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In natura non c’è niente di inutile; nemmeno l’inutilità stessa

Michel de Montaigne

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • VENERDÌ 11 GIUGNO 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Viaggio nelle contraddizioni di un Paese sul quale da oggi si accendono i riflettori dei campionati mondiali di calcio

Il Sudafrica nel pallone (ma ha già fallito il suo goal)

L’APARTHEID ANTI BIANCHI

IL CONTROLLO DELLE RISORSE

Il contro-razzismo Oro e diamanti, di Jacob Zuma ma verso Pechino di Luisa Arezzo

di Maurizio Stefanini

utto comincia il 20 ottobre 2007, allo Stade de France, quando dopo aver battuto l’Inghilterra, il tallonatore John Smit, capitano degli Springboks alza al cielo la coppa William Webb Ellis.

l governo usa ancora quello slogan buonista del “Paese dell’Arcobaleno”, ma ormai il Sudafrica multirazziale del post-apartheid è divantato un luogo di miserie, corruzione e contraddizioni.

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T

I

Quando gli fu assegnato il torneo, era il tempo del grande sogno di Nelson Mandela: ma oggi ogni speranza è tramontata. E in quella terra sono tornate a prevalere corruzione, povertà e violenza

Il Pd abbandona l’Aula, l’Udc vota no e i giornalisti annunciano lo sciopero: «Giornata serena» commenta Alfano

Berlusconi, Repressioni e Pensioni Passa al Senato,con la fiducia,la contestatissima legge che limita le intercettazioni nelle indagini. E il governo alza l’età di uscita dal lavoro per le statali.Ma Bankitalia: forse la manovra non basta di Riccardo Paradisi

ROMA. «Un sereno voto di fiducia», così il ministro della giustizia Angelino Alfano ha definito il via libera al ddl sulle intercettazioni dato dal Senato con 164 voti a favore e 25 contrari. Ironia involontaria? Verrebbe da pensarlo visto che la giornata di ieri è stata tra le più convulse e agitate dell’intera legislatura. È cominciato con l’occupazione del Senato da parte dell’Idv, è continuata con i senatori del Pd che hanno abbandonato l’Aula in segno di protesta al grido di «Questa è la morte della libertà», ed è finita con la proclamazione di un «black-out della stampa» per il 9 luglio: uno sciopero dei giornalisti contro il bavaglio. Ora la legge tornerà alla Camera per una nuova lettura e quello che dovrebbe essere il voto definitivo per la sua approvazione. A meno che non sia di nuovo cambiata, come sperano i finiani.

L’ALLARME DI VIA NAZIONALE

UGUAGLIANZA E ANZIANITÀ

«Attenti, solo con i tagli si affossa il Pil»

Ora bisogna cambiare anche quelle private

di Francesco Pacifico

di Gianfranco Polillo

mma Marcegaglia chiede più riforme. Bankitalia – attraverso il capo dell’ufficio studi Salvatore Rossi – lancia l’allarme che «potrebbero essere necessari ulteriori interventi qualora non si presentasse uno scenario più favorevole». Per i governatori, i sindaci e tutti gli amministratori pubblici la manovra da 24,9 miliardi mette persino a rischio l’attuazione del federalismo fiscale. Si sarà anche dimostrata un deterrente contro la speculazione internazionale, ma la Finanziaria di Giulio Tremonti sta mettendo a durissima prova la coesione sociale del Paese. Nonché quella dello stesso governo.

ensioni: si cambia. Ma ancora una volta è toccato all’Europa fare il lavoro sporco. Imporre quel cambiamento che, sebbene da molti evocato – e noi tra questi – non aveva prodotto alcuno effetto. Colpa di una politica stanca, incapace di anticipare gli avvenimenti; ma sempre al rimorchio di qualcosa che accade al di fuori dei confini nazionali. Antonio Gramsci parlava, in questi casi, di “rivoluzione passiva”. Di un proletariato bloccato nell’iniziativa politica di fronte ad un capitalismo che recava in se le stimmate del cambiamento e su questo costruiva l’alternativa riformista. Oggi non c’è nemmeno questo.

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Il ministro Sacconi dice no a ulteriori modifiche

Il tabù dei 65 anni cade solo a metà «Per fare una vera riforma e risparmiare davvero, bisogna che il limite non salga solo per lo Stato»: è questo il commento di Fiorella Kostoris e Luigi Paganetto

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Errico Novi • pagina 4 I QUADERNI)

• ANNO XV •

NUMERO

112 •

WWW.LIBERAL.IT

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IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Repressioni. Approvata la legge sugli ascolti nelle indagini con 164 voti a favore e 25 contrari. Ora il testo va alla Camera

Piange il telefono

Passa al Senato il ddl sulle intercettazioni: il Pd lascia l’Aula, i giornalisti annunciano lo sciopero. Ma Alfano dice «voto sereno» di Riccardo Paradisi n sereno voto di fiducia», così il ministro della giustizia Angelino Alfano ha definito il via libera al ddl sulle intercettazioni dato dal Senato con 164 voti a favore e 25 contrari. Ironia involontaria? Verrebbe da pensarlo visto che la giornata di ieri è stata tra le più convulse e agitate dell’intera legislatura. Con i senatori del Pd che hanno abbandonato l’aula in segno di protesta al grido di «Questa è la morte della libertà» e gli esponenti dell’Italia dei Valori che hanno occupato i banchi della maggioranza. Ora la legge tornerà alla Camera per una nuova lettura e quello che dovrebbe essere il voto definitivo per la sua approvazione. A meno che, ovviamente, non sia posta la fiducia e il maxiemendamento venga di nuovo rivisto. Almeno questo è l’auspicio dell’ala finiana del Pdl e del presidente della commissione Antimafia Beppe Pisanu il quale a chi gli domanda se auspica un miglioramento del ddl intercettazioni alla Camera risponde: «Certo che me lo auguro. Come si fa a non augurarselo? Il meglio è sempre migliore del peggio...». Anche Fabio Granata, che ci tiene a dire di parlare a proprio nome – Fini non si è ancora pronunciato in merito a questo passaggio – auspica che «di fronte ad alcune incongruenze riguardanti le intercettazioni ambientali e i reati collegati a mafia e usura il testo sulle intercettazioni possa essere rivisto».

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Già ma rivisto come, visto che lo stesso premier ha annunciato che ulteriori modifiche al testo non saranno previste e che probabilmente anche alla Camera verrà posta la fiducia? Granata non lo chiarisce: «Noi poniamo la questione, ne parleremo anche nel partito, cercheremo di aprire il dibattito». Sembra francamente una mozione delle intenzioni più che

un programma politico. L’intesa sulle intercettazioni tra Berlusconi e Fini appare infatti raggiunta, con l’expedit del Quirinale, come continuano a dire fonti informate. Con buona pace, se così fosse, del leader dell’Idv Antonio Di Pietro, che si appella al presidente della Repubblica Napolitano perché non firmi il provvedimento che invece Pdl e Lega hanno votato «orgogliosi e convinti» come dice il presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri nel concludere la sua dichiarazione di voto sulla fiducia al ddl intercettazioni. «Un testo equilibrato, che rispetto alla precedente versione ha recepito rilievi e critiche arrivati da più parti e che consentirà comunque l’attività di indagine».

il loro presidente Anna Finocchiaro. Mentre continuavano gli applausi la Finocchiaro ha fatto cenno ai suoi di abbandonare l’Aula lasciando gli esponenti della maggioranza da soli insieme ai senatori del gruppo misto. «Il gruppo del Pd non parteciperà al voto, perché vogliamo che risulti con evidenza che da qui inizia il massacro della liberta», dice Finocchiaro, a conclusione della sua dichia-

l’ultimo si sono riempiti la bocca di parole come legalità e istituzioni per poi piegarsi al volere del premier». Ma nell’aula del senato sono risuonati toni anche più misurati per contestare la legge sulle intercettazioni. «La stravagante e irragionevole scelta fatta dal gruppo di Italia dei Valori di occupare l’aula del Senato scimmiotta la stessa tracotanza che ha dimostrato di avere il Gover-

a morire il Centro lascia ventilare la possibilità di voto positivo a Montecitorio nel caso la maggioranza mostrasse maggiore apertura.

Ma la contestazione alla legge sulle intercettazioni è già fuoriuscita dal Parlamento. La federazione nazionale della stampa ha indetto per il 9 luglio la ”giornata del silenzio” per la stampa italiana con lo sciopero generale dei giornalisti. La mobilitazione del sindacato non si ferma allo sciopero. Da domani, in edicola ci saranno giornali listati a lutto e manifestazioni davanti alle sedi istituzionali. Si fanno sentire anche i togati del Csm: la scelta del Governo di porre la fiducia sul ddl in materia di intercettazioni ”e’ un’imposizione”, mentre «su temi di questo genere, che toccano i diritti dei cittadini deve esserci un dibattito dentro e fuori dal Parlamento». Tutte le grandi inchieste che sono all’attenzione delle cronache di questi giorni, nascono in effetti da intercettazioni che, dicono i magistrati, «sono l’unico elemento di prova che nasce come prova eterna». Anche il togato di Magistratura Indipendente – componente moderata del Csm – Antonio Patrono, si dice convinto che «la disciplina attualmente in vigore fosse idonea e sufficiente: non capisco perché si sia dovuto intervenire. Piuttosto erano insufficienti le sanzioni sulla violazione del segreto, io mi sarei limitato ad intervenire su quello». Si diceva appunto che anche nel centrodestra c’è l’auspicio che alla Camera si possa di nuovo intervenire sul provvedimento. La fronda finiana – che ha smesso di stormire come dice polemicamente l’opposizione – non rinuncia a esternare la propria insoddisfazione. È il periodico online della Fondazione Farefuturo a farsi carico, con toni quasi lirici, di manifestare il disagio: «Si poteva fare di più e di meglio.Tanto è cambiato: è vero. Ma tanto forse poteva ancora cambiare. Ed è inutile nasconderla, questa delusione. Inutile nasconderla questa insofferenza - scrive Filippo Rossi - verso se stessi. Verso un ruolo difficile, di persone che vogliono mettere in campo tutta la propria capa-

Sul piede di guerra anche Csm e Federazione della stampa che annuncia uno black-out della categoria per il 9 luglio. Pisanu e l’Udc puntano a nuove, possibili aperture a Montecitorio

Una dichiarazione quella di Gasparri che il presidente dei deputati Pdl ha potuto pronunciare solo quando i deputati del Pd hanno smesso di applaudire

razione di voto, «un attentato alla democrazia e alla libertà di stampa», incalza l’Idv che nella sua polemica contro il governo coinvolge anche il presidente della Camera Gianfranco Fini. Il presidente della Camera per i dipietristi, ha costituito la foglia di fico a un’operazione oscena: «Questo ddl è un pugno allo stomaco per la legalità – afferma Luigi de Magistris, eurodeputato Idv – inferto dal governo dopo aver completamente svuotato il Parlamento, con la complicità di quelle componenti ipocrite che sono la Lega e i finiani, che fino al-

no e la sua maggioranza nei confronti del Parlamento e delle sue funzioni», dice Alleanza per l’Italia, votando contro il provvedimento ma stigmatizzando il comportamento dei dipietristi. È un no detto sul merito del provvedimento anche quello dell’Udc: dopo le varie modifiche il ddl era arrivato a contenere delle ”importanti novità” secondo i centristi, ma i senatori Udc sono rimasti ”basiti”dalla decisione del governo di porre la fiducia. ”un gesto di chiusura” che ne ha richiamato automaticamente un altro. Ma siccome la speranza è l’ultima

E per la Rai sono in arrivo anche i tagli ai compensi ROMA. La strategia della maggioranza nei confronti dei media e della comunicazione non passa solo attraverso la legge sulle interecettazioni, ma anche per un’attenzione tutta speciale nei confronti della Rai. Dopo la decisione di rendere pubblici i compensi per format e conduttori, ora arrivano anche i tagli agli stipendi dei dipendenti. L’emendamento è a firma di Roberto Calderoli e Umberto Bossi e ieri ha avuto il via libera del Consiglio dei Ministri: il governo ha deciso di tagliare gli stipendi dei dirigenti Rai e di modificare il provvedimento 177 del 2005, ovvero il testo unico dei servizi media radio-televisivi. Per chi percepisce un compenso che va dai 90mila ai 150mila euro il taglio è del 5%, sopra quella cifra il taglio raggiunge il 10%. Ma riduzioni di compenso sono in arrivo anche per i non dipendenti della televisione pubblica. Gli stipendi dei lavoratori non dipendenti che prestano servizio in Rai, fino al 31 dicembre del 2013, saranno ridotti almeno del 20 per cento rispetto alla media dei bilanci del triennio 2007-2008-2009. Lo prevede un altro emendamento al testo unico sempre ddi Calderoli approvato dal Consiglio dei ministri.


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La manovra di Giulio Tremonti è stata criticata dal direttore centrale di Bankitalia che ha detto: «Con i soli tagli, il Pil rischia di scendere di mezzo punto». Mentre Berlusconi ha vinto il primo round della guerra contro le intercettazioni

«Attenti, solo con i tagli si affossa il Pil» Nuovo allarme di Bankitalia: «Se la situazione peggiora, ci vorrà una manovra bis» di Francesco Pacifico

ROMA.

Emma Marcegaglia chiede più riforme. Bankitalia – attraverso il capo dell’ufficio studi Salvatore Rossi – lancia l’allarme che «potrebbero essere necessari ulteriori interventi qualora non si presentasse uno scenario più favorevole». Per i governatori, i sindaci e tutti gli amministratori pubblici la manovra da 24,9 miliardi mette persino a rischio l’attuazione del federalismo fiscale. Minaccia, questa, di un certo rilievo con Calderoli che si accinge a presentare il decreto sul trasferimento dei tributi. Si sarà anche dimostrata un deterrente contro la speculazione internazionale, ma la Finanziaria di Giulio Tremonti sta mettendo a durissima prova la coesione sociale del Paese. Coesione che per il governo e lo stesso ministro è risultato un’arma impareggiabile per lenire gli effetti della crisi ed evitare le durissime proteste di piazza, che si sono verificate all’estero.

In attesa che l’esercito degli statali occupi le strade di Roma per lo sciopero indetto domani dalla Cgil, sono proprio gli enti locali il maggiore ostacolo dell’esecutivo in questa fase. Con i quali è ancora più difficile dialogare visto il clima di disordine che regna all’interno della maggioranza, come dimostra anche la retromarcia sul taglio delle Province. Il governo infatti si è rimangiato il timido taglio sugli enti con meno di 220mila abitanti. Durante la discussione sul codice delle autonomie il relatore, e presidente della commissione Affari costituzionali della Camera Donato Bruno, ha presentato un emendacità di moderazione, di dialogo, di compromesso per fare qualcosa di buono per il proprio paese dalla posizione in cui si trovano». Ma tanta sofferenza non s’è tradotta in un voto contrario, come mai? potrebbe chiedersi l’osservatore, «Date le condizioni – allarga le braccia Filippo Rossi – questo era il

mento per sopprimere la misura. La misura – forse ispirata dalla Lega – non piace ai finiani. Italo Bocchino ha già annunciato per la manovra un emendamento con il quale cassare gli enti con meno di 400 mila abitanti. «La classe politica italiana», dice, «e in particolare il Pdl, non sta facendo una bella figura».

Il maggiore teatro di scontro riguarda le Regioni. Ospiti del ministro per gli Affari regionali, Raffaele Fitto, ieri si è tenuto un vertice molto teso tra il responsabile dell’Economia, quello per la Semplificazione Roberto Calderoli e il presidente della Conferenza delle regioni, Vasco Errani. Un incontro che si è risolto con un nulla di fatto. «Da Tremonti», ha fatto sapere Nichi Vendola, «è arrivato soltanto un colpo al cuore dello stato sociale, un massacro che renderà la regioni enti in grado di essere solo amministratori fallimentari delle proprie risorse. Ci ha detto che oggi sono i numeri che fanno la politica e non il contrario. Serve una ribellione sociale». Secondo le Regioni i tagli della manovra – soprattutto i 4,5 sui trasferimenti per le materie regolate per la Bassanini – finiscono per cancellare le risorse per il fondo perequativo attraverso il quale far partire il federalismo fiscale. Se nel breve termine questi riduzioni possono causare una riduzione nell’erogazioni di servizi essenziali come il

massimo che si poteva ottenere. Forse. E quel forse, inutile negarlo, pesa come un macigno. Per chi deve combattere una battaglia per una nuova politica all’interno di uno schieramento questo ddl non può che deludere, non può che deludere in primo luogo se stessi». Roba da psicanalisi. Ma se

trasporto pubblico, l’assistenza alle categorie più deboli o la difesa dell’ambiente, nel medio e lungo periodo l’assenza di questi fondi potrebbe far saltare il principale strumento – la perequazione – per evitare che venga acuita la distanza tra Nord e Sud. Secondo i governatori non c’è altra strada che spalmare il conto presentato dal governo – circa 145 miliardi per il prossimo biennio – su diversi livello istituzionali, iniziando dai ministeri. Altrimenti rischia il decreto Calderoli rischia di essere bocciato in Stato-Regioni come il 56/2000 di prodiana memoria. Non a caso Errani ieri ha fatto notare che «nella relazione sui costi che dovrà essere elaborata entro il 30 giugno occorrerà chiarire bene quali sono i livelli di spesa pubblica nel nostro Paese e i livelli essenziali di assistenza». Intanto – accanto all’approvazione dello scalone per equiparare l’età pensionistica tra uomini e donne – il Consiglio dei ministri ha anche tagliato del 20 per cento la spesa per funzionari e dipendenti statali. Nello stesso consesso Berlusconi ha annunciato di aver trasferito al ministro per i Rapporti con le Regioni, Raffaele Fitto, le competenze sulla gestione dei fondi fas, finora tenute dal ministero dello Sviluppo economico. A livello parlamentare poi si lavora su non pochi emendamenti per rendere la manovra più votata allo sviluppo. E

Si accende lo scontro tra Tremonti e i governatori, pronti a mettersi di traverso sul federalismo fiscale

nel Pdl ci sono le contorsioni esistenzialiste di Farefuturo c’è anche la franca brutalità della destra berlusconiana, quelli per cui questa legge è troppo poco. «Prodi deluse e sprofondò anche perché condizionato dai ricatti dei partitini dell’1% – riflette amaramente Giancarlo Lehner, deputato del Pdl. Noi

l’operazione risulta ogni giorno più complessa visto che Berlusconi in primis ha intimato alla maggioranza di mantenere intatti i saldi previsti dal ministro Tremonti. Al riguardo il sottosegretario allo Sviluppo, Stefano Saglia, ha fatto sapere che «la manovra contiene alcuni riferimenti sulle rinnovabili e stiamo lavorando affinché in sede di conversione vengano corrette le storture». Riferimento all’articolo 45 del decreto che abolisce l’obbligo per il Gse di ritirare i certificati verdi in eccesso.

Dopo l’equiparazione dell’età di ritiro tra uomini e donne nel pubblico impiego Beatrice Lorenzin, viceresponsabile Pari opportunità del Pdl, ha chiesto maggiore impegno «per politiche attive a favore della natalità e del lavoro femminile». Mentre Emma Marcegaglia ha chiesto una proroga della Tremonti Ter e uno sforzo in più sulla lotta all’evasione per tagliare la pressione fiscale. Appello raccolto dal direttore dell’Agenzia delle Entrate, Attilio Befera, che per il 2010 è convinto «di arrivare a 8-9 miliardi» nella lotta al sommerso. Sempre che la crisi internazionali non chieda un ulteriore intervento visto che una manovra sostanzialmente anticiclica, con «la sua minor crescita economica», ha detto Salvotore Rossi, «retroagirebbe sui conti pubblici determinando un maggior disavanzo nel 2012 valutabile in poco meno di 0,3 punti percentuali, che porterebbe il saldo di quell’anno a circa il 3 per cento del Pil». E renderebbe inutile la stangata dell’anno precedente.

incerottiamo il ddl intercettazioni – parola di Bocchino – per ”favorire la convergenza di Berlusconi e Fini’. In luogo di un sonoro chissenefrega delle convergenze, portiamo a casa una legge-cerotto, scontentiamo l’universo mondo, deludiamo il 99,9% del Pdl, pur di dare credito allo 0,1%». E men-

tre i finiani soffrono e i berluscones si arrabbiano, alla Camera – a conferma che le cose nel Pdl non vanno troppo bene, come lamenta Lehner – la maggioranza continua ad andare sotto (stavolta in un disegno di legge sulla governance della Sanità). Anche le maggioranze piangono.


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l’approfondimento

La novità imposta dalla Ue sarà introdotta in manovra sotto forma di emendamento ed entrerà in vigore nel 2012

L’altra metà del tabù

Pressato dall’Europa, il governo alza l’età di uscita delle statali. Però c’è una nuova disparità: quella con i privati. «Non se ne parla», dice Sacconi. «Eppure solo così sarebbe una vera riforma», spiegano Kostoris e Paganetto di Errico Novi

ROMA. Quanti paradossi in un colpo solo. Anzi, con un solo emendamento: quello che integrerà nella manovra economica l’innalzamento a 65 anni dell’età pensionabile per le dipendenti del pubblico impiego. Il governo vara dunque la misura energicamente richiesta dall’Unione europa, lo fa in un Consiglio dei ministri che conferma al primo gennaio del 2012 l’introduzione della riforma e preserva quindi i diritti acquisti al 31 dicembre del 2012. C’è dunque lo “scalone” che innalza la soglia da 61 a 65 anni in un colpo solo, ma c’è soprattutto un atteggiamento davvero curioso dell’esecutivo, in particolare del ministro del Welfare Maurizo Sacconi, che annuncia personalmente la decisione in conferenza stampa a Palazzo Chigi e tiene nello stesso tempo a dire che «la novità non riguarda affatto il settore privato e non è nemmeno la premessa di un successivo intervento in quell’ambito». A dire il vero il paradosso era apparso chiaro già nei giorni

precedenti. Mercoledì Sacconi aveva anticipato l’intenzione di «mantenere invariata la differenza fra età di pensione degli uomini e delle donne nel privato». Ci si limita così a ottemperare alle prescrizioni di Bruxrelles, punto. Quasi dimentiocando che l’Europa aveva posto proprio una questione di “principio”: la discriminazione reale delle donne sul posto di lavoro. E invece il governo intende solo evitare le sanzioni: atteggiamento che diventa chiaro proprio nel momento in cui si esclude ogni ipotesi di applicazione al settore privato dell’innalzamento.

Il secondo paradosso, contenuto nel primo, è che lungo questa strada non si raggiunge nemmeno un particolare obiettivo in termini di risparmio: è lo stesso ministero del Welfare a segnalare che le minori spese si limitano a un milione e 450mila euro da spalmare in ben dieci anni: come dice anche Renato Brunetta «l’adeguamento non servirà a fare cassa, perché per il 2010 il risparmio è zero, nel

2011 è zero», ma anche quando la misura diverrà effettiva, nel 2012, si risparmieranno «50 milioni e poi 150 l’anno successivo», e così via. Poco. Sarebbe decisivo, invece, l’impatto sui conti di un innalzamento esteso al privato. Il terzo, e forse più estremo paradosso si intravede nelle rassicurazioni di mezzo governo, compresa la responsabile delle Pari opportunità Mara Carfagna, sull’uso che si farà di questo piccolo margine: «Ne verrà un fondo destinato alle politiche sulla non autosufficienza e, in seguito, agli asili

Dure critiche dalla Cgil: «Misura iniqua e abnorme». No anche dal Pd

nido». E cosa succederà, a quel punto? Che queste compensazioni verranno destinate alle sole lavoratrici del settore pubblico, visto che sono le uniche a vezdersi innnalzata la soglia della pensione? E se così fosse, non si creerebbe un’ulteriore, assurda discriminazione, stavolta a danno delle dipendenti del privato, giacché i servizi sociali che rendono compatibili maternità e lavoro dovrebbero costituire un diritto per tutte? «È un’ulteriore contraddizione», osserva Fiorella Kostoris, che oggi terrà a Palazzo Mada-

ma una conferenza stampa con Emma Bonino e Piero Ichino proprio per illustrarne tutto l’ampio spettro. «Il nodo di fondo è che l’Unione europea aveva posto un’effettiva questione di parità, non limitata all’aspetto previdenziale ma concentrata in generale sul tema occupazionale. Con la decisione di limitarsi all’innalzamento dell’età pensionabile per le dipendenti pubbliche anziché eliminare un fattore disciminante se ne aggiunge un altro, in questo caso rispetto alle dipendenti del privato».

Andrebbe ricordato, spiega la docente di Economia della Sapienza, che «se la sentenza della Corte di giustizia è intervenuta sul pubblico è perché in quell’ambito era stato sollevato il caso di partenza, non perché a Bruxelles si ritenga che le impiegate dell’amministrazione dello Stato necessitino di meno tutele». Ma il senso dell’ennesima occasione perduta è «nei risparmi enormemente superiori che sarebbero arrivati da un’applicazione generale del


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Chiamare di nuovo in causa il concetto di «uguaglianza» può essere la chiave di volta

Parità tra pubblico e privato, ce lo impone la Costituzione

Dalla «rivoluzione passiva» imposta dall’Unione Europea, è arrivato il momento di passare a quella «attiva» per completare la riforma di Gianfranco Polillo ensioni: si cambia. Ancora una volta è toccato all’Europa fare il lavoro sporco. Imporre quel cambiamento che, sebbene da molti evocato – e noi tra questi – non aveva prodotto alcuno effetto. Colpa di una politica stanca, incapace di anticipare gli avvenimenti; ma sempre al rimorchio di qualcosa che accade al di fuori dei confini nazionali. Antonio Gramsci parlava, in questi casi, di “rivoluzione passiva”. Di un proletariato bloccato nell’iniziativa politica di fronte ad un capitalismo che recava in se le stimmate del cambiamento e su questo costruiva l’alternativa riformista. Oggi non c’è nemmeno questo. Il Governo è impigliato nei veti contrapposti di uno schieramento sociale – pezzi del sindacato e forze politiche a forte vocazione localista – che gli tagliano le ali. L’opposizione non riesce ad uscire dalle contraddizioni del suo labirinto. Anche qui pezzi di sindacato – la Cgil – ed armate giustizialiste – il partito di Di Pietro – che stringono d’assedio il principale partito della sinistra, costringendolo all’immobilismo. Per fortuna che c’è la crisi – il paradosso della situazione italiana – che impone quelle scelte che nessuno ha il coraggio di fare.

P

Ma l’emergenza non può essere il succedaneo di una linea politica. Sotto l’incalzare degli avvenimenti, le scelte si rattrappiscono. Perdono di lungimiranza e sistematicità. Si trasformano in una rincorsa affannosa che tura una falla, ma crea ulteriori scompensi nell’ordinamento giuridico. Che, a sua volta, si vendica generando contenziosi e perdita di senso comune: si può invocare la coesione nazionale se casi uguali sono trattati in modo diverso? Perché le donne del pubblico impiego devono obbligatoriamente andare in pensione all’età di 65 anni e quelle del privato no? Come si concilia tutto questo con l’articolo 3 della nostra Costituzione e la solenne affermazione del principio d’eguaglianza? Naturalmente c’è un precedente. C’è sempre un precedente. Nella manovra appena varata dal Governo è previsto un taglio degli stipendi più alti dei manager del pubblico impiego. I contratti dei dipendenti sono inoltre bloccati per i prossimi tre anni. Qualcosa di simile a quanto deciso in Germania, Spagna e Grecia. Ma, almeno in questo, caso il fumus di una giustificazione esiste. Si monetiz-

za il vantaggio relativo dei pubblici dipendenti. Non sono toccati dalla crisi. Hanno la garanzia del posto fisso: cosa tutt’altro che disprezzabile in tempi di jobless recovery (ripresa senza occupazione). Nel passato i loro incrementi salariali sono stati forse maggiori di quelli del comparto privato. Le decisioni assunte, quindi, almeno da un punto di vista sostanziale non violano il principio di uguaglianza. E poi si deve ridurre il perimetro dello Stato. Scoraggiare la ri-

All’origine dei tanti mali italiani c’è anche una spesa previdenziale che cresce in modo insostenibile cerca affannosa di un posto garantito a vita. Ma nel caso del diverso trattamento pensionistico, tutto questo non regge. Non regge da un punto di vista giuridico. Né da quello economico. All’origine dei tanti mali italiani è anche una spesa previdenziale che cresce in modo insostenibile. La manovra del Governo chiude dei rubinetti che perdono, ma interviene con eccessiva timidezza sulle falle più vistose. Dal 2006 al 2012, secondo i calcoli della Ragioneria dello Stato, il maggior tiraggio della spesa previdenziale, a legislazione vigente, sarà pari ad 1,4 punti di PIL. Un terzo del deficit previsto. L’eliminazione delle finestre porterà un leggero beneficio. E lo stesso avverrà

con i decreti legislativi che allungano nel tempo l’età pensionabile. Ma sono gocce nel mare. Il processo di aggiustamento è ancora troppo lento e non compensa il beneficio di un allungamento della vita.

Se si avesse il coraggio di rispettare il principio di uguaglianza, tutto diverrebbe più rapido. Non chiediamo di fare cassa sulla pelle delle donne del privato. Quelle maggiori risorse – l’ordine di grandezza è di circa 4 o 5 miliardi – potrebbero essere impiegate nell’interesse di tutte le altre: maggiori servizi sociali – a partire dagli asili nido – per consentire a chi lavora la tranquillità necessaria. E non il dividersi faticoso e massacrante tra impegni della famiglia e quelli dell’azienda. E’ così folle questa richiesta? Non esalta forse quel principio di solidarietà collettiva che è il prodotto più responsabile della loro cultura? Che non si tratti di un appello ai buoni sentimenti è dimostrato da quanto realmente sta avvenendo. La crisi in atto, soprattutto le sue incerte prospettive, ha determinato cambiamenti profondi nella condizione di vita della gente. Salvo improvvide impennate di natura più che contingente, la spinta al pre- pensionamento si sta esaurendo. Non si rinuncia, a cuor leggero, ad una parte del proprio reddito, specie nel momento in cui le probabilità di un lavoro aggiuntivo, tanto più se in età avanzata, diventano incerte. Quella molla – vado in pensione, ma poi continuo a lavorare, magari in nero – si sta esaurendo a causa delle cattive condizioni del mercato del lavoro. Le aziende hanno esuberi che devono mantenere. La domanda di lavoro generico – a partire da quella degli immigrati – si è fortemente contratta. Il pensionamento, inoltre, taglia i ponti con una socializzazione più ampia. Rinchiude una persona ancora attiva in un mondo di fantasmi. Ecco allora che la lungimiranza politica può ritrovare una sua ragion d’essere. Può indicare un orizzonte. Chiamare a raccolta delle forze e rendere evidente la contraddizione con coloro – soprattutto nel sindacato - che fanno finta di niente. Che vivono in un mondo immobile che non è quello reale. Naturalmente vi saranno dei contraccolpi. Ma è giunto il momento di snidare quelle componenti dello schieramento politico italiano – sia di maggioranza che di opposizione – che hanno impostato la loro presenza su un semplice bluff. Non si può essere, al tempo stesso, contro lo statalismo ed a favore del “socialismo municipale”. Contro l’assistenzialismo del Mezzogiorno ed il privilegio del Nord. La crisi è uno specchio impietoso. Riflette rughe e lifting mal riusciti. Abbiamo tutti bisogno di una dose massiccia di verità.

nuovo limite. È nel privato che ci converrebbe applicare la misura», per l’evidente ragione che in quest’ambito non va calcolato il peso delle retribuzioni che bisogna continuare a riconoscere». Da vera teorica dell’equiparazione dei diritti delle lavoratrici a quelli dei colleghi maschi, Fiorella Kostoris insiste sulla «necessità di aumentare la domanda di lavoro femminile». Una forma di compensazione, quella sì, capace di accorciare le discriminazioni di genere, giacché, sostiene l’economista, «utilizzare dei risparmi della previdenza nel settore dei servizi alla famiglia vuol dire dare una compensazione, un beneficio, a tutta la famiglia, appunto, e non solo alle donne, come si dovrebbe».

È uno degli aspetti segnalati dall’opposizione. Se Bersani assimila la sua critica a quella di Epifani quando contesta la scelta dell’Esecuitivo soprattutto perché «non si è voluto puntare alla flessibilità in uscita» (la reazione della Cgil resta assai più dura, con l’accusa rivolta al governo di aver adottato un provvedimento «grave, aberrante e iniquo»), è un europarlamentare del Pd come Sandro Gozi a ricordare che, appunto, «quello dell’età pensionabile era un punto formale, giacché per l’Unione europea non poteva essere la differenza nell’età del pensionamento la risposta a un problema di discriminazioni delle donne sul posto di lavoro che è ben più sostanziale». Tanto più che, come dice Fiorella Kostoris, «tutte le ricerche provano che le donne producono più e meglio, e dunque la prima forma di compensazione dovrebbe consistere nell’istituzione di una authority che imponga il rispetto della meritocrazia». Luigi Paganetto ricorda che oltretutto le più avanzate tesi dei demografi «suggeriscono tutta un’altra strada: per esempio una consistente sospensione dell’attività professionale in caso di maternità, con un tempo a disposizione assai superiore rispetto all’attuale congedo parentale e il recupero dell’anno lavorativo a fine carriera, quando ormai i figli sono stati allevati e le donne magari hanno anche un interesse a restare al lavoro». Idee rivoluzionarie? No, ragionevoli, se si considerano i dati sciorinati dallo stesso Brunetta sulle lamentele delle insegnanti per l’impossibilità di allungare la carriera. «E in ogni caso l’estensione al privato costituirebbe la vera svolta, sia dal punto di vista dello stato dei conti pubblici che per la struttura del welfare». Ma da quello che emerge la soluzione indicata dal professore di Economia di Tor Vergata e presidente dell’Enea è tanto strategica quanto lontana, per ora, dai pensieri del governo.


diario

pagina 6 • 11 giugno 2010

Inchiesta. La Lega è già in allarme. Sentiamo l’opinione di Massimo Bordignon, Stefano Caselli e Paolo Feltrin

Il federalismo intermittente La manovra contraddice la riforma? Rispondono gli economisti di Franco Insardà

ROMA. «La questione oggi non è il federalismo, ma la manovra. E siamo alle primissime battute, la discussione vera ci sarà quando sarà approvata dal Parlamento e a quel punto bisognerà già chiedersi se ce ne sarà una seconda tra qualche mese». Paolo Feltrin, professore di Scienza dell’Amministrazione dell’università di Trieste, sposta, quindi, l’asse del ragionamento e si dice scettico che in tempi brevi si possa giungere all’attuazione del federalismo fiscale. E aggiunge: «Nonostante Calderoli stia approntando i decreti attuativi di federalismo se ne parlerà ancora per i prossimi due, tre anni. In questo momento ho la sensazione che tutti navigano a vista e il federalismo è soltanto una bandierina che serve a tenere calmi gli animi». Secondo Massimo Bordignon, professore straordinario di Scienza delle Finanze alla Cattolica e redattore della Voce.info e uno dei massimi esperti in materia di federalismo, c’è «una sorta di schizofrenia che caratterizza i governi di centrodestra, infatti, già nel 2003 era successa una cosa simile. Adesso la prima cosa che ha fatto Tremonti, appena si è cominciato a parlare di federalismo fiscale, è stata quella di togliere l’autonomia sui tributi locali, così le regioni, a parte quelle in deficit che sono obbligate, non possono modificare l’addizionale Irpef e Irap. Lo stesso vale per e i comuni ai quali è stata abolita anche l’Ici sulla prima casa». Più ottimista Stefano Caselli, professore di Economia degli Intermediari finanziari alla Bocconi, secondo il quale «da anni si discute di federalismo e in alcuni casi lo si è fatto in modo poco lucido, perché troppo legato alle vicende politiche. Adesso ci si sta rendendo conto che il federali-

smo può essere un buono strumento di politica fiscale ed economica e si stanno cominciando a prendere le misure sulla riforma. Bisognerebbe essere in grado di fare lo sforzo di tenere la propria maglia politica fuori. Esistono due aspetti che si stanno mescolando: quello politico e quello economico e tecnico.Tagliare le risorse alle regioni è pericoloso, perché in questo modo si costringono ad aumentare le imposte, ma ho la sensazione che questa volta si sta en-

governo e i governatori leghisti fanno registrare una defezione rispetto alla Conferenza delle regioni». Bordignon si dice d’accordo con la posizione assunta da Errani dal momento che la manovra prevede «il quaranta per cento delle entrate che dovrebbe arrivare dall’evasione fiscale, mentre il restante per i due terzi si tratta dei risparmi di regioni ed enti locali. Il governo da parte sua interviene sul pubblico impiego e sull’uscita successiva dal mondo del lavoro e con tagli

«L’operazione è sbilanciata», aveva denunciato Errani. E poi tagliare fondi alle Regioni è pericoloso: così si costringono gli enti locali ad aumentare le imposte trando veramente nel merito della partita del federalismo, incidendo sui numeri».

E sono proprio i numeri che non convincono il governatore dell’Emilia Romagna e presidente della Conferenza delle regioni Vasco Errani, secondo il quale «la manovra è sbilanciata». Per il professor Feltrin «Errani rappresenta la conferenza delle regioni, che ha come compito istituzionale quello di fare pressione sul governo a difesa delle regioni. Siccome in questa manovra sono previsti tagli più per le amministrazione regionali che per quelle centrali è inevitabile che ci sia la richiesta di spostarli verso il centro rispetto alla periferia. È la classica contrattazione che invece di avere di fronte imprenditori e sindacati ha il governo e le regioni. In questo quadro la Lega, per un evidente interesse, fa di tutto per dimostrarsi l’alleato più fedele del

lineari ai ministeri per il rimanente terzo. Non è chiaro esattamente come le regioni e gli enti locali potranno far fronte a tagli di queste dimensioni, dal momento che si tratta di 4,5 miliardi di riduzione che diventano 8,5 se si cumulano i due anni, mentre per i comuni la cifra è di 2,5 miliardi. È evidente che i tagli sono davvero pesanti».

«Il governo centrale sta andando giù duro – ammette Stefano Caselli –, mentre le regioni cercano spazi di autonomia: la partita è questa. Penso che, come avviene sempre in Italia, si arriverà a una mediazione e a quel punto, però, bisognerà stabilire le regole e si riusciranno a trovare delle modalità per definire il livello dei costi standard sarà un passo avanti veramente importante, perché a quel punto i virtuosi saranno premiati e gli altri si troveranno in difficoltà vera. Se si fanno invece dei tagli e

non arrivano i criteri dei costi standard non ci sarà via d’uscita».

La sensazione del professor Bordignon è che si stia, invece, andando nella direzione opposta al federalismo anche se «il governo giustifica i tagli come un passo intermedio per l’attuazione del federalismo fiscale. Faccio più fatica a capire come potrà essere applicata la legge delega in alcune sue parti. C’era tutta una discussione sulla legge delega nella quale si distingueva tra due forme attraverso le quali si sarebbe fatta la perequazione: una per quelle che sono le funzioni essenziali come la sanità e l’istruzione e un’altra parte destinata alle altre funzioni. Le risorse dovevano essere ridistribuite secondo questo criterio, con l’eliminazione dei trasferimenti e la loro sostituzione con un incremento delle addizionali che le regioni hanno rispetto all’Irpef. Oggi i trasferimenti sono stati aboliti e i 4,5 miliardi sono la riduzione di programmi di spesa previsti dalla legge Bassanini: dai trasporti locali, all’ambiente, alla formazione. Queste voci dovevano essere comunque abolite e sostituite con un’addizionale accresciuta all’Irpef che poi sarebbe stata ripartita tra le regioni. Per il momento c’è solo la riduzione dei trasferimenti, ma non c’è traccia dell’addizionale e questo mette in discussione almeno pezzi del federalismo fiscale. Ma la partita più dura sarà sui costi standard perché bisognerà vedere come verranno determinati e la loro redistribuzione alle regioni». Insomma se fino ad oggi una devolution c’è stata questa ha riguardato esclusivamente i tagli.


diario

11 giugno 2010 • pagina 7

Il caso virtuoso dell’Istituto Isa di San Leucio

Il governatore del Lazio: «Ci siamo quasi, ma niente previsioni»

Quando la scuola impara l’arte contro la crisi

Polverini: «Presto anche l’Udc in Giunta»

NAPOLI. Ancora su scuola e sol-

ROMA. «L’Udc entrerà in Giunta. Ci siamo quasi, ma non mi fate fare previsioni». Lo ha detto ieri il presidente della Regione Lazio, Renata Polverini, al termine di una conferenza stampa a chi le chiedeva quando ci sarà il rimpasto di Giunta, alla luce anche del rinvio del Tar del Lazio al 16 settembre della decisione sul numero dei consiglieri regionali.

di. La crisi economica e i tagli alla spesa pubblica inevitabilmente si fanno sentire sulla macchina amministrativa della scuola. Non sono pochi gli istituti che hanno i conti in rosso e le scuole che hanno difficoltà ad avere in cassa i soldi sufficienti per pagare le commissioni per gli esami di Stato. Ma c’è chi trova buone soluzioni: è il caso dell’Isa San Leucio, l’Istituto Statale d’Arte che lega il suo nome allo storico Belvedere di San Leucio a Caserta, che sorge alle spalle della monumentale Reggia del Vanvitelli e fu voluto sul finire del Settecento dalla famiglia reale di Napoli.

L’Istituto d’Arte ha puntato su altri settori come quelli della moda, del design e del restauro. A fine anno, a coronamento del percorso di studio e lavoro dei laboratori, la scuola dà vita a una mostra, giunta alla XII edizione, in cui gli alunni espongono quanto sanno fare nel campo della moda, del restauro, del design. Ma con i tagli e la riduzione dei trasferimenti la XII edizione di “Isa in Mostra” ha corso il serio rischio di non andare in scena. Il preside, Giuseppe De Nubbio, è riuscito a trovare i soldi necessari per realizzare un progetto che è il compimento dell’itinerario didattico dell’istituto e lo qualifica: «Abbiamo rinunciato all’as-

Berlusconi lascia solo l’ospite Zapatero «Incidente» durante la visita del premier spagnolo di Marco Palombi

ROMA. Le conferenze stampa tra Silvio Berlusconi e José Luis Zapatero oramai stanno diventando la croce del cerimoniale di palazzo Chigi. Nelle ultime due occasioni, alla Maddalena nel settembre 2009 e ieri, il premier italiano ha per così dire abbastanza largamente travalicato il limite della buona creanza diplomatica. Qualche mese fa il premier ebbe parole vagamente minacciose nei confronti del quotidiano El Pais, il cui inviato Miguel Mora ebbe l’ardire di chiedergli se non pensava alle dimissioni visto lo scandalo escort che lo vedeva coinvolto, ieri mattina invece ha semplicemente abbandonato la sala prima di vedersi rivolgere qualsiasi domanda. Identica, in entrambi i casi, la faccia da mister Bean basito del premier spagnolo. Una fattispecie muscolare che a Roma viene rubricata sotto la categoria “machedavero?”, frase idiomatica che esprime in un’unica soluzione fonetica sorpresa, imbarazzo, incredulità, passiva accettazione di un destino beffardo.

I fatti. Berlusconi e Zapatero si incontrano a palazzo Chigi, dal bilaterale esce il solito compitino su «difesa dell’euro» e «politica internazionale condivisa», poi i due vanno nella sala dei Galeoni, dove tradizionalmente si tengono le conferenze stampa congiunte ed ecco l’ennesimo patatrac. Il sorridente Cavaliere ha appena ottenuto la fiducia del Senato sul ddl intercettazioni quando arriva sul palchetto accanto all’omologo spagnolo: il nostro lo presenta da consumato showman, ne loda «il coraggio» per le misure anti-crisi, ne decanta «l’autorevolezza» in sede europea, ne ascolta compiaciuto la dichiarazione preliminare. A quel punto sarebbe il momento dei giornalisti italiani e spagnoli presenti, ma Berlusconi ha altri programmi: «Lascio l’amico José Luis alle domande dei giornalisti, immagino sulla sua visita in Vaticano – e intanto stringe la mano a Zapatero –. Lo saluto come si saluta un santo: avendo appena avuto la benedizione del Papa è in uno stato di assoluta

grazia. Vi lascio augurandovi buon soggiorno in Italia: più venite e più ci fate piacere». Nell’aria ancora risuonavano le sue parole, ma il nostro non c’era già più. Andato. È un attimo di sospensione. Lo spagnolo guarda incredulo in direzione del premier italiano (“machedavero?”), tenta di capire cosa sta succedendo e a gesti Berlusconi gli fa capire “me ne vado”. Dopo alcuni imbarazzanti secondi il cerimoniale gli fa segno di scendere e Zapatero abbandona il campo, le telecamere a circuito chiuso di palazzo Chigi vanno al nero per qualche istante, i giornalisti presenti in sala vociano in un brusio sorpreso (“machedavero?”, sembravano dire in coro). Infine torna Zapatero, alle sue spalle c’è solo la bandiera iberica, e risponde alle domande dei cronisti spagnoli. A quel punto lo staff del capo del governo tenta di cambiare le carte in tavola, fornendo alla stampa una pietosa velina: il Cavaliere si sarebbe allontanato, dicono, perché non voleva essere presente a richieste di chiarimenti sull’incontro tra il premier spagnolo e il Papa, visto che quell’argomento tocca i rapporti tra due stati esteri. Ai più però è tornata in mente la faccia addolorata e sorpresa di Josè Luis (“ma que daver¡”) nel settembre scorso, quando Berlusconi intrecciò le lame con Miguel Mora dopo essersi dichiarato – in pieno periodo Noemi/D’Addario – «un grande estimatore dell’altra metà del cielo». E dopo la domanda del cronista spagnolo, apriti cielo. Il sorriso rimase, ma in fondo agli occhi del nostro l’ombra dell’incazzatura incupì la sala: «Non c’è nessun giro di prostituzione – scandì – sono solo menzogne». Quanto a Mora e al suo giornale un ammonimento: «Non bisogna essere faziosi. Si vede che lei legge solo Unità e Repubblica e potrei aggiungere anche tante cose che lei scrive sul suo quotidiano, ma le evito. Di questo passo si va verso la caduta delle copie, dei lettori e della pubblicità. Così si va verso il fallimento. E il Pais dovrebbe saperne qualcosa...». Poi, El Pais, tentò perfino di comprarselo.“Machedavero?”Sì.

Il Cavaliere evita le domande dei cronisti iberici, dopo il celebre litigio di un anno fa alla Maddalena sulle escort

sicurazione dei beni interni della scuola e con i soldi recuperati abbiamo finanziato una parte della mostra. Dal prossimo anno la tassa d’iscrizione passerà da 80 a 100 euro: finanziamento che speriamo sia sufficiente per assicurare alla scuola un minimo di autonomia gestionale che è indispensabile per offrire un buon servizio». Potrà sembrare un paradosso, ma dalle difficoltà può nascere una risposta positiva delle scuole che, messe alle strette, sono quasi costrette non solo a fare di necessità virtù, ma a dare un senso concreto alla cosiddetta autonomia scolastica.

«Stiamo lavorando per completare la Giunta così potremo lavorare con maggiore serenità», ha aggiunto la Polverini, che - a chi le chiedeva quali saranno gli assessori sacrificati ha precisato: «Non ci saranno sacrifici». Durante la conferenza stampa (seguita ad una

riunione della Giunta), la Polverini ha annunciato l’approvazione, da parte del governo regionale, delle linee guida per la somministrazione della pillola abortiva Ru486. Le direttive prevedono che il farmaco venga «somministrato esclusivamente in regime di ricovero ospedaliero, in linea con il parere del Consiglio superiore di sanità e la determina dell’Agenzia italiana del farmaco», ha spiegato la governatrice. Ma la strada intrapresa dalla “pillola della discordia” per approdare negli ospedali laziali non finisce qui. «Abbiamo dato mandato alla Asp - spiega la presidente - di stimare il fabbisogno di posti letto da dedicare all’interruzione di gravidanza con Ru486. Bisognerà dunque attendere un successivo provvedimento che individui le strutture con i requisiti migliori per salvaguardare la salute delle donne». La Giunta, infine, ha approvato una delibera che riduce del 10% lo stipendio del capo di gabinetto, del vice capo di gabinetto e del segretario generale. Una riduzione, ha dichiarato la Polverini, che «entrerà subito in vigore, ma non ha nulla a che vedere con i tagli previsti nella manovra finanziaria».


Sudafrica. Nel 1995, dopo aver vinto i mondiali di rugby, il Paese era l’arcobaleno immaginato da Mandela. Oggi non più

Il sogno si è spezzato

Corruzione politica, povertà, violenza, 800 morti al giorno di Aids, la rinascita xenofoba e l’Islam stanno affossando la speranza l 20 ottobre 2007, allo Stade de France, dopo aver battuto l’Inghilterra davanti a 80mila spettatori, il tallonatore John Smit, capitano degli Springboks alzava al cielo di Parigi la coppa William Webb Ellis: per la seconda volta nella storia il Sudafrica era campione del mondo di rugby. Ma non c’è alcun dubbio che la prima vittoria, nel 1995, fu infinitamente più importante. E non tanto perché i sudafricani sconfissero in un’epica finale gli All Blacks neozelandesi, i rivali di sempre, che in quegli anni schieravano una delle formazioni più forti di tutti i tempi, ma perché il rugby – sport che era sempre stato tradizionalmente un affare dei bianchi, fino a diventare uno dei simboli dell’apartheid – in quella occasione fece fare un enorme balzo in avanti al cammino di pacificazione della “nazione arcobaleno”.

I

Quando

in un evento di portata storica, anche grazie all’appoggio del suo predecessore, Frederik W. de Klerk, l’ultimo presidente bianco del Sudafrica, colui che seppur politico fortemente responsabile del regime dell’apartheid - aveva posto fine alla politica segregazionista facendo transitare il Paese verso la democrazia e che, dopo essere stato sconfitto alle elezioni, aveva accettato la posizione di vicepresidente, dando così un contributo sostanziale alla riappacificazione nazionale (e nel 1993 Mandela e de Klerk hanno condiviso il Premio Nobel per la pace). Il giorno

della finale, mentre passava in rassegna le squadre schierate al centro del campo, Mandela, il primo presidente nero del Sudafrica, ricevette dalle mani del tre-quarti centro Hennie Le Roux un cappellino degli Springboks, il dono più afrikaan che si potesse immaginare: con un largo sorriso se lo calcò sui capelli d’argento e riprese a stringere le mani dei giocatori. In quel momento l’intera nazio-

Per Desmond Tutu il Paese si sta trasformando in una «repubblica delle banane», lontana anni luce dallo spirito anti-apartheid

l’International

Rugby Board decise di assegnare al Sudafrica l’organizzazione della terza coppa del mondo fece una scelta certamente coraggiosa, ma non avventata: il Sudafrica, infatti, era ben avviato sulla strada delle riforme e il processo di integrazione tra bianchi e neri era ormai giunto ad un punto di non ritorno. Dal maggio del 1994 alla guida del Paese c’era Nelson Mandela, un uomo che seppe trasformare quella manifestazione sportiva

effettivamente un grande ruolo sociale e politico.

di Luisa Arezzo

Due bambini sudafricani, simbolo della pacificazione; in apertira, una danza tribale Zulu in occasione della partita fra Nuova Zeland e Cile. A destra, tifosi

ne si strinse intorno a quei quindici ragazzi e voltò definitivamente pagina, aprendo un nuovo capitolo della propria storia. Alla fine della partita, il capitano Francois Pienaar, ricevendo la coppa dalle mani del presidente Mandela, disse che la squadra non aveva vinto solo per i 60mila tifosi presenti all’Ellis Park, ma per 43 milioni di sudafricani – ed era assolutamente vero. Quell’edizione della coppa del mondo di rugby fu l’esempio più clamoroso di come lo sport possa avere

Oggi, però, quell’atmosfera sembra essersi dissolta. E difficilmente questo mondiale potrà capovolgere la situazione e svelare al mondo un paese etnicamente e socialmente pacificato. La corruzione, anche morale, della classe dirigente nessuno dementica le dimissioni di Mbeki per gli scandali che lo riguardavano e il suo appoggio incondizionato allo Zimbabwe di Mugabe, che provocò disordini e morti (oltre 50) in furiosi scontro fra poveri nel 2008 - le condanne comminate all’allora leader dell’Anc e oggi presidente Jacob Zuma per corruzione, frode e riciclaggio, l’uccisione del leader afrikaneer Terreblanche che ha riportato alla ribalta la formazione dell’estrema destra sudafricana, nostalgica dell’epoca dell’apartheid, che utilizza una simbologia nazista (dallo stemma, alle divise color kaki) e che nei primi anni Novanta aveva tentato di impedire la fine del regime segregazionista, sono sotto gli occhi di tutti. E qualcuno avrebbe dovuto chiedere a Nelson Mandela: «È per questo che hai lottato?» quando decise di comparire al fianco di Zuma e sostenere con il proprio prestigio un leader così lontano dagli ideali che ispirarono la lotta contro l’apartheid. Ma non è successo e


scenari/sudafrica Lo spettacolo lo darà anche il nuovissimo stadio dove Shakira canterà l’inno «Waka Waka»

E oggi per la festa inaugurale ci sarà anche Mandela

Alle 14, ora italiana, inizierà a Johannesburg la cerimonia che dà il via ai Mondiali. Subito dopo, il primo scontro satrà tra Sudafrica e Messico ROMA. È tutto pronto, e come nei grandi eventi che si rispettano, c’è anche la polemica che precede. Oggi al Soccer Stadium di Johannesburg cominciano i campionati mondiali di calcio 2010, alle 14.00 ora italiana con la cantante colombiana Shakira vestita con il total look aggressivo disegnato per lei dallo stilista Roberto Cavalli. Canterà la canzone Waka Waka, scelta come inno ufficiale dei Mondiali del Sudafrica, e che nel paese ospitante hanno criticato perché non rappresentava un richiamo alla tradizione delle terre africane. Atteso anche R. Kelly, autore dell’altro inno dei mondiali Sign of a victory. L’inaugurazione sarà accompagnata dalla mascotte Zakumi, simpatico leopardo in maglietta e calzoncini disegnato da Andries Odendaal. Ma la notizia dell’ultim’ora è che ci sarà anche Nelson Mandela. L’eroe della lotta all’apartheid, premio Nobel per la pace e primo presidente del paese dopo la fine del regime segregazionista, però, non guarderà la prima partita tra i Bafana Bafana e il Messico. Ad annunciarlo è stato uno dei nipoti del 92enne Mandela, Nkosi Zwelivelile Mandela: «Sarà allo stadio. Non sappiamo ancora quanto tempo resterà, ma almeno un quarto d’ora. Verrà per salutare i tifosi, poi tornerà a casa per guardare il match». L’impegno personale di Mandela è stato fondamentale per l’attribuzione al Sudafrica del Mondiale sei anni addietro. La vuvuzela, invece, sarà protagonista indiscussa: la “simpatica”trombetta dal suono ossessivo, di solito decorata con i colori della squadra di casa, sostituirà, pare, l’urlo classico dello stadio e i cori: i sudafricani sono

di Alessandro D’Amato appassionati di questo strumento, anche se la Fifa ha ottenuto che non si suoni durante gli inni nazionali delle squadre che scenderanno in campo. Per i successivi novanta minuti, però, lo sentiranno tutti: giocatori, tifosi allo stadio e appassionati che seguiranno dalla tv, visto che nella Confederation Cup che si è giocata l’anno scorso il rumore si sentiva talmente bene (ed era talmente fastidioso) da far pensare a un disturbo sul collegamento internazionale. Si respira sapendo che saranno vietate le più rumorose e meno celebri kuduzelas, così come i megafoni e le trombe ad aria compressa.

Gli stadi che ospiteranno i mondiali in tutto sono dieci, dislocati in otto delle nove province del Paese. Il totale di capacità è di 570mila persona, e tra questi spicca il gioiello Soccer City, che ha una capacità di 94.700 spettatori ed è il più grande d’Africa. Completamente rinnovato sulla base della struttura originaria del 1987, lo stadio è ispirato alla forma di un «Calabash», un recipiente da cucina tipicamente africano. Degli altri nove, uno è sempre a

Infuriano le polemiche sul nuovo pallone: per molti è troppo leggero e poco controllabile

Johannesburg, gli altri a Tshwane / Pretoria, Mangaung / Bloemfontein, Città del Capo, Durban, Nelspruit, Polokwane, Nelson Mandela Bay / Port Elizabeth e Rustenburg. Intorno agli stadi il merchandising soffrirà: ci saranno zone di restrizione commerciale per il raggio di un chilometro da ogni stadio ufficiale che ospita la manifestazione. Possibile la vendita solo a chi offre prodotti etichettati dalla Fifa, nessun imitazione a basso costo. I piccoli commercianti saranno sfrattati dalla strada principale. La polemica tecnica più deflagrante, però, è quella che ha colpito Jabulani, il pallone ufficiale dei Mondiali. In lingua zulu vuol dire “festeggiare”, ma il pallone prodotto dall’Adidas che verrà utilizzato in tutti gli incontri del torneo ed è stato presentato il 4 dicembre 2009 in occasione del sorteggio dei gruppi è stato riempito di critiche. Sulla sua superfice, oltre al logo della manifestazione, presenta un motivo di undici colori composto da triangoli che ricordano vagamente l’aspetto dell’FNB Stadium (nel quale si disputerà l’atto conclusivo). Ma molti giocatori che parteciperanno alla competizione si sono lamentati della sua eccessiva leggerezza e della scarsa controllabilità.

E poveri anche gli appassionati. Con una media di due partite al giorno da seguire davanti alla televisione, per un totale di 5760 minuti di trasmissione, ai quali si aggiungono eventuali supplementari e lunghi dibattiti, gli italiani rischiano un aumento di peso fino a tre chili, dovuto alla sedentarietà, al maggior consumo di bevande e vari snack, secondo le stime della Coldiretti sulla base di un’analisi del proprio ufficio qualità e sicurezza alimentare che ha evidenziato il rischio per gli appassionati di calcio di accumulare fino a circa 600 chilocalorie al giorno in più durante il periodo dei mondiali. Una tragedia, praticamente.

11 giugno 2009 • pagina 9

Ma non è successo e quell’appoggio è visto - più a ragione che a torto - come un gesto figlio della real politik (l’Anc non avrebbe vinto senza Zuma) e dell’età di Mandela. Che da allora si è ritirato sempre più dalla vita politica del Paese, scegliendo di restare il padre di una nazione che ha sperato di superare l’orrore della segregazione razziale e che oggi si ritrova sull’orlo di un nuovo conflitto sociale.

Chi ha visto Johannesburg sa di cosa parlo: una città con un numero record di omicidi, aggressioni, stupri, rapine, furti, sequestri e droga. Dove la vendita delle armi – usate come sistemi di sicurezza insieme alle case (blindate, con muri e reti elettrificate) – nel corso degli ultimi 10 anni è aumentata del settanta per cento dalla fine dell’apartheid. Desmond Tutu, l’arcivescovo premio nobel per la pace nel 1984 ha detto che il paese rischia di diventare «una repubblica delle banane» e che l’atteggiamento «colpo su colpo» in atto tradisce il sacrificio fatto dagli attivisti anti-apartheid che si sono battuti per la democrazia multirazziale. La frase era figlia del rifiuto del governo al visto per il Dalai Lama nel 2009. «È contro l’interesse nazionale», disse il portavoce del ministro degli Esteri, che sta aprendo fortemente le porte agli investitori cinesi. «È contro la pace del Sudafrica» ribatté deciso Tutu. E aveva ragione. Oggi i i proclami demagogici di Zuma inducono a temere che non riuscirà a gestire le ripercussioni della crisi economica internazionale e i problemi interni di un paese in cui quasi un terzo della popolazione attiva è disoccupato. La previsione di crescita del Pil per il 2011 è la più bassa dal 1988: soltanto l’1,2%. Disoccupazione e disagio sociale sono inoltre terreno fertile per l’Islam fondamentalista, che attribuendo la colpa del crollo ai principi occidentali e cristiani ha realizzato nella provincia di Western Cape un vero è proprio stato di terrore, dove i miliziani islamici sfilano armati, coperti da sciarpe e maschere, gridando di voler combattere la criminalità e lo spaccio di droga, mali d’Occidente. E questo mentre nessuno parla più dell’Aids, fra le questioni più serie che il Sudafrica deve urgentemente (lo si dice da anni) affrontare e dove ogni giorno l’Hiv uccide in media 800 persone al giorno. Tanto da aver già reso orfani oltre 1,5 milioni di bambini. L’epidemia - ammonisce Unaids - dovrebbe essere affrontata nel modo più razionale ed efficiente. Ma anche su questo fronte Zuma sconcerta. Secondo lui, basta una doccia per evitare il contagio: è quel che fece dopo aver violentato la figlia sieropositiva di un suo amico.


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scenari/sudafrica Leone dello sviluppo, eppure politicamente “prigioniero”

Oro e diamanti, ma in viaggio per Pechino

Primo produttore mondiale di metallo e pietre preziose: è questa la sua vera ricchezza. Un Paese sempre più pieno di contraddizioni che, giorno dopo giorno, rischia di perdere la sua autonomia di Maurizio Stefanini l governo usa ancora quello slogan buonista del “Paese dell’Arcobaleno”, con cui Nelson Mandela e Thabo Mbeki avevano presentato al mondo il nuovo Sudafrica multirazziale del post-apartheid. Il rapporto che il Boston Consulting Group ha reso noto il 2 giugno su quella parte di Africa che sta crescendo a ritmi sostenuti ha ricordato che vengono dal Sudafrica ben 18 delle 40 “African Challengers”, quelle multinazionali africane ormai in grado di competere su un piano di parità con i concorrenti del resto del mondo. E nella grande kermesse per il primo mondiale di calcio organizzato in Africa non manca una punta di orgoglio per la decorrenza del mezzo secolo dell’indipendenza africana: cinquant’anni da quella grande ondata di indipendenza che nel 1960 rese le aree occuate da stati decolonizzati da minoranza a maggioranza della mappa continentale, e che ripropone una volta in più il Sudafrica come il campione del Continente. Il vecchio sogno di leadership in nome del quale il governo di Pretoria continua a rivendicare ufficialmente il seggio al Consiglio di Sicurezza. Addirittura una vera e propria alleanza è nata sul tema con altri due aspiranti, India e Brasile. Quell’Ibsa o Asse del Sud, che si propone esplicitamente come direttorio del Sud del Pianeta.Va detto che rispetto ai due partner il Sudafrica può fare la figura del fratello minore. L’India, con oltre un miliardo di abitanti, è il secondo Paese del mondo per popolazione, il settimo per dimensione, e il

I

dodicesimo pr Pil. Il Brasile è quinto per popolazione, quinto per territorio, e tredicesimo per Pil. Il Sudafrica è solo 29esimo come territorio, 27esimo come popolazione e 94esimo come Pil. Attenzione però: il Pil pro-capite è il migliore dei tre: 76eiesimo, contro l’81 del Brasile e il 159esimo dell’India. E già che ci siamo, riguardiamoceli allora tutti gli asset del Sudafrica. La prima produzione mondiale di oro e cromo; la seconda di titanio e manganese; la terza di antimonio; la quarta di diamanti; la sesta di carbone; la settima di nichel, mais e vino; l’ottava di uranio e la nona di ferro, oltre ad avere le più agguerrite multinaziona-

Patria delle multinazionali più agguerrite del pianeta, Pretoria sta adesso aprendo ai cinesi. Scontentando tutti li minerarie del pianeta. Inoltre, rappresentando oltre un quarto dell’economia africana, ha in proporzione sul suo continente un potenziale egemonico anche maggiore di quello esercitabile dal Brasile in Sudamerica o dall’India nell’Asia Meridionale. Essendo tra l’altro l’uno

costretto a fare comunque i conti con l’influenza degli Stati Uniti, l’altra con quella della Cina. E ricordiamo poi quelle multinazionali menzionate dal rapporto del Boston Consulting Group. La Anglo American, innanzitutto.

Primatista planetario nel settore dell’oro e delle miniere in genere, che nel 2017 festeggerà il suo centenario. Poi c’è la Sab Miller: i suoi cent’anni li ha festeggiati già nel 1993 ed è il colosso mondiale della birra. In Italia, padrona anche della Peroni. Ancotra più antica la Old Mutual, che risale addirittura al 1845. Anche se nel 1999 si è “demutualizzata”, trasformandosi in una finanziaria che possiede ad esempio il colosso assicurativo Skandia e il gruppo Nedbank. Non un attore mondiale dello stesso livello, la Aspen Pharmacare è comunque un gruppo farmaceutico con presenza in un centinaio di Paesi. Pure in un centinaio di Paesi opera il gruppo cartario della Sappi. Solo in 18 Paesi sta invece la catena di distribuzione Shoprite, nata nel 1979; e 17 sono in africa. Ma il diciottesimo è l’India, e in Sudafrica copre il 70% del commercio al dettaglio. E un attore regionale è poi l’Mtn Group: si definisce “leader delle telecomunicazioni in Africa e Medio Oriente”, dove è attivo in 21 Paesi, ed è sponsor del Machester United. Ma non tutto è arcobaleno quello che luccica. Ricominciando dall’Ibsa, va innanzitutto ricordato che, a differenza di India e Brasile, il Sudafrica non è stato ammesso nel Bric: l’asse dei Paesi di

nuova industrializzato costruito tra Brasile, Russia, India e Cina. È vero: il rapporto del Boston Consulting Group dimostrerebbe che, in teoria, il Sudafrica sta meglio pure del Bric. Un gruppo di “Leoni di Sviluppo” africani comprendente col Sudafrica anche i cinque Paesi del Maghreb arabo Egitto, Libia, Tunisia, Algeria e Marocco, più il diamantifero Botswana e la turistica Maurizio, avrebbe infatti un reddito pro-capite di 10mila dollari all’anno, contro gli 8.800 dell’asse Brasile-Russia-India-Cina. Ma gli otto “leoni” sono per il momento una mera entità statistica, mentre il Bric sta rivestendo sempre più un preciso ruolo politico. Insomma, malgrado le sue ambizioni il Sudafrica manca di quello che si potrebbe definire il “fisico di ruolo”dell’aspirante Superpotenza. E questo è il primo problema: forse per risolvere il quale, Pretoria sta aumentando l’apertura ai cinesi. Poi c’è il secondo problema: l’energia. Che, per la verità, è comune un po’ a tutto l’Ibsa. Il Brasile, però, tra etanolo, giacimenti di petrolio scoperti nell’Atlantico, nuove immense dighe in costruzione nell’Amazzonia e programma nucleare, entro una decina di anni avrà risolto definitivamente. E anche l’India si sta attrezzando, sebbene il piano di sviluppo di centrali nucleari al torio richieda un po’ più di tempo. In Sudafrica, invece, il sistema di approvvigionamento energetico si basa ancora al 90% sul carbone. E il sogno di arrivare ai mondiali con una crescita attorno al 6% del Pil è sva-


I pronostici dei politici sui Mondiali 2010. Il ministro Meloni sceglie l’Argentina

nito prima ancora che intervenisse la crisi mondiale, così come la speranza di chiudere la kermesse in attivo. Non che ci aspettasse realisticamente di replicare i due milioni e mezzo di turisti di Germania 2006, con due miliardi e mezzo di dollari di giro d’affari: il Sudafrica sta oggettivamente in capo al mondo, la stessa Città del Capo lo ricorda nel suo nome. Ma 450mila ospiti sembravano abbordabili: e invece a malapena si arriverà a 350mila, mentre la spesa ha già oltrepassato i 4 miliardi e mezzo di dollari. Terzo problema: i rapporti con i vicini. Naturalmente, l’occasione del cin-

L’intolleranza verso i bianchi cresce: dal 1994 sono stati uccisi 3mila afrikaaners e il tasso degli omicidi è il più alto al mondo quantenario è pretestuosa: in realtà nel 2010 il Sudafrica dovrebbe celebrare il centenario della propria indipendenza, anche se avvenne con un governo di bianchi; e, d’altra parte, la transizione al governo nero dell’apartheid risale invece al 1994, con l’insediamento alla presidenza di Nelson Mandela.

Ma è vero che la lotta contro il razzismo aveva fatto acquisire all’élite nera sudafricana un prestigio di dimensioni continentali. Sennochè, adesso è presidente quello Jacob Zuma che per scalare il potere all’interno dell’African National Congress non mancò di aizzzare sotto banco moti anti-immigrati che provocarono 56 morti e vari centinaia di feriti. Fratellanza a parte, l’elettore sudafricano nero medio considera oggi la massa di immigrati che arriva dal resto dell’Africa Australe e anche da più lontano in modo non troppo diverso da quelli in cui da noi l’elettore medio leghista considera marocchini, romeni e albanesi. Per cui, Arcobaleno di tempesta. D’altra parte, Zuma è pure quel tipo che in campagna elettorale pompò contro il suo predecessore Mbeki il risentimento dei sempre più numerosi bianchi afrikaners ridotti in povertà. «Sono scioccato, mi vergogno. Non è possibile che nel nostro Paese ci sia gente che viva a questo modo!», disse dopo una clamorosa visita alla township di Bethlehem. Ma adesso che è alla presidenza a sua volta è lui che deve fare i conti con le intemperanze di Juluis Malema: l’impertinente 29enne che dalla leadership dei giovani dell’Anc tenta di dare la scalata a quella nazionale, con l’esaltare i ricordi più inquietanti dei tempi feroci della lotta anti-apartheid. In particolare, quella canzone che esorta senza troppi giri di parole Kill the Boer!: “ammazza i bianchi!”. L’Alta Corte del Sud Gauteng l’aveva condannato per «istigazione all’odio razziale», e lui si era detto disposto ad andare “anche in galera”, pur di cantarla. Finchè un “boero”non è stato ammazzato veramente. Eugene Terre’Blanche: un esagitato predicatore della supremazia bianca, che peraltro lo stesso cognome di “Terra Bianca” ereditato da avi ugonotti e i vestiti bianchi che amava portare, rendevano un po’ comico.

Talentuoso ex-attore e poeta presente nelle antologie scolastiche in afrikaans, malgrado un’efficacia di oratore generalmente riconosciuta Terre’Blanche finiva per scadere nel grottesco quasi ogni volta che provava a passare dall’infuocata parola all’azione: come quando aveva lanciato una mobilitazione partendo al galoppo su un cavallo, dal quale era subito caduto. Quando aveva convocato un’adunanza di famiglie boere, presto degenerata in un micidiale e caotico ingorgo di trattori e carri agricoli. O quando aveva iniziato un’insurrezione armata, esauritasi nell’assalto a una pompa di benzina da cui una condanna a sei anni di carcere. Insomma, un personaggio in apparenza inquietante: sua ad esempio l’invenzione di quel simbolo dei tre 7, in contrapposizione ideale al 666 dell’Anticristo, poi imitata da gruppi razzisti di mezzo mondo. Ma in fondo un tipo quasi innocuo e soprattuttoi folkloristico: salvo che ora la sua morte a colpi di machete e bastone da parte di due dipendenti fanatizzati dal messaggio di Malema lo ha reso un personaggio di dramma, e un martire. Alla fine, Zuma ha dovuto costringere Malema a una ridicola autodifesa a base di “non c’entro, io stavo nello Zimbabwe” (in visita a Robert Mugabe, suo idolo) e «canto kill the boer, ma solo come metafora».

Nessuno ha in realtà preso troppo sul serio le minacce dei seguaci del defunto di una prossima vendetta, accompagnata dall’avvertimento alle squadre di calcio qualificate per il mondiale a «non presentarsi in Sudafrica»: resta però che dal 1994, anno della fine dell’apartheid, almeno 3mila farmers bianchi sono stati assassinati. Che il tasso di omicidi è il più alto del mondo, e quello di stupri il secondo. E che i bianchi in condizione di povertà estrema con Mbeki sono aumentati da 400mila a 450mila: almeno 130mila senza casa. Certo, non va male solo a loro. Dopo 16 anni di Black Economic Empowerment (Bee), la politica dei governi del post-apartheid per favorire l’emergere di una borghesia imprenditoriale nera, un quarto del 4 per cento di sudafricani più ricchi è ormai costituito da neri. Ma tra tutti quanti questi ricchi guadagnano almeno 100 volte la maggioranza della popolazione: un’ineguaglianza di redditi che nessun Paese con ambizioni di sviluppo può sostenere. Minaccioso segnale, lo sciopero che il mese scorso ha bloccato il Paese su una richiesta di aumenti salariali giudicati ormai improrogabili. Con la crisi poi le imprese nere, che poi sono soprattutto legate a filo doppio con la nomenklatura dell’Anc, sono state massacrate. Attualmente tra le 295 società quotate alla Borsa di Johannesburg i neri sono appena il 4 per cento dei chief executives, il 2 per cento dei chief financial officers e il 15 per cento dei dirigenti in generale, mentre il numero dei movimenti di Borsa riguardanti l’accesso alle azioni di neri in base al Bee è precipitato dai 111 del 2007 agli 84 del 2008 e ai 13 del 2009. Dall’altra, il grande capitale anglofono si sente sempre meno sicuro per il futuro, e lo stesso colosso minerario Anglo American-De Beers della famiglia Oppenheimer continua sempre più a trasferire i suoi interessi all’estero. Dall’altra ancora, i boeri sono penalizzati per il venir meno dell’accesso privilegiato agli impieghi pubblici del tempo dell’apartheid, così che almeno un milione di loro sono stati costretti a emigrare all’estero.

A Palazzo vanno forte i Bafana Bafana Ma solo perché tifare Italia non porta fortuna di Francesco Capozza

ROMA. Mancano poche manciate di ore e poi 57 milioni di Italiani si ritroveranno tutti insieme (tranne, forse, Renzo Bossi) a tifare la nazionale di Marcello Lippi in trasferta in Sudafrica per i mondiali di calcio 2010. E come tutti gli italiani anche i politici per una volta saranno uniti, senza distinzione di “casacche”, nel supportare gli azzurri sperando di replicare la bellissima vittoria di quattro anni fa. Mettendo per una volta da parte, almeno in linea teorica, l’amor di patria e l’ineccepibile voglia di tifare azzurro, chi avrebbe titolo per vincere questo mondiale? E ancora, quale squadra tiferebbero i nostri leader a parte l’Italia? Lo abbiamo chiesto a parlamentari di destra, centro e sinistra e ne è venuto fuori uno scenario davvero eterogeneo. Per il ministro della gioventù, Giorgia Meloni non c’è dubbio, «tiferei senz’altro l’Argentina, che è una nazione sorella. Nonostante sia allenata da Maradona, aggiungerei». E Argentina tiferebbe anche Renato Farina, collega di partito della Meloni e molto competente in materia calcistica. «L’Argentina – dice Farina – è la squadra che ha più voglia di vincere e se lo meriterebbe. Purtroppo è allenata da quel “desperado” di Maradona, il che rende senz’altro più difficile l’impresa. Secondo me Maradona farà la gioia del Brasile, che spera faccia perdere la diretta antagonista».

Nazionalista nel cuore e nello spirito è Massimo Donadi, presidente dei deputati dell’Italia Dei Valori, «ammetto di non essere un tifoso sfegatato del calcio, e tra l’altro tifare qualcosa di diverso che non sia la nazionale è difficile per me anche solo come esercizio mentale. Però, posso dire che del calcio amo la spettacolarità, quindi tiferei una squadra che fosse aggressiva, offensiva, che facesse spettacolo, appunto. Comunque forza azzurri, sempre!». Savino

Pezzotta, presidente della Costituente di centro e parlamentare Udc, vedrebbe volentieri il Sudafrica alzare la coppa del mondo. «Io tifo Atalanta – dice ridendo Pezzotta – per il resto di calcio poco e niente. Però, a parte l’Italia, mi farebbe piacere che vincesse la nazione ospite, il Sudafrica, anche per dare un segnale di ottimismo ad un continente così povero e pieno di disagio sociale». Come Pezzotta, anche Luciano Violante, ex presidente della Camera e responsabile per le riforme istituzionali del Partito democratico, si lascia sfuggire una battuta: «io tifo Toro!» e poi, più seriamente, «credo che il sentimento nazionale, specie in un momento come questo, mi spinga a dire che a parte la nazionale italiana non tiferei nessuna squadra».

Caustico, come sempre, l’ex presidente della Regione Lazio e leader de La Destra Francesco Storace che, non volendo nemmeno pensare di poter tifare un’altra squadra chiosa: «se però fossi Marrazzo tiferei Brasile…», con evidente riferimento allo scandalo che ha costretto alle dimissioni il suo successore alla Pisana. Il cerchio, in questo caso l’arco costituzionale, si chiude con la Lega, che in un certo senso l’aveva aperto (insieme ad un dibattito assai aspro sulle dichiarazioni del figlio del leader del carroccio). Angelo Alessandri, presidente della Commissione Ambiente della Camera dei deputati, getta acqua sul fuoco e dice: «A parte l’inutile polemica, io credo di non poter guardare nemmeno una partita. Ho dato un’occhiata proprio oggi al calendario delle partite e ho visto che avrò quasi sempre impegni di partito. Se si fosse qualificata (ndr: rassicuriamo Alessandri, lo è), tiferei Scozia, un paese che mi sta molto simpatico».


il paginone

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All’Università Lateranense una mostra dedicata ai sacerdoti nell’immaginario cinematografico

CIAK, si prega di Alessandro Boschi

pensarci bene è il classico uovo di Colombo. Realizzare una mostra fotografica dedicata alla figura del prete nel cinema è cosa talmente ovvia da apparire geniale. Per questo monsignor Dario Viganò, Presidente della Fondazione Ente dello Spettacolo che la mostra ha fortemente voluto, può ben dire (ma non lo direbbe mai) di essersi ricavato un posticino in questa immensa foto di gruppo di preti di celluloide.

A

Magari in fondo in fondo, dove nelle foto di classe si piazzavano i più alti. Ma ben visibile. E sì, perché Preti al cinema. I sacerdoti e l’immaginario cinematografico, è davvero un’operazione notevole che ha coinvolto registi e porporati, a partire dal Cardinal Angelo Bagnasco che la mostra ha inaugurata in Vaticano insieme a Carlo Verdone, che un po’ di prete ce l’ha addosso, un po’ per l’aspetto rassicurante (ammesso e non concesso che tutti i preti siano d’aspetto rassicuranti), un po’ perché nella sua lunga filmografia ha dato vita ad alcune memorabili figure di prelati.Verdone ha avuto paro-

le di autentica riconoscenza per l’accoglienza ricevuta dal suo personaggio, padre Mascolo, dal cui nome è già possibile intuire l’eventualità di una crisi mistica: «Ho voluto dargli un volto umano, ponendolo di fronte ad una crisi di fede, e ho tentato di farlo con la massima onestà». Il regista e attore romano ha sempre dimostrato una inclinazione verso i personaggi semplici ed autentici, preti inclusi, in grado di instaurare un rapporto sincero con la gente comune. Lo stesso Cardinal Bagnasco ha sottolineato come «nella sua lunga carriera Verdone ha affrontato più volte la figura del sacerdote, del quale non ha certo trascurato difetti e debolezze a volte accentuandole per esigenze di narrazione, ma sempre con un occhio attento a singolari spunti di riflessione che solo la commedia a volte permette».

Centro Sperimentale di Cinematografia e concesse eccezionalmente dalla Fototeca del Centro Sperimentale. A tal proposito Viganò sottolinea che uno degli assi nella manica della mostra sia il fatto che ci si trovi di fronte esclusivamente a foto di scena, magari in alcuni casi ricavate da fotogrammi. Tutte sono tratte da film di finzione, eccezion fatta per due documentari, Pastor Angelicus di Romolo Marcellini e Luis Trenker, che venne realizzato grazie all’impegno della Chiesa cattolica, e Giovanni XXIII – Pacem in terris di Guido Gerrasio, incentrato sulla figura di uno dei Papi più attenti al linguaggio cinematografico. In realtà c’è un’altra semi eccezione, La Certosa di Parma di Mauro Bolognini, che a causa della eccessiva lunghezza venne trasmessa in

L’allestimento sarà mantenuto fino al 22 giugno presso la Pontificia Università Lateranense e chi avrà la fortuna di recarvisi potrà apprezzare le fotografie selezionate dalla Fondazione Ente dello Spettacolo in collaborazione con il

Tutte le foto di scena, in alcuni casi ricavate da fotogrammi, sono tratte da film di finzione, eccezion fatta per due documentari: “Pastor Angelicus” di Romolo Marcellini e Luis Trenker e “Giovanni XXIII” di Guido Gerrasio

tv. Uno dei preti che più di altri hanno colonizzato l’immaginazione di Dario Viganò (e non solo la sua a dire il vero) è stato il protagonista del Diario di un curato di campagna, tratto dal capolavoro omonimo di Georges Bernanos e diretto da Robert Bresson. Costretto da una malattia incurabile a nutrirsi solo di vino e di pane, già così configurando il prete al Cristo, sul letto di morte il sacerdote pronuncia quelle che sono le più belle parole di uno dei finali più struggenti della letteratura e della cinematografia: «Tutto è grazia».

Ma sono parole impercettibili, e chi gli è accanto quasi non le distingue. Impercettibili, come le figure di certi sacerdoti, di campagna ma anche di città, sempre più indistinti sul-

lo sfondo di una società che non ammette la normalità di una vocazione. Come (in questo caso legittimamente) non l’ammette il cinema, che ha bisogno di un carattere se non di un caratterista.

Così la mostra sceglie per ogni periodo di dieci anni alcune pellicole e così facendo racconta anche la storia del nostro paese. Perché sia chiaro che la nostra storia passa attraverso la storia dei nostri preti, percepiti magari in maniera molto diversa nei periodi del cinema. Negli anni cinquanta ad esempio era molto forte la vicinanza con la gente e con le lotte che si intraprendevano, poi si subì uno scollamento, dovuto alla incapacità del clero di afferrare il cambiamento della società, ed è il periodo del prete macchietta degli anni settanta. Per arrivare, sempre nel cinema italiano, ai sacerdoti che diventano recettori e prodotti della crisi della società, tipo Nanni Moretti o anche l’ultimo prete raccontato da Carlo Verdone in Io, loro e Lara. Non meravigliatevi se ancora, parlando del cinema italiano, non ab-


il paginone dicato a questa figura. Proprio a questo si riferiscono i “nove sguardi d’autore” del titolo, nove interviste a registi italiani che hanno affrontato vicende legate al sacerdozio. Evidente nelle intenzioni dell’autore (ed anche in questo caso del tutto legittima) sottolineare l’importanza di un recupero di fiducia nei confronti di una figura che le cronache dei giorni nostri hanno troppo spesso messo in discussione in maniera talvolta brutale. Per questo diventa importante il percorso geografico della mostra, che attraverserà l’intero paese accompagnata da un catalogo che, per ogni decennio, racconterà il prete sul grande schermo. Oltre a ciò l’operazione sarà arricchita da un volume fotografico corredato da notevoli contributi saggistici, tra i quali vale la pena segnalare quello del Conservatore della Cineteca Nazionale Enrico Magrelli, del Direttore della Cineteca di Bologna Luca Farinelli e del Direttore del Museo del Cinema di Torino Alberto Barbera. La mostra potrà davvero essere un momento di riflessione. Partendo anche da posizioni culturali differenti, perfino incompatibili, non è possibile prescindere dalla importanza che la figura sacerdotale ha avuto e ha nel cinema italiano e internazionale.

Se Don Camillo era la fede limpida e muscolare di cui avevano bisogno i fedeli della provincia emiliana, così il prete affrontato da Eastwood in “Gran Torino” è quello costretto a fronteggiare un coacervo di culture e di razze biamo fatto cenno a quello che per molti rappresenta “il prete” cinematografico per eccellenza, Don Camillo, cui la mostra dedica il dovuto spazio. La verità è che quella era una produzione italo-francese e che i primi film, a nostro parere i migliori, diretti da Julien Duvivier, proprio in francese erano girati. Lo ammettiamo, fa un po’ effetto pensare a Peppone che si esprime con la erre moscia, ma il bolognese Gino Cervi, immenso attore, se lo poteva permettere e non sfigurava affatto con il madrelingua Fernandel, doppiato in italiano da Carletto Romano.

Ecco, quella tra Don Camillo e Giuseppe Bottazzi rappresenta una delle realtà più rimpiante da molti di noi. Non solo dal punto di vista cinematografico, ma anche umano e

perché no, politico. Brescello ha forse rappresentato l’Eldorado del compromesso storico più riuscito, sintetizzando quelle passioni e quei valori di cui oggi il solo parlare ti fa diventare superficiale e di destra, Peppone compreso.

Non sappiamo se in questo senso la mostra curata da Dario Viganò rappresenti una sorta di risarcimento nei confronti di una categoria spesso vessata perché fisiologicamente portata alla vessazione e alla caricatura. Di certo il suo interessante libercolo “allegato” alla mostra, Il prete di celluloide - Nove sguardi d’autore edito da Cittadella Editrice riesce ad esplorare con sagacia il rapporto non sempre facile tra sacerdote e cinema, con tutte le possibili sfaccettature che la settima arte ha de-

A questo proposito lo stesso Alberto Barbera cita Bunuel che diceva: «Sono ateo grazie a Dio, ma così dicendo, pur nella sua blasfemia, ha poi messo in scena i preti rappresentati come nessun altro ha saputo fare, soprattutto rispetto a quelli che li hanno ridotti a tristi macchiette». In certi film si ha la sensazione che il prete sia solo la variante religiosa di un caratterista. Il che va pure bene, in quanto non si può negare che la figura sacerdotale incarni quella di un uomo un po’ meno uomo di un uomo normale. Ma è vero soprattutto che dentro l’abito talare si siano avvicendati preti che hanno segnato il cambiamento della società. Non solo italiana. In Gran Torino di Clint Eastwood, film che, sia detto per inciso, ha un finale decisamente cristologico, la figura del sacerdote che con fatica tenta di avvicinarsi al ruvido protagonista è molto vera, sia nella declinazione realistica che in quella metaforica. E se quella realistica è un merito sia del casting che del vecchio Clint, solo a quest’ultimo (e alla sceneggiatura) va invece il merito di avere centrato quello che rimane il problema di chi diffonde la parola di Dio, vale a dire l’approccio con il prossimo.

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Per questo il sacerdote diventa per contrasto la parte mancante dell’uomo, quell’uomo che è un po’ più uomo di un prete. Tempo fa, discorrendo con un monaca di clausura (avviene anche questo...) mi si faceva notare come fosse diventato un momento di grande gioia l’avere costatato come una sua intuizione avesse in parte risolto il disagio di molte persone, anzi, per essere precisi di molte coppie. Quel senso di languore e di inquietudine che coglie molti mariti e molte mogli, a cosa poteva essere dovuto, le avevano chiesto durante una conferenza (clausura non è re-

Nella foto grande, Fernandel interpreta Don Camillo. Qui sopra: Terence Hill in “Don Matteo”. Sotto: un particolare della locandina di “Diario di un curato di campagna”

clusione...)? E lei, la monaca, aveva azzardato l’ipotesi che ciò che in realtà manca a tutti è la dimensione divina dalla quale proveniamo. Ora, è pur vero che moltissimi la dimensione divina non sanno nemmeno cosa sia e nel caso la ripudiano, ma è indubbio che qualcosa manca sempre, anche alle coppie più affiatate, pure a quelle atee.

Insomma, è questo che la figura del prete negli anni, nei decenni, del cinema ha anche cercato di affrontare: se Don Camillo era la fede limpida e muscolare di cui avevano bisogno i fedeli del paesino in provincia di Reggio Emilia,

così il sacerdote affrontato da Eastwood è il sacerdote che si trova a dover fronteggiare un coacervo di culture, di razze e di ideologie che la monoliticità talvolta discutibile di certi dogmatismi religiosi rischia di allontanare.

La figura del prete è diventata anche preda del piccolo schermo. Chissà se qualcuno di voi ricorda la serie televisiva intitolata I ragazzi di Padre Tobia interpretata da Silvano Tranquilli? Ebbene, noi che purtroppo la rammentiamo bene non possiamo fare a meno di avvertire un po’ di nostalgia. Per quel mondo incantato, dove «che trova(va) un amico trovava un tesoro», in cui il bene era il bene e il male era il male, in una sorta di rassicurante e indolore manicheismo. Sì, anche qualunquista, ma sempre rassicurante. Oggi il Don Matteo interpretato da Terence Hill, che di Padre Tobia potrebbe essere il figlio, si trova già a gestire situazioni molto più complesse e, non essendo la produzione diretta alle fasce protette, anche più violente. Tutto ciò, ma in realtà molto di più, lo troverete alla mostra curata da Dario Viganò, che forse Padre Tobia se lo ricorda bene.Va detto che la mostra è importante anche perché non elude anche quelle pellicole che hanno rappresentato figure più problematiche, come il prete raccontato dalla regista Antonia Bird con Priest, alle prese con una ragazzina che gli confessa una storia di abusi e che lui non sa gestire. Un dato statistico: oltre quindici anni fa un’indagine, realizzata per i cento anni del cinema stabilì che il personaggio della storia che vantava (si fa per dire) il maggior numero di trattamenti da parte di registi sceneggiatori era Gesù. Forse non esiste una stessa indagine rivolta ai preti, ma di certo il numero non dovrebbe essere di molto inferiore a quello del loro diretto superiore. Se dovessimo stilare la classifica del nostro personalissimo gradimento non potremmo certo dimenticare Frate Tac di Robin Hood, dei vari Robin Hood, o i due fratacchioni interpretati da Terence Hill (recidivo) e Bud Spencer in Porgi l’altra guancia. Chi invece escluderemmo, non ce ne voglia nessuno, sono tutti quei sacerdoti che alle elementari ci costringevano a vedere Marcellino pane e vino. Che si concludeva nel peggiore dei modi. Per fortuna era un altro mondo, un altro cinema. E anche un modo diverso di fare avvicinare i bambini al Crocifisso. Che, davvero, non ci manca.


mondo

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Svolta. I liberali vincono le elezioni politiche dopo un testa a testa con i laburisti. Successo della destra xenofoba, crollo dei popolari

Tutte le paure d’Olanda Il sogno della terza via e del “modello Polder” travolti dall’onda dell’immigrazione e della crisi di Enrico Singer è un angolo della periferia di Rotterdam, poco distante dall’isolotto di Stormpolder, dove tutte le strade portano nomi di città del Veneto: Padovastraat, Bassanostraat, Trevisostraat, Vicenzastraat. Qui, una volta abitavano centinaia di famiglie di immigrati italiani. Veneti, naturalmente. Oggi le villette sono le stesse, col piccolo giardino di fronte, le tendine ricamate alle finestre, le auto allineate davanti ai portoncini dipinti per lo più in verde o in blù. Ma di italiani ne sono rimasti pochi. Di olandesi purosangue ancora meno. Questo quartiere, come quasi tutti quelli della sterminata cintura della città - che è il più grande

C’

porto d’Europa - adesso è abitato dai nuovi immigrati, quelli che sono arrivati dal Sud del mondo. Il profumo delle torte di mele che usciva dalle cucine e riempiva l’aria, ora è sostituito dall’odore forte del kebab. All’indomani delle elezioni che hanno decretato la vittoria del partito liberale su quello laburista e che hanno consacrato la destra xenofoba del partito per la Libertà al terzo posto a una manciata di voti dagli altri due, i politologi cercano di spiegare come è cambiato questo Paese,

tinente. E così, anche qui, ha vinto il Vvd (Volkspartij voor Vrijheid en Democratie) del giovane liberale Mark Rutte, una specie di Nick Clegg che piace ai giovani e che ha fatto campagna elettorale battendo sull’amara necessità di tagliare la spesa pubblica di 20 miliardi di euro. Un programma lacrime-e-sangue che in altri tempi sarebbe apparso suicida: innalzamento dell’età pensionabile da 65 a 67 anni, azzeramento del deficit pubblico entro il 2015 stringendo i cordoni della

Il premier Jan Peter Balkenende abbandona la politica: il suo partito ha perso la metà dei seggi che aveva in Parlamento. Ma nel futuro s’annuncia una coalizione guidata dall’emergente Mark Rutte che cosa ha innescato gli spostamenti dell’elettorato che qui, in mezzo a queste case, si possono toccare con mano. E non da ieri.

Nelle elezioni politiche del 2006 in questa circoscrizione di Rotterdam il partito populista e ultranazionalista di Geert Wilders, il Pvv (Partij voor de Vrijheid) era arrivato addirittura primo perché la grande paura, allora, era rappresentata dall’ondata dell’immigrazione, soprattutto islamica, che ha cambiato la faccia al quartiere. Che ha costretto i vecchi abitanti - i quali , a loro volta, avevano conquistato quelle villette come il simbolo di un tranquillo benessere - a rinchiudersi in una specie di ghetto. E a vendicarsi al momento del voto che non spetta agli immigrati che non hanno ancora la cittadinanza e che sono la stragrande maggioranza. Ma ormai alla paura dell’immigrato che ti toglie la casa e il lavoro, è subentrata la paura di perdere tutto per la crisi economica che ha bloccato anche l’economia olandese che negli Anni Novanta era la più dinamica del Con-

borsa statale ma anche con drastiche misure di risparmio sui costi della politica, prima fra tutte il dimezzamento del numero dei ministri. La crisi nera che serpeggia in Europa ha convinto gli elettori olande-

si a scegliere un programma che assegna la priorità a una gestione molto severa dell’economia, relegando in secondo piano il tema dell’immigrazione che aveva fin qui fatto la fortuna elettorale dell’ossigenato leader del partito per la Libertà, Geert Wilders.

Distacchi risicati quelli che dividono i primi tre partiti d’Olanda: sui 150 seggi in palio, 31 sono andati ai liberali (che ne

avevano 22), 30 ai laburisti del PvdA (Partij van de Arbeid) che ne avevano 33 e 24 ai nazionalisti del Pvv che ne avevano appena 9. I popolari dell’ex premier Jan Peter Balkenende sono letteralmente crollati: da 41 a 21 seggi. Tanto che l’ex giovane prodigio, l’Harry Potter della politica olandese, ha deciso di uscire di scena. Formare un nuovo esecutivo non sarà facile. Ma, al di là delle alchimie governative, quello che conta oggi è lo sconvolgimento dei rapporti di forza. Dimostrazione anche matematica che l’Olanda non è più il Regno della tolleranza, aperto alla libera vendita delle droghe leggere nei coffeshop, con il primato dei matrimoni omosessuali ed anche dell’eutanasia, prospero e sicuro di sé, che brillava nel mondo a il-

Cartelli elettorali sotto i mulini a vento. Qui sopra, Pim Fortuyn e la sua casa coperta di fiori dopo l’assassinio. A sinistra, il liberale Mark Rutte e, a destra, il leader xenofobo Geert Wilders. In alto, Jan Peter Balkenende


mondo

tutto, il modello Polder si è dimostrato praticabile negli anni grassi ma «non è stato in grado di offrire soluzioni efficienti ai problemi di oggi», come ammetteva anche Laurens Jan Brinkhorst, l’ex ministro dell’Economia del governo Balkenende che era stato costretto ad affrontare uno dei tabù del celebrtato welfare olandese: i benefici di invalidità.

lustrazione del successo possibile di una «terza via» - tanto amata da Clinton, Blair e D’Alema - tra capitalismo renano e capitalismo anglosassone. Il Paese ha vissuto due decenni, gli Ottanta e i Novanta, con l’illusione di essere il migliore modello economico, sociale e forse anche politico d’Europa. Lo chiamavano modello Polder dai polder, le terre strappate al mare con le dighe e con lo sforzo di tutti. Che in politica si traduceva nella forma più avanzata di concertazione economica e sociale tra imprenditori, sindacati e governo.

Il modello Polder era già entrato in crisi con i grandi scioperi del 2004 contro il piano di riforme e di tagli alla spesa sociale del governo di Jan Peter Balkenende. Proprio a Rotterdam il porto era stato bloccato. Poi erano scesi in piazza i pompieri, gli impiegati pubblici, i guidatori dei tram. Qualcosa di sorprendente in un Paese dove esiste un Consiglio sociale ed economico (Ser) nel quale imprese, sindacati e governo avevano sempre trovato un compromesso sulle cose che contano. Era stata la grande invenzione del leader laburista Wim Kok che, da segretario del sindacato era diventato premier nel 1994 favorendo, nella pace sociale, la crescita dell’ economia olandese. Un miracolo durato fino al 2000 con incrementi del Pil compresi tra il 3,5 e il 4 per cento, non lontani da quelli americani. Già nel 2001 la crescita, però, è crollata all’1,2 per cento. La disoccupazione nel decennio scorso era bassissima, attorno al 3 per

cento, e questo, tra l’altro, ha favorito l’immigragione. Adesso è più che raddoppiata. Il giocattolo si è rotto. E in un Paese di soli 16 milioni di abitanti, con una densità di 488 persone per chilometro quadrato e una popolazione urbana dell’89,6 per cento, tutto è molOgni tiplicato. mutamento, anche lieve, nel tessuto sociale è avvertito con maggiore impatto. Così, in pochi anni, l’indice della fiducia è passato da più 25 del gennaio 2000 a meno 25 del 2009. Le persone che andavano in un museo almeno 12 volte l’ anno sono diminuite di due terzi. Quelli che vanno a un concerto tre volte l’ anno, dal 16 al 13 per cento. Nel 2002, cenava fuori almeno una volta al mese il 35 per cento degli olandesi; nel 2008 il 21 per cento. Certo, l’Olanda non è la Grecia: la qualità della vita, però, è peggiorata. Soprat-

Erano diventati il «caso della vergogna» del modello Polder. Un milione di disabili su sette milioni di persone in età lavorativa. Assurdo, anche perché lo schema di protezione sociale per le disabilità (Wao) è estremamente generoso (fino al cento per cento del salario il primo anno) e i controlli sono quasi inesistenti. Delle maglie larghissime di questo sistema hanno approfittato molti lavoratori, ma anche gli imprenditori hanno abusato del Wao come metodo facile per espellere mano-

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dopera dalle imprese senza costi per l’azienda. Un caso in cui la concertazione del modello Polder è stata, in realtà, utilizzata da sindacati e imprenditori per rovescire una spesa sul bilancio dello Stato. Qualche anno fa, la società di consulenza McKinsey calcolò che i benefici di invalidità coprivano quella che altrimenti sarebbe stata una disoccupazione di 12 punti percentuali più alta di quella ufficiale. Il miracolo olandese - alta crescita, finanze a posto, Welfare State generoso e larghezza di risorse da distribuire - era entrato in crisi, insomma, già da tempo. Ad accorgersene tra i primi, nel 2002, era stato Pim Fortuyn, l’eccentrico leader populista che fu assassinato proprio alla vigilia di una consultazione politica in cui il suo partito si affermò anche sull’onda emotiva di quel delitto. Fortuyn attribuiva all’esplosione della bolla dell’immigrazione tutte le responsabilità della crisi. Il suo slogan - «l’Olanda è piena» - voleva dire che bisognava mettere un freno al fiume senza fine dell’immigrazione che rubava posti di lavoro ed esportava il velo nella permissiva società olandese.

In un dibattito in tv al quale partecipava anche un imam, Pim Fortuyn fu accusato di essere razzista. Lui - che era un gay dichiarato e un grande istrione - rispose: «Razzista io? Non è vero, con i musulmani io ci vado a letto». Fu lo scandalo, ma fu anche il successo di Pim Fortuyn che aveva scelto come

ropee del 2009 il partito per la Libertà era arrivato secondo con il 17 per cento dei voti (e quattro eurodeputati) dietro soltanto ai popolari di Balkenende che ottennero allora il 20 per cento dei voti e cinque parlamentari da inviare a Strasburgo. Quel risultato aveva fatto ipotizzare che gli eredi di Pim Fortuyn fossero destinanti a un grande successo anche nel voto politico che si è appena svolto. Ma nella scala delle paure degli olandesi la crisi economico-finanziaria è salita di molti gradini. E Geert Wilders è retrocesso al terzo posto.

Gli elettori olandesi hanno messo testa a testa liberali e laburisti con Wilders a fare da terzo incomodo e con i popolari di Balkenende umiliati: dalla guida del Paese e dalla maggioranza relativa a ultima delle grandi formazioni politiche. Jan Peter Balkenende ha già annunciato l’abbandono della politica dopo la pesante sconfitta. «Rinuncio immediatamente alla direzione del partito e non farò parte della Camera bassa», ha detto il premier pur confermando che guiderà l’esecutivo per il disbrigo degli affari correnti fino a che non verrà formato un nuovo governo. Che dovrà essere per forza un governo di coalizione. Magari sul modello britannico, Ma di sicuro con il giovane liberale Mark Rutte che, a 43 anni, diventerà il prossimo primo ministro. Con chi governerà è presto per dirlo. L’ipotesi di una grande coalizione che comprenda oltre ai liberali del Vvd, i popolari del Cda e i laburisti del PvdA è la più difficile da realizzare. Non fosse altro che per le differenze tra il programma del vincitore e quello del leader laburista - l’ex sindaco di Amsterdam, Jacob Cohen - che proponeva di coniugare il necessario rigore con un taglio della spesa pubblica di “soli” 10 miliardi di euro, un incremento degli investimenti nella scuola pubblica e l’aumento delle tasse per i redditi più alti. Un’alleaza è molto più realistica tra i liberali e i popolari che avevano presentato un programma non troppo diverso da quello di Mark Rutte, anche se più prudente e diluito nel tempo, ma che hanno scontato due problemi, entrambi legati al fatto che Balkenende ha guidato dal 2002 ben quattro esecutivi: la naturale propensione degli elettori a cercare un cambiamento e il fatto che nemmeno uno di quei quattro governi è riuscito ad arrivare in fondo al suo mandato. L’ultimo era caduto sulla partecipazione dell’Olanda alla guerra in Afghanistan, anche se poi nella campagna elettorale hanno dominato i temi di politica economica. Che hanno spazzato quel che restava del modello Polder.

Gli eredi di Pim Fortuyn, il leader populista assassinato nel 2002, balzano al terzo posto moltiplicando i loro deputati da 9 a 24. Nel loro programma c’è anche una tassa sul velo islamico suo slogan una frase rubata ad Al Pacino nel film Heat - la Sfida di Michael Mann del 1995: «Dico quello che penso e faccio quello che dico». Quando fu assassinato, per giorni la sua casa di Rotterdam, al numero 11 di Burgerplein, fu meta di un pellegrinaggio ininterrotto di gente che portava fiori. Il partito di Fortuyn ha subito diverse metamorfosi fino a reincarnarsi nel movimento di Geert Wilders che conobbe la sua prima affermazione dopo un altro omicidio politico, nel 2004: l’uccisione del regista Theo Van Gogh che aveva realizzato il film Submission in cui veniva denunciata la condizione femminile nell’Islam fondamentalista. Anche Wilders ha puntato le sue carte sul tema dell’immigrazione. Nel programma del suo Pvv c’è la proposta di proibire del tutto quella proveniente dai Paesi musulmani, di vietare la costruzione di moschee e di tassare l’utilizzo del velo islamico. Nelle elezioni eu-


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L’appello. C’è una sola via, democratica, per contrastare Erdogan ome tipica arena della sinistra islamista per delegittimare Israele, la flottiglia sponsorizzata dalla Turchia del movimento “Free Gaza” è stata noiosamente ripetitiva. A dimostrazione che gli israeliani non si rendono conto della tipologia di guerra che ora si trovano a dover combattere, l’esito è stato tristemente prevedibile. Ma come enunciazione delle linee politiche del Paese della Mezzaluna e come augure del futuro del movimento islamista, esso è ricco di novità e implicazioni. Un po’ di storia. Dopo circa 150 anni di vacillanti tentativi di modernizzazione, l’Impero ottomano finì per crollare definitivamente nel 1923, rimpiazzato dalla dinamica Repubblica di Turchia di orientamento occidentale, fondata e dominata da un exgenerale ottomano, Kemal Atatürk. Nei successivi quindici anni, fino alla sua morte avvenuta nel 1938, Atatürk impose un programma di occidentalizzazione così rigoroso che a un certo punto egli rimpiazzò i tappeti delle moschee con le panche delle chiese. Sebbene la Turchia fosse (ed è) quasi interamente musulmana, Atatürk insistette su uno Stato puramente secolare. Ma non riuscì mai a convincere l’intera popolazione ad abbracciare la sua visione e, col tempo, la sua repubblica laica ha dovuto adattarsi ai pii sentimenti musulmani. L’ordine secolare di Atatürk si è protratto fino agli anni Novanta del secolo scorso, custodito dall’esercito. Gli islamisti cominciarono ad avere una rappresentanza in Parlamento nei primi anni Settanta, quando il loro leader, Necmettin Erbakan, fu per tre volte vice-premier del Paese. Salito al premierato nel 1996, nel 1997 l’esercito s’impose e lo scalzò dal potere. Alcuni dei più attivi e am-

C

Bisogna sostenere l’opposizione turca E l’Occidente dovrebbe anche rivedere il ruolo di Istanbul in seno alla Nato di Daniel Pipes

nance, l’Akp ottenne un sostanziale aumento di voti, conseguendo la rielezione nel 2007. Con un rinnovato mandato e mettendo sempre più ai margini l’esercito, l’Akp ha ideato e perseguito delle elaborate teorie del complotto, ha elevato una multa di 2,5 miliardi di dollari a un oppositore politico, ha filmato il leader dell’opposi-

La visione islamica dell’Akp è in grado di minacciare l’Occidente ancor più di quella incarnata da Osama bin Laden biziosi luogotenenti di Erbakan, guidati da Recep Tayyip Erdogan, nell’agosto del 2001 formarono un nuovo partito politico islamista, l’Akp, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo. Solamente un anno dopo, quest’ultimo si assicurò una clamorosa maggioranza relativa del 34 % dei consensi e, grazie alle stravaganze delle norme elettorali turche, esso riuscì a dominare il Parlamento, conquistando il 66 % dei seggi. Erdogan divenne premier e, grazie a una buona gover-

zione in una compromettente situazione durante un incontro sessuale ed ora pianifica di modificare la Costituzione. La politica estera, nelle mani del ministro degli Esteri Ahmet Davuto\u011Flu, che aspira a far sì che la Turchia torni a ottenere la sua vecchia leadership del Medio Oriente, si prefigge obiettivi troppo ambiziosi in modo ancor più palese. Ankara, non solo ha adottato un approccio maggiormente belligerante verso Cipro, ma si è intromessa incautamente in

La Turchia si muove anche con la nuova intelligence

Fronte arabo per Gaza «Non è tollerabile avere una prigione a cielo aperto come quella di Gaza». L’aveva affermato il premier turco, Recep Tayyip Erdogan, qualche giorno fa e ieri è tronato alla carica per creare un fronte comune in medioriente per rompere l’assedio di Gaza. Ha lanciato un appello alle nazioni arabe per porre fine al blocco israeliano nella Striscia di Gaza e risolvere il conflitto in Medio Oriente. Erdogan ha chiesto ai funzionari di 21 Paesi arabi, riuniti per colloqui a Istanbul dopo il blitz israeliano perpetrato contro la Freedom flotilla a largo delle coste di Gaza, il massimo impegno perché «la pace e la stabilità della regione non avranno luogo senza aver tolto prima il blocco a Gaza». E il protagonismo tur-

co preoccupa sempre di più Israele, non solo per la crisi nei rapporti tra i due Stati, ma anche per continui segnali che Ankara manda. Non da ultimo la nomina al ruolo di capo dei servizi segreti di Fidan – consigliere per la politica estera di Erdogan e promotore deciso della trattativa a oltranza sul nucleare iraniano – mostra ancora una volta che la Turchia dell’ Akp ha un disegno strategico sulla regione e l’intenzione di fare sul serio. Hakan Fidan guiderà un’istituzione munita di poteri amplissimi. Che a differenza di altri servizi d’intelligence si occupa sia di politica interna, sia di politica estera. E risponde direttamente al primo ministro: in questo caso, cioè, a Erdogan stesso.

questioni delicate come la proliferazione nucleare iraniana e il conflitto araboisraeliano. Ma la cosa più sorprendente di tutte è il sostegno offerto all’IHH, «un’opera pia» turca i cui legami con al-Qaeda sono comprovati. Se la condotta irresponsabile di Ankara ha delle preoccupanti implicazioni per il Medioriente e per l’Islam, ha altresì un aspetto rassicurante. I turchi sono stati in prima linea nella elaborazione di ciò che io definisco “l’islamismo 2.0”, la versione popolare, lecita e nonviolenta di ciò che l’Ayatollah Khomeini e Osama bin Laden hanno tentato di conseguire con forza attraverso l’islamismo 1.0.

Ma io ho previsto che l’insidiosa forma di islamismo di Erdogan potrebbe minacciare la vita civilizzata ancor più di quello che ha fatto la brutalità della versione 1.0. Ma l’abbandono da parte di questa nuova forma di islamismo dell’originaria modestia e cautela, denota che gli islamisti non riescono a contenersi, che gli intenti criminali degli islamisti devono finire per emergere, che la variante 2.0 deve tornare alla versione 1.0. Come postula Martin Kramer: «più gli islamisti stanno lontano dal potere più sono contenuti, come pure è vero il contrario». Questo significa che l’islamismo si presenta come un avversario meno temibile e per due motivi. Innanzitutto, la Turchia ospita il più sofisticato movimento islamista al mondo, che annovera non solo l’Akp, ma anche il movimento di massa di Fethullah Gülen, la macchina di propaganda di Adnan Oktar e altri ancora. La nuova bellicosità dell’Akp ha causato dissensi; Gülen, ad esempio, ha pubblicamente condannato la farsa degli attivisti di “Free Gaza”, il che evidenzia una estenuante lotta intestina sulla strategia che si poteva adottare. In secondo luogo, se un tempo solo un gruppetto di analisti riconosceva la visione islamista di Erdogan, questa realtà è adesso evidente a tutti. Erdogan ha abbandonato immotivatamente la sua immagine creata a regola d’arte di “democratico musulmano”filo-occidentale, rendendo molto più facile trattarlo come l’alleato di Teheran e Damasco, quale egli è. Come desidera Davuto\u011Flu, la Turchia è tornata ad essere al centro del Medioriente e dell’umma. Ma Ankara non merita più di fare parte integrante della Nato e i suoi partiti di opposizione meritano un sostegno.


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Tribunale internazionale: sentenza per la strage del 1995

Per la Sco riunita a Tashkent Teheran non ha i requisiti

“Solo” due ergastoli per il massacro di Srebrenica

Il club asiatico dice no al presidente Ahmadinejad

L’AIA. Il Tribunale penale internazionale per i crimini nella ex Jugoslavia (Tpi) ha condannato due serbi di Bosnia, ex responsabili militari, all’ergastolo per il massacro di Srebrenica. La corte con sede all’Aia ha condannato al carcere a vita Vujadin Popovic e Ljubisa Beara nell’ambito del processo per lo sterminio di circa 8mila civili musulmani in Bosnia, nel luglio 1995. Si è tratato di un episodio di macelleria messicana ad opera delle truppe serbo-bosniache guidate dal generale Ratko Mladic nella zona protetta di Srebrenica che si trovava al momento sotto la tutela delle Nazioni Unite. È considerata uno delle più sanguinose uccisioni di massa avvenute in Europa dai tempi della seconda guerra mondiale. Un video che mostra l’evidenza dei fatti fu trovato in possesso di Natasha Kandic, un abitante del luogo. Ritrasmesso dai media venne poi utilizzato come prova nel processo contro Slobodan Milosevic alla corte Internazionale dell’Aja. Durante i fatti di Srebrenica, i 600 caschi blu dell’Onu, le tre compagnie olandesi Dutchbat I, II e III, non intervennero: motivi e circostanze non sono ancora stati del tutto chiariti. La posizione ufficiale è che i caschi blu fossero male ar-

TASHKENT.

British petroleum a rischio fallimento La società nel mirino di class action, borsa e PetroChina di Antonio Picasso l crollo finanziario del titolo della British Petroleum potrebbe essere un segno premonitore del suo fallimento. Responsabile del disastro ambientale nel Golfo del Messico, la multinazionale britannica ha perso 49 miliardi di sterline sulla piazza londinese della City, un collasso pari a 73,5 miliardi di euro circa. Nella sola giornata di ieri il titolo è sceso del 15 per cento. Rispetto al valore delle azioni di due mesi fa, la perdita è superiore al 40 per cento.

I

Stesso scenario a Wall Street, dove la Bp due mesi fa era quotata 60 dollari e ora ne vale solo la metà. Ieri gli investitori hanno presentato una class-action contro la compagnia, ritenuta colpevole di negligenza sulle scarse condizioni di sicurezza della piattaforma Deepwater Horizon. L’accusa punta sulla violazione del Securities exchange act, datato 1934, per cui la Bp avrebbe diffuso comunicati «falsi o inducenti in errore su sicurezza, tecnologia, ispezioni e precauzioni relativamente alle installazioni offshore». Lo studio legale di NewYork, Zwerling, Schachter & Zwerling è stato incaricato di presentare una denuncia collettiva per conto dei singoli individui e dei soggetti giuridici – di qualsiasi nazionalità, non solo statunitensi – che abbiano acquistato azioni ordinarie della Bp durante il periodo che va dal 27 febbraio 2008 al 12 maggio 2010. Il fallimento che si prospetta è dettato sia dalle spese di bonifica delle acque e delle aree inquinate – i costi stimati sarebbero di 30 miliardi di euro – sia per la vendita del titolo da parte degli azionisti. La paura generale è che il governo Usa chieda alla compagnia di Londra il risarcimento totale dei danni. In tal caso le sue casse sarebbero completamente prosciugate. Tanto più che non esiste una copertura assicurativa così elevata. Il ragionamento dell’investitore medio è quello di salvare il proprio capitale nei tempi più rapidi possibili. Questo non fa altro che deprezzare il valore della compagnia. Fino

al disastro del 20 aprile la Bp era la più importante società britannica. Il suo valore di mercato era di 144 miliardi di euro, di questi oggi appunto 73,5 miliardi sono stati completamente bruciati. A Londra d’altra parte stanno cominciando a sollevarsi le polemiche nei confronti della aggressività di Washington. La richiesta del Presidente Usa su chi «prendere a calci nel sedere» non è piaciuta alla City. Primo perché la Bp potrebbe spalmare la responsabilità del disastro sui suoi partner nell’investimento della Deepwater Horizon. Secondo, perché in questo modo a essere danneggiati sarebbero i piccoli investitori – in Gran Bretagna quanto in Usa – che avevano scelto la compagnia come fiduciaria dei propri risparmi o, peggio ancora, delle loro pensioni.Giovedì prossimo l’Amministratore delegato della Bp, Tony Hayward si presenterà alla Commissione Energia e Commercio della Camera dei rappresentanti Usa. Secondo le indiscrezioni del canale tv Abc, sarà convocato anche alla Casa Bianca dal presidente. Delle dimissioni di Haward ancora non se ne parla. Forse si aspetta che polverone si plachi.

Fino al disastro del 20 aprile la Bp aveva un valore di mercato di 144 miliardi di euro. Oggi vale appena la metà

mati e non potessero intervenire. Si sostiene, inoltre, che le vie di comunicazione tra Srebrenica, Sarajevo e Zagabria non fossero ottimali evrebbero causato ritardi e intoppi nella catena di comando. Sono sette gli imputati portati alla sbarra per il più grave crimine di guerra commesso in Europa dopo l’Olocausto, sono tutti ex menbri dell’esercito serbo-bosniaco guidato ai tempi dal generale Mladic, a oggi ancora latitante. Cinque di loro rispondono dell’accusa di genocidio, altri due di reati meno gravi. Oltre 450 testimoni sono stati escussi nel corso di questo processo definito «storico», il più grande mai istruito dal Tpi, oggi giunto ai verdetti.

L’Iran non potrà entrare a far parte dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (Sco). L’agenzia di stampa Interfaxda notizia che nella bozza di documento che dovrebbe essere presentata al summit Sco, cominciato ieri e che terminerà oggi a Tashkent. È precisato che i Paesi che aspirano a entrare nel raggruppamento non devono essere sotto sanzioni Onu o in stato di guerra con altri Stati. L’Iran è membro osservatore della Sco – di cui fanno parte Russia, Cina, Kirghizistan, Uzbekistan e Kazakistan – ma Teheran aveva espresso l’intenzione di diventare membro a pieno titolo dell’organizzazione. Secondo il documento, i Paesi che potranno chiedere l’adesio-

È emersa, nel frattempo, l’eventualità che la PetroChina possa scalare la Bp. Immediato è stato l’intervento del premier inglese, David Cameron, il quale ha prospettato un aiuto statale in favore della società petrolifera. La dichiarazione del primo Ministro è politica, ovviamente. Da una parte cerca di tranquillizzare Obama, con il quale Cameron non si è ancora incontrato. Dall’altra mira a evitare che Pechino metta una sua testa di ponte su suolo britannico. Tuttavia la posizione di Downing Street lascia aperti due dubbi. Con il mercato inglese in crisi, un intervento statale ad hoc potrebbe creare uno scomodo precedente, portando altre società a chiedere una sovvenzione. Inoltre, dopo aver dichiarato un deficit di 156 miliardi di sterline, non si capisce come il Tesoro britannico possa intervenire.

ne al club di Shangai devono appartenere alla regione euroasiatica, mantenere relazioni diplomatiche con tutti i membri dell’organizzazione, avere lo status di Paese osservatore (in lista d’attesa anche India, Pakistan e Mongolia) ed essere attivamente coinvolti in scambi economici, commerciali e umanitari con gli Stati membri.

Al vertice di Tashkent, da quello che si è sin qui appreso, dunque non prenderà parte il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, inizialmente atteso. Mercoledì il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite aveva approvato un nuovo pacchetto di sanzioni contro il regime dei mullah sciiti. Sia la Russia che la Cina, entrambi membri permanenti con diritto di veto del Consiglio di sicurezza e capofila della Sco, avevano votato a favore del nuovo regime di restrizioni contro l’Iran. Anche se la Cina ha subito ribadito ieri che considera importanti i legami con il regime sciita. Intanto Ahmedinejad è atteso all’Esposizione internazionale di Shanghai per la «giornata dell’Iran». ma non sono previsti spostamenti a Pechino, né colloqui ad alto livello con i dirigenti cinesi.


cultura

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Eventi. C’è chi lo chiama «reality culturale»: è un progetto di riflessione comune che si rinnova ormai da molti anni

Pensare e Camminare Il 21 giugno parte una maratona radiofonica che descrive un nuovo pellegrinaggio europeo di Sergio Valzania cominciato tutto quasi per caso, nel 2004. Il primo maggio di quell’anno l’Unione Europea si sarebbe allargata a venticinque membri e noi di Radio3 ci domandavamo quale fosse il modo migliore per dar conto di quell’evento, per viverlo insieme ai nostri ascoltatori in una forma inusuale e non retorica. Venne spontaneo pensare al Cammino di Santiago, il percorso lungo il quale da secoli i popoli d’Europa si incontrano rappresentati da ambasciatori che possono vantare solo le credenziali del pellegrino: un documento informale sul quale far apporre ogni mattina il timbro del luogo nel quale si è trascorsa la notte. Il suo unico valore è che dà diritto al rilascio presso gli uffici del vescovado di Santiago della Compostela, l’attestato di effettuazione del pellegrinaggio a piedi fino alla tomba del santo. Un pezzo di carta che i più conservano in un cassetto e pochi vanitosi espongono incorniciato sulla parete di casa.

È

Fu subito chiaro che la nostra trasmissione dedicata al Cammino per definizione non poteva essere trattata come un programma informativo. Non sarebbe stato coerente con la nostra estetica convocare al microfono degli studi di via Asiago qualche esperto e alcuni pellegrini per raccontarci una storia e un’esperienza, magari sentite in modo intenso, ma lontane, indurite dalla distanza nello spazio e nel tempo e dalla freddezza della tecnologia. Non era quella la nostra radio. Per parlare del Cammino, per far conoscere ai nostri ascoltatori le emozioni e le impressioni di chi lo percorre, l’unica strada possibile era quella indicata dalla freccia gialla che i pellegrini cercano con lo sguardo fiducioso, e sempre trovano, ad ogni incrocio del sentiero che porta dalla Navarra alla Galizia per 790 chilometri. Allora abbiamo chiesto ad alcuni dei nostri conduttori, dei membri della piccola comunità che dava voce alla nostra radio, la disponibilità a fare un lavoro diverso dal solito, a realizzare

una trasmissione che ogni giorno raccontasse un’esperienza vissuta, l’impegno di venti e più chilometri percorsi a piedi, la stanchezza e la soddisfazione, il male ai piedi e la comunità variegata di quanti camminano verso una meta comune. La risposta fu entusiasta e riuscim-

Quest’anno, il percorso sarà quello di sant’Olaf che parte da Oslo: una via sacra attraverso i fiordi della Norvegia lunga 680 km

mo a organizzare con facilità cinque coppie che di settimana in settimana si alternassero lungo il percorso.

Da tutto ciò sono nate trentacinque puntate di una trasmissione non convenzionale, fatta solo del dialogo quotidiano di

due persone che raccontano la loro giornata di pellegrini, ancora sotto l’impressione della fatica del camminare e con gli occhi e le orecchiepieni di quello che hanno visto e sentito: la natura, le opere dell’uomo, gli incontri fatti lungo la strada. Dopo di allora non abbiamo mai smesso di attraversare il mondo in modo leggero quanto ci riusciva. Ogni anno siamo partiti per un viaggio da raccontare in diretta. Di solito a piedi, verso Roma dalla Val di Susa, dal Gran San Bernardo a Canterbury lungo la Francigena, oppure in barca a vela verso le origini della nostra spiritualità, l’isola di Patmos, dove san Giovanni ricevette la rivelazione dell’Apocalisse, a dorso di mulo verso i monasteri del Monte Athos, di nuovo in barca a vela da Venezia a Istanbul, alla ricerca delle tracce di un itinerario di mare che univa e mescolava due civiltà e due culture.

Quest’anno, a partire dal 21 giugno e per quattro settimane, Piergiorgio Odifreddi, Lorenzo Sganzini, Alessandro Barbero e io ci alterneremo nel percorrere a piedi e raccontare una via più lontana, in Norvegia: il Cammino di sant’Olaf., che collega Oslo con Trondheim, per una lunghezza di circa 680 chilometri. La vicenda di sant’Olaf e del cammino di pellegrinaggio dedicato alla sua devozione è particolare. Il santo fu re di Norvegia agli inizi del secondo millennio, durante la stagione difficile e luminosa delle grandi conversioni al cristianesimo dei popoli del Nord Europa. Terminata l’epoca dei santi martiri era quello il periodo degli evangelizzatori, molti dei quali furono i capi politici delle loro genti, che decisero anche per conto dei propri sudditi di aderire alla nuova religione. Re Olaf convertì al cristianesimo le regioni della scandinavia e lo fece anche con metodi che oggi non ci sentiremmo di condividere. La statua che lo raffigura sulla facciata della cattedrale di Trondheim lo rappresenta in armi, con le mani poggiate su di una scure da guerra che gli arriva al petto. Il suo martirio avvenne in battaglia, e non possiamo dubitare del fatto che le

sue tecniche di evangelizzazione fossero a volte brutali e violente. La parola del Signore si mescolava con le ragioni della politica, come nella storia è accaduto di frequente, ma su questi aspetti domina il riconoscimento popolare per la figura del santo, al quale fu rivolta presto una devozione convinta, che si manifestava nelle forme di pellegrinaggi provenienti da tutta la penisola scandinava. Fa santa Brigida a dare un impulso decisivo alla pratica, già nel medioevo a imitazione di quella per san Giacomo, Santiago, alla cui tomba la santa si recò più volte. Il seguito della storia mi è stato raccontato da un pastore protestante di Trondheim, nell’occasione di un convegno interreligioso che si svolgeva presso il monastero di Bose, incentrato proprio sulla questione della santità, un tema che vede cattolici e protestanti su posizioni lontane. Le cose sono sono andate circa così. Quando il re di Danimarca, allora signore anche della Norvegia, si convertì

al luteranesimo nella prima metà del Cinquecento i suoi rappresentanti trasmisero ai sudditi la sua decisione. Un re li aveva fatti cristiani più di cinque secoli prima, un nuovo re li indirizzava adesso verso il luteranesimo, proibendo fra l’altro il culto dei santi e quello di re Olaf in particolare, in quanto radicato nella tradizione popolare. L’argento della teca che conteneva le sue reliquie venne fuso per battere moneta e gli usi devozionali si interruppero.

Da qualche decennio però tutta l’Europa è attraversata da una corrente nuova e difficile da interpretare in modo univoco. E’ nato e diventa sempre più numeroso un popolo di viaggiatori a piedi che attraversa il continente in tutte le direzioni, in continua ricerca di nuovi itinerari, pronto a far rivivere i tracciati dimenticati degli antichi pellegrinaggi. Nei periodi di punta il Cammino di Santiago è divenuto sovraffollato e a lui si sono affiancati la Via della Plata, la Via Francigena, il Cam-


cultura

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flessione collettiva sul senso della vita e sui modelli di consumo della modernità. La Norvegia è un paese di camminatori e di naturalisti e non ha avuto difficoltà nel riscoprire i propri percorsi tradizionali di pellegrinaggio, a volte con l’aiuto interessato della amministrazioni locali e degli enti del turismo. Ancora una volta la politica e la devozione si mescolano, confermando la complessità dell’essere umano. In questo modo, a partire dagli anni Ottanta il pellegrinaggio alla tomba di sant’Olaf è rinato. Il percorso è stato attrezzato con una segnaletica adeguata e la festa del santo, alla fine di luglio, è diventata un evento di rilievo, sotto gli occhi meravigliati di un pastore protestante che si domanda come comportarsi di fronte a un fenomeno di devozione diffuso ma lontano, se non contrario, alle sue convinzioni.

La Cattedrale di Trondheim è da secoli una chiesa protestante, ma il giorno della festa del santo i cattolici la ottengono in prestito per celebrare una messa in suo onore. Una piccola manifestazione di quel fenomeno misterioso che la teologia definisce come l’intercessione dei santi, l’aiuto di quelli che ci hanno preceduto nell’indicare alla Chiesa e a ogni singolo fedele il giusto cammino, insieme all’accompagnamento nel percorrerlo. Sant’Olaf spinge cattolici e protestanti a riscoprire le radici comuni della propria fede. Questo racconto ci ha resi curiosi, insieme all’esotismo nordico dei luoghi. Partiamo il 21 giugno, giorno del solstizio d’estate, in mezzo alla stagione nella quale il sole non tramonta, illuminando le ore della notte con una luce lattiginosa che si dice renda il sonno difficile per chi non ci è abituato. Non abbiamo di queste preoccupazioni, diverse ore di cammino sono uno dei migliori aiuti che esistano per prendere sonno. Cammineremo in coppia per quattro settimane attraversando una natura per noi insolita, quasi selvaggia se paragonata ai luoghi che siamo abituati a frequentare, nella quale l’uomo ha lasciato appena qualche segno del suo passaggio.

mino di San Francesco, numerosi altri percorsi che attraversano le Alpi e la Germania. Non c’è niente di agonistico o di sportivo in senso tradizionale in tutto questo, c’è piuttosto il desiderio di viaggiare in sintonia con il proprio corpo, di conquistare ogni giorno di persona il tratto di strada percorso, di conoscere i luoghi in maniera fisica, diretta.

Per alcuni è anche un modo per riconsiderare la propria fede, di vivere un’esperienza religiosa, ma sono in tanti a partire senza domandarsi troppo il perché, con il desiderio di un’avventura nuova, fondata sulla semplicità, sull’essenzialità e sulla naturalezza dell’atto ci camminare. Sulla riscoperta del fatto che l’uomo nasce nomade e sulla consapevolezza che uno zaino può contenere tutto quello che serve per vivere. Molti non si accontentano del primo viaggio e ne desiderano un secondo e poi ancora. Spiritualità e ambientalismo si mescolano in una sorta di ri-

Qui sopra, un tratto della celebre via Francigena, la cui riscoperta sta alla base del progetto dei nuovi Cammini. A sinistra, un fiordo norvegese: quest’anno la maratona passerà per questi paesaggi

Uno dei problemi nell’organizzazione della Via Francigena in Italia è dato dalla forte antropizzazione del territorio del nostro paese, dove la popolazione è densa, la rete stradale e ferroviaria onnipresente, i campi sono cintati e coltivati, a volte le schiere delle case legano una località alla successiva in un continuo di abitazioni. Il Cammino di Santiago attraversa un paesaggio meno abitato, la Via della Plata deve essere percorsa portandosi sulle spalle di che bere e mangiare, dato che spesso non si incontra un luogo abitato in una giornata di

cammino. In Norvegia contiamo di essere ancora più isolati, immersi nella natura. Racconteremo la nostra avventura al microfono, andando in onda alle cinque del mattino ogni giorno su Radio1 fino al 21 luglio, fiduciosi del fatto che chi non ci ascolterà in diretta scaricherà il podcast della trasmissione dal sito laviadiolaf.blog.rai.it. Daremo conto di cosa si prova a camminare per giorni senza trovarsi quasi mai in un luogo dal quale sia possibile scorgere il tetto di una casa. Ma l’argomento delle conversazioni radiofoniche non sarà limitato alla descrizione della natura. L’esperienza del camminare è complessa e comprende tutti gli scambi che avvengono nel corso della giornata. Quello che vogliamo raccontare è un viaggio e il confronto che avviene fra le persone che lo fanno, consapevoli della sua natura particolare di pellegrinaggio, pur compiuto in forma moderna e per alcuni del tutto laica. Già due anni fa, di nuovo sul Cammino di Santiago, abbiamo messo a confronto il pensiero di Piergiorgio Odifreddi con quello di due cattolici, Franco Cardini e me, nella situazione privilegiata di viaggiare insieme a piedi, in una dialettica costante e con uno scambio che va al di là della pura ideologia. Camminando ci si passa la borraccia, si decidono in comune le soste, ci si consulta sul percorso, si condividono i panorami e gli incontri, ci si segnalano gli aspetti curiosi di quello che accade. Tutto questo si mescola con l’offerta reciproca delle proprie convinzioni e conoscenze creando aperture e disponibilità difficili in altri contesti. Questa volta tocca a me la parte del credente, carico di molti dubbi, che scambia le proprie idee con laici di formazioni diverse. Scientifica Odifreddi, storica Barbero, legata al campo della comunicazione Sganzini.

Qualcuno ha definito questo tipo di trasmissioni dei reality culturali, e forse ha ragione. Le tecnologie attuali consentono di produrre radio e televisione al di fuori degli studi e di trasferire al pubblico esperienze più vaste di quelle limitate all’arco di tempo di un programma, terminato il quale i partecipanti tornano ciascuno alle proprie occupazioni. Si possono costruire situazioni capaci di generare spettacolo, informazione o cultura e poi attingere da esse nella costruzione dei programmi. La natura della radio, mezzo più sofisticato della televisione, ci consente di usare il mezzo in modo ambizioso, cercando di costruire un contesto capace di stimolare di spunti di riflessione riguardo agli aspetti fondamentali della vita. In ogni caso ci assicurano che, come i partecipanti all’Isola dei Famosi, incontreremo molte zanzare.


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cultura

Mostre. Al Magazzino delle Sale di Venezia fino al 19 settembre, “The Fabric Works”, inediti dell’artista scomparsa di recente

Tutti i demoni di Louise Bourgeois di Angelo Capasso

Nella foto grande, la scultrice Louise Bourgeois (Parigi, 25 dicembre 1911 – New York, 31 maggio 2010) ritratta da giovane a lavoro nel suo atelier. Qui sotto, “Janus Fleuri”, scultura in bronzo del 1966 In basso, “Seven in a bed”, e l’artista parigina di recente scomparsa

acqui il giorno di Natale, rovinando la festa a tutti quanti. Mentre erano intenti a gustare ostriche e champagne, ecco che arrivo io. Mi piantarono in asso. Oggi riesco a raffigurarmi quell’evento ridicolo... non accuso nessuno. È quindi un senso di sconfitta quello che motiva il mio lavoro, una volontà di rimediare al danno che è stato fatto... non di paura, ma del trauma dell’abbandono».

«N

La morte di Louise Bourgeois lascia un vuoto molto profondo nell’arte contemporanea. Viene meno uno dei valori più profondi dell’arte contemporanea, la forza, l’angoscia, la solitudine, l’aggressività di un pensiero della differenza. A torto o a ragione, Louise Bourgeois ha incarnato la battaglia della linea femminile dell’arte producendo un vero pensiero dell’altra metà del cielo dell’arte, il femminile dell’arte. A partire dal mondo con cui ha condotto la propria battaglia nel linguaggio in assoluta autonomia, in solitudine, con un riconoscimento tardivo che le ha imposto di vivere su se stessa la propria missione nell’arte. Louise Bourgeois nacque a Parigi nel 1911. Dopo essersi iscritta alla Sorbonne, alla facoltà di matematica, la abbandonò per iscriversi all’Ecole des Beaux Arts. Nel 1938, quando l’Europa brucia nelle idee nefaste del Nazi-fascismo, sposa lo storico dell’arte Robert Goldwater e si trasferisce a New York dove studia pittura a l’Art Students League. Nel 1945 si tiene la sua prima mostra di pittura. La pittura però non è il suo territorio espressivo più congeniale. Proprio dopo quella mostra, Louise Bourgeois abbandona la pittura e con essa tutto il retaggio dell’Espressionismo Astratto che in quel momento era il linguaggio imperante nella NewYork sulle note del Be Bop e della pittura di Pollock, De Kooning, Gorky, Rotkho. Da allora sceglie la scultura perché trova nella plasticità delle forme e nella costruzione tridimensionale quella consistenza del corpo a corpo tra lei e la sua storia personale vissuto nel circolo ristretto dell’arte. «I disegni sono secondi alla scultura, perché non hanno il potere di esorcizzare i demoni», disse durante un’intervista sottolineando il valore apotropaico di quelle forme che sono nate come tanti figli di una madre androgina, senza l’ausilio d’alcun padre. Sarà soltanto nel 1982, all’età di sessantun anni, grazie all’interessamento della giovanissima curatrice Deborah Wye, e della critica d’arte Lucy Lippard, ad avere una prima retrospettiva di quarant’anni del suo lavoro al Museum of Modern Art di New York. In quella mostra si ritrovavano tutti gli oggetti simbolici con temi psicoanalitici che rivelavano i suoi traumi infantili, le sue sculture in legno degli anni Quaranta, e poi le sculture in lattice e gesso e le sculture più esplicite sul piano sessuale degli anni Sessanta e Settanta per le quali ricevette attenzione e fu associata al pensiero femminista e alle questione del gender del Post-modernismo. La questio-

ne femminile è comunque centrale nel suo lavoro. Lo pone in evidenza il suo libro di recente pubblicazione, dal titolo significativo, Distruzione del padre / Ricostruzione del padre. Scritti e interviste in cui la sua vicenda biografica è ricostruita attraverso suoi scritti: dal facsimile di alcune pagine preadolescenziali, tratte da un diario del 1923 smarrito da Louise in treno e recentemente ritrovato su una bancarella parigina, fino a una selezione di interviste e colloqui degli ultimi vent’anni. Tra questi figurano un consistente carteggio giovanile con la sua amica e artista Colette Richarme e testimonianze relative ai suoi incontri e scontri con il mondo maschile dell’arte: con André Breton e Marcel Duchamp, due figure “paterne”che non tollerava per “il loro pontificare” che la rendevano aggressiva: «Essendo un’esule, le fi-

interviste, anche la propria esperienza adolescenziale, il periodo più controverso della sua vicenda biografica, trascorso nel laboratorio di restauro di tessuti dei suoi genitori e il rapporto controverso con questi, con i fratelli, con la sua istitutrice, e soprattutto con sua madre. Una serie di opere dal titolo “Ragni”, costituite da giganteschi ragni di acciaio racchiudono il valore simbolico di questo complicato affetto materno. «Io li associo a mia madre, perché il ragno è un animale che va a intrappolarsi negli angoli, gli angoli gli danno sicurezza. Ma lei non è intrappolata, anzi, cerca di intrappolare gli altri». Ogni atto di scrittura che Bourgeois realizza è una sorta di recupero della memoria. «I miei ricordi mi aiutano a vivere il presente e io desidero che sopravvivano. Sono prigioniera delle mie emozioni. Devi raccontare

A torto o a ragione, ha incarnato la battaglia della linea femminile dell’arte producendo un vero pensiero dell’altra metà del cielo. La sua fu una ricerca alla conquista del linguaggio la tua storia e poi devi dimenticarla. Dimentichi e perdoni. Questo ti rende libera». «Tutto quello che produco è ispirato ai primi anni di vita. Ogni giorno devi disfarti del tuo passato, oppure accettarlo, e se non riesci diventi scultrice». La scultura è quindi la produzione di oggetti che incarnano la storia personale, e il suo percorso di libera-

gure paterne mi davano ai nervi». E poi Fernand Léger, il suo maestro, Mark Rothko, Alberto Giacometti e soprattutto Francis Bacon che amava profondamente: «Guardare i suoi quadri mi rende viva. È quasi come essere innamorati. La sua opera è uno dei più grandi omaggi alla donna». Fino al giovane fotografo Robert Mapplethorpe, cui Louise Bourgeois deve il suo foto ritratto più celebre.

In quel libro, l’artista passa in rassegna indirettamente, attraverso scritti, lettere,

zione da quel peso specifico che s’impossessa delle forme e rivive nella scultura. La maledizione di vivere nell’ignoto, conosciuta soltanto nei circoli di addetti ai lavori non l’ha mai spaventata. Louise Bourgeois non cercò il successo. Il successo ha

però trovato lei. «Non avere successo – disse – è stranamente stimolante se credi in te stessa. Il successo non è importante. Ma certo è molto, molto piacevole». Quella mostra segna il momento della consacrazione di una grande artista per la Francia, cui la Bourgeois rimane legata. La più grande approvazione la ricevette in occasione della sua partecipazione a Documenta 9 a Kassel nel 1992, cui seguì, nel 1993, la sua partecipazione alla Biennale di Venezia. Nel 1995 il Musèe d’Art Modern de la Ville de Paris le dedica una grande retrospettiva. Dagli anni Novanta, le tematiche relative alla sessualità, alla famiglia e alla solitudine si aggrovigliano e si presentano attraverso rielaborazioni di forme oblunghe e trasfigurazioni del membro maschile e interpretazioni diverse della maternità, con il riproporsi continuo di sculture filigrane a forma di ragno, quell’ossessione materna che si sgancia e fa da contraltare al patriarcato con pari aggressività. La morte di Louise Bourgeois avviene proprio mentre a Venezia, la Fondazione Emilio e Annabianca Vedova ha inaugurato la mostra di suoi inediti Louise Bourgeois. The Fabric Works a cura di Germano Celant (fino al 19 settembre). La mostra si articola tra il Magazzino del Sale e lo Studio che fu del pittore astratto Emilio Vedova.

Forse un ultimo scherzo del destino quel ritorno in un luogo della pittura astratta, proprio da dove era partita a NewYork. La mostra a Venezia propone un nuovo ritratto della Bourgeois completamente incentrato su un numero di opere in gran parte sconosciute fatte di tessuto e una ricca serie di disegni creati tra il 2002 e il 2008. Si tratta di montaggi, collage e assemblaggi di pezzi di suoi vestiti e biancheria: opere enigmatiche e inquietanti che parlano del desiderio di vivere nell’intimo e nel privato, tenendo il mondo, con il suo pesante fardello, lontano ma con l’ossessione di sentirne l’ingombrante presenza.


cultura

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atto l’appello, il campo dei ribelli, intelligenti, pacati e sapidi, al talebanismo evoluzionista manca ora di un suo corazziere splendente e impavido; non di quelli tutti lustrini e paillettes come li vorrebbe la superficialità del mondo, ma di quelli come li ama, per i propri misteriosi disegni, il Padrone di Lassù, piagati nel corpo da mali che li devastano, provati nel cuore dalle vicissitudini (sempre basse) dell’umano troppo umano, tentati nella mente dal Nemico dell’umana natura.

F

Nella notte tra il 6 e il 7 giugno è scomparso Mihael Georgiev, vinto da un cancro sopportato e tentativamente debellato sino all’ultimo con serenità. Medico chirurgo, flebologo, Georgiev ha dedicato la vita alla scienza e alla ricerca della verità. Nato nel 1949 a Sofia, in Bulgaria, figlio di madre ebrea, cristiano protestante, si era trasferito da giovane in Italia: gli amici più intimi, come l’epistemologo Stefano Serafini, del gruppo d’intellettuali e artisti che fa riferimento al matematico e urbanista statunitense di origine greca Nikos A. Salingaros, lo ricordano dire sempre «“il nostro Paese”, pur mandandomi ogni tanto canzoni bulgare». In Penisola Georgiev ha conseguito la laurea in Medicina e chirurgia, a Roma, nel 1974, e quindi la specializzazione in Angiologia, a Catania, nel 1989. Praticava come libero professionista a Latina. Diversi sono stati i suoi studi nel campo della flebologia, pubblicati su periodici specializzati, oltre al volume, scritto con Stefano Ricci, gli esperti dicono importantissimo, Ambulatory Phlebectomy: A Practical Guide For Treating Varicose Veins (Mosby, Filadelfia 1995), poi tradotto in portoghese e in italiano. Ma l’altra sua grande passione, praticata costantemente a norma di metodo scientifico come purtroppo dall’altra parte della barricata (ché a questo si è giunti, non più scienza sperimentale ma fede cieca) pochi fanno, era la colossale questione dello sviluppo della vita sulla Terra, quella che rimanda automaticamente al problema dei problemi, insoluto, e volentieri bypassato dagli evoluzionisti giacché piuttosto imbarazzante: la sua origine. Sì, perché, a seguire il filo dell’evoluzionismo fideistico, si giunge, la logica è ferrea, a inferire che dalla materia inorganica la vita spunti automaticamente come per magia, nonostante una lunga tradizione scientifica legata ai bei nomi di Francesco Redi (1626-1697), Lazzaro Spallanzani (1729-1799) e Louis Pasteur (1822-1895) abbia sperimentalmente, cioè incontrovertibilmente, mostrato la falsità della cosiddetta “generazione

Omaggi. Si è spento a Latina il medico bulgaro che denunciò l’evoluzionismo

Georgiev, lo scienziato che non pregava Darwin di Marco Respinti

Nato nel 1949 a Sofia, figlio di madre ebrea, protestante, si era trasferito giovane in Italia: si appassionò allo studio delle origini spontanea” dell’animato dall’inanimato, altrimenti detta (solo con linguaggio di un poco più paludato) abiogenesi.

Da questo punto di vista, Goergiev non aveva certezze, almeno non di quelle preconfezionate e sfoderate a orologeria da certi “scienziati” odierni avvezzi ai rotocalchi e alla tivù. Georgiev, assieme a tutta la scienza autentica, non sapeva affatto come, sul piano naturale osservabile sperimentalmente, la vita sulla Terra sia sorta e poi si sia sviluppata. In questo lo confortava, su altro piano, la fede cristiana che nutriva, ma, appunto, era altra cosa. Non che Georgiev ipotizzasse, come sempre evita di fare lo scienziato vero, l’esistenza di due verità parallele; come la scienza seria, Georgiev constatava invece dei limiti intrinseci dentro il concetto stes-

so di scienza, limiti che della scienza costituiscono il bello e il vero. Il saper condurre, cioè, l’osservatore umano sulla soglia del mistero più grande per poi allargare le braccia, come di fronte a un tramonto commovente e splendido, flirtando con qualcosa d’altro, di maggiore, di sovrastante, di esistente nonostante quelle nostre piccole idee, che la ragione non riesce a imbrigliare. Per una vita intera, sin troppo breve, Georgiev ha combattuto questa buona battaglia di ragione e di esperienza. Da scienziato, da medico, conosceva bene le verità dell’osservazione scientifica, le sue falsificazioni e persino la malafede di certuni che vorrebbero far dire a essa che invece essa non dice né può dire. Geor-

giev fu tra i creatori e poi tra i più assidui alimentatori dell’Aiso, l’Associazione Italiana Stu(www. di sulle Origini origini.info), e ha compendiato i propri studi di una esistenza intera nel bel libro, uscito alla fine dell’anno scorso, Charles Darwin. Oltre le colonne d’Ercole (Gribaudi, Milano, 2009), una vera e propria e sontuosa somma di osservazioni, esperimenti, constatazioni scientifiche, che andrebbe studiata da

Nella foto grande, “Il sogno di Giacobbe” di Josè de Ribera Qui sopra “Charles Darwin” di Georgiev. A sinistra Darwin

ogni buon professore di scuola per poi esser riversata con grazia e onestà sugli studenti. Ma il mondo in cui viviamo è un altro, e così uno scienziato scrupoloso come il compianto Georgiev ha dovuto lavorare parallelamente. Viviamo infatti in uno mondo strano dove le fedi sono viste solo come superstizioni, epperò l’antiscientificità più ripugnante alla ragione è difesa con zelo dogmatico. Resta infatti, come sapeva Georgiev, tutto da dimostrare che l’evoluzionismo esista (la speciazione, ossia la comparsa di nuovi gruppi di viventi attraverso mutazioni genetiche) e che esso si muova (come oramai pure alcuni famosi evoluzionisti dicono apertamente) per effetto di caso, selezione naturale e tempi enormi. Tre postulati, questi, imprescindibili dell’evoluzionismo ma tra loro contraddittori, oltre che per definizione non sperimentalmente osservabili e riproducibili a norma di metodo scientifico. Chi è in grado, infatti, di vedere e di misurare il caso, la volontà di scelta criteriale sottratta a Dio e consegnata a una non meno qualificata “natura”e quelle ere geologiche lunghe centinaia di milioni di anni? E come postulare, poi, il tutto in virtù solo di quelle mutazioni genetiche che la scienza – la scienza praticata bene da Georgiev – e la vita – la vita inclemente con Georgiev – sanno e dimostrano e insegnano esser tutte sempre degenerative, cioè patologiche, quindi distruttive, o al massimo sterili. Qualcheduno privo di pietà e senso del ridicolo taccerebbe forse Georgiev di “creazionismo”, ma lui era ben altro. Era uno di quei tali che, scienziati, in Dio credeva, come vi credevano Luigi Galvani (1737-1798) e Alessandro Volta (1745-1827), per esempio, o i citati Redi, Spallanzani e Pasteur, o l’abate Gregor Mendel (1822-1884) oppure il vivente Antonino Zichichi. Un uomo, insomma, che studia senza derogare mai ai dettami certi della propria disciplina e che poi conosce, in altra sede, il Credo: quello del «Dio padre onnipotente, creatore del cielo e della Terra».

Quel Credo a cui debbono rispondere non certo gli atei, ma sicuramente i concordisti, per i quali Maria Vergine e Immacolata verrebbe allora da una scimmia. Georgiev, protestante serio, lottava, come Giacobbe, con l’angelo del suo Dio. Ma nutriva un rispetto per la vera teologia e il vero Magistero cattolici che a molti cattolici difettano; e, con lo studiò, imparò che da quelle parti l’evoluzionismo, per squisite ed uniche motivazioni razionali e sperimentali, non abita. Georgiev mancherà alla scienza e ai suoi amici. Dell’uno e dell’altra.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE

Trapianti: il Pd è sordo e cieco. È solo una battaglia ideologica e politica Oramai è chiaro che quella del Pd è una vera e propria campagna ideologica, perché non si spiega altrimenti il fatto che ci sia ancora qualcuno che si ostina a non vedere, non sentire e non capire che le linee guida del Veneto in materia di trapianti non discriminano assolutamente nessuno. Lo abbiamo dimostrato con documenti scientifici e dati statistici assolutamente inequivocabili (compreso il fatto che ben 37 di queste persone sono già state trapiantate in Veneto), dei quali ha preso correttamente atto anche il senatore Marino, che era stato tra coloro che ci avevano attaccato quando è stato innalzato questo polverone. Un polverone del quale temo qualcuno dovrà prendersi la responsabilità, perché l’unico risultato certo è l’altissimo rischio di allontanare la gente dal concetto di donazione come atto d’amore. È stupefacente che ci si continui ad attaccare alla dicitura scientifica “controindicazioni assolute”. È stato spiegato chiaramente che si tratta di definizioni usuali tra i tecnici, che non significano diniego, ma la necessità di garantire al paziente debole tutta l’assistenza sanitaria, familiare e, se necessario, sociale, per la fase della dimissione e delle complesse terapie da seguire nell’ambito di un percorso che, una volta effettuato l’intervento, è ben lungi dall’essere concluso.

Luca Coletto, assessore alla Sanità della Regione Veneto

COMMERCIO ABUSIVO: LA ROMAGNA SEGUA L’ESEMPIO DI JESOLO Un plauso al comune di Jesolo, e in particolare al suo sindaco, per aver applicato la normativa in vigore per la lotta al commercio abusivo, così da porre finalmente un freno all’assedio ai turisti da parte dei vu’ cumprà che affollano le nostre spiagge. Mi auguro che lo stesso rigore adottato dalla località veneta, dove una turista è stata multata per aver acquistato un portafoglio falso sulla spiaggia di Jesolo, venga attuato anche per i comuni della riviera romagnola.

Gianluca Pini

BISOGNA FARE COMUNITÀ PER RILANCIARE L’ECONOMIA Non posso che essere soddisfatto per la convenzione sottoscritta tra i diversi atto-

ri del tessuto produttivo e finanziario che libera le risorse del territorio aiutando le Pmi a tornare competitive sul mercato, in Italia e all’estero. L’accordo consentirà di migliorare il sostegno del credito alle Pmi associate, anche con la diminuzione del costo del denaro. È previsto un plafond di 100 milioni di euro di finanziamenti. In un contesto difficile come quello attuale, in cui anche le imprese venete risentono della crisi, non si può rimettere il fieno in cascina e aspettare che torni il bel tempo, ma bisogna fare comunità ancora più di prima. Simili iniziative servono a rinsaldare quella sinergia tra banche, aziende e cittadini che è indispensabile per lo sviluppo. Solo con una rete ben radicata nel territorio le nostre piccole e medie imprese, che costituiscono l’impalcatura dell’economia veneta, e nazionale, possono ritrovare lo

L’arte tra le mani Il “Mehndi” - l’applicazione temporanea di tatuaggi all’henna prima di diventare di moda in Occidente (dagli anni Novanta in poi), era la forma tradizionale di decorazione della pelle in Pakistan e India

slancio per ripartire, innovando e aprendosi ai nuovi mercati.

Luca

IL DDL INTERCETTAZIONI PIEGA LE GAMBE A CENTINAIA DI PMI MADE IN ITALY Ogni giorno le aziende del settore intelligence affiancano le forze dell’ordine nella lotta alla criminalità mettendo sul campo know how e tecnologia. È un lavoro che richiede impegno, professionalità ed una buona dose di rischio. Lo Stato dovrebbe tenere in alta considerazione le realtà imprenditoriali di questo comparto per il la-

L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

voro che svolgono quotidianamente, ma nonostante tutto il debito contratto negli anni per le intercettazioni dal ministero della Giustizia è di 500 milioni di euro, con fatture risalenti anche al 2003. Le numerose imprese del settore intercettazioni, espressione dell’eccellenza del made in Italy riconosciuta a livello internazionale, se la situazione non cambierà saranno costrette a cessare la propria attività e quindi a sospendere il prezioso servizio a supporto delle investigazioni, con prevedibili ripercussioni sulla lotta alla criminalità.

Walter Nicolotti

da ”YnetNewdel 10/06/10

Giornalismo fuori dalla dentiera on gli sta dicendo troppo bene al rabbino David Nesenoff, da quando ha ripreso col telefonino alcune dichiarazioni di una giornalista americana. Le riprese rubate con le dichiarazioni bomba, rimbalzate su tutti i media americani e internazionali, non hanno smesso di fare danni. La novantenne Helen Thomas decana dei reporter alla Casa Bianca si era lasciata andare a dichiarazioni poco ortodosse su Israele e la Palestina.

N

Aveva augurato cose poco commendevoli al popolo ebraico. Che si togliesse di torno quanto prima, tornando nei luoghi d’origine, volendo sintetizzare all’osso. Sessant’anni di onorata carriera finiti improvvisamente. Dopo le candeline del compleanno spente con Obama, è venuto il momento di appendere la penna al chiodo. Ora lo sconosciuto rabbino che aveva messo sul web il filmato, con le farneticazioni della Thomas – «che gli israeliani vadano al diavolo, lascino la Palestina e tornino in Germania e Polonia» – sta subendo una sorta di ritorsione. Sono ormai migliaia le email che riceve, con ingiurie, minacce di morte per lui e la sua famiglia e quant’altro completi un quadretto che dipinge il forte sentimento antisemita che è emerso, anche in America, a seguito della vicenda. È Fox News a evidenziare la notizia delle ingiurie al rabbino “reporter per caso”. Nosenoff ha sporto una denuncia alla polizia, dove descrive i passaggi circostanziati che hanno poi condotto i supporter della Thomas ad attaccarlo con vio-

di Yitzhak Benhorin

lenze verbali.Tra le mail ricevute alcune inneggivano ad un nuovo Olocausto.

«Uccideremo tutti gli ebrei. Guardati le spalle» si legge in una missiva. Intanto continuano i tentativi della stampa di intervistare la Thomas, che rifiuta ogni ulteriore contatto con i colleghi e testate. E come dargli torto, visto quanto galeotta fu l’ultima dichiarazione. Ma qualcuno ha usato qualche trucco da giornalista, come la rivista Voice che ha pubblicato un’intervista all’anziana corrispondente, fatta nel marzo scorso e non ancora mandata alle stampe. Ora, dopo l’esplosiva vicenda, l’editore l’ha proposta sul sito web

del magazine. Naturalmente l’argomento centrale dell’intervista è Israele. Alla Thomas che è figlia di un immigrato libanese, viene subito chiesto se sia filoaraba per via delle origini della sua famiglia. E la riposta è affermativa, ma solo perché conosce meglio di altri la situazionee i problemi e altrettanto si potrebbe dire per i filo-sionisti, ribatte subito. Per la decana dei notisti politici statunitensi la crisi tra Stati Uniti e Israele è solo di facciata, la politica di Obama rispetto a quella del suo predecessore non sarebbe cambiata. Anche lo sgarbo fatto al vicepresidente Joe Biden, durante la sua vista israeliana – la ripresa delle costruzioni a Ramat Shlomo – secondo la Thomas era stata solo una pantomima. È anche convinta che il presidente Obama non riuscirà a mantenere a lungo questo genere di pressione sul premier israeliano Benjamin Netanyahu. L’ormai pensionata reporter afferma di essere stata testimone di momenti di crisi simili a questi, durante l’amministrazione di Bush padre. A dimostrazione di un rapporto stretto, ma storicamente turbolento tra Washington e Gerusalemme.

E ha aggiunto che l’impegno di Dennis Ross come consulente di Obama, garantisce la presenza della lobby ebraica alla Casa Bianca. La giornalista avrebbe – durante una conferenza stampa – chiesto al presidente se fosse a conoscenza di Stati mediorientali con l’arma atomica, ricevendone una riposta alquanto vaga. Insomma, un giornalismo fuori dalla dentiera.


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

L’amore per il genere umano e l’orrore per il fanatismo

IL VERO RIPIANO È SULL’EFFICIENZA DELLA SPESA SANITARIA CALABRESE (II PARTE) La vera necessità è quella di ridurre gli sprechi. Risanare la sanità calabrese significa rendere efficiente il sistema e scegliere il modello sanitario per la nostra Regione. Nel fare ciò, si deve tenere in considerazione l’analisi del direttore Faillace, espressa nell’incontro tenuto a Trebisacce qualche giorno addietro, che sottolinea come circa il 30% dei posti letto calabresi sono di strutture private. La strada concreta, quindi, è tracciata. Si tratta di un modello di mercato dove l’offerta sanitaria può essere erogata in termini di efficienza di mercato, controllando naturalmente l’offerta e ponendo target di spesa per il convenzionato privato. Il riordino delle strutture ospedaliere è a maturazione, così come si evince la necessità di potenziare le strutture territoriali, facendo rientrare nel sistema tutti gli operatori più prossimi ai cittadini. La vera necessità, pertanto è studiare un piano sanitario regionale di transizione che abbia come missione l’ottimizzazione della spesa. Ferdinando Mussari V I C E CO O R D I N A T O R E RE G I O N A L E D E I GI O V A N I UD C

La maestà vostra sa bene quali idee mi indussero a scrivere quest’opera: l’amore per il genere umano e l’orrore per il fanatismo. La trama è atroce[...]. C’è un giovane nato virtuoso che, sedotto dal suo fanatismo, assassina un vecchio che lo amava, sicuro di servire Dio, rendendosi colpevole, senza saperlo, di un parricidio; questo delitto è ordinato da un impostore che all’assassino promette come ricompensa un incesto. Faccio notare che tutti quelli che hanno commesso in buona fede crimini di questo tipo erano dei giovani. Faccio notare che tutti quelli che hanno commesso in buona fede crimini di questo tipo erano dei giovani. Mi permetto di aggiungere che chiunque abbia vissuto un po’ tra gli uomini, ha qualche volta potuto osservare quanto facilmente si è pronti a sacrificare la natura alla superstizione. Per questa idea funesta i padri che hanno odiato e diseredato i loro figli, i fratelli hanno perseguitato altri fratelli. Tali cose le ho viste accadere in più di una famiglia. So bene che Maometto non è colpevole del tradimento raccontato nella tragedia. La storia ci insegna solo che lui rapisce la moglie di Séide, uno dei suoi discepoli, e che perseguita Abusofian, che io chiamo Zopire; ma chiunque porta la guerra contro la sua stessa Patria, e osa farlo in nome di Dio, non sarebbe capace di qualsiasi cosa? Voltaire a Federico II, re di Prussia

LE VERITÀ NASCOSTE

L’Algeria e il tappeto che conta gli inchini RABAT. Che l’islam abbia bisogno di modernità è fuori discussione. L’interpretazione dei testi, e la loro applicazione giuridica, hanno un disperato bisogno di confrontarsi con il terzo Millennio. Prova che i dotti musulmani, a dire la verità, temono un poco. Ma è sicuro che, sul piano delle invenzioni, non vogliano rimanere indietro. Ed ecco che, in Tunisia, verrà presto messo in vendita un tappeto per la preghiera che tiene il conto delle genuflessioni. Lo ha collaudato l’inventore Hamadi al-Abyad. La preghiera islamica, ossia la “salat” (che si compie cinque volte al giorno) prevede un numero preciso di genuflessioni, dette “rakaa”. Con questo nuovo strumento elettronico, i fedeli saranno avvisati con segnali luminosi nel momento in cui avranno completato le loro orazioni, senza più rischiare di perdere il conto delle genuflessioni. Soddisfazione per l’ingegnoso marchingegno giunge dal mufti di Stato tunisino, Othman Battikh, che ne ha messo in evidenza «l’assoluta originalità e la sua conformità con la sharia. Nulla impedisce a livello giuridico di utilizzare un tappeto che conta il numero di rakaa», ha detto Battikh. Che ha poi sottolineato come in questo modo «il fedele non dovrà più preoccuparsi di nulla mentre prega». Abyad ha spiegato che l’idea gli è venuta perché «capita a chi prega di distrarsi e di essere preso dal dubbio sul numero di genuflessioni che ha compiuto, mentre su queste cose c’è bisogno di certezze». Il brevetto è già stato acquistato da una ditta che presto lancerà anche un tappeto per imam che, tramite uno schermo a segnali luminosi posto vicino al “mihrab”, la nicchia che indica la direzione della preghiera, permetterà ai fedeli di seguire la guida religiosa. Infine, verrà creato anche un tappeto per i disabili.

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

TRASPARENZA: ONLINE LA SITUAZIONE REDDITUALE E PATRIMONIALE Ho pubblicato sul mio sito internet www.girlanda.org la mia situazione patrimoniale e reddituale, per rendere trasparente e accessibile a tutti quello che è lo stato economico di un deputato, membro di quella “casta”, contro la quale cresce sempre più quel sentimento antipolitico che è diretto solamente alla pancia della gente. Credo di essere uno dei primi deputati a fare questa operazione di outing integrale. Credo fortemente nella trasparenza e ancor più nella necessità di incrementare la produttività della politica, così come condivido la necessità di rivedere alcuni meccanismi sui quali il governo sta già mettendo mano. Penso, in primo luogo, alla riduzione del numero dei parlamentari e alla cessazione di alcuni benefit per ex parlamentari o ministri. Su questa strada c’è ancora molto da fare, anche se si può riscontrare un bel po’di ipocrisia in questa sorta di “operazione trasparenza” da molti sbandierata e da pochi attuata. Ho sentito colleghi deputati parlare della necessità di rendicontare le proprie spese in termini di pernottamento a Roma, trasporti, telefono o stipendi dei collaboratori e renderle trasparenti, omettendo però di ricordare che la Camera eroga comunque un rimborso mensile fisso e forfettario, a prescindere anche da un eventuale superamento di quel tetto di spesa. Quello che sto dicendo è perfettamente riscontrabile sul sito della Camera ormai da qualche anno, e questo testimonia che anche chi si fa portavoce e bandiera di una trasparenza totale, in realtà sfrutta la scarsa conoscenza di certi meccanismi da parte dei cittadini.

Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci,

Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

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OGGI - ORE 11 - ROMA - PALAZZO FERRAJOLI

Consiglio Nazionale Circoli liberal “Verso il Partito della Nazione” DOMANI - ORE 10 - PALERMO - VILLA IGEA HILTON

Convegno Circoli liberal Palermo. “Dal Bipolarismo imperfetto a una politica per il futuro”. Conclude i lavori il Presidente Ferdinando Adornato LUNEDÌ 21 - ORE 17,30 - ROMA CAMERA DEI DEPUTATI - SALA DELLA MERCEDE

In occasione dell’uscita del libro “Ho visto morire il Comunismo” di Renzo Foa, ne discutono Ferdinando Adornato, Rino Fisichella, Stefano Folli, Claudio Petruccioli. SEGRETARIO

VINCENZO INVERSO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Rocco Ghirlanda

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APPUNTAMENTI GIUGNO

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ULTIMAPAGINA Iran. Chiude la fabbrica di piccole sculture dell’eroina

Ora Teheran ha paura di Neda di Gabriella Mecucci e dittature sembrano invincibile e talora persino inattaccabili. Ci appaiono imbattibili con i loro apparati di consenso ben oliati, con un potere forte e duro concentrato nelle mani di pochi, feroci e fedelissimi. È il caso dell’Iran di Ahmadineajad. Ogni tanto si verificano scioperi e proteste, ma il governo picchia, uccide, arresta. E tutto sembra chetarsi. Ma il dissenso cammina sotto traccia, riappare nelle forme più inaspettate, colpisce a modo suo e riesce a creare problemi anche al peggiore dittatore. Spesso i potenti sono vigliacchi e hanno paura di tutto: persino di una statuetta. È la storia di Neda Agha Soltan e del suo eroismo. Ebbene, Ahmadineajad ha fatto chiudere la fabbrica dove venivano prodotte in massa alcune piccole sculture che raffiguravano questa giovane donna e alcuni suoi compagni di lotta.

L

Pochissimi oggi ricordano il nome di quella ragazza di 26 anni, bellissima e generosa, che l’anno passato partecipò a Teheran alle proteste seguite alle elezioni presidenziali iraniane. Migliaia di persone scesero in piazza sfidando con coraggio i guardiani della rivoluzione per denunciare che la vittoria era stata letteralmente “scippata” al candidato Mir Hosei Musavi, leader islasmico moderato, che si era contrapposto ad Ahmadinejad. Quest’ultimo aveva accusato l’avversario di brogli. Sembrava proprio la favola della volpe e l’agnello. Superior stabat lupus... longeque inferior agnus. Neda e i suoi compagni però non ne potevano più di un regime fatto di arroganza, di menzogne, di violenze di ogni tipo. Decisero che qualcuno doveva far suonare alto e forte il proprio no, la propria opposizione. Scesero in piazza. Neda era in compagnia del suo insegnante di musica. Fu vittima di una brutale aggressione, poi un miliziano basj le sparò. Gridò due volte «Sto bruciando» e morì soffocata dal proprio sangue. Ecco come un medico presente ha raccontato la brutale scena dell’assassinio: «Ore 19,05 del 20 giugno in località viale Kargar. Una giovane donna che era presente col padre (ndr: è un errore, si trattava dell’insegnante) e che guardava il corteo di protesta è stata colpita da un proiettile sparato da un membro dei basj, na-

Neda Agha Soltan, uccisa durante una manifestazion e dell’Onda verde contro i brogli nella rielezione di Ahmadinejad

in MINIATURA scosto sotto il tetto di un’abitazione privata. Questi ha chiaramente mirato alla ragazza e non poteva mancarla. Ha mirato diritto al cuore. Sono un medico, così sono corso a soccorrerla. Ma non c’è stato nulla da fare, è morta in due minuti. Il video è stato ripreso da un mio conoscente, vi prego diffondetelo».

Il famosissimo scrittore Paolo Coelho vide il filmato e riconobbe in quel medico uno dei suoi migliori amici. Si prodigò perchè quelle riprese finissero in Rete. Le mise anche nel suo Facebook personale. Le immagini fecero rapidamente il giro del mondo. Neda diventò il simbolo della rivolta contro Ahmadineajad. Del resto Neda in persiano significa letteralmente voce, chiamata. E quella giovane eroina rappresentò da subito la

voce più profonda e autentica dell’Iran. Il mito della Resistenza.

Così almeno la vissero tutti coloro che si opponevano e anche coloro che per paura erano restati nelle loro case, ma che non ne potevano più di violenze, di cecchini, di guardiani della rivoluzioni. Lo splendido volto di Neda sempre più assunse il ruolo dell’icona della lotta a quel regime folle e oppressivo. Ahmadinejad cominciò a temere quelle statuette più di un cannone puntato su di lui. Sino a decidere ieri di chiudere la fabbrica dove venivano prodotte. Il regime ha dovuto sostenere che in quello stabilimento veniva calpestata la legge, che le venti operaie non portavano il velo, per giustificare l’intervento. Ma in realtà ha solo paura del volto di Neda, di quello che ormai significa per i tanti oppositori: un mito eroico da esaltare e seguire. Chissà cosa succederà nell’anniversario dell’assassinio di Neda?I due leader moderati dell’opposizione, Mir Hossein Mousavi e Mehdi Karoubi hanno detto che rinunceranno a manifestare e inviteranno i loro sostenitori a fare altrettanto. E sì che avevano chiesto di poter scendere in piazza in silenzio, senza fare comizi. Ma anche a questo tipo di corteo non è stata data l’autorizzazione. Mousavi e Karoubi temono che ci scappi di nuovo il morto. Se Ahmadinejad si terrorizza persino davanti all’icona di una ragazza ventiseenne, che cosa potrebbe fare se le piazze si riempissero di nuovo contro di lui? Ma l’opposizione, anche se non ci saranno proteste, continuerò a lavorare sotto traccia e Neda, con o senza statuetta in circolo, sarà la sua voce. E il grido di libertà crescerà sino a scuotere anche gli incerti e i paurosi che stanno a Teheran, ma anche in Europa. La lotta per la libertà è dolorosa e pericolosa, ma alla fine anche i regimi più totalitari devono aprirsi o cadere.

In persiano il suo nome significa letteralmente “voce”, “chiamata”. E quella giovane, uccisa a sangue freddo dalla polizia del regime, rappresentò da subito la voce più profonda e autentica dell’Iran. Il mito della Resistenza


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