ISSN 1827-8817 00608
Dato che un politico
di e h c a n cro
non crede mai in ciò che dice, resta sorpreso quando gli altri ci credono Charles De Gaulle
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MARTEDÌ 8 GIUGNO 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Il presidente della Federcalcio risponde al populismo sui Mondiali: «Gli eventuali premi li paga la Fifa»
Assediati da cicale e sciacalli C’è chi (tipo Calderoli) punta solo a fare rumore per un titolo di giornale. E c’è chi (tipo Di Pietro) lucra su ogni difficoltà per un pugno di voti.All’Italia di oggi non serve una classe dirigente così… Pari trattamento, 65 anni, per i due sessi
di Errico Novi
L’Europa insiste: nuove pensioni entro il 2012
ROMA. Quale può essere la parte controinteressata da cui ti aspetteresti la reazione più sferzante verso Calderoli? Il sindacato calciatori, ovvio. E invece ecco cosa dichiara Sergio Campana, presidente dell’Ainc, la sigla che “difende” gli addetti alla pedata: «Calderoli sapeva benissimo che parlare in un certo modo del calcio avrebbe dato visibilità e attenzione, quindi non ha sbagliato i suoi calcoli». È la resa di un’intera opinione pubblica: dietro parole tra il rassegnato e il fatalista si percepisce l’abitudine ormai consolidata nel Paese a subire la violenza dei polemisti di professione. Come Antonio Di Pietro, che dopo l’affondo di Pier Ferdinando Casini sulla scelta di «costruire la propria fortuna politica sulle disgrazie del Paese, da sciacallo», reagisce e parla di «fango vomitato addosso».
Ultimatum del commissario Reding al ministro Sacconi: «Non ci sono margini per trattare». Intanto la Merkel annuncia una manovra durissima: un taglio di 80 miliardi in cinque anni
a pagina 2
MASCHERE DA COMMEDIA
Due facce del tartufismo all’italiana di G. Desiderio na volta Giorgio Bocca definì l’opera di distruzione della Prima repubblica da parte del pool milanese di Mani Pulite «una rivoluzione italiana». Dopo qualche anno, ritornando su i suoi passi, il noto giornalista aggiunse che dalla rivoluzione non era nato nulla di nuovo. L’artefice di quella “rivoluzione” che mandò per aria il “vecchio regime” ma non costruì nulla di nuovo fu Antonio Di Pietro. Quella rivoluzione da cui è nato un aborto - la Seconda repubblica - è figlia di Antonio Di Pietro.
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TIPO CICALA Identikit del leghista
TIPO SCIACALLO Ritratto del leader Idv
Nessuno Che pena semplifica il moralista meglio di lui immorale! Islam, identità padana e «culattoni»: le verità di un ministro che parla solo per far rumore
Una politica basata sul «predico bene e razzolo male»: storia del “jackal” italico
Marco Palombi • pagina 4
Maurizio Stefanini • pagina 5
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Anche la Turchia rilancia lo scontro ma nessuno prende le parti dello Stato ebraico
Il mondo lascia sola Israele
Minaccia di Teheran: «Manderemo le nostre navi a Gaza»
Il diktat va contro la manovra
A gamba tesa sulla mini-riforma
di V. Faccioli Pintozzi
on le misure introdotte nel decreto del 28 maggio scorso il Governo ha di fatto già risposto all’Europa e ha completato un disegno di revisione del sistema pensionistico, che si è svolto durante i primi due anni della legislatura, con intermittenza, ma sempre con effetti di carattere strutturale. Nel corso del 2009, il Governo ha provveduto alla ridefinizione dei coefficienti di trasformazione garantendo così una delle condizioni indispensabili per il controllo e la sostenibilità della spesa.
orse mai come oggi Israele è stata così sola. Certo gli Stati Uniti si pronunciano perché sia Tel Aviv a condurre le indagini su quanto è accaduto ma insomma pesano la netta condanna del premier britannico David Cameron al blitz di lunedì scorso cui è seguita la richiesta inglese di un’inchiesta internazionale e la presa di posizione del presidente francese Nicolas Sarkozy di fatto contro Netanyahu.
segue a pagina 8
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di Giuliano Cazzola
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Verso le elezioni di novembre
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I QUADERNI)
• ANNO XV •
Quale pace nella Striscia
Gli ebrei Usa No, il Papa non contro Obama vuole isolarla di Daniel Pipes
di Luigi Accattoli
l conflitto tra l’amministrazione Obama e il governo di Benjamin Netanyahu ha creato delle tensioni senza precedenti tra gli Usa e Israele dai tempi dell’amministrazione del primo presidente Bush. E queste tensioni incidono notevolemente sugli ebrei americani. a pagina 17
apa Benedetto dà il meglio quando mette piede nei conflitti: fu così in maggio con il viaggio in Terra Santa e quella dinamica si è ripetuta in questo fine settimana con la visita a Cipro. Due terre attraversate da muri: due missioni proibite per un profeta disarmato. a pagina 15
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NUMERO
109 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
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IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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Sfide. Il presidente della Federcalcio risponde alle provocazioni del ministro: «Gli eventuali premi li paga la Fifa»
Cannavaro for president «Un Paese ridicolo», ha detto il capitano. E a giudicare da cicale e sciacalli, non ha torto. Alberoni e Volli valutano la classe dirigente di Errico Novi
ROMA. Quale può essere la parte controinteressata da cui ti aspetteresti la reazione più sferzante verso Calderoli? Il sindacato calciatori, ovvio. E invece ecco cosa dichiara Sergio Campana, presidente dell’Ainc, la sigla che “difende” gli addetti alla pedata: «Calderoli sapeva benissimo che parlare in un certo modo del calcio avrebbe dato visibilità e attenzione, quindi non ha sbagliato i suoi calcoli». Di cos’altro c’è bisogno per una dichiarazione di resa? E si capisce che la resa non è quella dei centravanti, ma di un’intera opinione pubblica di fronte a un certo modo di fare politica, di influenzare il dibattito e diventarne protagonisti. Dietro parole tra il rassegnato e il fatalista come quelle di Campana (o di Mario Pescante che se la prende con la «demagogia e il populismo» del ministro) si percepisce l’abitudine ormai consolidata nel Paese a subire la violenza dei polemisti di professione. Come Antonio Di Pietro, che dopo l’affondo di Pier Ferdinando Casini sulla scelta di «costruire la propria fortuna politica sulle disgrazie del Paese, da sciacallo», reagisce e parla di «fango vomitato addosso» a lui e all’Italia dei valori. Con l’impudenza di chi dà per scontati, e sempre giustificabili, i propri, di conati. Tanta faccia tosta, tanta perseveranza nel trattare la scena pubblica come fosse un grande Hide Park dove abbandonarsi a perenni contumelie, è sostenibile in tempo di crisi? Roberto Calderoli è paragonabile a una
I due politici rappresentano ”tipi classici”; e Michele Santoro è la loro summa
Le due facce del «tartufismo» all’italiana di Giancristiano Desiderio na volta Giorgio Bocca definì l’opera di distruzione della Prima repubblica da parte del pool milanese di Mani Pulite «una rivoluzione italiana». Dopo qualche anno, ritornando su i suoi passi, il noto giornalista aggiunse che dalla rivoluzione non era nato nulla di nuovo. L’artefice di quella “rivoluzione”che mandò per aria il “vecchio regime” ma non costruì nulla di nuovo fu Antonio Di Pietro. Quella rivoluzione da cui è nato un aborto - la Seconda repubblica - rappresenta per il “rivoluzionario” ex pubblico ministero che ha un grande futuro dietro alle spalle un modello a cui ispirare tutta la sua veloce carriera parlamentare e politica che lo ha portato, è bene non dimenticarlo, dalla poltrona di ministro dell’Interno che Berlusocni gli offrì nel 1994 (e che lui solo all’ultimo rifiutò) a quella dei Lavori pubblici nell’ultimo governo Prodi.
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Antonio Di Pietro è molto di più di quel che sembra. Pier Ferdinando Casini lo ha definito uno “sciacallo” perché «costruisce la sua fortuna politica sulle disgrazie del Paese». La definizione sembra essere eccessiva, tuttavia se consideriamo semplicemente il suo significato astraendo dal Bestiario (parola cara a Giampaolo Pansa) da cui è pescata - avvoltoio, iena, faina - ci rendiamo conto che sta a significare semplicemente uno stile giacobino prima che politico che l’ex pm ha amplificato e coltivato con cura addirittura trasformando l’opera decostruttiva di Mani Pulite in una “rivoluzione permanente”. Il fondatore dell’Italia dei valori non è solo un ex pm diventato politico ma anche e soprattutto un “tipo italiano” o il riassunto di un vizio nazionale: il tartufismo. Di Pietro sembra uscito da un film di Alberto Sordi: sempre pronto a fare la morale agli altri, a parlare di grandi ideali e valori - l’Italia dei valori - ma del tutto incapace di operare rettamente e di costruire qualcosa di buono al di là della pro-
pria persona. Antonio Di Pietro Tartufo è sempre pronto a fare la morale agli altri e crede di essere il più puro e il più furbo di tutti, ma come nel più classico contrappasso dantesco cade anche lui negli errori che imputa ai suoi avversari e nemici. È inevitabile che accada quando si ha una visione così piccina e ristretta della politica e delle umane cose che Di Pietro con la sua cultura da poliziotto organizza in due categorie: legale e illegale, come se al mondo non ci fosse nient’altro.
Se Di Pietro è Tartufo che crede di essere Mazzini ed è carnefice e vittima della sua stessa furbizia popolare, chi è invece Roberto Calderoli? Il ministro della Semplificazione ha un sesto senso per la vana complicazione. Se non dice cose vane non è contento: una volta espone la maglietta anti-islam, un’altra volta chiede la castrazione chimica per gli stupratori, adesso chiede che siano ridotti i premi ai calciatori. Risultato pratico delle sue “sparate”(definizione di Buffon)? Zero. Anche quando dice una cosa giusta - “questa legge elettorale è una porcata” - è una cosa inutilmente giusta. Stando all’idea del Bestiario, se Di Pietro è lo sciacallo, Calderoli è la cicala. Anche Roberto Calderoli Cicala è un “tipo italiano”, quello che trasforma in chiacchiera e “cazzeggio” ogni cosa che tocca. Tra il tartufismo rivoluzionario di Di Pietro e il vaniloquio padano di Calderoli c’è la terza via o sintesi di Michele Santoro che riassume in sé la rivoluzione e la chiacchiera mediatica, la distruzione e la furbizia. Ricorderete l’apologo dell’orsacchiotto di Massimo Troisi: «Tra un giorno da leone e cento giorni da pecora non possiamo fare cinquanta giorni da orsacchiotto?». Ecco, nel Bestiario italiano Santoro è l’orsacchiotto di Troisi, ma molto, molto più costoso (e meno simpatico).
cicala che non perde mai l’occasione del canto: libero e indifferente ai fatti. A ricordarglieli, dopo i leader della Nazionale Gianluigi Buffon e Fabio Cannavaro, provvede il presidente della Federcalcio Luigi Abete: «Qualunque premio venisse pagato agli azzurri sarebbe compreso comunque nei ricavi connessi al Mondiale». In particolare ai bonus riconosciuti dalla Fifa. «Nel bilancio della Federazione c’è un capitolo dedicato a costi e ricavi di Mondiali ed Europei e in queste sezioni siamo in, attivo». Cose che un ministro dovrebbe conoscere prima di parlare, prima di dare per scontato che tagliare gli emolumenti dei calciatori possa servire a finanziare voci socialmente utili. Viene allora da pensare che Cannavaro ha ragione quando dice «siamo un Paese ridicolo». Può darsi: fino a prova contraria Calderoli è ministro per volontà, più o meno diretta, degli elettori. Ma appunto resta il quesito di partenza: a questo punto, con un contesto economico che si aggrava ogni giorno, ci si può ancora permettere una classe dirigente di cicale che sfarfallano nel cielo della vanità o di sciacalli che maramaldeggiano a colpi di strilli e anatemi?
Prova a rispondere un sociologo non annebbiato dalle iperboli come Ugo Volli. Che parte da una prima, scoraggiante constatazione: «Decide l’elettorato, è una domanda a cui di fatto rispondono le urne». Senza però disdegnare la scommessa: «Mi affiderei volentieri a un patto di boicottaggio, all’impegno comune di non votare chi sceglie sempre
prima pagina Antonio Di Pietro e Roberto Calderoli, protagonisti di uno stile comunicativo che, dice il semiologo Ugo Volli, «non aiuta a selezionare la classe dirigente». A destra, il magistrato ed ex parlamentare Ferdinando Imposimato, autore del libro denuncia Corruzione ad alta velocità
la via dell’urlo, dell’intemperanza». D’altronde finora non è andata così. «Queste uscite dipendono dal fatto che nei talk show come sui giornali le intemperanze sono premiate», dice il professore di Filosofia della comunicazione, «si guadagna attenzione, audience, secondo il canovaccio tipico delle discussioni televisive in cui ci si interrompe a vicenda. A volte viene il sospetto che
«Il nostro mercato delle opinioni ha una dimensione parrocchiale, diversamente da quello dei giocatori», osserva il columnist del Corriere questo genere di cose siano studiate a freddo, secondo il preciso obiettivo di selezionare un ceto politico di combattenti, in continua campagna elettorale». E però non ci si può lamentare soltanto, visto che «i media hanno una significativa parte di colpa. Cosa è successo con le escort o con il caso Marrazzo? In un momento che avrebbe richiesto un dibatitto serio sui problemi del Paese si è preferito fare spettacolo, a colpi di gossip». Con quale obiettivo? «Con quello di scegliere la via più semplificata per far arrivare un messaggio». Quando parla di complicità dei media Volli non si riferisce banalmente al voyerismo sempre assecondato dalla pubblicazione dei brogliacci: «Molto dipende dal modo di fare opposizione che in fondo Repubblica ha imposto».
In tutto il mondo, osserva caustico Volli, «la sinistra dovrebbe occuparsi di problemi sociali. Invece in Italia abbiamo trascorso mesi a discutere della sessualità di Berlusconi. Con la convinzione che fosse questa, appunto, la via più breve per far breccia nell’opinione pubblica. Di sicuro è un intreccio negativo per il Paese, è diseducativo per i partiti e non è certo funzionale a una buona selezione della classe politica». E
no che non lo è, che non può esserlo. Ma se Volli respinge l’idea che tutto nasca da un’italica vocazione a rimuovere i nodi anziché scioglierli, un po’ Francesco Alberoni lascia intravedere questo sfondo, dietro il protagonislmo della cicala Calderoli o dello «sciacallo» Di Pietro. «Alcune cose», secondo il sociologo e columnist del Corriere, «sono tipiche di un mercato che non è mondiale, come quello dei calciatori, ma è parrocchiale, categoria appropriata ad esempio per i nostri ricchi conduttori televisivi». Ecco, è questo provincialismo, questa dimensione da «combriccola» che un po’ tiene legata l’Italia a un certo tipo di opinion leaders, persino in tempi difficili di crisi.
«È il teatrino», dice Alberoni, «il teatrino della politica, delle scaramucce, delle boutades studiate ad arte per attirare l’attenzione». O per dar fiato ai polmoni? «Quella di Calderoli è di sicuro una cosa senza senso perché i calciatori hanno un prezzo stabilito sul mercato mondiale. Se li vuoi devi pagare, sarà un’ingiustizia. Ma credo sia anche più ingiusta la rendita di posizione dei nostri strapagatissimi presentatori televisivi. Loro non si muovono affatto nell’ambito di un mercato mondiale perché se provassero, come fanno i buoni centravanti, a chiedere le stesse cifre in un Paese straniero tornerebbero a mani vuote». Cicale anche loro come Calderoli? «Uno come Santoro rappresenta un partito politico.? Sa com’è, nel Pd ci sono 18 leader, il Pdl non è che sia messo meglio, e allora figure del genere acquisiscono una loro vera e propria, riconoscibile soggettività politica». Fuor di metafora, se davvero Calderoli o Di Pietro possono egemonizzare la scena con le loro provocazioni, questo avviene dunque, secondo Alberoni, anche per la povertà degli altri attori. Ma certo molto dipende dalle regole strane di quel mercato tipico dell’Italia, a dimensione «parrocchiale», con regole tutte particolari adatte a preservare l’esistenza di cicale e altre curiose specie viventi.
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I protagonisti dell’affaire Tav tornano oggi nelle vicende della “cricca”
«Il mio vecchio Di Pietro tra macchie e peccati»
Da metà degli anni ’90 il giudice Imposimato stigmatizzò l’atteggiamento dell’ex pm verso alcuni personaggi di Franco Insardà
ROMA. Era il 1999 quando il giudice Ferdinando Imposimato, l’avvocato Giuseppe Pisauro e il giornalista Sandro Provvisionato pubblicarono Corruzione ad Alta Velocità, arrivato alla sua terza ristampa. Sempre con Provvisionato Imposimato ha recentemente scritto Doveva morire. «Chi ha ucciso Aldo Moro. Il racconto di un giudice». Quello sulla Tav è un viaggio negli intrecci tra economia pubblica e privata, criminalità organizzata, magistratura e politica implicati in un’inchiesta che ha visto impegnate le procure di La Spezia e Perugia per un’opera che, secondo alcuni esperti, è lievitata da 29mila miliardi a 140mila miliardi di lire. Imposimato se ne interessò, tra l’indifferenza generale, quando era membro della commissione parlamentare antimafia. Con la meticolosità e il piglio del magistrato ha ricostruito i nomi e le società implicate in quella che viene definita «la più grande inchiesta giudiziaria dopo Tangentopoli». Personaggi che tornano di nuovo alla ribalta delle ultime vicende che interessano in questi mesi l’ormai famosa “cricca”. Su tutti Antonio Di Pietro. Come ha più volte dichiarato, Imposimato dall’uscita del libro fino a oggi l’ex pm di “mani pulite”ha annunciato querela, ma «la sto ancora aspettando. Né io né la mia casa editrice Koiné abbiamo mai ricevuto querele, citazioni o richieste di rettifica da Di Pietro o da suoi rappresentanti».
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un eroe senza macchia e senza peccato. Di Pietro viene descritto come un personaggio che «si districa fra avvenimenti di bassissimo profilo, furbescamente elabora e perfeziona tecniche inquisitoriali altamente selettive di fatti e personaggi, gestite per rendere malleabile la materia processuale, per elargire vie di fuga agli amici, nel mentre si costruiscono impraticabili cunicoli ciechi per gli avversari, al suo dire e contemporaneamente negare, al suo offrirsi a tutti pur di assicurare un ruolo di prestigio nazionale, al non aver mai voluto dire con chiarezza i motivi delle sue dimissioni dalla magistratura, al suo amichevole conversare con inquisiti che diventano amici, al ritrovarsi organico a leader di governo (Romano Prodi ndr) che, nel passato, erano stati bistrattati da indagati».
Imposimato solleva interrogativi su alcuni personaggi legati alla Tav e a quello che lo stesso Di Pietro definì essere: «appena un gradino sotto a Dio»: Pierfrancesco “Chicchi” Pacini Battaglia, arrestato il 10 marzo 1993 dalla procura milanese e rimesso in libertà dopo dieci ore di interrogatorio. Bisognerà arrivare nel 1996 perché la procura di La Spezia svela la trama gigantesca collegata all’Alta Velocità e nel 1998 quella di Perugia porta alla luce gli intrecci tra Pacini Battaglia e Lorenzo Necci. Questa storia costerà a Di Pietro le indagini della procura di Brescia nel 1998 dalla quale, su richiesta del gip Anna Di Martino, sarà prosciolto con la formula «perché il fatto non sussiste». Nell’inchiesta si ritrovano nomi che sono ritornati agli onori della vicenda Anemone come Ettore Incalza che nel 1993 era amministratore delegato di Tav spa. Oltre ad alcuni amici di Di Pietro come l’avvocato Giuseppe Lucibello e il costruttore Antonio D’Adamo, i quali secondo quanto disse Pacini Battaglia in una intercettazione «lo stavano sbancando». E poi ancora Giancarlo Gorrini «sfortunato accusatore dell’ex pm milanese, al quale comunque aveva prestato ben cento milioni senza interessi e senza termine per la restituzione e aveva permesso l’acquisto di una Mercedes 300 Ce e il salvataggio economico dell’altro amico di Di Pietro, Eleuterio Rea», come scrivono Imposimato, Pisauro e Provvisionato. Automobili, prestiti, cellulari e utenze telefoniche. Per non parlare degli appartamenti. Di Pietro ci tiene, acquista la casa di Curno e nel 1991 «si vede assegnare in affitto un appartamento della Cariplo in via Andegari, n.18». Fino ai giorni nostri e alle accuse di Zampolini.
Finalmente qualcuno si ricorda delle cose che ho denunciato prima nelle sedute della commissione antimafia e poi nel libro
All’epoca era considerato una sorta di angelo vendicatore, mentre oggi il suo carisma viene messo in discussione dalle rivelazione dell’architetto Zampolini e Imposimato sembra voler far intendere: «Lo avevo detto e scritto». E aggiunge a liberal: «Finalmente qualcuno si ricorda di Corruzione ad Alta Velocità». Come scrivono gli autori nell’introduzione «Di Pietro, fra tutti i protagonisti e comprimari affacciatisi sulla scena di “Tangentopoli”, rappresentava una vera silloge dell’italico carattere: origini opportunamente contadine, nostrana incarnazione dell’americano “self made man” (emigrante, poliziotto, magistrato, consulente, opinionista, scrittore, professore, ministro, senatore), un pizzico di fascino che ogni “perseguitato”ingenera, un eloquio comprensibile ai più e soprattutto al livello dei più, un piglio da guascone che non teme nessuno e le canta a chiare lettere a chiunque». Insomma una sorta di eroe della Seconda Repubblica. Ma, come ha documentato Imposimato prima in commissione antimafia e poi nel libro, non si può parlare di
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Tipi italici/La cicala. Piccolo florilegio delle esternazioni del leghista che litiga con la grammatica
Solo rumore per nulla: Calderoli, il semplificatore L’Islam, l’identità padana e i «culattoni»: le verità del ministro a cui piace parlare in favore di telecamera di Marco Palombi e a qualcuno venisse in mente di riunire in volume i discorsi per così dire politici di Roberto Calderoli si troverebbe di fronte ad una quantità di materiale veramente esigua: la sua attività d’Aula essendo, se si escludono alcuni trucchetti regolamentari di cui pare sia maestro, sostanzialmente nulla. Se, però, si volessero prendere in considerazione anche le uscite estemporanee, i comunicati stampa, le interviste ai giornali, le boutade a favore di telecamera, allora si dovrebbe cominciare a pensare ad un’uscita dell’opera in più volumi. Il ministro per la Semplificazione normativa, infatti, è un dichiaratore compulsivo, sempre pronto alla risposta, gaffeur consapevole e allusivo, nonché finissimo ingegno comunicativo coadiuvato, in questo, da un instancabile portavoce.
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Il chirurgo maxillo-facciale di Bergamo – dove il cognome di famiglia è una sorta di sinonimo di dentista – classe 1956, otto fratelli, è un po’ il “Brighella” della Lega Nord, nel senso della maschera bergamasca. Calderoli, però, raramente litiga con le persone, più spesso lo fa con la buona creanza, la logica, il senso di responsabilità. Deputato dal ’92, senatore dal 2001, ministro dal 2004, grande epuratore leghista negli anni 90 (soprannome: «il Beria di Bergamo»), inventore della “porcata” elettorale e padre costituente fottuto dal referendum nel 2006, federalista di successo finora con l’alienazione del demanio. Nonostante sia un uomo di potere da vent’anni, continua ad essere un personaggio eccentrico, ma non abbastanza da esserlo disinteressatamente: al nostro piace stare sui giornali, ne ha bisogno come l’aria in quella partita a carambola con gli umori di Umberto Bossi che è la vita dei colonnelli leghisti, i “Roberti” tutti ferocemente l’un contro l’altro armati. La sua strategia di rapporto coi media la spiegò seccamente nel 2003: «Quando dici cose ponderate, tranquille, non trovi mezzo giornalista al mondo che le riferisca». Nel 2007 si spiegò meglio: «La politica è teatro: quando si alza il sipario, io faccio la mia parte». Calderoli, in buona sostanza, è un’arma di distrazione di massa attiva soprattutto nel week end: non vuol dire, sia chiaro, che negli altri giorni si astenga dallo sparare tre o quattro frescacce, ma per il fine settimana – come vedremo - si tiene le migliori. Intanto un piccolo florilegio aiuterà a capire perché Calderoli sia una manna per i giornalisti: è l’icasticità che lo aiuta o, per i detrattori, la mancanza di pensiero della complessità. La Margherita, disse una volta, dovrebbe avere come simbolo «un finocchio», d’altronde «non è colpa mia se sotto quel fiore viaggiano persone che
hanno scelto l’altra sponda». L’omofobia, come in ogni bar di provincia, è uno dei suoi cavalli di battaglia: «La civiltà gay ha trasformato la Padania in un ricettacolo di culattoni», parere arricchito da un più apodittico «qua rischiamo di diventare un popolo di ricchioni«, e idealmente concluso, con surplus politologico, da «Pacs e porcherie varie hanno come base l’arido sesso e assurde pretese di privilegi da parte dei culattoni». Quest’ultima frase lascia peraltro intendere il travaglio morale e teologico di Calderoli: «Il cristiano che vota a sinistra – è il suo pensiero - si schiera dalla parte del peccato e del demonio». Oggi, pensoso, s’interroga se sia davvero utile lasciare i nostri soldati in Afghanistan, qualche anno fa si metteva l’elmetto: «I Paesi canaglia, prima o poi, bisogna andare a sistemarli tutti». Fu il 2006, comunque, il suo anno da crociato dell’Occidente: lo inaugurò a febbraio con la maglietta esibita a Dopo Tg1 con le vignette danesi su Maometto che scatenò l’interessata reazione della piazza libica e relativi martiri dell’Islam. Qualche giorno prima, a Canale 5, aveva zittito la giornalista palestinese Rula Jebreal: «Ma la smetta quella signora, quella abbronzata lì, quella del deserto e del cammello». Dopo il vittorioso mondiale di calcio tedesco, infine, teorizzò: «È la vittoria della nostra identità, dove una squadra che ha schierato lombardi, campani, veneti o calabresi ha vinto contro una squadra che ha immolato la propria identità schierando negri, islamici e comunisti».
Nel suo nome, resta soprattutto una legge elettorale molto controversa che passerà alla storia con la stessa schietta definizione del suo autore: “la porcata”
Venendo all’oggi, quelle di Calderoli non sono, come pure possono sembrare, parole insorte alle labbra da un improvviso moto del cuore o di organi meno nobili. Un’uscita pittoresca in un giorno mediaticamente “pieno” difficilmente avrà uno spazio sui giornali ed è per questo che il nostro si esibisce soprattutto nel week end. Basta analizzare le sue uscite da aprile: venerdì 2 inaugurò la sua carriera di padre costituente con un’intervista al Giornale in cui lanciava il “semipresidenzialismo”; due giorni dopo - intervista al Sole – spedì Berlusconi al Quirinale per il 2013, uscita ripresa il sabato successivo con la variante «il Cavaliere sul Colle e un leghista a palazzo Chigi» (seguì dibattito). Per il resto del mese, poi, il nostro fu impegnato a portare bozze di riforma su e giù dal Quirinale senza l’apparente autorizzazione di nessuno, ma la produzione del week end tornò a correre a maggio: il 2, domenica, dagli studi di Raitre annunciò che la Lega non avrebbe partecipato alle celebrazioni del 150esimo dell’unità d’Italia (dibattito); il venerdì successivo lanciò la ahinoi sfortunata proposta di impiantare un distributore di gas in ogni garage; il 14 maggio rubò il tempo a Tremonti annunciando il taglio del 5% degli stipendi di parlamentari e ministri, rincarato il giorno dopo con la “dieta” anche per “gli alti papaveri” pubblici. L’ultima settimana, poi, è un susseguirsi di capolavori: il 2 giugno, che era martedì ma di festa, ha invocato il taglio degli “stipendi d’oro” in Rai (dibattito), l’altroieri – domenica – chiesto di sforbiciare pure i premi dei giocatori della nazionale di calcio (dibattito) e in un’intervista al “Corsera”di ieri se l’è presa, senza far nomi, con Massimo Moratti, presidente dell’Inter e petroliere, reo di vincere scudetti coi “soldi pubblici”: il meccanismo, spiega il nostro, sono i contributi per produrre “energia pulita” dagli scarti di lavorazione del petrolio. È appena una coincidenza che a votare il ripristino dei contributi anche per le raffinerie, escluse a suo tempo da Pecoraro Scanio, ci fosse proprio Calderoli. Dibattito.
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8 giugno 2010 • pagina 5
Tipi italici/Lo sciacallo. Tutto cominciò con la popolarità conquistata ai tempi del Pool
Le mille vite di Di Pietro, il moralista immorale Dopo la rivoluzione fallita di Tangentopoli aprì un balletto ministeriale, dividendosi tra Berlusconi e Prodi di Maurizio Stefanini criveva nel 1997 Eugenio Scalfari che Antonio Di Pietro «non è un italiano né un anti-italiano; Di Pietro è un “italiota”, un aborigeno nel senso pieno e letterale del termine. Ha tutti i difetti e le qualità della stirpe non mediati dalla cultura. Sembra un lusso, la cultura, una caratteristica elitaria, noiosa, superflua, supponente, riservata alle “teste d’uovo”e alle “anime belle”. Ebbene, non è così. La cultura non è altro che l’immagine che ciascuno dovrebbe avere di sé, della propria coerenza e della propria responsabilità morale. La cultura - quella vera - è il filtro indispensabile che serve a contenere e selezionare l’irruenza degli istinti e delle pulsioni vitali. A me pare che questa mediazione manchi ad Antonio Di Pietro così come manca a Silvio Berlusconi che anche lui è un italiota sotto il dominio delle proprie elementari passioni e dei propri elementari interessi. Uomini così, uomini che hanno le qualità e i limiti di animali da combattimento, possono anche intraprendere e portare a compimento egregie imprese, possono essere strumenti preziosi di un disegno più vasto, ma non possono guidare una comunità e uno Stato senza provocare guasti assai gravi». Indro Montanelli lo definì «la grande incognita della politica italiana». Sandro Curzi nel candidarsi contro di lui al Mugello chiedeva, facendogli il verso: «Che ci azzecca con noi di sinistra?». E Marco Pannella per farne l’elogio ne parlò (qua citiamo a memoria) come di un «magistrato contadino che usava i codici come una zappa e per questo riuscì a scoprire quello che gli altri non scoprivano».
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te pronti a passare a ogni momento armi e bagagli al PdL. È pure vero, però, che nella Seconda Repubblica questo stato di confusinismo è diventato la regola di quasi tutte le forze politiche sopravvissute.
Probabilmente, dunque, all’origine dello sconcerto che Di Pietro continua a creare in gran parte del fronte antiberlusconiano è più ancora un altro particolare: il modo in cui il leader dell’Italia dei Valori continua a essere legato a un’immagine di Pars Destruens. Anche se lui, poveretto, proprio per fare vedere che ha invece anche la vocazione di ricostruire ogni volta che va al governo insiste per farsi dare il ministero dei Lavori Pubblici o quello delle Infrastrutture. Fu nello sfascio della Prima Repubblica che lui divenne «il più amato dagli italiani». E lì magari va bene: a torto o a ragione, la gran parte dei cittadini era convinta che nello stabile istituzionale non si potesse più abitare, se non dopo averci fatto passare prima una squadra di demolizioni. Ma poi il 6 dicembre del 1994 si dimise dalla Magistratura per non «essere tirato per la giacca»: e pure il Pool di Milano si trovò demolito, proprio nel momento in cui stava appunto partendo l’indagine sui Berlusconi. Quel Berlusconi con il quale, poi si saprà, Di Pietro aveva nel frattempo trattato per il Ministero dell’Interno, anche se non se ne era fatto niente. Nel 1995 l’ex-magistrato si dà all’editoria, prestandosi a “garante” verso i lettori del Telegiornale di Gigi Vesigna.“Lasciateci il tempo di crescere”, è lo slogan. Figuriamoci se la garanzia non ci fosse stata, visto che il quotidiano chiude dopo quaranta giorni! Nel ’96 diventa ministro con Prodi, salvo dimettersi dopo sei mesi per un avviso di garanzia. Va bene che poi sarà assolto: sorte peraltro comune alla gran parte dei destinatari di avvisi di garanzia che negli ultimi vent’anni hanno agitato la politica italiana. Lui coglierà però l’opccasione per passare dall’Esecutivo al Legislativo, facendosi eleggere senarire del Mugello. Un collegio blindato dell’ex-Pci, per un politici che si fa eleggere proprio allo scopo di iniziare di fare all’ex-Pci ed ai suoi vari eredi una concorrenza da allora mai più finita.
Un leader populista che molti esponenti di sinistra non hanno mai amato. Al punto che Scalfari lo definì «italiota senza cultura». Proprio come il suo odiato Cavaliere
Personaggi, quelli che abbiamo citato, certamente non sospettabili di parzialità filo-berlusconiane. Eppure, toccati anch’essi da una diffusa perplessità verso la figura del leader dell’Italia dei Valori. Una perplessità è vero, che un po’ troppo spesso si ammanta di una insufficienza elitaria e quasi razzistica verso il personaggio che si è fatto da solo: quanta differenza verso gli Stati Uniti, dove per un Presidente essere nato nella capanna di tronchi dei pionieri era un titolo di merito! Altre volte questa perplessità nasce invece dall’accesso di disinvoltura ideologica dell’ex-Pm: dna per sua stessa ammissione di contadini democristiani; maniere e look di quella spicciatività che a torto o a ragione in Italia sono abitualmente associate all’etichetta del “fascismo”; un partito il cui quasi unico programma è il giustizialismo ad personam ma che a livello di Parlamento europeo si è andato a iscrivere alla famiglia ultragarantista dei liberali europei; ma mandando poi allo stesso Parlamento Europeo, oltre che a quello italiano, fior non solo di marxisti alla Franca Rame, ma addirittura di nostalgici del modello sovietico alla Giulietto Chiesa e esaltatori di Chávez e Castro alla Vattimo; salvo però poi arruolare come classe dirigente locale una pletora di ex-democristiani sorprendentemen-
La caduta di Prodi è l’occasione per diventare tra i leader del nuovo partito dei Democratici: formazione appunto dei prodiani in polemica con D’Alema. Salvo poi, quando D’Alema è rimpiazzato da Amato, rifiutare la fiducia al governo, andarsene dagli stessi democratici, e armare contro il loro leader Rutelli una dissidenza che contribuirà potentemente a far vincere nel 2001 Berlusconi. Pur al costo di non incamerare per sé niente, dal momento che l’unico eletto al Parlamento dell’Italia dei Valori passerà subito al Pdl. E il trend si confermerà nelle elezioni successive. L’Italia dei Valori va in linea generale male nei successivi anni di ripresa del centro-sinistra: anche se il collegamento delle liste le permetterà nel 2006 di tornare in Parlamento. L’Italia di Valori decollerà invece dal 2008 in poi, proprio in concomitanza con lo sfasciarsi dell’Unione e con lo stallo del nuovo Pd. Ciò non significa che sia Di Pierto a sfasciare: in genere, no. Ma, certamente, è quando qualcosa si sfascia, che la sua stella trova l’occasione per rifulgere. Magari, è solo una coincidenza.
diario
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Comuni. Alessandro Onorato, consigliere capitolino, spiega la soluzione pensata dai centristi per l’accesso ai servizi
Modello Roma per la famiglia Il sindaco accoglie una proposta Udc per un nuovo quoziente ROMA. «Il sindaco ha fatto propria la delibera. Questo ha un grande peso, una grande importanza e dimostra che si può contribuire al miglioramento della città anche stando all’opposizione». È entusiasta Alessandro Onorato, consigliere comunale a Roma dell’Udc. Ha appena incassato il sì di Gianni Alemanno e dell’assessore al Bilancio su un’iniziativa proposta dal suo gruppo consiliare e la cui delibera potrebbe andare in consiglio per l’approvazione entro un mese a partire da oggi. Un progetto che potrebbe avere eco in tutta Italia, cosa della quale lo stesso consigliere si dice convinto ed anzi si fa promotore di un invito al sindaco capitolino affinché da Roma si prenda l’avvio per estendere l’iniziativa al territorio nazionale. Ma di cosa si tratta? Si tratta del cosiddetto Quoziente Roma, uno strumento per rendere più agevole e concreto l’accesso ai servizi pubblici comunali a tariffe agevolate in base alla reale composizione delle famiglie. Quindi nuclei che abbiano a carico un anziano e quindi una persona a reddito bassissimo o portatore di handicap o un giovane disoccupato. Il progetto, presentato ieri in Campidoglio alla presenza del primo cittadino della Capitale e di Lorenzo Cesa è partita proprio dal gruppo Udc «Un gruppo piccolino», sottolinea Onorato e che siede negli scranni dell’opposizione. Ma un’idea «nata dal fatto – spiega ancora il consigliere comunale – che a livel-
gerà i cittadini a vivere un periodo di austerity e sacrifici. A farne maggiormente le spese saranno soprattutto le famiglie romane. Per questo motivo è necessario che le Istituzioni pongano all’ordine del giorno il bisogno impellente di introdurre nuovi strumenti che vadano a tutelare e a promuovere il nucleo fondante della società. Il progetto del Quoziente Roma era già stata presentato con una propo-
«Si tratta di una soluzione capace di porre le basi di una riforma fiscale sociale che premia un tessuto vivo, in crescita e al passo coi tempi» lo nazionale questo rappresenta una bandiera dell’Udc. Abbiamo lavorato otto mesi con un gruppo di ragazzi che, a titolo gratuito, ha studiato l’argomento».
«Il nostro Paese e in modo particolare la Capitale sono assediati da - come afferma ancora Onorato - una crisi profonda, che anche a causa di una congiuntura economica internazionale influisce negativamente sulla nostra vita quotidiana. La manovra del Governo costrin-
anziani oltre i 65 anni o di disabili con assegno d’accompagnamento, rimodulando le tariffe ed anche le graduatorie ottenute dall’indicatore Isee – spiega Onorato -. Mi rende orgoglioso il fatto che l’Udc sia stato l’unico gruppo consiliare a presentare una proposta di delibera che intende porre le prime basi della riforma fiscale locale - continua -. In questo grave momento di crisi il Quoziente Roma è una prima risposta seria e concreta alle grandi difficoltà che stanno attraversando i nuclei familiari capitolini», continua Onorato.
di Angela Rossi
sta di delibera lo scorso mese di marzo e aveva già incassato il parere favorevole da parte del Dipartimento delle Politiche educative e scolastiche e del Dipartimento delle Politiche sociali e della promozione della salute». Di cosa si tratta nello specifico? «La sua introduzione ha lo scopo di creare una città a “misura di famiglia” attraverso un algoritmo che considera non solo l’eventuale presenza di figli a carico fino a 24 anni, ma anche di minori disabili, di
Sì anche dalla giunta del Lazio
Alemanno applaude ROMA. Sono tutte positive le razioni del mondo politico capitolino all’introduzione del ”Quoziente Roma”proposta dal gruppo consigliare dell’Udc. «Stabilita una volta per tutte, anche da parte del governo nazionale, la certezza di una contingenza grave, per lo sviluppo, l’economia, il mondo del lavoro, la sanità pubblica, è apprezzabile il tentativo che va in direzione del supporto delle famiglie e dei meno ha abbienti», commentato, per esempio, Bruno Astorre, vicepresidente del Consiglio regionale del Lazio. «Per questa ragione – ha aggiunto - ritengo interessante la proposta, da parte dell’Udc capitolina, di istituire il “Quoziente Roma”, ovvero interpretare la famiglia come ammortizzatore sociale e rimodulare, così, la tariffa Isee per chi sopporta maggiori carichi, e versa in situazioni di difficoltà. Sarebbe
utile che, al più presto, altri comuni, cosi’ come altri livelli istituzionali, partecipino ad un dibattito che conduca, in tempi rapidi, alla costituzione di misure di questa natura». Da parte sua, il sindaco Alemanno ha commentato: «Mi sembra ci sia una sostanziale convergenza di contenuti. Io apprezzo molto questa proposta dell’Udc, si tratta ora di vedere gli strumenti tecnici per realizzarla al meglio. Noi abbiamo una delibera di orientamento generale, quella che abbiamo fatto in Giunta, ma nel momento in cui si vanno a tradurre queste proposte in delibere applicative concrete c’è tutta la necessità di un dibattito ampio. Questa è una riforma strutturale profonda per la città e la vogliamo realizzare per le famiglie romane, quindi dobbiamo avere il massimo di convergenza di proposte e idee».
«La nostra proposta di delibera - dice ancora a liberal considera il reale ruolo della famiglia come ammortizzatore sociale e ha inoltre la capacità di incidere immediatamente sulle tariffe dei servizi educativi, sociali e culturali, quelli più direttamente legati all’assistenza delle famiglie con figli minori o con anziani in casa. L’obiettivo finale sta nell’estendere il “Quoziente Roma” all’addizionale Irpef. La sua introduzione sarebbe non solo un importante sgravio fiscale sui bilanci familiari, ma anche la prova che tale quoziente potrebbe essere applicato su scala nazionale. Siamo convinti che sia una proposta capace di porre le basi di una nuova riforma fiscale sociale che premia un tessuto familiare vivo, in crescita e al passo con i tempi. Occorre restituire centralità alla famiglia e, con essa, dare nuove prospettive al futuro dei cittadini romani». Non è escluso, anzi, al contrario, che questa iniziativa possa essere un primo passo verso un sistema di vantaggi più consistente per le famiglie ed avere un seguito a livello nazionale. «Credo che sarà presto applicata in tutta Italia – dichiara Alessandro Onorato - e credo che da Roma, dopo l’approvazione di questa delibera, debba partire l’invito ad Alemanno a farsi portavoce per realizzarla a livello nazionale. Il concetto di fondo è che le famiglie vanno parametrate in base alla reale composizione. Ci sono già contatti con alcuni Comuni come Fiumicino che la presenterà a giorni. Stimoleremo le varie maggioranze anche stando all’opposizione».
diario
8 giugno 2010 • pagina 7
Secondo Iata, pesano molto il vulcano e gli scioperi
Così ieri “AsiaNews”: dopo averlo decapitato, Murat gridò “Allah Akbar”
Torna in attivo il mercato aereo (non in Europa)
«Padovese ucciso secondo un rituale islamico»
BERLINO. Ricavi per 545 miliardi di dollari e un utile netto globale di 2,5 miliardi. Con l’Asia e il Nordamerica a trainare il settore e l’Europa che continua a deprimerlo. Sono queste le stime della Iata per il 2010, in netto miglioramento sul 2009 quando l’industria aerea ottenne ricavi per 483 mld e registrò perdite per 10. Lo studio della International Air Transport Association - 230 linee aree associate in rappresentanza del 93 per cento del traffico globale - è stato presentato in apertura del 60mo meeting annuale in corso a Berlino. «L’economia globale è in ripresa in maniera più rapida di quanto atteso», ha osservato il direttore generale dell’associazione, Giovanni Bisignani.Tra i principali segnali di ripresa ci sono proprio i 2,5 miliardi attesi di utile nel 2010 contro la stessa previsione appena tre mesi fa negativa per 2,8 miliardi. Un dato confortante, ha poi spiegato Bisignani, ma non sufficiente. A spingere in alto i profitti delle compagnie aeree, il traffico: quello passeggeri atteso in aumento del 7,1 per cento nel 2010 e quello cargo di ben 18,5 punti percentuali.
ISKENDERUN. La presunta insa-
Positive le attese anche per la capacità di carico, in aumento grazie all’ingresso comples-
Santoro ci ripensa Annozero resta in Rai Garimberti: «Mi prendo io questa responsabilità» di Gabriella Mecucci
ROMA. Il tormentone Santoro è arrivato alla sua seconda puntata ieri, con tanto di conferenza stampa del giornalista. Resterà in Rai? Se ne andrà? E Annozero? Dicono che non sia previsto nel palinsesto dell’anno prossimo, ma tutto fa pensare che potrebbe anche non finire così (Garimberti ha già fatto sapere che per lui la trasmissione può riprendere a settembre, «mi prendo io il cerino acceso»). Rischiamo un’estate di conversari sul futuro del giornalista. Così,insopportabilmente tenuti sulla corda con prediche sulla scarsa trasparenza e democraticità dell’informazione italiana e sul valore dei compensi e della liquidazione di Santoro, dovremo sorbirci l’ennesimo show. Gli italiani sono veramente esausti: dopo il caso D’Addario, il caso Marrazzo, il caso Bertolaso con annessa massaggiatrice brasiliana, un nuovo caso Rai, magari condito dagli inevitabili scontri politici e dalle polemiche fra Vespa e Santoro, sarebbe la goccia che fa traboccare il vaso. C’è solo da sperare che la nostra nazionale vinca i Mondiali e abbia lo stesso effetto che ebbe Bartali quando si aggiudicò il Tour del 1948. E che giornali e tg si concentrino su sua maestà il pallone, liberandoci della soap opera sul futuro del conduttore e dei suoi soci, a partire da Travaglio. Ieri, comunque,in conferenza stampa, Santoro ha messo in scena il meglio del suo repertorio. È partito scaricando tutte le responsabilità sulla Rai e sul suo presidente: «Per me sono sufficienti le parole di Garimberti, deve dire chiaramente, a nome del Cda o a nome personale, se Annozero deve andare o no in onda. Non sono io che devo decidere, è l’azienda».
re qualcosa di nuovo, ecco che la sinistra inalbera il vessillo dell’esclusiva. Il cerchio diventa mortale». Parole dure. Ma il punto più alto del santorismo viene raggiungo quando il conduttore indossa le vesti del perseguitato: «Nessuno ha subito come me violenze e mobbing. Ho passato un anno costellato di minacce, di diffide, di avvertimenti, che hanno reso il lavoro difficile se non impossibile».
Sulle questioni retributive non poteva mancare un affondo. Stimolato dalle polemiche sui suoi supercompensi, ha sfoderato il suo antico egualitarismo: «Gli stipendi di tutti i conduttori e direttori della Rai dovrebbero essere resi pubblici». Quanto a lui: «Ciò che ho percepito non è certo proporzionale a quanto ho consentito di incassare alla Rai, a partire dal 1988». E dunque, perché appassionarsi tanto ai suoi emolumenti? Santoro adesso sfida i colleghi presenti alla conferenza stampa: «Perché non chiedere che i compensi di tutti vengano messi in rete? Perché non fate questo gesto di coraggio? Se ne vedrebbero delle belle». Finito lo show, è partito il coro dei fan. Luca Telese, notista politico del il Fatto, il quotidiano che cerca di tradurre in carta stampata il santorismo affermatosi via etere, ha messo alle strette il direttore di Raidue Liofredi, che ha prudentemente risposto: «Santoro è una risorsa, ma non sono io a dover decidere sul suo futuro. Spetta ad altri». E a chi? A questo punto è toccato al consigliere Rai con più marcate inclinazioni verso il creatore di Annozero, scendere in campo. Rizzo Nervo ha detto che «sarebbe sbagliato chiedere di decidere al consiglio di amministratore dell’azienda, perché al suo interno si esprimerebbe un voto tutto politico». Ed è più che giusto - sempre parola di Rizzo Nervo «chiamare direttamente in causa il presidente della Rai. È lui che può risolvere la questione. Se decide, non è necessario tornare a discuterne nel Cda». E così Garimberti ha risposto nel tardo pomeriggio: «Ci metto la faccia, Annozero può ricominciare».
Il presidente ha deciso dopo una animata conferenza stampa nella quale il conduttore aveva lanciato l’ultimatum
sivo nelle diverse flotte di 1.340 nuovi aerei. Previsioni fatte anche alla luce di una proiezione sul prezzo del petrolio che Iata vede attestato in media a quota 79 dollari al barile nel corso del 2010. Quanto all’evoluzione del traffico in senso regionale, Iata assegna la maglia nera invece alle compagnie europee che a fine anno registreranno perdite per 2,8 miliardi di dollari, facendo comunque registrare un netto miglioramento rispetto ai -4,3 mld del 2009. Tre le cause delle perdite in Europa secondo Iata: le settimane di fermo dettate dalla nube del vulcano islandese, la scarsa crescita del Pil regionale (+0,9 per cento) e una serie di scioperi.
nità di Murat Altun, il 26enne che ha ucciso lo scorso 3 giugno monsignor Padovese, e che da oltre quattro anni viveva a fianco del vescovo, è ormai indifendibile. È questa la tesi di AsiaNews, l’agenzia del Pime. Mentre ieri si svolgevano i funerali del monsignore, infatti, l’agenzia ha pubblicato sul proprio sito internet altre verità legate all’uccisione di Padovese. «I medici che hanno effettuato l’autopsia - si legge nell’articolo - hanno rilevato che Padovese presentava coltellate in tutto il corpo, ma soprattutto dalla parte del cuore (almeno 8). La testa era quasi completamente staccata dal tronco, attaccata al corpo solo con la pelle della parte posteriore del collo. Anche
Poi la puntata acidognola: «Se non ce la fate a reggere un programma siffatto, perché non ce la fate, è inutile che scarichiate su di me la situazione. Dite che insieme abbiamo trovato un accordo. Io lo firmo e me ne vado». Ma Santoro ne ha per tutti. Per i suoi vecchi amici ed sodali del Pd: «Se cerco di far nasce-
la dinamica dell’uccisione è più chiara: è riuscito ad avere la forza di andare fuori, sulla soglia della casa, sanguinante e gridando aiuto e là avrebbe trovato la morte. Forse solo quando è caduto a terra, qualcuno gli ha tagliato la testa.
Testimoni affermano di aver sentito il vescovo gridare aiuto. Ma ancora più importante, è che hanno sentito le urla di Murat subito dopo l’assassinio. Secondo queste fonti, sarebbe salito sul tetto della casa gridando: “Ho ammazzato il grande satana! Allah Akbar!”. Il grido coincide perfettamente con l’idea della decapitazione, intendendo questa come un sacrificio rituale contro il male. Ciò mette in relazione l’assassinio con i gruppi ultranazionalisti e apparentemente fondamentalisti islamici che vogliono eliminare i cristiani dalla Turchia. Del resto, secondo un giornale turco, il Milliyet del 4 giugno, l’assassino avrebbe detto alla polizia di aver compiuto il gesto “per rivelazione divina”. Davanti a questi nuovi particolari sono forse da rivedere le dichiarazioni del governo turco e le prime convinzioni espresse dal Vaticano, secondo cui l’uccisione non avrebbe risvolti politici e religiosi».
pagina 8 • 8 giugno 2010
economia
Dall’alto. L’Italia accetta il diktat di Bruxelles. Sacconi: «Non c’è spazio di manovra per un negoziato». La commissaria Ue Reading: «Le regole vanno rispettate»
Le pensioni e il tabù 2012 Il governo verso l’equiparazione tra uomini e donne Mentre Angela Merkel annuncia una manovra-monstre di Francesco Pacifico
ROMA. Davanti ai colleghi dell’Eurozona Giulio Tremonti avrebbe giurato che l’Italia non indietreggierà dalla linea del rigore. Ma in attesa degli emendamenti delle Camere ci ha pensato la Ue a stravolgere l’equilibrio, in primis politico, della manovra da 24,9 miliardi di euro, obbligando l’Italia a equiparare entro il 2012 l’età di ritiro pensionistico tra uomini e donne nel pubblico impiego. Quella imposta da Bruxelles non è una misura di spesa, ma siccome è in grado di far recuperare alle casse dello Stato almeno 2,5 miliardi nel prossimo decennio, finisce per sbloccare risorse sulle quali tutti i soggetti colpiti dalla manovra (enti locali, pubblico impiego e imprese) si starebbero già fiondando.
Già in manovra l’Italia dovrebbe portare a 65 anni l’età pensionistica delle donne nel pubblico impiego, con la misura da far scattare nel 2012. Questo è l’ordine che si è visto consegnare ieri a Lussemburgo il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi, arrivato nel Granducato per strappare alla commissaria alla Giustizia, Vivianne Reading, una proroga di almeno un biennio. Invece le cose sono andate diversamente. «Non c’è spazio di manovra per un negoziato con la Commissione europea», ha ammesso Sacconi, «Deciderà che fare il consiglio dei ministri giovedì, tenendo conto delle pesanti sanzioni che graverebbero sull’Italia nel caso in cui non rispettassimo la sentenza». Sacconi ha raccontato di essersi trovato di fronte a «una posizione molto ferma della commissaria Ue alla Giustizia, Viviane Reding. Che mi ha confermato l’inderogabilità, a suo avviso, del termine già segnalato nella lettera formale al governo italiano, del 2012». Di conseguenza, «non c’è stato spazio per la trattativa, perché la commissaria ha confermato la negazione della gradualità». Rifiuto che si traduce nell’ennesima bocciatura al piano italiano di rinviare l’equiparazione soltanto al 2018 così come a un’ultima moratoria. Tanta fermezza la Reading l’ha motivata con il fatto che «l’Ita-
Il decreto governativo completa la trasformazione del sistema pensionistico
L’Europa entra a gamba tesa sulla mini-riforma italiana di Giuliano Cazzola segue dalla prima Sempre nel 2009 sono state assunte altre due misure importanti: a) l’età di vecchiaia delle dipendenti pubbliche è stata gradualmente allineata con quella degli uomini (raggiungerà i 65 anni nel 2018 se non interverranno, come prevedibile, norme di accelerazione a seguito del diktat della Unione europea); b) a partire dal 2015 i requisiti anagrafici di pensionamento verranno adeguati automaticamente alle dinamiche dell’attesa di vita, sulla base di un regolamento varato nei giorni scorsi dai ministri Sacconi e Tremonti. Infine, nel decreto legge è contenuta una ristrutturazione del sistema delle finestre che, in pratica, determinerà, a partire dal 2011, grazie ad un modesto innalzamento dell’età pensionabile, dei significativi risparmi: 360 milioni nel 2011, 2.600 milioni nel 2012, 3.500 milioni nel 2013, quando – lo ricordiamo per inciso – andrà a regime la revisione del pensionamento di anzianità come disposto (con le quote e la soglia minima obbligatoria d’età anagrafica) dalla legge n.247 del 2007.
La disposizione contenuta nella manovra produrrà una riduzione dell’incidenza della spesa pensionistica sul pil pari allo 0,2% dal 2013 al 2030, e dello 0,1% in seguito. Il meccanismo delle uscite diventerà più semplice e flessibile in tutte le tipologie pensionistiche. I lavoratori dipendenti potranno esercitare il loro diritto alla quiescenza trascorso un anno dalla maturazione dei requisiti; gli autonomi e parasubordinati trascorsi 18 mesi. Ovviamente, per calcolare il «sacrificio», è corretto detrarre dagli effetti del nuovo criterio quelli del vecchio. Si vedrà così che, per l’anzianità, nel caso del lavoro dipendente, si tratta dell’allungamento, in media, di soli tre mesi. Per gli autonomi di sei. Più lungo è il prolungamento nel caso della vecchiaia e del pensionamento con 40 anni di versamenti (e tale maggiore severità è oggettivamente discutibile). Nel settore della scuola restano in vigore le regole attuali. Sono, altresì, esentati dall’applicazione delle nuove norme i lavoratori in mobilità (nel limite di 10mila casi) o collocati in taluni fondi straordinari di solidarietà (credito e assicurazio-
ni). Le nuove disposizioni non si applicano altresì a coloro che avevano in corso il periodo di preavviso alla data del 30 giugno 2010 e che maturino i requisiti d’età anagrafica e di anzianità contributiva entro la data di cessazione del rapporto di lavoro e a coloro per i quali viene meno il titolo che abilita allo svolgimento dell’attività lavorativa per raggiungimento di un limite di età.
Con la richiesta di allineare a 65 anni entro il 2012 l’età pensionabile di vecchiaia delle dipendenti delle pubbliche amministrazioni la Commissione europea è entrata a gamba tesa nel dibattito italiano nelle stesse ore in cui il Governo era impegnato a spiegare agli italiani i provvedimenti, in materia previdenziale, contenuti nella manovra. Dopo l’insuccesso il governo italiano deve insistere un compromesso realistico, probabilmente intorno ad una data intermedia tra il 2018 (la scadenza indicata nella legge in vigore) e il 2012. Se si elevasse il requisito anagrafico di un anno ogni 18 mesi (anziché 24) si arriverebbe a regime nel 2016. Se poi diventasse necessario fare di più per raggiungere un’intesa, si potrebbe anche prevedere uno scalone finale di due anni, concludendo così il processo d’innalzamento graduale a metà del 2014. La commissione Ue sembra fare attenzione più al singolo albero che non all’intera foresta. Non ha senso valutare la questione dell’età pensionabile soltanto dall’angolo di visuale della discriminazione di genere. Paradossalmente l’Italia, per mettersi in regola, potrebbe pure allineare i pubblici dipendenti alle donne in una logica di riduzione dei requisiti, aprendo problemi di sostenibilità finanziaria del sistema censurabili dalla stessa Ue sotto altri aspetti. Che dire in conclusione? Gli interventi vanno bene, soprattutto perché si danno appuntamento con tutte le novità destinate ad entrare in vigore tra il 2013 e il 2015. Resta in chi scrive una domanda che porta con sé anche una punta d’amarezza. Le pensioni sono finite nella manovra a «fare cassa». Invece, se gli interventi di oggi fossero stati assunti – magari insieme a qualche altro – l’anno scorso, i risparmi potevano servire a qualche riforma degli ammortizzatori sociali. Ma il Governo sosteneva che la questione pensioni meritava solo di essere archiviata.
lia ha avuto 20 anni, da quando sono state adottate le direttive Ue sulla parità retributiva tra uomini e donne, ndr, per rispettare il diritto comunitario. Ora dovranno mettere in ordine il loro sistema». Al ministro non resta che «informare il Consiglio dei ministri di giovedì», spiegando che gli effetti di una stretta non saranno straordinari. Se nell’arco di dieci anni il risparmio ammonta a più di 2,5 miliardi, nel 2012 «le donne che non andrebbero in pensione sarebbero solo 30mila».
Più oneroso sarebbe non rispettare il diktat europeo. «L’Italia», ha aggiunto Sacconi, «incorrerebbe in sanzioni pesantissime, che possono oscillare, in funzione della gravità dell’infrazione, tra un minimo di 11.904 euro e un massimo di 714.240 euro per ogni giorno successivo alla sentenza di condanna». E di questi tempi, ha chiosato il ministro, «in Europa non c’è il clima giusto per fare sconti a nessuno». Al prossimo Consiglio dei ministri il governo dovrebbe decidere di applicare senza esitazioni la sentenza della Corte di giustizia, lasciando alle parti sociali soltanto la garanzia che «l’equiparazione» – come ha ripetuto anche ieri Sacconi – «non sarà estesa anche al settore privato». Ma non a tutti piace quest’atteggiamento. Critica dall’interno della maggioranza Barbara Saltamartini: «Il secco rifiuto da parte dell’Ue di trattare su un regime transitorio lascia davvero interdetti È evidente infatti che l’anticipazione al 2012 comporterà
economia
8 giugno 2010 • pagina 9
Partenza in rosso a Piazza Affari, sulla spinta del crollo di Tokyo
Ma la guerra dei titoli scuote i mercati europei Borse in altalena dopo il venerdì nero. Con l’Euro che ormai corre verso la parità con il dollaro di Alessandro D’Amato
ROMA. I numeri negativi sull’occupazione Usa di venerdì, la chiusura negativa delle borse asiatiche, gli scricchiolii dell’euro e il caso Ungheria: il combinato disposto di questi eventi fa sì che per i mercati europei arrivi l’ennesima giornata di passione, con l’altalena dei listini che fino all’ultimo tiene con il fiato sospeso gli operatori.
per molte donne un cambiamento traumatico nell’organizzazione dei propri progetti di vita. Che almeno le risorse derivanti dal riallineamento vengano destinate esclusivamente al welfare rosa». L’ex ministro del Welfare del governo Prodi, Cesare Damiano, ieri ha stigmatizzato la gestione della vicenda da parte dell’esecutivo. «Per le pensioni delle lavoratrici del pubblico impiego», ha detto, «ha trovato una soluzione respinta dall’Ue. Non vorremmo che adesso strumentalizzasse il richiamo dell’Europa per anticipare al 2012 la misura dei 65 anni per le donne della pubblica amministrazione. L’Ue non ci ha
Eppure l’input della Ue per qualcun altro potrebbe trasformarsi in un’occasione. Sebbene Sacconi non vede grandi risparmi all’orizzonte, l’equiparazione fa abbassare la spesa per il welfare di almeno 250 milioni all’anno. Che diventano mezzo miliardo nel biennio 2012-2013 interessato dalla prossima Finanziaria. Una cifra che è quasi il doppio rispetto a quanto Palazzo Chigi ha messo in campo per gli incentivi all’acquisto di elettrodomestici e motorini.
Dal fronte delle Regioni, che contribuiscono all’aggiustamento del deficit per oltre 4,5 miliardi di euro, Roberto For-
Il riallineamento potrebbe portare risparmi da 2,5 miliardi di euro nel prossimo decennio. Risorse che fanno gola a Regioni e pubblico impiego. Il monito della Marcegaglia: non toccare i tagli chiesto i 65 anni ma di equiparare le condizioni di lavoro di uomini e donne». Per il parlamentare del Pd «meglio sarebbe una misura di base uguale per tutti, 61 o 62 anni a partire dalla quale inserire il principio di un’uscita flessibile, fino ai 70 anni, liberamente scelta dai lavoratori».
Critici anche i sindacati. Il segretario confederale della Uil, Domenico Proietti, nota che «la rigidità della Ue è in contraddizione con la specificità del mercato del lavoro italiano». Dalla Ugl Marina Porro paventa che saranno «implementati in modo esponenziale i disagi per le donne e per le famiglie».
migoni ha fatto sapere di avere avuto rassicurazioni da Berlusconi «che il peso dei tagli sia distribuito in maniera più equa tra i comparti dello Stato». E se cresce il fronte di chi auspica che le risorse siano destinate al pubblico impiego per premiare il merito nel pubblico impiego, il ministro competente, Renato, Brunetta, ha auspicato «più equità nella scuola». La lista delle richieste già arrivata al tavolo di Tremonti sarebbe lunga, tanto che Emma Marcegaglia anche ieri ha richiamato la politica a non cedere sul versante del rigore: «Invito il governo a resistere a chi cercherà di ridurre tutti i tagli presenti nella manovra».
L’apertura mattutina era stata da brividi. Milano dopo i primi scambi perdeva l’1,67 per cento, Parigi l’1,7% e Londra l’1,40%. Verso mezzogiorno è cominciata una virata, con le piazze affari europee che tornano tutte più o meno in pari e quella italiana che diventa addirittura la migliore, dopo i buoni dati sugli ordini all’industria tedeschi, saliti oltre le attese, e il miglioramento oltre il consensus dell’indice Sentix che misura il sentiment degli investitori in Eurozona a giugno. Le perdite di Wall Street però fanno invertire la rotta, e alla fine il FTSE Mib perde lo 0,55%. Fanno peggio Parigi e Londra, con perdite intorno al punto percentuale, mentre Francoforte si mantiene sulla stessa linea. In mattinata avevano fatto paura le Borse asiatiche: Tokyo ha perso oltre il 3%. La forte ripresa dello yen sta penalizzando le società che esportano verso l’Europa. Toyota, per esempio, ha archiviato la seduta in forte calo; allo stesso modo è scesa la Canon. «Le aziende focalizzate sulle esportazioni sono colpite dai timori di una riduzione delle vendite», è il commento di Hiroyuki Fukunaga, capo investimenti di Investrust. Ma non è solo il Giappone. Negativi sono stati anche i listini di Hong Kong e Sidney.
sovrano in Europa ha spinto la corsa a investimenti sicuri e a puntare sui titoli di stato della Germania. Il rendimento del bund tedesco a dieci anni è così sceso ieri ai nuovi minimi storici fino al 2,548% che, in base ai dati a disposizione dell’agenzia Bloomberg, rappresenta il livello più basso da almeno il 1989. Lo spread (differenziale di rendimento) tra il Btp decennale e il bund tedesco viaggia così a ridosso dei massimi dal 1997 attestandosi su 169 punti base, dopo aver sfondato quota 170 venerdì scorso. La tensione sui titoli di Stato continua a colpire i Paesi ritenuti a rischio debito: lo spread dei bond decennali dell’Ungheria si attesta su 564 punti, quello della Grecia su 557 punti seguito da Polonia (357 punti), Irlanda (255 punti) e Portogallo (253 punti). Subito dopo è arrivato l’ennesimo record per il differenziale tra il rendimento del bund tedesco e del ’bono’ spagnolo a 10 anni che ieri mattina ha superato per la prima volta la soglia dei 200 punti base, arrivando a 203, il suo punto più alto dall’entrata dell’euro. Anche le assicurazioni contro la possibile insolvenza sui buoni del tesoro spagnoli (i credit default swap o Cds) a 10 anni sono cresciuti da 227 a 236,5 punti in mattinata. Sul fronte valutario l’euro, negli scambi sulla piazza di Tokyo, è sceso sotto 1,19 dollari per la prima volta dal 2006. La moneta unica europea ha toccato 1,188 sul biglietto verde. In Europa, però, le contrattazioni hanno riportato la divisa unica sopra la quota 1,19: il terminale indica un bid di 1,1947 e un ask di 1,195. Secondo i dati del Cftc, le posizioni aperte che scommettono su un apprezzamento del dollaro verso l’euro tramite il future sono diminuite del 12 per cento.
Su tutto pesa anche l’incognita ungherese: ma l’Fmi interviene per dire che non c’è pericolo
Un segnale importante è arrivato dai depositi overnight della Bce, cioè i soldi che vengono ”affidati” dai grandi istituti di credito alla Banca centrale europea solo per ”una notte”. La Bce remunera questi depositi solo allo 0,25%, cioè sotto il Tasso ufficiale (il Refi è all’1%): dare i proprio depositi a Francoforte con questo meccanismo, quindi, non è conveniente. Eppure, i depositi overnight hanno superato i 350 miliardi di euro. Si tratta del record dalla nascita dell’euro e significa che le banche non si fidano più l’una dell’altra e preferiscono dare soldi alla Bce rispetto che prestarselo a vicenda. E infatti l’Euribor a tre mesi, il tasso che le banche applicano fra loro per i prestiti trimestrali, è salito allo 0,711% dallo 0,707% precedente. L’Euribor a una settimana è salito dallo 0,364% allo 0,365% e quello a un mese è in rialzo dallo 0,432% allo 0,433. La paura di un contagio della crisi del debito
Il caso Ungheria nel frattempo aveva occupato le prime pagine dei giornali del week end, tanto da rendere necessario un inizio di settimana all’insegna delle correzioni e dei distinguo: l’Fmi ha precisato che per i magiari non c’era nessun rischio default, mentre il commissario agli Affari economici e monetari Olli Rehn al suo arrivo a Lussemburgo per la riunione mensile dell’Eurogruppo ha dichiarato che «non bisogna comparare la situazione economica e finanziaria dell’Ungheria a quella della Grecia». Il governo ungherese sta lavorando per ottenere due cose: un rapporto deficit/Pil al 3,8% e misure per stimolare l’economia allo tempo stesso, ha anche fatto sapere il ministro dell’Economia magiaro Gyorgy Matolcsi. I risparmi nel bilancio saranno ottenuti tagliando le spese della burocrazia e sfruttando le risorse della Comunità europea.
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panorama
ragioni&torti di Giancristiano Desiderio
Non innervosite i professori, comprateli! commissari d’esame possono essere direttamente pagati legalmente dagli studenti che devono esaminare? Alla domanda si è cercato di dare una risposta economica, tuttavia risulta del tutto evidente che la domanda pone non solo un problema economico, ma anche e soprattutto una questione scolastica: il pagamento fatto dagli studenti non condizionerà il lavoro dei commissari? Questa è la vera questione che pone il caso del liceo scientifico “Majorana” di Putignano in provincia di Bari.
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Il “Majorana” pare sia in bolletta. La situazione, infatti, non chiarissima. Da una parte c’è il preside, Pietro Gonnella, il quale dice «in cassa non ho niente. Equitalia ha persino chiesto il pignoramento perché non abbiamo versato la tassa sui rifiuti». Dall’altra parte c’è il ministero che risponde a muso duro dicendo che «è illegittimo da parte delle scuole chiedere soldi alle famiglie, a qualsiasi titolo» e «se qualche preside vuole fare politica, dovrebbe candidarsi alle elezioni». Elezioni a parte, si tratta di capire se ci sono o non ci sono in cassa a scuola o negli uffici provinciali o negli uffici regionali o al ministero i soldi necessari per pagare la commissione dei docenti che dovranno rappresentare lo Stato al liceo scientifico di Putignano e quindi essere pagati. Al momento la proposta del preside è questa: si invitano le famiglie dei 127 studenti a versare 145 euro a testa per pagare i commissari visto che i 30 mila euro che arriveranno dallo Stato non sono sufficienti. Le famiglie ancora non hanno deciso se versare o no il contributo per gli esami dei loro figli. Un contributo, comunque, che dovrebbe essere un semplice anticipo: primo o poi qualcuno dovrebbe rimborsare i 17.500 euro necessari. La vera questione, però, come detto, è quella scolastica. Tanto che nelle stesse parole del preside è ben percepibile: «Qui si tratta di non far innervosire i commissari con l’idea che saranno pagati in ritardo. Alla maturità, si sa, i ragazzi hanno bisogno di comprensione…». I commissari vanno pagati altrimenti si innervosiscono: così dice il preside. Ma è proprio questo il punto: le famiglie con il versamento che farebbero per compensare il deficit della scuola comprerebbero i commissari? Ecco perché dal ministero hanno fatto sapere che «è illegittimo da parte delle scuole chiedere soldi alle famiglie a qualsiasi titolo». Voglio sperare, cioè, che almeno al ministero abbiano conservato il senso dell’esame di Stato, senso che a me non piace ma che è pur sempre il sistema attualmente vigente: esame di Stato significa che non è un esame della scuola ma dello Stato fatto nella scuola. Ma che esame è quello in cui lo Stato obbliga a sostenere la prova per ottenere il diploma e chiede agli studenti - che non possono sottrarsi all’esame se vogliono il diploma - soldi per «non far innervosire i commissari d’esame»?
Aumenta la popolazione (merito degli stranieri) Siamo 60.340.328 e continuano a crescere le nascite di Gualtiero Lami
ROMA. Siamo diventati 60.340.328 di italiani, con un incremento di 295.260 unità (+0,5%) rispetto alla fine del 2008, dovuto alle migrazioni dall’estero: è il dato che si rileva dal censimento annuale dell’Istat riferito al 2009. Ma questo minimo aumento è dovuto esclusivamente all’incremento delle nascite di bambini figli di immigrati. Il movimento migratorio, sia interno sia dall’estero, è indirizzato prevalentemente verso le regioni del Nord e del Centro. Il saldo naturale risulta positivo soltanto nelle regioni del Sud. Di particolare rilievo rispetto al movimento dell’anno precedente sono la contenuta diminuzione delle nascite, la significativa diminuzione delle migrazioni dall’estero e la flessione dei trasferimenti di residenza interni. La quota di stranieri sulla popolazione totale è pari al 7%, in crescita rispetto al 2008 (6,5 stranieri ogni 100 residenti). L’incidenza della popolazione straniera è molto più elevata in tutto il Centro-Nord (rispettivamente, 9,8% e 9,3% nel Nord-est e nel Nord-ovest e 9,0% nel Centro), rispetto al Mezzogiorno, dove la quota di stranieri residenti e’ solo del 2,7%.
mento di stranieri che vivono in Italia, infatti, l’incidenza delle nascite di bambini stranieri sul totale dei nati della popolazione residente è passata dall’1,7% al 13,6% del totale dei nati vivi. In valori assoluti da poco più di 9 mila nati nel 1995 a più di 77 mila nel 2009. In particolare, nelle regioni del Centro-Nord si registrano valori percentuali di gran lunga superiori alla media nazionale. Peraltro, già da diversi anni in queste aree del Paese, dove gli stranieri sono più numerosi e gli insediamenti più stabili, il contributo degli stranieri alla natalità è divenuto rilevante. Nelle due ripartizioni del Nord i bambini nati da genitori stranieri sono circa il 20%. Nelle regioni del Centro sono il 15%, mentre nel Mezzogiorno soltanto il 3,6%. Il tasso di natalità è pari al 9,5 per mille. Supera la media nazionale nella ripartizione del Nord-est e varia da un minimo di 7,6 nati per mille abitanti in Liguria al massimo di 10,4 per mille nella provincia autonoma di Bolzano. L’aumento del numero dei nati determina un aumento del numero medio di figli per donna, che per il 2009 si stima pari a 1,41 confermando la leggera ripresa degli ultimi anni (era 1,37 nel 2007).
Nel Paese c’è ancora un forte movimento migratorio interno: come negli anni del boom, va dal Sud al Nord
Nel corso del 2009 sono nati 568.857 bambini (7.802 in meno rispetto all’anno precedente) e sono morte 591.663 persone (6.537 in più rispetto all’anno precedente). Pertanto il saldo naturale, dato dalla differenza tra nati e morti, è risultato negativo e pari a -22.806 unità, con un valore che rappresenta il picco negativo dell’ultimo decennio, dopo quello del 2003, anno in cui la mortalità toccò valori particolarmente elevati a causa di un’estate – come si ricorderà – straordinariamente calda. Il saldo naturale è positivo nella ripartizione Sud, specificamente in Campania e Puglia, ma anche nel Lazio, nelle due province autonome di Trento e Bolzano, in Veneto, Lombardia e Valle d’Aosta.Tuttavia, il numero dei nati è diminuito rispetto al 2008 (-7.802, pari all’1,4%), anno in cui si era registrato un incremento superiore a quello medio degli ultimi anni. Il decremento si registra in tutte le ripartizioni, in particolare nelle regioni del Centro (-3,3%) e del Sud (1,5%), mentre risulta più contenuto nel Nord-est e nelle Isole (-0,9%) e nel Nord-ovest (-0,3%). Una tendenza da mettere in relazione alla maggior presenza straniera regolare. Di pari passo con l’au-
Il numero di decessi, pari a 591.663, è superiore di 6.537 unità a quello del 2008. Il tasso di mortalità è però stabile, pari a 9,8 per mille, ed è più elevato nelle regioni del Centro-Nord, tradizionalmente a più forte invecchiamento. Al contrario di quanto avviene per la natalità, il peso della popolazione straniera risulta irrilevante per la mortalità, a causa della composizione per età particolarmente giovane rispetto alla popolazione italiana. Come già da diversi anni, l’incremento demografico del nostro Paese deriva da un saldo migratorio con l’estero positivo (6,0 per mille), mentre quello interno è pari a 0,3 per mille. Considerando i dati a livello ripartizionale, la somma dei tassi migratori interno ed estero indica il Centro come l’area più attrattiva, con un tasso pari al 9,7 mille. Segue il Nord-est (8,8 per mille). Il Sud acquista popolazione a causa delle migrazioni con l’estero, ma ne perde a causa delle migrazioni interne, con il risultato di un tasso migratorio appena superiore all’1 per mille. A livello regionale, l’Emilia-Romagna risulta essere la regione più attrattiva (11,8 per mille).
panorama
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La prima «cupola» sembra funzionare: nei prossimi giorni Bp ne sistemerà un’altra. E intanto il titolo risale
La marea nera? È un caso politico Negli Stati Uniti è sempre più scontro fra repubblicani e democratici sulla soluzione di Antonio Picasso tentativi di bloccare la falla nei fondali del Golfo del Messico procedono. Non si capisce però se la ragione penda in favore della British Petroleum, la quale ha sfoderato un nuovo e forse incauto ottimismo per aver trovato la giusta soluzione, oppure se sia più saggia la cautela assunta dal Governo degli Usa.
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La compagnia petrolifera britannica ha messo in azione una capsula sottomarina per bloccare 10 dei quasi 20mila barili di greggio che fuoriescono dalle tubature esplose della piattaforma Deepwater Horizon. Questa volta, al contrario dei tentativi finora condotti dal 20 aprile – data di inizio del disastro – l’operazione ha avuto successo. Londra quindi ha reso noto che entro venerdì prossimo sarà attiva una seconda capsula. Questo dovrebbe permettere un ulteriore contenimento della marea nera, la cui estensione ha ormai raggiunto un raggio di 320 chilometri. Da qui l’atteggiamento positivo dell’Amministratore delegato della compagnia, Tony Haward, lo stesso però che nelle settimane passate si era esposto in altrettanto conclamati successi, che poi non si sono realizzati. Lo scetticismo di Washington al contrario è basato sui rilevamenti diretti. Il comandante della Guardia Costiera Usa, l’ammiraglio Thad Allen, ha detto che in realtà per bloccare il
greggio sarebbe necessario chiudere l’intera struttura con una colata di cemento. Inoltre, ammesso che questa proceduta sia praticabile, sarebbero necessario almeno altre sei settimane per bloccare davvero la falla. Gli osservatori statunitensi sostengono, a differenza di quanto dicano alla Bp, che questa sarebbe incorniciata in una serie di altri cedimenti, di portata inferiore, ma che provocano comunque fuoruscite di petrolio. Tra le righe di
queste analisi tecniche si dovrebbe leggere che l’intera area dovrebbe essere chiusa alle trivellazioni, la Deepwater smantellata e quindi passare alle vere operazioni di bonifica del mare. L’opzione, per chiare ragioni industriali e finanziare, è fuori discussione agli occhi della Bp, la quale già vede il rischio di fallimento alla fine di tutto questo incubo. L’unica nota positiva e concreta per la compagnia è il +2,6% segnato ieri alla borsa di Londra. Indice, questo, che gli investitori hanno ancora fiducia nel titolo. Da un punto di vista ambientale il bilancio del disastro è senza precedenti.
La bonifica delle acque durerà fino all’autunno, quando sono previste le elezioni di mid-term
La marea nera dopo aver infettato le coste della Louisiana, è penetrata nel bacino del Mississippi, si è poi estesa verso la Florida e, secondo gli ultimi rilevamenti, adesso si starebbe dirigendo verso le coste meridionali del Texas. Nel frattempo anche Cuba teme per le sue spiagge. In termini faunistici, sono stati recuperati i corpi senza vita di circa 800 uccelli marini, 200 tartarughe e 30 delfini. In Louisiana il pellicano marrone, che l’anno scorso era stato finalmente escluso dalla lista delle specie in via di estinzione, adesso rischia di cadere nuovamente vittima di questo dramma. Lo scenario porta alla conclusione che i problemi dovranno essere gestiti in
partnership dalla Bp e dagli Usa. La spesa complessiva dell’accaduto ha raggiunto il miliardo di dollari. La Casa Bianca, già da fine aprile, ha sottolineato che il Governo federale non intende accollarsi alcuna responsabilità del disastro. Questo significa demandare tutto sulle spalle della Bp e dei suoi partner comproprietari della piattaforma e dell’indotto. Nella lista figurano tuttavia la multinazionale svizzera Transocean – responsabile degli impianti di trivellazione – e la Hulliburton, fornitrice delle strutture di cemento per l’edificazione della piattaforma. Ne consegue che i costi dei danni potrebbero non ricadere unicamente su suolo britannico, come pensano a Washington. Bensì è plausibile che ci siano ripercussioni finanziarie anche negli stessi Usa. Ma questo Obama non l’ha ancora riconosciuto.
Del resto per il Presidente degli Stati Uniti inoltrare il problema ai suoi responsabili materiali non significa evitarne le ricadute politiche. Ancora l’ammiraglio Allen ha calcolato che i lavori di bonifica delle acque del Golfo si protrarranno fino al prossimo autunno. Malauguratamente per Obama la previsione va a coincidere con le elezioni di mid-term. Per i repubblicani allora il disastro della marea nera potrebbe tradursi in un’occasione elettorale.
Appelli. Intervistato dal “Wall Street Journal”, Passera invita gli States a investire in Italia
L’autopromozione di BancaIntesa di Alessandro D’Amato
ROMA. Intesa Sanpaolo è una «banca per il Paese» piuttosto che una «banca di sistema» sul modello della Mediobanca di Enrico Cuccia. A sostenerlo è l’amministratore delegato della Ca’ de Sass Corrado Passera che, intervistato dal Wall Street Journal, ha preferito puntualizzare sulla definizione della banca da lui guidata in quanto «il termine sistema rappresenta un concetto molto poco chiaro. Quando sei la banca più grande del paese - ha aggiunto - ti devi sentire responsabile non solo nei confronti dei tuoi azionisti, ma almeno anche a un certo livello per l’intero paese». In particolare Passera ha sottolineato il ruolo delle infrastrutture e la necessità di «investire almeno 250 miliardi di euro in Italia nei prossimi 5 anni per rilanciare le strade, gli aeroporti e le reti di telecomunicazioni italiane». Una spesa che non cozzerebbe con il piano di austerità dei governi europei, visto che «la buona gestione della spesa pubblica è del tutto coerente con una certa percentuale di investimenti a lungo termine». Dopo di che spiega che
gran parte dei finanziamenti possono provenire da investitori privati se il governo sostiene l’investimento con garanzie. «Ci deve essere un meccanismo di garanzie pubbliche...», dice.
E a proposito della rete telefonica, un’infrastruttura di primaria necessità per l’am-
ha ribadito sul quotidiano Usa la necessità che le autorità di regolazione distinguano tra le banche commerciali e le banche che «hanno alimentato la crisi finanziaria». A suo avviso «a Intesa Sanpaolo non dovrebbe essere chiesto di mantenere lo stesso livello di capitale delle banche che operano con i derivati e altri prodotti finanziari rischiosi. Il modo in cui le due attività debbono essere regolate - aggiunge deve essere totalmente diverso, visto che facciamo attività totalmente differenti, siamo animali molto diversi». Sulle prospettive di Intesa, infine, l’ad è piuttosto chiaro: «La banca non ha in programma alcun tipo di acquisizione che potrebbe ampliare notevolmente le dimensioni dell’istituto di credito fuori dall’Italia».
L’ad del colosso del credito dice: «Siamo banca di Paese, non di sistema» come intendeva Cuccia. E per il futuro: «È tempo di pensare alle comunicazioni» modernamento dell’Italia, l’ad di Intesa dichiara: «Telecom Italia dovrebbe semplicemente accordarsi insieme con i più piccoli rivali, piuttosto che cercare di finanziare una rete in fibra ottica per conto suo. «Dobbiamo concentrare i nostri sforzi in un moderno, efficace tipo di rete, perché la concorrenza in questa fase non è il modo migliore per investire i soldi». Passera poi
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Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi figura a buon diritto nel pantheon dei padri della nuova Italia, il cui processo di gestazione comincia in parallelo con l’arrivo delle truppe francesi nel nostro Paese, sulla scia delle convulsioni politico-militari seguite alla Rivoluzione francese. È questa la ragione che, alla vigilia del 150° dell’Unità, spiega l’organizzazione del convegno internazionale Sismondi e la nuova Italia da parte dell’Associazione di studi sismondiani, che si terrà dal 9 all’11 giugno a Pescia (con apertura il 9 mattina a Firenze presso il Gabinetto G.P. Vieusseux e chiusura a Pisa l’11, presso la facoltà di Economia), con la partecipazione di studiosi italiani e stranieri delle diverse discipline interessate a questa straordinaria figura di intellettuale dell’800: dalla critica letteraria alla teoria politica, dalla scienza economica alla ricerca storica.
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I Sismondi discendevano da una famiglia pisana trapiantata nel Delfinato nel XV° secolo, dove abbracciarono il calvinismo e il loro nome venne francesizzato in Simonde. Dopo la revoca dell’editto di Nantes, dovettero emigrare a Ginevra, dove la famiglia mise profonde radici e il padre esercitò a lungo le funzioni di pastore protestante, riprendendo l’antico nome di Sismondi. Il calvinismo ginevrino e la passione per Rousseau, respirato nella stessa città, influenzarono sempre il giovane Jean-Charles, che proprio a Ginevra portò a termine gli studi classic
Due le idee centrali della sua opera: la storia come libertà e progresso; la storia come risultato della natura delle istituzioni e dei governi, in cui la centralità italiana avrebbe acquistato nel tempo anche una valenza politica I l p a d r e l o v o l l e commerciante e banchiere, e per questo lo inviò a Lione presso il banchiere Eynard, sperando facesse fortuna e potesse contribuire ad aiutare le declinanti fortune della famiglia. La Rivoluzione francese pose termine all’esperimento e Sismondi dovette tornare a Ginevra nel 1792; ma il clima politico della città era cambiato e i Sismondi, considerati legati all’aristocrazia locale, furono costretti a diciotto mesi di esilio in Inghilterra, che consentirono però al giovane di apprendere la lingua e di studiare l’economia e le istituzioni del Paese. A metà del 1794 la famiglia decise di tornare a Ginevra, ma vi trovò una situazione politica ancora più incandescente e fu costretta a vendere tutto e cercare rifugio in Toscana, dove il giovane JeanCharles aveva individuato, vicino a Pescia, nella Val di Nievole, una tenuta a Valchiusa, che venne acquistata e divenne da quel momento il rifugio della famiglia. La vita di Sismondi è stata ricca di si-
il paginone
La straordinaria figura di un pensatore dell’Ottocento, capace di spa tuazioni paradossali e in Toscana si determinò la prima di queste situazioni, tanto più significativa in quanto avrebbe in qualche modo anticipato una contraddittorietà di giudizi su di lui destinata a continuare tutta la vita e oltre. Se a Ginevra i Sismondi erano stati perseguitati come sospetti filoaristocratici, in Toscana i sospetti si ribaltano: la provenienza dalla Ginevra giacobina li dipinge alla polizia locale come dei potenziali rivoluzionari. E così Sismondi conosce per ben due volte, nel 1796 e nel 1799, le prigioni del Granducato. Il paradosso è evidente ed è un segno dei tempi, tempi di manicheismo e di estremismo: due atteggiamenti che sarebbero sempre stati estranei al giovane Jean-Charles, il quale, forte dell’esperienza maturata in Inghilterra, proprio in quegli anni travagliati, comincia i suoi studi con una sorta di diario scientifico dal titolo Recherches sur les constitutions des Peuples libres, destinato a restare inedito nell’archivio dello scrittore, a Pescia, fino al 1962. La riflessione muove dalla contraddizione vissuta sulla propria pelle tra i princìpi della Rivoluzione e il loro rovesciamento nel dispotismo rivoluzionario. Gli ideali rousseauiani non scompaiono ma non cercano di realizzarsi attraverso un contratto sociale astratto, quanto piuttosto nella verifica storico-empirica dei risultati, con un equilibrio e un bilanciamento dei poteri (balance des pouvoirs), in modo da non mettere mai la minoranza, quale che essa sia, in condizioni di essere soggetta all’arbitrio della maggioranza. In questo percorso Sismondi comincia a studiare non solo le costituzioni dei maggiori Paesi europei, ma anche quelle delle principali città italiane all’epoca della civiltà comunale, che poi saranno al centro della sua Histoire des républiques italiennes du moyen age. Parallelamente, sia per interesse scientifico, sia per esigenze pratiche connesse alla sua nuova condizione di proprietario terriero, Sismondi si interessa all’agricoltura della regione dove la famiglia ha ormai messo radici. Nasce così il Tableau de l’agriculture de la Toscane, pubblicato nel 1801 al momento del ritorno a Ginevra, per assumere importanti funzioni amministrative. Anche in questa opera c’è un seme destinato a dare frutti maggiori. Sismondi individua nella mezzadria il segreto della prosperità dell’agricoltura toscana e dell’equilibrio tra produzione e consumi: un problema che sarà sempre al centro della sua riflessione, attenta soprattutto agli effetti che le condizioni economiche e la loro evoluzione potevano avere sulla prosperità delle popolazioni.
Al Tableau seguirà due anni dopo De la richesse commerciale, una riproposizione dei princìpi al centro dell’opera di Adam Smith, riletti alla luce della situazione determinata in Europa dalla egemonia napoleonica e in forte polemica contro ogni forma di monopolio e di barriera doganale. L’opera gli diede fama europea e, attraverso l’amicizia di Jacques Necker, gli
Il nonno di Un convegno dedicato a Simonde de Sismondi, l’intellettuale che portò le idee del liberalismo europeo nel Risorgimento italiano di Aldo G. Ricci aprì le porte del salotto di Madame de Stael nel castello di Coppet , mettendolo in contatto con tutti gli intellettuali che lo frequentavano. Fu un salto di qualità decisivo per il nostro, sia sul piano della maturazione intellettuale,
sia su quello dei rapporti personali, che misero progressivamente Sismondi al centro di una delle più vaste reti di relazioni intellettuali e politiche (Benjamin Constant in primo luogo), come testimonia il suo im-
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aziare dalla storia all’economia, dalla letteratura alla teoria politica delle repubbliche comunali veniva rintracciata la radice delle future libertà europee.
L’Italia che per prima aveva insegnato la libertà all’Europa, aveva poi conosciuto il declino a partire dal XVI secolo, proprio sotto il tallone di quelle potenze che aveva educato e incivilito. Era un’analisi, ma era anche, in embrione, un programma politico, perché lo stesso Sismondi ne traeva la conclusione che la libertà in Europa non avrebbe mai potuto essere al sicuro finché anche l’Italia non avesse ritrovato la libertà perduta. Ed era un programma che si sarebbe via via delineato in modo talmente esplicito alla sua riflessione successiva, che egli stesso nel 1832 decise di riproporre le Repubbliche in un volume di sintesi, uscito contemporaneamente in Inghilterra e in Francia, proprio per sollecitare i paesi più liberi a non chiudere gli occhi di fronte ai problemi dell’Italia e degli Italiani. Il messaggio, come si suol dire, e in particolare dopo la caduta di Napoleone e il venir meno delle speranze dei liberali in occasione del suo effimero ritorno, era forte e chiaro, anche se gli anni del Risorgimento erano ancora lontani. Ma gli intellettuali e i patrioti alla ricerca di una bussola lo intesero perfettamente, anche se in modi assai diversi tra loro. Da Balbo a Gioberti, da Foscolo a Manzoni, da Mazzini a Cattaneo e Ferrari, dai redattori del Conciliatore a quelli dell’Antologia, senza dimenticare Cavour, Confalonieri, Santarosa, ma l’elenco potrebbe continuare quasi all’infinito, tutti o quasi si accorsero che le Repubbliche costituivano un pilastro importante per le fondamenta di un progetto nazionale, tanto più significativo, in quanto costruito da uno straniero che si sentiva però italiano per antiche origini e scelta intellettuale.
i von Hayek menso archivio conservato a Pescia, che in questi anni l’Associazione di studi sismondiani ha contribuito a informatizzare e valorizzare. Seguono i viaggi in Italia e in Germania con Madame de Stael (1804-5, 1808-9) e prende forma nella mente di Sismondi il disegno dell’opera che gli avrebbe dato fama di grande storico: l’ Histoire dei républiques italiennes du moyen age, ben 16 volumi apparsi tra il 1807 e il 1818. L’opera germina dalle Ricerche e cerca nella dinamica storica delle diverse repubbliche, attraverso Machiavelli, Guicciardini e Muratori, la conferma dei princìpi in esse delineati.
Due le idee centrali: la storia come libertà e progresso e la storia come ri-
sultato della natura delle istituzioni e della politica dei governi, in cui la centralità delle vicende italiane, assunta come grande tema storiografico, avrebbe acquistato nel tempo anche una valenza politica, contribuendo fortemente alla formazione di una coscienza nazionale in Italia orientata in senso liberale. Le Repubbliche costituiscono un’opera rivoluzionaria nel senso più profondo del termine. Rivoluzionaria per la scelta del soggetto, mai messo al centro di un lavoro così impegnativo e sistematico; e rivoluzionaria per le implicazioni che discendevano dalla tematizzazione delle vicende italiane come vicende nazionali, come tessere di una trama nazionale. Inoltre le Repubbliche costituivano un atto d’amore e di ammirazione per l’Italia, perché proprio nelle libertà
Chiuso il lungo capitolo delle Repubbliche, Sismondi riprende in mano un breve saggio sull’economia politica scritto nel 1818 per l’Enciclopedia di Edimburgo e l’anno successivo pubblica l’altra opera destinata a dargli una contraddittoria fama di “eretico” tra gli economisti: i Nouveaux principes d’économie politique. Lo studio era stato redatto alla luce delle crisi commerciali che avevano interessato l’Inghilterra e l’Europa in quegli anni ed era una critica aperta della strada imboccata dagli economisti della “scuola inglese”, che faceva dell’economia politica una scienza autonoma, volta esclusivamente alla crescita quantitativa della produzione, senza considerare i problemi sociali posti dall’introduzione delle macchine e dalla conseguente crescita della disoccupazione, con inevitabili ricadute in termini di consumi. L’economia “inglese” veniva definita “crematistica”, scienza della ricchezza astratta, mentre l’economia politica, secondo Sismondi, avrebbe dovuto occuparsi della felicità pubblica, ed essere quindi allo stesso tempo scienza di governo e scienza sociale, ma prima di tutto scienza storica: parole fuori dal coro che suscitarono l’interesse dello
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stesso Marx. Parole che tuttavia, a ben vedere, erano il proseguimento su un altro terreno dello stesso discorso avviato prima con le Ricerche e poi con le Repubbliche. La libertà, eterno soggetto della ricerca sismondiana, deve essere perseguita nelle istituzioni e nell’economia attraverso l’indagine storica delle forme che ha assunto e di quelle che l’hanno invece repressa e cancellata. Lo sviluppo economico, direbbe Sismondi (e sembra di ascoltare le parole dei ripetuti vertici internazionali di fronte alla crisi di questi mesi), è tema troppo importante per essere lasciato completamente nelle mani di imprenditori e banchieri. Così come la libertà politica non può essere affidata solo a leggi astratte formulate da teorici che prescindono dai contesti cui le leggi vanno applicate. Questo è il campo della scienza di governo, sintesi anzitutto storica delle esperienze concrete di libertà e di sviluppo economico e culturale.
In contrapposizione agli studiosi anglosassoni, riteneva che l’economia avrebbe dovuto occuparsi della felicità pubblica, essendo allo stesso tempo scienza di governo e scienza sociale, ma soprattutto scienza storica In questo percorso, caratterizzato da un liberalismo immune da tentazioni o cedimenti demagogici o autoritari, Sismondi trovò un terreno naturale di ricerca nelle repubbliche comunali italiane, nelle quali individuò la culla della rinascita della libertà in Europa, dopo la decadenza succeduta alla caduta dell’Impero romano. Questa scoperta, o invenzione che dir si voglia, aveva conseguenze importanti. Anzitutto riuniva le sparse realtà comunali in un quadro unico, nazionale. Poi ne faceva il modello per il successivo diffondersi delle libertà in Europa. E infine poneva il problema di un rinascimento o di un risorgimento della libertà in Italia come problema cruciale con cui dovevano confrontarsi gli Italiani in primo luogo, ma anche gli europei in quanto tali, perché la libertà era indivisibile per natura. Q u e s t a l a l e z i o n e di Sismondi: una lezione che i patrioti degli anni successivi, almeno fino alla svolta del 1848-49, ritennero come essenziale nella formazione di una coscienza nazionale italiana. Sismondi rappresenta quindi una componente essenziale del nostro Risorgimento (non a caso inserito a suo tempo nella pubblicazione “ufficiale” Uomini e fatti del Risorgimento): una componente largamente rimossa dal dibattito culturale e storiografico degli ultimi anni, secondo un destino che l’accomuna allo stesso Risorgimento, come risulta crudelmente ma efficacemente evidenziato dalle iniziative imbarazzate e contraddittorie che si annunciano per gli stanchi, ma inevitabili riti per il 150° dell’Unità.
Gerusalemme è sempre più isolata. Colpa dell’ostilità nei suoi confronti o della politica muscolare di Netanyahu?
La solitudine di Israele Come è cambiato il mondo dopo la nuova crisi di Gaza? Rispondono Massimo Cacciari e Angelo Panebianco di Riccardo Paradisi
orse mai come oggi Israele è stata così sola. Certo gli Stati Uniti si pronunciano perché sia Tel Aviv a condurre le indagini su quanto è accaduto – e con la Casa Bianca si esprimono in questo senso anche Italia ed Olanda – ma insomma pesano la netta condanna del premier britannico David Cameron al blitz di lunedì scorso cui è seguita la richiesta inglese di un’inchiesta internazionale e la presa di posizione del presidente francese Nicolas Sarkozy che ha invitato Netanyahu a dar seguito alle richieste del consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite relative all’attivazione di «una inchiesta credibile e imparziale sulle condizioni dell’intervento israeliano contro la ”flotta della
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tato all’ostilità generale nei suoi confronti o alla politica muscolare del suo premier Netanyahu ma che resta un dato di fatto, gravido di conseguenze drammatiche. Che già si stanno manifestando: ieri s’è registrata una nuova impennata di violenza nella striscia di Gaza, in seguito all’uccisione in mare di alcuni uomini rana palestinesi e a un attacco aereo condotto dall’aviazione israeliana nel nord della striscia contro lanciatori di razzi.
Intanto Theran annuncia che la Mezzaluna Rossa iraniana ha deciso di inviare questa settimana due navi con aiuti umanitari a Gaza e ha chiesto la disponibilità di volontari che vogliano imbarcarsi e accompagnare il materiale. Una nuova provocazione, secondo Israele, che contribuisce ad alimentare una ten-
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politologo Angelo Panebianco, interpellati da liberal, leggono da due punti di vista differenti. «Israele sta drammaticamente sbagliando tutto – dice Cacciari – drammaticamente per Israele ma anche per tutti noi, visto che davvero nessuno può o deve chiamarsi fuori dal campo di tensione del conflitto araboisraeliano. Azioni come quelle
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libertà”». A ben vedere però l’assalto alla flottiglia pacifista è solo l’innesco dell’accelerazione d’un processo di isolamento dentro cui Israele è avvitato da anni. Processo che può essere addebi-
li sta invece regalando tutti all’Iraq o al fondamentalismo. Una tragedia». Malcentrate e sbagliate secondo Cacciari sono anche le retoriche anti-Onu di chi sostiene che Israele e Sati Uniti dovrebbero da soli, unilateralmente, dirime-
Anche in Europa ci si dimentica del rigore con cui Israele ha sempre condotto le sue indagini interne. Come nel caso di Sabra e Shatila della scorsa settimana non possono certo favorire presso l’opinione pubblica internazionale le legittimissime esigenze di sicurezza di Israele. L’assalto alla nave Marmara non è solo una
Otto anni di Bush sono stati una tragedia e Obama è un presidente debolissimo. Agli israeliani ormai serve convivere con i palestinesi sione già oltre la soglia di guardia. Il quadro attuale è questo, ma come si diceva il contesto che gli fa da sfondo e lo precede è quello di un progressivo isolamento di Israele nella comunità internazionale. Isolamento che il filosofo Massimo Cacciari e il
dell’Onu che possono sindacare sulla condotta israeliana: «Che siano il Sudan o la Cina a fare la morale a Tel Aviv fa sorridere: si tratta di Paesi che come molti altri dispiegano retoriche pacifiste o democratiche non avendo assolutamente le carte in regole per predicare pace e giustizia. Ma queste sono argomentazioni che lasciano il tempo che trova-
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tragedia umana è anche e soprattutto una tragedia politica. Perché il suo effetto è l’incrudirsi progressivo dell’isolamento israeliano, l’esasperarsi fatale di una psicologia dell’accerchiamento». Certo, riflette ancora Cacciari, non sono certi Paesi
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no. Il punto davvero cogente della questione è che gli Stati Uniti non sono più riusciti a prendere la strada che Clinton aveva intuito. E che erano i negoziati di pace finiti più di dieci anni fa con l’assassinio di Yitzhak Rabin non certo per mano palestinese».
Un filo interrotto, difficile da riannodare, perché intanto – dice l’ex sindaco di Venezia – «Otto anni di bushismo sono stati una tragedia per il Medio oriente e pergiunta Obama è oggi un presidente debolissimo. Ma per questo è interesse degli israeliani per primi trovare un ubi consistam coi palestinesi, senza attendere di vederli tutti fanatizzati. La politica muscolare di Tel Aviv
re la questione mediorientale. «Certo che l’Onu non è quello che noi sogniamo, che non rispecchia i nostri desiderata, che possono essere desiderata terzomondisti o di pace universale o di vecchio unilaterialismo ultraoccidentale. Ma insomma se non ci fosse l’Onu a interporsi in aree strategiche confinanti col nucleo incandescente del conflitto arabo-israeliano staremmo freschi. Non scherziamo insomma». Meno male che c’è l’Onu insomma dice il professor Cacciari e meno male che c’è il Papa: «Da decenni, la mancata risoluzione del conflitto israelo-palestinese, il non rispetto del diritto internazionale e dei diritti umani, e l’e-
scenari/medioriente Il Papa ha chiamato gli uomini di pace a fare propria la «pazienza di Dio» e la «pazienza del bene»
Ma il documento di Benedetto XVI non parlava solo a Gerusalemme Il lavoro pre-sinodale non risparmia critiche a nessuno dei protagonisti del Medio Oriente: ebrei, musulmani e fondamentalisti cristiani di Luigi Accattoli apa Benedetto dà il meglio quando mette piede nei conflitti: fu così il maggio scorso con il viaggio in Terra Santa e quella dinamica si è ripetuta in questo fine settimana con la visita a Cipro. Due terre attraversate da muri e dunque due missioni proibite per un profeta disarmato, chiamato a svolgerle presso ospiti in guerra tra loro o in conflitto aperto con il «vicino» che abita «dietro la chiesa», come si è espresso il vecchio sufi che ha incontrato il Papa sabato sera a Nicosia. Il capolavoro del viaggio in Terra Santa era stato di riuscire a parlare a tutti e a farsi intendere, nella sostanza, da tutti. Il contenuto migliore della tre giorni cipriota (4-6 giugno) è nella chiamata dei tribolati e degli uomini di pace a fare propria la «pazienza di Dio» e ad avere come principio guida la «pazienza del bene» – o quantomeno ad abbassare le «tensioni» per evitare «un bagno di sangue ancora più grande».
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Dietro a questo richiamo sapienziale c’è un’idea strategica, messa in chiaro dal documento preparatorio (Instrumentum laboris) del Sinodo per il Medio Oriente – si farà a Roma dal 10 al 24 ottobre – che il Papa ha consegnato domenica ai destinatari: è l’idea che ogni rivendicazione violenta delle proprie ragioni, siano pure le più sante, costituisce un danno per i popoli di quell’area. In quel documento sono stati chiamati per nome sia l’occupazione israeliana dei territori palestinesi, sia l’estremismo musulmano, sia il fondamentalismo delle sette cristiane statunitensi che si allea con la componente teocratica di Israele. Per cogliere l’audacia che ha guidato il Papa teologo in questa
trasferta basta un’occhiata a una mappa di Cipro: il “muro” che separa dal resto dell’isola la zona settentrionale occupata dalla Turchia passa per la capitale Nicosia e costeggia la sede del rappresentante della Santa Sede. Egli stesso ha così accennato a quella situazione ambientale domenica sera nel commiato all’aeroporto: «Avendo pernottato in questi ultimi giorni nella Nunziatura apostolica, che si trova nella zona cuscinetto sotto il controllo delle Nazioni Unite, ho potuto vedere di persona qualcosa della triste divisione dell’isola».
Andare a Nicosia in questo momento è un gesto di coraggio perché nessun ca¬po di Stato visita oggi la Cipro divisa, come nessuno andava l’anno scorso in Medio Oriente avendo come obiettivo una visita in contemporanea nei territori palestinesi e in Israele. Il Papa l’ha potuto azzardare, quel gesto, perché le sue priorità sono altre e pongono come prima la finalità ecumenica: in questa direzione egli poteva contare sulla buona rispondenza dell’arcivescovo ortodosso di Cipro, Chrisostomos II, che l’aveva invitato unitamente al governo e che ha accettato di tenere con lui un incontro di preghiera. Cipro è il primo paese a maggioranza ortodossa visitato da Benedetto e il sesto visitato da un Papa, dopo i cinque raggiunti da Giovanni Paolo tra il 1999 e il 2002: Romania, Georgia, Grecia, Ucraina, Bulgaria. Come in altre occasioni ha fatto da apripista la Comunità di Sant’Egidio che ha tenuto a Cipro nel 2008 uno dei suoi
meeting meglio riusciti. Nel 2009 Cipro aveva poi ospitato una sessione della Commissione mista per il dialogo tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa. Altra priorità papale è la pace nell’insieme della regione medio-orientale e la possibilità di sopravvivenza in essa delle comunità cristiane. Sono i temi del Sinodo per il Medio Oriente di cui a Cipro si è tenuta, per così dire, una riunione preparatoria. L’obiettivo è quello di far crescere una cultura di pace e anche a tal fine è essenziale la presenza delle attuali piccole minoranze cristiane, che costituiscono – come ha detto ad Avvenire lo storico Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio – «un seme di democrazia e di pluralismo: altrimenti questi Paesi si ridurrebbero a un totalitarismo musulmano».
In quel contesto ha fatto colpo l’invito del Papa all’arte della pazienza, declinata anche in chiave ecumenica e politica: «Con tutti questi episodi che viviamo, c’è sempre il pericolo che si perda la pazienza, che si dica: adesso basta, che non si voglia più cercare la pace». Si tratta invece di «imitare Dio, la sua pazienza, e dopo tutti i casi di violenza non perdere il coraggio, non perdere la longanimità e ricominciare» nella «certezza» che «la violenza non è la soluzione ma la soluzione è la pazienza del bene». Anche il rapporto con l’islam l’ha proposto in termini di pazienza, invitando i cristiani ad avere «una comune capacità» di dialogo con i musulmani che «sono nostri fratelli nonostante le diversità». Il documento pre-sinodale non risparmia critiche a nessuno dei protagonisti fiammeggianti del Medio Oriente: «Da decenni, la mancata risoluzione del conflitto israelo-palestinese, il non rispetto del diritto internazionale e dei diritti umani, e l’egoismo delle grandi potenze hanno destabilizzato l’equilibrio della regione e imposto alle popolazioni una violenza che rischia di gettarle nella disperazione». In esso viene bollata come «un’ingiustizia politica» l’occupazione israeliana dei territori palestinesi ma si deplora anche le «correnti estremiste» dell’Islam che sono «una minaccia per tutti». C’è persino un passaggio che prende di mira le sette fondamentaliste cristiane del Nord-America che «giustificano, basandosi sulle Sacre Scritture, l’ingiustizia politica imposta ai palestinesi, il che rende ancor più delicata la posizione dei cristiani arabi». www.luigiaccattoli.it
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goismo delle grandi potenze – ha detto il Santo Padre – hanno destabilizzato l’equilibrio della regione e imposto alle popolazioni una violenza che rischia di gettarle nella disperazione». Ratzinger viene contestato per aver parlato di politiche di destabilizzazione, Cacciari replica: «Non vogliamo usare la parola destabilizzante. Bene, allora diciamo che certe politiche non hanno certo favorito la stabilizzazione. Inoltre – fa notare Cacciari – il Papa non ha dimenticato nessuno nella sua condanna: ogni fondamentalismo è passato al setaccio della sua critica da quello israeliano a quello islamico passando per quello cristiano: pulsioni che mettono in vibrazione più o meno consapevolmente il terribile archetipo apocalittico».
Per Angelo Panebianco invece è l’ostilità anti-israeliana – internazionale e non solo araba – a produrre errori tragici come quello del blitz israeliano sulla nave pacifista: «Cadendo stupidamente nella trappola preparata dai simpatizzanti di Hamas e spargendo sangue, il governo israeliano ha fatto un regalo ai suoi nemici. E ha dato altra linfa alla generale ostilità per Israele, l’unico Paese al quale non si perdona niente. Pur essendo anche l’unico Paese che vive in permanente stato d’assedio dalla sua fondazione», scriveva Panebianco sul Corriere della Sera qualche giorno fa. A dimostrazione che esiste un’ostilità preconcetta nei confronti di Israele resta il fatto dice a liberal Panebianco che «si fa molta fatica a far capire che tra lo stato di Israele e i suoi governi esiste una differenza. È evidente che questo sia un governo inadeguato, miope, schiacciato sulla difensiva. Una posizione pericolosissima per Israele che non può eludere la questione di Gaza. Sulla quale Tel Aviv deve invece aprire un’azione diplomatica vasta e coraggiosa. Dall’altra parte la proposta da parte del Sudan per esempio di mettere sotto inchiesta Israele è semplicemente ridicola. Anche in Europa ci si dimentica però del rigore con cui Israele ha sempre condotto le sue indagini interne. Come nel caso del massacro di Sabra e Shatila». Detto questo «di fronte a un isolamento internazionale più pronunciato il governo di Israele deve essere più interlocutorio e certo non l’aiuta in questa impresa l’assecondare il partito dei coloni». Anche perché siamo all’interno d’un generale indebolimento della leadership statunitense. «Sta scricchiolando tutto il sistema d’alleanze internazionale della Casa Bianca – dice Panebianco – la Turchia fibrilla, l’America latina è uscita dal controllo... Israele deve la sopravvivenza alle sue armi e alla protezione statunitense. Se quest’ultima si indebolirà, le armi non basteranno ad assicurare la salvezza».
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scenari/medioriente Crisi. Sempre più alto il rischio di un nuovo conflitto
L’azzardo di Teheran: «A Gaza andiamo noi. Armati» Ahmadinejad lancia una nuova minaccia contro il governo di Israele: «Siamo pronti a mandare tre navi guidate da pasdaran nella Striscia, occupata da criminali ebrei». Mentre Turchia, Siria, Palestina e Brasile si riuniscono per condannare il blocco. E l’Onu pensa a una risoluzione più dura a tensione in Medioriente non accenna a diminuire, e l’orizzonte diplomatico di Israele appare sempre meno tendente al chiaro. I promotori sono sempre gli stessi, la Turchia di Erdogan e l’Iran di Ahmadinejad, ma il tragico arrembaggio alla Freedom Flotilla compiuto dai commando di Tzahal ha fornito a entrambi un nuovo strumento per provocare lo storico avversario. E se gli spettri della Sarajevo di inizio ‘900 sono forse non perfettamente calzanti, a un secolo di distanza, la possibilità che si verifichi un incidente che accenda la peggiore miccia disponibile aumenta di ora in ora. Ieri, ad esempio, la riunione della Cica – la Conferenza sulle misure per la fiducia e l’azione congiunta in Asia – si è trasformata nel palcoscenico ideale per lanciare nuovi strali contro Tel Aviv.
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Alla riunione, iniziata ieri a Istanbul e in corso anche oggi, partecipano i presidenti d’Iran, Siria, Palestina, Russia, Azerbaigian, Kazakistan e Afghanistan. In agenda è stata inserita anche l’incursione israeliana contro la flottiglia della pace al largo di Gaza: «Dato che si tratta di una questione di sicurezza che riguarda tutta l’opinione pubblica, che si tratta di un vertice sulla sicurezza, e che Israele è membro di questa organizzazione, nessuno resterà sorpreso se ci sarà una discussione su questo», ha dichiarato un funzionario turco della Conferenza . I lavori sono presieduti dal presidente turco Abdullah Gul e la Conferenza – sulla carta dedicata al disarmo nucleare, all’uso pacifico dell’ener-
di Vincenzo Faccioli Pintozzi gia nucleare e alla costruzione di un clima di fiducia in Asia – è divenuta un porto franco. Ed ecco che ad aprire le danze è stato proprio il premier padrone di casa, Recep Tayyip Erdogan, che nel corso di una conferenza stampa insieme al presidente siriano Bashar al Assad ha dichiarato: «Non è tollerabile avere una prigione a cielo aperto come quella di Gaza. Quanto accade nella Striscia è un crimine contro l’umanità: non si può accettare una punizione di massa come questa. Ci sforzeremo per ottenere la fine di questa situazione, non possiamo accettare che si prosegua
Per Recep Erdogan, l’attuale situazione della Palestina «è un ovvio delitto contro l’umanità: parliamo di zone simili a prigioni» nell’applicare un embargo su tutto un popolo». Erdogan ha quindi reiterato la richiesta per un’indagine internazionale che accerti la verità sull’attacco israeliano alla Freedom Flottilla per Gaza, che ha fatto nove vittime: «Non possiamo restare in silenzio, e non rimarremo in
silenzio davanti a quanto accade a Gaza». La Cica è stata creata nel 2002 su proposta del presidente del Kazakistan Nursultan Nazarbaiev con l’obiettivo di «dare impulso alla cooperazione in favore della pace e della stabilità in Asia». Il gruppo conta 20 membri, e tra essi figurano Paesi in conflitto tra loro o con relazioni diplomatiche assai tese come Afghanistan, Pakistan, Iran, Israele, Egitto e Autorità palestinese.
Ma in situazioni come questa, il mondo arabo tende a unirsi e dimenticare i propositi di pace. Un concetto ribadito nei fatti dal governo palestinese, che alla luce degli avvenimenti recenti prevede una mobilitazione araba e internazionale per una riconciliazione tra le fazioni palestinesi e per la rottura dell’assedio israeliano sulla Striscia di Gaza. Lo ha confermato, intervistato dall’AdnKronos, il portavoce della Presidenza dell’Anp Nabil Abu Redeineh, dopo un incontro tra il presidente palestinese Abu Mazen (Mahmoud Abbas) e il suo omologo turco Abdullah Gul. Durante l’incontro, ha dichiarato il portavoce, «sono state prese in esame tutte le questioni, prima fra tutte il recente attacco israeliano contro la Freedom Flotilla, ma anche le relazioni bilaterali e il processo di pace, che l’amministrazione Usa sta cercando di scongelare. I colloqui sono stati approfonditi, lunghi e intensi, alla luce delle relazioni forti, profonde e continuative tra le parti. È in corso un coordinamento delle posizioni
e nella prossima fase vi sarà una mobilitazione diplomatica». Senza dubbio, ha aggiunto il portavoce di Abu Mazen, «la Turchia vuole la creazione di uno Stato palestinese e la rottura dell’assedio su Gaza e il presidente Gul è stato chiaro sulla necessità di trarre profitto da questa prova per ripristinare l’unità del popolo palestinese. A questo scopo il presidente Abbas ha deciso di inviare una delegazione a Gaza, oltre ad aver dato il benvenuto a una visita del Segretario generale della Lega Araba, Amr Moussa, nella Striscia». Fino a qui, però, la situazione non sembrava troppo diversa dalle altre, innumerevoli situazioni di frizione fra governi contrastanti nel Medioriente. Il colpo di grazia l’ha dato il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, che con la benedizione del suo governo ha annunciato ieri di essere pronto a forzare, se necessario con la forza, il blocco navale su Gaza.
Per essere esatti, l’annuncio è venuto dalla Mezzaluna rossa iraniana: gli operatori hanno confermato l’intenzione di inviare tre navi per portare aiuti alla popolazione di Gaza, sfidando il blocco imposto da Israele. Il responsabile della Mezzaluna rossa iraniana, Abdolrauf Adibzadeh, ha detto che due navi - una con a bordo cibo e medicinali, l’altra con decine di medici e infermieri - salperanno «entro la settimana» L’intenzione è di fare passare gli aiuti attraverso il valico di Rafah, fra l’Egitto e la Striscia di Gaza, l’unico posto di frontiera che la Palestina non ha in comune con Israele. «L’Iran - ha aggiunto Adib-
Sempre più incerto l’appoggio della comunità alle elezioni di novembre
Gli ebrei americani (e non solo loro) sfidano Barack Obama di Daniel Pipes aperto conflitto tra l’amministrazione Obama e il governo di Benjamin Netanyahu ha creato delle tensioni senza precedenti tra gli Usa e Israele dai tempi dell’amministrazione del primo presidente Bush. E queste tensioni incidono notevolemente sugli ebrei americani che - dopo le rassicurazioni dell’allora candidato Obama sul fatto che sarebbe stato un amico e un alleato dello Stato d’Israele (malgrado i suoi legami di vecchia data con il reverendo Jeremiah Wright, imperterrito antisemita e contrario ad Israele) - lo hanno votato nel 2008 con una proporzione di 4 a 1. Gli ebrei d’America stanno affrontando una sfida politica senza precedenti, trovandosi ad affrontare la minaccia esistenziale lanciata a Israele e per estensione al futuro dell’intero popolo ebraico, da parte di un Iran che sta dotandosi di armi nucleari. In che modo, dunque, reagiranno a questa minaccia? I sostenitori ebrei di Obama potranno agire in maniera tale da sfidare la chiara direzione dell’attuale politica della Casa Bianca? E accetteranno l’opinione di Barack Obama secondo cui lo Stato d’Israele ha una certa responsabilità per le perdite «materiali e di vite umane» subite dagli Stati Uniti in Medio Oriente? Continueranno a offrire il loro appoggio all’amministrazione Obama e al partito politico del Presidente? I geni dell’amministrazione Obama hanno per ben due volte provocato - e perso - lo stesso scontro arbitrario con il governo Netanyahu. Ma sfortunatamente queste sconfitte non li hanno dissuasi dal perseguire i loro obiettivi erronei. Il primo attrito ha avuto inizio nel maggio 2009, quando il Segretario di Stato Hillary Clinton chiese al governo Netanyahu di bloccare gli insediamenti ebraici in Cisgiordania e a Gerusalemme est.
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zadeh - sta anche preparando l’invio di una nave ospedale che avrà a bordo medici, infermieri e tutta l’attrezzatura medica necessaria per operazioni e procedure d’urgenza» Ma il responsabile della Mezzaluna rossa non ha precisato quando questa unità dovrebbe partire. E se a questo si ricollega l’annuncio fatto due giorni fa da Ali Shirazi, il rappre-
La teoria del ministro Frattini: l’Iran scende in campo «per battere Hamas, governando da sola anche lì» sentante in seno ai Guardiani della rivoluzione della Guida suprema iraniana, secondo cui i pasdaran «sono pronti a scortare con tutta la loro potenza e la loro capacità navi che portino aiuti a Gaza», si ha chiaro il senso e la gravità della situazione. Secondo l’agenzia di Stato della Repubblica islamica, la famigerata Fars, già 20mila iraniani si sono offerti volontari negli ultimi tre giorni per partecipare a spedizioni umanitarie. Ma tutto questo non sembra preoccupare oltre misura il portavoce del ministero degli Esteri israeliano,Yigal Palmor, secondo il quale questi annunci «sono so-
lo un’ennesima provocazione iraniana. Non sorprende che Teheran cerchi di strumentalizzare la tensione di questi giorni, poiché il regime di Hamas è sotto la tutela iraniana». Un’interpretazione abbastanza fuori dal comune è venuta dalla Farnesina: l’annuncio dell’Iran è la prova che Teheran «vuole prendere il controllo dell’enclave palestinese». Lo ha affermato il ministro degli Esteri, Franco Frattini, nel corso di una conferenza stampa congiunta con il collega britannico, William Hague. Per Frattini la decisione iraniana «è stata presa innanzitutto contro Hamas. Per la prima volta la comunità internazionale ha avuto il chiaro segnale che l’Iran vuole prendere il controllo della Striscia di Gaza». Come se non bastasse Hamas.
In ogni caso, è presto e troppo azzardato tentare una previsione sugli sviluppi della situazione. Ma, sicuramente, è un fatto oramai assodato l’isolamento internazionale dello Stato di Israele, che trova una sponda soltanto dagli Stati Uniti “a doppia velocità”. Se infatti il presidente Barack Obama ha chiesto di dare a Tel Aviv il controllo dell’indagine sul blitz navale, il Segretario di Stato Hillary Clinton ha condannato con forza l’accaduto. E se la diplomazia necessita sempre di grandi capacità di equilibrio, e se la situazione del Medioriente è così complicata che prendere posizione è sempre estremamente difficile, è anche vero che l’unione dei Paesi arabi gioca a sfavore di Israele. Che, messo alle strette, tende a riaffermare con la forza i suoi diritti. Avvicinando fuoco alla miccia.
Quattro mesi dopo, avendo capito che questa politica comprometteva l’operato della diplomazia israelo-palestinese, i suddetti geni hanno fatto marcia indietro e sono tornati alle consuete linee politiche dei Democrats: vale a dire avere degli ottimi rapporti con Gerusalemme. Nel marzo 2010, il vice-presidente Joe Biden, la Clinton e Obama hanno attaccato di nuovo briga con Israele esattamente per lo stesso motivo, in particolar modo per gli insediamenti di Gerusalemme. Stavolta l’Amministrazione ci ha messo solo sei settimane per recedere dai suoi stolti propositi, come dimostrato dal discorso pronunciato da James Jones al Washington Institute e
dal pranzo alla Casa Bianca al quale è stato invitato Elie Weisel. Malgrado questi dietrofront di natura tattica, la politica del “nesso”, che si basa sulla convinzione che il benessere mediorientale dipenda essenzialmente da un accordo di pace israelo-palestinese, rimane valida e ostacolerà i rapporti tra Stati Uniti e Israele almeno per i prossimi due anni e mezzo della presidenza Obama. In questo difficile momento, mi consolano tre fatti. Vediamoli: innanzitutto gli israeliani si assumono più «rischi in cambio di pace» ed offrono un maggior numero di «concessioni dolorose» - commettendo dunque errori irreversibili - quando i rapporti tra gli Usa e lo Stato ebraico sono saldi e cordiali. Al contrario, dei tesi rapporti fra Washington e Gerusalemme portano quest’ultima a prendere decisioni decisamente meno avventate. E questa è una buona cosa.
Un altro aspetto positivo consiste nel danno apparentemente permanente che questi attriti hanno arrecato ad Obama, che agli occhi di parecchi ebrei americani non sembra offrire un adeguato sostegno a Israele. In terzo luogo, i dissidi di Obama avvengono in un momento in cui l’appoggio americano allo Stato ebraico è particolarmente forte; un recente sondaggio, ad esempio, mostra una preferenza di 10 a 1 a favore di Israele nel conflitto coi palestinesi. A questo si aggiunga la portata dei rapporti religiosi, familiari, commerciali e culturali che intercorrono tra gli Stati Uniti e lo Stato ebraico – come simboleggiato dall’accordo bilaterale open skies di recente siglato – e il fatto che il Presidente - che ha subito un crollo nei sondaggi e che deve essere profondamente preoccupato per le prossime elezioni di mid-term - finora sia riuscito solo a inimicarsi la moltitudine di elettori pro-Israele. Alla luce di quanto scritto, io sono preoccupato, certo, ma non troppo. Piuttosto, non vorrei focalizzarmi solo sugli ebrei d’America. Perché il dibattito arabo-israeliano negli Usa è cambiato al punto che gli “ebrei” non definiscono più in modo adeguato lo schieramento pro-Israele.Visto che gli ebrei che diffamano Israele sono in aumento e tendono ad organizzarsi (si pensi all’organizzazione J Street), allo stesso modo agiscono con entusiasmo i non-ebrei pro-Israele (si pensi ai Cristiani uniti per Israele). Pertanto, suggerisco di rimpiazzare - in questo caso specifico - il termine “ebrei”con “sionisti”.
cultura
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Saggi. A pochi giorni dall’avvio dei Mondiali Mario Sconcerti pubblica per Baldini Castoldi “Storia delle idee del calcio”
La dura legge del goal Dall’Olanda hippie di Cruijff all’Italia sorniona di Bearzot: il pallone come spirito dei popoli di Giuseppe Del Ninno ra poche settimane, folle sterminate, in ogni angolo del pianeta, si stringeranno davanti a mille e mille teleschermi, per celebrare il campionato mondiale di calcio che avrà il suo teatro in Sudafrica. Il “gioco più dello del mondo, il “mistero buffo” intorno al quale si accapigliano e si appassionano ricchi e poveri, colti e incolti e ormai perfino uomini e donne, ha smesso di essere quella incomprensibile attrattiva che calamita gli sguardi in direzione di ventidue atleti in pantaloncini alla rincorsa di un pallone.
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Andrea Di Caro e pubblicato nel 2006) ad analizzare le mutazioni intervenute nell’era televisiva. Certo è che pochi avrebbero immaginato, anche solo vent’anni fa, quando il calcio era ancora la festa della domenica pomeriggio e lo scontro colorato e incruento fra le città, tutti i passaggi che hanno trasformato questo sport in uno specchio fedele del post-moderno. Tutto questo è accaduto perché “sotto” il calcio si agitano idee capaci di trascinare le folle e di muovere colossali interessi economici; idee e “puzza-piedi”, secondo la spoetiz-
dario il contesto, al punto che ne risulta una sorta di microstoria dell’Europa, culla del calcio, rivisitata attraverso gli stadi. Già Vazquez Montalban ha potuto scrivere nel saggio Calcio – Una religione alla ricerca del suo Dio che «il Real Madrid, la squadra del Caudillo Franco, continua ad avere qualcosa della squadra di Stato, e questo si nota quando gioca a Barcellona e a Bilbao». Del resto, qualcosa di analogo si poteva dire di altri team, in particolare quelli d’Oltrecortina – riferibili a soviet di soldati, di universitari o di ferrovieri – e alla vittoriosa nazionale argentina nel periodo della dittatura militare. Quanto al nostro paese, nota Sconcerti, «sappiamo che il calcio italiano ha segnato un’epoca negli anni Trenta, ma se ci chiediamo il perché, ancora oggi non riusciamo a spiegarlo. Ogni epoca, ogni fase del calcio, quasi ogni partita hanno risposte diverse perché il calcio è tutto fuorché un gioco esatto. Si muove sotto la spinta di sentimenti e soprattutto di idee. Insomma, un paese gioca al calcio così come vive: «Se è felice, gioca un calcio felice», come l’Olanda di Crujff, pervasa di un’euforia libertaria senza precedenti nella storia d’Occidente, un’euforia figlia del Sessantotto – la fantasia al potere… – che sembra non curarsi dei risultati, non solo sportivi, ma privilegia lo stare insieme, il divertirsi e divertire. Non è un caso che quella formidabile nazionale abbia vinto poco…
Jean-Paul Sartre vide nel football la “metafora della politica”. Un’idea che ispirò sociologi e filosofi per giungere a Gianni Brera
Una simile visione snobistica e riduttiva non ha più corso e, fra i primi ad avere intuito l’efficacia del football come strumento in grado di interpretare la società e le sue evoluzioni e dunque il potenziale metapolitico di questo sport è stato Jean-Paul Sartre, quando lo ha definito “metafora della politica”. Su tale linea interpretativa va collocato tutto un filone saggistico – non soltanto di matrice sociologica e addirittura etologica – il cui esordio può essere individuato nell’approccio di Gianni Brera al giornalismo sportivo, genere poco valutato nel milieu intellettuale. A lui si devono infatti i primi tentativi di riflessione sistematica sul fenomeno, in particolare con i volumi Il mestiere del calciatore (1972) e Storia critica del calcio italiano (1975). La prima trattazione sistematica e consapevole, sulla scia di Konrad Lorenz, si trova invece in Desmond Morris, con il suo La tribù del calcio, del 1981, fino ad arrivare ai testi di Oliviero Beha, il quale ha ritratto il fenomeno calcio sotto il profilo delle sue intersezioni con la gestione del potere e con la morale corrente, fin dal libro-inchiesta dopo i Mondiali vinti dall’Italia nel 1982, per arrivare, con Indagine sul calcio (scritto con
zante espressione di Brera, un binomio che sarebbe parso una bestemmia e che oggi viene invece indagato con finezza da Mario Sconcerti, in un corposo volume intitolato, appunto, Storia delle idee del calcio (Baldini Castoldi Dalai Editore, pp. 400, Euro 20). Il libro mantiene in effetti più di quello che promette il suo sottotitolo – “Uomini, schemi e imprese di un’avventura infinita”– se è vero che nel racconto di questo o quel campione, di questa o quella partita, di questa o quella Nazionale, ha un ruolo non secon-
L’esempio di calcio triste, secondo l’autore, ci viene al contrario dalla grande Ungheria di Puskas, il colonnello Puskas che si battè contro l’invasione sovietica del 1956 e fu costretto all’esilio in Spagna, dove fu determinante nelle vittorie del Real Madrid di Alfredo Di Stefano). «Questa squadra – ricorda Sconcerti – dà il meglio
In queste pagine: l’Italia campione del mondo ai campionati Mondiali del 2006. Il numero dieci dell’Argentina Diego Armando Maradona; Johann Cruijff; Pelé; Alfredo Di Stefano. Gigi Meroni, bandiera granata e giocatore ribelle che partì dal Como
quando i sovietici stanno per invaderla… Un popolo messo spalle al muro reagisce giocando il suo calcio disperato e migliore. Si gioca bene al calcio quando c’è un forte sentimento, una forte motivazione». È allora che lo sport diventa principio identitario, esercizio di memoria collettiva e di rivalsa. Gli esempi non mancano, dall’Austria di Sindelar, che può inscenare soltanto sui campi di calcio la fastosa e festosa rappresentazione di un’epoca – quella absburgica – che non c’è più, alla Germania dei Mondiali in Svizzera, nel 1954, dove il capitano Rahn tornò a inorgoglire i suoi connazionali, dopo la tragica
sconfitta del 1945. Quanto all’Italia, Sconcerti in qualche modo riprende la lezione breriana, andando al di là di certe ironiche connotazioni lombrosiane sul gioco all’italiana come “virtù” scaturita dalla necessità di un fisico reso gracile da generazioni vissute nella penuria anche proteica (leggi: fame).
Le vittorie del ventennio fascista trovano forse la loro spiegazione – e il loro parallelo – nell’orgoglio, nello spirito combattivo e collettivo che ispira tutte le dittature; ma la scuola calcistica nostrana ha un suo meno effimero rispecchiamento nel costume, così come viene illustrato, nella cinematografia, dalla “commedia all’italiana”. L’astuzia, la disponi-
cultura
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Esce per Becco Giallo “Gigi Meroni, il ribelle granata” di Peroni e Cecchetti
Dribbling e baffetti, il Che Guevara in calzoncini Iniziò nelle giovanili del Como e finì tragicamente: amori e imprese di un artista del rettangolo verde di Francesco Napoli rebours, a ritroso, ma anche controcorrente. Così ha vissuto la sua breve ma fulminante vita Meroni Luigi, classe 1943, da Como. E così l’hanno ritratto Marco Peroni e Riccardo Cecchetti, rispettivamente autore e disegnatore di un libro su questa icona degli anni Sessanta: Gigi Meroni. Il ribelle granata (Becco Giallo edizioni, 144 pp, 18 euro). Una storia narrata a partire dall’ultimo tragico giorno del protagonista, 15 ottobre 1967 al 1949, quando Gigi tira i primi calci al pallone all’oratorio di San Bartolomeo. La fine e poi l’inizio perché «ogni favola ha le sue ragioni, e non sempre vanno assieme a quelle di cronologia, cronomania e crononostalgia», anticipano gli autori non senza sottile giustezza.
A
bilità al sotterfugio e allo sfottò, il gusto di avere la meglio sul più forte, la consapevolezza allegra che il successo dura poco, la famigerata “arte di arrangiarsi”, tutto questo si ritrova nel calcio “catenacciaro”ed efficace di Rocco e di Frossi, di Viani e di Bearzot, anche quando i protagonisti sono “oriundi”– ecco una parola ormai fuori moda – come Sivori e Altafini. Ecco: gli oriundi, gli stranieri. Abbiamo accennato prima al calcio come “festa dei campanili”: oggi, in particolare – sottolinea Sconcerti – dopo i mondiali del 2006 vinti in Germania dalla nostra Nazionale, quella festa è diventata planetaria, e diventata “il porto franco dell’esistenza”.
I nomi dei campioni più celebrati vengono pronunciati – e storpiati – nelle più remote plaghe asiatiche ed africane, dalle quali sempre più spesso, per contro, provengono nuovi campioni da inserire nelle squadre di club e nelle stesse rappre-
sentative nazionali, spesso grazie a improbabili avi europei. E questo accade perché dal chiuso del suo “piccolo mondo antico”, quel mondo che ancora si sottrae all’uso della tecnica sotto forma di moviola in campo, e che conserva il principio della responsabilità oggettiva, ormai espunto da ogni ordinamento giuridico, il calcio si sta aprendo sempre più al mezzo televisivo e alle sofisticate architetture finanziarie, confinando i verdi prati e gli spalti degli stadi, dove pure si svolge lo spettacolo, ai margini dei propri bilanci e delle abitudini collettive. Così, il percorso dalla originaria “cultura selvatica” dello stadio (parole di Eduardo Galeano) a quella mediatica della televisione e della pubblicità per i campioni più acclamati, è compiuto. E a noi resta la nostalgia per quelle domeniche in mezzo agli odori e ai pacifici clamori dello stadio, oppure nel chiuso della nostra cameretta, con la radiolina all’orecchio, ad immaginare goal e dribbling invisibili.
Può capitare talvolta di aver difficoltà a scrivere di un libro, ma nel caso solo perché è semplicemente bello, inquadra a pennello un mito e delinea con scanzonata puntualità l’epoca forse più discussa e discutibile dell’Occidente, gli anni Sessanta. L’impasto fra tratto del disegno e storia riporta le atmosfere e gli umori di quegli anni e il cuore anche non granata può palpitare nel riavvolgersi della pellicola della vita di un calciatore simbolo di quei burrascosi tempi. Il decennio precedente è andato, con Marylin Monroe e la rivoluzione dei linguaggi del fascino sessuale come detonatore per l’esplosione dei conformismi nel decennio successivo. Dopo, il mito: Che Guevara, la rivolta giovanile e le ideologie collettiviste del Sessantotto. Nel mezzo vive, prospera e muore in un lampo la breve carriera di Gigi Meroni e il suo anelito di libertà individuale, scenografie che questo libro restituisce con un sottile fascino da bianco e nero tutto cinematografico. «Lei è di un’altra generazione e, forse, non può capirmi; io faccio così non per esibizionismo, ma perché sono così; perché anelo alla libertà assoluta e questi capelli, questa barba sono uno dei segni di libertà. Può darsi che un giorno cambierò quando la mia libertà sarà un’altra». Gigi Meroni non lo mandava a dire a nessuno, tantomeno a qualche giornalista perbenista che lo incalzava sulle sue presunte manie esibizioniste. Meroni nasce e pasce a pane e pallone nel cortile sotto casa e nel campetto dell’oratorio, ma anche all’ombra di un padre perso a soli due anni. Il ragazzo mingherlino inizia a farsi notare nelle giovanili del Como, arriva la chiamata dell’Inter ma la madre è inflessibile: troppa agitazione le avrebbero causato i viaggi settimanali per Milano, solo in treno, del figlio. Non se ne fa nulla e il giovane Luigino inizia a
lavorare come disegnatore di tessuti e cravatte: quel suo particolare modo di vestire degli anni successivi, per molti scandaloso, per altri bizzarro, per lui solo suo, troverà fonti e ispirazioni da questo impiego. Da Como arriva sulle rive del Tirreno, al Genoa, un passaggio fondamentale. La città della Lanterna, estate 1962, è un crogiuolo di spinte culturali molto forti e Gigi incontra l’ambiente giusto per esaltare il suo io. «L’inquietudine ligure da Montale passa per Paoli e diventa canzone» e di quale altro calciatore si può serenamente affermare che sia maturato con i Tenco, De Andrè e Paoli e con l’erba e il pallone? Proprio lì, a Genova inizia a coltivare «il gusto del genio, la visione romantica della vita, la gelosia della propria libertà», ha scritto Nando Dalla Chiesa nella sua innamorata biografia di Meroni La farfalla granata fonte anche per Peroni e Cecchetti. E lì vi trova la prima partita in serie A, il primo gol e la prima convocazione in nazionale. E vi trova il primo amore, Cristiana, la bella del Luna Park, la ragazza del tirassegno dal «fascino della giramondo senza recinto» (Dalla Chiesa), alla quale regala una rosa al giorno. Una storia di scandalo e passione, lei sposata, vissuta nel segno della libertà in un’Italia ancora troppo severa. Poi viene la fede granata, mentre la Nazionale di Mondino Fabbri è un capitolo a parte.
Una vicenda narrata a partire da quel 15 ottobre 1967 che fu l’ultimo drammatico giorno del protagonista
Al Torino cosa farà mai il capellone, il beat italico del pallone, con Nereo Rocco? «Un giocatore giovane, piccolo, magrissimo, con i capelli lunghi e i calzettoni abbassati», così l’avrà visto il Paròn per la prima volta. Quei calzettoni portati alla cacaiola direbbe Gigi Garanzini, come gli idoli Sivori e Corso, come Mary Quant con la minigonna oltremanica, sono il segno più apparente della sfida lanciata con sfrontatezza alle abitudini e agli avversari, ostentando alla sua maniera stinchi fragili e classe da vendere. Ma al di là delle apparenze Meroni rispetta le regole del gruppo, non si tira indietro e suda, anche se è impossibile costringerlo in campo, come del resto fuori, in schemi predefiniti. La contravvenzione alle regole la farà, certo, lasciando credere a Nereo Rocco, pur di averla con se in albergo, che la sua Cristiana è sorella del compagno, e grande amico, Fabrizio Poletti. Sì, proprio Poletti Fabrizio, da Bondeno, Ferrara, classe 1943, che la morte sfiorò appena a fianco di Gigi in quel maledetto Corso re Umberto, numero 46,Torino, nella tragica sera del 15 ottobre 1967, appena sei giorni dopo Ernesto “Che”Guevara. Il destino ha le sue ragioni che la ragione dell’uomo non comprende.
cultura
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Conferenze. All’Angelicum, le prospettive della grande studiosa musulmana Mona Siddiqui sul dialogo interreligioso possibile
La pietas (islamica) della pace di Giulio Battioni
a severa Aula minor della Pontificia Università San Tommaso d’Aquino ha ospitato la terza conferenza annuale sul dialogo interreligioso in onore di Giovanni Paolo II, con il patrocinio dell’omonimo Centro dedicato al grande pontefice che dell’Angelicum fu alunno illustre, e della Russell Berrie Foundation, dal nome dell’imprenditore “missionario” americano, pontiere e costruttore di pace tra le diverse religioni. Protagonista dell’evento è stata Mona Siddiqui, fondatrice del Centro di Studi Islamici dell’Università di Glasgow e docente in teolo-
L
non sono affatto scontate. Un musulmano, membro della Consulta per l’Islam del ministero dell’Interno, sposato da vent’anni con una donna di fede cristiana, ha espresso la sua consapevolezza circa la grande problematicità delle relazioni interreligiose e si è chiesto se nella Umma, la comunità dei fedeli musulmani, vi siano, oltre alle isolate testimonianze personali, rappresentanti e istituzioni capaci di contribuire efficacemente alla giustizia e alla pace tra i popoli. In altri termini, di quali e quante Mona Siddiqui dispone l’I-
una certa area del mondo, più che in altre, sono divenuti cultura, pensiero, etica e giurisprudenza materiali, malgrado le inefficienze e i tradimenti gravi? La Siddiqui, messa un po’ alle corde, ha risposto con il suo argomentare orgogliosamente credente e umilmente cosciente del suo strumentario intellettua-
ma di convivenza in cui persone, culture e collettività disparate s’incontrano e si conoscono. La studiosa islamica ha insistito molto sulla “conoscenza” come chiave pratica per lo scambio costruttivo e pacifico tra le fedi. La conoscenza è un dono divino che in ogni forma spirituale suscita le grandi virtù della giustizia, della speranza e dell’amore. Lo sguardo della Siddiqui abbraccia l’intera sociologia delle religioni ma il suo discorso è calibrato soprattutto sulle religioni storiche, le “religioni del Libro” e i monoteismi
punto di vista della Siddiqui non si discosta dalla teologia coranica per la quale il Profeta è il vertice supremo della Rivelazione e l’Islam è il monoteismo primordiale.
La novità del suo pensiero sta nel non considerare più la Legge ebraica e il Vangelo cristiano come epifanie negative da abrogare, ma come parti integranti di un comune progetto divino di redenzione dell’uomo. Se per il Corano la società “multiculti”è una manifestazione della volontà di Dio che non ha voluto riunire gli uomini in una stessa comunità ma li ha
A sinistra, un’immagine del Vangelo, il testo sacro dei cristiani. A destra, una fotografia del Corano, il testo sacro dei musulmani. Qui sopra, la studiosa islamica Mona Siddiqui
gia e legge islamica classica. Il suo intervento, Islamic perspectives on Judaism and Christianity, ha suggerito significative ipotesi sul dialogo interreligioso, un ambito di studi e della politica internazionale in cui mondo accademico e diplomazie sono in genere piuttosto astratti e inconcludenti.
La chiarezza concettuale della Siddiqui ha suscitato il plauso per nulla gratuito dell’uditorio dal quale sono provenuti non pochi interrogativi critici. A che serve il dialogo interreligioso? Quali sono i suoi obiettivi? La “conversione”? La “comprensione”? E l’“economia della salvezza” dove la mettiamo? I problemi sono enormi e le risposte
slam oggi nel mondo? Quali e quanti intellettuali, capi religiosi, leader politici fanno degnamente le veci dei seguaci di Maometto nel consorzio delle genti? Quali e quante persona-
le, nutrito e adoperato a una latitudine geografica in cui vigono le libertà occidentali. La Siddiqui sa che dove c’è dialogo interreligioso c’è anche conflitto e dove c’è conflitto il dialogo tra
abramici. La comune critica alla religione civile e alla teologia politica del “paganesimo” antico, per sua natura estraneo alle istanze di senso ulteriore, sovrannaturale e teistico, sarebbe
La pensatrice ha insistito molto sulla «conoscenza» come chiave pratica per lo scambio costruttivo tra le fedi. La conoscenza è un dono divino che in ogni forma spirituale suscita le grandi virtù della giustizia, della speranza e dell’amore lità pubbliche nel mondo professano la fede coranica nel quadro di un pluralismo globalizzato che non sembra poter prescindere da alcune tra le conquiste storiche dell’Occidente? È forse possibile prescindere dalla pietas, dalla filosofia e dall’umanesimo giuridico che in
le fedi non può condurre alla pace senza una “volontà politica”, un indirizzo strategico sicuro, un’azione pubblica legittima. Il pluralismo è la condizione storica del mondo contemporaneo nel quale le comunicazioni globali e le migrazioni dei popoli hanno creato una nuova for-
il decisivo punto d’incontro fra ebrei, cristiani e musulmani. Certo, la storia e la teologia sistematica hanno spesso diviso i fratelli in Abramo, ma di fronte alla sfida del pluralismo devono riscoprirsi affini e solidali nella ricerca della concordia tra le diverse società umane. Il
distribuiti tra differenti culture, altrettanto conforme alla sua volontà è l’edificazione di un ordine sociale giusto attraverso la rettitudine pratica di ognuno. La Siddiqui ricorda la sura 5:48 per cui: «Se Dio avesse voluto, vi avrebbe riunito in una unica comunità. Quindi gareggiate in buone azioni, così che Egli possa mettervi alla prova con ciò che vi ha dato». Le fedi non devono rinunciare a sé, ma devono competere in virtù e speranza, parlando il comune linguaggio pratico dell’onesto agire. Le fedi non devono rinunciare al linguaggio della loro fede, ma devono esprimerne la propria coerenza e il proprio grado di conformità al bene dell’uomo.
spettacoli una strada apparentemente lunga e tortuosa, quella che porta a ritroso dal crossover californiano anni Ottanta e Novanta al pop italiano dei Cinquanta e Sessanta, dalle collaborazioni avanguardiste con John Zorn alle cover di Gino Paoli. Quasi impraticabile per chiunque ma non per Mike Patton, cantante e frontman dei Faith No More nel momento in cui la tostissima rock band di San Francisco sperimentava l’incrocio tra funk e metal viaggiando in parallelo ai più radio-friendly Red Hot Chili Peppers e aprendo la strada alle spericolate fusioni di Korn e Incubus. È sempre stato un tipo curioso e ipercinetico, il nostro, abituato a spiazzare i fan e a sconcertare i discografici. E a tenere le orecchie sempre aperte: anche durante la lunga permanenza nel Belpaese, dove ha vissuto per sette anni (a Bologna) insieme alla ex moglie italiana. Applicandosi, imparando la lingua, avvicinandosi alla nostra musica e innamorandosene.
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to importante della mia vita. Perché lo sguardo è retroattivo, focalizzato sui Cinquanta e sui Sessanta? È presto detto: facendo gradualmente conoscenza con la vostra musica di quel periodo mi sono accorto di quanta creatività e talento ci fossero nell’arrangiamento e nell’orchestrazione di quei pezzi. In sala di incisione lavoravano allora fior di professionisti, molti dei quali cresciuti a stretto contatto con il mondo del cinema. E quel pop era molto diverso da come lo intediamo oggi, una musica molto più complessa e più raffinata. Io ci sento moltissime cose, dentro, persino echi dell’avanguardia». L’unico brano di origine non italiana, Ore d’amore (interpretata nel ’68 da Fred Bongusto su testo di Franco Migliacci, è in realtà una canzone americana, The World We Knew, resa celebre da Frank Sinatra), serve a riportare tutto a casa, a rievocare vecchi circoli virtuosi.
È
È diventato un fan di Adriano Celentano, di cui ha cominciato a proporre dal vivo 24 mila baci, e si è reinventato crooner all’italiana per Mondo Cane, uno dei dischi più bizzarri e sorprendenti dell’anno che già nel titolo fornisce un indizio dei contenuti e del progetto: così si chiamava, ricordate?, il film diretto da Paolo Cavara, Gualtiero Jacopetti e Franco E. Prosperi che nel 1962 inaugurò il filone, per qualche tempo popolarissimo, dei documentari sensazionalisti zeppi di sesso e di sangue. Il disco è nient’affatto trucido, intendiamoci: Patton canta dal vivo in un buon italiano (appena inglesizzato, un po’ Shel Shapiro e un po’ Mal dei Primitives), accompagnato da un’orchestra in cui spicca la tromba di Roy Paci, anche se poi il disco è stato completato, corretto e rinforzato in studio con interventi di postproduzione. Non rompe le righe ma sorprende con la selezione delle canzoni, un mix di alto e basso, di classicissimi e di misteriosi cimeli pescati in chissà quale soffitta. Il Gino Paoli inarrivabile di Il cielo in una stanza e Senza fine, lo swing ironico di Fred Buscaglione (Che notte!) e quello di Nicola Arigliano (20 km al giorno,“dieci all’andata-dieci al ritorno”), un sempreverde della canzone napoletana come Scalinatella. Ma anche vecchie colonne sonore (L’uomo che non sapeva amare cantata da Nico Fidenco, un Tenco firmato Salce-Morricone e recuperato da un dimenticato film, La cuccagna, di cui il cantautore alessandrino fu protagonista nel 1962; più un altro Morricone doc, Deep Down, dal “cult”Diabolik diretto nel 1968 da Mario
Musica. Il cantante dei Faith No More si produce in una cover di canzoni italiane
I favolosi ‘50 e ‘60 di Mike Patton di Alfredo Marziano Bava), un giovanissimo Gianni Morandi dimenticato da tutti (Ti offro da bere, stava sul suo secondo album) e la misteriosa Urlo negro, abrasivo garage punk degli sconosciutissimi Blackmen, gruppo beat romagnolo di cui si sono perse le tracce. Che le abbia scovate un americano suona alquanto sorprendente... «Il fatto è che sono
un nerd, un collezionista di dischi che ama spulciare tra gli scaffali dei negozi e nei mercatini», spiega Patton.
«E poi ho degli amici appassionati e informati, che mi tengono aggiornato e mi consigliano bene. Altre chance le ho afferrate al volo, magari sentendo casualmente alla radio
Il disco si chiama “Mondo Cane” e propone classici dell’epoca come “Il cielo in una stanza” di Paoli e ”Che notte!” di Fred Buscaglione qualcosa che mi incuriosiva». Mondo Cane oscilla così tra atmosfere alla Studio Uno e umori da b movie, tra oldies da teche Rai e un night club d’antan. È prima di tutto un divertissement, ma è anche un atto d’amore. «L’ho voluto incidere perché documenta un momen-
Sopra e in alto, due immagini del cantante dei Faith No More, Mike Patton. A destra, la copertina del suo curioso album “Mondo Cane”, in cui l’artista reinterpreta classici della canzone italiana degli anni Cinquanta e Sessanta
«Nella mia versione Sinatra non si sente quasi», conferma Patton. «L’ho scelta per ricordare un periodo in cui tra America e Italia c’era un interscambio culturale e musicale che oggi non c’è più»: gli anni di Volare (Nel blu dipinto di blu) in cima alle classifiche Usa, di Io che non vivo di Pino Donaggio cantata da Elvis Presley e da Dusty Springfield, del grande Satchmo al Festival di Sanremo. Un’altra America, un’altra Italia che sopravvive nell’immaginario di un musicistaesploratore. E gli altri gioiellini che Patton è solito riproporre dal vivo quando indossa i panni dell’entertainer all’italiana? Celentano e Don Backy, Ma l’amore no e i tormentoni estivi di Edoardo Vianello? In Mondo Cane, trentasette minuti di durata come un vecchio Lp in vinile, non ci sono. «Less is more, per me l’essenzialità è un valore aggiunto», spiega l’interessato. «E poi così ho già del materiale pronto per un secondo capitolo». E magari qualche sorpresa in serbo per i prossimi concerti italiani, il 25 luglio all’Arena Civica di Milano nel cartellone del Jazzin’ Festival, il 26 al Live On di Firenze presso la Fortezza da Basso. Qualche altro classico di Luigi Tenco, per esempio, che più di vent’anni fa aveva stregato un altro rocker americano intellettuale e non allineato come lui, Steven Brown dei Tuxedomoon. «Per Tenco ho un debole e una grande ammette devozione», Mike. «Mi ha toccato la sua tragica vicenda esistenziale, e quando ascolto la sua voce scoppio immancabilmente a piangere. Però mi avvicino al suo repertorio con cautela e rispetto. Come fai a toccare una cosa che è già perfetta?».
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE
Inaccettabile fare cassa sulla pelle delle donne Resto convinta che nelle attuali condizioni del mercato del lavoro italiano, l’equiparazione dell’età pensionabile fra i sessi sia una misura iniqua e fortemente penalizzante per le donne. Perciò non posso che concordare con la scelta del governo riguardo alla necessità di preservare quantomeno un criterio di gradualità nel riallineamento pensionistico del pubblico impiego. Se si vuole davvero affrontare la questione femminile, il vero nodo non può essere certo quello dell’uscita dal lavoro bensì quello dell’accesso e della permanenza nel mercato occupazionale, nodo da conciliare con il ruolo che la donna svolge in famiglia. Ecco perché occorre investire su iniziative legislative finalizzate a garantire la possibilità del “doppio sì”, alla maternità e alla realizzazione professionale, favorendo una più equa distribuzione dei carichi familiari e incrementando l’offerta dei servizi. A questo riguardo, è indispensabile che l’esecutivo mantenga il proprio impegno, assunto con l’approvazione di un apposito ordine del giorno, affinché le risorse derivanti dall’equiparazione dell’età pensionabile vengano destinate al welfare rosa. Non è possibile pensare di fare cassa sulla pelle delle donne.
Barbara
EFFICACI MISURE DEL GOVERNO SULLA LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE
DALLA POLVERINI MAGGIORE TRASPARENZA
Gli italiani che hanno visto l’ultimo Ballarò si saranno sicuramente accorti che l’opposizione (politica, televisiva e giornalistica) non è in grado di rivolgere alla manovra un minimo di critiche fondate e sostenibili. Lo stesso Giannini è stato costretto a riconoscere che l’impianto della manovra per la lotta all’evasione fiscale è ben congegnato, per attaccare il governo, non ha trovato di meglio che ripescare, a memoria, una vecchia dichiarazione (espressa con la solita franchezza, senza darsi cura di ciò che è politicamente corretto) di Silvio Berlusconi. Però i governi non si giudicano dalle dichiarazioni, ma dagli atti che compiono. E l’attuale esecutivo ha ben poco da farsi perdonare in campo fiscale.
Non abbiamo alcuna intenzione di abbassare la guardia di fronte ai decreti sulla Sanità presentati dalla presidente Polverini, senza alcun confronto con le parti sociali e con il consiglio regionale. Gli interventi impoveriscono ulteriormente l’offerta sanitaria, in particolar modo nelle province, mascherando con l’individuazione delle quattro macroaree le reali sperequazioni tra le realtà con maggiori servizi e quelle con già larghe insufficienze. Chiediamo trasparenza e non giochi di parole. La Polverini abbia il coraggio di dire ai cittadini di questa regione che sta chiudendo in maniera indiscriminata gli ospedali, sta tagliando i servizi essenziali e che la sua manovra di rientro dal deficit minerà il diritto alla salute di chi l’ha votata.
Francesco Comellini
Fabio N.
La notte dei baobab Il Parco Nazionale del Tarangire - in cui sono stati fotografati questi baobab - è un’area naturale protetta della Tanzania settentrionale. Si trova un centinaio di chilometri ad ovest di Arusha, sulla strada che conduce a Dodoma, a sudest del lago Manyara. E prende il nome dal fiume che lo attraversa
GAZA: NON DIMENTICARE LA STRAGE DI ATTIVISTI È veramente preoccupante che una nazione civile assalti con corpi speciali una flottiglia di pacifisti, causando morti e feriti, solo perché ha tentato di forzare il blocco navale posto a tutela dei propri confini. Per le norme di diritto internazionale, l’uso della forza deve essere proporzionato al tipo di offesa ricevuta. Una tragedia co-
L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
me questa doveva evitarsi, siamo nel 2010: prevalgano i colloqui diplomatici. La strada del dialogo è e deve essere l’unico percorso praticabile. Accertate le responsabilità dell’accadimento, si cerchino le soluzioni pacifiche ad ogni costo: la vita umana non ha prezzo. Si facciano tutti gli sforzi affinché episodi come questo non si verifichino mai più.
Domenico
da ”The Indipendent” del 07/06/10
Gli ultimi gladiatori di York ono ottanta e sono dei combattenti, potremmo chiamarli anche i gladiatori di York. Perché é nella cittadina inglese che sono stati ritrovati. Parliamo di reperti archeologici. Si tratta di un’ottantina di scheletri emersi durante uno scavo su di un sito databile all’epoca dell’occupazione romana. Potrebbe trattarsi dei resti meglio preservati dei protagonisti dei giochi che divertivano la Roma imperiale (ma nche quella repubblicana). Ciò che resta di corpi umani e animali feroci, seppelliti uno accanto all’altro. Come una fotografia di ciò che succedeva nelle arene, dove sangue umano e animale si mischiavano.
S
L’area si chiama Driffield Terrace, a sud ovest del centro cittadino, ed ha restituito i resti dei lottatori negli ultimi dieci anni di campagne di scavo. Uno, in particolare, sembra essere stato vittima di un grosso carnivoro, come un leone, una tigre oppure un orso. Altri hanno i segni di colpi d’arma da taglio, spesso devastanti che lasciavano dei marchi di fabbrica sulle ossa, sintomo di un addestramento e di un’attività molto dura e violenta. «La teoria portante e che molti di loro siano stati dei gladiatori romani o comunque personaggio morti nell’arena. Abbiamo ritrovato molti reperti a sostegno di questa ricostruzione» ha affermato Kurt Hunter-Mann, l’archeologo a capo della missione di ricerca dellaYork archeological trust. La scoperta ripresa anche da Channle 4, sembra possa gettare una nuova luce sul periodo romano della Gran Bretagna. Uno dei riferimenti più certi alla letteratura ro-
di David Keys
mana sui gladiatori è la presenza di armi di differente lunghezzae foggia, per guerrieri dell’arena che fossero reziari, traci, mirmilli, secutor o provocator, galli o mendax, tanto per citarne alcuni. Dalla ricerca è anche emerso che molti cominciavano l’addestramento in età giovanissima. Molti proprietari di schiavi cedevano gli elementi più turbolenti. Tutti passavano dalle scuole per gladiatori prima di entrare in ”campo”e molti di questi cominciavano da ragazzini a maneggiare il gladio. I resti recuperati dovrebbero coprire un lasso temporale di qualche secolo, fino al quarto dopo Cristo. I test antropometrici dicono che i gladiatori diYork dovevano venire da molte regioni dell’Impero: dall’Europa centrale, orientale e dal Nord Afri-
ca. «Non esistono al mondo altre necropoli di guerrieri da arena con dei resti così ben preservati» ha dichiarato Michael Wysocki, esperto di antropologia forense all’università del Lancashire e che ha avuto la possibilità di esaminare gli scheletri. Materiale giudicato «estremamente interessante» dallo studioso, perché presentava un’infinità di tipologie di ferite associate a «violenze interpersonali».
Un’altra particolarità dei resti umani è che la maggior parte sono di persone decapitate. È risaputo che spesso gli sconfitti degli scontri venissero finiti proprio nell’arena, ma si pensava che l’esecuzione fosse fatta a fil di spada, alla gola o con colpi affondati. La maggior parte dei resti di York invece dimostrano che il colpo era inferto sulla parte posteriore del collo, come un vero colpo di grazia. Alcuni crani ritrovati hanno fori causati da mazze ferrate, simili a quelli ritrovati a Epheso in Turchia. Una delle più interessanti sepolture riguarda un ragazzo molto alto. È stato interrato con i resti di numerosi cavalli, probabilmente i resti di un banchetto funebre. Fu decapitato con numerosi colpi. Spesso nella sepoltura venivano aggiunti beni rituali per il percorso ultraterreno. Erano gli stessi colleghi di lotta a occuparsi della liturgia sepolcrale. Sono stati ritrovati anche manufatti in terra cotta. Gli archeologi sono comunque convinti che quell’area fosse destinata alla sepoltura di appartenenti all’ultimo gradino sociale dell’Impero: criminali, gladiatori e combattenti di fiere. Sconfitti dalla vita, ma non dalla storia.
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LETTERA DALLA STORIA
È la vita dopo la morte che rivela ogni cosa Mary amatissima, non posso dire molto, ora, di ciò che mi colma il cuore e l’anima. Mi sento come un campo seminato a metà inverno e so che primavera sta arrivando. I miei ruscelli prenderanno a scorrere e la piccola vita che dorme in me emergerà in superficie, al primo richiamo. Il silenzio è penoso; ma nel silenzio le cose prendono forma, e noi dobbiamo aspettare e vegliare. In noi, nella nostra segreta profondità, giace l’elemento consapevole che vede e ode ciò che noi non vediamo né sentiamo. Tutte le nostre percezioni, tutto ciò che abbiamo attuato, tutto ciò che siamo oggi, dimorava un tempo in quella consapevole, silenziosa profondità, in quella stanza del tesoro dell’anima. E noi siamo più di quel che pensiamo. Siamo più di quel che sappiamo. Ciò che è più di quel che pensiamo e sappiamo è sempre alla ricerca e sempre intento ad accrescere se stesso, mentre noi siamo inoperosi... o pensiamo di esserlo. Ma essere consci di ciò che sta accadendo in profondità dentro di noi significa contribuirvi. Quando il subconscio diventa coscienza, i semi nascosti nei nostri “io”invernali si trasformano in fiori, e la vita silenziosa che è in noi canta in tutta la sua potenza. Questa Vita rivela molto di ciò che non sappiamo... ma è la Vita dopo la morte che rivela ogni cosa Kahlil Gibran a Mary Haskell
LE VERITÀ NASCOSTE
Folle Australia: 90 chili e un solo hamburger SYDNEY. Le follie degli australiani non smettono di stupire: dopo pappagalli ubriachi, enormi bevute di birra e risse di carattere animalesco, la terra dei dinghi ha cercato e ottenuto un nuovo record. E l’America, patria degli hamburger, rimasta a guardare mentre veniva messa in riga da una piccola tavola calda di Sydney, che ieri ha servito la polpetta più grande del mondo, di ben ottantuno chili. L’abominevole polpetta ha richiesto dodici ore per la cottura e quattro persone per essere rivoltata. Compresa la pagnotta, l’insalata e la salsa, il colosso cucinato dai proprietari, i coniugi Joe e Iman El-Ajouz, arrivava a dunque a novanta chili, eclissando il record precedente di ottantaquattro chili conseguito in Michigan negli Usa. «Rivoltare la polpetta è stata la sfida più grande per noi, ma è andato tutto bene», ha detto Iman ElAjouz alla radio Abc. «Mio marito ha dovuto fabbricare una piastra di metallo grande abbastanza e speciali pinze per muovere la polpetta senza romperla». Non bisogna pensare però a una “semplice”fetta di carne macinata lasciata lì a cuocersi a fuoco lento. Per fare le cose a regola d’arte, infatti, i proprietari della tavola calda hanno deciso che questa andasse condita con i gusti tipici dell’hamburger tradizionale. Ed ecco che gli ingredienti, oltre alla carne, sono stati accompagnati da centoventi uova, centocinquanta fette di formaggio, un chilo e mezzo di barbabietola rossa, due chili e mezzo di pomodori e quasi due chili di lattuga. Dopo le misurazioni d’obbligo, l’hamburger è stato degustato dal personale della tavola calda e da una selezione di clienti. Che probabilmente hanno avuto non poche difficoltà di gestione e di digestione. Ma si sa: da grandi poteri, derivano enormi responsabilità.
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
LE ISTITUZIONI FANNO SQUADRA PER IL TERRITORIO È sempre un segnale positivo quando le istituzioni lavorano e fanno squadra per il territorio. E se questo avviene a favore di chi, come gli insegnanti precari rimasti senza cattedra, vive una situazione di difficoltà, esso rappresenta una scelta ancora più importante. Per questo la proposta del presidente Giovanni Schiavon credo possa costituire un modello di riferimento per altre esperienze di questo tipo, per aiutare chi rimane senza lavoro. Schiavon, presidente del Tribunale di Treviso ha chiesto di assumere negli uffici del tribunale 20 insegnanti precari rimasti senza cattedra. È un’ottima iniziativa che già nei mesi scorsi, in collaborazione con la provincia di Treviso, ha messo in campo un’esperienza simile con l’inserimento di 15 cassintegrati assegnati alle diverse cancellerie del tribunale. Un intervento efficace in una provincia come quella di Treviso, che sta attraversando una fase difficile anche dal punto di vista occupazionale, con un tasso di disoccupazione che è arrivato al 4,7 per cento. Questa idea, inoltre, testimonia ancora una volta l’ottimo operato del presidente Giovanni Schiavon, impegnato a garantire una giustizia efficiente ai cittadini trevigiani. Sono proposte che sottolineano la forte attenzione nei confronti del territorio, per risolvere una criticità interna come quella della mancanza di risorse manifestata più volte dal presidente Schiavon. Mi auguro che essa possa portare effetti positivi non solo per l’istituzione, ma anche per gli insegnanti.
Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci,
Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)
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Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Collaboratori
APPUNTAMENTI GIUGNO VENERDÌ 11 - ORE 11 - ROMA - PALAZZO FERRAJOLI
Consiglio Nazionale Circoli liberal “Verso il Partito della Nazione” SABATO 12 - ORE 10 - PALERMO - VILLA IGEA HILTON
Convegno Circoli liberal Palermo. “Dal Bipolarismo imperfetto a una politica per il futuro”. Conclude i lavori il Presidente Ferdinando Adornato LUNEDÌ 21 - ORE 17,30 - ROMA CAMERA DEI DEPUTATI - SALA DELLA MERCEDE
In occasione dell’uscita del libro “Ho visto morire il Comunismo” di Renzo Foa, ne discutono Ferdinando Adornato, Rino Fisichella, Stefano Folli, Claudio Petruccioli. SEGRETARIO
VINCENZO INVERSO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
Luca
Robert Kagan, Filippo La Porta, Direttore da Washington Michael Novak
STOP AL DOMINIO DELLE SOCIETÀ EOLICHE (I PARTE) Se l’eolico è una manna dal cielo per le società, altrettanto non è per i cittadini ed i comuni. In molti comuni, infatti, si continua a pagare la tarsu, la bolletta elettrica. Queste entrate straordinarie nelle casse comunali non stanno portando sviluppo e detassazione locale nelle municipalità, ma solo semplici speculazioni finanziarie per le grandi holding. I comuni incassano da 14mila a 20mila euro annui per ogni macchina da due mw, mentre per i privati solo somme irrisorie, che non superano i 9mila euro, con la sostanziale differenza che i comuni in quanto persone giuridiche non sono soggetti a tassazione locale, mentre i privati devono pagare sulle somme elargite dalle società le imposte dovute. Si comprende dunque l’iniquità contrattuale, cui sono assoggettati i contadini, i quali danno in locazione un suolo industriale, su cui le società eoliche per ogni macchina da due mw fatturano oltre un milione e mezzo di euro, dando in cambio ai comuni e ai privati solo le briciole. Si badi che ogni mw viene pagato alle società 0,30 centesimi,e ogni macchina lavora da 2500 a 3000 ore di produzione annua, come minimo, moltiplicando le ore di lavoro per la potenza della macchina eolica di 2000 kw di potenza, per 0,30, si ottengono i guadagni lordi per ogni macchina eolica da 2 mw. È necessario che i comuni e i sindaci si facciano promotori di delibere di indirizzo, in cui si possano intendere a grandi linee il valore di equità contrattuale che deve sussistere tra comuni, società, privati e cittadini residenti, i quali devono avere dei benefici diretti in termini di servizi alla persona, in termini di occupazione, in termini di detassazione comunale. Luigi Ruberto C I R C O L I LI B E R A L MO N T I DA U N I
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