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ISSN 1827-8817 00601

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Gli uomini sono sempre contro la ragione, quando la ragione è contro di loro Helvétius

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MARTEDÌ 1 GIUGNO 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Nella relazione annuale, anche un duro attacco all’evasione fiscale: «È vera macelleria sociale»

La ricetta del Governatore

Draghi: «Manovra inevitabile, ma ora riformare fisco e pensioni» Dopo Confindustria, anche Bankitalia insiste per interventi strutturali di crescita e sviluppo Il governo costretto a cedere dopo l’intervento del Quirinale: sono salvi gli istituti culturali Schifani polemizza con il co-fondatore

L’OPINIONE DI PEZZOTTA

FIRMATO IL TESTO

«Nella relazione un’altra idea di governo»

E Napolitano fece di nuovo ministro Bondi

Intercettazioni, Fini boccia la legge S

«Nel testo ci sono parti irragionevoli: dobbiamo riflettere ancora»: l’ex leader di An impone un ripensamento. E D’Alia: «Una norma sbagliata e anticostituzionale»

di Francesco Capozza

di Riccardo Paradisi

avino Pezzotta prova a leggere in controluce la relazione del Governatore Mario Draghi: «Dietro la convinzione che i tagli fossero ineluttabili c’è una critica di fondo al governo: è mancata una strategia per affrontare la crisi. Di fronte a certe situazioni, l’ottimismo di facciata non basta. E d’altra parte non è una soluzione giusta neanche tagliare tutto e tutti in modo indiscriminato. Andavano salvaguardate le famiglie, proprio per riuscire a rilanciare i consumi e quindi l’intera economia». Insomma, per l’esponente centrista Draghi, come Emma Marcegaglia prima di lui, ha rilanciato - dal suo punto di vista - proprio la strategia centrista per le grandi riforme.

olpo di scena: il Quirinale firma la manovra del governo solo dopo che l’esecutivo ne ha cancellato la norma che prevedeva la cancellazione tout court di tutti gli istituti e le fondazioni culturali del Paese. Proprio su questo, infatti, il presidente Napolitano aveva chiesto chiarimenti al governo, ritenendo che non si potessero tagliare indiscriminatamente luoghi di produzione culturale e centri di tutela della memoria storica con la semplice ragione della loro presunta «improduttività». Ci sono cose che producono sapere e non direttamente denaro: questo l’aut aut lanciato da Napolitano. Che alla fine ha vinto la sua battaglia: di enti si dovrà occupare il ministro Bondi che deciderà caso per caso.

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La sintonia con gli industriali

Premiata ditta Emma & Mario Sempre più forte il fronte riformista

Tra i due è nato un feeling inedito: il rilancio del Paese passa per una diversa strategia economica

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di Marco Palombi accordo del Pdl sulle intercettazioni è durato poco. Nel giorno in cui palazzo Madama comincia a discutere il ddl, Gianfranco Fini sgancia una bomba sull’intero impianto della legge: «Ho dubbi sul testo del Senato, il Parlamento rifletta ancora».

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L’ultima sfida del co-fondatore

La maggioranza non c’è (quasi) più

Franco Insardà • pagina 4

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Un’imbarcazione “umanitaria” turca forza il blocco: almeno dieci vittime

Israele attacca la nave per Gaza Dura condanna Onu. Netanyahu: «Ci hanno provocato» di Vincenzo Faccioli Pintozzi

a legge sulle intercettazioni è necessaria, ma migliorabile. Questa è ormai, nonostante opposizioni, lotte e ostruzionismi, una posizione comune quasi a tutti. Regole nuove sono necessarie, ma il testo del disegno di legge va senza dubbio migliorato. Tuttavia, è proprio sul “miglioramento” che la lotta politica è destinata ancora una volta a incattivirsi.

sraele ha attaccato una nave turca con a bordo alcuni pacifisti che volevano forzare il blocco navale per portare aiuti a Gaza. Negli scontri, sono morte almeno dieci persone: «Ci hanno sparato contro», si sono scusati gli israeliani, aggiungendo di aver trovato armi nelle navi dei pacifisti. Durissima la reazione dell’Onu: «Siamo sconvolti, Israele dia subito una spiegazione». La Turchia parla di «terrorismo di Stato» mentre Netanyahu risponde alle accuse mostrando un filmato nel quale si vedono i soldati israeliani attaccati dai presunti militanti pacifisti. La situazione in Medioriente, insomma, torna ad essere esplosiva, tanto che il premier israeliano ha annullato il suo prossimo viaggio a Washington.

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di Giancristiano Desiderio

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I QUADERNI)

• ANNO XV •

NUMERO

104 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Consigli. Da Palazzo Koch arriva un flebile plauso alla manovra da 24,9 miliardi di euro, anche se appare poco strutturale

Il manifesto di Draghi

Meno tasse e lotta all’evasione, riforma delle pensioni e del lavoro: il governatore lancia il suo progetto-Paese per far ripartire l’Italia di Francesco Pacifico

ROMA. «Soltanto quando governi e regolatori potranno lasciar fallire le istituzioni che lo meritano, senza provocare catastrofi come quella seguita al fallimento di Lehman, essi avranno riacquistato vera indipendenza rispetto all’industria dei servizi finanziari».

Ma prima di allora la politica dovrà riequlibrare le finanze – e senza temere «percorsi difficili che, se non coordinati a livello internazionale, rischiano di spegnere la pur timida ripresa» –, far saltare con le riforme i nodi strutturali che bloccano la crescita, imparare a programmare lo sviluppo sul lungo periodo. Il che, si sa, spezza contrasta con le facile non sempre facilita il consenso. Mai come nelle “Considerazioni finali”lette ieri, il governatore Mario Draghi si è occupato così smaccatamente di politica. Perché se lo stato delle banche e la salute del sistema italiano sono state soltanto sfiorate, centrale nelle pagine della sua relazione sono state le scelte che i governi ritardano, pur conoscendo da anni i rischi che già prima della crisi sta correndo un mondo dove una parte cresce troppo e l’altro troppo poco. Anzi proprio la crisi «ci ha ricordato in forma brutale l’importanza dell’azione comune, della condivisione di obiettivi, politiche, sacrifici. È una lezione che vale per il mondo, per l’Europa, per l’Italia». Una ricetta semplice che gioco forza ha finito per tramutarsi in un’agenda politica, dove «le riforme strutturali sono più urgenti: la caduta del prodotto accresce l’onere per il finanziamento dell’amministrazione pubblica; i costi dell’evasione fiscale e della corruzione divengono ancora più insopportabili; la stagnazione distrugge capitale umano, soprattutto tra i giovani». Si dirà che queste misure sono le stesse che dopo mesi e mesi di vertici e incontri bilaterali le cancellerie mondiali hanno deciso di approntare. Ma più che gli interventi in sé – pensioni,

lotta all’evasione rimodulazione degli ammortizzatori sociali e taglio alla spesa improduttiva – è il metodo che sembra essere dirompente in un’Europa che ci mette tre mesi prima di trovare un accordo per salvare la Grecia o in un G20 che non ha ancora deciso se e come scrivere regole comuni. A un anno dalla scadenza del mandato, e con un futuro che potrebbe segnare un salto di qualità a livello internazionale, Draghi ricorda che «l’euro vive con tutti i suoi membri, grandi e piccoli, forti e deboli. È stato illusorio pensare che la moneta da sola potesse “fare” l’Europa. Gli eventi recenti ripropongono con maggior forza l’antico problema di un governo economico dell’area». Ed è facile ritrovare in queste frasi gli stessi moniti lanciati da padri della moneta unica come Jacques Delors o Carlo Azeglio Ciampi. Infatti «la riforma delle regole per la finanza trascende i confini nazionali, richiede un consenso fra numerose giurisdizioni. Ma non c’è alternativa: una

industria dei servizi finanziari integrata globalmente richiede una regolamentazione che, almeno nei suoi principi fondamentali, sia universale». E senza dimenticare che «la dura esperienza di questi anni non va dimenticata: rischi eccessivi impongono alla collettività prezzi altissimi. Rafforzare le difese del sistema è indispensabile, nei singoli paesi e a livello internazionale».

Relazioni corruttive tra privati e enti pubblici, favorite dalla criminalità, sono diffuse

La crisi rende le riforme più urgenti: evasione e corruzione hanno costi altissimi

Ma per frenare la speculazione non si può sperare soltanto nei regolatori, visto che «disavanzi e debiti pubblici sono aumentati vistosamente. Le vendite colpiscono titoli di Stati che hanno ampi deficit di bilancio o alti livelli di debito pubblico; soprattutto, quelli di Paesi dove queste due caratteristiche si combinano con una bassa crescita economica». E, lanciando un monito che in un futuro potrebbe anche riguardare l’Italia, ecco il governatore ricordare che «quanto più la crescita è debole tanto più esigente, pressante, è la richiesta degli

investitori internazionali di un rapido rientro dagli squilibri nei conti pubblici».

In quest’ottica, a livello europeo, «è urgente un rafforzamento del Patto di stabilità e crescita» unito all’impegno di «raggiungere un saldo di bilancio strutturale in pareggio o in avanzo», permettendo di comminare «sanzioni, anche politiche, in caso di inadempienze». Mentre in ambito nazionale «non c’è alternativa al fissare rapidamente un itinerario di riequilibrio del bilancio, con una ricomposizione della spesa corrente e con riforme strutturali che favoriscano l’innalzamento del potenziale produttivo e la competitività». Se in passato il governatore non ha lesinato dubbi sulle proposte o sulle stime di crescita lanciate dal governo, ieri ha preferito non esprimere un giudizio netto sull’ultima manovra, spiegando soltanto che il conto 24,9 miliardi di euro è giusto. Guardando ai target del governo – deficit sotto il 3 per cento

La sfida di oggi è quella di coniugare la disciplina di bilancio con il ritorno alla crescita

Macelleria sociale è una espressione rozza ma efficace: si adatta bene all’evasione

Richiamo sull’autonomia delle fondazioni e sulla necessità di aiutare il territorio

Poche ma dure parole ai banchieri ROMA. Qualche piccolo accenno al problema della bassa patrimonializzazione, un semplice riferimento alla tutela della clientela neppure una parola alla concorrenza, suo cavallo di battaglia nelle precedenti “Considerazioni”. Rispetto al passato Mario Draghi ha preferito non calcare la mano sulle banche, sulle sue controllate, la cui salute resta il principale argomento dell’assemblea di fine giugno.

E in fondo la scelta non deve sorprendere visto che il governatore ha preferito dedicare il suo intervento ai limiti del sistema Italia nel suo complesso, nel quale il mondo del credito resta un baluardo vista la scarsa finanziarizzazione delle realtà economiche, fossero in primo luogo quelle Pmi che spesso non na-

del prodotto interno lordo, tagli per quasi due punti di Pil e per lo più spalmati sui costi di funzionamento delle amministrazioni e spesa primaria sotto l’1 per cento – da palazzo Koch si fa notare che «è necessario un attento scrutinio degli effetti della manovra per garantire il conseguimento degli obiettivi». Silvio Berlusconi parla di «riconoscimento dato da Mario Draghi all’azione di governo». Ma è attraverso l’analisi dei principali provvedimenti che si comprende perché via Nazionale prema su un’accelerata alle misure strutturali. Le uniche che possono garantire una maggiore dinamicità a un Paese più solido di tanti suoi concorrenti, forte sia di una «ricchezza accumulata dalle famiglie pari a quasi 2 volte il Pil nella sola componente finanziaria» sia di un indebitamento privato tra i più bassi dell’area. Eppure è difficile per Draghi mettere assieme correzione dei conti pubblici e rilancio della crescita. Soprattutto se non si affronterà il nodo del sommerso. «Sono gli evasori i principali responsabili della macelleria sociale. È una definizione rozza ma efficace». Secondo Bankitalia le ultime stime parlano soltanto sul versante dell’Iva di un livello di nero pari al 30 per cento dell’imponibile. E soltanto seguendo la strada dell’emersione si potrà «consentire il taglio delle aliquote». È proprio il combinato disposto tra sommerso e un cuneo fiscale (superiore di circa 5 punti alla media europea) alla base del gap di produttività che affligge l’Italia. Se nell’ultimo decennio nel Vecchio continente il plusvalore di un’ora lavorata è salito del 14 per cento, in Italia si è fermi a un misero +3. A pagare le conseguenze di tutto questo sono soprattutto i giovani, con la «crisi che ha acuito il loro disagio nel mercato del lavoro. Nella fascia di età tra 20 e 34 anni la disoccupazione ha raggiunto il 13 per cento nella media del 2009». In questo scenario è imprescindibile la riforma degli ammortizzatori sociali e l’innalzamen-

scondono di aver un rapporto estremamente conflittuale con le banche.

Ma nel giorno in cui il settore sembra aver ritrovato l’armonia perduta convergendo su Giuseppe Mussari alla guida dell’Abi, ecco due stoccate che devono far riflettere. Prima Draghi ha richiamato le Fondazioni a «tutelare l’indipendenza del management» delle banche azioniste» per non tornare ai tempi in cui «la politica nominava i vertici e sceglieva i clienti». Quindi ha ricordato ai banchieri che organizzare «l’attività sul territorio» significa «saper discernere l’impresa meritevole anche quando i dati non sono a suo favore». Altro che nascondersi dietro l’italianità.


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Via libera alla manovra. Ma senza l’azzeramento indiscriminato

Salve le fondazioni (e anche il ministro)

Il governo cambia il testo dopo i rilievi del Quirinale: no a tagli senza criterio agli istituti storici e di ricerca di Riccardo Paradisi opo aver rispedito al governo il testo della manovra di correzione dei conti pubblici – in cui erano contenuti i tagli su 232 enti cosiddetti inutili – il presidente della Repubblica firma il decreto Tremonti che contiene le ”misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica”. Arriva il placet del Quirinale dunque ma solo dopo aver ottenuto lo stralcio della lista dei 232 enti, fondazioni e istituti culturali contenuti nell’allegato della manovra e dopo aver avuto assicurazioni che la riduzione delle spese per il settore dei Beni culturali verrà affidata alla valutazione del Ministro competente Sandro Bondi.

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Insomma, nel testo finale del provvedimento ci sarà comunque una riduzione delle spese del 50% per questo settore ma grazie al Colle sembra per ora evitato che i tagli vengano fatti con l’ascia e alla cieca. Di fronte a questa concretissima minaccia decine di enti minacciati dalle forbici del decreto avevano chiesto in questi giorni di non far cadere la scure sui rispettivi istituti che rischierebbero persino la chiusura o il licenziamento dei dipendenti. L’appello era stato lanciato in particolare al Capo dello Stato perché indicasse almeno una riduzione dei tagli di contributi rispetto a quelli decisi in prima battuta dal Governo. Appelli che hanno avuto il loro esito evidentemente. Napolitano ha potuto far valere il suo peso nella valutazione del provvedimento trattandosi di un decreto legge si concepito per dare una subitanea risposta alla crisi dei mercati europei ma che a rigore non risponde alle esigenze della decretazione dell’urgenza. Insomma il Quirinale ha riconosciuto al governo ”l’urgenza generica”della manovra ma a patto di discuterla nel merito come opportunamente ha fatto. E il merito in cui è intervenuto Napolitano è quello dei criteri per i tagli sugli enti. La cui utilità nella grande maggioranza dei casi – questo è il pensiero di Napolitano – non può essere la produttività economica. La querelle sui tagli a enti e fondazioni produce però anche l’emersione di quelle divisioni all’interno della maggioranza finora rimosse. Addirittura provoca la clamorosa levata di scudi del ministro Sandro Bondi, il più deciso teorico, fino ad oggi, dell’unitarismo nel centrodestra, il più duro fustigatore dei guastatori finiani, accusati di polemizzare col quartier generale pidiellino fuori dalle opportune sedi del dibattito interno. Bondi ha lamentato d’essere stato esautorato da Tremonti, accusato la maggioranza di essere indifferente alla cultura, così da trovarsi solo e ac-

cerchiato in un settore in cui è ancora forte l’egemonia della sinistra. L’esito di questa polemica poi è addirittura paradossale visto che Bondi incassa la piena solidarietà proprio dei finiani e della fondazione Farefuturo, lesta nell’infilare il forcipe nella faglia apertasi nell’ala berlusconiana del Pdl. E così mentre il web magazine finiano arriva addirittura a parlare di ”sindrome di Goebbles”per la destra di governo – «Quando sento parlare di cultura metto mano alla pistola» diceva il pifferaio magico di Hitler – il vicecapogruppo del Pdl alla Camera, il finiano Italo Bocchino tuona che «Si tratta di un dato politico inaccettabile, specie se si considera che Bondi è anche il coordinatore nazionale del partito di maggioranza relativa». Un abbraccio sospetto quello di Bocchino viste le argomentazioni usate: «La vicenda Bondi dà implicitamente ragione alle posizioni di Gianfranco Fini tenute nel corso dell’ultima direzione nazionale».

La querelle sui tagli a enti e fondazioni provoca l’ira di Bondi a cui va la solidarietà dei finiani. Dopo l’intervento del Colle ora deciderà lui sul giro di vite

In alto, il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi. A sinistra, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano

to dell’età pensionistica. «Prolungare la vita lavorativa serve anche per garantire un tenore di vita adeguato agli anziani di domani», senza dimenticare che oggi «vanno ampliandosi in Italia le differenze di condizione lavorativa tra le nuove generazioni e quelle che le hanno precedute, a sfavore delle prime». Maggiore produttività va ricercata anche nel principale fornitore di servizi: la burocrazia. Il turnover nel pubblico impiego e i tagli alle spese discrezionali dei ministeri daranno risultati se forniranno «l’occasione per ripensare il perimetro e l’articolazione delle amministrazioni, per razionalizzare l’allocazione delle risorse, riducendo sprechi e duplicazioni tra livelli di governo». Di più, «occorre un disegno esteso all’intero comparto pubblico, che accompagni le inizia-

tive già avviate per aumentare la produttività della pubblica amministrazione attraverso la valutazione dell’operato dei dirigenti e dei risultati delle strutture». Parole che hanno fatto la gioia del ministro Renato Brunetta, nelle quali ha letto «un importante riconoscimento per l’azione di modernizzazione fin qui avviata».

Occorre prolungare la vita lavorativa, anche per garantire gli anziani di domani

Ma una leva da non sottovalutare per «aumentare l’efficienza nell’uso delle risorse» è il federalismo fiscale. In attesa del prossimo decreto di attuazione, quella sul trasferimento dei tributi, il governatore ricorda che «la definizione dei costi e dei fabbisogni standard a cui saranno commisurati, con la necessaria componente di solidarietà, i trasferimenti statali dovrà fare riferimento alle migliori pratiche». Altrimenti ci sarà soltanto un surplus di spesa.

All’interno della maggioranza del resto non solo i finiani avevano contestato la soppressione di fatto di enti come la Stazione zoologica Anton Dohrn di Napoli, la Domus Galilaeana di Pisa e la Scuola archeologica di Atene/Roma, centri di eccellenza di livello mondiale. E non a caso il capogruppo del Pdl alla Camera Fabrizio Cicchitto ha parlato della necessità di tagli mirati mentre Daniele Capezzone portavoce del partito dice che «Bondi ha avviato un’azione coraggiosa: rendere la cultura meno dipendente dallo Stato. Questa meritoria azione gli è costata critiche ingiuste dai nostalgici dell’assistenzialismo. Proprio mentre il ministro della Cultura è impegnato in un’azione del genere, è più che mai necessario che questo processo avvenga in modo graduale e prudente»Nel Pdl le voci ostili al decreto sono anche più dure anche se meno pubbliche. Questo decreto – dicono esponenti Pdl non tremontiani – non risolve il peso vero della spesa dei conti pubblici che è la spesa previdenziale. Questo decreto sarebbe insomma del tutto insufficiente e Tremonti non incide dove dovrebbe perché la Lega non glielo consente e perché su queste posizioni ha la sponda del ministro del Welfare Maurizio Sacconi che non vuole tensioni coi sindacati. Intanto lo sfondamento della spesa previdenziale dal 2006 al 2012, secondo le previsioni della ragioneria, sfora 1,4 punti di Pil, mentre mettendo mano alla previdenza oggi si sarebbe arrivati a contenere il deficit al 2,3%. Aivoglia a tagliare sulle fondazioni.


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l’approfondimento

Ricette. Parole dure contro l’evasione fiscale e invito ad avere più coraggio su pensioni e ammortizzatori sociali

Il partito Marcegaglia-Draghi Dopo Confindustria (con Cisl e Uil) anche Bankitalia torna a insistere. Secondo Mario Baldassarri e Paolo Feltrin è evidente che sulla crescita e sulle riforme si combatte una battaglia politica. E Tremonti finisce nell’angolo di Franco Insardà

ROMA. Emma Marcegaglia chiama e Mario Draghi risponde. Il presidente di Confindustria e il governatore della Banca d’Italia concordano sulla manovra e sulle richieste di ulteriori misure di rigore per sistemare i conti e stimolare la crescita. La Marcegaglia, infatti, ha espresso soddisfazione per le considerazioni finali del numero uno di palazzo Koch. Un’unità di intenti che dovrebbe far riflettere quanti nella maggioranza ritengono che la manovra varata dall’esecutivo vada nella direzione giusta. Ognuno ha letto nelle parole di Draghi degli aspetti interessanti, a seconda delle posizioni. Silvio Berlusconi ne ha visto riconosciuto «l’impegno del governo». Pier Luigi Bersani ha, invece, parlato di «parole preoccupate e veritiere sulla situazione italiana». Mentre il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini, ha dichiarato «la piena sintonia con Mario Draghi, che ha detto tre cose per noi essenziali: primo

che la manovra economica del governo era inevitabile; secondo che la lotta contro la corruzione e l’evasione fiscale devono essere prioritarie per il nostro Paese; terzo che è necessario ora varare delle riforme strutturali perché senza interventi profondi il nostro Paese non ha futuro».

Che la relazione del governatore di Bankitalia abbia una forte connotazione politica non ci sono, comunque, dubbi. «E non potrebbe essere diversamente» dice Paolo Feltrin, professore di Scienza dell’amministrazione dell’università di Trieste. «In questo momento chi ha responsabilità ha il dovere di non dire la verità, dal momento che nessuno sa come andrà a finire il mondo. Come diceva Max Weber: qualsiasi capo di Stato abbia deciso di dichiarare la guerra ha il dovere di non dirlo fino a un attimo prima. Bisogna quindi stare molto attenti a leggere tra le righe dei discorsi fatti da chi ha responsabilità

istituzionali. Nella situazione di emergenza in cui ci troviamo bisognerebbe, cioè, evitare di buttare benzina sul fuoco».

Per il presidente della commissione Finanze del Senato, Mario Baldassarri, quella di Draghi è «relazione economica che va nel merito e indica la strada da seguire: mondo, Europa e Italia non possiamo tornare indietro. Occorre, cioè, che l’economia globale sia dia una nuova governance, fissi le regole sui mercati finanziari.

«Il rigore ci deve essere, ma non si deve trattare di rigor mortis»

Bisogna istituire gli Stati uniti d’Europa, così come dico da anni, governati da un’entità poltica e basati su difesa, sicurezza, infrastrutture, energia e ricerca. A fianco della moneta unica ci deve essere la politica. L’Italia deve andare avanti a realizzare quelle riforme strutturali che è, secondo me, la rivoluzione liberale-democratica del Pdl e che sono sono indispensabili per lasciare ai giovani un sistema che riesca a garantire loro un futuro».

Proprio sul futuro il professor Feltrin solleva dubbi in quanto «così come fino a pochi mesi fa si diceva che non sarebbe stata fatta alcuna manovra, allo stesso modo adesso non sappiamo se questa sarà sufficiente: lo stabilirà la reazione dei mercati nei prossimi mesi. Non dimentichiamo, tra l’altro, che dalla nascita della Bce il ruolo del governatore della Banca d’Italia si è modificato e, quindi, gli unici discorsi che può fare sono di tipo politico. Da Guido Carli in poi le considerazio-

ni finali dei governatori hanno sempre avuto una moral suasion, con le indicazioni su che cosa bisognerebbe fare».

Le indicazione di Mario Draghi «all’approfondimento del rigore finanziario, ma con il richiamo alla responsabilità politica della crescita economica» è stato apprezzato da Baldassarri che aggiunge: «Il rigore ci deve essere ed è assolutamente necessario, ma nell’ambito di una crescita sostenibile. Non può essere un rigor mortis. Chiunque ha buon senso sostiene queste posizioni, da trent’anni combatto per sostenere che il deficit pubblico era una follia e che il livello dello Stato sull’economia riduce la crescita economica». E il professor Feltrin avverte: «Esiste una retorica delle riforme strutturali che assomigliano tanto ai fioretti e ai buoni propositi di fine anno. Sulle pensione la decisione presa ad agosto dello scorso anno, sulla correzione della curva rispetto agli andamenti demografici, per certi


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«Solo in apparenza le due relazioni approvano la manovra: le critiche sono sostanziali»

«Magari fosse questa la linea del governo!»

«Governatore e industriali hanno puntato il dito sulla contraddizione dell’esecutivo. I tagli orizzontali non servono», dice Savino Pezzotta di Francesco Capozza

ROMA. La manovra economica varata dal Governo, con l’anticipo delle misure correttive per il 2011 e 2012 e i tagli alla spesa corrente, era «inevitabile» date le condizioni dei mercati. A dirlo è il Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, secondo cui «nelle nuove condizioni di mercato era inevitabile agire, anche se le restrizioni di bilancio incidono sulle prospettive di ripresa a breve dell’economia italiana». Draghi segnala anche che, una volta varata, la manovra dovrà essere seguita nell’attuazione: «È necessario un attento scrutinio degli effetti della manovra per garantire il conseguimento degli obiettivi». Onorevole Pezzotta, questa manovra, firmata ieri anche dal capo dello Stato, nonostante le diverse critiche, anche in seno alla maggioranza ha incassato solo un mezzo ok da parte di Confindustria e, ora, di Banca d’Italia. Anche per lei era inevitabile? Leggendo le relazioni della presidente Marcegaglia e del governatore Draghi, mi sembra che aleggi in entrambe una sorta di arresa all’ineluttabilità del destino. Anche io, è ovvio, sono d’accordo che fosse necessaria una manovra di controllo del debito, ma non si può certo paragonare la nostra situazione a quella della Grecia. Se accadesse a noi quello che è accaduto lì, ci sarebbe stato uno smottamento ben più significativo all’intero dell’Ue. Siamo pur sempre la settima potenza industriale del mondo. A parte questo, mi sembra di aver letto in entrambe le relazioni diverse critiche, più o meno velate, al governo. La leader degli industriali ha ammesso che in questa manovra non ci sono investimenti, mettendo in allarme sul pericolo recessione, il governatore della Banca d’Italia ha detto invece che la corruzione frena lo sviluppo e quindi non possiamo certo accontentarci del decreto anticorruzione del governo. Soprattutto, il governatore di Bankitalia ricorda che la crisi rende ancora più urgenti le riforme strutturali, necessarie al rilancio del Paese. Quelle stesse riforme che l’Unione di centro, tra l’altro, chiede da tempo. Se davvero ci fossero quale sarebbe il vostro atteggiamento? Sembrerebbe un paradosso ma è vero: quello che noi andiamo dicendo da tempo, almeno due anni, adesso viene recepito da Confindustria e da

Bankitalia. La necessità di riforme strutturali l’abbiamo fatta presente al governo fin dal suo insediamento, basterebbe avere la pazienza di rileggersi gli interventi dei vari esponenti Udc sia in parlamento che in pubblico. Non solo, noi andiamo anche dicendo da tempo che le misure di contenimento sono necessarie, ma è fondamentale che ci sia un equilibrio sociale. Questo governo ci ha continuato a dire per mesi che la crisi era superata, che noi siamo uno dei paesi che sta meglio e via discorrendo. Eppure adesso ci scodella una manovra molto pesante, «inevitabile». Io credo che se Berlusconi si presentasse davanti al parlamento e davanti ai cittadini e spiegasse le ragioni per cui bisogna tutti stringere la cinghia, senza le sue solite mistificazioni, ne guadagnerebbe lui in credibilità e le istituzioni in fiducia.

È andata male, ma sarebbe potuta andare peggio. A fare la differenza è stata la politica economica, sottolinea Draghi: «La politica economica ha limitato il danno, in una misura stimabile in due punti di Pil, attribuibili per circa un punto alla politica monetaria, per mezzo punto agli stabilizzatori automatici inclusi nel bilancio pubblico, per il resto alle misure di ricomposizione di entrate e spese decise dal governo». Su questo punto credo che rispetto alla gestione di Padoa Schioppa, Tremonti non abbia cambiato una virgola. Vedo grande continuità tra la politica economica del governo Prodi e quella di questo governo. Noi eravamo contrari a quella come siamo contrari a questa. Contrari perché se i tagli non vengono bilanciati con gli investimenti e con delle riforme strutturali non andiamo da nessuna parte. Noi sappiamo che questa manovra era necessaria e infatti lo avevamo paventato già all’epoca della scorsa finanziaria, ma solo i contenimenti di spesa non bastano, il rischio, sennò, è che si il problema non venga risolto e che presto sia necessario intervenire ancora. Nella relazione Draghi evidenzia che «il reddito reale delle famiglie si è ridotto del 3,4 per cento, i loro consumi del 2,5 per cento. Le esportazioni sono cadute del 22 per cento». Come al solito sono le famiglie a soffrire il peso della Crisi, e il governo? Il governo sbaglia a porre in essere tagli orizzontali. Questa manovra agisce in termini uguali per tutti ed è un errore. Non si può certo pensare che le famiglie abbiano tutte le stesse esigenze; tagliare ad uno statale single è ben diverso che farlo a discapito di uno che ha famiglia a carico. Da questo punto di vista ha perfettamente ragione il cardinale Bagnasco quando ipotizza che la crisi possa avere effetti negativi sul numero di figli nelle famiglie italiane. Vede, il nostro è un paese che continua ad invecchiare ma dove i giovani non trovano lavoro e non riescono ad uscire di casa in modo autosufficiente. A mio avviso ci dovrebbe essere uno scambio generazionale: sono convinto che per favorire l’occupazione giovanile (e quindi anche i loro figli), gli italiani sarebbero disposti anche ad altri sacrifici. E la politica quali sacrifici potrebbe fare? Noi abbiamo proposto una grande convergenza nazionale, magari per un periodo limitato, per far uscire dalla crisi il paese. Tutti insieme, mettendo da parte problemi politici e personali, possiamo farcela. Certo, il primo passo verso le opposizioni lo devrebbero fare il governo e la maggioranza. Noi la nostra disponibilità l’abbiamo data.

versi è la più radicale d’Europa. Misure più severe sono sempre possibili, ma vanno incontro a un problema di consenso sociale non indifferente».

L’evasione fiscale, nelle parole del governatore Draghi, è la vera forma di macelleria sociale e per Baldassarri «la lotta all’evasione si fa con il conflitto d’interessi nel sistema: da tempo, per esempio, ho proposto la cedolare secca sugli affitti per far riemergere almeno la metà dei dieci milioni di case che risultano non occupate, ottenendo un gettito maggiore tra i due-tre miliardi all’anno». La lotta all’evasione e nell’agenda dei governi da anni, ma non si è mai riusciti a realizzarla. Secondo il professor Feltrin, però: «Se l’evasione fosse, cioè, così alta come si dice sarebbe molto più elevata di quella rilevata dall’Istat per calcolare il Pil. Con un Pil maggiore rispetto a quello dichiarato e con una diagnosi diversa dei mali del Paese». Draghi ha invitato soprattutto ad avere più coraggio per affrontare la crisi e Paolo Feltrin insiste sull’argomento: «Il problema dei giovani esiste, ma bisogna stare attenti alla retorica e alla demagogia. Questa generazione ha avuto la sfortuna di affacciarsi al mondo del lavoro in questo momento, così come altre hanno dovuto subire la guerra. Per riuscire a ottenere dei risultati bisognerebbe andare contro l’idea dei luoghi comuni, come quello dello stop ai prepensionamenti. Una posizione condivisibile, ma nel caso di lavoratori vicini all’età pensionabile è più giusto ed economico pagare gli ammortizzatori sociali o la pensione, in cambio di inserire giovani in apprendistato?». Draghi ha fatto anche un passaggio sul federalismo fiscale che per il presidente Baldassarri «è lo strumento con il quale si migliora la qualità della spesa pubblica e se ne riduce l’entità, ottenendo il risultato di ridurre la pressione fiscale complessiva. Parallelamente occorre mettere mano alla riforma della Pubblica amministrazione, ma non è possibile attuarla bloccando gli stipendi per tre anni. Aspettiamo il decreto firmato dal presidente della Repubblica e poi discuteremo». Il professor Paolo Feltrin non vede, invece, tutto questo interesse alla riforma e aggiunge: «Il federalismo fiscale è l’ultimo dei modi per ottenere una riduzione della spesa, come dimostrano le esperienze di altri Paesi. È diventato un modo diverso per dire che il Nord non può dare soldi al Sud e non è nient’altro che una variante della secessione, della devolution, del regionalismo e del decentramento. Tutte parole di moda con cui si declina il problema principale del Paese che si chiama Nord-Sud».


politica

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Polemiche. L’uscita del presidente della Camera provoca dure reazioni all’interno del PdL. E Schifani: «Io non darei mai giudizi politici o di merito»

L’opposizione di Fini «La legge sulle intercettazioni è irragionevole»: il cofondatore blocca la maggioranza prima della discussione in Senato di Marco Palombi

ROMA. L’accordo nel PdL sulle intercettazioni è durato qualche giorno. «Torniamo al testo della Camera», diceva il ministro Alfano. «Sì, al testo della Camera», approvavano i finiani. Incontri riservati nello studio di Fini davano il via a emendamenti condivisi, i giornali davano conto dell’idillio e dunque, venerdì, il furto di tanta concordia s’inverava in undici emendamenti firmati dai capigruppo di maggioranza per correggere, nell’aula del Senato, altri emendamenti votati dalla maggioranza in commissione. Tutto questo fino a ieri, perché proprio nel giorno in cui palazzo Madama comincia a discutere il ddl, Gianfranco Fini sgancia una bomba praticamente sull’intero impianto della legge: una riforma va fatta, premette il presidente della Camera, ma «ho dubbi sul testo del Senato, è opportuno che il Parlamento rifletta ancora».

In particolare, ha spiegato Fini, la norma transitoria (in cui si decide di applicare quasi tutte le nuove disposizioni anche ai processi già in corso), ma non solo: «Mi inquieta un po’ anche il limite di tempo. Io non so se i 75 giorni sono un numero giusto o sbagliato: ma se si capisce che il giorno successivo al 75esimo accade qualcosa non si può continuare?». Col che, il presidente della Camera, in ritardo di un anno largo, ha fatto sua la critica radicale al provvedimento che arriva da tutte le categorie interessate: poliziotti e magistrati, giornalisti ed editori, giuristi e, in qualche caso, persino governi stranieri. Questi problemi, ha insistito Fini, «non sono stati valutati bene specialmente dalla maggioranza: se i deputati alla Camera lo riterranno necessario si potrà intervenire». E qui il cofondatore dice due cose: al Senato ormai si andrà avanti così, ma nessuno pensi che la Camera si limiterà a ratificare il testo che arriverà (oggi i finiani si riuniscono per decidere la linea). L’uscita del cofondatore ha irritato assai il suo omologo del Senato: «Il mio ruolo è di garanzia, è un dovere di terzietà», ha scandito

Continua una sfida senza criterio fra due ”tifoserie” politiche

Altro che «verità ufficiale», esistono solo le notizie di Giancristiano Desiderio a legge sulle intercettazioni è necessaria, ma migliorabile. Questa è ormai, nonostante opposizioni, lotte e ostruzionismi, una posizione comune quasi a tutti. Ma ieri è stato il presidente della Camera, Fini, a sostenerla con forza: «Ho dubbi sul testo al Senato del ddl sulle intercettazioni – ha detto l’ex leader di An da Santa Maria Ligure mentre a Roma si cercava di avviare faticosamente il dibattito al Senato – è opportuno che il Parlamento rifletta ancora su questo testo. La norma transitoria è in contrasto con il principio di ragionevolezza. Mi inquieta anche il limite di tempo. Io non so se i 75 giorni sono un numero giusto o sbagliato: ma se si capisce che il giorno successivo al 75esimo accade qualcosa non si può continuare?». A giudicare dalle parole di Fini, sembra di capire che la “legge Alfano” non abbia più una maggioranza unita pronta a tutto.

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La posizione di Fini cambia molte cose. Sia il Pd sia il Pdl, sia i dipietristi sia i leghisti, sanno che non tutto può finire sui giornali. Regole nuove sono necessarie, ma il testo del disegno di legge va senza dubbio migliorato.Tuttavia, è proprio su che cosa sia e cosa si debba intendere per “miglioramento”che la lotta politica è destinata ancora una volta a incattivirsi. Il Pdl ritiene che il testo, ora al Senato, sia migliorato con gli undici emendamenti presentati dal governo. Altro lavoro da fare non c’è, e dunque, non c’è altro da fare che approvare la legge nel più breve tempo possibile. L’obiettivo della maggioranza e del governo non è certamente celato: incassare il “sì” di Palazzo Madama entro e non oltre questa settimana. Sull’altro fronte la situazione è diametralmente opposta: si sfiorano i trecento emendamenti e non si pensa affatto che la partita del Senato possa essere chiusa in due o tre giorni questa settimana. Il clima politico non facilita un miglioramento condiviso del testo. La battaglia sarà inevitabile. Ma a fare la differenza potrebbe essere proprio la posizione di Fini. Alcuni

emendamenti riguardano il lavoro quotidiano dei cronisti: viene autorizzata la pubblicazione “per riassunto” degli atti delle indagini. Però, è vietata la pubblicazione anche parziale, per riassunto o nel contenuto delle intercettazioni, anche se non più coperte dal segreto fino alla conclusione delle indagini preliminari. Vietata la pubblicazione anche in questo caso parziale, per riassunto o nel contenuto, delle ordinanze emesse in materia di misure cautelari. Si potrà pubblicare il contenuto solo dopo che l’indagato o il suo difensore siano venuti a conoscenza dell’ordinanza del giudice. Un altro emendamento prevede che non ci sia alcun limite alle intercettazioni se le indagini servono alla cattura di un latitante. La disciplina prevista dal disegno di legge si applica “anche ai procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge”. Come andrà a finire è fin troppo facile prevederlo. La “legge Alfano” passerà, magari in tempi un po’ più ampi, ma passerà, e la politica si dividerà ancora una volta in due“tifoserie”o due“fazioni”: da una parte la maggioranza di governo qualificherà se stessa come “garantista” e dall’altra parte le opposizioni a trazione dipietrista grideranno alla censura preventiva e al regime autoritario che nega la libertà di stampa. È una tragicommedia che conosciamo da molto tempo e se vogliamo conoscere la verità, o almeno provare a cercarla, dobbiamo prima di tutto rifuggire dalle estremizzazioni dei due poli. E così ritorniamo a Gianfranco Fini. Un contributo alla chiarezza potrebbe venire dal ruolo svolto dai deputati che si riconoscono nella posizione politica di Fini e in particolare da Giulia Bongiorno. Anzi, è auspicabile che i finiani svolgano proprio questa funzione di mediazione: ma non per mediare tra le due opposte fazioni, quanto per mediare il tema stessa in discussione.

Deve far riflettere quanto ha scritto in una lettera indirizzata al presidente Fini la sorella di Stefano Cucchi: se le norme della “legge Alfano”fossero state già in vigore, lei e i suoi genitori avrebbero potuto documentare lo stato in cui era stato ridotto il povero Stefano soltanto violando la legge. È questo, ci sembra, il punto delicato che bisogna mettere bene a fuoco e che non va offuscato con il disegno di legge: in una democrazia i giornalisti pubblicano le notizie di cui entrano in possesso. La verità ufficiale è un’espressione grottesca e un male peggiore del male delle intercettazioni.

Renato Schifani: «Io non mi sognerei mai di dare giudizi politici o di merito su provvedimenti all’esame dell’altro ramo del Parlamento». Poco prima ci aveva già pensato Sandro Bondi, che con Fini ha ormai una questione personale: «Mi chiedo non se sia corretto, ma se sia utile e ragionevole che il presidente della Camera esprima un giudizio politico nel merito di un provvedimento nel mentre lo si sta discutendo nell’aula del Senato».

Duro anche Gaetano Quagliariello: Fini ha un «problema istituzionale serio», quello di «essere nello stesso tempo presidente di una Camera e leader di minoranza. Lui ha le armi istituzionali per evitare questi inconvenienti e questo conflitto di interessi».Tradotto: stia zitto o si dimetta. Dalle parte del cofondatore s’è schierato invece l’ex ministro Giuseppe Pisanu: «Grosso modo condivido i dubbi di Fini e spero che il provvedimento cambi». A Palazzo Madama, intanto, procedeva il film della legge Alfano, confuso come al solito. Ieri pomeriggio, come detto, s’è iniziata la discussione generale: quasi 300 gli emendamenti presentati, 280 dei quali dalle opposizioni, con ben cinque pregiudiziali di costituzionalità (due del Pd e una a testa per Udc, Idv e Radicali). Il centrodestra ha respinto la richiesta di tornare in commissione avanzata dalla mi-


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giugno 2010 • pagina 7

Le pregiudiziali dell’Udc al progetto dell’esecutivo

«Il rimedio sbagliato per un problema vero» Gianpiero D’Alia: «Questo testo è incostituzionale. E pieno di contraddizioni e limiti alle indagini» di Gabriella Mecucci

ROMA. La legge sulle intercettazioni, così com’è, non verrà votata dall’Udc, che ha segnalato numerosi profili di incostituzionalità ed ha presentato emendamenti che cambierebbero profondamente l’attuale provvedimento. Gianpiero d’Alia, capogruppo del partito al Senato, ha studiato a lungo l’articolato del governo e non sembra ottimista: ritiene cioè molto difficile arrivare ad un accordo Senatore, perché la mediazione è così lontana? Perché questa legge è stata preparata e il dibattito parlamentare viene gestito dai falchi della maggioranza. Cambiarla sarà dunque molto complicato.Votarla così com’è, per noi è assolutamente impossibile. Per questo non sono ottimista. Faremo però una battaglia seria e costruttiva, presentando per ogni punto che non ci convince i nostri emendamenti. Eppure l’Udc in passato ha più volte criticato l’eccesso di intercettazioni e l’uso che ne è stato fatto. Certamente. E lungi da me negare che il problema esista. Ma una cosa è fare una legge contro l’abuso e altra cosa è renderne difficilissimo l’uso. Prima di arrivare a parlare di questo, mi sembra pregiudiziale affrontare i profili di incostituzionalità del provvedimento. Quali sono? Ce ne sono diversi e in più punti dell’articolato. È molto complicato riassumere in breve tutti gli argomenti. Varrà la pena dunque citare qualche profilo di incostituzionalità a titolo di esempio. La legge costituisce un vulnus per quelle parti della Costituzione che riguardano l’obbligatorietà dell’azione penale, il principio dell’imparzialità e del buon funzionamento della pubblica amministrazione, quello della certezza del diritto, nonché l’articolo 21 che disciplina la libera manifestazione del pensiero. La proposta della maggioranza incide negativamente sia sul versante del diritto di cronaca sia su quello del diritto ad essere informati. Le restrizioni introdotte sono infatti eccessive: è vietato non solo pubblicare le intercettazioni, ma anche riassumerle sino al termine dell’udienza preliminare. Detto tutto questo, che cosa prioritariamente deve cambiare perché l’Udc non voti contro il provvedimento? Partiamo dai problemi più macroscopici. È inaccettabile che anche quando le intercettazioni non sono più segrete, non possano esse-

re pubblicate dai giornali. Possono però, per fare un esempio, uscire su siti internet esteri, che l’Italia non ha certo il potere di chiudere. Questo crea una sorta di doppio regime di pubblicità in cui una fascia ristretta di persone può conoscere le intercettazione che però non possono diventare patrimonio dei più tramite una diffusione televisiva o a mezzo stampa. Tutto ciò può avere delle conseguenze molto negative, persino inquinanti. Ci sono poi tutte le contraddizioni di una legge che si fa paladina della privacy non riuscendo però a difenderla. Ci sono molte contraddizioni di questo tipo? Parecchie, ma conviene concentrarsi su due punti fondamentali. Il primo? Riguarda chi autorizza le intercettazioni. Secondo la legge proposta dalla maggioranza, il Pm la deve chiedere ad un collegio di tre giudici, autorizzati dal tribunale del capoluogo del distretto dove ha sede la Corte d’Appello. Questa è una follia perchè allunga e di molto i tempi, rende più difficile il rispetto della privacy che il legislatore dice di voler tutelare (dal posto dove s’indaga, ci si deve spostare al capoluogo e poi, anzichè coinvolgere un solo giudice, se ne chiamano in causa tre) e, soprattutto, crea un tale quantità di incompatibilità dei magistrati da essere totalmente ingestibile. Se non viene tolta questa norma,l’Udc non si sposterà dal suo no al provvedimento. Passiamo al secondo punto che giudicate inaccettabile... Quello che fissa il tempo massimo delle intercettazione non oltre i 75 giorni. Ammettiamo che un Pm dopo due mesi e mezzo che intercetta, scopra qualcosa di nuovo e di molto importante, notizie che in precedenza non erano emerse e che cambiano la natura stessa della sua indagine. Ebbene,a quel punto non può proseguire con le registrazioni perché è scaduto il tempo a disposizione. Questa di tutte le limitazioni è la più insopportabile perchè t’impedisce di andare avanti, magari proprio nel momento in cui il magistrato ha trovato il bandolo della matassa. Il risultato dunque è che non voterete il provvedimento? Lo ripeto: mi sembra molto difficile. So bene che c’è stato un uso distorto delle intercettazioni e vorrei concorrere a costruire una legge equilibrata. Ma questa non lo è: viola principi fondamentali e fa acqua da tutte le parti.

Il ddl è stato scritto e gestito dai falchi azzurri: per questo sarà difficile cambiarlo

Angelino Alfano (qui sopra). Gianfranco Fini (a sinistra). A destra: Gianpiero D’Alia (Udc). Nell’altra pagina: Silvio Berlusconi

noranza, la quale - soprattutto il Pd - adesso si trova a dover decidere se passare all’ostruzionismo duro (ivi compresa l’occupazione dell’Aula che però non piace a parecchi democratici) o procedere ad un filibustering più tradizionale, anche se il regolamento interno del Senato non consente di allungare i tempi più di tanto. Pare comunque che una piccola concessione all’opposizione, alla fine, verrà fatta: in commissione dovrebbero tornare quelle parti del testo che la maggioranza ha deciso di cambiare. «Gli 11 comandamenti del PdL», li ha irrisi in aula Gianpiero D’Alia. Si parla, infatti, delle undici proposte di modifica depositate venerdì e firmate dai capigruppo del centrodestra, una fattispecie di aggiustamenti che i nostri vecchi avrebbero incorporato nella categoria“peso el

tacòn del buso”.Tra le altre infatti reintroduzione della possibilità di pubblicare gli atti di indagine per riassunto, diminuzione delle multe per gli editori, eccetera - ce ne sono un paio che gridano vendetta. La prima è quella indicata da Fini, ovvero l’estensione di buona parte delle norme ai processi già in corso: in particolare la sostituzione del pm nel caso abbia espresso la sua opinione sul caso in questione o sia iscritto nel registro degli indagati per violazione delle norme sulla pubblicazione degli atti d’indagine (il che, approvata la legge in discussione, lo renderebbe quasi automatico in caso di fuga di notizie); il divieto di riprese audiovisive in caso di mancato consenso delle parti e quello di pubblicare le intercettazioni che non siano state acquisite al procedimento. Il secondo emendamento grida vendetta sia per il senso che per la formulazione: si elimina, in sostanza, l’obbligatorietà dell’arresto in flagranza per chi commetta atti di pedofilia di “minore gravità”. Il che conduce a due domande: Perché questa eccezione? Perché inserirlo nel ddl intercettazioni? «Su questo daremo battaglia», promette Alessandra Mussolini, PdL anche lei.


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panorama

ragioni&torti di Giancristiano Desiderio

Crispi e Mussolini vecchie storie di sesso e politica a cosa più vecchia di questo mondo è l’amore. Cortese o scortese che sia. Nei mesi addietro ne abbiamo lette di storie d’amore sentimentale e sessuale intrecciate con la politica. Sembrava che fosse stata scoperta una cosa nuova o, se proprio non nuova, sembrava almeno che la cosa nuova consistesse nel parlare del rapporto tra potere e amore. Invece, sotto questo cielo non c’è nulla di nuovo. Due esempi: quello di Francesco Crispi accusato di bigamia e quello di Mussolini che sembra avesse un numero di amanti pari al doppio del numero dei ministri.

L

La storia di Crispi è raccontata da Enzo Ciconte e Nicola Ciconte nel libro Il ministro e le sue mogli (Rubbettino). Nel 1854, a Malta, Crispi sposò Rosalie Montmasson. Chi era? Una donna coraggiosa, intelligente, determinata e soprattutto l’unica donna fra i Mille di Garibaldi. Crispi e Rosalie vissero insieme per venticinque anni. Ma una volta fatta l’Italia e cambiate tante cose, cominciò a cambiare anche il loro amore. Crispi seguì le sorti della “nuova Italia”e sempre con Rosalie al seguito visse a Torino, a Firenze, quindi nella nuova e definitiva capitale del Regno: Roma. Con Rosalie al seguito, presentata come propria moglie, Crispi incontrò il re e la regina. Poi il “matrimonio” finì. Male. Malissimo. Lui sostenne di non essersi mai sposato per unirsi con Lina Barbagallo nel 1878 in gran segreto: un matrimonio privatissimo celebrato in casa affinché nessuno sapesse. Ma siamo in Italia e anche se nell’Ottocento non c’era di certo la “società trasparente” dei mezzi di comunicazione di massa, solo ciò che non si fa non si sa. Soprattutto, gli avversari di Crispi sapevano tutto e il suo acerrimo nemico, il Nicotera, era pronto a utilizzare ogni mezzo pur di screditarlo. La notizia finì sulla stampa. Sembra una storia di oggi, invece è di oltre un secolo fa. Sembra talmente di oggi che il quotidiano Il Piccolo rivolse dalle sue colonne sei domande a Crispi. Insomma, lo si voleva pubblicamente e moralmente giudicare. Crispi disse “non ci sto” e si difese con l’argomento classico: “Sono fatti privati”. Tuttavia, perse la fiducia del re e si deve dimettere da ministro. La storia di Mussolini è raccontata da Gianni Scipioni Rossi nel libro Storia di Alice (ancora Rubbettino). Infatti, Mussolini c’entra, eccome, ma la storia è proprio di Alice. Chi era costei? Alice de Fonseca è, tra le tante, l’amante meno nota del duce. Anzi, è persino riduttivo considerarla solo amante. La Petacci la temeva e diceva: «È una vipera». D’Annunzio la chiamava Alis. Il diplomatico Attilio Tamaro la vedeva «bella, intelligente e allegra». Ma la «storia di Alice», rimasta finora incredibilmente inedita, è fatta non solo d’amore, incontri, lettere, litigi (con la Petacci) ma di politica e intrighi internazionali. Fu “ambasciatrice” del duce, il quale si illuse a un certo punto di avere tramite la sua “ambasciatrice” che parlava l’inglese meglio dell’italiano, un incontro salvifico con Churchill. Alice non riuscì a salvare né lui, né l’Italia.

E adesso la Fiat punta a salvare Pomigliano Vicino un accordo con i sindacati. «Fare presto», dice Elkan di Alessandro D’Amato

ROMA. Un botta e risposta che può essere il preludio alla soluzione definitiva. «C’è poco tempo», ha detto ieri il presidente di Fiat John Elkann, riguardo il confronto sullo stabilimento di Pomigliano d’ Arco. «Ora bisogna decidere, noi abbiamo detto chiaramente quali sono le nostre intenzioni», ha aggiunto a margine dell’assemblea di Bankitalia. E a una domanda sulla posizione dell’Amministratore delegato Marchionne, e in particolare se vada considerata un ultimatum, l’ex rampollo oggi ufficialmente erede della dinastia degli Agnelli ha ribadito: «Speriamo in un esito positivo». In più, Elkann ha sottolineato che il Lingotto ha espresso «disponibilità in tutte le sedi. Trovare un accordo sarebbe una occasione importante per tutto il Paese».

Ma alla stessa assemblea

l’avvio della produzione. Presto sarà impossibile accettare ulteriori ritardi».

Insomma, con tutte le cautele del caso, sembra proprio che dalla parte delle rappresentanze si vada nella direzione di un accordo. I sindacati si dicono soddisfatti del procedere delle trattative che hanno condotto all’accettazione sul piano formale dell’accordo relativo al turno del sabato notte che, si ipotizza, potrebbe essere coperto attraverso permessi e recuperi. Ancora poco chiara la questione della limatura delle pause, da 40 a 30 minuti: i sindacati protendono per il recupero dei 10 minuti, la Fiat, invece, sembra più decisa a monetizzarli per non avere effetti negativi sulla produzione. Piccolezze, sembrano dal di fuori. In realtà al Lingotto sanno che sono questi particolari che consentono di «allineare la produzione agli standard internazionali», e chiedono sanzioni per lavoratori e sindacati che non rispettano gli accordi. Non sembra essere d’accordo la Fiom di Gianni Rinaldini, che non ha partecipato agli incontri con Fim e Uilm e oggi è il più barricadiero tra i sindacati. Giovedì c’è l’incontro al ministero delle Attività produttive per la riconversione di Termini Imerese, mentre il 10 giugno è la deadline per lo stop alle trattative a Pomigliano.

«Siamo pronti a chiudere la trattativa prima dell’incontro su Termini dell’11 giugno», ha annunciato ieri il presidente

è arrivata anche una risposta, quella di Raffaele Bonanni, per il quale la trattativa ormai è «quasi in dirittura d’arrivo. È quello che ci serve per rilanciare investimenti e occupazione». E poco dopo è giunta anche un’altra replica: «Siamo pronti al rush finale, eravamo pronti anche la scorsa settimana, dobbiamo trovare un punto d’incontro», ha dichiarato Bruno Vitali, responsabile Auto della Fim. «Abbiamo dato risposte positive sull’utilizzo degli impianti e sulle flessibilità, che erano le richieste del 21 aprile. Le cose che si sono aggiunte stanno complicando la vertenza, ma siamo pronti alla stretta conclusiva da farsi prima dell’incontro su Termini Imerese dell’11 giugno». E dunque, dopo un week end quanto meno problematico ora per lo stabilimento sembra regnare l’ottimismo tra i sindacalisti. Ma il punto di vista della proprietà continua ad essere lo stesso. «In assenza di un accordo, si prenderanno in considerazione ipotesi alternative per la produzione della futura Panda», aveva detto Marchionne in occasione della riunione del 28 maggio all’Unione industriale di Torino. Di fronte ai rappresentanti di Fim, Uilm, Fismic e Ugl l’amministratore delegato pareva seriamente intenzionato a rispolverare l’ipotesi di un Piano B, vale a dire di una chiusura definita dello stabilimento campano. «I tempi – aveva detto Marchionne– stanno diventando stretti. Il protrarsi della trattativa con i sindacati ha già provocato lo slittamento degli investimenti necessari per

Intanto però bisogna anche guardarsi dall’estero. «Già 16.500 veicoli pesanti fatturati nei primi 5 mesi del 2010 sull’onda di un mercato che nei primi mesi del 2010 sta crescendo ad un ritmo frenetico dell’84%: è la corsa intrapresa da Siac-Iveco, la storica joint venture stretta in Cina dalla casa automobilistica per la produzione di veicoli commerciali pesanti», dicono i manager del gruppo in occasione della visita del governo italiano nell’ambito della Missione italiana in Cina. Il gruppo, l’unico con marchio europeo su questo segmento di mercato in Cina, ha una quota di mercato del 5%, è il settimo gruppo del paese ed ha un obiettivo di superare una produzione di 30 mila veicoli nel 2010. Insomma, il futuro di Fiat è solido e florido. Per continuare ad incrociare quello dell’industria italiana ci vuole uno sforzo diplomatico in più. Il Lingotto non sembra intenzionato a farne, e ora la palla passa a governo e sindacati.


panorama

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In margine all’assemblea della Cei, è tornata di stringente attualità la strategia per combattere gli scandali

Un vescovo contro la pedofilia Per Bagnasco, è prioritario «seguire» il Papa. Ma forse occorrerebbe anticiparlo di Luigi Accattoli ui carboni ardenti della pedofilia del clero, i nostri vescovi seguono il Papa nella decisione di affrontare il “terrificante”capitolo con il “coraggio della verità”, anche se essa abbia a rivelarsi “dolorosa e odiosa”. È un’ottima notizia di cui si sono fatti portavoce – la settimana scorsa, in margine all’assemblea dei vescovi – il cardinale Bagnasco e l’arcivescovo Crociata, presidente e segretario della Cei. Ma forse non basta seguire il Papa: in qualcosa occorre precederlo, specie in aspetti della questione, come quelli conoscitivi, sui quali unici competenti sono i vescovi. In questa direzione era legittimo attendersi un passo in più.

S

non necessario: cioè l’avvio di una qualche “operazione verità” che può essere condotta soltanto dalla Conferenza episcopale e che personalmente reputo essenziale sia per la “revisione”dei metodi del passato, sia per la“cura”delle vittime e dei colpevoli, sia per contrastare – se fosse il caso – un uso strumentale dello scandalo da parte dei media. «Il nostro primo pensiero, la nostra prima attenzione è nei confronti delle vittime» ha detto il cardinale Angelo Ba-

gnasco ad apertura dell’assemblea e sono parole che gli fanno onore. Gli fa onore anche il fatto che in conferenza stampa, venerdì scorso, abbia assicurato che chiunque potrà – oggi e sempre – rivolgersi a lui, come a qualsiasi altro vescovo, e «sarà ricevuto immediatamente, di giorno e di notte». Un poco meno convinto sono restato della sua argomentazione che non c’è bisogno di “referenti”a ciò delegati, o uffici, o commissioni: «Il referente naturale in ogni diocesi è il vescovo» e «certe situazioni richiedono una risposta immediata». Ma ci sono diocesi grandi, già Genova che ha più di 800 mila abitanti, ma pensiamo a Napoli che ne ha il doppio, o a Roma e a Milano. La diretta accessibilità al vescovo rischia di essere più teorica che pratica. Né il problema è solo questo, ma c’è quello della conoscenza del fenomeno sul piano nazionale. «L’opinione pubblica come le famiglie devono sapere che noi Chiesa faremo di tutto per meritare sempre, e sempre di più, la fiducia che generalmente ci viene accordata anche da genitori non credenti o non frequentanti. Non risparmieremo attenzione, verifiche, provvedimenti; non sorvoleremo su segnali o dubbi; non rinunceremo a interpretare, con ogni premura e ogni scrupolo necessari, la nostra funzione educativa»: è un altro passo della prolusione del cardinale Bagnasco e anche

Molti temono l’emergere di casi italiani simili a quelli di Austria, Germania, Irlanda e Usa

Dall’assemblea dei vescovi sono venute due informazioni riguardanti il nostro Paese: che lungo l’ultimo decennio sono stati affrontati dai tribunali della Chiesa un centinaio di casi di abusi sessuali su minori – la cifra è stata fornita dall’arcivescovo Mariano Crociata – e che la Cei ha deciso di non prendere iniziative nazionali (commissione o referente unico), lasciando la questione nelle mani dei singoli vescovi. Considero rischiosa questa decisione. I cento casi in dieci anni non sono pochi e di certo non sono i soli. Quando anche in Italia cesserà la “cultura del silenzio”e – come è verosimile – si moltiplicheranno le denunce, ci si potrebbe trovare a fare con ritardo ciò che ora si è scartato come

questo è ben detto, ma all’opinione pubblica e alle famiglie si poteva almeno mandare un segnale.

Molti temono l’emergere di casi italiani simili a quelli dell’Austria e della Germania, se non dell’Irlanda e degli Usa. Si dovrebbe invece argomentare e operare in favore dello svelamento, purché ovviamente i fatti siano reali. Anche a questo potrebbe servire la nomina di un referente nazionale, come avvenuto in altri paesi. Un’informazione trasparente sui casi accertati, come anche l’offerta di un contatto e di una fattiva consulenza a chi ha subito torti potrebbero essere tra i suoi compiti. Né va sottovalutata l’opportunità di disporre di una persona – poniamo un vescovo – in grado di far fronte alle esigenze dei media in televisione, alla radio, in internet o in eventuali conferenze stampa. A chi considerasse fuori luogo il mio allarme sul domani per quanto riguarda l’Italia, ricordo le parole che ha dedicato al nostro paese il «promotore di giustizia» della Congregazione per la Dottrina della Fede, il prete maltese Charles J. Scicluna, cioè l’uomo di Chiesa che ne sa di più: «Finora in Italia il fenomeno non sembra abbia dimensioni drammatiche, anche se ciò che mi preoccupa è una certa cultura del silenzio che vedo ancora troppo diffusa» (intervista ad Avvenire del 13 marzo 2010). www.luigiaccattoli.it

Infrastrutture. L’azienda risponde alle polemiche sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria

Ecco l’impegno dell’Anas per il Sud di Giuseppe Scanni * gregio direttore, ho letto con sorpresa l’articolo pubblicato da liberal il 28 maggio 2010 a pagina 10, intitolato «Così Anas e Ferrovie hanno isolato il Sud», che contiene una serie di imprecisioni e di false affermazioni. L’intenzione attribuita al Presidente dell’Anas, Pietro Ciucci, di voler “isolare”il Sud è del tutto fuori luogo. Il Mezzogiorno, infatti, assorbe circa il 53% del totale delle risorse economiche Anas, con lavori in corso o in fase di cantierizzazione per investimenti complessivi pari a circa 23 miliardi di euro. Una massa di investimenti enorme, volta a potenziare e ammodernare la rete dei trasporti delle regioni meridionali, recuperando finalmente un gap decennale rispetto al centro-nord e all’Europa.Voglio rassicurare i suoi lettori anche sui lavori di ricostruzione dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria. Anas costruisce una nuova autostrada di oltre 440 km sul tracciato originale, in gran parte di montagna, mantenendo la costanza di traffico. L’autostrada,una volta ultimata, in virtù della nuova geometria dell’asse avrà una lunghezza di circa 10 km inferiore all’attuale.

E

È un’opera grandiosa dal punto di vista sia ingegneristico che tecnologico; non a caso i cantieri del-

la A3 ospitano di frequente studiosi e tecnici provenienti da centri di ricerca e da università straniere. Va sfatato anche il mito dei lavori infiniti. Ad oggi sono stati ultimati già 194 km della nuova SalernoReggio Calabria (quasi la metà dell’autostrada), mentre sono in corso o in fase di gara lavori su altri 181 km di autostrada, di cui 25 km saranno completati entro quest’anno. Come ha avuto modo di di-

«Confermo che il nostro obiettivo, sicuramente una grande sfida, è quello di completare i lavori principali dell’A3 progressivamente entro il 2013» chiarare più volte il Presidente Ciucci, confermo che il nostro obiettivo, sicuramente sfidante, è quello di completare i lavori principali dell’autostrada A3 progressivamente entro il 2013. Quindi, dieci anni dopo l’avvio effettivo dei grandi lavori di ricostruzione della SalernoReggio Calabria, avvenuto nel 2003 con il primo macrolotto,

a seguito del varo della Legge Obiettivo e dell’introduzione della figura del general contractor. Non è un risultato trascurabile. Quanto al blocco distaccatosi lo scorso 11 maggio a Scilla a causa di lavori privati non autorizzati, la vostra testata rimprovera Anas di non aver vigilato. A tal proposito va ricordato che tali lavori si svolgevano in aree non di pertinenza Anas e a trecento metri di altezza dall’autostrada. Peraltro Anas, pur non essendo competente, ha subito offerto la propria disponibilità alla richiesta della Prefettura di Reggio Calabria di ricoprire il difficile ruolo di soggetto attuatore, per realizzare nel più breve tempo possibile i lavori di messa in sicurezza dell’area, allo scopo di ripristinare in breve tempo la circolazione; come è accaduto. * Direttore Relazioni Esterne e Rapporti Istituzionali Anas


mondo

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Medioriente. Le navi, con a bordo anche cinque italiani, cercavano di forzare l’embargo che isola la Striscia

Il blitz di Israele Tzahal attacca una flottiglia di attivisti pro Palestina: 10 morti e decine di feriti di Vincenzo Faccioli Pintozzi tutta ancora da scrivere, la storia dell’assalto portato ieri dall’esercito italiano alla Freedom Flotilla, convoglio composto da membri di diverse Organizzazioni non governative in navigazione verso le acque territoriali di Gaza con un carico di aiuti umanitari. Nel corso del blitz, almeno dieci volontari sono stati uccisi a opera di commandos israeliani, che rivendicano la legittimità dell’attacco parlando di “provocazioni” da parte della flottiglia. A bordo della quale sarebbero state nascoste, sempre secondo i membri, diverse casse di armi da destinare ai guerriglieri palestinesi della Striscia. Secondo l’emittente araba al Jazeera, sei vittime sono di nazionalità turca; per al Arabiya i turchi sono nove, mentre gli altri attivisti uccisi sono di origini arabe.

È

Vi sarebbero anche 26 feriti, di cui uno grave, mentre l’esercito israeliano parla di quattro soldati feriti – di cui due in maniera grave – dopo aver ricevu-

to colpi di arma da taglio. Teatro dell’accaduto una nave turca, la “Mavi Marmara”, obiettivo del blitz portato dai commandos di Tel Aviv tra le 4,30 e le 5 del mattino a circa 75 miglia dalle coste israeliane. Che l’incidente sia avvenuto in acque internazionali è l’unico elemento in comune tra le versioni dell’accaduto fornite dai responsabili di Freedom Flotilla e

liani di Haifa e Ashdod. In passato, le missioni pacifiste non erano mai riuscite a oltrepassare il blocco israeliano attorno alle acque territoriali di Gaza. Questa volta la situazione è precipitata finendo in un “massacro”, come denuncia il presidente dell’autorità palestinese Abu Mazen, che ha indetto tre giorni di lutto in tutta la Palestina. Fonti della difesa israeliana

Onu, Unione Europea e Lega araba unite nel condannare l’operato di Tel Aviv, mentre gli Stati Uniti attendono un’inchiesta ufficiale sull’accaduto. E Ahmadinejad torna a chiedere la fine di Israele le fonti della difesa di Tel Aviv, che ha imposto la censura ai media d’Israele. Cosa abbia indotto i militari israeliani ad aprire il fuoco contro i militanti delle Ong è tutto da chiarire. E non sarà facile, visto il reciproco scaricabarile in cui si sono prodotte in queste ore le parti in causa. Dopo l’assalto, le navi di Freedom Flotilla sono state dirette verso i porti israe-

descrivono invece “spari dalla nave”contro i commando che si apprestavano a salirvi a bordo, e parlano di «passeggeri armati di coltelli, che tentano di strappare le armi ai soldati. Di fronte alla necessità di difendere la propria vita, i soldati hanno impiegato dei mezzi antisommossa e hanno aperto il fuoco». Più tardi, di fronte alle proteste nelle piazze come nel-

le sedi diplomatiche, il generale Avi Benayahu - portavoce dell’esercito israeliano – ha ammesso che l’operazione si è svolta in acque internazionali e ha ricordato che dal 1993 (anno degli accordi di Oslo) Israele ha mantenuto il controllo delle acque territoriali a largo della striscia di Gaza per una distanza di venti miglia.

«Capire le dinamiche dell’incidente è fondamentale per attribuire le colpe», ha affermato alla fine il generale, che dice di ignorare da chi sia partito l’ordine di sparare. Nel frattempo, il ministero degli Esteri fa sapere di aver trovato armi a bordo della Flotta. Una notizia che viene seccamente smentita dai membri delle Ong presenti a bordo: secondo Greta Berlin, leader del Free Gaza Move-

ment (una delle Ong che ha organizzato la flottiglia della pace), «è tutta una bugia. Non abbiamo aperto il fuoco». Il vero braccio di ferro, tuttavia, non è fra Israele e i pacifisti ma fra Tel Aviv e Ankara. E nel corso della giornata non fa altro che aumentare, dato che tra le vittime pare vi sia un deputato turco. Un confronto duro, che avviene mentre i leader dei due Paesi sono lontani. Il premier israeliano Benjamin Netanyhahu viene richiamato in patria dal Canada, prima tappa di una visita in Nord America, ma decide di non annullare l’incontro previsto oggi con il presidente stanunitense Barack Obama. Il primo ministro Tayyip Erdogan è impegnato in un viaggio ufficiale in America Latina. Ad Ankara, mentre il vicepremier Bulent Airnc tiene una riunione

Una lunga storia di “incidenti” La flottiglia e l’esercito non sono mai andati d’accordo, ma non erano mai arrivati a sparare di Antonio Picasso n termini di morti e per come sono andati i fatti l’intervento armato contro la flottiglia che ha tentato di raggiungere Gaza nella notte di domenica non ha precedenti. “Free Gaza Movement”è sempre stato un osso duro per la Marina militare israeliana. Quest’ultima si è altrettanto impegnata affinché la Striscia di Gaza restasse a tenuta stagna anche dal mare. Finora però non si era mai verificato uno episodio così sanguinoso. Sfogliando le cronache degli ultimi anni, torna alla memoria il tentativo di forzare il blocco navale, da parte dei pacifisti, all’inizio del 2009. Erano i giorni più incandescenti di “Piombo fuso”, l’operazione militare voluta dal governo israeliano, allora presieduto da Ehud Olmert, per porre fine al lancio di razzi dalla Striscia sulle città di Ashkelon e Sderot. L’obiettivo dello Stato maggiore di Tzahal, con quella

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guerra, era anche strutturale. Israele voleva decapitare la leadership politica e il comando militare di Hamas, che governavano e ancora detengono il potere nella Striscia dalle elezioni del 2006. L’operazione israeliana si rivelò un insuccesso. Il Paese andò quindi alle elezioni e a vincere fu una coalizione spuria, composta dalla destra laica del Likud, insieme ai laburisti, insieme ai partiti più radicali e contrari al processo di pace: Israeli Beitenu, Shas e Torah.

È l’alleanza che è oggi al governo, presieduta da Benjamin Netanyahu e che ha dato il suo “nulla osta” politico per l’intervento militare dell’altra notte. Durante “Piombo fuso”, dicevamo, un cargo con aiuti umanitari a bordo, organizzato sempre da “Free Gaza Movement”, aveva tentato di forzare il blocco navale davanti a Gaza. A bordo dell’im-

barcazione c’era anche l’ex arcivescovo melchita di Cesarea, monsignor Hilarion Capucci, famoso per il suo attivismo fin troppo spregiudicato contro Israele e che già in passato aveva messo in imbarazzo la Santa Sede. In quella occasione però, i fatti si svolsero senza alcuno spargimento di sangue. La nave fu bloccata prima che potesse raggiungere le acque soggette alla giurisdizione dell’Autorità palestinese e venne dirottata verso il più vicino porto israeliano. Da lì gli attivisti furono accompagnati incolumi via terra al confine con il Libano, affinché non potessero creare ulteriori “impedimenti” alle attività belliche dell’Esercito israeliano. Precedentemente i tentativi di rompere il blocco navale ebbero risultati più positivi. Tra l’agosto e l’ottobre 2008,“Free Gaza Movement”, in collaborazione con l’“International Solidarity Movement” (Ism),

raccolsero un ammontare complessivo di 300mila dollari di donazioni private e con una serie di imbarcazioni raggiunsero il porto di Gaza.

Nei due casi la Marina israeliana cercò di fermare i cargo, ma senza ricorrere alla violenza. I suoi interventi erano volti al controllo minuzioso delle stive, per avere la certezza che non vi fossero armi a bordo e per rallentare l’invio degli aiuti alla popolazione della Striscia. Entrambe le volte si giunse a un livello di esasperazione e nervosismo collettivo e solo per poco venne scongiurato un incidente simile a quello di domenica. Nella vicenda di inizio 2009, come in quest’ultimo caso – ben più clamoroso per il bilancio di morti che si sta tracciando – non si è mai saputo se nella stiva delle navi di “Free Gaza Movement” fossero contenuti unicamente aiuti umanitari, oppure anche ar-


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di emergenza con il ministro dell’Interno, il comandante della Marina e il capo delle operazioni dell’esercito, viene convocato l’ambasciatore israeliano Gaby Levy al ministero degli Esteri per denunciare un attacco «inaccettabile, dalle conseguenze irreparabili» e per annunciargli una «perentoria reazione». In particolare, all’ambasciatore le autorità turche chiedono la consegna al più presto dei cittadini turchi rimasti feriti. Poi il governo di Anka-

ta a una «giornata della collera contro i crimini sionisti». Quando si diffonde la voce che nell’assalto dei commandos israeliani è rimasto gravemente ferito lo sceicco Raed Sallah, leader del Movimento islamico nel Nord di Israele che vive a Um el-Fahem, la polizia eleva lo stato di allerta nelle zona del Wadi Ara (60 chilometri a nord di Tel Aviv). In Giordania, alcune centinaia di manifestanti chiedono l’immediata chiusura dell’ambasciata

Le dinamiche, secondo i sopravvissuti, sono diametralmente opposte: Tzahal parla di violenta aggressione, gli attivisti di agguato armato. Il tutto è avvenuto in acque internazionali

Il commando israeliano che ieri ha assaltato e preso il controllo della nave turca alla guida della Freedom Flotilla, il gruppo di natanti diretto verso la Striscia di Gaza con lo scopo di forzare il blocco navale dichiarato in maniera unilaterale da Israele. Oggi riuniti per decidere il da farsi sia l’Onu che la Lega araba

ra rompe le relazioni con Tel Aviv e richiama in patria il suo ambasciatore. Il tutto mentre almeno 5mile persone si ritrovano a Istanbul tra il consolato di Israele e la centralissima piazza Taksim in segno di protesta, con la polizia che fatica a contenere la rabbia popolare. A quel punto, Israele chiede ai propri cittadini presenti in Turchia di lasciare immediatamente il Paese e di rientrare in patria per non esporsi a ritorsioni. La protesta esplode anche nelle piazze palestinesi, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

A Gaza City, chi attendeva al porto l’arrivo delle navi con gli aiuti passa dalla speranza alla rabbia, gruppi di manifestanti sempre più numerosi cominciano a radunarsi in centro, soprattutto dopo l’appello di Hamas all’intifada contro tutte le ambasciate di Israele nel mondo e dopo l’invito del capo del governo de facto di Gaza, Ismail Hanyeh, a dar vi-

mi. Ognuna delle parti ha sempre sostenuto la propria tesi. Israele ha insistito nel dire che si tratta di un pacifismo di facciata, che nasconde un traffico di munizioni e materiale bellico in supporto alla “resistenza”di Hamas.

sonalità come il vescovo anglicano Desmond Tutu, il politologo Noam Chomsky e la giornalista inglese Lauren Booth, cognata di Tony Blair. Difficile che personaggi di così tanta visibilità internazionale si possano compromet-

Gli attivisti, a loro discolpa, hanno

Sono ormai tre anni che la zona è circondata, isolata e impossibilitata a recuperare rifornimenti di qualsiasi genere, soprattutto di tipo medico e alimentare, per il blocco unilaterale

mantenuto una linea di difesa impostata sull’obiettivo di intervenire in soccorso della popolazione della Striscia, che ormai da tre anni è circondata e impossibilitata a recuperare rifornimenti di qualsiasi genere, soprattutto di tipo medico e alimentare. Fermo restando che non si può dimenticare la complessa ramificazione di tunnel che i palestinesi di Gaza sono riusciti a scavare sotto la linea di confine con l’Egitto.Tunnel attraverso i quali, come è stato più volte dimostrato dai reportage della Bbc e di alJazeera, circola materiale di ogni tipo, quindi anche armi. Ne consegue che utilizzare la via del mare per importare materiale bellico a Gaza, a rigor di logica, costituisce un rischio troppo elevato. È effettivamente plausibile quindi che le imbarcazioni del “Free Gaza Movement”abbiano cercato di raggiungere le coste della Striscia cariche di aiuti per la popolazione civile. Il movimento filopalestinese peraltro è sostenuto da per-

tere con una qualsiasi organizzazione pacifista, sulla quale potrebbero addensarsi anche le più lievi ombre di collusione con gruppi terroristici filo-palestinesi. Questo non esclude comunque che qualcuno degli attivisti, a scopo precau-

israeliana ad Amman. Tafferugli anche in Israele, all’Università di Haifa, la più multietnica fra le maggiori città, fra studenti arabi ed ebrei.

Il tutto mentre a Teheran il presidente Ahmadinejad lancia nuovi anatemi di fuoco contro la violenza dei sionisti e un centinaio di persone si ritrova davanti agli uffici dell’Onu gridando «morte a Israele». Le notizie allarmano il Palazzo di Vetro. Così, mentre il segretario generale dell’Onu Ban KiMoon condanna l’azione militare di Israele, il Consiglio di sicurezza annuncia una riunione straordinaria per affrontare la situazione. E la Lega araba, per oggi, convoca un incontro per dare una “risposta corale” alla provocazione. Il Medioriente, dunque, deve aspettarsi altro sangue. Perché la storia della zona insegna che - incidenti o provocazioni non conta - sono episodi come questi a scatenare le rappresaglie più feroci.

zionale, abbia deciso di portare qualche arma, nel caso ci si trovasse di fronte un commando israeliano più propenso allo scontro invece che al semplice dirottamento. Purtroppo molto probabilmente l’escalation di domenica notte rispecchia questo scenario.

“Free Gaza Movement” e i suoi partner restano soggetti facili alle provocazioni, che sono stati capaci in tempi passati di creare incidenti drammatici con le forze di sicurezza israeliane. Gli esempi di Rachel Corrie ed Ellen Stark sono emblematici. La prima era un’esponente dell’Ism che il 16 marzo 2003 fu travolta e uccisa da un bulldozer israeliano. La Corrie stava cercando di fermare fisicamente la demolizione di alcuni edifici palestinesi a Gaza. Ellen Stark, fondatrice dello stesso Ism, è stata invece ferita da un proiettile di gomma sparato da un poliziotto israeliano, durante una manifestazione nel villaggio di An Nabi Saleh (Cirsgiordania). L’incidente è avvenuto solo due mesi e mezzo fa. Già allora la tensione era giunta a un livello difficile da controllare. L’incidente di domenica notte è il drammatico risultato di una sommatoria di provocazioni che si sono prolungate in questi ultimi due anni.


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ella Invenzione della gioventù, un ponderoso saggio edito qualche mese fa da Feltrinelli, il biografo dei Sex Pistols, Jon Savage, racconta la preistoria di quel target teenager consolidatosi nel secondo dopoguerra con la rapida codificazione dell’adolescente-consumatore, con il rock e poi col tripudio dei Beatles. Questa preistoria, indagata soprattutto attraverso vicende legate al mondo anglosassone, francese e tedesco, abbraccia qui un periodo che va dal 1875 al 1945. È il periodo delle culture e sottoculture moderniste, ma anche della loro prima implosione postmoderna: dopo la quale tutte le avanguardie e le mode pop diventano presto compresenti, e si lasciano catturare nel loop di una incessante riproposizione stagionale. Nel suo affresco, Savage oscilla tra l’accumulo empirico di dati spesso assai suggestivi, alcune sineddochi riuscite, e un sociologismo talvolta insidiato dalla genericità. Il racconto comincia dai casi eccezionali di Marie Bashkirtseff e di Jesse Pomeroy, emblemi rispettivamente del giovane geniale e del giovane mostro: due indici che riflettono bene i miti del secondo romanticismo decadente. Lungo gli anni ’70 dell’800, nella Francia dei ricchi emigrati russi, l’adolescente Marie è ossessionata dal desiderio di diventare «una stella».

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Morirà poco più che ventenne di tubercolosi: ma il suo diario, pubblicato nel 1887, acquisterà subito una vasta fama internazionale. La prosa della Bashkirtseff trabocca della sua rabbia contro la repressione della donna. Come già il giovane Rousseau, anche lei avverte in sé un’onnipotenza legata a immagini oniriche di volo: immagini che oggi non possiamo non associare alle teorie freudiane, ma anche al suo quasi coetaneo Arthur Rimbaud, il genio e “mostro” dalle «suole di vento». Mentre Marie mette nero su bianco le sue aspirazioni iperboliche, in Massachusetts un quindicenne killer seriale di bambini affronta i giudici flirtando con la stampa, abbagliato dall’improvvisa fama, e del tutto incapace di motivare i propri gesti «al di là del basilare linguaggio pulsionale». C’è chi tenta di spiegarli col nuovo determinismo fisico lombrosiano, e chi invece li imputa ai dime novels: ma in realtà Jess sembra piuttosto il terrificante simbolo di un’adolescenza abbandonata a se stessa nei «vivai urbani» degli Usa - un protagonista di Dickens o un Tom Sawyer che per sua sfortuna non ha avuto alle spalle né la civiltà inglese né le allegre campagne twainiane. Sia il caso Bashkirtseff sia quello Pomeroy offrono un’immagine morbosa della prima giovinezza, nella quale si sovrappongono autocommiserazione e follia, umoralità e individualismo. Siamo a un passo dall’epoca dei tribunali minorili e della scolarizzazione massiccia, che alla fine del XIX secolo inizia a creare quell’intercapedine temporale tra bambino e adulto già auspicata dall’Emilio. È l’epoca in cui lo psicologo americano G. Stanley Hall, riecheggiando Rousseau, scrive il suo monumentale e iperromantico studio Adolescence. Ed è anche l’epoca in cui, come osserva Savage, sia i «nazionalisti» sia i «decadenti», cioè sia quelli che vogliono irreggimentare i futuri adulti sia quelli che li eleggono a vessilliferi di una nebulosa utopia anarchica, tendono a metterli su un piedistallo e a collocarli sotto una luce “eterna”- quasi che dopo la giovinezza non li aspettasse la maturità ma il diluvio. Anche in questo senso Rimbaud, con la sua fulminea parabola che va dagli En-

Dai casi eccezionali di Marie Bashkirtseff e Jesse Pomeroy agli eccessi del marketing fants perdus della Comune alla bohéme artistica e al commercio africano d’armi, rimane un emblema ineguagliato. Del resto, di deluge aveva già parlato il primo romanticismo: basti pensare al destino reale di un Thomas Chatterton, o a quello letterario di un Werther.Tuttavia, come si diceva, anche chi vuole omologare i giovani ne fa un mito. In Inghilterra e in America, preparandoli rispettivamente all’universo della più stretta disciplina classista e a quello avventuroso degli affari, le istituzioni e le riviste illustrate propagandano un modello «cristiano-muscolare»: il modello di mediocrità intellettuale ed efficienza sportiva poi sublimato dagli scout di Baden-Powell. Nell’educazione mitteleuropea e prussiana sono più evidenti i tratti concentrazionari di questo collettivismo, responsabile delle tentazioni suicide e del sadomasochismo che a cavallo tra ’800 e ’900 vengono magistralmente descritti da Frank Wedekind nel Risveglio di

Quando i Beatles inv

primavera e da Robert Musil nei Turbamenti del giovane Törless. Ma intanto a questo rigido ideale si contrappone la giovinezza dandy di stampo wildiano, al tempo stesso individualista e socialisteggiante, comunque libertaria; mentre ai raggruppamenti istituzionali fanno da specchio deforme le gerarchie in cui s’organizzano le dilaganti baby gang.

Alla fine dell’800 la stampa inglese inizia a definire i teppistelli «hooligans»: e questa definizione viene accettata dalle bande con equivoco entusiasmo, portando così a galla il rapporto perverso che nella nascente società di massa s’instaura subito tra icone giovanili e media. Nel frattempo, nella Francia metropolitana si diffondono gli «apache», eredi dei PeauxRouges (come non pensare, di nuovo, al Battello ebbro?): e si tratta di un’altra invenzione mediatica che tipizza “per esagerazione”alcuni piccoli settori criminali. Ma è negli Stati Uniti che il fenomeno delle gang trova un terreno incomparabilmente fertile. La società che si associa per eccellenza alla giovinezza è la società più instabile, più violenta e anarchica. Però, al tempo stesso, è anche la società che impara per

Nel suo nuovo libro, il biografo dei Sex Pistols racconta la storia (e la preistoria) della nascita dell’adolescente-consumatore di Matteo Marchesini prima a controllare consumisticamente i suoi ragazzi. In America, la produzione onirica tipica dell’adolescenza diventa un poderoso complesso industriale. L’Expo di Chicago del 1893, coi suoi giganteschi scenari di cartapesta, ispira direttamente il Frank Baum del Mago di Oz (mentre in Inghilterra sta per nascere il morboso Peter Pan di James Barrie, quasi una versione ridotta di Dorian Gray). E Savage ci ricorda che è degli stessi anni la moda del ragtime, già in grado di fondere in un unico modello musica, ballo, slang e vestiario. Presto i sogni si “concretizzano” nel buio delle sale cinematografiche, mentre la psicologia più corriva si riduce a branca del marketing: e come insegna il no-

stro Presidente del Consiglio, davanti alla pubblicità siamo tutti degli undicenni.

Più complesse di quelle americane appaiono invece le vicende che toccano negli stessi anni il nord Europa. A inizio ’900, nel Regno Unito e in Germania nascono gruppi che a differenza degli scout possiedono anche una certa carica antagonistica. I Wandervogel tedeschi e gli intellettuali Neopagani inglesi, coi loro sogni di castità e di «ritorno alla natura», incarnano quel fanatismo idealista prebellico così ben descritto da Musil nell’Hans Sepp dell’Uomo senza qualità. Ma come nel caso degli scout, si tratta di movimenti destinati a lasciarsi risucchia-


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g diretto ai ragazzi. Senza dimenticare gli orrori della “giovinezza” nazista e fascista

Nella foto grande, la band punk Sex Pistols. Qui a destra: Marie Bashkirtseff (in alto) e Jesse Pomeroy (in basso). Nella pagina a fianco: una scena del film “Quadrophenia” (in alto); fan dei Beatles (in basso)

ventarono i teen-ager ti dal nazionalismo: il neopagano Rupert Brooke diventò un mito sacrificale della Grande Guerra.Tuttavia, anche durante il conflitto riaffiorò la dialettica tra disciplina e ribellismo: al modello muscolare, ad esempio, si oppose frontalmente Alec Waugh col suo scandaloso romanzo The Loom of Youth (1917). Ma la guerra significò soprattutto l’accelerarsi improvviso delle dinamiche generazionali: tra chi era andato al fronte già adulto e i famigerati ragazzi del ’99, ma anche tra questi ultimi e il ragazzino del Diavolo in corpo, abbandonato a se stesso in una lunga «vacanza di quattro anni», si aprirono gli

dra, un pugno di «bright young people» iniziò a far tendenza e a condizionare le masse piccolo-borghesi.

Erano gli anni delle femmine «maschiette» e dell’esplosione jazz, della lost generation emigrata a Parigi e dei party inglesi frequentati dai Waugh, della trasgressiva Berlino weimariana e dei miti androgini di Rodolfo Valentino e Clara Bow. Negli Stati Uniti la società di massa aveva ormai acquisito un profilo solidissimo, e dilagava tra i ragazzi quello che l’antropologa Margaret Mead chiamò il «complesso di Cenerentola», ossia la smania di tro-

Il nazismo fu anche l’infernale parodia del sogno giovanile di «avere sempre ragione»: i ragazzi erano continuamente spinti a denunciare i genitori e venivano forgiati come se dovessero diventare una razza nuova abissi incolmabili del trauma. Il conflitto veicolò poi l’egemonia americana, che si estese subito dai settori strettamente economici alle sottoculture giovanili. Negli anni ’20, la stampa occidentale cominciò a dare a certe élite lo stesso spazio spropositato che dava alle gang: così, a Lon-

vare una qualche fulminea scorciatoia verso la fama. Ma bastò la crisi del ’29 per cambiare faccia ai miti frivoli del decennio morente. In Italia, il fascismo aveva già messo letteralmente in marcia la «giovinezza»: e di lì a poco, la Gioventù hitleriana incarnò l’esempio della più estremi-

stica e spietata politicizzazione dell’adolescenza.

Il nazismo fu anche l’infernale parodia del sogno giovanile di «avere sempre ragione»: come mostra Brecht in Terrore e miseria del Terzo Reich, i ragazzi erano continuamente spinti a denunciare i genitori e venivano forgiati come se dovessero diventare una razza nuova, mentre si soffocava anche l’ultimo baluardo umanista dell’associazionismo cattolico. Intanto, negli Usa, il New Deal cercava di tamponare la piaga dei giovani vagabondi, ed Eleanor Roosevelt fondava il Parlamento dei ragazzi. Ma pur in questo orizzonte tutto cupo e “sociale”, si vide assai presto che le mode giovanili di massa, ispirate non più agli adulti ma ai coetanei, costituivano un fenomeno ormai irreversibile. Nemmeno Hitler, Goebbels e Himmler riuscrono a censurare del tutto lo swing o gli altri modelli proposti dai nuovi rotocalchi europei e dall’America (dove stavano fiorendo le sotto-debuttanti, e ai divi androgini si sostituivano gli “adolescenti perenni” come Judy Garland e Mickey Rooney). Savage ricorda poi che alcuni dei più significativi episodi di resistenza, all’interno di un regime così sanguinario e tetragono, dipesero proprio da gruppi di

adolescenti: i ragazzi swinging di Amburgo, i Pirati Edelweiss, il gruppo Hübener, la Rosa Bianca. Durante la guerra, nella Francia occupata, i dandy zazou indossarono addirittura una stella gialla con al centro la scritta «swing» in segno di solidarietà con gli ebrei. Ma gli anni ’40 furono anche l’epoca in cui l’irreggimentazione collettivistica e quella consumistica giunsero a livelli mai toccati. Mentre i nazisti mandavano allo sbaraglio schiere di ragazzi sempre più giovani e quasi bambini, negli Usa si separavano definitivamente cultura e sottocultura, qualità e target: durante la guerra, il mito per eccellenza non era più una band jazz ma il dolciastro Frank Sinatra. Per controllare gli adolescenti lasciati soli si aprivano le teen canteen sponsorizzate dalla Coca-Cola, mentre le aziende iniziavano a pagare giovanissimi consulenti pubblicitari e la rivista Seventeen conquistava rapidamente un pubblico internazionale. «Nel 1944 la parola “teenager”diventò il termine invalso per descrivere questa nuova concezione dei giovani come mercato di massa distinto», scrive Savage. La parabola da Werther a Holden era compiuta. Finiva la preistoria, e si apriva la malinconica storia del Giovane Consumatore Occidentale.


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Ecodrammi. La politica interna Usa si divide sulle responsabilità della fuoriuscita, e il presidente tenta le ultime carte disponibili

Un mare di petrolio Fallisce anche il quarto tentativo di fermare il greggio. E in Louisiana arrivano gli uragani di Osvaldo Baldacci ei settimane di disastro sono alle spalle, ma quel che preoccupa è ancora davanti. Fallita l’operazione Top Kill, ci si avvia al quarto tentativo di porre riparo alla fuoriuscita di greggio ma non si sa quando si riuscirà a tappare la falla che sta inondando di petrolio il Golfo del Messico. Con in corso il più grande disastro ecologico della storia degli Stati Uniti, ora la stagione degli uragani è alle porte, formalmente a partire da oggi. Preoccupa la forza di venti e mareggiate che spingeranno la marea nera contro la costa statunitense, ma preoccupa anche che le condizioni del tempo renderanno più difficili i lavori, sempre che non creino danni. Intanto dopo che gli scienziati si sono detti certi che dalle tubature spezzate siano già usciti dai 68 ai 150 milioni di litri di greggio, per la Casa Bianca quello della Deepwater Horizon è ormai il più grave disastro ambientale della storia americana. E anche Obama ne risente pesantemente, anche in termini di stima e di consenso: gli americani pensano che non si sia mosso bene. Di fatto “il pozzo che non vuole morire”sta tenen-

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do sotto scacco l’intera amministrazione. E una delle cose che gli americani gli rimproverano è proprio un eccesso di delega e una mancanza di chiarezza su chi sia il responsabile della gestione della crisi scoppiata con l’esplosione del 22 aprile: nei primi giorni era toccato al ministro della Sicurezza Interna Janet Napolitano, poi si sono alternati i ministri dell’Energia Steven Chu e dell’Interno Ken Salazar, mentre domenica in tv è andata la consigliera Carol Browner e il più citato nei co-

quanto ha fatto finora è apparso tutt’altro che convincente, compreso dare la colpa alla BP. Per Gallup il 53 per cento degli americani incolpa il presidente, giudicando la sua gestione “insoddisfacente”. L’editorialista liberal Frank Rich sul New York Times scrive che «quanto sta avvenendo è peggio di Katrina perché il presidente davanti ad una crisi ha dimostrato di voler rimettere le decisioni ad altri, proprio come aveva fatto sul testo della riforma sanitaria». Dalle colonne del Wall Street

36 gruppi ecologisti conservatori e liberal chiedono l’immediato licenziamento di Salazar perché l’esplosione della piattaforma è avvenuta a causa di carenze nei controlli che dipendono da lui municati è l’ammiraglio Thad Allen, che guida le operazioni in Louisiana. 36 gruppi ecologisti conservatori e liberal chiedono l’immediato licenziamento di Salazar perché l’esplosione della piattaforma è avvenuta a causa di carenze nei controlli che dipendevano da lui. Per gli americani però - fatto salvo che le colpe sono della BP - le responsabilità sono del presidente, e

Journal la conservatrice Peggy Noonan converge: «II suo peccato più grave lo ha commesso all’inizio prendendo le distanze dal disastro perché voleva che la gente incolpasse British Petroleum e non lui». Certo, le responsabilità della BP sono piuttosto evidenti, come loro stessi hanno ammesso fin dall’inizio, e stanno emergendo elementi che non potranno che aggravare le

critiche per la gestione di questa crisi. «Da alcuni documenti interni alla BP – rivela Repubblica - risultano inequivocabili gravi problemi e molte preoccupazioni legate alla sicurezza della piattaforma di trivellazione Deepwater Horizon molto prima di quanto la società petrolifera stessa abbia riferito al Congresso la settimana scorsa», quando testimoni hanno riferito di decisioni sbagliate e scorciatoie prese nei giorni e nelle ore immediatamente precedenti all’esplosione della piattaforma. I vari motivi di preoccupazione risalirebbero fino a 11 mesi prima dell’esplosione di aprile e

sarebbero tornati a galla in ripetute occasioni, con rapporti di esperti e ipotesi di soluzione inutili.

«I problemi interessavano il rivestimento della tubazione del pozzo e la valvola ausiliaria anti-esplosione, elementi rivelatisi ad alta criticità nella spirale di eventi che ha portato al disastro della piattaforma». I documenti, in ogni caso, dimostrano che a marzo, dopo alcuni problemi riscontrati sulla piattaforma, i vertici di BP avevano informato gli enti federali preposti ai controlli che stavano incontrando difficoltà e andavano incontro a

È troppo presto per dire se il disastro danneggerà la presidenza come fece Katrina con Bush. Ma non finirà bene

Questa “macchia” sporca anche Obama l getto di petrolio che esce dai tubi della British Petroleum è confrontabile con l’uragano Katrina, un disastro che ferirà il resto della presidente Obama? Non ancora e non proprio. Nel 2005, quando Katrina ha inondato New Orleans, la risposta tragicamente inadeguata del governo federale è divenuta un simbolo della disattenzione dell’allora presidente Gorge W. Bush rispetto al duro lavoro di gestire gli affari interni della nazione. Quando si parla di disattenzione, Obama non è Bush. Ma il dramma dei quaranta giorni di incontrollata fuoriuscita di petrolio da un pozzo della Bp, oggi la più grande tragedia ecologica nella storia degli Stati Uniti, è divenuto un esame pubblico nella sua competenza della gestione delle crisi improvvise. Esattamente come per quanto avvenne con Katrina, la Casa Bianca ha risposto a un problema ina-

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di Doyle McManus spettato con esitazioni e passi falsi. Gli assistenti di Obama sono stati estremamente lenti nell’assumersi le responsabilità federali; hanno inizialmente descritto il problema come una rogna della British Petroleum, non loro. E dopo

mossa del genere “idiota”. E, come per Katrina, pulire tutto questo disastro e pagare per i danni subiti richiederà degli anni. Ma le similitudini, fino ad ora, rimangono qui. Ci sono anche importanti differenze, che danno a Obama la

È importante anche leggere i segnali politici: gli elettori daranno al governo più potere (per impedire nuove crisi) o lo ritengono talmente inetto da non volerne più l’intervento? questo primo errore, il ministro degli Interni Ken Salazar ha improvvisamente suggerito che il governo federale avrebbe dovuto prendere d’imperio il controllo del pozzo. Soltanto per essere pubblicamente contraddetto dal suo manager della crisi, l’Ammiraglio della Guardia Costiera Thad Allen, che ha definito una

possibilità di uscirne non pulito ma quasi. Ma soltanto se, da qui in avanti, sarà fortunato e capace. A differenza dell’uragano, che ha distrutto tutto in 24 ore, questa crisi è più lenta nello svilupparsi. La scorsa settimana, il presidente si è preso le colpe dell’accaduto dichiarando: «Sono responsabile». Ha messo da

parte le obiezioni di esperti scettici e ha ordinato ad Allen di costruire una delle barriere artificiali richieste dal governatore dello Stato, il repubblicano Bobby Jindal. Non sarà ingegneria di alto livello, ma è sicuramente buona politica. Obama ha detto che non avrebbe cercato di fare un paragone fra l’uragano e la marea nera.

Ma poi ha cambiato idea, e l’ha fatto: «Quando il problema sarà risolto… spero che la popolazione possa guardare indietro e confermare che questa amministrazione è stata in grado di dominare quella che senza dubbio è una crisi senza precedenti». Dominare? Non proprio. Ma se la Bp dovesse riuscire nel suo tentativo di chiudere la falla, e se gli sforzi dell’amministrazione per pulire accelerano, può ancora uscirne relativamente incolume. Allen, 42enne veterano


mondo late posizionato sopra la supervalvola che non ha funzionato e collegato con un tubo di oltre 1.500 metri alla nave di appoggio in superficie con cui Bp si augura di catturare il grosso del greggio e del gas che escono dal pozzo danneggiato. Ma stavolta le speranze sono scarse, e anzi si pensa già a piani successivi. Infatti sono tutte misure tampone in attesa di trivellare altri pozzi – operazione di mesi – per alleggerire la pressione.

Finora sono stati tre i sistemi già falliti per tentare di bloccare il riversamento di greggio in mare. Il 5 maggio si è tentato con una cupola, una struttura gigantesca da 12 metri e 98 tonnellate ed un’operazione senza precedenti a 1.500 metri di profondità. Non è entrata mai in funzione dato che si forma una crosta di ghiaccio sul tetto del dispositivo. Resta però il modello per futuri tentativi nella speranza di risolvere il problema del ghiaccio. Il 15 maggio, la Bp tenta una nuova tecnica, con l’inserimento di una sorta di siringa telecomandata nel braccio flessibile del pozzo per pompare in superficie il petrolio, ma il sistema ottiene solo il recupero di piccole quantità di petrouna “perdita di controllo” del pozzo. E gli enti statali non ne escono meglio. Secondo un’inchiesta del Washington Post, l’agenzia federale responsabile di regolare le trivellazioni offshore ha ignorato in diverse occasioni gli avvertimenti da parte di scienziati del governo sui rischi ambientali, mentre cercava di far approvare rapidamente le trivellazioni nel Golfo dl Messico e in Alaska. E questo perché i funzionari del Minerals Management Service - che spesso avrebbero alterato documenti e aggirato requisiti legali previsti - ricevono incentivi se rispettano le scadenze per concedere li-

L’agenzia federale responsabile di regolare le trivellazioni off-shore ha ignorato in diverse occasioni gli avvertimenti da parte di scienziati del governo sui rischi ambientali nella zona cenze. Quando gli scienziati di altre agenzie federali hanno tentato di sollevare questo problema, le loro obiezioni sono finite nel nulla, sia durante l’amministrazione Bush che durante quella di Obama. Ora si cerca ci correre a ripari con il Piano D, il “tappo”, si chiama Lower Marine Riser Package (LMRP), nella sostanza un cappuccio o una mini-valvola di diverse tonnel-

della Guardia costiera, sta ricevendo l’autorità necessaria per fare in modo che queste due cose possano avvenire. La cosa più importante è però capire quale lezione politica ricaveranno dalla crisi i votanti e i politici americani. La marea nera dimostra la necessità di dare al governo federale più potere, in modo da poter regolare le industrie energetiche così come la crisi finanziaria ha mostrato la necessità di regolare Wall Street? Oppure, come Katrina, dimostrerà che la burocrazia centrale è troppo inefficiente per fornire aiuti di emergenza? Da questo punto di vista, questa crisi è molto diversa dall’uragano: quello ha dimostrato che il governo non sa come prepararsi a un disastro naturale. Ma la fuoriuscita di petrolio entra all’interno di una diversa narrativa politica: l’insistenza democratica della necessità di maggiore regolazione federale, in questo caso per proteggere

lio. Il 26 maggio prende il via l’operazione Top Kill: da una nave in superficie vengono immessi con fortissima pressione i cosiddetti fanghi (un mix di acqua, di materie solide e di barite, un minerale) attraverso due canali laterali per arginare la fuoriuscita di greggio e di gas naturale attraverso la super-valvola, ma anche questo terzo sistema non ha funzionato.

1 giugno 2010 • pagina 15

Dovrebbe iniziare oggi la nuova operazione di British Petroleum

E dopo “top kill” tocca di nuovo ai robot Dovrebbe iniziare oggi la nuova operazione della British Petroleum per arginare quello che l’amministrazione Obama ha definito «il più grande disastro ambientale» nella storia degli Usa. Fallito il metodo “top kill”, il piano della compagnia britannica è ora quello di tranciare mediante robot sottomarini la tubazione danneggiata da cui fuoriesce il petrolio e raccogliere il liquido in uscita in un’apposita struttura di contenimento per poi convogliarlo verso una nave cisterna in superficie.

L ’ a m m i n i s t r a t o r e delegato della British Petroleum, Bob Dudley, ha dichiarato che il nuovo metodo, basato su un principio simile a quello delle precedenti cupole di contenimento, presenta «maggiori probabilità di successo rispetto al “top kill”». A differenza dei tentativi precedenti, che si limitavano a intercettare il flusso in uscita dalla falla, la nuova operazione dovrebbe consentire di ottenere una superficie di uscita del greggio perfettamente circolare, su cui dovrebbe essere più semplice posizionare la nuova struttura di contenimento. Per prevenire la formazione di idrati (cristalli simili al ghiaccio), come quelli che hanno determinato l’insuccesso del-

le altre due cupole, la nuova struttura verrà equipaggiata con un circuito per la circolazione di acqua calda intorno alle tubazioni. L’amministrazione Obama ha sottolineato come, in una prima fase dell’operazione, il flusso di greggio disperso in mare potrebbe aumentare fino al 20% a causa dell’incremento della superficie di uscita.

«Per il momento - ha dichiarato il direttore generale della compagnia petrolifera Bob Dudley ai microfoni della Cnn - stiamo procedendo a un’operazione di contenimento». «Siccome stiamo lavorando a oltre mille metri di profondità metri con dei robot, abbiamo bisogno di tempo e di procedere con molta cautela - ha spiegato Dudley - Entro la fine della settimana, dovremmo farcela». In caso di successo, tuttavia, il metodo dovrebbe permettere di catturare una quota molto elevata del petrolio che la pressione del pozzo continua a pompare nel Golfo del Messico. Proseguono intanto i lavori per lo scavo di un pozzo di servizio che intercetterà quello danneggiato facendone decadere la pressione interna. L’opera, che rappresenta la soluzione più “estrema”, non sarà comunque terminata prima di agosto.

to ad approvare il decreto sull’energia proposto dai suoi alleati democratici: «Questa tragedia, economica e ambientale, dimostra l’urgente bisogno per fonti di energia pulite e rinnovabili».

l’ambiente. Davanti a questi eventi, gli americani potrebbero preferire la seconda opzione. Per mesi, i sondaggi hanno mostrato che gli americano ritengano il governo federale troppo grande. Ma un sondaggio di oggi dice che il popolo vuole che la protezione

dell’ambiente (ottenuta tramite regolamenti nazionali) sia una priorità nazionale «anche a rischio di limitare le forniture di energia». Obama sta già testando questa crisi come elemento di opportunità. Secondo le sue stesse parole, l’incidente potrebbe indurre il Sena-

Probabilmente, questo non funzionerà. Il decreto è bloccato non soltanto per l’opposizione dei repubblicani, che non vogliono regolamentare il cap&trade, ma anche per i compromessi (avversati dai democratici) su questioni come le trivellazioni off-shore. Se Obama è veramente fortunato, i repubblicani contesteranno la sua moratoria sui nuovi pozzi in acqua, cantando di nuovo “Drill, Baby, Drill” e spingendo l’opinione pubblica dalla parte dei democratici. Ma questo non avverrà: la crisi in Louisiana non avrà una fine felice, perché oramai è troppo tardi. Obama può, però, evitare di trasformarla in un simbolo del fallimento presidenziale.


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Analisi. Il grande dissidente seziona la scia di suicidi nelle fabbriche cinesi i recente , la notizia più letta nei media cinesi e internazionali è quella che riguarda la serie continua di suicidi che accomuna più di 12 operai della Foxconn, industria guidata dal taiwanese Terry Gou. Questa serie è stata ribattezzata “l’incidente Foxconn”. Mentre questi lavoratori si gettano dall’alto verso la morte, i media – specialmente quelli di Hong Kong, Taiwan e internazionali – continuano a scavare per avere altre notizie. Ma già ora, nonostante la limitata conoscenza della situazione, sappiamo che l’aumento del brutale sfruttamento dei lavoratori cinesi da parte dei capitalisti in Cina ha già sorpassato le “fabbriche dello sfruttamento”criticate da Karl Marx. La teoria marxista non era in realtà così buona, e ha portato enormi disastri alla razza umana nel corso del secolo scorso. Eppure, almeno, Marx era una persona con alcune doti. Se oggi avesse la possibilità di commentare il modo di fare del Partito comunista in Cina, lo rigetterebbe del tutto. Ci sono prove orribili che confermano questa ipotesi: Marx sarebbe costretto ad ammettere i propri errori e gettare via la sua teoria della “dittatura del proletariato”. Infatti, proprio sotto sistemi che usano questa teoria, i capitalisti usano – senza alcuna restrizione - i lavoratori come animali. E questo conferma la teoria marxista secondo cui “i lavoratori sono soltanto uno dei fattori essenziali della produzione”. Qualcuno potrebbe obiettare: non sappiamo se Terry Gou sia un marxista, e non sappiamo se “l’incidente Foxconn” sia connesso alla “dittatura del proletariato”. Nei fatti, il signor Gou non è un marxista, neanche autoproclamato. Però, “l’incidente Foxconn” è collegato alla “dittatura del proletariato”. Non sono forse i capitalisti del mondo intero ad apprezzare così tanto il Partito comunista cinese da spendere i propri soldi per convincere i governi occidentali ad aiutare il governo cinese? Perché la cosiddetta “stampa libera” dell’Occidente, controllata dalle grandi industrie, ha cantato senza ritegno le lodi del Partito, arrivando fino a mentire su una situazione di pace e prosperità all’interno della Cina?

D

Questa volta, Marx ha ragione: mossi da superprofitti, questi capitalisti non si pongono limiti nel fare ogni cosa crudele, compresi omicidi e incendi dolosi. Chi offre loro questi superprofitti? L’investimento rappresentato da una forza lavoro cinese, di buon livello e a poco prezzo. Se la

Marx in Cina, un paradosso etico Per la fame di denaro, chi investe in Asia dimentica etica e morale dell’Occidente di Wei Jingsheng

manodopera cinese produce buoni prodotti, come possono questi essere a poco prezzo? Sono molti gli operai del terzo mondo che producono beni a basso prezzo, ma non sono della stessa qualità. Molti industriali del mondo occidentale hanno cercato in giro per il mondo, ma hanno trovato soltanto pochissimi altri casi simili a quello cinese. Ma allora che tipo di condizione speciale permette ai lavoratori cinesi di produrre buoni prodotti nonostante paghe misere e pessime condizioni di lavoro? Gli studiosi riuniti dai capitalisti hanno prodotto tutta una serie di costruite teorie che spiegano questa situazione in favore, appunto, dei ca-

L’unica soluzione per fermare lo sfruttamento viene dall’introduzione di liberi sindacati. Ma questo ucciderebbe la competitività locale pitalisti. Ma questo è il loro modo di comportarsi, quindi possiamo permetterci alcune critiche. In ogni caso, possiamo notare che questi analisti hanno tutti sottostimato un fattore estremamente importante: lo sviluppo sociale della dittatura.

Questa dittatura ha aiutato i capitalisti a distruggere il più importante avversario nella competizione per il lavoro, ovvero i sindacati. Senza sindacati che rappre-

sentano i lavoratori, gli industriali non hanno alcuna necessità di pagare salari ragionevoli ai loro operai. Il “valore del surplus” teorizzato da Marx si è realizzato in Cina, interamente e in maniera evidente. Le cosiddette “paghe ragionevoli”concesse dagli industriali bastano appena a mantenere le minime condizioni di vita. La cosiddetta “uguaglianza fra uomini e donne” ha portato a ridurre i salari a metà. Molte famiglie non possono sopravvivere con

lo stipendio di un solo coniuge. Ma i lavoratori sono esseri umani, non animali. Oltre ai salari, hanno bisogno di uno sviluppo che permetta loro di vivere come uomini non soltanto a casa, ma anche sul posto di lavoro. In Oriente, lo stile della tradizione feudale giapponese – totalmente irragionevole – non basta a convincere i giovani. A questo pensa la dittatura. Se uno organizza un sindacato può finire in galera, ma se non sei sottomesso e servile puoi essere picchiato, con mazze e a mani nude. Alcune testimonianze parlano persino di manganelli elettrici e manette. Secondo le statistiche ufficiali del governo cinese, le pistole comprate dai privati ricchi, che finiscono in mano ai loro piccoli eserciti privati, sono obsolete rispetto a quelle della polizia. E quindi si capisce molto bene chi governi questa dittatura.

Parlando insieme ai capitalisti di varie nazioni che hanno investito in Cina, ho chiesto perché non permettano l’organizzazione di sindacati e perché le condizioni di lavoro siano così terribili. Le loro risposte sono due: la prima è che i sindacati in Cina non esistono, e quindi non possono iniziarli loro. L’altra è che, tramite i sindacati, il Partito avrebbe l’opportunità di controllare la produzione: quindi sarebbe meglio investire in posti lontani dalla leadership comunista. Il compito di questi capitalisti è quello di fare denaro. Non hanno la responsabilità di mantenere una morale. In Occidente, dove esistono standard morali e legali normali – così come sindacati che proteggono gli interessi e i diritti dei lavoratori – devono invece preoccuparsi di essere “buoni” capitalisti. Eppure, sotto la dittatura comunista, la loro fame di denaro li trasforma in esseri simili ai conigli selvatici dell’Australia dove, senza predatori naturali, perdono ogni inibizione. I comunisti sono responsabili di aver creato un ambiente economico dove non esistono nemici naturali. I capitalisti vengono trasformati in diavoli dittatori. Nelle loro nazioni, però, non permetterebbero mai abusi ai lavoratori di questo tipo. Come ha detto Marx, peggiorano nella misura della capacità di profitto che viene loro offerto. Quando parliamo di diritti umani, democrazia, stato di diritto e morale, alcune persone pensano che stiamo pregando. Invece, guardiamo la gabbia della Foxconn. Guardiamo ai nostri compagni che si sono uccisi. Possiamo ancora dire che questi problemi siano irrilevanti rispetto ai diritti umani e alla democrazia?


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1 giugno 2010 • pagina 17

Dopo le critiche per una sua esternazione sull’Afghanistan

Il centrodestra trascinato dall’ex ministro Karel Schwarzenberg

Germania: di dimette il presidente Koehler

Rep. Ceca: è un principe il vero vincitore

BERLINO. Non ha sopportato le

PRAGA. Non sempre è neces-

critiche espresse nei suoi confronti per un’ambigua dichiarazione sull’impegno del contingente tedesco in Afghanistan. Per questo Horst Koehler ha rassegnato ieri le dimissioni da presidente della Repubblica. Nel dare lettura della breve dichiarazione, quasi con le lacrime agli occhi, al fianco della moglie Eva Luise, il capo dello Stato ha affermato con voce rotta dall’emozione che la sua drammatica decisione è stata motivata dal fatto che le critiche espresse nei suoi confronti hanno rappresentato una «mancanza di rispetto per la funzione» da lui ricoperta. In un’intervista alla radio pubblica federale Deutschlandfunk, concessa dopo una visita ai militari del contingente tedesco in Afghanistan, Koehler aveva affermato sabato scorso che «un grande Paese come il nostro, con il suo orientamento verso l’esportazione, deve sapere che in caso di necessità è necessario anche un intervento militare per difendere i nostri interessi». Entrando nei particolari, il presidente aveva aggiunto che questi interessi riguardano «le libere vie di comunicazione commerciale, ma anche l’impedimento di instabilità di tipo regionale, che sicuramente si ripercuoterebbero negativamente sulle nostre possibilità in termini di commer-

sario giungere primi per essere vincitori. La conferma arriva dal principe Karel Schwarzenberg, il 72enne ex ministro degli Esteri della Repubblica, il quale - palla guida, da meno di un anno, del neonato partito conservatore del Top09 - è riuscito a portare il nuovo schieramento a uno sbalorditivo 17% dei consensi. In termini percentuali, si tratta del terzo posto.

Gordon e Dave alla guerra dei Lord Sono gli ultimi prima della riforma della Camera di Lorenzo Biondi

LONDRA. Ci sono un reverendo unionista, un poliziotto dal passato controverso e il figlio di un ferroviere, tra i nuovi nobiluomini di Sua Maestà Elisabetta II. Gli ultimi Lord, prima che il governo liberal-conservatore abolisca o trasformi la vecchia Camera dei Pari in un’assemblea elettiva. È il canto del cigno del premier uscente Gordon Brown, che riempie la Camera alta di figure che daranno del filo da torcere a David Cameron. Come se di grattacapi il nuovo inquilino di Downing street non ne avesse già abbastanza: tra ministri dimissionari e nuovi scandali fiscali, la coalizione ha conosciuto il primo finesettimana nero della sua breve storia. È antica tradizione che il premier sconfitto possa proporre alla Regina una lista di nuovi Lord. E Gordon Brown ha voluto lasciare un’impronta forte sul nuovo parlamento, prima di ritirarsi a vita privata.Ventinove laburisti, sedici conservatori e dieci liberali riceveranno un titolo nobiliare su misura; ma più che i numeri parlano i nomi. Si inizia dal laburista (Lord) John Prescott. Un laburista vecchio stampo - figlio di ferroviere, fieramente working class - che nel partito di Tony Blair aveva faticato a tenere a freno la retorica di classe. «Mi rifiuto di chiamarlo “Nuovo” Labour», aveva detto una volta. E poi ancora: «Io a fare il Lord? Sono contrario alle livree e ai titoli. Ma a mia moglie Pauline farebbe piacere». Manco a dirlo, la signora ha avuto la meglio. Meno contenti saranno i familiari di Jean Charles de Menezes, il cittadino brasiliano ucciso dalla polizia di Londra dopo gli attentati del luglio 2005 perché scambiato per un terrorista islamico. Ian Blair - l’allora capo della polizia - oggi è nella lista di Brown. «Siamo disgustati», ha commentato la cugina della vittima. Ma la mossa è tutta politica: l’ex ufficiale è critico della proposta conservatrice di rendere elettivi i commissari di polizia, all’americana. Darà un aiuto importante alla nuova opposizione laburista. Ma se c’è qualcuno che rischia di far perdere il sonno a David Cameron, è un pastore presbiteriano ottantatreenne tutt’altro che filo-laburista: Ian Paisley senior, fondatore del

Partito unionista democratico (Dup) in Irlanda el Nord. Anticattolico in politica e non solo (nel 1988 gridò a Giovanni Paolo II in visita a Bruxelles: «Tu sei l’Anticristo!»), nel 2007 accettò - con una «conversione» shock - di guidare il primo governo di power sharing con i nazionalisti. I suoi rapporti con i conservatori sono ambigui: alle ultime elezioni Cameron ha appoggiato il piccolo Partito Unionista dell’Ulster, rivale diretto del Dup di Paisley.

Il Dup ha risposto con una campagna elettorale tutta giocata contro i tagli promessi dai Tories ai fondi per l’Irlanda del Nord. Ora che i tagli sono in arrivo, Paisley sarà una presenza scomoda a Westminster. David Cameron presenterà la sua lista di nuovi Lord a breve. Un centinaio, in barba alle promesse sui tagli dei costi della politica: servono per bilanciare le nomine di Brown e per far contenti gli alleati liberal-democratici. Ma anche questa lista sta dando qualche problema al premier. Sir Anthony Bamford - il principale finanziatore della campagna elettorale di Cameron è stato stoppato dalla commissione incaricata di controllare il curriculum dei nuovi nobili. Problemi col fisco, a quanto pare. In questi giorni non è l’unico. Dopo lo scandalo che ha costretto alle dimissioni il sottosegretario lib-dem al Tesoro David Laws, è toccata al suo sostituto Danny Alexander. Il neo-ministro non avrebbe infatti pagato le tasse su una casa acquistata coi suoi fondi da parlamentare, approfittando di un cavillo legale. In tempi di austerità finanziaria, queste «licenze» sono viste malissimo dall’opinione pubblica. Il dimissionario David Laws, tra le sue misure per ridurre i costi del parlamento, aveva chiesto a tutti i parlamentari di andare al lavoro a piedi. Con un’eccezione: la moglie di Cameron, Samantha, mantiene il diritto ad un autista per portare i figli a scuola. Ma non un autista qualsiasi: Samantha ha licenziato il vecchio chauffer della famiglia Brown per assumere una donna. «Mi fido di più», ha detto. Anche la first Lady, in fondo, ha diritto alla sua piccola lista di nomine.

Tra le proposte, un reverendo unionista contro la pace, un poliziotto dal passato controverso e il figlio di un ferroviere

cio, posti di lavoro e salari. Bisogna discutere di tutto questo, non siamo sulla strada sbagliata».

Da tutti i partiti, compreso quello cristiano-democratico di Angela Merkel, erano piovute critiche alle affermazioni del presidente, mentre in un durissimo giudizio il costituzionalista Ulrich Preuss, le aveva definite «estremamente irritanti» in quanto da esse «traspare un accento imperiale, che ricorda gli imperialisti inglesi del XIX secolo, che difendevano con gli stessi argomenti la loro dominazione dei mari». La cancelliera tedesca Angela Merlel si è detta «sorpresa» delle dimissioni, sottolineando il suo «dispiacere» per la decisione.

Davanti a lui, di soli pochi punti percentuali, i Socialdemocratici della Cssd, primi ma senza nessuna possibilità di governare (tant`è che il loro leader Jiri Paroubek si è dimesso poche ore dopo il voto), e i liberali Democratici civici

dell’Ods, che hanno comunque perso circa un milione di voti rispetto al 2006. Il centrodestra ceco, che si appresta a varare il nuovo governo nazionale, deve proprio a Schwarzenberg - più precisamente a Karl Johannes Nepomuk Josef Norbert Friedrich Antonius Wratislaw Mena Principe di Schwarzenberg, discendente di una delle famiglie più blasonate e ricche d`Europa - un risultato che ha dell`incredibile, se solo si pensa alle premesse della vigilia, quando si dava per certa una vittoria larga della sinistra. Ciò che sorprende è soprattutto il modo con il quale il Top 09, guidato da Schwarzeberg, sia riuscito in questo intento, con una campagna elettorale tutta impostata sulla necessità di rimettere a posto i conti pubblici e ridurre il bilancio dello stato sociale. Una ricetta “lacrime e sangue”, la sua, che alla fine ha fatto presa anche fra la gente comune, quella dei cittadini che fanno fatica ad arrivare a fine mese. Una campagna elettorale fuori dagli schemi, tutta impostata sulla figura di questo anziano aristocratico, sul suo umorismo e sulla sua immagine di persona perbene, capace di dire sempre “pane al pane e vino al vino”.


cultura

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Visioni. Alla Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma una mostra dedicata alle opere del padre dello Spazialismo che rivoluzionò la pittura con le sue incisioni

Nel nome del “taglio” Dalla bottega del padre al trionfo alla Biennale: la vita di Lucio Fontana è un lungo corpo a corpo con la storia dell’arte di Angelo Capasso ella mia professione di pittore, facendo un quadro con un taglio, non voglio fare un quadro: apro uno spazio, una dimensione nuova nell’orientamento delle arti contemporanee». (Lucio Fontana, Manifesto del Movimento Spaziale per la Televisione, 1952). Quello del taglio è certamente un gesto radicale. Lo è concettualmente, inteso come distacco, rifiuto, allontanamento. Lo è in termini pratici, come gesto fisico di cesura, considerato che il nostro definirci come individui nasce proprio dal taglio del cordone ombelicale da chi ci dà la vita.

«N

na, cessa di essere oggetto di rappresentazione secondo le proiezioni euclidee della prospettiva. La superficie di ogni quadro, interrompendosi in rilievi e rientranze, entra in un rapporto dialettico con il mondo reale, con lo spazio e la luce (il tempo) reali. Quel gesto così radicale quindi ha un carattere profondamente esistenziale. Segna un passaggio oltre, indicato dal pittore non attraverso il pennello, ma attraverso un tocco inciso con la lama del rasoio, un tocco di scherma con

Fontana nasce in Argentina, a Rosario di Santa Fé, il 19 febbraio 1899. Il padre Luigi, italiano, in Argentina da una decina d’anni, è scultore e la madre, Lucia Bottino, di origine italiana, è attrice di teatro. Sarà il padre a influenzarne maggiormente gli interessi culturali. A sei anni, con lui, si trasferisce a Milano e già dal 1910 inizia il suo apprendistato artistico nella bottega paterna. S’iscrive a

sola e, nel 1937, alla Manifattura di Sèvres, dove realizza alcune sculture di piccolo formato che espone, e vende, a Parigi. Sono gli anni Quaranta a segnare il momento centrale della sua ricerca artistica. All’inizio del 1940 parte per Buenos Aires, dove si stabilisce, lavora intensamente e vince vari concorsi di scultura. Professore di modellato alla Scuola di Belle Arti, nel 1946 organizza con altri una scuola d’arte privata: l’Accademia di Altamira che diventa un importante centro di promozione culturale. È proprio qui che, in contatto con giovani artisti e intellettuali inizia la sua riflessione sull’arte che lo porterà, rientrato a Milano nell’aprile del 1947, a fondare il “Movimento spaziale” e a pubblicare il “Primo Manifesto dello Spazialismo”. Il primo testo teorico alla base della nascita dello Spazialismo è stato ideato da Fontana nel 1946 a Buenos Aires, in Argentina: il cosiddetto ”Manifiesto Blanco”, dove si iniziano a delineare le urgenze di un superamento dell’arte bidimensionale, in una dimensione che apre verso l’infinito.

I celebri graffi sono i cardini di un lessico del fare arte che si articola attorno al classico principio delimitatore dello schermo

Il “concetto spaziale”di Lucio Fontana sintetizza il principio radicale dell’essere nel mondo che ha implicazioni che vanno molto oltre lo spazio dell’arte, ed è un fatto concettuale e gestuale. Nella storia personale di Fontana, i “tagli” sono gli elementi cardine di un lessico del fare arte che si articolava attorno a una riflessione sostanziale posta su un principio delimitatore di ogni atto artistico: quello dello schermo. Lo schermo è il mezzo attraverso cui ogni informazione, verbale o visiva, prende forma e giunge nel nostro emisfero cognitivo. In arte, quello schermo è ben riconoscibile nel quadro, nella tela. I confini del quadro sono i confini dello scibile per un pittore. La tela è, al pari di uno schermo di un computer, uno strumento necessario per dar forma alle idee e renderle condivisibili. Ogni linguaggio, qualsiasi esso sia, si articola soltanto attraverso un mezzo. Lo schermo quindi è un deuteragonista inevitabile. Sin dal 1949, Fontana ha ingaggiato con il quadro un corpo a corpo, infrangendola con buchi e tagli, dando vita a una serie di operazioni artistiche attraverso le quali egli superò la distinzione tradizionale tra pittura e scultura, giungendo a un operare vicino a quello dell’architetto: come costruttore di nuovi spazi. Lo spazio quindi, nelle opere di Lucio Fonta-

sostanziale della formazione culturale di Lucio Fontana nella sua qualità di artista. Il Sud e l’arte sono due elementi iscritti nel codice genetico di Fontana.

una scuola per Maestri Edili che lascia però per arruolarsi come volontario nell’esercito e prendere parte alla tragedia cui si ferisce lo schermo, ma della prima guerra mondiale. con una mossa unica, concen- Ferito, è congedato con medatrata, precisa. Quella ferita sul- glia d’argento al valore militala tela apre una profondità infi- re; riprende quindi gli studi, si nita ricca di ombre. Il taglio sul- diploma. Nel 1921 torna in Arla tela è un luogo che assorbe la gentina, a Rosario di Santa Fé e luce, e ne pone in rilievo la cen- inizia la sua attività di scultore tralità. Sarà forse proprio la lu- nella bottega di scultura del pace, che al Sud ha la sua massi- dre. Apre poi un proprio studio ma espressione, la componente a Rosario. Torna a Milano solo nel 1928 per iscriversi, come allievo di Adolf Wildt, al Iº corso dell’Accademia di Brera. In Nato a Rosario, in Argentina, il 19 febbraio 1899, Lucio quegli anni, imFontana è stato il padre artistico del movimento spaportantissimi per zialista. Trascorsa l’infanzia in Sudamerica, si trasferila sua ricerca artisce in Italia a sei anni. Pittore e scultore, impara i pristica, sempre mi rudimenti nella bottega del papiù riconosciuta dre Luigi, anch’egli scultore. Medai maggiori daglia d’argento nella prima guercritici, da Argan ra mondiale, nel 1928 lascia di a Belli, da Persinuovo l’Argentina per Milano, doco a Morosini, ve si iscrive all’Accademia di Brepartecipa alla ra. Si appassiona alla cultura baTriennale di Mirocca, la sua fama cresce ad ogni lano, alla Bienmostra, e nel 1947 pubblica il nale di Venezia, “Manifesto dello Spazialismo”. alla Quadriennale Già a partire dal 1949, pratica quei tagli sulla tela che di Roma; espone diverranno la sua inconfondibile cifra stilistica. Muore più volte alla Gala Comabbio nel 1968. Oggi le sue opere sono tra le più leria del Milione, quotate del mercato mondiale. inizia l’attività di ceramista ad Albi-

l’autore

Il Manifesto di Fontana si propone di recuperare lo slancio delle prime avanguardie, Futurismo in testa, e rilanciare l’arte verso una nuova idea di futuro: «L’uomo è esausto di forme pittoriche e scultoree. Le sue esperienze, le sue opprimenti ripetizioni attestano che queste arti permangono stagnanti in valori estranei alla nostra civiltà, senza possibilità di svilupparsi nel futuro. La vita tranquilla è scomparsa. La nozione del rapido è costante nella vita dell’uomo. L’era artistica dei colori e delle forme paralitiche è sorpassata. L’uomo si fa sempre più insensibile alle immagini inchiodate senza indizi di vitalità. Le antiche immagini immobili non soddisfano più le esigenze dell’uomo nuovo. L’arte nuova prende i suoi elementi dalla natura. L’esistenza, la natura e la materia sono una perfetta unità. Si sviluppano nel tempo e nello spazio. Il cambiamento è la condizione essenzia-

le dell’esistenza. Il movimento, la proprietà di evolversi e svilupparsi è la condizione base della materia. Questa esiste in movimento e in nessun’altra maniera. Il suo sviluppo è eterno. Il colore e il suono si trovano nella natura legati alla materia». I pittori spazialisti intendono dar forma alle energie nuove che vibravano nel mondo del dopoguerra, dove la presa di coscienza dell’esistenza di forze naturali nascoste come particelle, raggi, elettroni premeva con forza incontrollabile sul quel supporto obsoleto e limitante: lo schermo, la tela. Queste forze troveranno lo sfogo definitivo nel rivoluzionario gesto di Fontana, che bucando e tagliando la superficie del quadro, fece il passo finale di distacco dalla “vecchia”arte verso la nuova arte spaziale. Fontana ha altri compagni di viaggio che condividono con lui l’esperienza dello spazialismo, tra cui: Mario Deluigi che ha operato riprendendo la tecnica del grattage di Max Ernst per creare graffi sulla tela che ricordano scintille di luce; Roberto Crippa invece ha ricreato sulla tela vertiginose spirali nelle quali si può riconoscere la forma intima dell’energia, come nelle orbite degli elettroni attorno all’atomo. Anche Antonio Sanfilippo e Alberto Viani hanno fatto inizialmente parte del movimento, seguendo successivamente altre strade (Sanfilippo firmando il manifesto di Forma 1). I manifesti dello spazialismo si susseguiranno negli anni, a dimostrazione della passione per la ricerca e la qualità scientifica dei loro approdi. Il“Secondo Manifesto dello Spazialismo” prima, e poi “Terzo mani-


cultura

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In queste pagine, alcune delle celebri tele squarciate di Lucio Fontana, pittore e scultore che fu il padre dello Spazialismo. A partire dal 1949, l’artista originario di Rosario elaborò una concezione artistica in grado di esprimere attraverso l’incisione la forza rivoluzionaria di un’arte sospinta dal vento pungente di una nuova avanguardia

festo spaziale. Proposta per un regolamento” e nel 1951, alla IXº Triennale, dove per primo usa il neon come forma d’arte, legge il suo “Manifesto tecnico dello Spazialismo”, nel 1952. Nello stesso anno firma con altri artisti il “Manifesto del Movimento Spaziale per la Televisione”, sono il prodotto di una ricerca continua che man mano trovava punti di interesse proprio nell’evolversi della tecnologia: lo schermo si incarna nello schermo televisivo (preparandosi magari ad approssimarsi al computer).

Nel 1949 Fontana espone alla Galleria del Naviglio “L’ambiente spaziale a luce nera”, utilizzando in modo del tutto pionieristico, la luce al neon, suscitan-

do grande entusiasmo nella critica più vicina all’arte d’avanguardia. Nello stesso anno nasce la sua invenzione più originale quando, forse spinto dalla sua origine di scultore, alla ricerca di una terza dimensione realizza i primi quadri forando le tele. Scatenendo di nuovo entusiasmo e sgomento, oltre a forarle, Fontana dipinge ora le tele, vi applica colore, inchiostri, pastelli, collages, lustrini, frammenti di vetro. Da questa grande ondata di vitalità che il gesto unico, perentorio, definitivo del taglio ha generato mostre e partecipazioni a manifestazioni internazionali: i musei, le gallerie e i collezionisti più sensibili acquistano le sue opere. Negli anni ’60 Fontana si dedica a una serie di dipinti ovali, a olio, tutti

dello stesso formato, monocromi e costellati di buchi, di squarci, a volte cosparsi di lustrini, che chiama “Fine di Dio”. Lo stesso tema si ritrova nel 1967, in una serie di ellissi in legno laccato a colori squillanti, pezzi unici realizzati su suo disegno. Tra il 1964 e il 1966 inventa i “Teatrini”: cornici in legno sagomato e laccato che racchiudono tele monocrome forate. Non abbandona però i “tagli”, cui rimane fedele sino all’ultimo, e nel 1966, per la sua sala bianca, con tele bianche segnate da un solo taglio verticale, la giuria internazionale della XXXIIIº Biennale di Venezia gli assegna il primo premio per la

pittura. Lucio Fontana, come Marcel Duchamp, muore nel fatidico anno della rivoluzione giovanile, nel 1968. Entrambi hanno contribuito proprio alla curiosità e al desiderio di rinnovamento che il movimento giovanile portava con sé. La qualità concettuale e pratica di quel gesto, quello del taglio, è stata più volte considerata come l’origine di un’arte che proprio alla fine degli anni Sessanta prendeva forma, ovvero l’arte d’azione, la performance art. Il grande successo di Fontana si può oggi misurare soprattutto sulla base delle quotazioni esorbitanti che le sue opere hanno raggiunto. Il 12 Aprile

un record per un’opera di un artista italiano della sua generazione. Alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna si è appena inaugurata una mostra dedicata al grande soffitto Ambiente spaziale con tagli (gesso, sei tagli su fondo bianco, cm 400 x 814,3) che Lucio Fontana realizzò nel lontano 1960 per la casa di Milano dell’ing. Antonio Melandri, grande estimatore e amico dell’artista.

Per arricchire la presentazione, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna ha allestito, nei due saloni centrali, una scelta di capolavori appartenenti alle collezioni che, partendo dagli inizi del ’900, sviluppano in un percorso di opere di artisti d’avanguardia che si sono mosse lungo un binario parallelo a quei tagli. Da Klimt, a Balla, a Schwitters, a Mondrian, a Giacometti, passando per Arturo Martini, e poi Calder fino a Pascali, Accardi, Mochetti… Un lungo percorso di ferite che gli artisti hanno imposto a quelle coordinate sclerotiche di spazio-tempo cui si riducono tutte le ricerche nell’arte: necessarie, inevitabili, insopprimibili come tutti vincoli che la vita quotidiana ci impone.

Quel gesto così radicale ha un carattere esistenziale. Segna un passaggio oltre i confini, aperto dalla lama di un rasoio 2008 nella sala d’asta di Christie’s a Londra l’opera dell’autore Concetto spaziale, Attesa, stimata tra i 3,5 e i 5,5 milioni di sterline, è stata aggiudicata nell’asta Post-War and Contemporary Art a 6.740.500 sterline, pari a 9.018.789 euro. Certamente


cultura

pagina 20 • 1 giugno 2010

Libri. San Paolo ripubblica “La colonna e il fondamento della verità”, opera del teologo russo vittima di Stalin

Dalle lettere perdute di Florenskij di Maurizio Ciampa uando Pavel Florenskij entra nel Gulag delle isole Solovki il 13 ottobre 1934, ha 52 anni. È un sacerdote della Chiesa Ortodossa, un teologo di larghissima fama, ed è uno scienziato. Ma forse nessuna di queste collocazioni esaurisce il dinamismo della sua singolare intelligenza, capace di guardare, con lo stesso appassionato trasporto, a un fenomeno naturale, a un’icona, a una celebrazione liturgica, o a una formula matematica.

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Qui sopra, la copertina de “La colonna e il fondamento della verità” di Pavel Florenskij, saggio di teodicea ortodossa in dodici lettere riedito da San Paolo. Qui sotto, e in basso, l’autore

Qualcuno, per restituire questa sua sorprendente poliedricità, lo ha chiamato il Leonardo da Vinci russo, ma è un’immagine vuota che, ad esempio, nulla dice dei tragici sviluppi della sua vita: un primo arresto nel 1928, un secondo arresto nel 1933, la detenzione nel carcere della Lubjanka a Mosca, dove Florenskij subisce un’istruttoria che è un inaudito mosaico di pressioni psicologiche, maltrattamenti, orchestrate menzogne, poi un anno di Siberia e tre anni d’internamento alle isole Solovki, sul Mar Bianco, infine il sommario assassinio in un bosco nei pressi di Leningrado, l’8 dicembre 1937, mentre il terrore staliniano si abbatte sull’Unione Sovietica come un vento impetuoso destinato a travolgere tutto. Ne sarà travolto Pavel Florenskij, il suo nome praticamente oscurato fino ai primi anni Novanta. Ne saranno travolti la moglie e i figli. Ma qualcosa resiste alla potenza insensata di quel vento, al suo impeto distruttivo. Se è vero che più forte della morte è l’amore, Pavel Florenskij è certamente un grande testimone di questa forza debole dell’amore che fronteggia la morte. Le sue lettere ai familiari dalla Siberia e soprattutto dal Gulag delle Solovki (pubblicate dall’editore Mondatori nel 2000 con il titolo Non dimenticatemi) sono, credo di poter dire, una delle letture più avvincenti che un uomo di questo tempo possa fare, perché c’è in quelle lettere tutto il male del Ventesimo secolo, la sorda stupidità che ne ha agevolato l’espansione, l’inerzia dei cuori, l’accecamento delle menti, e ci sono le vibrazioni d’anima, il gratuito ardore, l’inesauribile capacità di bene di una sua creatura, che, in quell’ultima frontiera

dell’umano, poco al di sotto del circolo polare artico, nel gelo, nella solitudine della prigionia, ha mostrato che non tutto è arbitrio o sopraffazione. Non tutto: Pavel racconta alla moglie e ai figli non il male che è l’arida evidenza dei suoi giorni – a che cosa servirebbe? –, ma ciò che sta fuori dal suo cerchio, il bello, il vero, il bene di cui conserva memo-

zio, sono riemerse le parole indirizzate ai familiari, poi i libri dimenticati, da tempo fuori circolazione, gli studi scientifici, le riflessioni teologiche e filosofiche, i saggi d’arte (il più noto Le porte regali. Saggio sull’icona è uscito da Adelphi nel 1977, ora la grande opera, monumentale fin dal suo titolo, La colonna e il fondamento della verità ( riedito da San Paolo – pagine 816, euro 64 – dopo una prima pub-

re scivolato nell’occultismo. Non mancarono, ovviamente, neppure le adesioni entusiastiche. Più di dieci anni dopo la pubblicazione, Boris Jakovenko vedrà nel libro di Florenskij «una specie di confessione speculativo-religiosa degna di essere messa accanto alle Confessioni di Sant’Agostino». Poi cadranno le tenebre dell’età di Stalin e la passione della verità di quel libro, e forse ogni altra passione, verranno cancellate.

La detenzione nel carcere della Lubjanka, un anno di Siberia e tre anni d’internamento. Infine il sommario assassinio: eppure non perse mai la fede ria. Il bello, il vero, il bene che ha sempre cercato. Anche lì, in quel luogo di dannati, di uomini perduti, di vinti destinati alle fosse comuni. Anche lì. Non tutto dunque è andato distrutto. Dall’oscurità, dal silen-

blicazione da Rusconi nel 1974 per la cura di Elemire Zolla). Il libro esce nel 1914 e ha un’immediata e vasta risonanza. Certo non mancarono le critiche, talvolta anche radicali. Nikolaj Berdjaev, una delle figure più rappresentative del pensiero russo, accusò Florenskij di esse-

Ma come riattraversare quest’opera immensa a quasi cent’anni dalla sua prima pubblicazione e come penetrare nel labirinto di questa Summa? Ce lo suggerisce il suo nuovo curatore, Natalino Valentini, uno studioso tenace che con pazienza e amore si è applicato alla ricostruzione dell’opera complessiva di Florenskij

(un’altra raccolta di saggi Bellezza e liturgia. Scritti sulla cultura e il cristianesimo slavo, è uscita in questi giorni da Mondatori). A lui dobbiamo non poco: il fatto di aver fatto uscire dal silenzio in cui era stato condannato il pensiero di Pavel Florenskij. Valentini si è preso cura delle sue parole affidandole al lettore italiano che ha ancora a cuore l’esercizio della verità. «La colonna e il fondamento della verità – scrive Valentini – oggi si ripropone come nuova sfida e provocazione per il pensiero filosofico, teologico e scientifico, come inedito confronto culturale tra fede e ragione, tra filosofia e ricerca di Dio, tra l’avventura della conoscenza e l’esperienza dell’amore». Ma perché “sfida” e “provocazione”? Perché qui la spiritualità cristiana, nella sua specificazione ortodossa, si fa pensiero temprato al fuoco della vita, non teme le contraddizioni, i contrasti, non teme le tensioni, i dinamismi che l’attraversano, non teme le lotte. «Quanto più ci si avvicina a Dio tanto più chiare sono le contraddizioni», dice Florenskij ne La colonna e il fondamento della verità ( una delle dodici lettere che compongono il libro, la sesta, è dedicata alla contraddizione). E dice ancora: «Dove non c’è antinomia, non c’è nemmeno la fede». Un uomo come Florenskij, in cui l’idea della verità è un fuoco che divora, non può far ricorso al Dio dei filosofi. Un’altra è la stella che l’orienta nella notte: è il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe che «viene al nostro giaciglio notturno, ci prende per mano e ci guida in una maniera che non avremmo nemmeno potuto prevedere».

Certo si potrebbe facilmente osservare che quel Dio che “prende per mano” così non ha fatto nel bosco di Sandormoch, dove l’8 dicembre del 1937 Pavel Florenskij è stato assassinato con gli altri prigionieri delle Solovki. Cinquecento, in una sola notte. Con un colpo secco alla nuca. Prima di essere interrati nelle fosse comuni, dove saranno quegli uomini saranno dimenticati per oltre cinquanta anni. No, il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe non ha portato Pavel Florenskij e i suoi compagni fuori dal loro terribile Egitto. Sono rimasti lì, nel folto del bosco di Sandormoch, con le loro paure, le loro preghiere, le loro bestemmie. Ma non è assolutamente detto che quel Dio non gli sia stato accanto.


cultura

1 giugno 2010 • pagina 21

a quando la cultura italiana riuscirà a liberarsi del suo provincialismo?», chiede un giovane Alberto Bevilacqua a Dino Buzzati. L’autore del Deserto dei tartari lo guarda un po’ attonito e risponde con la sua consueta ironia: «Quando prenderà l’aereo». Lo racconta Bevilacqua stesso che ho incontrato in occasione dell’uscita del suo Romanzi nei Meridiani della Monda(CXX-1684 dori pp., 55 euro) a cura e con un saggio introduttivo di Alberto Bertoni e un’ampia e articolata cronologia firmata da Antonio Franchini.

«M

Insomma, quasi 2000 pagine per raccontare un percorso tra i più interessanti della narrativa italiana contemporanea. Un Meridiano un po’ anomalo, non raccolta completa e non cronologico, ma profondamente pensato e architettato da costituire un esaustivo insieme, per uno scrittore «mai stato incline a teorizzare le proprie operazioni compositive» (Bertoni) che pure si mostra compatto e coerente alle sue idee di letteratura come pochi altri. Sette le opere raccolte (da La polvere sull’erba, 1955, a I sensi incantati, 1991) o, come preferisce l’autore, narrazioni ognuna delle quali «rispecchia un momento della vita italiana ed europea», afferma Alberto Bevilacqua. Ogni suo romanzo è preceduto da una lavorazione in versi. Ma in che senso? «Preparo come una sorta di cartone lirico: la base è in poesia e poi sfrutto le storie che vanno a confluire nelle narrazioni». Autore di molte raccolte di poesie, di racconti, molti dei quali vivono ancora sparsi su rivista – solo nel 2007 in Storie della mia storia ne ha organizzato una silloge coerente anche se incompleta -, oltre che di romanzi, a chiedergli a bruciapelo quale è la sua natura principale, però, lui continua a dichiararsi poeta in un accezione, sia ben inteso, ben oltre i confini più usualmente considerati. La dominante lirica, sia chiaro, è precoce, da quando sedicenne liceale allievo di Attilio Bertolucci gli mette tra le mani un mazzetto di fogli in versi, quanto duratura. I primi cartoni sono proprio per La polvere sull’erba, anni Cinquanta. «Mi muovevo per le mie terre, le stesse di mia madre, dell’Oltretorrente, e per la parte bene di Parma, quella di mio padre, aviere con Italo Balbo. Ero giovanissimo eppure già coglievo – ci confessa Bevilacqua – quel segreto orribile del cosiddetto Triangolo Rosso. Mi ha sempre colpito l’impassibilità e la rassegnazione alla morte di chi veniva preso, fatto uscire dalla casa e in un

Autori. Alberto Bevilacqua si racconta in occasione dell’uscita del suo “Meridiano”

«Questa specie d’amore chiamata romanzo» di Francesco Napoli attimo giustiziato». E il giovane Bevilacqua, allora non ancora diciottenne, con lo spirito di giornalista di cronaca nera, come metterà a frutto nei primi anni romani vissuti al Messaggero, indaga, mette a fuoco e scrive, scrive tanto.

Ma l’inquieto dopoguerra ha chiuso per anni le porte a un te-

sto dirompente, al punto che lo stesso Bevilacqua ci mette una pietra su, l’archivia nella casa del padre e non ci pensa più. Non sapeva che l’amico Mario Colombi Guidotti, che l’aveva voluto con sé alla Gazzetta di Parma prima e al Raccoglitore dopo, aveva già provveduto a fare avere quel maledetto Polvere sull’erba a Leonardo Scia-

Nella foto grande, un’illustrazione di Michelangelo Pace. Ai lati, le copertine di due romanzi dello scrittore emiliano Alberto Bevilacqua: “La Califfa” e “Lui che ti tradiva”. Mondadori ha dedicato all’autore un “Meridiano”

«Ero giovane eppure già coglievo l’orrore del Triangolo Rosso: la rassegnazione di chi veniva preso e subito giustiziato» scia. Ne uscirono i cartoni preparatori, nel 1955, poemetti ad andante narrativo. «Ricordo che Sciascia venne a Parma – precisa Bevilacqua – e mi confessò un turbamento sulle possibili conseguenze di quel libro. Poi cercò di consolarmi dicendosi sicuro che sarebbe venuto il momento in cui il romanzo, libero da intolleranze e meschinità, avrebbe visto la luce nella sua forma originaria». L’ha fatto poi Einaudi nel 2000.Tra fine anni Cinquanta e inizi Sessanta Bevilacqua entra nel pieno del circuito letterario e culturale internazionale, supera le porte della sua Parma o quel mondo entra in Parma. Così conosce Marquez, che ospite a Roma lo

raggiunge in quel del capoluogo emiliano, e poi Cardarelli, Pasolini, Testori e tanti altri. Diventa sceneggiatore a Roma per De Laurentiis e lì conosce un pezzo di cinema, compreso quel Roberto Rossellini al quale ha fatto da aiuto regista. Incontra anche Totò e con lui, tra vaghezie e strolgherìe, visse una felice amicizia. Ma l’esordio letterario più riconosciuto è dietro l’angolo, con Una città in amore, rifiutato da Rizzoli e pubblicato da Sugar nel 1962. «Un libro che indusse Togliatti a reintegrare Guido Picelli, un anarchico, agitatore di popolo che nel 1922 nella famosa rivolta d’Oltretorrente contro le squadre di Balbo tenne in scacco i fascisti». Già, lui d’Oltretorrente, come la madre di Bevilacqua, tenne lontano le squadre di Balbo, quelle del padre. Una dicotomia d’una vita vissuta nella propria pelle di narratore. «Su di lui, su Picelli, poi verrà anche Lizzani a girare delle scene – puntualizza con orgoglio l’autore – ma io son stato l’unico che ne ha scritto». E del successo che al mondo lo rende noto, La Califfa? «La storia è quella di una donna vera, autentica. Una narrazione che scrivevo innanzitutto per me, per sentirmi meglio. Fu un gran successo, rapidamente tradotto anche in Francia da Plon. E Angelo Rizzoli – ricorda Bevilacqua – mi ostacolò in ogni modo nella versione cinematografica di quel romanzo. Ne aveva i diritti ma non ne fece nulla per anni. E, poi, nessuno credeva che Romy Schneider, dopo Sissi, avrebbe potuto fare la mia Irene Corsini. È stata una mia scommessa vinta».

Ancora la dicotomia di una vita: la bella d’Oltretorrente, la Califfa, da un lato e l’industriale Doberdò, un amore impossibile. «Firmavo copie del libro tradotto, a Parigi, ricordo, era il 1965. De Gaulle nella stanza a fianco faceva lo stesso con la sua autobiografia. A un certo punto entra e dice: «Je veux saluer le jeune garçon de Parme, une ville que j’aime beaucoup, malgré Proust…».


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE

Intolleranza e ingiustizia. L’immigrazione va governata Intolleranza e ingiustizia proliferano laddove mancano ordine e sicurezza. Lo diceva un grande uomo della sinistra: François Mitterand. Non tutta l’immigrazione è uguale, e dire che spesso chi vive in clandestinità delinque mi sembra un’ovvietà, confermata dai numeri, prima che dalla cronaca. Negarlo significa perseverare in una visione irenica che tanti danni ha fatto al nostro territorio. Una visione secondo la quale clandestinità equivale a bontà d’intenti. Una visione che ignora le richieste dei cittadini, che vogliono sicurezza perché sanno che senza di essa non ci potrà mai essere integrazione reale. In questo senso, città venete come Treviso e Verona sono modelli da prendere ad esempio. L’immigrazione non deve essere subita ma governata, come sta facendo egregiamente il ministro Maroni, a beneficio dei cittadini italiani e degli immigrati regolari.

Luca z.

ANCHE L’AMORE “ATLETICO” FINISCE... Sarà il segno dei tempi, la latente disaffezione del mondo alle cose, ai gesti, alle persone stesse, sarà la crisi del cuore ancor prima della tasca, ma è assurdo, indipendentemente dai motivi di base, che una nazionale di calcio vada ai mondiali con un allenatore che ha già decretato il suo divorzio con il gruppo. Una volta, l’irrefrenabile sentimento dell’eterno e dell’attaccamento duraturo, celebrava almeno la speranza che un amore atletico non finisse mai, ma adesso, in un mondo dove l’odio vince su tutto, e una logica troppo fredda la fa da padrona, assistiamo a queste e tante altre cose, nelle vita, nella politica, nello sport. Non mi meraviglierei che poi, dopo, ci andremo a lamentare sul calo degli ascolti o sul rendimento basso della stessa squadra. Molte volte lo sport, nel bene e nel male, insegna agli uomini il comportamento, l’andamento dei loro umori, la necessità della compattezza umana intorno ad una idea che non è solo

l’obiettivo, ma è e deve essere, il trasporto e la passione che lo può realizzare.

Bruno Russo

Giraffe al tramonto

QUANDO È LECITO EVADERE Un cassaintegrato di uno stabilimento Fiat al sud annuncia che non potrà pagare oltre il 45% di conguaglio, per la prossima dichiarazione dei redditi, relativo ai soldi ricevuti anzitempo come sostegno al reddito, e che sarà pronto a farlo solo quando egli lavorerà “a pieno ritmo”. Un anno fa destò scalpore l’affermazione di un noto personaggio dei rotocalchi, secondo la quale se la tassazione supera il limite di vivibilità individuale, è lecito evadere. A questo punto l’interrogativo potrebbe anche essere: se la coscienza libera le briglie di ciò che si deve allo Stato, perché ci meravigliamo che l’evasione aumenta?

Gennaro Napoli

NORMALE ROUTINE VOLUTTUARIA Stephen Wilkinson ha una visione troppo

La riserva nazionale Masai Mara, nel sud-ovest del Kenya (“prosecuzione” della riserva Serengeti in Tanzania) è famosa per la sua eccezionale popolazione di grandi felini, giraffe, zebre e gazzelle. E perché - da luglio a ottobre - è teatro della Grande Migrazione

artefatta della vita. Il bioeticista inglese ritiene che le donne debbano essere sempre libere di poter scegliere il sesso dei nascituri mediante le tecniche della fecondazione assistita. Ciò che la legge in Inghilterra consente in caso di malattie genetiche, Wilkinson vorrebbe diventasse normale routine “voluttuaria”. Per chi ha una concezione materialistica dell’esistente, per chi pensa che i figli non siano comunque doni della natura, ma strutture da programmare, tutto è possibile. Certe idee sono figlie d’una po-

L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

Marcello Buttazzo

da ”The New Yorker” del 07/06/10

Illuministi d’assalto

l profeta Maometto era un perverso tiranno? L’islam promuove il terrorismo e schiavizza le donne? E ancora, la religione musulmana non constringe i propri fedeli combattere gli occidentali le cui radici culturali affondano nel secolarismo di marca illuminista? I musulmani dovrebbero convertirsi al cristianesimo? Per al scrittrice di origine somala, Aiyan Hirsi Ali la risposta a tutte queste domande è semplicemente «sì».

I

vera cultura eugenetica, che non riesce a distinguere il giusto dall’ingiusto, l’opportuno dall’inutile. Un conto è applicare le scienze della vita per scopi terapeutici, un altro per forzare la mano e per violare quella legge sacra del mistero, che comunque deve governare, pur nella artificiosità dei processi, ogni concepimento umano. Per Josephine Quintavalle, «la selezione sociale del sesso rimane un arbitrio». Certo, un tracotante, assurdo arbitrio, e un’autentica stupidaggine.

La Ali che ha abbandonato la fede verso i trentanni, parla per esperienza diretta. Può descrivere la bigotteria e l’intolleranza vissuta tra i suoi correligionari. Ha patito la mutilazione genitale quando era ancora bambina in Somalia. Ha subito anche un rapido indottrinamento fondamentalista, quando era in Kenya, e poi ha quasi dovuto capitolare di fronte un matrimonio imposto. Arrivata in Olanda è stata presa di mira dall’islamismo radicale e ha visto un suo collaboratore, Theo van Gog, assassinato dai fondamentalisti. Scappata in America la musica non è cambiata. Nel suo ultimo libro Nomad: From Islam to America ricorda ai propri lettori come la tradizione intellettuale dell’Occidente sia legata alla capacità di rivolta contro la tirannia clericale e di come anche il mondo musulmano sia «in mano ai mentori del jihad». La Ali non ha tanta fiducia che gli Usa ascolteranno i suoi moniti. I suoi primi colloqui di lavoro in America sarebbero stati decisamente scoraggianti. Per il Brookings institution l’approccio della Ali poteva essere offensivo nei confronti dei musulmani arabi. Il più conservatore American Enterprise l’aveva però subito annoverata tra i propri collaboratori. E non sono mancate polemiche di varia natura dove, sintetizzando molto, la nostra diventa paladina dell’Illuminismo occidentale contro l’oscurantismo musulmano. In-

di Pankaj Mishra

somma, per molti si muoverebbe con una clava dentro una cristalleria di suscettibilità. E lo si capisce bene anche dal sottotitolo dell’ultima pubblicazione: «un viaggio personale all’interno dello scontro di civiltà». Una posizione di “intransigenza “ che l’ha messa in conflitto anche con la propria famiglia. Nomad non le ha procurato molti amici tra la comunità islamica, così come il supporto alla legge antivelo francese, e al referendum svizzero per proibire

i minareti. La Ali è diventata un vestale volterriana. Voltairre disprezzava la fede e le minoranze religiose europee. Non riprendiamo cosa dicevail francese sugli ebrei, perché sarebbe imbarazzante. A dimostrazione che l’illuminismo fu un fenomeno culturale molto più complesso della semplificazione che ne fa Hirsi Ali. Si è guadagnata delle critiche anche dal mondo liberale e uno strenuo difensore in Paul Bermann. Quest’ultimo ha attaccato Timothy Garton Ash e Ian Buruma per il loro approccio possibilista nei confronti di un altro intellettuale musulmano, Tariq Ramadan. Il professore di Oxford, svizzero di nascita e nipote del fondatore della Fratellanza musulmana, tenta di creare un modello d’integrazione per i musulmani osservanti nella società occidentale. Bermann taccia questi flanker di Ramadan come protagonisti di «una pericolosa svolta reazionaria del mondo intellettuale». Nel suo Terrore e Liberalismo del 2003, rimproverava i liberali di eccessiva timidezza nei confronti di quella che definiva la «crociata americana in Iraq» a difesa della democrazia. In un quadro più generale di scontro tra democrazia e quello che chiama «fascismo» internazionale. Al cui vertice c’è l’islamismo che ha prodotto una moderna ideologia totalitaria. Insomma, Bermann, a partire dalla lettura di Sayyid Qutb (morto nelle carceri di Nasser) dipinge un grande complotto islamico per soffocare la democrazia.

Ramadan che da anni cerca di soddisfare l’ansia occidentale per un islam moderato è continuamente messo sotto la lente d’ingrandimento di gente come Bermann che cerca di screditarlo, con richieste di ripudio pubblico di questa o quella dottrina islamica. Non pensando che il suo valore di pontiere risiede nella credibilità che gode negli ambienti del conservatorismo dei credenti d’Allah.


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Le tue bastonate, così piene di fiori... Mi hai proprio dato un po’ di bastonate, ma le tue verghe sono così piene di fiori che non riesco a essere arrabbiato con te e la fragranza di quei fiori mi ha colmato a tal punto da lenire le punture delle spine. Mi hai battuto con un lauro. Il tuo lauro è delizioso... Ti dirò cosa penso o, meglio, farò due chiacchiere come si fa con uno squisito ragazzo su cose degne di interesse, anche se uno è restio a parlarne. Spero che mi sarai riconoscente per tale delicatazza. Per me è un’infamia essere indelicati. Molto peggio che essere viziosi. I miei principi etici mi lasciano libero di rispettare certi sentimenti, una particolare grazia nell’amicizia e specialmente la lingua francese, questa signora affabile e infinitamente cordiale la cui tristezza e la cui gioia sono egualmente squisite. Tu mi credi un languido effeminato. Sei in errore. Se tu sei attraente; se possiedi occhi incantevoli che riflettono la grazia di una mente raffinata; se il tuo corpo e la tua mente sono tanto flessuosi e snelli che sento che potrei confondermi con i tuoi pensieri intimi; se sento che il fascino della tua persona può raffinare, non c’è nulla in tutto questo che giustifichi le tue parole sprezzanti. Marcel Proust a Daniel Halevy

LE VERITÀ NASCOSTE

La bontà di Putin imbarazza Mosca MOSCA. E dire che non è Natale, anzi la festa è molto lontana. Eppure Putin sta diventando più buono, riservando per ieri un altro “fioretto’dopo aver accettato di incontrare - per la prima volta - uno dei suoi acerrimi nemici: il musicista rockYury Shevchuk, noto per essere un forte critico dell’era di Vladimir Vladimirovich; per aver partecipato alle marce del Dissenso, contro l’elezione del presidente Dmitri Medvedev; nonchè per aver scritto e cantato la canzone “Quando finirà il petrolio”, quella che dice: «Quando il petrolio finirà, il nostro presidente morirà. E il mondo sarà un po’ più libero». In molti hanno registrato l’imbarazzo di Putin per il confronto con il rocker. Ma a guardar bene nelle immagini che hanno fatto il giro del mondo, l’ex leader del Cremlino rideva sotto i baffi e ad un certo punto della discussione ha pronunciato una frase rivoluzionaria, almeno per la dialettica putiniana dell’attacco: «Senza un normale sviluppo democratico, il Paese non avrà un futuro». Il tutto alla vigilia dell’ennesima manifestazione del 31 maggio dell’opposizione extraparlamentare, dove gli attivisti dei diritti umani protestano per il rispetto dell’articolo 31 della Costituzione (libertà di assemblea). Finora queste marce erano state ostacolate in tutti i modi. Quella del 31 dicembre, ad esempio aveva visto oltre alle forze speciali, l’intervento di un ingombrante Babbo Natale e di un’improvvisata raccolta di sangue su Piazza del Trionfo, dove si è tenuto anche ieri il corteo. La novità del giorno è però che, nonostante la mancanza del permesso del comune di Mosca, Putin non ha nulla da obiettare sulla presenza del Commissario per i Diritti dell’Uomo nella Federazione Russa Vladimir Lukin come “osservatore”.

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

I MIGLIORI E I PEGGIORI AEROPORTI Il migliore aeroporto del mondo è Singapore, primo tra 150 sottoposti a giudizio per qualità dell’infrastruttura, sicurezza e facilità di accesso ai gate. Degli italiani primo Bologna, però solo al 61° posto. Gli scali milanesi battono quelli romani. Ma è una lotta a fondo classifica. Tra le 84 compagnie aeree passate al vaglio bisogna sempre guardare a oriente per trovare l’eccellenza. Prima Singapore Airlines. Tra i vettori più utilizzati da passeggeri italiani le peggiori per puntualità, pulizia e efficienza sono state giudicate Alitalia, Meridiana e Windjet. Migliore su questi tre parametri sempre Lufthansa. Quando si presenta un problema, come riscontrato anche dalle cronache di questi giorni, le compagnie aeree non prestano attenzione ai diritti dei passeggeri. In caso di cancellazione volo solo nel 10% dei casi la compagnia decide di rispettare la normativa sul rimborso, nel 25% dei casi fornisce cibo e bevande e l’albergo, quando necessario, è per pochi privilegiati (il14%). Anche in caso di ritardo superiore alle due ore, overbooking o smarrimento bagagli, le compagnie, secondo le risposte dei viaggiatori, tendono a non rispettare i diritti in più dell’80% dei casi. Altroconsumo mette a disposizione il numero verde 800088264 nelle ore 9-13 e 14-17; giuristi dell’associazione risponderanno ai quesiti e alle segnalazioni dei consumatori. Premiate per lo sforzo nella condotta etica Air France Klm, Lufthansa e Sas tra le compagnie di bandiera. Spanair, Thomas Cook e TUI tra le compagnie low cost e charter.

Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci,

Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,

Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)

Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Collaboratori

APPUNTAMENTI GIUGNO VENERDÌ 11 - ORE 11 - ROMA - PALAZZO FERRAJOLI

Consiglio Nazionale Circoli liberal “Verso il Partito della Nazione” SABATO 12 - ORE 10 - PALERMO VILLA IGEA HILTON - SALA BASILE

Convegno Circoli liberal Palermo “Dal Bipolarismo imperfetto a una politica per il futuro”. Conclude i lavori il Presidente Ferdinando Adornato SEGRETARIO

Altroconsumo

Robert Kagan, Filippo La Porta, Direttore da Washington Michael Novak

TRE GIORNI DI VERA POLITICA Aria da grandi occasioni alla kermesse di Todi, organizzata dalla Fondazione Liberal e dai Circoli dell’on. Adornato, che ha visto alternarsi 130 interventi da parte di rappresentanti del mondo delle professioni, dei sindacati, della cultura, oltre ovviamente ai tanti quadri dirigenti e politici. La cosa che mi ha colpito, è che per la prima volta un gruppo dirigente (quello dell’Udc) ha comunicato di voler fare un passo indietro rispetto ad una stagione nuova che si preannuncia rischiosa ma altrettanto avvincente e ambiziosa per far nascere un “Movimento” (per dirla alla De Mita), che sappia dare risposte concrete e che diventi la Casa comune dei tanti moderati italiani. Non è da tutti mettersi in gioco, così come ha fatto il presidente Casini, che ha deciso di togliere il suo cognome dal simbolo, e come ha fatto Cesa e l’intero partito in una stagione ove sembra prevalere sempre più la ricerca spasmodica di una postazione personale o di una affannosa rivendicazione di gestione del potere, a danno di un disegno complessivo che restituisca alla politica il suo fondamentale ruolo. La tre giorni di Todi ha rilanciato la necessità di tornare alla Politica, di interessarsi dei problemi concreti del Paese, del Mezzogiorno, dell’economia, del sistema Paese che rischia di essere travolto da un sistema politico bloccato dalle infruttuose contrapposizioni tra Pd-(Idv) e Pdl-(Lega). Un patto con il Paese e con gli italiani è sempre più urgente in un momento delicato della vita della nostra Nazione, il cui popolo deve ritrovare il senso e le ragioni dell’unità per lavorare insieme prima che l’“effetto Grecia” possa presentarsi anche da noi. Il presidente Casini ha evocato un governo di unità e responsabilità, un patto tra maggioranza e opposizioni che faccia le riforme, e attui misure anticrisi per salvare una casa che va a fuoco, che ridia il senso della legalità e riconfermi la garanzia dei diritti. Sull’organizzazione del nuovo partito confermata la linea del segretario Cesa: apertura a coloro che intendono partecipare attivamente, l’azzeramento delle cariche nazionali, il commissariamento delle segreterie territoriali, l’adozione di un codice etico che sia per tutti garanzia di partecipazione e di agibilità politica. Gianluigi Laguardia C O O R D I N A T O R E PR O V I N C I A L E CI R C O L I LI B E R A L PO T E N Z A

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ULTIMAPAGINA Gusti. Andrea Scanzi pubblica per Mondadori un piacevole viaggio sulle strade delle più celebri etichette nel suo “Il vino degli altri”

Divertirsi è facile se sai come di Livia Belardelli o sempre pensato che bere facesse male. Così ho smesso di pensare». Con questa citazione, a seguito della singolare dedica a Clint Eastwood, comincia Il vino degli altri. Lui, l’autore del libro (non Clint Eastwood), è Andrea Scanzi, eclettico giornalista, scrittore di vino ma anche di sport, cultura e politica. Di chi sia la massima non è dato sapere, così confessa anche lui che l’ha letta su una calamitina regalatagli dalla zia che campeggia, ancora oggi, orgogliosa sul frigorifero. Il vino degli altri (Mondadori, 327 pagg. 15 euro) è un nuovo viaggio, il seguito ideale di Elogio dell’invecchiamento – la sua prima incursione nel mondo enologico –, è l’esasperazione piacevole dei pregi della fatica precedente.

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Le capriole linguistiche di Elogio si fanno salti mortali, sciabolate (tecnica d’apertura del vino, esibizionista e un po’ idiota ma di grande spettacolarità e indicibile godimento) assestate con precisione, coup de théâtre che rendono persistente il piacere della lettura. Perché questo libro non ha nulla del piglio didascalico, didattico e affettato di tanti libri sul vino, enciclopedie noiose o autocelebrativi monologhi di esperti ma poco carismatici degustatori/sommelier/enogastronomi. Questo è un racconto, ironico e incalzante, di un appassionato cronista che ci porta per mano sulle sue personali strade del vino, alla scoperta di Bordeaux e Borgogna, del Rodano e dell’Argentina. In un continuo dialogo-confronto con i vini italiani e con se stesso, raccontando esperienze e trovando corrispondenze più o meno condivise tra le eccellenze italiane e il resto del globo – alcune tirate un po’ per i capelli forse, vedi Tempranillo–Sagrantino. D’altronde, dice Scanzi, «le affinità ho voluto cercarle nel carattere dei vini, in quelle dei loro vignerons. Non nella semplice corrispondenza del vitigno». É un racconto per tutti, eno–appassionati e non, non serve conoscere il vino in profondità – semmai proprio la lettura indurrà a incentivare il desiderio di conoscenza enoica – perché sarà la prosa di Scanzi a teletrasportare tra filari e alberelli, tra grandi botti e moderne barriques, tra i vini unici di Borgogna e la Champagne (la Francia la fa da padrone – è ovvio – anche se il quattordicesimo capitolo ci vede – forse – vincitori 4–3), per arrivare a California e Argentina. A voler escludere qualcuno, gli unici fuori target sono gli astemi. Lo diceva già in Elogio e, nonostante qualche piccola remora, lo ripete qui, «gli astemi continuano a farmi paura, ma da quando ho scoperto che Fernanda Pivano era astemia, un po’ mi sento in colpa. Solo un po’, però: anche i grandi, ogni tanto, sbagliano». É ironico e autoironico Andrea Scanzi, pittoresco e compiaciuto nel raccontare le proprie goffaggini, segno palese dell’uomo sicuro di sé. D’altronde è il suo libro e se lo può permettere senza peccare di superbia né rischiando la figura del vecchio trombone autoreferenziale. Tra l’altro, a fare da contraltare, è una reale competenza del settore. Sfogliando Il vino degli altri non ci si può non soffermare sulla struttura, meditata ed effica-

BERE CON STILE Le capriole linguistiche dell’autore si fanno salti mortali, sciabolate assestate con precisione, coup de théâtre che rendono persistente il piacere della lettura. E non c’è il piglio didascalico, didattico e affettato di tanti altri lavori sull’argomento ce, che rende piacevole e vorace la lettura. É un libro moderno, nel senso buono del termine, dall’impianto cross–mediale e, se mi si passa il termine, cross–sensoriale.

Per ogni capitolo c’è un vino. E una musica. Chiaramente è un divertissement, e diverte. Ad esempio, per affrontare la lettura sul Rodano e i suoi territori arrostiti dal sole l’autore consiglia di sorseggiare un Cuvée Reynard Cornas 2004 – Domaine Thyerry Allemand. Per la musica, Gold di Ryan Adams. Apprezzabile è inoltre l’accostamento con Ludovico Einaudi, Una mattina, per il capitolo sul Franciacorta. Così, con Scanzi, se si vuole si legge, si beve, si ascolta musica e magari ci si perde tra le mille citazioni di vino e lande curiose da esplorare. Tornando al libro, ma questa è visione personale e forse non condivisa dall’autore, si può iniziare da dove si vuole. Magari cominciando dal capitolo sul Bordeaux, Cronaca di un amore mai nato, per poi finire con L’essenza dorata, il tokaj ungherese o con Miraggio dell’unicità (Borgogna). Unico accorgimento è andare a blocchi di tre visto che la struttura in qualche maniera lo impone. Capitolo primo: vino del mondo, capitolo secondo: risposta italiana, capitolo terzo: alleggerimento, che poi significa divertente delirio, riflessioni, giochi, fuoco di citazioni, aneddoti e picchi demenziali che rischiano di far esplodere il let-

tore in sguaiate risate. C’è anche il test per scoprirsi borgognoni o bordolesi, champagnisti o contadineschi ruspanti. A ognuno il suo. Alla fine, ricalcando il format vincente di Elogio, tornano “le dieci cose che penso sul vino” prima e dopo questo libro e un davvero godibilissimo capitolo backstage. Un libro cross–mediale, si diceva, anche perché in relazione a un’altra motivazione. Insieme al libro infatti, come già per Elogio, è partito il nuovo blog che, ricalcando il titolo, diventa un contenitore di idee, quelle dell’autore, di commenti, quelli dei lettori, e, stavolta, anche di polemiche.

L’ironia leggera e scanzonata dell’opera prima qui si amplifica celando sotto la veste canzonatoria e un’irreprensibile dedizione alla verità cronachistica, virgolettati esplosivi che smitizzano il mondo del vino e fanno saltare sulla sedia più di un produttore. Un altro effetto dell’ironia falsamente leggera ma invece affilata, a volte sarcastica, dell’autore. Ma essenzialmente, polemiche a parte, il libro è un viaggio tra i vini del mondo. «Il quesito di fondo (…) è semplice: come sono i vini degli altri? Di cosa sanno? Cosa rappresentano, cosa comunicano?». E allora si passa da vino a vino, tra piroette, voli pindarici, cronaca e un grande romanticismo. «Credo però, ora e sempre, al vino come compagno di viaggio. Come tramite per la conversazione, la conoscenza, il sapere. Come trip per la scrittura. Come amico fragile nell’inverno (e inferno) del nostro scontento. (…) Credo che il vino sia uno dei pochi vaccini al nichilismo. Un viaggio sull’altalena. Un miraggio conosciuto. Quasi sempre un bel bere».


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