovo paradiso socialista. Palazzi, negozi e officine complete di impianto idraulico ed elettrico, disegnate per mostrare il meglio della vita in comune.
Il simbolo di cotanta magnificenza è il più alto vessillo per bandiere del mondo: un picco di ben 160 metri, su cui sventola la bandiera nordcoreana. Purtroppo, come spesso accade, la realtà ha assestato duri colpi persino a Kijongdong: alcuni analisti occidentali hanno preso in considerazione il flusso di corrente elettrica e di acqua, per arrivare a stabilire che esse sono programmate da un piccolo sistema di invio che parte dalle due centrali, ben piazzate a cinque chilometri dal confine. Una piccola truffa, per dare l’illusione di una comunità operosa e felice che in realtà non esiste. In effetti, non esistono neanche i palazzi: le ultime tecnologie di fotografia a raggi infrarossi hanno messo a nudo delle mura che, all’interno, non hanno stanze. Un villaggio fantasma, sì, ma di propaganda. Il Sud ovviamente non si è lasciato sfuggire l’occasione e ha risposto con Taesungdong: un centinaio circa di abitanti, che fanno finta di non vedere i due eserciti che si fronteggiano a cinquanta metri di distanza fra di loro. E che potrebbero ricominciare a giocare con la guerra, stavolta quella vera. (vfp)
nisola, «l’ordine di evacuare tutti i sudcoreani dalla zona demilitarizzata di Kaesong e l’avviso alla marina del regime stalinista di sparare a vista contro battelli non identificati sono mosse nell’aria già da alcune settimane. È evidente che Kim Jong-il vuole usare questa crisi per chiedere al suo popolo l’ennesimo sacrificio: i soldi sono finiti e lui teme un’insurrezione». In effetti, la disastrosa riforma valutaria e le politiche economiche centralizzate di Pyongyang hanno provocato nel 2009 un record negativo di entrate, e il blocco dell’invio di aiuti alimentari dalla Corea del Sud hanno abbassato ancora di più le capacità nutrizionali interne: «Il regime vuole indicare in Seoul e Washington i nemici che affamano la popolazione. Soltanto così possono sopravvivere a una situazione drammatica». Anche alla luce di questi dati, la Clinton e Obama hanno invitato il mondo ad agire insieme. In ogni caso, il regime di Pyongyang ha allertato di nuovo le proprie forze armate, protestando contro le “provocazioni” di Seoul: l’ordine è quello di sparare a vista contro le unità navali che dovessero attraversare la Northern Limit Line, la frontiera marittima.
Gli Stati Uniti hanno intanto avviato insieme alla Marina sudcoreana esercitazioni navali e antisommergibile, innescando una vera e propria escalation. Il rischio ora è che il prezzo di questa situazione ricada sul popolo, uno dei più vessati al mondo. Le sanzioni che il Palazzo di Vetro può comminare, infatti, sono di due tipi: il primo è quello militare, il secondo è economico. Del primo tipo non si parla da anni, figuriamoci poi a fronte di una potenza atomica guidata da un esecutivo che è tutto tranne che mentalmente stabile. È assolutamente improbabile, tanto più sotto la segreteria del sudcoreano Ban Kimoon, che le Nazioni Unite autorizzino come nel 1950 un intervento armato sul Trentottesimo parallelo. Il secondo tipo, quello di fatto già in vigore, è di tipo economico. Si tratta di limitazioni al commercio estero, di tasse sulle rimesse, di limiti alla concessione dei visti. La tensione intercoreana, poi, ha fermato anche quelle rare missioni umanitarie sul tipo della Caritas che portano fisicamente a braccia riso, grano e altro materiale alimentare al di là del confine. Le missioni erano già stata messe duramente alla prova dalla pretesa di Pyongyang di consegnare i generi alimentari all’esercito e non al popolo. Ora, se Seoul dovesse chiedere e ottenere la chiusura totale ed ermetica dei confini del Nord (compresi quelli che la dividono dalla Cina) la popolazione si avvierebbe verso la strage. Silenziosa, perché quello è un popolo di cui importa poco, a tutti e da molto tempo. Salvo poi ricordarsene quando sparano.
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grandangolo Vendette. Nel 2006 fu battuto da uno scandalo
Jiri Paroubek, il mastino ex-comunista cerca la rivincita a Praga Il 40 per cento della gente lo detesta, ma i sondaggi lo danno per favorito e potrebbe riportare il Paese su posizioni più vicine a Mosca. I suoi avversari lo dipingono come un uomo della casta corrotta: le accuse che lo stroncarono quattro anni fa, però, non sono mai state provate di Enrico Singer l quaranta per cento dei cittadini della Repubblica ceca lo detesta e brinderebbe se decidesse di abbandonare la vita pubblica. Lui, Jiri Paroubek, non se ne preoccupa. Anzi, fa di tutto per confermare la sua fama di duro, di “mastino della politica”, come lo chiamano a Praga, a costo di risultare ancora più antipatico. Nelle ultime settimane della campagna elettorale è anche sceso in guerra contro i grandi media che ha accusato di «alimentare un pericoloso clima d’odio» dopo che il suo numero due nel partito socialdemocratico, Bohuslav Sobotka, è stato preso a pugni durante un comizio. Così, per ripicca, non ha più concesso interviste. Eppure, se i sondaggi non hanno sbagliato le previsioni, proprio lui sarà il vincitore delle elezioni che - dopo la parentesi del governo tecnico di Jan Fischer - devono dare, oggi, un successore a Mirek Topolanek, il premier conservatore che è stato travolto dallo scandalo dell’estate brava nella residenza sarda di Silvio Berlusconi con corredo di foto imbarazzanti rubate sul bordo della piscina di Villa Certosa. Certo, almeno su un punto non ci sono dubbi: tra il fisico più che appesantito di Paroubek e quello prestante mostrato senza veli da Topolanek c’è una bella differenza. Se i ce-
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chi volevano una svolta, l’avranno. D’immagine, oltre che di colore politico dell’esecutivo. Anche se le cose non sono così semplici come sembrano.
Prima di tutto perché l’annunciata vittoria del leader del Cssd - il partito socialdemocratico ceco - potrebbe essere molto risicata al punto da costringere Jiri Paroubek a un governo di minoranza oppure a ricercare l’alleanza - magari esterna - del Kscm, il partito comunista che in Europa è rimasto il più fedele all’ideologia del passato e che è guidato da Vojtech Filip che, nella classifica dei politici più detestati, arriva primo, ma che può contare su un 13 per cento dei voti rispetto al 26 per cento dei socialdemocratici e al 22 dei conservatori dell’Odc (Civici democratici) dell’ex premier Topolanek. Quanto basta per far temere che anche questo cambio della guardia in uno degli ex Paesi dell’orbita sovietica entrati nell’Unione europea, possa spostare il pendolo verso Mosca favorendo i disegni neo-imperiali di Vladimir Putin.Tra l’altro, a Praga molti ricordano che Jiri Paroubek ha cominciato la sua vita politica, nel 1970, quando aveva 18 anni, proprio nei ranghi del partito socialista cecoslovacco che faceva parte del “fronte nazionale” egemonizzato dal
partito comunista che, appena due anni prima, aveva riportato al potere Gustáv Husák dopo che i carri armati sovietici avevano liquidato la primavera di Alexander Dubcek. Nel 1981 Jiri Paroubek, come molti altri quadri intermedi del regime, era stato anche contattato dalla polizia segreta di Stato, l’Stb, che gli aveva dato la sigla in codice Roko, dal nome del suo pappagallo, ma che lo aveva messo fuori dai ranghi dei suoi informatori dopo appena un anno perché «non aveva abbastanza contatti».
Prima della “rivoluzione di velluto” fu contattato anche dai servizi segreti del regime di Husak
Rispetto a quella di Putin, che del Kgb fu l’agente numero uno in Germania prima di diventare capo dell’Fsb (il servizio segreto della Russia post-comunista), la carriera di apprendista spione di Jiri Paroubek è stata davvero poca cosa. Anche perché, già nel 1986, l’attuale leader socialdemocratico lasciò il partito socialista e, nel novembre del 1989, prese parte alla “rivoluzione di velluto” che riportò la democrazia nel Paese. Paroubek - che è nato il 21 agosto del 1952 nella cittadina di Olomouc, in Moravia - aveva 37 anni e, da allora, ha scalato tutti i gradini del Cssd e dello Stato. Nel ’93 tentò per la prima volta di essere eletto segretario del partito socialdemocratico e fu battuto in volata da Milos
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Venticinque partiti e 5.500 candidati si disputano i 200 seggi della Camera bassa
Ma i cechi vanno alle urne senza Topolanek. Il premier uscente è affondato a Villa Certosa di Aldo Bacci n altro Paese europeo va a votare convinto che servirà a ben poco. Come in Gran Bretagna anche la Repubblica Ceca affronta queste elezioni politiche mettendo in conto un’elevata probabilità che dalle urne non uscirà un governo stabile. E sapendo che la cosa più importante a cui pensare è la crisi economica europea ed internazionale, contro la quale però nessun governo può fare da solo e nessun politico locale sembra disporre di ricette facili e bacchette magiche per tenere il Paese al sicuro. In Boemia e Moravia si vota da ieri e gli elettori sono chiamati a sottoscrivere o gli appelli al rigore economico del centrodestra o le promesse di maggior attenzione al welfare dei partiti di sinistra. Avvantaggiate le promesse dei socialisti, ma lo spettro della crisi fa paura, e bisogna anche considerare che la Repubblica Ceca, nata nel 1993 dal divorzio consensuale dalla Slovacchia ed entrata nell’Unione europea nel 2004, progetta (progettava?) di entrare nell’euro. I 14.891 seggi elettorali aperti ieri tutto il giorno restano a disposizione fino alle 14 di oggi, con i risultati attesi per la tarda serata di oggi stesso. Al voto sono chiamati 8,4 dei 10,5 milioni di cechi. Venticinque partiti per 5.500 candidati si disputano i 200 seggi della Camera bassa ceca, solo cinque partiti però dovrebbero essere in grado di superare la soglia di sbarramento del 5 per cento. I temi economici e delle garanzie sociali hanno dominato la campagna elettorale, con scontri durissimi che rendono difficile l’ipotesi di intese dopo il voto. Il debito della Repubblica ceca in realtà è uno dei più bassi tra i Paesi dell’Unione europea, il 35,4 per cento del Pil nel 2009, ma ciò che preoccupa è la tendenza all’aumento, se si pensa che appena nel 2008 l’indebitamento ceco rappresentava solo il 30% del Pil.
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Jiri Paroubek, 58 anni. Qui sopra, con la seconda moglie, Petra. Nelle foto piccole, in costume e in una caricatura. A destra, la foto rubata a Mirek Topolanek nudo in piscina a Villa Certosa
quanto di esponente del vecchio apparato statale corrotto - noi, ormai, diremmo della casta - e, in particolare, dell’ente Restaurace a jidelni, che gestiva le mense e i ristoranti di Stato ai tempi della Repubblica popolare cecoslovacca, di cui Paroubek fu dirigente dopo avere servito nell’esercito come responsabile degli approvvigionamenti nella regione militare della Boemia.
Un tocco di gossip, oltre che di sospet-
C’è un pizzico di gossip anche nella sua vita privata: il matrimonio con Petra, la bella interprete Zeman che divenne poi (dal 1998 al 2002) primo ministro della Repubblica ceca. Nel 2004 entrò nel governo di Stanislav Gross come ministro dello Sviluppo regionale e, il 25 aprile del 2005 divenne primo ministro: carica tenuta fino al 16 agostro del 2006, quando fu battuto da Mirek Topolanek, leader dei conservatori dell’Odc, che prese anche il suo posto alla guida del governo. Per Jiri Paroubek, insomma, quella che potrebbe materializzarsi oggi è una rivincita. I suoi avversari, naturalmente, fanno gli scongiuri e rilanciano gli stessi argomenti che, quattro anni fa, contribuirono alla sua sconfitta. In particolare il suo passato. Non tanto di mancato agente dei servizi segreti comunisti,
ti di corruzione, c’è anche nella storia di Jiri Paroubek che ha divorziato di recente dalla sua prima moglie - una bibliotecaria - e ha sposato la bella e giovane Petra che era stata la sua interprete personale e che lo aveva accompagnato in tutti i viaggi ufficiali durante il periodo della sua presidenza del governo. Se le elezioni di oggi decreteranno il suo ritorno al Castello Hradcany, nel cuore storico di Praga, Jiri il “mastino della politica” avrà al suo fianco, almeno, una dolce first lady. Ma su questo, visti i problemi della vita privata di Topolanek, nessuno fa polemica. Anche se la lotta politica nella piccola Repubblica ceca - i votanti non arrivano a nove milioni - si è sempre combattuta senza esclusione di colpi. Come dimostra proprio quello che capitò a Jiri Paroubek nella campagna elettorale, poi persa, del 2006. Quella volta, appena quattro giorni prima del voto, fu pubblicato il “rapporto Kubice” dal nome del funzionario di polizia che lo aveva redatto - in cui si parlava di presunti contatti tra Paroubek, allora primo ministro in carica, e ambienti della malavita ipotizzando, addirittura, possibili reati a sfondo pedofilo. Il rapporto era stato presentato alla Commissione giustizia del Parlamento ed era riservato, ma finì lo stesso sui giornali con enorme clamore. Jiri Paroubek accusò il partito conservatore Odc di averlo fatto pubblicare per danneggiarlo nella competizione elettorale. Ma quest’accusa non fu mai dimostrata. Come, d’altra parte, non furono mai dimostate le accuse che erano contenute nel rapporto steso dal direttore della squadra criminale della polizia ceca, Jan Kubice. Da quelle elezioni dei veleni sono passati quattro anni. Molti dei protagonisti sono usciti di scena. Ma lui, «Jiri il mastino», adesso spera nella grande rivincita.
Ma vista la crisi europea, anche in Repubblica ceca - Paese che sinora ha dimostrato di saper reggere l’urto della crisi e di avere un sistema economico in grado di puntare a una ripresa – c’è la necessità di tenere attentamente sotto controllo la finanza pubblica. Nel 2009 il PIL è calato del
4,2%, e la disoccupazione ad aprile 2010 è del 9,2%. A partire dai temi economici la divaricazione fra i partiti è stata durissima: i socialisti puntano all’espansione della spesa sociale, i conservatori alla riduzione della spesa pubblica. Nell’agenda elettorale dei socialdemocratici c’è un aumento del peso fiscale per le aziende dal 19 al 21%, e una tassa per i più redditi più alti, al 38%. Promessi anche aumenti delle pensioni di anzianità e l’abolizione del ticket per le visite mediche. Che la sinistra porterà il Paese sulla via del disastro greco è l’accusa del partito Democratico civico (Ods), la principale forza del centrodestra ceco, che invece invoca rigore. Il leader Ods Petr Necas si dice per riforme severe per risanare i conti pubblici ed è contro un ulteriore indebitamento dello Stato.
Si è trovato candidato premier solo ad aprile, dopo che il partito ha defenestrato il premier Mirek Topolanek, noto per le sue foto nude a Villa Certosa. Necas ha 46 anni, è sposato con quattro figli, è laureato in fisica ed è l’ex ministro del lavoro del governo Topolanek. Il favorito invece è il Cssd del leader socialdemocratico Jiri Paroubek, 57 anni, ex premier nel 20052006, vicesindaco di Praga dal 1998 al 2004, divorziato e risposato con una giovane interprete da cui ha una figlia di un anno e mezzo. A Praga c’è anche il partito comunista più nostalgico d’Europa, il Kscm guidato da Vojtech Filip (55 anni), che è ostile all’appartenenza alla Nato, vuol fermare le privatizzazioni e aumentare le tasse ai ricchi. Novità a destra, con la forte crescita del nuovo partito conservatore Top 09 dell’ex ministro degli esteri Karel Schwarzenberg (72 anni). Infine il quinto partito che dovrebbe superare lo sbarramento è Cose pubbliche (Vv), guidato da Radek John, 55 anni, ex scrittore e giornalista investigativo, che si è già detto pronto a entrare in coalizione tanto coi conservatori quanto con i socialdemocratici. Un’ipotesi ragionevole potrebbe essere l’ennesima grande coalizione in Europa, ma i toni fanno presagire tutt’altro.
ULTIMAPAGINA Hi-tech. Il nuovo gioiellino della Apple sbarca anche in Europa
Facciamo le pulci allo strabiliante di Andrea Mancia a caccia è scattata all’alba di ieri, ma era stata pianificata in tutti i dettagli da più di un mese. Tanto, infatti, hanno dovuto attendere gli italiani (come quasi tutti gli europei, i giapponesi e gli australiani) per mettere le mani sull’iPad di Apple, il nuovo “oggetto del desiderio”hi-tech che negli Stati Uniti è stato lanciato sul mercato ad aprile. Code a Milano (dove gli Apple Store avevano accettato soltanto prenotazioni online), ma anche a Bologna e Roma. Mentre a Palermo sono arrivati solo i “modelli da esposizione”, lasciando a bocca asciutta centinaia di appassionati. Euforia contenuta, in ogni caso, rispetto a quello che è accaduto all’Apple Store principale di Tokyo, dove nelle prime ore della mattina si era già formata una fila di 800 metri, con più di mille ansiosi acquirenti. Tanta attesa, naturalmente, ha il suo prezzo. Perché il Italia il nuovo touch-screen di Apple costerà 499 euro (per la versione Wi-Fi a 16gb) e addirittura 799 euro (per la versione Wi-Fi+3G a 32gb). Prezzi non bassi, in termini assoluti, visto che ormai un laptop di fascia media non costa più di 400-500 euro, ma che negli Stati Uniti non hanno frenato venditerecord: un milione di unità in ventotto giorni (contro i 74 che ci aveva messo l’iPhone per raggiungere lo stesso traguardo) e quasi nove milioni previste per il 2010 (il 43% delle quali negli Usa). Il successo, almeno iniziale dell’iPad, unito a quello ormai consolidato di iPod e iPhone, ha portato nei giorni scorsi la Apple a diventare la compagnia hi-tech più valutata sui mercati (221 milioni di dollari), scavalcando i rivali storici di Microsoft (219 milioni). È tutto oro quello che luccica, insomma? Non esattamente.
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Intendiamoci, l’iPad è un oggetto splendido e probabilmente, per usare le parole di Steve Jobs, davvero «rivoluzionario». Chiunque abbia avuto per le mani, anche per qualche minuto, un iPhone o un iPod Touch può intuire immediatamente le potenzialità del nuovo gioiellino di Apple. La velocità, la semplicità d’uso e la pulizia del sistema operativo sviluppato a Cupertino sono ormai leggendarie. Proprio come la straordinaria base di software sviluppato per iPhone da cui l’iPad può partire, in attesa che vengano prodotte applicazioni “specializzate” in grado di sfruttare il monitor più ampio (9,7 pollici) e la risoluzione più alta (1024x768). Con le sue caratteristiche tecniche, poi, l’iPad sembra poter dominare senza troppi sforzi il mercato dei lettori di E-book, finora quasi monopolizzato dal Kindle di Amazon. Aggiungete una cpu (Apple A4 PoP da 1 gigahertz) in grado di surclassare qualsiasi console portatile per videogiochi in commercio, tanta memoria e una connettività estremamente fles-
sibile (soprattutto nei modelli di punta), audio e video di altissima qualità e il cerchio, in teoria, dovrebbe chiudersi. E proprio questo ci hanno raccontato la schiacciante maggioranza dei giornalisti e dei commentatori che hanno invaso giornali e web nei giorni successivi al suo lancio statunitense. Il problema è che, troppo spesso, questi giornalisti - per “amore”, più che per interesse - quando scrivono dei prodotti Apple sembrano Emilio Fede quando parla di Silvio Berlusconi o Chris Matthews quando «sente i brividi» dopo un discorso di Barack Obama.
Qualsiasi creatura di Steve Jobs, insomma, viene osannata a prescindere e i suoi difetti vengono accuratamente ignorati. Di difetti, invece, l’iPad ne ha. E parecchi. Andiamo in ordine sparso. L’iPad non ha una porta Usb (o Firewire) per il collegamento di pe-
clienti Apple che ricorrono alla tecnica del “jailbreaking” che permette un utilizzo molto più flessibile di iPhone e iPad (oltre che l’accesso, illegale, ad una miriade di applicazioni “piratate” a costo zero). Ed ecco perché, proprio nei giorni in cui l’iPad sbarca in Europa, una piccola compagnia tedesca - la Neofonie - si prepara a lanciare sul mercato un anti-iPad (significativamente battezzato “WePad”), che promette di far dimenticare tutte le limitazioni imposte da Apple al proprio hardware: display più grande (11,6’’); maggiore risoluzione (1366x768); processore più veloce (Intel Atom N450 a 1.66GHz); una webcam; due porte Usb; un lettore di memorie flash; un modem Wwan integrato; compatibilità assicurata con il software Adobe. Il tutto, racchiuso nelle accoglienti braccia del sistema operativo Android, sviluppato da Google per tablet e smartphone. Il prezzo? Probabilmente il modello di punta costerà come l’iPad di fascia più bassa. Apple deve stare attenta, insomma. Non sempre sono i rivoluzionari a vincere la rivoluzione.
iPAD Il tablet di Steve Jobs ha molti pregi, ma anche qualche difetto di cui la “stampa amica” non parla volentieri: manca una porta Usb, la compatibilità con Adobe Flash, una webcam, un’uscita tv... E in Germania già è nato l’anti-iPad
riferiche esterne. Una precisa strategia commerciale più che una mancanza incidentale, perché Apple preferisce vendere (a carissimo prezzo) ogni espansione, piuttosto che permettere all’utente di scegliere il proprio prodotto preferito. In un apparecchio multimediale così sofisticato, poi, non si può fare a meno di notare l’assenza di una webcam (o almeno di una fotocamera), di un’uscita video che permetterebbe di collegare l’iPad a un monitor o a una televisione (meglio se hd) e di qualsiasi compatibilità con Adobe Flash (la tecnologia software più utilizzata per i video e i videogiochi sul web). Tutto, insomma, sembra il frutto del tentativo di“sigillare”il tablet per impedirgli qualsiasi comunicazione con prodotti non targati Apple. Una filosofia che Steve Jobs persegue da decenni, con alterne fortune. E che trova il suo completamento in quello che è il più grande asset, ma anche il più grave difetto dei prodotti multimediali Apple: iTunes. Se è vero, infatti, che proprio dalla vendita di musica e applicazioni (negli Usa anche film e serie tv) arrivano i profitti più vistosi per la casa della mela morsicata, è anche vero che il passaggio “obbligatorio” da iTunes per riempire di contenuti iPod, iPhone e iPad rappresenta una limitazione della libertà inaccettabile per chiunque non sia un utente occasionale o un fanatico della setta di Cupertino. Ecco perché sono sempre di più i