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La speranza

è un sogno fatto da svegli Aristotele

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • SABATO 12 GIUGNO 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Inaugurati con una coloratissima cerimonia i Mondiali in Sudafrica

Il destino spezzato di Nelson Mandela La nipote muore a 13 anni dopo il concerto d’apertura. E il grande Madiba diserta l’evento che aveva tanto voluto di Alessandro D’Amato

LO SPORT, LA VITA, I DIRITTI UMANI

FORZA AFRICA eri, venerdì 11 giugno 2010, un mare di persone di tutti i Paesi sono rimaste incollate davanti alla televisione per seguire l’inaugurazione dei mondiali di calcio in Sudafrica e per tutti è stata una data importante, non solo per gli sportivi, ma anche per tutti quei milioni di persone che in queste occasioni diventano tifose, perché il tifo rappresenta un segno di appartenenza.

primi mondiali di calcio africani sono cominciati senza Nelson Mandela, che pure si era battuto tanto per averli. La cerimonia d’apertura (un tripudio spettacolare in pieno e magnifico stile tribale) si è svolta senza il novantenne leader della democrazia sudafricana, che è rimasto a casa per rendere omaggio alla piccola nipote Zenani, la tredicenne tragicamente morta l’altra sera in un incidente mentre rientrava dal concerto d’apertura.

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di Paola Binetti

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La Grande Lotta sulle intercettazioni

Che gara, tra politici incapaci e giornalisti ipocriti

Forte richiamo al governo dei Giovani di Confindustria riuniti a Santa Margherita

«Crescita e riforme, o è la fine» Montezemolo a sorpresa: «Basta lamenti, ora bisogna salire sul ring»

di Enrico Cisnetto i piace così poco come la stampa fa il suo mestiere – sempre attratta da scandalismo e sensazionalismo di bassa lega, (quasi) mai impegnata in battaglie per imporre i veri cambiamenti, che sono prima di tutto di cultura politica – che provo una naturale ed immediata diffidenza per le presunte lezioni di democrazia e libertà che essa, spesso, intende impartire. Ma stavolta, con la cosiddetta “legge bavaglio”, appena approvata in Senato, è stato superato il limite di accettabilità dell’intelligenza, politica e non. a pagina 6

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INDECISIONISMO DI GOVERNO

RIFORMISMO ADDIO

Una vergogna il balletto delle Province

Ormai l’Italia è cupa come una tela di Bosch

di Francesco D’Onofrio

di Gennaro Malgieri

«Senza il rigore siamo un Paese spacciato. Ma senza crescita siamo un Paese morto». Ecco perché «quella tra rigore e crescita è una falsa antinomia»: con queste dure parole contro il governo Federica Guidi, presidente dei giovani imprenditori, ha aperto il convegno annuale di Confindustria a Santa Margherita Ligure. Dallo stesso palco, Luca Cordero di Montezemolo, dopo aver chiesto investimenti in ricerca e innovazione, ha detto: «Basta stare in tribuna, è arrivato il momento di salire sul ring».

ontinua un poco dignitoso “balletto istituzionale” sulle Province: rimangono come sono; no: scompaiono le Province laddove vengono istituite le Città metropolitane; contrordine: sono soppresse le Province chiamate ad operare in territori con meno di 200mila abitanti; contrordine del contrordine: anche le mini-Province sono fatte salve. Come è del tutto evidente, si tratta di un “balletto istituzionale” del tutto privo di dignità.

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risi economico-sociale; decomposizione delle istituzioni; decadenza dei costumi pubblici. Per rappresentare l’Italia contemporanea ci si dovrebbe rifare ad una delle celeberrime allegorie oniriche ed orrorifiche, al tempo stesso, del pittore fiammingo Hieronymus Bosch. Nelle forme bizzarre e mostruose che affollano le sue tele forse potremmo trovare la fotografia di un Paese smarrito che sembra abbia rinunciato a cercare una dimensione civile. a pagina 10

Federica Guidi, presidente dei Giovani industriali

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di Francesco Pacifico

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I QUADERNI)

• ANNO XV •

NUMERO

113 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

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IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Mondiali. Il calcio è la metafora della società: la Fifa dovrebbe lanciare una grande campagna in favore dei diritti umani

La festa e il dolore

Muore la nipote Zenani e Mandela diserta il “suo” stadio in tripudio. In questo gesto, il senso di un Continente vinto dalle contraddizioni di Paola Binetti Da oggi, e per tre volte alla settimana, Paola Binetti commenterà per liberal i Mondiali di calcio. eri, venerdì 11 giugno 2010, un mare di persone di tutti i Paesi sono rimaste incollate davanti alla televisione per seguire l’inaugurazione dei mondiali di calcio in Sudafrica e per tutti è stata una data importante non solo per gli sportivi che seguiranno puntigliosamente l’andamento delle partite, analizzando e discutendo i risultati con lunghe ed estenuanti chiacchierate a casa e in ufficio, sulla spiaggia e al bar, ma anche per tutti quei milioni di persone che in queste occasioni diventano tifose, perché il tifo rappresenta un segno di appartenenza, una sorta di carta di identità nazionale. Diventeremo un po’ più italiani perché la squadra che gioca è l’Italia, con i nostri vizi e le nostre passioni e quella squadra avrà tutti i connotati del nostro Paese, con i suoi vizi e le sue virtù, con i suoi difetti e le sue capacità. In un certo senso entreremo tutti in campo e ognuno di noi giudicherà il gioco degli Azzurri come se stesse giudicando l’Italia intera, perché il calcio diventerà metafora della nostra società. Prepariamoci quindi a sentir giudicare la nostra politica, le lotte tra gli schieramenti, i grandi problemi dell’integrazione sociale, la crisi della famiglia, la prossima finanziaria, tutto assumerà il sapore di una grande partita di calcio, su cui scaricheremo ambizioni e frustrazioni, ma anche la speranza di una rinnovata dignità nazionale.

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rizzare dai mondiali di calcio Sudafrica 2010. La Fifa, più che un organismo tecnico-sportivo, sembra essa stessa una grossa multinazionale del calcio che amministrando enormi introiti di pubblicità può permettersi di pagare premi straordinari ai suoi giocatori, ignorando totalmente le sollecitazioni del Ministro Calderoli e quelle dello stesso Tremonti. Eppure in un tempo di crisi globalizzata, in una terra come l’Africa che soffre una endemica fame, in un Paese che confina con altri Paesi schiacciati dal debito pubblico, in cui la vita media è la

le leggi razziali del suo paese e riesce a dominare la rabbia e la paura verso i neri, facendo leva sullo spirito nazionale che si genera attraverso lo sport. L’occasione è offerta dalla Coppa del Mondo di rugby, vinta dalla squadra sudafricana degli Springbock, bandita dagli anni ‘80 dal campionato a causa delle differenze razziali. Nella cerimonia inaugurale del Campionato raccontato dal film, Nelson Mandela, presidente del Sudafrica, indossa la maglia degli Springbock e può contare nel suo progetto di integrazione proprio dal capitano della squadra sudafricana, un bianco che nel film è interpretato da Matt Damon. Nella metafora sportiva il clima di competizione tra le squadre, ma l’alto grado di coesione richiesto alla squadra vincente diventa il simbolo della pacificazione necessaria per un pieno sviluppo del Paese. E la vittoria mostra al di là di ogni ragionevole dubbio che il superamento delle differenze integrato in un

Come in «Invictus» di Clint Eastwood, l’alto grado di coesione richiesto alla squadra vincente diventa il simbolo della pacificazione necessaria per un pieno sviluppo del Paese

D’altra parte, che i mondiali di calcio siano solo un gioco non lo crede ormai più nessuno. Sembra incredibile quanti interessi commerciali ci siano dietro ad un pallone che rotola tra le gambe di poco più di una ventina di giocatori: ci sono multinazionali come Hyundai, Emirates, Coca-Cola, Sony, Budweiser e McDonald’s, che hanno speso oltre 100 milioni di euro ciascuna per farsi sponso-

metà della nostra e non supera i 24, 6 anni di vita, ci si chiede se la stessa Fifa non stia perdendo una grande occasione per innescare un processo virtuoso di sobrietà e di generosità a tutto favore dell’Africa stessa. Con le televisioni di tutto il mondo puntate su quei campi di gioco verrebbe la voglia di lanciare una grande iniziativa a favore dei diritti umani, così come lo stesso Mandela ha fatto in tutta la sua vita. Mandela ha saputo vedere nello sport un valore e una forza aggregativa che vanno ben oltre i limiti del campo di gioco.

É uscito in questi mesi, in modo tutt’altro che casuale, un bellissimo film, diretto da Clint Eastwood, che credo molti abbiano visto con grande commozione: Invictus, l’invincibile. Un film che racconta la storia del Sudafrica dopo l’elezione come presidente di Nelson Mandela, leader carismatico che lotta contro

grande progetto comune merita sforzi e sacrifici. In altre parole vale la pena!. Non a caso nel 1995 la squadra degli Springboks, con la vittoria del premio mondiale di rugby, segna un passo decisivo nel percorso verso la pace. E dal Sudafrica questa lezione conserva ancora oggi tutta la sua forza e tutta la sua eloquenza per ricordare ad ogni Paese come l’unità nazionale è condizione indispensabile per la pace e per lo sviluppo. Ma non può esserci unità dove non c’è rispetto per i diritti umani e per questo ci auguriamo tutti che giorno per giorno tra una partita e l’altra si alzi in modo corale la richiesta di un pieno rispetto dei diritti universali dell’uomo per tutto il continente africano.

E proprio perché Nelson Mandela di tutto ciò è il simbolo ci rammarichiamo in modo particolare del fatto che non è presente ieri alla partita inaugurale, in cui il “suo” Sudafrica ha incontrato il Messico. Pur augurandoci con il consueto senso sportivo, che vinca il migliore, prendiamo subito posizione a favore dei padroni di casa: per la loro storia e per quella straordinaria lezione di civiltà di cui abbiamo tutti un enorme bisogno: imparare ad integrare le differenze, a valorizzarle, a trasformarle in elemento di forza, proprio grazie a quell’ingrediente solo apparentemente immateriale che è lo spirito di squadra… quello di cui –tanto per intenderciavrebbe un enorme bisogno anche il nostro Governo, oltre che il nostro Paese. Per questo ci dispiace molto che oggi al calcio inaugurale non ci sia Nelson Mandela, la cui immagine conserva tutto il fascino eloquente della sua storia personale. E tanto più ci dispiace per le ragioni che la determinano: un lutto familiare grave, la morte di sua nipote. Sempre misteriosa e dolorosa nello stesso tempo la storia di questo leader carismatico, nella cui vita ogni gioia è stata segnata dal dolore, anche se poi tanto dolore personale ha contribuito a generare gioia per migliaia di persone. Zenani Mandela, ha perso la vita in un incidente stradale a


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Autorità, grande spettacolo e tradizioni per la cerimonia d’apertura

E l’orgoglio africano si prende tutta la scena di Alessandro D’Amato il momento dei bafana bafana, di Jabulani, delle vuvuzelas. Nonostante l’assenza di Nelson Mandela a causa di un lutto familiare, lo spettacolo va in scena lo stesso e il Sudafrica inaugura ufficialmente l’edizione 2010 della Coppa del Mondo, godendosi il record di primo paese africano a ospitarne la fase finale.

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Qui sopra, varie fasi della cerimonia inaugurale dei Mondiali di calcio, ieri, nel nuovo stadio di Johannesburg. A sinistra, il premio Nobel per la Pace Desmond Tutu, qui in abiti da tifoso proprio in occasione dei campionati Soweto mentre tornava a casa dopo il concerto di inaugurazione della Coppa del mondo. Un concerto a cui avevano partecipato oltre 43 mila persone richiamate da molti grandi nomi della musica internazionale. Un concerto in cui Shakira, la cantante colombiana scelta come voce ufficiale di questi mondiali di calcio, aveva cantato più volte l’inno di Sudafrica 2010: This Time for Africa, WakaWaka, mentre dietro di lei scorrevano le immagini di Nelson Mandela e della storia del Sudafrica. Un concerto quindi in gran parte in suo onore e della sua continua battaglia per il riconoscimento dei diritti umani; qualcosa che suonava come un grazie a lui e al suo impegno politico, maturato anche attraverso lo sport e sempre nella prospettiva di ciò che unisce e va oltre le pur evidenti differenze. Ma ciò che avrebbe dovuto essere un omaggio a lui si è convertito in fonte di dolore. Il premio Nobel per la pace e vero e proprio simbolo di questa edizione africana dei mondiali è rimasto vicino alla famiglia e non si è recato allo stadio di

Johannesburg. Ai mondiali di calcio di quest’anno il Grande Vecchio ha rinunziato a presenziare al calcio iniziale e ha messo in primo piano il dolore della sua famiglia, il valore della perdita di una nipotina che solo due giorni prima aveva fatto 13 anni: una vita giovane che avrebbe dovuto godere di tutta la gioia di questo evento straordinario che si realizza nel suo Paese e invece non c’è più.

Zenani diventa il simbolo dell’ingiustizia per cui tanti giovani muoiono, consumati dalla fame e dalle malattie, ma anche travolti dall’alcol, dagli incidenti stradali e da tutto ciò che in modo più o meno esplicito calpesta il diritto a vivere soprattutto nei più giovani. E questi mondiali diventano allora anche una potenziale metafora della vita e della morte, della gioia e del dolore, dei successi e delle sconfitte. Forse proprio per questo sono così affascinanti e vanno ben oltre i confini dello stadio per abbracciare una intera nazione con tutte le sue vicende umane…

Mandela manca, ma il suo volto compare lo schermo sui maxischermi del Soccer City Stadium di Johannesburg, in una cerimonia sfavillante e colorata, che un po’ ha ricordato le molte iniziative per la liberazione del leader africano degli anni Ottanta. Ottantacinquemila persone sugli spalti e «l’Africa al centro del mondo» è il commento che si sente più spesso mentre l’allegria delle danze di ballerine che in questa parte del mondo sarebbero miopemente giudicate troppo grasse fa il giro degli schermi di tutto il mondo. Circa millecinquecento figuranti in tutto, che raffigurano con canti e balli le tradizioni del Continente, mentre sul palco partecipano numerose autorità tra le quali il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon e il vicepresidente degli Stati Uniti Joe Biden. Accanto a loro il presidente sudafricano Jacob Zuma e molti capi di Stato africani. Nel corso dello spettacolo è stato reso omaggio alla cantante Miriam Makeba, un’icona della musica africana. Tra i numerosi artisti che si sono esibiti il cantante algerino Khaled e uno dei più grandi trombettisti viventi, il sudafricano Hugh Masekela. In uno sfarzo di costumi colorati e nel tripudio della folla festante, nell’arena fanno il loropoi ingresso le bandiere delle trentadue squadre partecipanti alla rassegna. le bandiere delle 32 nazioni partecipanti diventano protagoniste di una specie di ”conto alla rovescia”, con rotazioni ritmiche tutte le ”bandiere”, riprodotte su grandi tasselli rigidi, che vengono fatte muovere dalle comparse una dopo l’altra fino al momento ”zero”.In apertura di cerimonia c’era stata l’esibizione di una flotta di jet dell’aviazione sudafricana che ha sorvolato lo stadio con un volo raden-

te. L’assordante suono delle ’vuvuzela’, le tipiche trombette sudafricane, ha fatto da sfondo a tutta la cerimonia. I jet sono tornati ad esibirsi a chiusura della festa. Mentre, tanto per gradire, una stoccata a Pelè non l’ha fatta risparmiare un protagonista d’eccezione. Diego Armando Maradona, attuale commissario tecnico dell’Argentina, non risparmia un’accusa a O rei senza nominarlo mai. «Quando si è verificata la tragedia del Togo prima dell’inizio della Coppa d’Africa, un signore scuro che giocava con il numero 10 ha detto che i Mondiali non dovevano giocarsi in Sudafrica. Io, invece, ho detto che i Mondiali si dovevano fare in questo paese», dice il ct dell’Argentina mettendo in discussione la «ponderata opinione di questo signore, secondo cui il Sudafrica non forniva garanzie. Oggi il Sudafrica risponde organizzando i Mondiali». «Siamo qui, sul punto di iniziare un torneo e per questo faccio i migliori auguri all’Africa affinché ospiti un’edizione eccellente e dimostri al mondo che anche qui si può vivere con dignità, come in qualsiasi altro luogo», aggiunge il Pibe. Che non ha mai dimenticato l’arte di sapersi “arruffianare” il pubblico di casa, della quale abbiamo avuto prova diretta durante Italia ’90. «Dicono che l’Africa sia la culla dell’umanità», ha urlato ieri Desmond Tutu prima della Waka Waka di Shakira. «E allora, al mondo che ci guarda e partecipa a questa festa, diciamo con gioia: bentornati a casa». Oggi siamo tutti africani. Di certo lo sono i due miliardi di persone che hanno visto la cerimonia, secondo le stime delle reti televisive.

Mancano dieci minuti e parla Blatter, che celebra ”La coppa del mondo in Sudafrica”, in un discorso che sembra sempre uguale da troppe edizioni. Seguono le dichiarazioni del presidente Zuma, che ripete gli stessi concetti ma allarga al Continente il ragionamento, parlando di festa ”per tutta l’Africa”.“Il verbo dell’Africa è finalmente giunto”, dice prima di salutare e dichiarare aperta la competizione, stringendo la mano ai giocatori di Sudafrica e Messico che sono in campo per la partita inaugurale. E così si inizia.


l’approfondimento

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La straordinaria parabola del grande assente di ieri, vera icona della trasformazione del Terzo Mondo nel Novecento

Il Ghandi d’Africa

Dalla prigione del razzismo alla presidenza del Sudafrica, ritratto di Nelson Mandela, ormai un monumento vivente. Il suo vero nome era una sorta di profezia: “piantagrane”. Oggi è grande proprio perché si rifiuta di essere un mito di Maurizio Stefanini uando stava in galera, Nelson Mandela non fu adottato come prigioniero di coscienza da Amnesty International: motivo, aveva propugnato la lotta armata. Per lo stesso motivo, era finito in una lista Usa di terroristi della quale si accorsero e dalla quale lo tolsero solo quando compì i novant’anni. Ora che il drammatico lutto sulla bisnipote uccisa a tredici anni da un pirata della strada ubriaco mentre tornava dal concerto di avvio allo stesso mondiale gli ha impedito di presenziare all’inaugurazione degli stessi mondiali, è stato generale il coro sulla festa rovinata per la mancanza di “Papà Africa”.

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Ma se Mandela ha un’accettazione così trasversale, è anche per una capacità camaleontica di riadattarsi. Al processo che gli avevano fatto nel 1960, ricordiamolo, si era dichiarato a favore del partito unico. In quello del 1962 lodò la monarchia tradizionale xhosa.

Nell’altro del 1964 celebrò il Parlamento inglese. Diventato Presidente ha privatizzato a tutto spiano. E negli anni ’50 chi si recava nel suo appartamentino di Soweto ci trovava contemporaneamente i ritratti di Franklin Delano Roosevelt, Winson Churchill, Stalin e Gandhi, più la presa del Palazzo d’Inverno a Pietrogrado. Il suo bisnonno era Ngubengcuka, re del popolo Thembu prima della conquista britannica. Suo padre Gadla Henry Mphakanyiswa era il capo del villaggio di Mvezo, dove Mandela nacque il 18 luglio 1918. Il suo vero nome era Rolihlahla, più o meno “piantagrane”: forse perché si era già fatto notare per i suoi calci durante la gravidanza, o per i suoi pianti appena nato. Ma quando a sette anni iniziò a frequentare la scuola il missionario metodista che faceva da insegnante non riusciva a pronunciare quel nome, e così lo ribattezzò Nelson, come l’ammiraglio di cui era grande ammiratore. Orfano di padre a nove anni, Nelson sarà

preso sotto la tutela del reggente Dalindebo.

Diplomato a 19 anni, va a studiare Diritto a Fort Hare, all’epoca unica università aperta ai neri di tutta l’Africa al sud dell’Equatore. Ma quando il tutore cerca di combinargli un matrimonio non di suo gusto rompe con la società tribale, e a 23 anni se ne va a Johannesburg. Costretto per sopravvivere a fare il guardiano di miniera con una paga misera, si affilia all’African National

Nel 1993, insieme con De Klerk, ha vinto il Nobel per la pace

Congress, e grazie al partito trova un posto da praticante avvocato. Ma subito dopo aver partecipato a 25 anni alla prima manifestazione, crea una Lega Giovanile fortemente critica verso il moderatismo ufficiale del partito. Mandela è anche influenzato dai comunisti, di molti dei quali è diventato amico all’Università. Ma il programma ufficiale della Lega Giovanile rifiuta il comunismo come “ideologia non africana”. Con lui cofondatore della Lega Giovanile è Oliver Tambo, as-

sieme al quale poco dopo apre uno studio legale. È il primo nella storia del Sudafrica gestito da avvocati neri, e lo rende famoso proprio mentre la vittoria elettorale del 1948 consegna il potere al Partito Nazionale, con la sua ideologia di aparheid duro e puro.

Nel 1952 Mandela inizia una campagna di disobbedienza civile di tipo gandhiano, che porta al suo primo arresto. Di nuovo arrestato nel 1956 con l’accusa di alto tradimento, sarà assolto nel 1961. Nel frattempo ha lasciato la prima moglie e si è sposato nel 1958 con la 22enne attivista dell’Anc Nomzamo Winifred Zanyiwe Madikizela “Winnie”, che gli darà altre due figlie oltre ai due maschi e due femmine del primo matrimonio. Ma nel 1961 la saluta, per entrare in clandestinità alla testa della nuova organizzazione armata Umkhoto we Sizwe: “Lancia della Nazione”. Per addestrarsi va in Etiopia e in Algeria, ma appena torna in patria lo prendono, il 5 agosto 1962. Il


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Il primo goal del Campionato è per i padroni di casa: rete con balletto per Tshabalala

E per venti minuti sembrarono undici campioni brasiliani

A Johannesburg la partita d’esordio con il Messico finisce in pareggio, ma i Bafana Bafana (nel secondo tempo) hanno sorpreso il Pianeta di Guglielmo Malagodi stato un Sudafrica orgoglioso, malgrado le pressioni e il lutto che ha colpito ieri Nelson Mandela, quello che ha tenuto testa al Messico nella partita inaugurale dei Mondiali 2010, sfiorando anche una vittoria su cui - alla fine del primo tempo nessuno avrebbe scommesso. Iscritta d’ufficio ai campionati, in qualità di squadra ospitante, il Sudafrica non vanta - nel calcio - un curriculum importante. Esclusa da tutte le manifestazioni sportive negli anni dell’apartheid (dal 1950 al 1992), nell’ultimo decennio del ventesimo secolo i Bafana Bafana sono stati comunque una delle squadre africane più vincenti, anche se con un palmares neppure minimamente paragonabile a quello dei “cugini” del rugby. Il picco è arrivato nel 1996, quando il Sudafrica ha vinto l’edizione della Coppa d’Africa organizzata in casa. Un buon viatico per questo 2010, anche se a livello mondiale ripetere l’exploit sarebbe poco meno di un miracolo. E il miracolo, nella partita con il Messico, il Sudafrica l’ha soltanto sfiorato.

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Il Messico parte forte, complice anche l’emozione che sembra bloccare la squadra allenata dal brasiliano Carlos Alberto Parreira (quinta esperienza a un Mondiale per il ct che trionfò a Usa ’94 con la nazionale verdeoro). Già al secondo minuto i messicani sfiorano il goal, con Giovani Dos Santos che riprende una respinta corta del portiere sudafricano Khune e batte a botta sicura, per vedersi deviare il tiro quasi sulla linea di porta. Il Messico sembra subito nettamente superiore agli avversari, irretiti in una fitta ragnatela di passaggi a centrocampo e sempre in ritardo sul pallone. Al 15°, su azione di calcio d’angolo, Guillermo Franco mette fuori di testa da pochi passi. Al 19° è ancora la volta di Giovani Dos Santos, con una percussione centrale prepotente: sinistro a lato, di poco. A togliere più di una castagna dal fuoco per la sua squadra è il portiere sudafricano Khune, attento e sempre affidabile sulle uscite alte, al contrario del collega messicano Perez, poco impegnato (per fortuna dei suoi) ma sempre incerto. Al 27° è sempre un’accelerazione di Giovani Dos Santos a mettere in difficoltà la difesa africana, ma l’attaccante messicano è steso da Dikgacoi (ammonito) pochi passi fuori dall’area. E Marquez non riesce a sfruttare l’invitante punizione dal limite. Dopo la sfuriata iniziale, però, la manovra del Messica si fa progressivamente più farraginosa, con il Sudafrica che riesce ad organizzare qualche contropiede potenzialmente pericoloso, senza comunque mai mettere troppa pressione a Perez. Tra il 34° e il 37° è ancora il Mes-

sico ad avere un paio di fiammate, sempre con Vela: prima la punta messicana sbaglia un diagonale piuttosto comodo dalla destra, poi - in posizione di fuorigioco - accompagna in rete un colpo di testa di Guillermo Franco che probabilmente sarebbe finito in porta lo stesso. Il goal annullato spezza il ritmo ai messicani. E negli ultimi cinque minuti del primo tempo il Sudafrica riesce ad affacciarsi più di una volta nella metà campo avversaria. Al 42° Gaxa trova un varco, ma Rodri-

Tutti quelli che avevano scommesso sul calcio dei Paesi emergenti sono rimasti soddisfatti

guez lo riesce a chiudere in corner. Al 43°, altra pericolosissima uscita a vuoto di Perez. Al 44°, prima nitida occasione da goal per i Bafana Bafana: Tshabalala crossa teso per la testa di Mphela, che sfiora l’impatto con la palla a pochi metri dalla porta. Al 45°, Digkacoi va ancora una volta vicino al goal, con il Sudafrica che chiude davanti dopo aver subito per quasi tutta la prima frazione della partita.

Il bel finale di primo tempo galvanizza la nazionale di casa, che dopo l’intervallo scende in campo trasformata. Più che il Sudafrica, adesso, sembra il Brasile. L’allenatore c’è, i colori della maglietta anche (con il verde al posto del blu per i pantaloncini), ma soprattutto c’è una squadra ritrovata che fraseggia in mezzo al campo con abilità e trova spesso penetrazioni efficaci nella metà campo messicana. La nazionale centroamericana, al contrario, sembra irri-

conoscibile. Soffre nella linea mediana e lascia intravedere tutti i limiti, anagrafici e dinamici, della sua difesa. Perreira sostituisce Thwala con Masilela per dare più sostanza al centrocampo. Già al 3° il Sudafrica è pericoloso con un bel cross di Tshabalala per Modibe, ma Salcido è attento in copertura. All’8° Mphela prova la percussione centrale, ma Rodriguez lo frena all’ultimo istante. Al 10° accade l’impensabile: innescato da una veloce ripartenza,Tshabalala si allarga sulla sinistra e, appena entrato in area di rigore, lascia partire un missile terra-aria che esplode proprio all’incrocio dei pali sulla sinistra di Perez. Un diagonale potente e preciso, assolutamente imparabile (figuriamoci per il bislacco portiere messicano). Goal con balletto incorporato.

La reazione del Messico è blanda. Ed è tutta riassunta nel bel sinistro di controbalzo di Giovanni Dos Santos che Khune devia in angolo con un tuffo da applausi. Dal quarto d’ora in poi, il Messico non sembra più trovare il bandolo della matassa. I fraseggi a centrocampo sono farraginosi e la difesa sudafricana regge botta senza troppi sforzi. Escono Aguilar e Vela per Guardado e Blanco, ma la sostanza non cambia di una virgola. E i Bafana Bafana sfiorano due volte il colpo del knock-out. Al 21° un tiro deviato di Mphela finisce sui piedi di Modise, ma l’esterno di destra spreca incredibilmente a un paio di metri dalla porta. Al 25° è ancora Modise che riesce a fuggire dalla marcatura di Rodriguez, che lo spinge proprio al momento del tiro: Perez respinge e l’arbitro, l’uzbeko Irmatov non concede un calcio di rigore che ai più sembra netto. L’inerzia della partita, comunque, sembra ormai tutta dalla parte del Sudafrica, con il Messico che stenta a riorganizzarsi. Ma proprio nel suo momento peggiore, la nazionale allenata da Aguirre trova il goal del pareggio. Anche in questo caso, il Sudafrica si comporta “alla brasiliana”, ma nel senso più deteriore del termine. Uno dei centrali difensivi sbaglia totalmente la tattica del fuorigioco su un cross dalla trequarti e Marquez, liberissimo, riesce a mettere in rete comodamente. Poi è tutto un batti e ribatti, con nessuna delle due squadre ad accontentarsi del pareggio, ma con il Sudafrica più pericoloso, fino al palo trovato - proprio al 45° - da Mphela su un rinvio lungo del portiere Khune. Il miracolo, alla fine, non arriva. Ma i Bafana Bafana escono a testa alta, ridimensionando un Messico che appena una settimana fa aveva umiliato i campioni del mondo in carica.

25 ottobre 1962 gli danno i primi cinque anni di prigione, e il 12 giugno 1964 avrà l’ergastolo. Solo perché non vogliono farne un martire, evita il capestro. Per ben due volte, nei 27 anni successivi, i servizi segreti sudafricani organizzeranno finte evasioni, apposta per avere la scusa di farlo fuori. Entrambe le volte Nelson fiuta la trappola. Chiuso nel terribile carcere di Robben Island, Mandela passa i primi tredici anni ai lavori forzati. Ma intanto è divenuto un simbolo a livello mondiale, così le condizioni migiorano, e dal 1985 iniziano segretamente a negoziare con lui.

I frutti si vedranno quando nell’agosto del 1989 diventa presidente Frederik Willem de Klerk, in un momento in cui il collasso del blocco comunista rende ormai superate le vecchie paura su una sovietizzazione del Sudafrica. Dopo una prima raffica di provedimenti che in pochi mesi abolisce l’apartheid e legalizza i partiti politici vietati, l’11 febbraio del 1990 Nelson Mandela torna in libertà. A 72 anni, il suo volto smagrito e dai capelli bianchi è ormai diverso da quello paffutello e con la barba delle foto di 27 anni prima, che hanno continuato a campeggiare in magliette e poster. Ma anche il suo linguaggio di moderazione e conciliazione è una sorpresa. Il 27 aprile 1994 si tengono le elezioni in cui il 62% dei votanti deposita nella scheda il suo nome. Il 10 maggio 1994, a 76 anni, si insedia come primo presidente nero nella storia del Sudafrica. In base agli accordi sulla transizione, De Klerk è il suo Vice. L’anno prima i due avevano condiviso il Premio Nobel per la Pace. Qualcuno ha osservato che la Presidenza Mandela è memorabile proprio perché si sforza di non esserlo: preferendo una Commissione per la Verità in cui chi racconta quel che successo è poi perdonato, a epurazioni giacobine; e l’empowerment per far crescere un ceto imprenditoriale nero, a nazionalizzazioni o espropri; e una politica di amicizia con tutti, da Taiwan a Fidel Castro, piuttosto di scelte troppo nette. Soprattutto, spettacolare differenza rispetto a tanti eroi liberatori del Terzo Mondo poi metamorfosati in eterni satrapi, dopo il primo mandato rifiuta di ricandidarsi. Proprio il suo moderatismo ha portato nel 1992 alla separazione e nel 1996 al divorzio con l’estremista Winnie, coinvolta in gravi scandali e massasi alla testa dell’ala più radicale dell’Anc. Nel giorno del suo ottantesimo compleanno si risposa per la terza volta: con Graça Machel, classe 1945, vedova di un presidente mozambicano morto in un incidente aereo 12 anni prima. Con lei si gode la pensione, da monumento vivente.


diario

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Polemiche. Le norme appena approvate in Senato affrontano solo un aspetto del problema della riservatezza

Tra incapacità e ipocrisia

La «Grande Lotta» contro la legge (inutile) sulle intercettazioni i piace così poco come la stampa fa il suo mestiere – sempre attratta da scandalismo e sensazionalismo di bassa lega, (quasi) mai impegnata in battaglie per imporre i veri cambiamenti, che sono prima di tutto di cultura politica – che provo una naturale ed immediata diffidenza per le presunte lezioni di democrazia e libertà che essa, spesso, intende impartire. Nello specifico, scatta ancor più deciso il riflesso condizionato negativo verso la Grande Lotta che tutto il fronte mediatico, quasi al completo, ha inscenato contro la cosiddetta “legge bavaglio” sulle intercettazioni, che il Senato ha approvato con voto fiducia. Non per altro, ma vedere i giornalisti delle opposte fazioni, solitamente intenti a dirsele di santa ragione, uniti come un sol uomo, invece di indurmi a pensare che quello strano connubio sia la certificazione che abbiano ragione, mi rafforza nell’idea che sia l’ipocrisia a prevalere. Oppure vedere giornalisti che solitamente “sbattono il mostro” in prima pagina senza alcuno scrupolo salvo poi quando, obtorto collo, devono prendere atto di avere sbagliato lo rivelano in ultima pagina – quando lo fanno – vederli indignati perché non possono più srotolare le minute delle intercettazioni mascherandole da inchieste di denuncia, ebbene tutto ciò mi induce automaticamente a stare “dall’altra parte”, quale essa sia.

M

Tuttavia, a tutto c’è un limite. E qui, con il disegno di leg-

I n s o m m a , la c o s i d d e t t a

gando e punendo i reati – tutti principi che vanno tutelati armonizzandoli tra loro con saggezza e misura – occorre varare misure capaci di centrare l’obiettivo, non di recitare una parte. E a leggere bene quel mix di compromessi al ribasso che costituiscono il disegno di

Tutto continuerà più o meno come prima tanto sotto il profilo della tutela della privacy quanto sotto quello della correttezza delle indagini ge ormai famigerato, non è stato superato il limite oltre il quale si mette in dubbio il diritto, la libertà di stampa e quant’altro è stato evocato nella litania dei post-it gialli sui giornali paladini dei lettori (sic), ma è stato superato il limite di accettabilità dell’intelligenza, politica e non. Perché su un tema così delicato come quello che attiene contemporaneamente alla privacy dei cittadini, al loro diritto di essere informati e al dovere dello Stato di garantire la sicurezza individuale e collettiva inda-

inquirenti senza criterio e misura perché con quel sistema si vendono più copie e si costruiscono carriere. Mentre saranno bellamente aggirati sia i limiti temporali appena introdotti (chi volete che si opponga al rinnovo delle autorizzazioni a proseguire le intercettazioni, richieste in base a criteri di necessità e urgenza impossibili da verificare?), sia i divieti di pubblicazione, per bypassare i quali basterà usare siti internet extra-territoriali e poi riprendere quelli.

di Enrico Cisnetto

legge uscito dal Senato, qualunque cosa si può dire meno che quelle norme saranno efficaci. Tutto continuerà più o meno come prima – cioè malamente, tanto sotto il profilo della tutela della privacy quanto sotto quello dell’efficacia e correttezza delle indagini e dei relativi processi – con lo strumento delle intercettazioni in mano ad una magistratura che ha dato abbondanti prove di non saperlo usare in modo appropriato, con i giornali che pubblicheranno ciò che passano loro gli

Ancora scontri sulla firma del Quirinale

Schifani con Napolitano ROMA. Resta teso il clima politico dopo il via libera alla riforma delle intercettazioni al Senato. «Sono preoccupatissimo», ha detto l’ex premier Romano Prodi, sottolineando che «da mesi e mesi si va avanti solo su questi temi, il resto è periferico: c’è continuità solo nel cercare di controllare il Paese». Poi, Prodi ha aggiunto di sperare nei giovani: «Ci sono degli scatti dei Paesi in momenti incredibili, c’e’ sempre una forza che salta fuori». L’Idv conferma che «darà battaglia alla Camera» e, con il capogruppo Idv alla Camera, Massimo Donadi, conta sui malpancisti Pdl: «Il testo del ddl è la vittoria piena di Berlusconi su Fini. Il passaggio alla Camera è l’ultima spiaggia che hanno i finiani di mostrare la loro coerenza. Non si può sacrificare la legalità per

equilibri di coalizione». A difesa di Napolitano, nuovamente chiamato in causa da Di Pietro perché non firmi la legge, arrivano le parole di Renato Schifani: «Il Presidente della Repubblica non va mai coinvolto quando il Parlamento legifera in richieste di non firma». Il presidente del Senato ha sottolineato che il Capo dello Stato «ha dato, fin da quando si è insediato, un esempio di compostezza istituzionale e di rispetto della Costituzione. A lui guardiamo tutti come punto di riferimento per le garanzie costituzionali». Più duro Sandro Bondi, coordinatore Pdl: «Deve essere chiaro che la campagna mediatica e politica in corso, tanto più schiacciante quanto più lontana dal senso comune dei cittadini, tradisce la nostra Costituzione».

“legge bavaglio” non è brutta o, peggio, liberticida, è solo inutile. Lascerà le cose come stanno. Esattamente come tutte le iniziative del centro-destra in materia di giustizia messe in campo negli otto anni (su dieci) in cui Berlusconi è stato al governo: pur disponendo di una forza parlamentare senza precedenti nella storia repubblicana, pur annunciando sempre giuste intenzioni (limitare gli eccessi di certa magistratura, separare le carriere, semplificare le procedure e accelerare i processi, ricondurre l’onere della prova in capo all’accusa, trattare gli indagati e gli imputati come innocenti fino a sentenza definitiva, ecc.), i risultati non sono mai venuti e la forza delle enunciazioni di principio è diventata col tempo una stanca litania da campagna elettorale.

La vera riforma, infatti, sarebbe stata quella di ricondurre le intercettazioni nel loro naturale alveo di strumento d’indagine in mano alla polizia giudiziaria, che le usa senza limitazioni per supportare la sua attività investigativa; dunque, togliendole dalle mani discrezionali della magistratura e soprattutto evitando che si trasformino in atti processuali, in modo che non siano elementi di prova e non finiscano pubblicate sui giornali. Così succede in tutti i paesi civili, così dovrebbe succedere anche in Italia. Se non fosse che, come è successo in tutto il corso della Seconda Repubblica, da noi si confrontano due squadre, gli ipocriti e gli incapaci, che per definizione non possono far altro che lasciare il Paese nell’arretratezza in cui è finito da troppo tempo. (www.enricocisnetto.it)


diario

12 giugno 2010 • pagina 7

L’anno sacerdotale chiuso con una messa a San Pietro

Bocciata la mozione del Pd, decisivo il no dei “lettiani”

Il Papa chiede ancora scusa per gli abusi sui minori

Pisa rifiuta la cittadinanza onoraria a papà Englaro

CITTÀ DEL VATICANO. Ieri Papa

PISA. Con 18 voti contro, 15 a favore e 2 astenuti, il Consiglio comunale di Pisa ha di fatto scaricato Beppino Englaro, divenuto una (controversa) icona del Pd. Davanti al fronte compatto del “no” rappresentato da Pdl e Udc, pure i democratici hanno riconsiderato l’idea di assegnare al padre di Eluana la cittadinanza onoraria nella città della Torre. Decisivo in particolare è stato il ripensamento di alcuni dei consiglieri di area lettiana presenti nella maggioranza di sala delle Baleari a Pisa, che hanno optato per il minor imbarazzo possibile. Il comune guidato da Marco Filippeschi è stato anche il palcoscenico per la presentazione in pompa magna del libro di Beppi-

Benedetto XVI, celebrando la messa di conclusione dell’Anno sacerdotale a piazza San Pietro, è tornato a parlare della quertsione-pedofilia: «Chiediamo insistentemente perdono a Dio e alle persone coinvolte e intendiamo promettere di voler fare tutto il possibile affinché un tale abuso non possa succedere mai più». E ha aggiunto di voler promettere che «nell’ammissione al ministero sacerdotale e nella formazione durante il cammino di preparazione ad esso faremo tutto ciò che possiamo per vagliare l’autenticità della vocazione e che vogliamo ancora di più accompagnare i sacerdoti nel loro cammino, affinché il Signore - ha detto ancora Benedetto XVI - li protegga e li custodisca in situazioni penose e nei pericoli della vita».

Come il pastore, ha detto ancora il Papa, che «ha bisogno del bastone» per proteggere il suo gregge, e del «vincastro che dona sostegno ed aiuta ad attraversare passaggi difficili», anche la Chiesa «deve usare il bastone del pastore, il bastone col quale protegge la fede contro i falsificatori, contro gli orientamenti che sono, in realtà, disorientamenti». «Proprio l’uso del bastone - ha aggiunto - può essere un servizio

di amore. Oggi vediamo che non si tratta di amore, quando si tollerano comportamenti indegni della vita sacerdotale», ha concluso alludendo alle coperture degli scandali di pedofilia. «Al tempo stesso, però, il bastone deve sempre di nuovo diventare il vincastro del pastore - ha aggiunto il Pontefice vincastro che aiuti gli uomini a poter camminare su sentieri difficili e a seguire il Signore». Entrambe le cose, la severità e il sostegno - ha insistito il Papa - «rientrano nel ministero della Chiesa» e «del sacerdote», e devono servire contro i «comportamenti indegni della vita sacerdotale», ma anche per proteggere la fede.

Fiat, si tratta a oltranza per salvare Pomigliano Marchionne: «Se salta l’accordo dovrò chiudere» di Errico Novi

ROMA. Maurizio Sacconi prova a metterci anche una battuta sdrammatizzante: «Potrei citare il Catalano di Quelli della notte: meglio fare la cosa giusta con il consenso di tutti piuttosto che la cosa sbagliata con tutti contro». Ma più che un modo per alleggerire la tensione, quella del ministro è un’allusione per spiegare che il destino della trattativa su Pomigliano tra Fiat e sindacati a questo punto è tutta nelle mani dei secondi. Così sembra d’altronde dopo i primi passaggi dell’incontro ospitato nella sede capitolina di Confindustria: poco dopo le 16 il responsabile delle relazioni industriali di Fiat Paolo Rebaudengo prende la parola davanti ai rappresentanti delle principali sigle – Fiom, Fim, Uilm, Fismic e Uglm – domandando se intendono sottoscrivere il documento consegnato dall’azienda lo scorso 8 giugno: una proposta che prevede investimenti del Lingotto per produrre la Panda nello stabilimento campano e un piano di organizzazione che i sindacati contestano soprattutto nella parte relativa agli straordinari.

L’ostacolo d’altra parte è soprattutto la Cgil: non a caso il leader della Cisl Raffaele Bonanni si rivolge direttamente al collega Epifani da Levico, in Trentino, dove è in corso la Festa nazionale cislina: «Bisogna evitare in tutti i modi la chiusura», dice con implicito riferimento alle dichiarazioni fatte in mattinata da Sergio Marchionne. Interpellato al suo arrivo a Venzia per il Consiglio Italia-Usa, l’ad di Torino risponde «non vedo cos’altro potrei fare se non chiudere», di fronte a un mancato raggiungimento dell’intesa: «Non è che lì a Pomigliano possano nascere campi di calcio», e un eventuale ripiegamento in Serbia «è possibile, c’è anche la Polonia dove hanno fatto questa macchina». D’altronde, aggiunge Marchionne, non è possibile pensare di attendere l’intesa all’infinito: «Io la produzione devo farla partire».

nanni appunto si raccomanda a Guglielmo Epifani perché non faccia saltare il tavolo: «Un sindacato che ha a cuore gli interessi del Paese e dei lavoratori deve saper fare l’accordo. La Cisl è pronta», spiega il leader confederale, «e speriamo che anche gli altri lo siano. La Cgil che chiede a tutti di fare qualcosa per il Paese faccia qualcosa insieme a noi per il Paese». E tanto per dare il senso del punto cruciale a cui si è arrivati, Bonanni aggiunge: «Non voglio neanche immaginare cosa significhi il non investimento della Fiat, l’assetto industriale del Centrosud risulterebbe sconvolto: in un momento così delicato della nostra economia in cui saltano i posti di lavoro e le aziende delocalizzano, e in cui il più grande gruppo italiano vuole investire così tante risorse anche in controtendenza, delocalizzando dalla Polonia all’Italia, un sindacato che abbia a cuore gli interessi del Paese e dei lavoratori deve saper fare l’accordo».

Poco dopo arrivano le prime notizie sull’andamento del negoziato: Fiat è ferma nella difesa della proposta. «Chiede solo se c’è un sì o un no», conferma il segretario campano della FimCisl Luigi Terracciano, «le dichiarazioni di Marchionne preoccupano e noi vogliamo andare ad oltranza per trovare una soluzione che sia un punto di equilbrio tra le esigenze dell’azienda e quelle dei lavoratori». Posizione simile da parte della Uilm. Come dice Sacconi, «dobbiamo davvero in queste ore fare la novena perché si realizzi l’accordo su Pomigliano con tutti». Ospite di Bonanni e della festa cislina a Levico, il ministro del Welfare però ribalta la battuta catalanesca e dice: «Se non è possibile con tutti meglio un buon accordo con chi ci sta che nessun accordo».Tra i pochi leader politici disposti a prendere posizione c’è Pier Ferdinando Casini, non distante dai toni di Bonanni: «Credo che i problemi posti sul tavolo dalla Fiat debbano avere un accoglimento che fino ad ora una parte del movimento sindacale ha respinto al mittente, sbagliando».

Sacconi: «Meglio un’intesa con chi ci sta che nessuna intesa». Appello di Bonanni a Epifani per il sì. Casini: «Basta chiusure»

Proprio in considerazione dell’atteggiamento netto e piuttosto definitivo da parte di Fiat, Bo-

no Englaro su Eluana scritto quando la drammatica vicenda si era da poco conclusa: le copie che si accumulavano, il consigliere Bani che, radicaleggiando, propose la mozione per dare le chiavi della città all’autore, e da allora è stato tutto un percorso in discesa. Fino a ieri l’altro. Quando, a sorpresa, i voti hanno dato ragione a Enrico Rossi, neogovernatore della Toscana, bersaniano, che, all’epoca dei fatti in veste di assessore alla Sanità, disse di non volere che Eluana fosse portata nella sua regione per essere uccisa. Una presa di posizione controcorrente allorquando a livello nazionale il Pd tifava per la tesi del padre: staccare la spina. L’approvazione della mozione, in sé, non avrebbe comportato grosso scandalo, se non tra le file locali dei democratici che sembrano sempre più smarriti nella ricerca di una linea etica. La cittadinanza a Englaro avrebbe significato la sconfitta di Rossi, e sarebbe dunque equivalsa a una delegittimazione del presidente della Toscana. L’aspetto buffo non è tanto che la mozione sia stata bocciata, piuttosto è grottesco che proprio a Pisa sia stata avallata pure con la benedizione laica del sindaco.Torna in mente Nanni Moretti: «Ma con questi leader qui dove andiamo»? (m.o.)


pagina 8 • 12 giugno 2010

politica

Sfide. Federica Guidi a Santa Margherita chiede più crescita. Mentre Montezemolo, a sopresa: «Occorre salire sul ring»

«Non basta tagliare» I giovani imprenditori contro il governo. E Casini: «Senza riforme, sarà manovra bis» di Francesco Pacifico

ROMA. «Senza il rigore siamo un Paese spacciato, ma senza crescita siamo un paese morto». Il concetto è lo stesso che Emma Marcegaglia ha fatto intendere all’assemblea generale di due settimane fa, ma ieri Federica Guidi l’ha ripetuto con più veemenza, centrando su quest’analisi semplice semplice l’attacco più duro che finora è stato lanciato da Confindustria verso la manovra da 24,9 miliardi di euro di Giulio Tremonti.

Proprio l’assenza di prospettive e la necessità delle riforme è stato il leit motiv dell’annuale convegno dei giovani imprenditori di Santa Margherita Ligure. «Se finora non si è riusciti a mettere in porto le riforme è colpa della classe politica, ma anche dell’opinione pubblica, del sindacato e dello stesso sistema imprenditoriale». Da qui il passo è breve per chiedere di «costruire una democrazia della responsabilità. Responsabilità da parte di tutti. Perché questo significa non soltanto lotta all’evasione e all’illegalità ma scrivere insieme un nuovo patto sociale». Parole sposate subito da Luca Cordero Montezemolo, tanto da spingerlo a sfiorare un tema per lui spinoso come un ruolo attivo in politica: «Pensare che i problemi dell’Italia siano tutti da addebitare solo ai partiti è sbagliato, ma non si puo’ stare solo in tribuna a dire che le cose non vanno senza poi andare in campo». Di conseguenza il rigore tanto vantato da Tremonti ieri a Santa Margherita Ligure è apparso anche come un alibi per sfuggire alle riforme. Bene i tagli, ma non basta se non si guarda alle pensioni – che «sono fuori dall’agenda politica» – o a tagliare le norme che frenano lo sviluppo delle imprese. A sintetizzare il clima che si respirava ieri sulla riviera ci ha pensato il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini: «La manovra correttiva era inevitabile, ma senza le grandi riforme, a ottobre-novembre, dovremo fare una nuova manovra». In questa ottica i giovani imprenditori chiedono alla politica che «le riforme istituzionali possano essere riforme economiche, anzi, devono esserlo». Così, nel dibattito sull’articolo 41 della Carta costituzionale, la Guidi affronta uno dei principali nodi italiani, il debito pubblico, e propone a Silvio Berlusconi di «inserire nella Costituzio-

Il 15 per cento del Pil viene destinato alla previdenza

Pensioni da fame per 3,5 milioni ROMA. Poco più di tre milioni e mezzo di italiani ricevono un assegno da fame: sotto i 500 euro mensili. Mentre l’innalzamento dell’età media della popolazione fa lievitare la spesa per le pensioni nel suo complesso a 241,109 miliardi di euro (+3,5 per cento rispetto all’anno precedente). In totale il 15,38 per cento del Pil, con quello che la cosa comporta sulla distribuzione del welfare tra le diverse generazioni.

Ieri l’Istat ha reso noto il suo monitoraggio sui trattamenti pensionistici, aggiornato al 2008. Anno durante il quale sono state erogate 23,8 milioni di prestazioni, con un importo medio annuo di 10.129 euro. Numeri che, al netto dell’incidenza della spesa complessiva sul Pil passata in un anno dal 15,07 al 15,38 per cento, dimostrano la solidità del nostro sistema pensionistico. Tanto che si fa fatica a dare torto al presidente del Codacons, Carlo Rienzi, quando dice che «i pensionati italiani sono i più poveri d’Europa». Il battagliero avvocato ha poi aggiunto che «sul fronte pensionistico siamo il fanalino di coda dell’Europa anche perché sulle pensioni italiane grava una pressione fiscale ben più alta rispetto a quella di altri Paesi. In Francia, Spagna e Germania non esiste tassazione sulle pensioni, mentre in Gran Bretagna la pressione fiscale è minima e di circa l’1,6 per cento». Spulciando il monitoraggio dell’Istat si scopre che le più onerose pensioni di vecchiaia sono soltanto il 50,5 per cento dei trattamenti totali, ma rappresentato il 70 per cento della spesa con un importo pari a 168,897 miliardi di euro. Per quanto riguarda gli assegni ordinari di invalidità – quelli finiti nel mirino del ministero dell’Economia – si scopre che assorbono il 5,1 per cento del monte complessivo. Corre sempre più a favore di chi non è in attività il differenziale tra chi in Italia è in attività e chi è a riposo. Secondo l’Istat nel 2008 c’erano 70 pensionati ogni 100 occupati. Il rapporto è più marcato al Sud – 79 contro 100 occupati – che al Nord – 65 a 100 –. Nei giorni dell’equiparazione dell’età di ritiro tra uomini e donne è poi interessante scoprire che tra i beneficiari degli assegni il 26,6 per cento ha un’età compresa tra 40 e 64 anni e il 3,7 ha meno di 40 anni. «Una quota abbastanza consistente» per i ricercatori dell’Istat. Per il resto, e complice la riforma Dini, il 69,9 per cento dei titolari dei trattamenti ha più di 64 anni. Guardando invece all’entità degli assegni previdenziali, 3,6 milioni di ex lavoratori (il 21,4 per cento) percepiscono una cifra inferiore a 500 euro, 4,7 milioni (il 27,7) invece ricevono mensilmente assegni tra i 500 e i mille euro. Intanto la Ue ha dato il suo assenso alla decisione italiana di alzare l’età di vecchiaia per le donne nel pubblico impiego. Una misura i cui risparmi, ha fatto sapere il ministro Renato Brunetta, «saranno destinati interamente alle famiglie».

ne il pareggio di bilancio», così come è stato fatto in Germania e come è intenzionata a fare la Francia. «E facciamo in modo che sia dovere degli amministratori pubblici perseguire questo principio».

Nell’agenda della Guidi non poteva mancare un nuovo patto generazionale e il necessario riequilibrio nel welfare tra padri e figli. «Tra i giovani», segnala, «prevale la paura. La paura del futuro. La paura di non riuscire a vivere una vita all’altezza di quelle che erano le speranze solo pochi anni fa. E lo voglio dire nel modo più sincero che posso: paura della povertà, paura di dover gestire per la prima volta nella storia non il progresso ma una situazione di regresso. Di invecchiare in condizioni economiche peggiori di quelle godute dai nostri genitori». Tra i juniores di Confindustria è forte la sensazione che «il sistema,

così com’è, funziona. E tutto continuerà a rimanere così com’è» se non avverrà una rivoluzione nella classe dirigente, che in primo luogo deve essere culturale. Anche perché «nessuno parla per le giovani generazioni». Al riguardo l’ex presidente di Confindustria Montezemolo, in un intervento che ha a dir poco scaldato la platea di San Margherita Ligure, ha sottolineato che «oggi la più grande azienda del Paese in termini di occupati è la politica che ha un costo pari a 200 contro, per esempio, l’80 della Francia». Amara analisi che lo porta a una conclusione non meno prosaica: «C’è un distacco dalla politica. È praticamente un Paese fai da te. Se, infatti, non si riesce a tagliare quattro province o consigli di amministrazione pletorici, uniche discariche che funzionano per occupare politici trombati, non si va da nessuna parte».


politica

12 giugno 2010 • pagina 9

La storia di un territorio non dipende (solo) dal numero degli abitanti

Ma davvero esiste l’identità provinciale?

Il balletto istituzionale sull’abolizione degli enti prescinde dalla trasformazione della nostra società di Francesco D’Onofrio ontinua un poco dignitoso “balletto istituzionale” sulle Province: rimangono come sono; no: scompaiono le Province laddove vengono istituite le Città metropolitane; contrordine: sono soppresse le Province chiamate ad operare in territori con meno di 200mila abitanti; contrordine del contrordine: anche le mini-Province sono fatte salve. Si tratta di un “balletto istituzionale” del tutto privo di dignità. In tutto questo dibattito sulle Province è mancata una adeguata comprensione dell’istituzione Provincia dalla sua nascita fino ad oggi. E, ancora di più, manca una qualunque adeguata riflessione sul rapporto, che si finirà con l’istituire in un contesto fino ad ora confusamente definito federalistico, e manca, del pari, una adeguata riflessione sul rapporto che si dovrà istituire tra i micro-Comuni e le Province medesime. I sostenitori del mantenimento delle Province per come esse sono si fondano soprattutto su una questione più psicologica che istituzionale: esiste una identità provinciale, che non può essere in alcun modo negata. Si tratta – in questo caso – dell’uso strumentale di una questione psicologica vera: l’identità provinciale fa certamente parte di quel complesso concetto di identità territoriale, che riguarda sicuramente anche il più piccolo comune – soprattutto se si tratta del comune “natio” – e ormai, molto probabilmente, anche la dimensione regionale, senza che questa sia necessariamente destinata ad essere declinata nel nuovo nome di Padania.

C

In alto, da sinistra, la leader dei giovani imprenditori, Federica Guidi, e l’ex presidente di Confindustria, Luca Cordero Montezemolo. In basso, a sinistra, Pier Ferdinando Casini. A destra, Giulio Tremonti

Se gli imprenditori sono critici con il governo, non meno lo sono i sindacati. Oggi la Cgil farà sfilare a Roma i dipendenti della scuola e gli statali, categorie toccate non poche dalla manovra. Ma un certo fastidio non lo nasconde neppure il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, lo stesso dirigente che in questi anni non ha mai lesinato di prendersi le sue responsabilità di

«Ormai la politica sta perdendo ogni credibilità agli occhi degli italiani», dice il presidente della Ferrari fronte alle scelte più dolorose di politica economica. Da Levico, dove ha aperto l’annuale festa del sindacato di via Po, ha mandato un duro monito a Palazzo Chigi. E lo ha fatto nello stesso giorno nel quale l’Istat ha fatto sapere che il 72 per cento degli assegni previdenziali è sotto i mille euro: «Bisogna tagliare le tasse per i pensionati. Serve un taglio fiscale per esaltare quel poco che si ha. Lo diciamo da 20-30 anni che vanno rafforzato le pensioni e per questo vogliamo difenderle fino in fondo».

Martedì riprenderanno al Senato le audizioni sulla Finanziaria, ma nello stesso giorno si riunirà la minoranza finiana per provare a rafforzare la risicatissima parte che nel testo è dedicata allo sviluppo e iniziare a scrivere una lunga serie di emendamenti. E che quello dello sviluppo sia un argomento sentito lo dimostra anche l’analisi di Sergio Marchionne: «La manovra non aiuterà i consumi nel breve-medio termine. Sono misure essenziali per stabilizzare i mercati finanziari». E se lo dice uno che guida un’azienda che in questi anni ha retto sul mercato interno grazie agli incentivi pubblici, c’è da credergli.

Si aspettano non poche modifiche i presidenti di Regioni, delle Province e sindaci, che lamentano di doversi accollare buona parte dei tagli. «Così come è la manovra spazza via il federalismo fiscale. Sono tolti i finanziamenti proprio su quelle materie su cui doveva essere calcolata la perequazione», ha accusato Roberto Formigoni. Parafrasando la celebre battuta di Rino Formica sul partito socialista, Renato Brunetta ha risposto ai governatori che «negli ultimi anni il convento è stato povero e i frati sono stati ricchi. Occorre una riflessione e un’autocritica da parte di tutti: Comuni, Province o Regioni che siano».

lentemente su base provinciale per quel che concerne i più rilevanti apparati ministeriali centrali. Man mano che dalla Costituzione repubblicana in poi si è andati procedendo nel senso del potenziamento delle funzioni proprie delle Regioni, gli apparati periferici dello Stato si sono progressivamente ristretti fino a scomparire del tutto. Questo processo sta vivendo una accelerazione particolarmente significativa a partire dalle radicali modifiche apportate al cosiddetto Titolo V della Costituzione tra il 2000 e il 2001: potenziamento delle Regioni da un lato, e nuovo sistema elettorale per i Comuni dall’altro hanno finito con il collocare le Province in una sorta di terra di nessuno, ben al di là delle questioni di “identità provinciale”.

Lo Stato di tipo centralistico che è vissuto in Italia dall’Unità nazionale fino alla Costituzione repubblicana si è articolato soprattutto perifericamente

Questa questione dell’identità è dunque una questione psicologicamente vera, ma istituzionalmente destinata a comporsi in un quadro istituzionale caratterizzato da molti secoli dalla identità comunale e, da qualche decennio, dalla nuova identità regionale. In mancanza di una adeguata riflessione istituzionale del rapporto delle amministrazioni provinciali con i comuni da un lato, e con le regioni dall’altro, saremmo pertanto, purtroppo, costretti ad assistere alla continuazione di questo indecente “balletto istituzionale”. Occorre infatti distinguere rigorosamente tra l’amministrazione provinciale eletta democraticamente, e l’articolazione periferica dello Stato. Lo Stato di tipo centralistico che è vissuto in Italia dall’Unità nazionale fino alla Costituzione repubblicana si è infatti articolato perifericamente, preva-

Vi sono ormai tutte le condizioni per collocare la questione istituzionale delle Province in un contesto di profonda trasformazione istituzionale complessiva dell’intero sistema delle autonomie locali, passando da questo poco dignitoso “balletto istituzionale” ad una ben più corposa “ballata istituzionale”. Non ha molto senso infatti continuare a discutere della popolazione di ciascuna Provincia, facendo derivare la sopravvivenza o meno della Provincia medesima dalla entità della popolazione amministrata; non ha molto senso limitare la soppressione delle Province nelle Città metropolitane che sono ancora da costruire; non ha senso discutere delle Province a prescindere dall’articolazione periferica dello Stato; non si può ignorare che l’attuale articolazione provinciale elettiva coesiste con analoghe articolazioni provinciali delle più importanti organizzazioni sociali. Non si tratta, dunque, di una questione esclusivamente economica, come pur si è cercato di voler far credere nella Manovra all’esame del Parlamento. Si tratta, anche in questo caso, del porre seriamente a confronto culture istituzionali complessive da un lato e dall’altro tradizionali tentazioni conservatrici di questo o quel partito, più interessato a salvaguardare il proprio potere su base provinciale che non al benessere complessivo della Repubblica, soprattutto se questa è destinata a diventare una Repubblica “federale”. È pertanto da auspicare che nel corso dell’esame parlamentare della Manovra si possa – almeno da questo punto di vista – passare dal balletto alla ballata.


politica

pagina 10 • 12 giugno 2010

Polemiche. Riforme mancate, crisi, corruzione: ecco il frutto di una nazione che ha smarrito il senso della politica

L’Italia governata da Bosch

Così la guerra frontale Bersani-Berlusconi sta bloccando il Paese di Gennaro Malgieri risi economico-sociale; decomposizione delle istituzioni; decadenza dei costumi pubblici (quelli privati non stanno meglio). Per rappresentare l’Italia contemporanea ci si dovrebbe rifare ad una delle celeberrime allegorie oniriche ed orrorifiche, al tempo stesso, del pittore fiammingo Hieronymus Bosch. Nelle forme bizzarre e mostruose che affollano le sue tele forse potremmo trovare la fotografia di un Paese smarrito che sembra abbia rinunciato a cercare una dimensione civile. Si fa presto a bollare come “catastrofista” chi racconta la realtà italiana per come essa appare. L’umor nero che corrode le nostre esistenze non è riferito a questo o a quell’evento, ma è determinato dalla consapevolezza di vivere in un contesto nel quale si muovono disordinatamente soggetti ai quali nulla importa se non di sopravvivere al caos che essi stessi hanno contribuito a seminare. La lettura delle cronache, economiche e giudiziarie, più che politiche è assai istruttiva. Esse ci immettono alla comprensione di un mondo che mai avremmo immaginato di condividere, sia pure innocentemente, considerandolo alla stregua di un ultimo lido popolato di rovine, un po’come il paesaggio descritto da Cormac McCarty nel suo romanzo nichilista La strada. Chi ritiene che esageriamo non vada oltre nella lettura di queste righe perché non troverà in esse nulla di consolatorio. Sarebbe del resto disonesto edulcorare una diagnosi infausta producendo l’illusione della guarigione.

C

Viviamo una fase storica segnata dalla scomparsa della politica, dalla distorsione della morale, dal capovolgimento delle più elementari regole civili. Perciò si balla sul Titanic, sperando di evitare comunque il naufragio. E non importa chiedersi fino a quando. Consideriamo le difficoltà economiche, il disagio istituzionale, la dilagante corruzione: chi può dire che non facciano parte dello stesso processo di degenerazione che la politica avrebbe potuto e dovuto evitare o, quantomeno, contrapporsi ad esso con vigore, fantasia, inventiva, responsabilità? Invece niente. Le criticità sono

Un particolare del celebre «Giardino delle delizie» di Hieronymus Bosch. A destra, Berlusconi e Bersani: la loro conflittualità blocca il Paese state cavalcate da tutti, indipendentemente dalla collocazione, per innescare guerre di potere le cui vittime sono i cittadini meritevoli comunque di ben altro che non i volgari assalti al senso comune condotti con grande dispiego di mezzi. In altre parole, di fronte alla decadenza, scaturita da fattori esterni e da irrisolte questioni interne, ci si sarebbe potuti attendere, senza vaneggiare, un rigore civile tale da consentire agli italiani di riconoscersi in

mi ad un impossibile rigore da scaricare non si è capito bene su chi. Le riforme istituzionali, come un mantra noioso, evocate di tanto in tanto, sono sparite dall’orizzonte e se a qualcuno viene in mente di ipotizzare soltanto un processo costituente lo si manda all’inferno non perché dica cosa che altri non pensano, ma per puro spirito polemico. L’emersione di un’Italia pubblica scandalosa nelle mani di faccendieri e

con il popolo la cui “sovranità” sostanzialmente è stata abrogata. Quando il popolo stesso, infatti, si dimostra rassegnato per disperazione vuol dire che la gravità del sistema ha toccato il livello di guardia. E allora? Immaginare che tra le opposizioni e la maggioranza si riesca a trovare una sia pur pallida intesa tanto per arginare la deriva distruttiva che sta travolgendo l’Italia è pura utopia. Nelle presenti circostanze l’odio vince su tutto.

Alla fine del processo di riscrittura delle regole istituzionali, non avremo né uno Stato centrale in senso classico, né uno federale, per quanto approssimativo. E tutto sarà successo nel silenzio generale una classe politica, per quanto oggettivamente conflittuale, capace comunque di accantonare gli egoismi di parte e di riconoscersi come tessere di una stessa nazione da trarre fuori dal gorgo nel quale rischia di finire. Il “bene comune”, ancora una volta, è stato lasciato marcire nel fondo delle coscienze di politici compresi nella loro impotenza che paradossalmente hanno dispiegato affrontando la crisi economica proponendo timidi rimedi o vigorosi e demagogici richia-

politicanti è la cornice nella quale si muovono scompostamente i poteri costituzionali sul punto di collassare.

In altri tempi il ricorso alle urne sarebbe stata la conseguenza naturale di un simile disfacimento, non foss’altro per scoprire che a nulla avrebbero portato. Nelle presenti circostanze sono semplicemente inconcepibili, a testimonianza di come la politica non abbia più la possibilità di ricorrere neppure all’estremo strumento per riconnettersi

E ciò è tanto più triste se si considera che il riformismo rinnegato ed il “bene comune” fatto a pezzi saranno gli elementi dei quali si nutrirà l’imminente ed inevitabile conflitto sociale i cui esiti nessuno è in grado di prevedere anche se non ci vuole molto a capire che saranno devastanti. Entro il prossimo anno i disoccupati saranno circa il doppio di quelli che erano alla fine dell’anno passato: oltre ai giovani in attesa di primo impiego, i più colpiti saranno i lavoratori compresi nella fascia d’età di

quaranta/cinquantacinque anni. Espulsi dal processo produttivo difficilmente vi rientreranno, mentre il potere d’acquisto dell’euro inevitabilmente si affievolirà e non soltanto a causa della speculazione, ma per fattori strutturali che si sono già manifestati e di fronte ai quali l’Europa dei banchieri e dei ministri dell’Economia non è stata in grado di opporsi. Neppure le istituzioni si salveranno dal tracollo. L’Italia non avrà né uno Stato centrale in senso classico, né uno federale per quanto approssimativo. Chi può decidere la trasformazione in presenza di costi crescenti che impediranno qualsiasi possibile (semmai si realizzassero le condizioni) riforma istituzionale? Non è il parto di una fantasia malata intravvedere una secessione “morbida” tanto al Nord quanto al Sud ed in un contesto ampiamente degradato. Per immaginarne gli sviluppi e gli esiti sulla vita delle popolazioni ci vorrebbe Isaac Asimov. Le briciole che cadono dal tavolo dello Stato sociale vengono poco a poco inghiottite da fameliche bande di affaristi incistatesi nella pubblica amministrazione, sicché gli sprechi si dilatano ed i tagli risultano superflui, oltre che dannosi. La corruzione si sta mangiando ciò che resta dell’Italia.

E allora, mi domandavo? Allora ci vorrebbe la politica. Trovarla è come sperare di imbattersi nel Graal in qualche remoto anfratto. Il nostro XXI secolo sarà come l’XI con una differenza: mille anni fa gli uomini d’Europa, privati del potere-guida dell’Impero, riconobbero nelle nuove forze spirituali i soggetti della rinascita. Il nostro medio evo è davvero buio. Non so se Heidegger esagerava dicendo che “neppure un dio ci può salvare”. Forse aveva visto prima e più lontano dei suoi contemporanei, come accade ai filosofi e ai poeti; raramente ai politici.


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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

Nelle sale “Bright Star”: da non perdere

IL TALENTO DI MRS. CAMPION di Anselma Dell’Olio

on Bright Star si presenta un’occasione rara per separare le pecore biato per una banalità di genere. Persino rigorosi critici che non apprezzano il Non dalle capre in materia di recensioni cinematografiche. Di solito lo cinema della Campion, come Stephanie Zacharek, sono stati conquistati considero un bene quando i critici hanno opinioni divergenda Stella luminosa o Fulgida stella, traduzioni italiane della poesia è un’opera ti. Fa eccezione il nuovo film di Jane Campion sull’amoche dà il titolo al film. leziosa e decorativa re totalizzante, sensuale e pudico tra la spigliata e schietta È la storia dell’incontro, dei primi passi falsi e poi del rapiil film della regista neozelandese mento ardente di Fanny (Abby Cornish, semplicemenFanny Brawne, dotata sarta e fashionista ante-littete stupefacente) e John (Ben Whishaw, ottimo), ram e il poeta John Keats, pilastro del Romantidedicato all’amore tra John Keats e Fanny autore di Endymion, Ode on a Grecian Urn, cismo inglese. Chi confonde una sfolgorante Brawne. Ma un’attenta lettura della sensualità opera sottile, penetrante, finissima e appassioOde to Psyche, Ode to a Nightengale, prima di femminile e dell’eros maschile resa nata con il solito pittoresco filmetto in costume otmorire a venticinque anni di tubercolosi il 23 febtocentesco, ricolmo di fiorellini e farfalle, sospiri e braio 1821, in Italia, dove gli amici (tra cui Percy Bysshe con attori mirabili e uno sguardo sguardi, lezioso, decorativo e visto mille volte, come hanno Shelley) lo portarono per allontanarlo dal rigido inverno inpittorico mai fatto (pochi) critici, è rimandato a ottobre. Era in concorso a Canglese. Ha resistito un anno solo, e riposa nel Cimitero acattolico di nes nel 2009, e già questo dovrebbe mettere sull’avviso gli addetti ai laRoma, a Testaccio. Ma è un errore pensare che il grande poeta romancalligrafico vori: anche se non piace, cosa legittima ovviamente, non può essere scamtico sia il protagonista principale del film.

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Parola chiave Famiglia di Sergio Belardinelli Altri amori, in un’altra vita di Maria Pia Ammirati

NELLE PAGINE DI POESIA

I versi dei grandi nell’era dell’audiovideo di Francesco Napoli

L’estetica della “terza stanza” di Franco Palmieri Due Roth per un sol Uomo di Pier Mario Fasanotti

Stregati dai miracoli di Cima da Conegliano di Marco Vallora


Il talento di Mrs.

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inizia a guardarla con occhi diversi. Quando l’amico Brown e la vedova Brawne (Kerry Fox) si accorgono che i due hanno cuori che battono all’unisono, è troppo tardi. Fox era l’indimenticabile Janet Frame in Un angelo alla mia tavola della Campion, premiato alla Mostra del cinema di Venezia con il Leone d’argento (meritava l’oro). Autobiografia della maggiore scrittrice neozelandese vivente, che ha subito nove anni di elettroshock in manicomio per una diagnosi errata di schizofrenia, Frame è salvata dalla lobotomia grazie a un tempestivo premio letterario. Uscita prima come fiction televisiva in tre parti, Angelo, tagliata e rimontata come film per le sale, raccoglie tutti i premi più importanti agli Oscar della Nuova Zelanda (film, regia, attori, script) e altri a Chicago, a Toronto e agli Independent Spirit Awards, oltre che a Venezia. Era degno del Leone d’oro più di Rosencrantz and Guildenstern are Dead del pur brillante Tom Stoppard. Aveva un impatto emotivo e visivo vastamente superiore.

I maschi ci sono e contano molto; Keats, ovviamente, ma ha un ruolo-chiave anche il suo amico e sostenitore Charles Brown (un incisivo Paul Schneider) che lo ospita a pagamento nella sua metà della casa che condivide con la vedova Brawne e i suoi tre figli: la diciottenne Fanny, l’adolescente alto e sottile Samuel (l’incantevole Thomas Brodie-Sangster) e la piccola Toots, nove anni, una nuvola di capelli rossi, eterea e vivace, strizzabile come pochi (Edie Martin). Il fulcro dello sguardo della Campion è Fanny: mira a restituirle importanza e onore come pari grado di Keats in sensibilità e spessore di spirito, per rovesciare la figura insignificante, frivola e ignorante tramandata da amici ed esegeti protettivi (e gelosi) del poeta. Operazione riuscita, grazie a un’attenta lettura della corrispondenza tra i due e della biografia di Andrew Motion. Non erano molte le donne istruite allora, e Fanny non fa eccezione. Ma era rapita dalla grazia quanto l’autore di Bellezza è verità, verità è bellezza e Una cosa bella è una gioia per sempre. Invece che con la scrittura, Fanny si esprime cucendo abiti di raffinata eleganza. Uno dei piaceri del film è il guardaroba di Fanny, che qualunque femmina con un soffio di gusto vorrebbe possedere, ogni singolo, squisito capo. Lei confessa di non capire «come funziona» la poesia: ma i suoi vestiti di alta sartoria sono poemi. All’inizio i due giovani flirtano come duellanti, mentre Brown la bistratta senza pietà. Lei legge le poesie di Keats ma non riesce «a decifrarle». Lui le risponde che la poesia non è da decifrare ma da sentire, e paragona l’esperienza di leggerla a un tuffo nel lago. Il punto non è di raggiungere subito l’altra riva, ma di lussureggiare nell’acqua. Allora Fanny chiede di prendere lezioni da lui. Brown (scrittore anche lui, ma riconosce la superiorità siderale dell’amico e gli fa da sprone, da mister letterario) non vuole che Keats sia distratto da questa creatura che lui giudica civetta indiscriminata e irredimibile.

Tutto il cast è mirabile, e il Brown di Schneider è molto ben realizzato. Il battibecco incessante tra lui è Fanny è tradotto dai critici in modo diverso, non necessariamente antitetico. Qualcuno dice che l’antipatia reciproca è tipica dell’attrazione occulta: chi disprezza compra. In Jane Austen è certamente così, basta ricordare i primi scontri tra la spigliata Elizabeth Bennet e il sostenuto Mr. Darcy in Orgoglio e Pregiudizio, preludio di un irresistibile innamoramento. Un’altra lettura decrive l’aggressività di Brown verso Fanny come desiderio di salvaguardare il primato dell’amicizia virile, o più semplicemente come il frutto di pulsioni omosessuali. Forse era le due cose insieme. Erano molto protettivi gli amici maschi di Keats: Shelley, Brown, il pittore Joseph Severn i principali. Adoravano lui e la sua arte ancora misconosciuta dai critici. La stima e l’affetto che provavano erano tanto profondi da offrirgli di tasca loro il lungo (e inutile) viaggio in Italia per cercare di salvarlo; un’offerta così sentita e generosa che il poeta, pur perdutamente innamorato di Fanny e soffrendo la separazione come un’amputazione, non ebbe il cuore di rifiutare. Ma torniamo alla trasformazione della prima impressione che l’allora ventitreenne poeta si era formato di Fanny: da maliziosa stuzzicamaschi, in degna destinataria di sentimenti assoluti. Tom, fratello minore di John, era gravemente malato di tubercolosi. Fanny lo viene a sapere e prepara un canestro pieno di allegri e graziosi regalini e leccornie, e glielo porta. Il poeta è colpito dalla sensibilità della ragazza, che lui pensava interessata solo a balli, feste e alte frivolezze. Commosso dal suo gesto spontaneo, Keats anno III - numero 23 - pagina II

Campion

BRIGHT STAR GENERE DRAMMATICO

REGIA JANE CAMPION

DURATA 120 MINUTI

INTERPRETI BEN WHISHAW, ABBIE CORNISH, PAUL SCHNEIDER, THOMAS SANGSTER, JONATHAN ARIS, SAMUEL BARNETT, ANTONIA CAMPBELL-HUGHES, SAMUEL ROUKIN, ROGER ASHTON-GRIFFITHS

PRODUZIONE AUSTRALIA, FRANCIA, GRAN BRETAGNA 2009 DISTRIBUZIONE 01 DISTRIBUTION

Campion, nata a Wellington nel 1954, si è laureata in antropologia in Nuova Zelanda, prima di trasferirsi in Australia per studiare pittura, poi cinema a Sydney, dove ancora risiede. La passione per le belle arti traspare dal suo sguardo pittorico e mai calligrafico, dalle composizioni sempre invisibilmente costruite e intrise di emozioni che l’autore vuole comunicare. Si è imposta all’attenzione prima con Sweetie (1989), storia di una ragazza, poi donna instabile che sale su un albero e da lì tirannizza la sua famiglia australiana middle class e fortemente disfunzionale, ritratta con impietoso sguardo dalla Campion. Invitata nel concorso principale al Festival di Cannes, l’opera impone la regista antipodiana all’attenzione della cinofilia internazionale. Segue il film sulla Frame, e poi nel 1993 esce il suo capolavoro, The Piano (in Italia Lezioni di piano), ambientato a metà dell’Ottocento, con Holly Hunter nel ruolo di una ragazza madre inglese ammutolita dopo la sua «vergogna»: parla solo attraverso la sua musica. La famiglia le combina un matrimonio nella lontana colonia di Nuova Zelanda con un latifondista (Sam Neill) disposto ad accettare lei e la «figlia del disonore», la straordinaria Anna Paquin. Resta scolpita nella memoria la scena in cui madre, figlia e pianoforte vengono scaricati dalla nave su una vasta spiaggia deserta, ammantata di nebbia e foschia e battuta da enormi onde oceaniche. La sola forza della natura selvaggia e imponente comunica l’isolamento e il confino comminati alla due inglesine, e l’immenso estraniamento dello sconosciuto, incontaminato habitat in cui sono state scaraventate. La storia originale è intrisa dello struggente impatto romantico, privo di sentimentalismo, delle sorelle Brontë, molto amate dalla Campion, ai nostri occhi un merito assoluto. The Piano ha vinto la Palma d’oro e la Hunter quella per migliore attrice a Cannes; candidato a tutti premi principali agli Oscar, il film si è aggiudicato quelli per attrice principale e non protagonista (Hunter e Paquin) e per miglior sceneggiatura originale. Una qualità eccezionale della Campion è il suo singolare talento nel mettere in scena un’autentica sensualità femminile e l’eros maschile che piace alle donne. (Le femmine, e i maschi che le amano, noleggino In the Cut, un noir che vale sopratutto per la performance di Mark Ruffalo e per una scena di stupefacente erotismo). L’intero Bright Star non è da meno, con una dichiarazione d’amore impareggiabile. Fanny, sapendo che Keats è troppo povero e malato per sposarla, gli si offre. Lui risponde «Ho una coscienza». Da vedere subito, prima che sparisca.


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parola chiave

l concetto di famiglia non è più un concetto chiaro; è diventato piuttosto una sorta di ircocervo e, a volte, persino un campo di battaglia culturale. Si parla di tramonto della «famiglia tradizionale», ma poi, quando si tratta di dire in che cosa consista la famiglia che ne avrebbe preso il posto, si finisce per identificarla con qualsiasi aggregazione di individui, a prescindere dal sesso o dal vincolo che li tiene uniti. Uno scossone semantico, questo, che, a mio modo di vedere, danneggia non soltanto la famiglia, ma l’intera società. Mi rendo conto ovviamente che la locuzione «famiglia tradizionale» possa suscitare oggi diffuse e giustificate perplessità, non fosse altro per quel suo immediato rinviare al passato, alla famiglia di ieri, a un tipo di famiglia che per molti versi non esiste più: la cosiddetta famiglia «estesa» con molti figli, i nonni che vivono sotto lo stesso tetto, una rigida ripartizione dei ruoli, una più o meno marcata subordinazione della donna, relazioni intergenerazionali abbastanza lineari e funzioni sociali pressoché scontate, svolte secondo una sorta di automatismo. Se però è vero ciò che diceva Levi-Strauss, e cioè che «l’unione più o meno durevole, socialmente approvata, di un uomo, una donna e i loro figli, è un fenomeno universale, presente in ogni e qualunque tipo di società», allora l’aggettivo «tradizionale» potrebbe rinviare anche a ciò che della famiglia costituisce una sorta di elemento costitutivo, una permanenza sottratta all’usura del tempo e indispensabile per poter continuare a parlare di famiglia.

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In altre parole, al di là delle molte trasformazioni che, specialmente in questi ultimi anni, si sono registrate sulla famiglia sia in termini di struttura che in termini di funzioni, al di là della tanto conclamata pluralizzazione delle forme familiari come tratto caratteristico e liberatorio della società odierna, credo che sia ancora possibile, anzi, addirittura necessario, stabilire un criterio capace di distinguere la famiglia, diciamo pure, la «famiglia tradizionale», da altre forme di aggregazione sociale che famiglia non sono. Tale criterio potrebbe essere formulato così: c’è veramente una famiglia soltanto laddove esiste almeno una coppia eterosessuale oppure una relazione genitori-figli, che siano socialmente riconosciute, sancite cioè da un patto pubblico di tipo religioso o civile. Parlare di famiglia implica che si tenga presente sia il passato, quindi ciò che inevitabilmente è cambiato o è entrato in crisi, sia il presente e il futuro, quali dimensioni autentiche del dispiegamento di ogni realtà autenticamente «tradizionale», quindi viva e vitale. Non si tratta quindi di considerare il passato dell’istituzione familiare in modo nostalgico, ma nemmeno di considerarlo in modo vandalico, quasi che la «famiglia tradizionale» sia riducibile esclusivamente a certe forme storiche nelle quali si è manifestata e dalle quali abbiamo ormai preso definitivamente congedo. In entrambi i casi c’è infatti il rischio di non cogliere a pieno un aspetto essenziale di ogni vera istituzione tradizionale: essere cioè quel filo rosso che unisce il passato al futuro tramite il presente, una «catena generazionale», direbbe Giovanni Paolo II, ovvero una realtà intrinsecamente «relazionale», la quale, proprio per questo, non si sclero-

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FAMIGLIA Nonostante i grandi cambiamenti che si sono verificati, è l’istituzione che più di altre incide nella crescita delle persone. La sfida del nostro tempo è riscoprirne la funzione. Per il bene della società

Il vero senso della tradizione di Sergio Belardinelli

Più diventiamo individualisti, pluralisti, eticamente neutri e più si fa pressante l’esigenza di un luogo dove le relazioni umane siano improntate alla gratuità, al dono, a un amore che coinvolga la totalità della persona. E questo luogo, senza voler affatto trascurare i problemi che lo caratterizzano, è la famiglia tizza in nessuna delle sue forme, ma non è nemmeno indifferente alle forme che volta a volta assume. Nonostante i grandi cambiamenti che si sono verificati nelle forme familiari, la famiglia continua a essere il luogo privilegiato di incontro tra i sessi e tra le generazioni, nonché l’istituzione sociale che più di altre incide nel processo di crescita delle persone (dei figli come dei geni-

tori) e che, pur con tutti i limiti che la caratterizzano, più di altre è capace di generare quei capitali individuali e sociali penso alla reciprocità, alla fiducia, alla gratuità - senza i quali è assai difficile immaginare una società degna del nome. Purtroppo, però, la nostra società sembra aver perduto ogni interesse per la famiglia; a volte si direbbe addirittura che voglia come indebolirne le funzioni, rele-

gandola nell’ambito tutto privato dell’affettività e delle soddisfazioni intime. Eppure mai come oggi la qualità delle relazioni familiari è stata tanto decisiva per il benessere e la felicità degli individui e della stessa società. Più la società si fa individualista, pluralista, eticamente neutra, lasciando che gli individui decidano da soli del proprio «bene» e della propria «felicità», e più si fa pressante l’esigenza di un «luogo» dove le relazioni umane siano improntate alla gratuità, al dono, a un amore che coinvolga la totalità della persona. E questo «luogo», senza voler affatto trascurare i problemi che lo caratterizzano, è la famiglia. Si tratta in fondo di prendere sul serio il problema della cosiddetta «socializzazione», all’interno del quale la famiglia ha sempre esercitato un ruolo chiave. La tendenza a ridurre la famiglia a un fatto eminentemente privato, a una sorta di cellula primaria della vita individuale, anziché sociale, ne indebolisce senz’altro la funzione socializzante; lo stesso processo di socializzazione, anziché configurarsi come un processo di «formazione» dei nuovi venuti, tende a diventare non a caso un semplice processo di «comunicazione», dove il più delle volte ci si limita a «informare» più che a «formare». Ma il gran parlare che si fa di autonomia, libertà, responsabilità, tolleranza, fiducia come di risorse indispensabili a una società pluralista, quale è la nostra, ripropone inevitabilmente la famiglia nel suo ruolo formativo e socializzante. È in famiglia che si incominciano ad acquisire queste risorse così importanti per la società; e si acquisiscono tanto meglio quanto più la famiglia è una famiglia nel vero senso della parola, ossia un luogo di reciprocità tra i sessi e tra le generazioni, il cui «bene» primario è rappresentato dalla capacità di costruire relazioni orientate soprattutto alla totalità della persona.

In questo senso mi pare che si possa continuare a parlare di «famiglia tradizionale» senza cedere né al riduzionismo di coloro che hanno semplicemente nostalgia per la «famiglia di ieri», né a quello di coloro che ne fanno una semplice forma archeologica, definitivamente sorpassata dagli eventi che hanno contrassegnato e contrassegnano la società di oggi. Si tratta in ultimo di comprendere il delicato intreccio di «luci e ombre» che caratterizza la famiglia odierna, di saper cogliere sia i rischi, sia le opportunità che nella nostra epoca si offrono all’istituzione familiare, nella convinzione che, nonostante i cambiamenti che la caratterizzano, esiste pur sempre un criterio che ci consente di distinguere ciò che è famiglia da ciò che invece famiglia non è. I modi in cui articolare concretamente questo «bene relazionale» sono certo cambiati; certe rigidità e certi automatismi del passato, per fortuna, non esistono più; ma la famiglia non è diventata per questo una semplice «istituzione-guscio», come vorrebbe Anthony Giddens, un’istituzione «che si chiama ancora allo stesso modo, ma al suo interno è qualcosa di fondamentalmente diverso». In quanto famiglia, ossia in quanto luogo di reciprocità tra i sessi e tra le generazioni nel senso in cui ho detto, essa è diventata piuttosto un traguardo da conquistare giorno per giorno per il bene degli individui e della società; il compito e la sfida più urgenti del nostro tempo.


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Pop

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musica

Gli U2? Erano meglio DI COME SONO di Bruno Giurato

di Stefano Bianchi el pop, forse, conviene fare gli essenziali anziché i prolissi. Lapalissiano. Senza esagerare, però: «two is meglio che one», recitava la pubblicità di un gelato. L’ideale compromesso, allora, ha puntato sulle band tascabili tipo Soft Cell (Marc Almond + David Ball), Suicide (Alan Vega + Martin Rev) e White Stripes (Jack White + Meg White). Zero orpelli, massimo rendimento, suoni pelle & ossa. Al club dei «meglio pochi ma buoni» si sono aggiunti i Black Keys di Dan Auerbach (voce, chitarra) e Patrick Carney (batteria, percussioni). Arrivano da Akron (Ohio), gommosa capitale dei pneumatici Goodyear e dei «de-evoluzionisti» Devo, si frequentano da quand’erano pischelli, hanno cominciato a suonare assieme al college, con Brothers raggiungono sei dischi, non disdegnano scappatoie soliste (Feel Good Together di Carney; Keep It Hid targato Auerbach) e l’anno scorso hanno lanciato il progetto Blakroc facendosi affiancare da una pattuglia di rappettari, RZA e Mos Def in prima linea. Ma la sola certezza, alla fine, è Black Keys. Due parole, protettive come la coperta di Linus, che in slang indicano chi ha qualche rotella fuori posto e tecnicamente i tasti neri del pianoforte che costituiscono una scala pentatonica minore (quando si parte dal Mi bemolle) associata al blues e al rock. Appunto. Auerbach & Carney, «fratelli» tutt’altro che coltelli, privilegiano dal 2002 (The Big Come Up: inciso in uno scantinato) il rock rudimentale e il selvatico blues che con puntualità imbastardiscono, corrompono, contaminano. E siccome lo zenit della bravura l’hanno raggiunto nel 2008 col blues distorto e minimalista di Attack & Release, ero convinto che da quella gemma grezza in poi si sarebbero seduti sugli allori. E invece, Brothers si spinge ancora più in là schizzando

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Jazz

zapping

genzia product placement. Con tutti i quaquaraquà che ci si trova d’intorno è diventa operazione indispensabile raccontare quel che di buono c’è sul «mercato musicale». Dunque, di buono ci sarebbe un gruppo. Qual è il gruppo nato nei profondi anni Ottanta che ne è venuto fuori bello bello e tosto tosto? Qual è il gruppo periferico per eccellenza, che non proviene dalla mondana NY e nemmeno dalla Londra sempre meno swinging? Qual è infine il gruppo - lo diciamo per gli amanti del rock spirituale che ha scritto meravigliose canzoni religiose come Gloria o God part II? Indovinato, sono gli U2. Il quartetto guidato dal chitarrista The Edge, non da quell’altro signore che fa il columnist del New York Times e il profeta, e nel tempo libero canta. Il quartetto che ha attraversato un bel po’ di rivoluzioni stilistiche, ma che al netto di questo e quello è rimasto un ensemble col basso, la chitarra, la batteria e la voce. E con questi quattro elementi ha creato un suono universale, gli echi della chitarra di The Edge non solo vengono imitati da tutti, ma sono stati oggetto di studio scientifico (si veda qui http://www.amnesta.net/edge_ delay/). E visto che in questi giorni in tutti i negozi del mondo, e probabilmente dell’oltremondo, troviamo il loro live, il dvd del concerto City of blinding light, quale sarà il consiglio che vi diamo dallo scriptorium rockettaro? Avete indovinato. Non compratelo. Lasciate perdere. Perché comprare il video di un gruppo ormai stanco se non avete avuto nemmeno l’onore di stare sotto al palco rotante a 360 gradi? Il concerto lo vedemmo in streaming un po’ di mesi fa, e c’era l’onesto lavoro di un gruppo che ancora se la cava ottimamente. Ma perché comprare questo dvd quando per meno soldi vi portate a casa il primo live del gruppo: Under a Blood Red Sky? Non c’è il video, ma c’è la musica, lì. E poi c’è la scomoda trascendenza del passato, cioè il fatto che tutti vorrebbero essere, ma a qualcuno tocca essere stato. Purtroppo, come diceva Shakespeare, ciò che è fatto non può non essere fatto.

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Dove osano

Auerbach & Carney dentro una black music lunatica con acidulo contorno di rock. I due hanno registrato questi quindici pezzi uno più bello dell’altro ai mitici Muscle Shoals Studios di Memphis che negli anni Sessanta e Settanta videro transitare Wilson Pickett e Aretha Franklin, Bobby Womack e Rolling Stones. Sicché, senza stravolgersi del tutto, si sono evoluti puntando sul groove. Eppoi, permettendo alle chitarre elettriche di viaggiare sottotraccia, hanno dato più polpa ai fraseggi del basso, alle tastiere, perfino al mellotron. Il risultato, geniale/umorale, mette in vetrina fra le cose migliori Everlasting Light con voce in falsetto stile Prince, saette funk e passo ritmico da «beatlesiana» Come Together; le cocciute, sporche, «hendrixiane» She’s Long Gone e Black Mud; le acidule, quasi tribali Sinister

Kid e The Go Getter; il rhythm & blues di Tighten Up, che quando meno te l’aspetti derapa nel rock. E quel blues verace, alla B.B. King, di Next Girl, che cede all’improvviso il passo all’heavy rock anni Settanta. Altrove, invece, Auerbach & Carney si divertono come matti col «vintage»: succede nella soul music vecchio stampo (amabilmente ruffiana) di The Only One e nel soul col cuore in mano di Too Afraid To Love You e I’m Not The One; nella rivisitazione di Never Gonna Give You Up del «soulman» Jerry Butler e in Ten Cent Pistol, dove c’è un sacco di Motown e tracce dell’Harlem Shuffle intonata dai Rolling Stones; nel blues, nel soul e in quel pizzico di John Lennon che scandiscono Unknown Brother e in Howlin’ For You (di nuovo blues, con tappeto percussivo alla T. Rex). These Days, la ballatona finale, ti fa incontrare come per magia Marvin Gaye. E giù applausi. The Black Keys, Brothers, V2/Cooperative Music, 17,50 euro

Bob Brookmeyer o l’arte dell’improvvisazione di Adriano Mazzoletti mprovvisamente qualche settimana fa Bob Brookmeyer, uno dei più importanti solisti di trombone, arrangiatore e compositore della seconda parte del secolo scorso è giunto a Roma per prendere parte a un concerto al Parco della Musica con l’orchestra stabile dell’Auditorium. Iniziativa assai lodevole e importante, ma purtroppo il mondo del jazz romano ha in parte disertato il concerto, perché il suo nome non dice più nulla o quasi ai giovani appassionati. Ricordo questo episodio per lanciare un piccolo grido d’allarme. Da qualche anno a questa parte, la stampa specializzata, gli organizzatori di festival, ma soprattutto la

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radio hanno dimenticato che il jazz ha una sua storia e che molti musicisti che questa storia hanno contribuito a creare, sono ancora in attività. I loro nomi però non appaiono più nei cartelloni, la loro musica non viene trasmessa e la loro storia non è più raccontata. Un altro esempio: pochi mesi fa il pianista Barry Harris, uno dei più brillanti pianisti post-bop che ha collaborato con Charlie Parker, Miles Davis, Cannonball Adderly,Yusef Lateef, era anch’egli a Roma per una masterclass in una scuola di musica. Ma siccome il suo nome è ormai sconosciuto ai più, la sua presenza è passata quasi inosservata. Per rinverdire la memoria o semplicemente per far conoscere lo straordinario musicista che è Bob Brookmeyer, è suffi-

ciente ricordare il sodalizio con Gerry Mulligan, fra il 1954 e il 1957, dove sostituì Chet Baker nel quartetto senza pianoforte inaugurato dal celebre sassofonista due anni prima, oppure le collaborazioni con Stan Getz, Jim Hall, Jimmy Giuffre o ancora le splendide partiture da lui scritte per la grande orchestra di Thad Jones e Mel Lewis e le tante altre che lui stesso diresse con l’American Jazz Orchestra. Ma tutto ciò sembra ormai dimenticato. Fortunatamente c’è chi ha deciso di ricordarlo pubblicando alcune sue splendide incisioni. È la nuova etichetta Poll Winners Records che ha deciso di stampare su cd i long-playing che, al momento della loro apparizione, si aggiudicarono ben cinque stelle sulla rivista

Down Beat. Fra gennaio e febbraio 1956, Bob Brookmeyer e il sassofonista Zoot Sims accompagnati dal trio del pianista Hank Jones, incisero su due long-playing della Storyville sedici brani, oggi raccolti in un solo disco. Quei due Lp ebbero un immediato successo e le cinque stelle più che meritate. I sedici brani, fra cui celebri standard come I Hear Rhapsody, Blue Skies, I Can’t Get Started o classici del jazz quali Blue My Naughty Sweetie Gives To Me o The King composto da Count Basie, colpiscono ancora per il modo di trattare con ironia e raffinatezza l’Arte dell’improvvisazione. Bob Brookmeyer, Poll Winners Records, Distribuzione Egea


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arti Mostre

l destino. Era abituato, come un acerbo soldatino friulano, Pier Paolo Pasolini, a varcare sovente la frontiera immaginaria tra la Venezia tizianesca e quella più austera, dura, furlana, di Pordenone e Giovanni da Udine. Su e giù, nel vecchio, usurato vagone della tradotta di terza classe, i sedili di legno, e lì sopra, un giorno, dimenticò, distratto da chissà quale fuggente fisionomia, la sua tesi. Che stava preparando con il venerato professore-incantatore Longhi, a Bologna. Umiliato, decise di strapparsi dall’arte, passò ad altra tesi, di filologia, con Calcaterra. Ma la passione, e l’impronta longhiana perdurò, nel suo dna vulnerato di poeta, e di regista. «Chi parte da Venezia - annotava dopo un viaggio di due ore, giunge al limite del Veneto, e, per dissolvenza, entra in Friuli. Il paesaggio non sembra mutare, ma se il viaggiatore è sottile, qualcosa annusa nell’aria. È cessata sulla Livenza la campagna dipinta da Palma il Vecchio e da Cima». Che bella quell’idea del trascorrere dei paesaggi, quasi già fosse un’interiore dissolvenza pre-cinematografica. E poi quell’idea dell’odore, del sentire con la mano materna degli occhi, la terra e la fertile campagna umida, che sale in effetti dalle tele del Cima, come un niditissimo, miracolato collirio luminoso, sceso lustrante su quell’articolarsi di naturalissime architetture d’inscatolati paesaggi cilestrini. Una sensazione che ritroviamo anche in uno dei suoi più sensibili interpreti, il Coletti, che par riecheggiare quello che, nella vernacolare e stravagane Carta del navegar pitoresco, sosteneva il quasi contemporaneo di Cima, il commentatore Boschini: «par che con la Natura e’l se afradela». E Coletti: «Una comunione con l’ambiente naturale, così stretta e viva da destare in noi quasi metaforiche illusioni dei sensi:

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dignitas classica del suo far semplice e insieme articolatissimo, che ci conquista per sempre e forse ce lo rende oggi più importante ancora, di quanto una critica elogiativa ma sostanzialmente diminuente (nell’indulgenza della sua esagerata «bravura») lo ha troppo a lungo imbalsamato, lui che ha balsami più liberanti. E che era portentoso proprio nel costruirci la sua di bellezza, non «ingenua» come molti hanno etichettato, ma confindente, immediatamente d’innanzi ai nostri occhi: come un prestigiatore della veduta, o un maestro di tempura (secondo Barthes). Lasciando «che la “veduta”filtri discreta e incantevole, negli spazi liberi delle grandi pale» (De Logu) mentre le figure (ancora Coletti) «sembrano cresciute nel paesaggio stesso, così come il paesaggio, pur nella sua varietà, sembra nato spontaneamente e non composto, umilmente vero e concreto». Davanti al nostro sguardo stregato (perché è vero che di filtri luminosi si tratta, di velature alla ponentina, ma se vogliamo anche di strane, incantatorie pozioni cromatiche). Come parrebbe certificare il Longhi, parlando del serafico San Sebastiano di Strasburgo, trafitto soltanto da una dolce piuma di freccia, atteggiata come un passo di danza, quasi un battente archetto barocco, eppure non meno vulnerante. Certo, è difficile non rileggere Cima con l’ausilio del Viatico longhiano, nelle terre della pittura veneta. Ma oltre alla riconoscenza, per una mostra così calibrata e armonica di soli capolavori, non si può trascurare la ricchezza del catalogo Marsilio, che ci fa riassaporare scritture e sensibilità alte, come quelle di Berenson, Pallucchini, Fiocco, sino al settecentesco Lanzi, che insieme a noi conviene che «nelle arie delle teste, nel comparto de’ colori, ha quel non so che per cui non si farebbe mai fine di riguardarla».

Stregati dai miracoli

di Cima da Conegliano

Archeologia

di Marco Vallora ché par di respirare aria fresca, profumo di fiori, alito di verzura, odor di terra: sapore di verità». Se si tenta d’essere dei rapiti «viaggiatori sottili» anche dentro la meritoria mostra che Giovanni C.F. Villa ha dedicato al poeticissimo Cima da Conegliano, quel miracolo di natura che si fonde con i volti e con le dolci riesumazioni dell’architettura antica (in modo assai diverso e certo meno antiquariale, che non nel Mantegna, quasi coetaneo) quella «vitrea

chiarezza», come suggerisce Villa, però anche affabile, affettuosa, come lo sguardo delle sue Madonne, su quei bambinetti liberi e ben sodi, già autonomi e sempre curiosi, a respirare l’intorno, gremito di dettagli quasi fiamminghi, ti vien incontro con una dolcezza e una naturalezza, che ha pochi confronti (nonostante a pochi passi da lui si dipanassero altri magisteri sublimi e tremendamente concorrenti). Ma è la naturalezza incomparabile, con cui egli bagna generosamente la

Cima da Conegliano. Poeta del paesaggio, Conegliano, Palazzo Sarcinelli, sino al 20 giugno

Oro, argento e ambra... ecco i tesori di Spina

l museo Archeologico nazionale di Ferrara vanta un nuovo tesoro. E non c’è parola più adatta per definire la collezione ospitata nella Sala degli Ori aperta questa settimana per la prima volta al pubblico. Si tratta di una raccolta straordinaria di gioielli realizzati in oro, argento, ambra e pasta vitrea di manifattura greca ed etrusca rinvenuti nelle tombe di Spina. E per il raffinato allestimento di queste oreficerie e monili, datati dal V al IV secolo avanti Cristo, è scesa in campo anche la maison Bulgari. Sono orecchini, anelli, diademi, collane, ciondoli e monili, quasi un centinaio di pezzi che documentano l’elevata raffinatezza degli artefici che li produssero. La neonata Sala degli Ori espone anche altri oggetti preziosi, incluse due pissidi in marmo e numerosi balsamari in pasta vitrea. Ma soprattutto, la collezione è costituita da pezzi in gran parte inediti e sconosciuti al pubblico che vanno a integrare il percorso espo-

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di Rossella Fabiani sitivo dedicato alla necropoli di Spina. Le tombe infatti hanno restituito diversi prodotti di oreficeria, in parte attribuibili all’artigianato etrusco, in parte affini ad analoghi gioielli magno-greci. Quasi tutti gli oggetti esposti provengono da sepolture risalenti all’ultimo ventennio del V secolo avanti Cristo, un periodo di generalizzato benessere per questo centro etrusco. Le tecniche di lavorazione dei reperti attestano l’elevato grado di abilità raggiunta dalle botteghe artigiane. Non a caso Spina era uno dei più importanti centri di smistamento dell’ambra baltica. I materiali usati, l’oro, l’argento, l’ambra, le pietre semipreziose (agata, corniola, cornalina) e le paste vitree, sono materiali che, nell’oscurità della tomba, evidenziano il riflesso di luoghi e liturgie che alludono al potere e alla ricchezza, nascondigli che custodiscono tesori esclusi dai riti quotidiani e destinati, all’occorrenza,

agli usi cerimoniali. Gli orecchini - il gioiello di gran lunga più frequente nelle sepolture - sono in genere di forma tubolare ricurva, con l’estremità realizzata a protome di ariete o leone, a testa femminile e di Acheloo, tipici dell’area etrusco-padana. Più rare le fibule, in bronzo e argento, utilizzate per chiudere le vesti o i lembi del sudario. Gli anelli, a sottile verga d’oro, hanno a volte castoni in pasta vitrea mentre le collane, di cui non mancano esemplari in oro, sono in genere formate da vaghi e da pendenti in ambra alternati a perle in pasta vitrea. Rispetto all’elevata percentuale dei vasi attici di V e della prima metà del IV secolo avanti Cristo, a Spina la presenza di manufatti in oro nei corredi è relativamente eccezionale e quasi sempre riguardano il mondo femminile. Oltre ad amuleti di vario materiale, nelle tombe vengono occultati intenzionalmente pochi monili in oro, realizzati probabilmente da officine locali che, pur basandosi su esperienze artigianali precedenti, riescono a ideare nuovi tipi di gioielli e a lanciare nuovi stili. Gli ori e i reperti preziosi di Spina, oltre a essere una documentazione rara, ostentano il prestigio familiare esaltando al tempo stesso il valore carismatico dell’orafo-artigiano, un vero e proprio demiurgo che manipola materiali che simboleggiano l’eternità in rapporto alla ciclicità e alla caducità della vita umana.


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il paginone

Quando anche in Italia alle due camere e cucina si aggiunse il salotto, cambiò un’epoca. E oltre allo stile mutò il rapporto con gli oggetti e la funzione della casa. Breve viaggio nelle oscillazioni del gusto nel Novecento seguendo il percorso (ormai centenario) tracciato da un maestro del genere: Gillo Dorfles di Franco Palmieri l passato non c’è più; ma è la sola realtà che possiamo raccontare, anche se attraversarlo a ritroso comporta inciampi e sviste. Celebrando i cento anni di vita di Gillo Dorfles (compiuti il 12 aprile scorso) e i 101 di Rita Levi Montalcini (festeggiati anche da lei in aprile), scopriamo che il tessuto di una vita si intrama con il tempo che abbiamo attraversato soltanto se lo abbiamo cavalcato compiacendoci di seguirlo, così che alla fine la nostra testimonianza riveste se non il ruolo del protagonista, certamente quello del testimone. Nel caso di Dorfles ruolo del promoter perché, disincagliarsi dal proprio tempo, come fecero gli idealisti inglesi - da Moore a Owen - in cerca di Utopia o per fondare l’ennesima New Lanark, fornisce struggenti anamnesi filosofiche ai posteri ma, nello stesso tempo, sconcertanti fughe dalla realtà. Noi tutti, la «gente» - primum vivere! - ci soffermiamo sul presente e ce lo portiamo a casa, giorno dopo giorno. Gillo Dorfles, e tanti come lui che hanno attraversato il Novecento, si sono da subito posti la domanda: perché questo oggetto, quel quadro, quel film, quel libro? E perché è successo, a un certo punto della storia delle società, che una sorta di semiologia del quotidiano sia diventata la traccia di una esistenza privata come se fosse

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è sempre in agguato, perciò sono poco attendibili). Ma la domanda che ci ponevamo qualche passo più indietro non è solo retorica (perché questo oggetto e non un altro?); essa ha contrappuntato tutto il Novecento ed è alla fine il segno distintivo di ciascuno di noi nella classifica dell’apparenza. Ci stiamo avvicinando al punto del discorso, ma dobbiamo cominciare dal principio, tenendo presente un assioma (dovuto al Michael Foucault): le parole sono le cose e le cose siamo noi. Stabilito (andiamo per sintesi) che la famiglia e la casa costituiscono il fondamento di ogni società è stato con il Novecento che il Lunpenproletariat (quelli che per ricchezza non avevano che se stessi), diventata piccola (ma proprio piccola) borghesia, (nonostante lo strumentale

le carrozze dei monarchi che ancora regnavano in tutti gli Stati europei (in Francia no; e negli Usa dal 1776). Naturale, quindi, che la Grande Esposizione Universale che inaugurava il Novecento avesse luogo a Parigi. E per l’occasione Bemporad pubblicò una sontuosa guida a uso di quella borghesia che voleva sprovincializzarsi. E la tecnologia, diciamo pure il progresso della scienza e della meccanica, l’ebbero vinta sui sogni degli utopisti, Carlo Marx compreso. Una vittoria che nel corso di tutto il Novecento si è ripetuta più volte per sovvertire agli inganni di ideologie tragiche e illusorie.

Però, come un motore in rodaggio, il Novecento ci mise qualche anno a partire. Tuttavia il portato di alcune speculazioni ideali dell’Ottocento, sfrondate del falansterio onnicomprensivo del Fourier e del rivoluzionarismo utopico di Owen (anche se prefiguravano una forte critica alla futura società di massa di là da venire), entravano nel Novecento perché ormai radicate nella percezione dei valori individuali e nella consapevolezza diffusa di una equità sociale che non poteva più assuefarsi alla ipocrita bonomia delle aristocrazie regnanti. Più delle fughe utopiche, la Dottrina sociale della Chiesa e il magistero di Antonio Rosmini (1797-1835) con il

Il desiderio di riempire le pareti del “salone” segna l’inizio di un processo economico irreversibile. Punteggiato dal cinema dei telefoni bianchi, dai grandi magazzini, dai fumetti, dal tripudio del kitch esclusiva mentre era, volutamente (snobisticamente?) inavvertita, identica a quella di tutti gli altri (addirittura del nostro dirimpettaio del pianerottolo del condominio)?

Certo non capita a tutti i contemporanei di uno stesso secolare percorso l’occasione, la capacità e la fortuna di averlo quell’oggetto del Novecento potuto osservare godendolo e studiandolo, come fanno certi buongustai di professione che studiano mentre mangiano (lo fanno anche gli assaggiatori di vini, ma la sbornia involontaria anno III - numero 23 - pagina VIII

classismo bolscevico) ha cominciato a domandarsi che cosa doveva metterci in quella stanza in più che gli architetti stavano aggiungendo a fianco delle due camere e cucina. Un passo avanti era stato già fatto, dopo che per secoli in una stanza col camino si mangiava e si dormiva. E pensare che questa stessa gente usciva da quella stanza con una valanga di figli per andare ad assieparsi lungo un percorso dove sfilavano

L’ESTETIC della “terz suo fondamentale Nuovo saggio sull’origine delle idee, avevano aperto un varco nella società dell’Ottocento e conseguito un’universale affermazione gettando le basi del concetto che riconosceva dignità alla persona umana nelle procedure di legge e nella politica. Una rivoluzione tutta interiore che riconosceva a ciascuno il diritto alla parola. E non fu per caso che Filippo Marinetti, l’ideatore ed elaboratore del Manifesto futurista del 1909, si fosse formato agli studi presso un istituto di gesuiti. Libero di pensare, di esprimersi, di agire e di scegliere, l’uomo del Novecento fu colto da una certa ebbrezza, come quando vai in discesa e non pensi alla necessità del freno. E il freno della libertà è la formazione culturale, l’educazione. Che essa passi per la scuola è vero solo in parte, perché i comportamenti diffusi e reclamizzati costituiscono altrettanti suggerimenti esemplari. Non era più l’aristocrazia che sfila in carrozza a offrire modelli irraggiungibili, così lontani da presentarsi appena a una obbligata e

invidiosa ammirazione mascherata di deferenza. Già il logos stava in Occidente cominciando a cedere spazio all’imago, perché il vedere parlava più eloquentemente del dire, comunicava tutto e subito e oltre che suggerire faceva una cosa in più: suggestionava; praticamente un sofisma, cioè una stratificazione sofisticata, essendo il segno manipolatore della ragione, riusciva meglio laddove più che vincere bisognava convincere. La famiglia borghese stava entrando a pieno diritto nella storia; anzi la stava facendo, la Storia. Ma forse qui la maiuscola non si addice ai fatti. E, nei fatti, la rappresentazione di quella borghesia che bocciava nei modi, nei gusti, nelle attitudini e nei consumi, soprattutto nello stile di vita, demistificava se stessa nella rappresentazione che mostrava di sé.

Nascere agli inizi del Novecento, come Gillo Dorfles e i suoi, almeno per un po’ di tempo, coetanei, significava muoversi in parallelo al procedere di un percorso che, se nati distanziati da questo, avrebbe potuto generare una sopraffazio-


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di un Marcovaldo pre-Italo Calvino, rimbecillito da una Luna e (co)gnac (l’insegna pubblicitaria di un brandy in una notte di luna cui era caduta una sillaba). I fumetti entravano nelle case dello sterminato suburbio americano con tutto il carico ilarosatirico che li contraddistingueva, generando quel fastidioso senso di inconfessabile rivalsa perché «l’erba del vicino è sempre più verde».

CA za stanza” ne; perché le mode o si fanno o si subiscono. Erano così tante le novità che si accalcavano, che il Novecento ci mise un po’ prima di liberarle tutte. Ma dopo il primo decennio del nuovo secolo detto «breve», ma affollatissimo - se ne stabilirono i tre fondamentali capisaldi, ancora in auge: i mezzi di comunicazione, la pubblicità, il valore identitario degli oggetti.

Sorprendentemente, la sintesi di tutto questo era già stata espressa nella società americana statunitense che aveva già inglobato nella sua economia sociale gli esiti della Rivoluzione industriale, e il racconto quotidiano di questa way of life piccolo borghese aveva trovato i suoi characters nei personaggi della Commedia dell’Arte del Novecento, i fumetti. Il primo fumetto, quello del bambino Yellow Kid, era in realtà un espediente pubblicitario: il pupo vestiva un camicione,

giallo per l’appunto, sul quale veniva diffuso un messaggio: comprate i biscotti di questa ditta, i vestitini di quell’altra, eccettera. Il primo grande general store, in Inghilterra e poi a New York, quello della famiglia Woolworth, seguito a ruota da Maci’s, oltre alla merce raccoglieva i clienti. E questi clienti, i burini che scendevano in città, venivano osservati dal signor Hopper, il creatore di Happy Hooligan, il fumetto che raccontava «le avventure in città»

commedia del Novecento; e più tardi il cinema dei telefoni bianchi, da Bragaglia a Camerini a Blasetti. Se i fondamenti dell’estetismo si insegnano a scuola (il Partenone, la Nike di Samotracia, le opere di Fidia, eccettera), il «gusto cambia, è legato al momento e quello attuale non potrà mai essere di domani. Per cui, anche se vi confluiscono, rassegnamoci: oggi lodiamo il liberty dopo averlo trovato di pessimo gusto a metà Novecento, e prepariamoci a rivalutare domani i mobili post-liberty dei nonni, quelli che oggi non avremmo nemmeno il coraggio di adoperare» (così Gillo Dorfles il giorno del suo centesimo compleanno, sul Corriere della Sera). E il Kitsch, titolo della sua opera del 1968, dieci anni dopo l’uscita delle «oscillazioni»?

Accadde anche in Italia. E poiché dopo il praghese Aloys Senefelder inventore della litografia, la sovrapposizione alternata delle lastre a colori aveva dato il via alla stampa in quadricromia, mentre nasceva Gillo Dorfles usciva il Corriere dei Piccoli, le cartoline illustrate pubblicitarie e cominciavano le avventure di sor Pampurio, Fortunello (nome dato da noi a Happy Holligan), Marmittone, Il Signor Bonaventura (inventato da Sergio Tofano per dare un alter ego positivo allo sfigatissimo Fortunello) e, dulcis in fundo, Arcibaldo e Petronilla e più tardi, Blonde. E qui, dove la piccola borghesia è raccontata nella sua privacy, qui entra Gillo Dorfles. O meglio, tutto quello che Le oscillazioni del gusto, la sua opera sulle modificazioni nelle acquisizioni dei segni di qualificazione sociale, hanno contribuito a raccontare sulle varianti dell’estetismo, sempre conteso tra «tecnocrazia e consumismo». Ma dicevamo all’inizio della grande novità che il Novecento ha introdotto nella società urbanizzata: la terza stanza. Quando le due camere e cucina si arricchiscono del «salotto»,

C’è, in questi corsi e ricorsi dell’estetismo, del gusto e negli stili espressi da tutti noi nell’andare degli anni, la forza di quelle altre due componenti che inauguravano il Novecento: la comunicazione di massa e la pubblicità. In fondo, l’adeguamento - che non è peccato - del prodotto ai gusti del mercato, giacché il bello di prima è destinato a trasformarsi nel brutto di domani e di nuovo nel bello di dopodomani, smobilita e vanifica lo snobismo di una autoreferente upper class sociale tesa a distinguersi solo per il livello e la portata dei propri consumi, dai Suv alle patacche dorate bene in vista, al visone a teatro. L’elogio del Kitsch, ben oltre la sua intenzione provocatoria sempre all’erta, anticipa oggi il valore estetico ricono-

C’è nei corsi e ricorsi dell’estetismo e negli stili espressi nell’andare degli anni, la forza di quelle altre due componenti che inauguravano il XIX secolo: la comunicazione di massa e la pubblicità cui è seguito l’accrescitivo autoreferente-comunistico di «salone», oltre al gusto e allo stile mutano il rapporto con gli oggetti e la funzione della casa. Il salotto di nonna Speranza e le piccole cose di pessimo gusto di gozzoniana esegesi, denotano forse un sogno acquisitorio del neo-inurbato, ma sicuramente l’inizio di un processo economico che non si è più arrestato. La funzione della critica del gusto - da Galvano della Volpe a Dorfles - ha trovato la sua ragion d’essere nel mercato piccolo o alto borghese, ma pur sempre nel desiderio di riempire le pareti della terza stanza. Del resto il teatro ne aveva bisogno per rappresentare la

Alida Valli, diva dei “telefoni bianchi”; sopra, alcune locandine pubblicitarie; a sinistra una delle prime televisioni-oggetto protagoniste degli arredi dei salotti americani; un’immagine di Gillo Dorfles

sciuto domani, e suona paradossale. Ma se il Kitsch è tollerabile e forse necessario all’equilibrio tra produzione e consumo, è quell’altra cosa, la diseducazione nei comportamenti, che ci affanna. Ma questo è un altro discorso. Del resto, i critici dell’estetica (specie nel mercato delle arti) l’etica talvolta la lasciano a casa. E se, alla fine, la protagonista - o la responsabile? - di questo tripudio di kitsch-non-kitsch è lei, l’arbasiniana casalinga di Voghera, simbolo di tutte le vittime del Peggio di Novella 2000 di Arbore e D’Agostino, il suggeritore sarà certo il demone della pubblicità, del mercato, ma il freddo artefice sarà stato lui, il deus ex machina convogliatore della febbre acquisitoria, «il gillidorflismo». Anche così si diventa famosi e imperituri. Altro che cento anni.


Narrativa

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libri

Paolo Ruffilli UN’ALTRA VITA Fazi, 204 pagine, 18,50 euro

di Maria Pia Ammirati

aolo Ruffilli appartiene alla categoria dei facitori, non solo poeta, saggista e narratore ma egli stesso editore come direttore della collana del Leone d’oro. Come poeta di talento alle sue prime prove, ricordiamo tra queste Piccola colazione del 1987, fu citato da Eugenio Montale, e quelle sue stesse qualità poetiche, concisione e sapenzialità espressiva, Ruffilli le esporta nella prosa e nell’ultimo suo libro di racconti pubblicato da Fazi, Un’altra vita. Al titolo non è secondario aggiungere il sovrattitolo che appare a pagina 7: «20 storie d’amore in cerca di un’altra vita». Il primo libro di narrativa uscito nel 2003, Preparativi per la partenza, anticipa certamente quest’ultimo, nei temi, nell’avvicinamento alle realtà minime delle stanze borghesi. E le stanze non sono nominate a caso in questa raccolta meticolosamente organizzata per tempi (date) e spazi, perché gli scenari sono interni di vita matrimoniale, di brevi storie di coppie, di amori incipienti o in finale di partita, che si articolano in rapidità verso la fine o la gestione della routine dei rapporti d’amore o convenienza. Affilato lo sguardo verso le piccole e minime cose, il testo, per tornare alla struttura, è ordinato in quattro tempi, tempi stagionali a loro volta suddivisi da citazioni in un vero trionfo delle soglie genettiane, l’ordito che non è fuori dal testo ma contribuisce a essere testo. Arriviamo dunque alle storie, 5 per ogni stagione: 20 brevi, a volte brevissimi, racconti tutti interpretati da coppie e dedicati ad altrettanti scrittori, tranne quello dedicato a Emily Dickinson. Sia le dediche che le stagioni hanno apparentamenti e rimandi nei testi, spesso microscopici, ma tutto concorre alla tessitura poetica dei racconti, tessitura prima di tutto espressiva per la massiccia cura data alla parola, da quella petrosa a quella allusiva, privilegiandone sempre il suono con giochi di rime interne, allitterazioni e assonanze. Gli attori in campo sono volti senza nomi, i nomi evidentemente sarebbero una forzatura o un inutile distrazione dal movimento che corre verso lo svelamento del rapporto amoroso che vorrebbe sempre essere un’al-

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Riletture

Altri amori, in un’altra vita Venti brevi storie compongono la nuova raccolta di racconti di Paolo Ruffilli: una prova narrativa intrisa di lirismo

tra storia da quella corrente. L’altra vita può essere sognata, immaginata o sperata, un’altra vita come quella monologata dalla Dickinson che chiaramente allude alla poesia senz’amore, all’ombra, alla solitudine o il racconto dedicato a James Joyce non solo ambientato in Irlanda (la fresca estate irlandese), ma giocato sui temi dell’amore spirituale e della fede cattolica. In questo racconto d’apertura, l’attrazione amorosa si veicola attraverso la bellezza folgorante della natura, una bellezza a volte violenta e scontrosa. Come la protagonista, «un’esaltata, di quelle che l’isola aveva prodotto sempre in grande quantità… una di quelle patetiche bigotte». La donna e la natura si fondono in un’identica accensione amorosa, «un’accensione, come sfregando il fiammifero sul ruvido di sabbia», che in una sorta di lotta tra spirito e carne vede l’amore carnale come un finale rapido e inevitabile. La donna, la bigotta dai capelli rosso fiamma, non sfugge all’attrazione del viaggiatore innamorato, facendo tornare alla memoria il vecchio adagio «son le figlie di Maria tra le prime a darla via». Non è banale parlare del lirismo in prosa di Ruffilli, il lirismo di Un’altra vita è l’espressione totale, che investe anche le storie, di questo testo. La narrazione non è certo un supporto alla lirica, ma amplia il respiro narrativo dei testi poetici dell’autore della Camera oscura (Garzanti 1992). Si può parlare di una sorta di poesia totale o di un esperimento che cerchi nella poesia ancora più corpo, ancora più estensione. In questo testo, in cui i conti devono sempre tornare - quattro sono i tempi, 5 i racconti, venti è la somma totale -, contano comunque le storie dei singoli, filamentosi organismi che trovano evanescenti rispondenze tra loro.

Per Popper la verità non è infallibile (e nemmeno l’aspirina) mre Lakatos diceva che le idee di Popper rappresentano lo sviluppo più importante nella filosofia del Ventesimo secolo. Non è un’opinione esagerata, certamente non è arbitraria. Il modo in cui Popper ha fatto filosofia e i risultati che ha ottenuto sono non solo ragguardevoli sul piano degli studi, ma anche utili e necessari per la nostra concezione della libertà e della vita politica ed etica. L’idea che il filosofo del «razionalismo critico» ci trasmette della vita umana associata è quello della «società aperta» e del pluralismo: sono «idee» che, per essere comprese e apprezzate, non possono essere isolate dal significato della filosofia di Popper. Il filosofo che con qualche forzatura potremmo definire «il filosofo che inventò la filosofia della scienza» ha legato il suo nome a una visione non dogmatica della conoscenza umana. È l’idea che Popper ebbe della scienza e della conoscenza - che cosa vuol dire conoscere? ecco la domanda centrale della sua opera - che gli permise di avere un’idea più matura del liberalismo e della democrazia. Gli per-

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di Giancristiano Desiderio mise, in altre parole, di elaborare tanto una scienza quanto un’etica non totalitarie. Rubando un’idea di Nietzsche si può dire che Popper è un filosofo per tutti e per nessuno. Il suo stile è piano e il suo linguaggio non è gergale. Popper odia i paroloni e ritiene che sia dovere del filosofo essere chiaro e comprensibile da tutti. Proprio perché il filosofo parla a tutti, ossia gli uomini, e non ai docenti o agli iniziati. Congetture e confutazioni, da poco ristampato e rimandato in libreria dal Mulino, è un testo esemplare di Popper, diciamo pure un capolavoro. Popper non è un dogmatico, ma non è neanche uno scettico. Crede nella ragione umana, ma anche nei suoi limiti. Sa che il valore più importante delle «congetture scientifiche» risiede nella capacità umana di criticarle per scoprirne errori. Secondo l’aforisma di Oscar Wilde «esperienza è il nome che ognuno dà ai propri errori». Per certi versi il pensiero di Popper è la messa a

Ristampato “Congetture e confutazioni” con una prefazione scritta dal filosofo ottantatreenne

tema di questo aforisma. L’idea che ci si possa liberare una volta e per tutte e per sempre degli errori è non solo pericolosa perché nasconde un altissimo potenziale ideologico e totalitario, ma anche sciocca perché se possiamo imparare qualcosa è proprio perché esistono gli errori da cui apprendiamo. In questa edizione di Congetture e confutazioni c’è una prefazione datata 1985, scritta da Popper quando aveva 83 anni. Si discute del problema dell’induzione. Per Popper la conoscenza induttiva non è certa e infallibile. Anche le osservazioni più banali, ad esempio che il sole sorge tutti i giorni perché così è sempre stato, non ci può dare la certezza che così sarà sempre. Non ci sono luoghi della Terra, infatti, in cui c’è il sole di mezzanotte o il sole non sorge affatto? Altro esempio: l’aspirina. Fa bene, è utile, è risolutiva di piccoli problemi. Eppure, «chi può dire che non sia possibile scoprire un giorno che l’aspirina ha seri effetti collaterali di un tipo che fino a oggi non è mai nemmeno stato preso in considerazione?». Se ne ricava che la verità non deriva dall’induzione. La verità non è un’aspirina che toglie tutti gli errori.


Stili

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ALTRE LETTURE

L’ITALIA DOLENTE DI MASSIMO FINI di Riccardo Paradisi

Due Roth

per un sol Uomo Joseph e Philip, due epoche diverse ma lo stesso gusto della verità e dello smascheramento. Con al centro l’individuo denudato, nevrotico, sradicato. Come in “Fragole” o in “Everyman”... di Pier Mario Fasanotti on è così insolito, o insano, leggere le pagine di uno scrittore e ricordare quelle di un altro. La letteratura è una concatenazione di parole, atmosfere, caratteri. L’apparente caos mnemonico viene spontaneo quando due scrittori hanno lo stesso cognome: Roth. Il primo Roth, per così dire, si chiamava Joseph (1894-1939), era ebreo ed era nato in Galizia (a Brody), parte orientale dell’impero austro-ungarico. Con la morte di Francesco Giuseppe, Roth avverte la perdita della patria, lo sradicamento. Autore di libri che sono capolavori, fece anche il giornalista: con estrema attenzione verso un mondo che si stava disgregando. Non è un caso che qualcuno lo definisse «fanatico della verità». In obbedienza al dovere di vivisezionare la società ma anche l’uomo, Roth ci ha lasciato delle impeccabili anatomie letterarie. Una di queste, pubblicata ora dall’Adelphi (178 pagine, 14,00 euro), s’intitola Fragole e comprende due racconti lunghi.

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Il «secondo» Roth si chiama Philip, è nato a Newark da famiglia ebrea nel 1933. Diventato celebre in tutto il mondo con il Lamento di Portnoy, ha speso la sua esistenza tra insegnamento e scrittura. Alla pari di Joseph, sia pure in un altro contesto, Philip si tuffa nel mezzo di una situazione sociale o familiare, ponendo in rilievo meschinerie, avidità, passioni, solitudini sconfinate, piccole abitudini. In entrambi gli omonimi narratori la barra di navigazione è l’umorismo ebraico, dissacratore il più delle volte, pietoso a tratti, sempre intriso del gusto della verità e dello smascheramento. Il centro ideale dei libri dell’uno e dell’altro Roth è l’uomo denudato, nella cornice di una società le cui dinamiche fanno cornice ma al tempo stesso diventano personaggi esse stesse. Nel primo racconto di Fragole, intitolato Perlefter, storia di un borghese, Joseph Roth insiste magistralmente, col suo bisturi psicologico, nel dipingere la personalità di un uomo estremamente noioso, maniacale, banale, commerciante arricchitosi con l’intuito medio. Con lo «sbagliato» (in quanto a perso-

nalità e a destino, se si pensa all’eroe greco) nome di battesimo, Alexander, il piccolo borghese non prova sentimenti netti, semmai discreti piaceri tutti appesi ai moti di simpatia o di antipatia: «Non riusciva ad amare o a odiare… voleva conservare quel che possedeva… persino la moglie voleva tenersi, anche se lo annoiava e nei suoi confronti provava l’interesse che si prova per una governante». C’è in questa bel oliata macchina per mediazioni commerciali, il senso della perdita. Come in alcuni personaggi di Philip Roth. «Sentiva galoppare la morte» scrive di lui l’autore galiziano. Fin da bambino s’era abituato a non ribellarsi alla crudeltà: «la accettava, togliendone il nutrimento». Ipocrita sia nell’ambito familiare che in quello sociale, era solito dire: «Non pretendo gratitudine». E Roth aggiunge: «E la pretendeva». Il signor Perlefter, di modesti studi e di abissale ignoranza, si colloca ovviamente nel partito conservatore, ultramoderato. Crede che qualsiasi dinamismo sociale sia pericoloso. La monarchia è una garanzia contro movimenti di piazza, fantasie utopiche, innovazioni azzardate. Un suo credo: «Le polemiche sono in assoluto superflue. Ci si può sempre mettere d’accordo. Io voglio la quiete a ogni costo». Uno dei suoi pensieri più profondi è: «A poco a poco s’invecchia». Oltre non va. Ci va invece il protagonista di Everyman (Einaudi) di Philip Roth, messo al tappeto dalle malattie e dagli anni che incalzano. Scrive l’autore di quest’uomo alla deriva: «Non c’era più nulla che stimolasse la sua curiosità o che rispondesse ai suoi bisogni, né la pittura, né la famiglia, né i vicini, nulla tranne le giovani donne che gli passavano davanti facendo jogging la mattina sulla promenade». A una di queste presenze muscolari femminili lui dà il suo numero di cellulare. «Lei non chiamò mai» annota l’autore.

n paese privo di principi, di valori condivisi che non siano i soldi, volgare, senza dignità e senza onore, spietato senza essere virile, femmineo senza essere femminile, corrotto, intimamente mafioso, devastato nel suo straordinario paesaggio naturale urbano artistico che lo ingentiliva insieme alla sua gente. Una parodia di democrazia sequestrata dai partiti e dai suoi mediocri esponenti che la abusano. Espressioni e parole sono inconfondibilmente quelle di Massimo Fini che in Senz’anima (Chiarelettere, 472 pagine, 15,00 euro) fotografa il degrado dell’Italia degli ultimi trent’anni mettendo insieme come in un mosaico gli articoli scritti in questi decenni nel suo lavoro di inviato, di cronista, di commentatore. Un panorama dolente su cui si stagliano anche i ritratti magistrali di Craxi e Martelli, Cossiga e Berlusconi, Gradini e Scalfari,Vespa e Costanzo.

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Il signor Perlefter di Joseph Roth è sentimentalmente anemico. Solo sul piano sessuale ha le sue impennate, ovviamente clandestine. Si annota nel taccuino, poco distante dal calendario delle ricorrenze ebraiche, l’indirizzo di quelle signore che, se pagate, possono fargli trascorrere ore di straordinaria effervescenza ormonale. Il benestante Perlefter paga il dovuto, s’irrita per il dovere di portarle a teatro o al cinema: «I destini altrui, anche se solo recitati, non lo riguardavano. Amava soltanto i propri, solo di sé poteva preoccuparsi». In quei momenti di desiderio ammette con se stesso di «aver voglia di donne», mai sfiora le corde del sentimento o dell’intimità mentale. Delle donne - e che siano bionde, per carità - predilige la biancheria intima. Oltre non va, altro non scopre e non vuole scoprire. Quel che afferra dell’universo rosa sono alcuni particolari fisici, utili per imbastire un racconto lievemente piccante da fare nel suo circolo. Più che l’esperienza in sé, a lui piace conservare un ricordo.

Un altro tratto comune ai due Roth è la nevrosi, certamente vissuta e sperimentata su se stessi. Axler, l’attore protagonista di L’umiliazione di Philip Roth, ci si pone davanti nel momento in cui si blocca. È la deriva nevrotica, è un viaggio corto in una gabbia. Axler, sull’orlo del fallimento professionale e umano, confessa piagnucolando: «Non sono più capace di rendere reale un ruolo per me stesso». Il signor Perlefter non ha questa tragica consapevolezza, non ne è capace. Però devia il proprio e crescente disagio in manifestazioni di panico o di maniacalità. Quando comincia a viaggiare comincia anche a temere il prossimo, convinto che dietro ogni maschera umana si celi un assassino, un aggressore. Oppure s’affatica a disinfettare gabinetti, lavelli, abiti: all’odore del mondo preferisce quello del cloroformio. Alexander ha davvero un nome sbagliato. È Alexander il piccolo. Bara con se stesso, la famiglia, il prossimo, i parenti «fastidiosi». Bara e non sa di barare. Gli basta solo stare quieto, magari davanti a un quadro, pur non capendo un’acca di pittura.

CONFINDUSTRIA SECONDO ASTONE *****

opo averci raccontato negli Affari di famiglia meschinità e miserie dei figli dell’alta borghesia industriale italiana, Filippo Astone racconta nel Partito dei padroni (Longanesi, 382 pagine, 17,60 euro) come Confindustria e la casta economica comandano l’Italia. Un partito come tutti gli altri, lo definisce l’autore, con tanto di scandali, guerre interne e conflitti d’interesse ma anche ricco (circa un miliardo di ricavi all’anno), potente e molto ramificato sul territorio. Astone spiega perché Confindustria è così influente e come funziona il suo potere, quali sono le leggi che ha imposto e in che modo vuole ridisegnare il Paese ottenendo mano libera sui contratti. Soprattutto quali sono le rendite di posizione dell’estabilishment economico italiano, mettendone in luce la mancanza di ricambio, i compensi incredibili, la tendenza a comportarsi in modo uguale se non peggiore a quello della casta politica.

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SIAMO TUTTI PSICOPATICI? *****

erché è così difficile smettere di fumare? Com’è possibile che un placebo si riveli altrettanto efficace di un farmaco? Cosa intendiamo oggi per comportamento normale? Attraverso 50 brevi, essenziali ed efficaci capitoli Adrian Furnham in 50 grandi idee di psicologia (Dedalo, 207 pagine, 18,00 euro) guida il lettore alla scoperta dei concetti di base di una disciplina che si propone di indagare il comportamento e il pensiero umano, i sentimenti e le idee. Con uno stile brillante e discorsivo applicato a contenuti rigorosi, l’autore ci illustra alcune delle più comuni psicopatologie.

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pagina 20 • 12 giugno 2010

di Enrica Rosso nche quest’anno la progettualità internazionale promossa dal Napoli Teatro Festival regala frutti succosi. Concentrandoci sull’uso delle immagini, della tecnologia, elementi ricorrenti del programma, abbiamo individuato due progetti che manderanno in visibilio gli appassionati del genere. Fino al 27 giugno nelle sale del Pan, Palazzo delle Arti di Napoli, c’è in prima assoluta Devo partire. Domani, la videoinstallazione del filmaker Ming Wong ispirata al film Teorema di Pasolini. Nella celeberrima pellicola un misterioso sconosciuto andava a turbare con il suo fascino sensuale la routine di una famiglia borghese composta da padre, madre, i due figli adolescenti e una domestica, per poi partire improvvisamente lasciandoli in ambasce dopo aver consumato rapporti carnali con ciascuno di loro. Prodotta dal Festival l’installazione si sviluppa contemporaneamente in cinque sale comunicanti in ognuna delle quali si proietta il vissuto dei singoli personaggi coinvolti nella vicenda, scandito in tre momenti chiave: tentazione, confessione, rivelazione. Le prime due fasi identiche per tutti, la terza, di parte. Già Menzione Speciale della giuria alla Biennale di Venezia 2009 con Life of Imitation, lo studio di Ming Wong sui personaggi è qui arricchito dalla potenza espressiva dei contesti ambientali che spesso rubano la scena al giovanissimo artista singaporiano, unico interprete di tutti i ruoli. La residenza a Napoli del performer ha enfatizzato un senso di appartenenza ai luoghi di assoluta pertinenza. Il rapinoso Vesuvio, le sale del Museo Archeologico, gli scempi di Bagnoli o le Vele di Scampia con la loro significante realtà offrono a chi guarda un ulteriore, potente impatto di

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Televisione

Teatro

MobyDICK

spettacoli DVD

Gioco di ruolo con imprevisti

Immagine e tecnologia in “GuruGuru”, in programma al Napoli Teatro Festival 2010

un’interiorità implosa esibita per contrasto dal paesaggio. Il numero cinque ritorna anche nell’ultima creazione dei Rotozaza, in scena fino a domani al Korperformer. Frutto dell’incontro artistico

tra l’inglese Ant Hampton e Silvia Mercuriali, che dal 1999 esplorano la fusione tra teatro sperimentale e live art, GuruGuru, in prima italiana, ci introduce al fenomeno dei focus group. Solo cinque spettatori per volta chiamati a sperimentare la performance-terapia che li vedrà protagonisti. Dopo una rapida selezione, a ognuno viene assegnato un personaggio (a chi scrive Cicci). A seguire si è introdotti in una postazione a semicerchio, di fronte a un televisore, dove i cinque prescelti vengono guidati attraverso ordini comunicati tramite l’uso di cuffie a interagire tra di loro e con un’entità, parecchio dispotica a dire il vero, espressa in video. Un sofisticato gioco di ruolo, con imprevisti, per esplorare la possibilità di andare oltre alla mera partecipazione passiva e vivere l’esperienza accomunante di essere svuotati, mercificati, ottusamente usati. Come vuoti a perdere decontestualizzati e incapaci di un’espressione autonoma, messi al servizio del Guru da noi stesso creato che ci svillaneggia esponendo le nostre fragilità al gruppo e, come se non bastasse, in balia degli sbalzi di corrente. Rispetto ai video giochi aggiunge un piano di interazione tra persone chiamate a condividere l’esperienza e a connettersi con la propria essenza, cioè l’impasto di cui siamo fatti noi esseri umani, carne e sangue, muscoli e organi, fallaci è vero ma capaci di vibrare dentro e di costruire macchine così complesse da imitarci quasi in tutto. E sottolineo quasi.

Napoli Teatro Festival 2010, fino al 27 giugno, info: www.napoliteatrofestival.it - tel. 081.19560383

IL SOGNO AMERICANO SECONDO JOHN F. KENNEDY on chiedete cosa possa fare la patria per voi: chiedete cosa potete fare voi per la patria». Presidente tra i più amati della storia americana, John Fitzgerald Kennedy legò la sua fama a scritti discorsi che fecero epoca. E alcuni celebri frammenti, se ne colgono in Jfk - Il sogno americano, bel documentario che Cinehollywood dedica al carismatico leader politico che vinse il Pulitzer nel 1957 con il suo Profiles in courage. Attori rinomati, celebri giornalisti e funzionari della Casa Bianca, raccontano Kennedy in parallelo agli eventi che ne punteggiarono la presidenza. Più che un biopic, il diario di una nazione.

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FESTIVAL

LA FESTA DELLA MUSICA ALL’OMBRA DEL VESUVIO a FatBoy Slim ai Velvet, da The Niro a Jamiroquai, passando per i Perturbazione e i 24 Grana: saranno due giorni brevi ma intensissimi, quelli che si annunciano sul palco del Neapolis Festival. La tradizionale kermesse musicale in programma il 15 e il 16 luglio nella città partenopea propone quest’anno oltre ai concerti, iniziative culturali di spessore come la fiera a Mostra d’Oltremare, uno spazio dedicato a quanti vivono di musica per passione, per lavoro o a fini di volontariato. E poi porte aperte a etichette indipendenti, operatori culturali, associazioni, magazine e record store. Da non perdere.

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di Francesco Lo Dico

Il “cupio dissolvi” di Bertolino (in attesa di epurazione) onviene prenderla alla larga. I giullari erano personaggi medievali, artisti spesso irriverenti che si guadagnavano da vivere come attori, mimi, musicisti, ciarlatani. Dice uno storico: «Il giullare è un essere multiplo». Spesso erano chierici, come nel Duecento e Trecento. Divertivano, ma quando recitavano verità scomode allora venivano allontanati perché cantori di cose obscaena et turpia. Non è affatto certa l’etimologia di osceno, in ogni caso non si ha dubbi sul significato: di malaugurio, indecente. Oggi in tv hanno trovato collocazione alcuni «giullari» che, facendo ridere, sono additati come pericolosi. Non le solite barzellette su Pierino, ma incursioni sulla politica (del malaffare), su leader del governo e dell’opposizione. Uno di questi è il comico Enrico Bertolino, giunto alla centesima puntata di Glob, l’osceno del villaggio (Rai 3, domenica in tarda serata). Bertolino, manco considerato quando si esibiva entro i ristretti recinti della comicità

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di Pier Mario Fasanotti lombarda, ora sta aspettando il benservito dalla Rai. È scomodo. Ancora più scomodo perché è un Santoro che fa ridere. E non importa che lanci frecce avvelenate alla sinistra. Non basta per essere salvato. I peccati gravi sono, per esempio, far vedere la foto di Letizia Noemi, fanciulla seguita con attenzione da «Papi», irridere a Simona Ventura, mostrare la protesta degli abitanti dell’Aquila assieme all’imbarazzo di Bruno Vespa o all’ottimismo di Carlo Rossella, definito «raccontatore militante», gli interventi raccolti su youTube sulla privatizzazione dell’acqua. Su quest’ultimo argomento, svetta il commento dello scrittore Erri De Luca:

«Chi si dice padrone dell’acqua deve dimostrare di esserlo anche delle nuvole e dell’arcobaleno… chi vuole impossessarsi dell’acqua sarà perseguitato dall’acqua». Bertolino ultimamente ha fatto riferimenti al suo prossimo «licenziamento». E pure i suoi ospiti: «Tanto lo sa che si chiude, vero?...». Ma il «giullare» di Rai 3, forse per un irresistibile cupio dissolvi, s’è spinto a paragonare l’allenatore (ex Inter) Mourinho e il premier Berlusconi, accomunati nella tendenza a creare avversari per ricompattare la squadra e a sbeffeggiare l’interlocutore scomodo, o soltanto sincero. Esilarante - ed è questo che preoccupa di più coloro che vor-

rebbero trasformare in legge l’ottimismo italico - è stata la sequenza degli spezzoni televisivi in cui i due davvero parevano somigliarsi nella scelta delle parole e delle stizzose indignazioni. Curzio Maltese, giornalista ospite di Bertolino, ha rilanciato la sua proposta: Mourinho come capo dell’opposizione in quanto ottimo comunicatore di quel che fa, e non fa. Il comico-presentatore pare si defili con una battuta, in realtà si tuffa di testa nel magma che sta denunciando. Come un giullare della Provenza, afferma con tono grave: «La nostra fortuna è quella di non essere capiti». Oppure: «Noi tentiamo di fornire risposte che noi stessi non comprendiamo». Sempre Maltese ha ricordato un episodio. Era in casa con la televisione accesa e a un certo punto sente Bersani che alza la voce. Ha quasi un sussulto di gioia, ma sua moglie glielo frantuma informandolo che il leader del Pd se la stava prendendo con il «compagno» Franceschini. Bastasse questo per rimanere in Rai…


MobyDICK

poesia

12 giugno 2010 • pagina 21

Il potere della voce è in Italia un grande editore che crede fermamente a un progetto, quello dell’audiolibro, tanto da produrre con costanza diversi titoli. E ci crede a tal punto che dopo Harry Potter eTiziano Terzani, La profezia di Celestino e Susanna Tamaro e tanti altri titoli oggi già in catalogo, ha voluto perfino azzardare un audiolibro di poesia. Così Salani, convinta con Rumi che «quando l’orecchio si affina diventa un occhio», ha appena pubblicato La grande poesia del mondo (2 cd, 15,80 euro), antologia a cura di Roberto Mussapi. Quindi, uno dei più grandi poeti contemporanei legge con appropriata varietà e con una voce sempre rimodulata sui singoli autori la poesia di ogni tempo e luogo, da Omero ai lirici greci fino ad alcuni grandi dell’Otto-Novecento come Rilke e Yeats passando tutte le stagioni e le massime firme dell’universo poetico riconosciuto. Il risultato è davvero sensibile e chi ascolta viene avvinto da una forte e coinvolgente personalità recitante. Entrando nello studio di Roberto Mussapi per un’intervista, la voce è tutto, ci si rende conto che, appunto, l’attrazione verso la dimensione della voce potrebbe perfino essere catalogata come maniacale. Vi campeggiano in numero ragguardevole radio e radioline di ogni genere e mini juke box da uno dei quali, con divertito orgoglio, Mussapi mi fa ascoltare la registrazione della prima canzone della sua infanzia. Un’attrazione fatale come ci spiega… «Nella mia infanzia potrei dire che la voce è stato tutto o, almeno, tanto. Quando tra amici ci si racconta di quel periodo ricordo confidenzialmente due oggetti di casa: la radio e il giradischi. Mio padre ci faceva ascoltare fiabe e musica dal fonografo e poi la sua fonovaligia, una sorta di portatile ante litteram. E la prima canzone che ho ascoltato, e alla quale resto ancora legato, è stata Diana di Paul Anka. Sentivo la radio con passione e i primi juke box m’incantavano, ero letteralmente attratto dalla scatola magica. Così anche nelle letture dell’infanzia mi sono orientato in qualche modo verso quei capolavori nei quali si poteva “ascoltare”una voce: Waste Land, Odissea o Moby Dick, per fare alcuni esempi».

C’

il club di calliope

di Francesco Napoli C’è evidentemente per lei una stretta connessione tra poesia e voce, così come i suoi ultimi libri e una particolare vocazione al teatro in versi testimoniano. La poesia ha la sua sede naturale nella pagina che tramanda ogni forma di sapere e quindi non penso a una sua espressione che sia solo orale. Ma un libro può certamente far sentire la sua voce esistente come brivido evanescente della parola pronunciata. Un autore si rilegge dopo aver pubblicato un suo libro, e lei hai riascoltato, immagino, questo audiolibro e con quale effetto?

Un audiolibro, concepito per il grande pubblico, dedicato ai più grandi poeti di tutti i tempi. Scelti e letti da un poeta contemporaneo, Roberto Mussapi, che - ci dice - da sempre ha prediletto l’ascolto...

Dall’alto, in senso orario: Roberto Mussapi, Dante Alighieri, Rainer Maria Rilke, William Shakespeare, Omero e Goethe Emozionante perché quando Luigi Spagnol, presidente della Salani, e quindi non un editore di nicchia o di poesia, mi propose questo audiolibro, voleva dire che lo pensava per un pubblico ampio, minore certo di quello di Harry Potter, ma comunque più vasto di quello normalmente considerato di poesia. Così ho curato le scelte e il copione, ho tradotto quasi tutte le opere da leggere anche alla luce di una lunga e felice esperienza radiofonica in Radio Rai.

E con quali criteri di scelta? Di gusto oggettivo mi verrebbe da dire, ma mi sembra un bell’insieme. A proposito di Rai, nel suo piccolo anche lei è stato epurato. Devo dire prima di tutto che per me l’esperienza in radio è stato il presupposto di questo audiolibro che altrimenti con buone probabilità non ci sarebbe neppure stato. Un’esperienza davvero indimenticabile quella delle mie trasmissioni in Rai. Per sette anni, al mattino o alla sera, con cicli a tema come Itaca nel 2004 o Samarcanda l’anno dopo, o con più libertà, con le due ultime serie di Il capo e la coda, ho avuto un grande seguito, soprattutto presso quegli ascoltatori che la poesia la conoscevano poco. Ho sempre cercato di non astrarre la poesia dalla vita e questa disposizione, al di là d’ogni formula radiofonica, ha, credo, dato alle mie trasmissioni una presa su un pubblico ben più ampio di quello della poesia canonicamente inteso. E poi cos’è successo? Poi Sergio Valzania, con il quale ho avuto un bellissimo e intenso rapporto anche perché ognuno dei temi e dei cicli delle trasmissioni è scaturito da un incontro con lui, direttore attento e di grande cultura e di profonde capacità di ascolto, al termine di una felice direzione è stato sostituito a Radio Tre. E da quel momento le cose sono misteriosamente cambiate. Nonostante io abbia dichiarato la mia disponibilità a continuare, non ho ricevuto neppure un “no grazie”… Dopo una collaborazione così lunga e proficua mi aspettavo tutt’altro. Torniamo a Salani e all’audiolibro che al momento le dà più soddisfazione. Qual è il poeta che sceglierebbe sempre? Dante, e poi Omero, mentre Shakespeare è la guida al teatro, alla componente drammatica della poesia. Per finire: un consiglio per l’ascolto dell’audiolibro. Lo farei in due modi diametralmente opposti: a casa, in silenzio e da solo, quasi in devoto ascolto, oppure come sottofondo, casomai in viaggio. Non è stato assolutamente pensato per un ascolto con carta e penna, a tavolino, non è un corso di letteratura italiana, deve scivolare come l’acqua, rinfrescando e rigenerando.

LA MAPPA CREATIVA DI LAGAZZI in libreria

CAPRI, POESIA

di Loretto Rafanelli

Capri, poesia: suoni volati via, frasi in germoglio di parlato e taciuto, catapultate dal silenzio verso l’assoluto di un diagramma ch’è morte rifiorita in vita, incorrotto tessuto che lega tempo a spazio, corpo a corpo. Versi scampati all’agguato della sintesi, suoni immobili, inuditi, fuggo nell’ombra della vostra follia per ritrovare l’uomo che fui, prima di ogni rinascita. Claudio Angelini

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uello che colpisce di Paolo Lagazzi non sono solo le sconfinate conoscenze (che vanno dalla letteratura alla filosofia, dalla religione alla musica all’arte); la straordinaria perizia nel sapere collegare i tratti di uno scrittore a quelli di altri scrittori, costruendo trame di variopinta bellezza; il ricco e spumeggiante stile, ciò che colpisce è, soprattutto, la sua capacità di dirci sempre qualcosa che sta oltre, che sta addirittura là dove lo stesso scrittore non ha avuto sentore di andare.Tutto ciò fa di questo critico un unicum. Lagazzi, anche nella sua recente raccolta di saggi (Forme della leggerezza, Archinto), più che scrivere di libri, costruisce, amando e rispettando le altrui scritture, uno straordinario percorso che contempla la ricchezza dello sguardo, l’intreccio intimo e segreto, la cifra destinale, l’emozione che lo anima. Lui stesso ci dice che il critico, seguendo Bachelard, non deve «soffocare, ottundere la letteratura… circoscrivere il senso… intrappolarla», ma affrontare i testi con la leggerezza e il rigore dell’immaginazione. Noi, infine, siamo certi che Lagazzi sia un grande scrittore, che si cala nelle pagine altrui per tessere una sua infinita mappa creativa.


i misteri dell’universo

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di Emilio Spedicato

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ualche anno fa girando per Torino vidi in una bancarella un libro di autore a me sconosciuto; mi attrasse il titolo: Tracce d’Eurasia in Egitto. Mi trovai a leggere un libro di estremo interesse, scritto da uno studioso, Seigbert Hummel, tuttora ignorato dalla maggior parte degli antropologi e storici dell’Asia centrale. E questo sebbene il suo lavoro sia fra i più fondamentali e illuminanti per la comprensione di quel cuore dell’Asia dove stanno le radici della nostra civiltà, che è la regione a nord di Himalaya e Karakorum.

Il libro era stato scritto in tedesco da uno studioso che, dotato di quattro dottorati (sinologia, tibetologia, mongologia, turcologia) e conoscitore di una trentina di lingue asiatiche, già direttore del Museo Antropologico di Lipsia, era stato confinato in un villaggio dei Sudeti dalle autorità comuniste alla loro presa di potere nella Germania dell’Est: Hummel era infatti anche pastore luterano e lasciare una persona religiosa in una posizione di importanza culturale era inammissibile in quei tempi; fu fortunato nel non perdere la vita grazie alla sua notorietà nel campo scientifico. Hummel passò quindi circa quarant’anni nel piccolo villaggio in mezzo alla foresta (certamente devastata dai fumi tossici delle fabbriche chimiche di Chemitz e Karl Marx Stadt), dove gli fu lasciata la sua vasta libreria. E nella pace di quel luogo scrisse libri di straordinario valore, che dopo la caduta del Muro il torinese Guido Vogliotti cominciò a tradurre in inglese. Sono pubblicati in India, a Dharamsala, centro dove risiede ufficialmente il Dalai Lama. Qui stanno varie istituzioni culturali tibetane, e biblioteche con piccola parte dell’immenso patrimonio librario tibetano che fu distrutto dai cinesi all’epoca della Rivoluzione culturale. In Tibet esistevano circa diecimila monasteri e il 99% fu distrutto. Ricordiamo, sulla testimonianza del nostro grandissimo tibetologo Giuseppe Tucci, che quasi tutti i monasteri avevano le loro biblio-

MobyDICK

ai confini della realtà

Tracce d’Egitto in Eurasia

fatto volentieri (in quella zona, dal lato boemo, avevo passato da studente universitario un mese di lavoro nei boschi, dove i giganteschi abeti morivano per l’inquinamento.... Ero a Nacetin, dove si vedevano le rovine di un villaggio di tedeschi dei Sudeti che, in circa un milione, erano stati espulsi dopo la guerra...). Di lì a poco Hummel morì, avendo io nel frattempo acquisito, gentile omaggio di Vogliotti, un altro suo libro, sul regno di Zhang Zhung. Prima di considerare alcune delle informazioni per me di maggiore interesse nei due libri di Hummel, è bene ricordare che lui aveva avuto

lavori di restauro, scoprì dietro una parete varie centinaia di documenti in lingue diverse (mongolo, tibetano, sanscrito, cinese, tocarico); questi documenti erano stati nascosti forse per impedirne la distruzione da parte dei mongoli di Gengis Khan (inizialmente Gengis era di religione animista), verso il 1200, e alcuni risalivano all’epoca di Giustiniano. Si sa di altri ritrovamenti, spesso bruciati dagli stessi scopritori timorosi di essere denunciati per furto (Owen Lattimore dice di un contadino che aveva riempito un intero carro). Quelli di Dung Huang, di cui ora la Cina chiede la restitu-

ghezza. Un popolo dai capelli biondi, occhi forse azzurri, vestiti simili a quelli degli scozzesi antichi. E fu trovato un dizionario zhangzhung-tibetano di estremo interesse. Il regno di Zhang Zhung occupava, sino a circa 1500 anni fa, la parte meridionale del Tibet, era caratterizzato dalla religione Bon, aveva nel sacro monte Kailas il suo riferimento principale, identificato con il monte Meru, sacro anche nei Veda. Chi scrive usando il dizionario zhang zhung ha potuto dare una possibile spiegazione di termini come dilmun, in sumero (cielo blu) e addirittura kami in giapponese (Dio = anima del cielo). Era una lingua franca, usata in un territorio molto vasto. Il libro Tracce d’Eurasia in Egitto potrebbe essere meglio intitolato Tracce d’Egitto in Eurasia, in quanto varie considerazioni indicano la civiltà del centro Asia e quella indiana del periodo vedico come anteriore di almeno

Una civiltà del deserto del Gobi, in quello che un tempo era il Tibet. Un popolo dai capelli biondi e dai vestiti simili a quelli degli scozzesi. Una scrittura di tipo geroglifico con centinaia di caratteri identici a quelli degli egizi. E sullo sfondo gli straordinari saggi di Hummel teche, di solito in disordine, ma spesso così ben dotate che si poteva letteralmente camminare su un tappeto di documenti e pagine spesso anche più di un metro! Letto il libro citato, contattai Vogliotti e da lui ebbi il telefono di Hummel che, pur conoscendo trenta lingue asiatiche, non parlava né inglese né francese. Cavandomela comunque con il tedesco, mi disse che, avendo superato i 90 anni e avendo problemi di salute, non poteva incontrarmi, cosa che avrei

accesso ad almeno una parte di quello straordinario ritrovamento di documenti antichi che avvenne a Dung Huang nel primo decennio del Novecento. Dung Huang è una località della Cina, ora nella provincia del Gansu, un tempo in Tibet; è situata agli inizi del deserto del Gobi, in questo punto sabbioso, e presso delle colline. Qui si trova uno dei più straordinari complessi buddisti dell’Asia, in parte formato da grotte naturali. Nel primo decennio del Novecento un monaco, impegnato in

zione, si salvarono, venendo acquistati da esploratori come Aurel Stein, Pelliot e un certo giapponese. Il loro studio diede risultati interessantissimi.

Furono trovati originali sanscriti di documenti perduti in India! Si trovarono scritti in tocarico, relativi a una civiltà del deserto prima nota solo da cenni in autori classici latini e greci, e recentemente anche da ritrovamenti archeologici, addirittura con corpi mummificati di oltre due metri di lun-

mille anni a quelle egizie e sumere. Fra le corrispondenze osservate da Hummel, di estremo interesse è che la popolazione dei Nakhi, ora localizzati nella Cina sud-occidentale, una volta pare vicino alle sorgenti del Fiume Giallo, avesse una scrittura di tipo geroglifico, con centinaia di caratteri identici a quelli degli egizi! Una coincidenza? Uno scambio? Difficile crederlo. Una origine comune? Forse, ma quando e come sia avvenuta la separazione è ancora da scoprire.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando,Giuseppe Baiocchi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato,Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza

Donne, coniugare il rigore con sviluppo e promozione natalità Promozione della natalità e dello sviluppo. Sono questi i principali obiettivi che il direttivo del dipartimento Pari opportunità del Pdl ha indicato per la prossima manovra finanziaria. Come dipartimento delle Pari opportunità condividiamo la necessità di impostare la manovra economica sulle due direttrici del rigore e dello sviluppo. Per questo, in sede di direttivo, abbiamo analizzato punto per punto la finanziaria. L’intenzione, come donne del Pdl, è quella di individuare alcuni tagli strategici che consentano di intervenire con misure in sostegno delle famiglie, delle donne e delle giovani coppie. In particolare, il problema della natalità riveste un’importanza centrale poiché destinato ad incidere in modo significativo su ogni aspetto della vita pubblica, dal lavoro alla previdenza, dalla propensione ai consumi fino alle scelte sanitarie e socio-assistenziali. Su questi argomenti il direttivo del dipartimento Pari opportunità formulerà a breve alcune proposte, per far sì che possano tradursi in emendamenti alla finanziaria condivisi e presentati dai relativi gruppi alla Camera dei Deputati e al Senato.

Barbara e Beatrice

NO AI PROFESSIONISTI DELL’ANTIMAFIA Il meridione ha bisogno di sociologi e politici onesti. Già nel 1987 Leonardo Sciascia, con uno stile che non aveva complicità con il potere, si scagliava contro coloro che approfittavano dell’Antimafia per fare carriera. È ora di finirla di parlare di mafia. È il momento di responsabilizzare i politici del Meridione e creare lavoro ed istruzione senza inganni. Il governo e i cittadini controllino. Il Meridione da troppo tempo è stato buttato su un pericoloso piano inclinato e condannato ad un avvenire pieno di incertezze.

Domenico S.

pone per importanza a livello delle maggiori città italiane. D’estate, non c’è bisogno di dirlo, Rimini è l’indiscussa capitale del turismo: ospitiamo un centro fieristico all’avanguardia fra i primi d’Italia; ospitiamo tutto l’anno eventi congressuali notevoli. Ultimamente abbiamo aperto due bellissime centri commerciali. Abbiamo due teatri e lì si esibiscono i più bei nomi della musica e dello spettacolo; e poi, che non guasta mai, anche una grande squadra di calcio, che milita in serie B. Sono convintissimo che sia molto difficile trovare una città che offre ciò che dà Rimini. Voi che ne dite?

Giancarlo Baldiserra

RIMINI: LA CAPITALE DEL TURISMO EUROPEO

BANCHE, FURTO BANCOMAT

Mi chiamo Baldiserra Giancarlo, conosciuto da tutti, italiani e straniei, come Baldo. Una vita dedicata alla carta stampata, prima come strillone, anche molto quotato avendo lavorato al seguito di diversi giri d’Italia, di molte tappe del tour e tante altre manifestazioni di sport e cronaca. Da quarant’anni sono edicolante nella capitale del turismo europeo: Rimini. Con gli amici sorgono sempre delle discussioni sullo sport e altri argomenti. Io, per esempio, contrariamente ad alcuni miei amici, sono convinto che Rimini sia una città che si

Cosa succede, in caso di smarrimento o sottrazione della carta bancomat, quando il blocco da parte dell’utente della carta avviene dopo il furto? Il fatto che le operazioni di anticipo contante disconosciute dal titolare siano state effettuate con la digitazione del pin, fa presumere che si sia verosimilmente verificata una violazione degli obblighi di diligenza, il che rende inapplicabile la limitazione di responsabilità. Da oggi, invece, con una nuova decisione dell’ Abf, Arbitro bancario finanziario istituito dalla Banca D’Italia, cambia il prece-

L’IMMAGINE

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Luci della California Nella foto in alto (in bianco e nero), gli insediamenti urbani di Los Angeles e Pasadena, visti dal Monte Wilson nel 1908, quando la popolazione totale delle due città non superava i 350mila abitanti. Nell’immagine in basso (a colori) la stessa scena fotografata esattamente un secolo dopo (2008)

LE VERITÀ NASCOSTE

Siberia, John Rambo e corruzione MOSCA. La corruzione fa arrabbiare. Soprattutto se avviene in ambiti sociali e politici fondati invece sulla morigeratezza della classe politica. Ecco perché un gruppo di sedicenti “partigiani” dell’Estremo oriente siberiano ha proclamato una vera e propria guerra contro i poliziotti russi, che accusano di corruzione e di «avere asservito il Paese ai loro fini». Gli agenti stanno ora frugando nella taiga vicino alle città di Kabarovsk e Vladivostok, dove il gruppo si nasconde, con elicotteri e l’aiuto delle forze speciali: ma per il momento non si è trovata traccia dei nuovi “guerriglieri”. Finora il gruppo ha portato avanti tre attacchi contro i poliziotti in altrettanti villaggi attorno alle due cittò: un agente è stato ucciso, altri tre sono stati feriti. I “partigiani”, come essi stessi si sono chiamati, avevano mandato nei mesi scorsi una lettera di ultimatum alla Procura e al Tribunale regionali, esigendo la destituzione dei dirigenti di tutte le strutture degli interni e minacciando in caso contrario di scatenare una vera e propria guerra. L’ultimatum è scaduto l’11 maggio. In alcuni volantini comparsi nelle due città, il gruppo ha affermato di «non poter più restare indifferente sugli abusi d’ufficio della polizia locale».

dente orientamento e il cliente può essere risarcito dalle stesse banche del danno subito. È il caso di una associato del Codici, al quale è stato rifiutato da parte di Intesa San Paolo il rimborso delle somme fraudolentemente prelevate attraverso il suo bancomat, data, a detta di Intesa San Paolo la comprovata incauta custodia del numero segreto della quale il nostro associato risulta essersi reso responsabile. Eppure il nostro iscritto ha adempiuto agli obblighi contrattuali previsti dalla banca, in quanto non ha trascritto il proprio codice in una forma facilmente riconoscibile. Il codice è stato riportato in forma criptata e segreto e ben custodito lontano dalla carta bancomat. Pertanto, con un ricorso, si è rivolto all’Abf, citando a tal proposito la normativa del Parlamento europeo che afferma che «nel caso di una operazione di pagamento non autorizzata, il prestatore di servizi di pagamento rimborsi senza indugio al pagatore l’importo dell’operazione di pagamento non autorizzata». Di conseguenza, secondo tale normativa, egli ha diritto di ottenere la ripetizione delle somme fraudolentemente prelevate mediante la sua carta bancomat, in quanto l’operazione non è stata autorizzata. Con grande soddisfazione il ricorso è stato accolto dall’Abf, che con questo nuovo provvedimento cambia il precedente orientamento. Difatti, l’acquisizione di dati da parte di terzi può prescindere da qualsiasi forma di negligenza dal titolare della carta. Questo nuovo orientamento rappresenta nel settore bancario una svolta importante alla tutela dei diritti dei consumatori e contro le numerose banche che più volte hanno tratto vantaggio dai precedenti orientamenti.

Ivano Giacomelli


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grandangolo Parlano gli analisti della Direzione investigativa antimafia

Così le mafie russe vogliono invadere l’Occidente Traffico d’armi e riciclaggio per costruire un impero di denaro in grado di corrompere l’economia di un Paese Ecco la ricostruzione di reti e attività dei signori russi della ”organizatsya” in Italia. I limiti dell’attuale legislazione per combattere le ”brigate” e il rodaggio della collaborazione con Mosca di Pierre Chiartano soldi della criminalità russa sembrano essere diventati invisibili in Italia, ma i radar degli investigatori della Direzione investigativa antimafia (Dia) sono perennemente accesi e puntati. E se la mafia diventa globale, anche l’antimafia dovrebbe diventare senza frontiere. «Mafia russa» è comunque un termine troppo generico. «Sarebbe meglio parlare di mafie»visto che ce ne sono diverse proveniente dalle ex repubbliche dell’impero sovietico. A parlare a liberal è un analista della Dia, l’agenzia in prima linea nel contrasto alle mafie ormai globali. L’anonimato è una politica della ”casa”. «Abbiamo a che fare con una serie di organizzazioni che talvolta potremmo definire mafie etniche» continua l’esperto della Fbi italiana. «Ucraina, cecena, georgiana» sono tanti i sodalizi criminali «sedimentati sul territorio d’origine che poi sviluppano i propri affari a livello mondiale». Sempre più complesso e difficile quindi il lavoro delle istituzioni che tentano di recidere i tentacoli di queste organizatsye. Spesso nei Paesi d’origine i confini tra lecito e illecito, legale e illegale, economia, politica e gruppi criminali, sono estremamente sottili. Le linee di demarcazione rischiano di essere grigie ed evanescenti. Di conseguenza per chi in-

I

daga diventa difficile mettere il timbro «penale» su attività che già in partenza risultano ambigue. Si deve aspettare che le leggi vengano violate durante le “trasferte”, in questo caso sul suolo italiano. «Mafia russa può essere una semplificazione a volte necessaria» che serve per raccontare una realtà aliena quanto pericolosa. Ad esempio la mafia

Con la criminalità italiana i ”vory v zakone” fanno accordi solo su singoli affari cecena «ha altre implicazioni, legate a quella situazione» che chiama al terrorismo e alla politica. Per non parlare della criminalità kossovara diventata esperta dell’immigrazione illegale. Ma in Italia chi ha piantato le tende? «Negli anni abbiamo avuto le varie “brigate”» spiega l’analista, per intendere i gruppi russi. Oggi, ad esempio, da Kiev arrivano quelli che chiamano Tle (Tabacchi lavorati esteri) e sfruttano la presenza di

una forte comunità Ucraina, specialmente nel sud Italia. «Intorno a Napoli esiste un grosso insediamento». Il metodo è quello della polverizzazione dei carichi. «Piccole quantità ad alta frequenza attraverso Tarvisio e altri valichi». Ciò che fa pensare è la possibilità di collegamenti con camorra e mafia pugliese. «Anche la possibilità di scontri con interessi locali» che potrebbero anche scatenare future guerre tra criminalità, spiegano alla Dia.

Nel 2001 con l’operazione Vlada (per i dettagli leggi scheda qui a fianco) si aprì una finestra sulla mafia slava. «L’operazione non si concluse benissimo per problemi di giurisdizione. Il carico d’armi da guerra fu catturato nell’Adriatico, ma in acque internazionali» spiegano alla Dia. «I trafficanti riuscirono a dimostrare che la nave non aveva fatto scalo a Venezia, cioè in territorio italiano, di conseguenza fu tutto annullato per difetto di giurisdizione in Cassazione». L’operazione era riconducibile a un gruppo finanziario al cui vertice si collocava una società petrolifera di Alexander Zhukov, arrestato dagli uomini della Dia di Torino il 7 maggio 2001. Il problema dei russi è che utilizzano l’Italia come base. Lo hanno fatto

per il traffico d’armi, «in quel periodo Zukhov era spesso in Sardegna» dove animava la vita della Costa Smeralda. «Dal nostro Paese organizzavano traffici che si svolgevano in altri parti del mondo». Probabilmente era gente bene informata sulle leggi. Ma pare che l’Italia non sia più così amata dai mafiosi russi. «Le operazioni più importanti oggi hanno la cabina di regia in Spagna, Germania e Inghilterra. L’Italia è utilizzata per il riciclaggio». Però alla Dia non nascondono le difficoltà che incontrano nel dimostrare le attività di “ripulitura” dei capitali sporchi. «Il problema è dimostrare il presupposto, cioè che il denaro riutilizzato in Italia abbia provenienza illegale» perché di solito sono frutto di operazioni criminali fatte in madre patria o in giro per il mondo.

«Come fai a dimostrarlo?» visto anche che nei Paesi d’origine le autorità e anche le leggi non sono così pressanti contro le mafie. Quando, denaro alla mano, comprano immobili, è difficile tracciare il percorso dei soldi. Un esempio capita nel 2005. L’indagine preliminare, avviata a seguito di un’investigazione preventiva della Dia, riguarda un gruppo di cittadini russi, residenti in provincia di Milano, sospettati di essere collegati ad


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Dia e Ros braccano oligarchi e affaristi sulle rotte del traffico di armi ed esseri umani

Ecco le operazioni che hanno punito gli zar del crimine nel nostro Paese di Etienne Pramotton a Dia porta a termine ogni anno una serie innumerevole di operazioni di contrasto alle mafie. Tra queste alcune sono state una pietra miliare per delineare i contorni delle nuove organizzazioni criminali con radici nell’est europeo, in particolare nelle repubbliche dell’ex impero sovietico. Tra queste l’operazione «Vlada», come segnalato dagli analisti della Direzione investigativa antimafia nazionale. L’operazione era stata avviata nel 1998 dalla Dia di Torino, allo scopo di far luce sulle attività illecite in Italia ed all’estero di cittadini originari dell’est-europeo. Si sospettavano collegamenti con la criminalità organizzata russa. L’attività investigativa permise di individuare precise responsabilità a carico di un sodalizio criminale, composto da soggetti di varie nazionalità. L’attività riguardava un vasto traffico internazionale di armi da guerra «dirette in parte nella ex Jugoslavia e in parte nella Sierra Leone». Nell’aprile del Duemila, a conclusione della prima fase d’indagini, la Direzione distrettuale antimafia di Torino aveva emesso cinque ordinanze di custodia cautelare in carcere, nei confronti di stranieri e residenti all’estero. Nei mesi successivi l’operazione fu allargata a Germania, Belgio ed Austria e scattarono le manette per altri mafiosi. Il commercio di armi, insieme ad altre attività (come il riciclaggio di capitali), veniva effettuato attraverso una serie di imprese in diversi Paesi del mondo.

L

A sinistra, un agente della Dia, direzione investigativa antimafia (a destra, il logo) Sopra, Vincent Cassel e Viggo Mortensen in “La promessa dell’assassino”, film sulla mafia russa ambienti della criminalità finanziaria dell’Europa orientale. L’organizzazione era stata messa sotto sorveglianza anche dalla Guardia di Finanza, che stava svolgendo indagini per riciclaggio di denaro, transitato su conti correnti bancari italiani. Forse riconducibile al pagamento di commissioni illegali per la vendita di armamenti da guerra da parte di un ente governativo russo al Perù.

Alla luce di questi collegamenti, le indagini di Dia e dalle Fiamme Gialle avevano consentito al Gip del Tribunale di Trento di emettere, nell’ottobre 2005, nove misure cautelari in carcere, a carico di altrettanti cittadini stranieri, per il riciclaggio di oltre 62 milioni di dollari di “tangenti”. «Si trattava di cittadini russi residenti a Milano». Determinante era stato il contributo fornito, in sede di

Russi, ucraini e georgiani sono i più pericolosi, l’Italia è il centro dei loro affari rogatorie internazionali, da numerosi organismi di polizia e giudiziari di Svizzera, Perù, Isola di Man, Jersey e Guernsey, Lussemburgo e Malta. Insomma già da allora i paradisi del riciclaggio collaboravano. «Il flusso di denaro che transitava per l’Italia era diretto in Sudamerica». «Erano attività formalmente legali, ma con un accordo per il pagamento di tangenti» spiega l’esperto dell’Antimafia. Anche in questo caso, in sede di rogatorie internazionali il procedimento penale si è arenato, anche se alla Dia hanno utilizzato un termine più “colorito”. In pratica quando si ha a che fare con triangolazioni estere e soprattutto con Stati con cui non è previsto alcun accordo di collaborazione, oppure ci sono, ma in presenza di legislazioni penali differenti, «purtroppo si rischia il flop». «Con la Russia esiste un accordo bilaterale da due anni» ci spiegano che è ancora in fase di «rodaggio». «C’è un

notevole sforzo di collaborazione con i russi. La Dia ha rapporti direttamente con il ministero degli Interni di Mosca. Nell’ambito dell’accordo sviluppiamo accertamenti con il dipartimento antiriciclaggio». Al momento sulle lavanderie di soldi sporchi non ci sono ancora evidenze giudiziarie, ma «l’attenzione è altissima». Il pericolo è quello d’inquinamento del mercato finanziario legale, con soldi della mafia russa. «Russi, ucraini e georgiani» sono certamente i gruppi più pericolosi. Ma è un problema concreto per tutta l’Europa. I georgiani hanno ramificazioni in tutto il continente e il business più importante? «Riciclaggio». A marzo in Spagna, ci sono stati 69 arresti, di membri di un gruppo di georgiani. Il capobanda, Kakeber Sciuscianascvili, viveva dirigendo in assoluta tranquillità la sua organizzazione. L’inchiesta è durata parecchi mesi ed ha coinvolto la Svizzera, la Germania, l’Austria, l’ Italia e la Francia. In Italia le attività di criminalità finanziaria sembrano essersi «inabissate». I settori più gettonati sono quello immobiliare e turistico, con l’acquisto di alberghi e strutture collegate. Spesso si utilizzano teste di legno italiane «in genere piccole società». Ma nessun settore può essere tralasciato. Certo che pensando alla Russia, viene subito in mente uno dei comparti economici più importanti per l’Europa occidentale: la vendita di gas. Ma alla Dia le bocche sono cucite in proposito. Sulle alleanze tra organizatsye e mafie italiane alla Dia frenano.

«Alleanza è una parola eccessiva, sarebbe meglio paralare di patti di nonbelligeranza. Meglio ancora di accordi su affari e transazioni singole». Sarebbe meglio definirli rapporti «commerciali». Insomma quando serve si fanno affari insieme, poi ognuno per la sua strada. «Agiscono così l’ndrangheta, i cartelli colombiani, la criminalità albanese, quella russa. Sono accordi che valgono per la durata del business». Anche in Italia funziona allo stesso modo. «Nel sud Pontino c’erano accordi tra mafia,‘ndrangheta e camorra per il mercato ortofrutticolo di Fondi. Ma da lì a dire che c’era un accordo federativo, ce ne corre».

Tutte erano riconducibili ad un gruppo finanziario al cui vertice si collocava una società petrolifera di Alexander Zhukov (da non confondere con l’omonimo ex vicepremier russo), arrestato dagli uomini della Dia di Torino il 7 maggio 2001. Nel settembre 2001, all’aeroporto di Istambul, venne catturato Kostantinos Dafermos, altro membro dell’organizzazione. Il tutto era nato dal sequestro, nel 1994, di un carico di 30mila kalashnikov, 10 mila e 800 razzi Katiuscia, 50 rampe di lancio e 11mila pezzi anticarro Rpg 7 e Rpg 9. In tutto duemila tonnellate di armi nascoste sulla nave portacontai-

ner Jadran Express, bloccata nel canale di Otranto da un cacciatorpediniere Nato e poi ormeggiata a Taranto. È la magistratura francese, tempo dopo, ad avvisare la Dda torinese del carico della Jadran che viene sequestrato nel 1999, ben 5 anni dopo la sua cattura. La holding di Zhukov, la Sintez era piena di dipendenti provenienti dalla Kontora, cioè la galassia dei servizi segreti dell’ex Unione sovietica e del periodo successivo. Con legami inquietanti con la Solnetsevskaja, la potente «brigata del Sole» russa. Da segnalare nel contrasto alla organizatsya anche il Reparto operativo speciale dei Carabinieri. I Ros nel 2002 avevano concluso una brillante operazione, tra le tante, che aveva scoperto una vera macchina da soldi dei “criminali per legge”.

Ottanta arresti, trentanove avvisi di garanzia, smantellata una rete internazionale che trafficava esseri umani, e in particolare donne da avviare alla prostituzione. Erano questi i risultati dell’operazione Girasole 2, condotta dal sostituto procuratore della Direzione distrettuale antimafia di Perugia, Antonella Duchini, e dal Ros dei carabinieri. Già l’operazione Girasole 1 aveva portato all’arresto di Vincenzo e Luici Caiazzo, ex affiliati del clan di Cutolo poi transitati nella struttura dei Casalesi. La dinamica è quella collaudata nell’est europeo: finte agenzie di viaggio procurano falsi visti di ingresso attraverso funzionari compiacenti nelle ambasciate e albergatori corrotti, per far entrare legalmente le persone nei paesi Schengen. Nell’inchiesta erano finiti anche nomi eccellenti, a dimostrazione della pericolosità di queste organizzazioni criminali e della loro capacità di penetrazione in ogni ambiente sociale ed economico del nostro Peaese. Innovativa la modalità dell’indagine, che aveva visto il coordinamento delle polizie dell’area Schengen e l’appoggio delle polizie dell’Ucrania, della Bielorussia e della Federazione russa. Cervello dell’organizzazione sarebbe la mafia russa che avrebbe costruito contatti stretti con la nostra camorra.


mondo

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Tiranni. Un anno fa si svolgevano le elezioni contestate dall’Onda Verde. E da molti leader degli stati confinanti, intimoriti dalle ambizioni del regime

Teheran e gli emiri Il Golfo arabo ha paura dell’atomica di Ahmadinejad Perché rende l’Iran il Paese più potente della regione di Luisa Arezzo anno scorso, il 12 giugno, l’Iran è andato al voto per le presidenziali. La vittoria di Ahmadinejad venne immediatamente contestata non solo (com’era prevedibile) dagli oppositori interni, ma da ampi settori dell’opinione pubblica internazionale. Dalle votazioni con gli elettori sotto minaccia, allo spoglio truccato delle schede, gli addebiti al regime iraniano rivelarono il volto ferreo di governanti estremamente autoritari e illiberali. A voler oggi definire gli ingredienti essenziali della realtà iraniana, basterebbe rifarsi ai peggiori esempi storicamente a tutti noti delle dittature. Con l’aggravante, in questo caso specifico, della versione teocratica ed assolutista dell’islamismo intransigente che per bocca della guida suprema l’Ayatollah Khamanei e del presidente Ahmadinejad, appena qualche giorno fa ha pronosticato la prossima caduta e la sparizione dello stato ebraico e che definisce Israele un tumore canceroso da eliminare insieme all’America ed ai suoi alleati sionisti. Propaganda, si dirà, e in un certo senso di questo si tratta.

L’

Ma i fatti che accadono non sono certo meno preoccupanti della violenza verbale: la decisione dell’Onda Verde di rinunciare alla manifestazione calendarizzata per oggi, è un chiaro segnale di quanto essa sia stata intimidita. E non a caso, proprio ieri Barack Obama ha finalmente detto (dopo un anno!) che l’Occidente democratico deve sostenerla. Ma se le preoccupazioni dell’Occidente sono note a tutti, vi è un’intera regione, quella rappresentata dai Paesi del Golfo, che non viene mai presa in considerazione. Vuoi perché a suo modo costituisce la “parte stabile” del Medioriente, vuoi perché gli Emirati intrigano solo per il côté da mille e una notte che si favoleggia intorno alla vita degli emiri. Ma questo è un errore. Perché la loro posizione nei confronti del regime, data la vicinanza geografica, rappresenta un fattore di contenimento (o viceversa) del regime. E del suo programma nucleare. Visto che la paura dell’atomica iraniana ha innescato (o sta per innescare) una corsa al nucleare fra questi Paesi intimoriti dallo strapotere della Repubblica islamica. Non tutti, come vedremo. Alcuni di questi (vedi L’Oman, il Qatar e l’emirato di Dubai), sono la piattaforma da cui parte l’aggiramento delle sanzioni. Per cominciare, i Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Ccg): Arabia Saudita, Bahrain, Emirati Arabi Uniti (eau), Kuwait, Qatar e Oman, sono più che preoccupati per il programma nucleare di Tehe-

ran che mina direttamente la loro sicurezza e quella dell’intera regione del Golfo. Tutti loro, con la sola parziale eccezione dell’Arabia Saudita, hanno da sempre demandato la garanzia della propria sicurezza agli Stati Uniti, circostanza che aumenta la loro sensazione di insicurezza dal momento in cui nessuno di questi Paesi ha una propria adeguata “profondità strategica” per fronteggiare la minaccia iraniana. D’altro canto, come ben spiega un recente rapporto del Centro Studi Internazionali (Ce.S.I.), resiste una certa reticenza ad integrare i propri apparati difensivi, dovuta soprattutto al timore, da parte dei piccoli emirati, di perdere parte della propria autonomia decisionale a favore dell’Arabia Saudita, lo Stato più grande e politicamente più influente dell’area. I Paesi del Golfo stanno cercando di mantenere una posizione di equilibrio tra la ricerca di protezione e il tentativo di non schierarsi apertamente contro lo scomodo vicino iraniano. I sei membri del Ccg controllano, insieme, l’intera costa occidentale del Golfo Persico, fatta eccezione per i circa 55 chilometri di costa irachena. Aspetto che gli conferisce un ruolo di fondamentale importanza nell’effettiva applicazione delle nuove sanzioni nei confronti di Teheran, per la vicinanza alla sponda iraniana el Golfo. Ma anche perché serve una piena collaborazione da parte di tutti questi Paesi se si vuole raggiungere l’obiettivo di isolare economicamente l’Iran. Non è ad esempio un mistero per nessuno che da Dubai, negli Emirati Arabi, passino la maggior parte dei commerci diretti verso l’Iran in modo da aggirare il regime sanzionatorio. L’equilibrio e l’accordo fra i vari attori dell’area è però altalenante: non precario, ma evidentemente influenzato dall’intero puzzle mediorientale. Innanzitutto non c’è, come abbiamo visto, una leadership forte che rappresenti tutti, e in assenza di questo potere nessuno è così potente da poter controbilanciare il regime degli ayatollah.

turale che entrambi esercitano sulla regione vicino-orientale e, in definitiva, sulla scena mondiale. Si tratta di Arabia Saudita e Iran, due Paesi che, pur presentando vari elementi in comune, sono caratterizzati da una frattura profonda, molto più profonda del Golfo che li separa e la cui ambivalenza nel nome è già di per sé un chiaro segnale della tendenza, da parte di ognuna delle due potenze in questione, di rivendicazione del controllo sull’area a discapito del Paese antagonista. Riad ha due motivi per temere l’atomica iraniana (motivo per cui ha aperto alla corsa di riarmo nucleare nell’intera regione). Per cominciare, i propri impianti di raffinazione e di trasporto del greggio, concentrati in larga maggioranza nella provincia orientale, potrebbero diventare uno degli obiettivi primari di un attacco missilistico iraniano, così da mettere in ginocchio l’economia saudita basata sulle rendite petrolifere. Inoltre, sul piano ideologico, Riad si trova alla testa, insieme all’Egitto, di quello schieramento di Paesi arabi a maggioranza sunnita che vedono nell’Iran e nei suoi alleati una minaccia per la leadership del mondo arabo. Fino ad oggi, l’Arabia Suadita ha risposto a queste minacce con una strategia di basso profilo. Non ha mai cercato apertamente la protezione di Washington (benché è sotto la sua pressione che è nato il Ccg nel 1981) consentendo una presenza di assetti militari Usa sul proprio territorio, né ha mai concesso il suo avallo alla creazione di una forte alleanza anti-iraniana sotto la leader-

Da un lato, è cominciata una pericolosa corsa al nucleare nell’area; dall’altro alcuni emirati si offrono come base per aggirare le sanzioni

Arabia Saudita. Lungo le due sponde del Golfo che alcuni chiamano Arabico altri Persico si fronteggiano due colossi, la cui grandezza si misura non solo con l’estensione territoriale dei due Paesi, ma soprattutto con il peso economico, politico e cul-


mondo In apertura, rielaborazione di uno scorcio di Dubai. A destra, il presidente del Ccg: Abdul Rahman Ibn Hamad Al-Attiyah (Qatar). Sotto, una cartina della Penisola arabica; il board del Ccg e l’emiro del Qatar: Hamad bin Khalifa al-Thani. A sinistra, Ahmadinejad

ship americana. Ma passi importanti non sono stati compiuti nemmeno in direzione di Ahmadinejad. E dopo averlo invitato nel 2007 a partecipare all’Hajj, non sono seguite altre iniziative da parte di Riad. E anche le relazioni intrattenute da quest’ultima con Damasco possono essere lette alla luce della volontà della casa saudita di trovare una certa stabilità in Libano (dove sostengono il primo ministro Hariri).

Emirati Arabi Uniti. Le razioni tra gli Emirati e l’Iran sono complicate e ambigue. Oltre all’iniscurezza generata dal programma nucleare del regime degli ayatollah, resta la tensione tra i due Paesi per il controllo di tre isole del Golfo: Abu Musa e le due isole Tunb. Disputa peraltro già in corso tra la Persia e l’impero ottomano prima e lo Shah e la Gran Bretagna poi. La questione, però, ormai cronica, non sembra essere un fattore di destabilizzazione nelle relazioni tra questi due Paesi. Nonostante i quotidiani locali dicano spesso il contrario, l’atteggiamento delle autorità emiratine continua a non cercare lo scontro aperto con Teheran. Come già scritto, non è un mistero che la capitale iraniana aggiri le sanzioni internazionali e alimenti i suoi commerci internazionali grazie alla collaborazione di Du-

bai. Il fatto poi che oltre 300mila iraniani vivano nel piccolo emirato, crea indubbie difficoltà a rompere le relazioni con l’altra sponda dello stretto di Hormuz.

Bahrain. Tra i Paesi più piccoli del Golfo, il Bahrain è quello ad avere maggiori timori di un Iran dotato di armi nucleari, a causa delle periodiche rivendicazioni da parte di Teheran circa la propria autorità dell’isola, considerata la quattordicesima provincia iraniana. Tali pretese affondano le proprie radici nel passato, quando il Bahrain faceva parte dell’impero persiano. Quando l’isola è diventata indipendente dalla Gran Bretagna nel 1971, l’Iran ha prima tentato di rianimare le sue pretese sul territorio e poi, per volontà dello stesso Shah, ha rinunciato. Rinuncia chiaramente non riconosciuta dall’attuale Repubblica islamica. L’importanza dei rapporti è anche figlia del fatto che quasi il 70 percento della popolazione sia sciita, anche se quest’ultima non sembra interessata a tornare sotto l’ala protettrice dei “fratelli” iraniani. Detto questo, le relazioni rimangono ambivalenti: a volte conciliatorie e a volte ferme. Un’ultima cosa: il Bahrain ha sempre dichiarato che mai darà il permesso di utilizzare il proprio territorio per lanciare operazioni militari contro Ahmadinejad. Kuwait. Le relazioni tra il Kuwait e l’Iran hanno subito una forte scossa dalla notizia, nei primi giorni di maggio, della scoperta di una presunta cellula delle Guardie Rivoluzionarie iraniane attiva sul territorio kuwaitiano per azioni di spionaggio. Ciò ha riattivato

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tutte le paure delle autorità di Kuwait City, finora tenute sopite, circa le mire dell’Iran nei propri confronti. E ha portato le autorità kuwaitiane a chiedere una revisione dell’accordo di sicurezza all’interno del Ccg, accordo che esse stesse avevano precedentemente bloccato. L’attività della cellula, a quanto pare in via di espansione anche in Bahrain ed Emirati Arabi, ha fatto emergere le vulnerabilità non solo del Kuwait, ma di tutti i Paesi del Golfo, nei confronti di un’azione di manipolazione e di ampliamento della propria influenza portata avanti dalle autorità di Teheran, non solo sfruttando la componente sciita delle popolazioni di questi Paesi, ma anche l’attività delle Forze al-Quds, braccio delle guardie rivoluzionarie responsabile delle operazioni all’estero.

Oman. Tra i Paesi del Golfo, Qatar e Oman sono quelli che hanno decisamente messo da parte qualsiasi remora circa l’atteggiamento dell’Iran e hanno scelto di mantenere buone relazioni con Teheran. L’Oman intrattiene storicamente ottimi rapporti commerciali con il regime, rapporti che rappresentano una risorsa essenziale per l’economia di un Paese che non offre molte opportunità. Grazie anche alla propria posizione geografica, l’Oman è rimasto neutrale durante il conflitto tra Iraq e Iran, scelta politica che ha permesso di conservare rapporti sempre cordiali tra Muscat e Teheran, tanto da arrivare a sviluppare, dall’agosto 2008, programmi militari congiunti. Qatar. Eccolo qui il miglior alleato del regime nell’area del Golfo. Questo, sia per difendere i propri interessi economici, sia per l’ambizione qatariota di svolgere un ruolo di mediatore in chiave regionale. Le connessioni economiche con l’Iran sono forti: il giacimento offshore qatariota di gas naturale North Field, il più grande al mondo, è geologicamente contiguo a quello iraniano di South Pars, circostanza che potrebbe rappresentare un pretesto per un potenziale conflitto. Anche se i due Paesi hanno trovato uno stabile compromesso, la difficile se non impossibile soluzione della questione rappresenta un forte incentivo affinché il Qatar collabori con il vicino. C’è poi l’attitudine dell’Emiro, Hamad bin Khalifa Al Thani, a voler ritagliare per il proprio Paese un ruolo diplomatico nello scenario regionale di primo piano, in grado di rappresentare una potenziale alternativa ai canali tradizionali garantiti da Stati più grandi e potenti, come l’Egitto e l’Arabia Saudita. nel maggio 2008, il Qatar ha svolto un importante ruolo di mediatore nella crisi libanese per la ricerca di una soluzione al conflitto istituzionale che aveva paralizzato il Paese per diciotto mesi. Il fatto che da tale accordo sia uscita molto sovradimensionata la presenza di Hezbollah nell’esecutivo del Paese dei cedri è stata attribuita, da molti critici dell’accordo, proprio dall’atteggiamento diplomatico del Qatar, troppo appiattito sulle posizioni del vicino iraniano. Inoltre il Qatar, tramite l’emiro Hamad e suo cugino, il premier e ministro degli Esteri Hamad bin Jassem AlThani, ha portato avanti un’azione di avvicinamento all’Iran senza pari nella regione, fino ad arrivare, nel 2008, a invitare Ahmadinejad al summit annuale del Consiglio di cooperazione del Golfo.


quadrante

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Industria verde. Continua il percorso degli Usa verso le fonti alternative l Clean air act del presidente Usa, Barack Obama, va avanti. A dispetto delle previsioni, nella notte fra giovedì e venerdì, il Senato Usa ha respinto la risoluzione proposta dall’opposizione repubblicana – sostenuta anche da una fronda di democratici – che mirava a impedire all’Environmental protection agency, l’agenzia federale per la protezione dell’ambiente, di regolare le emissioni di gas a effetto serra. I senatori hanno bocciato l’emendamento con 53 voti contrari e 47 a favore. La rivoluzionaria politica ambientale è stata prevista dall’amministrazione Obama fin dall’inizio del suo mandato e dovrebbe modificare l’intero sistema di rifornimento energetico Usa. Tuttavia un maggiore spinta è stata data dal disastro petrolifero nel Golfo del Messico. La Casa Bianca ha voluto cavalcare l’emozione collettiva per provare a svincolare il Paese dal giogo petrolifero. Questa operazione di affrancamento dall’oro nero è possibile però solo se gli Usa riescono a trasformarla in una questione di politica economica globale, che coinvolga in modo attivo tutti i suoi alleati. Ma anche quei Paesi con cui Washington non vanta rapporti di dialogo positivo. Circa il 90 per cento del consumo mondiale di energia trae origine dai combustibili fossili – petrolio, gas naturale e carbone.

I

Un sistema monopolistico che ha generato un vincolo smodato fra produttori e consumatori, un altrettanto elevato tasso di emissione di anidride carbonica e la progressiva riduzione delle scorte, sia quelle in riserva sia quelle ancora da estrarre. I grandi colossi industriali – in un certo senso rappre-

Obama vuole rilanciare la green economy La Casa Bianca cavalca l’emozione del disastro ecologico per varare una nuova politica energetica di Antonio Picasso

to era ottenere l’indipendenza dal petrolio straniero, approntare nuovi standard di sicurezza e prevenzione e, nei tempi immediati, imporre limiti più rigidi sulla emissione di Co2 per le automobili. Infatti lo scorso marzo

L’obiettivo del presidente è superare le trappole delle lobby petrolifere americane e svincolare gli Stati Uniti dalla schiavitù dell’oro nero sentati dai membri del G8 – dipendono da quei Paesi che navigano sui cosiddetti super giant, gli immensi giacimenti dei Paesi arabi, dell’Asia centrale, in parte dell’America Latina (offshore) e di alcune regioni africane. Durante la sua campagna elettorale, Obama aveva promesso che, una volta usciti dalla recessione, gli Usa avrebbero effettuato una riconversione industriale in favore dell’ambiente. Si era parlato di «new deal verde». In termini concreti il proget-

Washington aveva approvato un regolamento transitorio, a lungo rinviato dalla Presidenza Bush, che a partire dal 2011 fisserà nuove regole per imporre alle case automobilistiche di costruire entro il 2020 mezzi in grado di percorrere mediamente 35 miglia a gallone, cioè circa 15 chilometri con un litro, contro i 14 attuali. Il disastro petrolifero della Deepwater Horizon ha costretto gli Usa a ridurre i tempi per gli interventi pianificati. Tuttavia, al di là delle buone intenzio-

Diversificano anche Cina, Germania, Norvegia e Israele

Il mercato delle rinnovabili Se Obama dice basta con il petrolio, bisogna capire quali siano le strade alternative percorribili affinché tutto venga rivoluzionato senza che però se ne sentano i cambiamenti. Negli ultimi trent’anni sono state le stesse compagnie petrolifere occidentali le prime a impegnarsi nella ricerca di fonti energetiche che possano sostituire l’oro nero e il gas naturale, oppure ridurne i consumi. Solo cinque anni fa, le energie rinnovabili soddisfavano il 7 per cento della domanda mondiale. Oggi il settore, il cui volume di affari è di oltre 38 miliardi di dollari, è cresciuto di tre punti percentuali. In testa Germania e la Cina, la cui macchina industriale, pur assetata di oro nero, è carente di risorse interne. Pechino ha dunque sposato anche la causa delle energie rinnovabili, come l’idroelettri-

ca. Per l’energia eolica meritano attenzione gli investimenti della norvegese Statoil-Hydro nei fiordi del Mare del Nord e sulle coste delle Isole britanniche. Differenti sono poi i casi del “carbone pulito” e dell’energia solare. Il primo costituisce il tentativo di introdurre nuovi processi di combustione a minore impatto ambientale, ancora in fase sperimentale. Sul solare invece sono l’industria israeliana e quella tedesca a fare da traino. Vogliono sfruttare l’immensa superficie del deserto del Sahara. Infine resta il nodo nucleare, che per molti – specie negli Usa e in Francia – è la soluzione migliore. Le critiche rimandano ai costi (realizzazione, gestione ed eventuale smantellamento delle centrali), ai rischi di scarsa sicurezza e alla effettiva capacità di sostituirsi agli idrocarburi.

ni di Obama e delle iniziative prettamente nazionali, ciò che Washington è chiamata a fare è porsi a capo di una cordata internazionale perché la rivoluzione ambientale abbia davvero successo. Non è da escludere che questo sia realizzabile in sede Onu. Le fonti energetiche alternative possono essere di vario tipo: da quelle rinnovabili (per esempio l’eolica e l’energia solare), alla tanto contestata ma produttiva energia nucleare. Resta senza risposta però se queste risorse – i cui costi di realizzazione non sono inferiori a quelli per l’estrazione di idrocarburi – siano in grado di sostenere la domanda mondiale di energia.

L’obiettivo di Obama ha inoltre due ostacoli di tipo politico-sociologici da superare. Da una parte è necessario riscuotere la disponibilità degli altri Paesi, ma anche delle multinazionali dell’energia e dei trasporti a convertire l’intero comparto industriale. Come potranno reagire le multinazionali petrolifere, comprese quelle Usa, al nuovo corso ambientalista? Dall’altra – è forse lo scoglio più difficile – è necessario intervenire a livello collettivo affinché i grandi consumatori di gas e petrolio, così come i micro consumatori, cambino mentalità. Oltre il 50 per cento del petrolio del mondo è utilizzato nel settore dei trasporti. Nel momento in cui si accende il motore di un’automobile, per una qualsiasi ragione, si brucia petrolio, di conseguenza se ne mantiene in vita il settore e si genera inquinamento. Questo ragionamento il singolo consumatore non è portato abitualmente a farlo. Gli osservatori più critici delle politiche ambientaliste promosse da Obama e in parte sposate dal neo primo Ministro britannico, David Cameron, spiegano che il vero e unico modo per svincolare il mondo dal petrolio è aumentare in modo esponenziale i prezzi della benzina. Un’iniziativa drastica, che suona come una provocazione, ma che rivoluzionerebbe la vita quotidiana di tutti. Se Obama, una volta superate le trappole delle lobby petrolifere sue connazionali, riuscisse anche a trasmettere questo messaggio all’ opinione pubblica avrebbe davvero sganciato gli Stati Uniti dall’oro nero. Una volta che vi siano riusciti gli Usa, è facile che i suoi partner europei e dell’Estremo Oriente facciano altrettanto.


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Le diplomazie in moto per risolvere l’emergenza umanitaria

La premier Rosa Otundayeva parla di «conflitto etnico»

Piano europeo per allentare il blocco navale di Gaza

Scontri in Kirghizistan, 28 morti e 400 feriti

BRUXELLES. I ministri degli

OSH. Ventotto morti e oltre 400 feriti di cui decine gravi. È questo il bilancio provvisorio delle vittime provocate dagli scontri verificatisi a Osh, ai confini meridionali del Kirghizistan. Dalla capitale uzbeka Tashkent, la premier ad interim kirghiza, Rosa Otunbayeva, ha definito gli incidenti come frutto di un «conflitto etnico fra gruppi kirghizi e uzbeki». Secondo le agenzie russe, le operazioni di guerriglia sembrano destinate a durare ancora a lungo, in quanto numerosi combattenti stanno affluendo dai villaggi nei quartieri del centro città. Si è rivelato fondato, dunque, l’allarme lanciato dal portavoce delle autorità sanitarie, che aveva dichiarato a Bishkek, la

Esteri dei 27 Paesi Ue lanceranno un appello lunedì ad Israle perché ponga fine al blocco della striscia di Gaza. Proporranno un «nuovo meccanismo» che attraverso strettissimi controlli sui trasporti degli aiuti, dal mittente ai destinatari, possa fugare i timori di Gerusalemme. Israele sospetta che dietro lo scudo umanitario si nascondano in realtà armi per i palestinesi. «La situazione a Gaza resta motivo di grande preoccupazione», si legge nel documento preliminare preparato per il consiglio dei ministri di lunedì a Lussemburgo. «Il blocco israeliano di Gaza – sottolinea il documento – è inaccettabile oltre che controproducente anche per la sicurezza di Israele».

Il documento esprime poi rammarico per la perdita di vite umane durante il blitz delle forze israeliane sulla nave della Fredom flottilla, diretta verso Gaza per distribuire aiuti umanitari. Blitz che ha causato la morte di nove attivisti. L’Ue chiederà a Gerusalemme un’inchiesta «credibile, imparziale e indipendente». Per la prima volta, secondo le indiscrezioni che filtrano sulla stampa israeliana, si parla anche della presenza di poliziotti dell’Autorità

Ancora una strage dei narcos messicani Altri 19 vittime nella guerra della droga di Pierre Chiartano renta uomini armati scatenano l’inferno in una città messicana. Continua la guerra a suon di morti fra bande di trafficanti. C’è stata una vera strage in un centro di riabilitazione per tossicodipenti. Almeno 19 persone sono state uccise e altre sei ferite, giovedì notte. Una trentina di uomini armati hanno fatto irruzione in un istituto di recupero a Chihuahua, nel nord del Messico. Lo hanno reso noto ieri le forze di sicurezza. L’azione del commando ricorda altre simili, compiute in Messico negli scorsi anni soprattutto a Ciudad Juarez, città al confine con gli Stati Uniti e considerata tra le più pericolose e violente del Paese. Nel settembre del 2009, quattro killer assassinarono 18 persone in un centro di riabilitazione dalla tossicodipendenza. Queste strutture fungono spesso da rifugio per piccoli trafficanti di droga, che sperano di nascondersi così allo sguardo della polizia e alle rappresaglie delle bande rivali. La guerra tra i cartelli della droga per il lucroso traffico di stupefacenti destinati agli Stati Uniti, in testa alla classifica mondiale per il consumo di cocaina, è costato la vita a 23mila persone negli ultimi tre anni e mezzo, malgrado il dispiegamento di 50mila soldati in tutto il Messico. Se gli Usa importano droga nel senso contrario arrivano carichi d’armi che rendono questi gruppi di trafficanti di roga particolarmente pericolosi. Obama già da tempo ha dichiarato guerra alle bande messicane che sempre più spesso allargavano le loro incursioni “militari”oltre confine. È stato sviluppato un miglior coordinamento tra le forze di sicurezza dei due Paesi e le guardi di confine fedrali sono state dotate di equipaggiamenti ancora più sofisticati. Chihuahua è la capitale dell’omonimo Stato e il Fe y Vida è il nome del centro di recupero dove si è svolta la mattanza. I feriti sono stati trasportati in ospedale, tra loro molti pazienti del presidio sanitario. Fonti non ufficiali hanno riferito che tra le vittime potrebbero esserci affiliati al cartello di Sinaloa guidato da Joaquin «El Cha-

T

po» Guzman. Le bande di narcos messicane sono famose per l’efferatezza delle loro azioni. Pochi giorni fa ad esempio sono stai trovati dalla polizia dei copri smebrati e marchiati. I killer avevano torturato e poi hanno «estratto» i cuori delle vittime. Sul corpo era poi stato inciso una zeta, lettera usata come firma dai Los Zetas, una delle più importanti organizzazioni nel mondo dei narcos. Il gruppo si è reso protagonista di massacri sanguinosi.

Da mesi i Los Zetas sono in guerra con gli ex alleati del cartello del Golfo. Un contrasto esploso per questioni personali unite alla rivalità per il controllo del traffico di droga verso gli Stati Uniti. Oltre alla pista dei narcos, non si escludono altre ipotesi investigative. Alcuni testimoni – sulla cui attendibilità la pllizia non si è espressa – avrebbero riferito che nella zona si riunivano persone che «praticavano strani riti». Non si può dunque escludere una deriva satanista dei narcos. Il fatto che preoccupa è che questi episodi sono avvenuti non lontano da cancun capitale del turismo messicano e destinazione per i vacanzieri di mezzo mondo. E non va meglio per i protagonisti della guerra ai narcotrafficanti. A Taxco, cittadina conosciuta per le miniere d’argento nello Stato di Guerrero. La polizia locale da giorni sta conducendo degli scavi in un antica miniera: fino ad oggi sono stati rinvenuti i resti di decine di persone. Un bilancio ancora provvisorio. Restano, infatti, da esplorare altre sezioni della miniera. Gli investigatori sono arrivati alla fossa comune dopo l’numerosi arresti di criminali che avrebbero confessato alcuni degli omicidi. Tra le poche vittime identificate ci sono il direttore di un penitenziario e Felix Batista, uno specialista anti-sequestri con un’agenzia in Texas. Cubano-americano, ex maggiore dell’esercito Usa, con alle spalle più di cento casi risolti (con gli ostaggi tornati a casa) era in Messico per un giro di conferenze sul tema della sicurezza. Era caduto in una trappola all’uscita di un ristorante di Saltillo.

Una trentina di uomini armati ha fatto irruzione in un istituto di recupero a Chihuahua, nel nord del Paese

nazionale palestinese ai valichi di frontiera. Un elemento che finora Israele aveva sempre rifiutato. Sul fronte delle indagini della commissione che il governo Netanyahu ha detto di voler varare, sono incorso intensi negoziati tra Israele e Stati uniti sulla natura e la composizione della commissione d’inchiesta. A presiederla dovrebbe essere un ex giudice della corte suprema israeliana e sarà composta da membri nominati dal governo israeliano, ma con la presenza di un osservatore statunitense e uno europeo. Pesano le parole di Obama che mercoledì, incontrando Abu Mazen, aveva detto che la situazione a Gaza è «insostenibile».

capitale, che il numero delle vittime sarebbe potuto aumentare, dopo che i primi scontri avevano prodotto dodici morti e centoventi feriti.

Nonostante i vertici di Bishkek abbiano dichiarato lo stato d’emergenza, e inviato i tank dell’esercito con il fine di sedare gli scontri, la situazione resta allo stato attuale lungi dall’essere sotto controllo. Torna critica dunque la situazione dello stato divenuto indipendente nel 1991, dopo che nel marzo scorso la leader dell’opposizione Nel marzo 2010 la leader dell’opposizione si recava a Mosca per chiedere appoggio al governo russo. Dopo averlo ottenuto è scoppiata una progressiva rivolta nella capitale. Nel marzo 2010 la leader dell’opposizione Rosa Otunbayev, si era recata a Mosca per chiedere l’appoggio del governo russo contro l’ex presidente Bakiyev. Già ad aprile scorso, violenti scontri di piazza avevano portato alla fuga del presidente e all’autoproclamazione di un nuovo governo ad interim guidato dalla Otunbaieva. Rifugiatosi nella città di Osh, Bakiyev rifiuta di riconoscere il nuovo governo, dichiarando che il suo è l’unico legittimato da una elezione democratica.


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il personaggio della settimana Avvocato ravennate, un passato nel Pri, è alla guida del Grande Oriente d’Italia dal 1999

Raffi, il Gran Maestro che ha spaccato il Pd Rivendica il merito di avere aperto le logge a fotografi e telecamere e di aver fatto della massoneria una casa di vetro. Dopo i casi di Ancona e Scarlino ha rivelato il numero dei “democrat” affiliati: più di 4mila di Riccardo Paradisi vvocato, nato in quel di Bagnocavallo (Ravenna) sessantasei fa, Gustavo Raffi, gran maestro del Grande Oriente d’Italia dal 1999, non è un massone che passa inosservato. Anche perché alla discrezione o addirittura alla segretezza – come vorrebbero clichè e tradizione della storia massonica – Raffi non ci tiene affatto.

A

Anzi questo signore massiccio e a tutto tondo romagnolo, a cui anche i più acerrimi avversari interni – e vedremo chi sono – riconoscono una trascinante simpatia e carica umana, dell’esibizione dei presunti arcani si fa vanto, fiero d’aver spalancato porte e finestre delle logge, di posare per riviste e quotidiani con lo sfondo di templi e pavimenti a scacchi, esibendo grembiuli e guanti bianchi. L’apertura di palazzo Giustiniani al pubblico, ai giornali, alle telecamere, nelle intenzioni di Raffi risponde all’esigenza di fare della massoneria un palazzo di vetro, di toglierle il cappuccio, di far evaporare per sempre le nuvole di zolfo che come larve s’erano depositate sull’istituzione soprattutto dopo lo scandalo della P2. Una polemica quella antimassonica che se in ambito cattolico, dopo gli acuti postrisorgimentali, è rimasta sottotraccia ha invece impegnato il discorso pubblico della sinistra in questi ultimi convulsi decenni di storia repubblicana. Sicchè quanto sta avvenendo in questi giorni nel Pd, dopo i casi di Ancona e Scarlino (Grosseto), rappresenta un trauma serio nella psicologia e nell’identità della sinistra italiana. E i fatti parlano da soli dell’imbarazzo democrat per i grembiuli di casa. Ad

Ancona dopo che l’assessore Ezio Gabrielli ammette la sua appartenenza alla loggia massonica Guido Monina, affiliata al “Grande Oriente d’Italia, viene immediatamente sollevato dall’incarico dal sindaco Gramillano per il venir meno “del rapporto fiduciario”. A Scarlino il sindaco Maurizio Bizzarri riceve una foto che ritrae l’assessore al Bilancio Guido Mario Destri durante una riunione della loggia Guarrazzi di Follonica. Anche qui la reazione procede con la rapidità dell’istinto: “O rinunci alla massoneria o ti dimetti”. Due casi di provincia, che però arrivano a Roma. Il Pd si interroga, prima discretamente poi sempre più clamorosamente, su quanto sta avvenendo. Anche perché nel codice etico del partito guidato da Pierluigi Bersani sta scritto a chiare lettere che «gli aderenti si impegnano a non far parte di associazioni che comportino vincoli di segretezza o comunque a carattere riserva-

del partito spiega che se è vero che la parola massone non compare tuttavia «quando si parla di vincoli di segretezza il riferimento è alle logge. Quindi è vietato agli iscritti del Pd far parte della massoneria». Ma se il testo è chiaro per Castagnetti lo è molto meno per Luigi Berlinguer, presidente della Commissione di garanzia dei democrat: «Non c’è un pregiudizio verso la massoneria ma verso le società segrete», e le logge non lo sono più. Insomma, «Chi vuole entrare nel Pd deve dichiarare che è iscritto a una società di quel tipo». Poi l’eurodeputato aggiunge che al Pd possono iscriversi anche gli aderenti ad altre associazioni, «come l’Opus Dei, purché si dimostri le società non fanno attività di lobby». Il riflesso condizionato del sospetto è scattato di nuovo immediato: Giuseppe Vaccaro, deputato vicino ad Enrico Letta, ha chiesto a Berlinguer di chiarire se lui stresso sia massone, perché in tal caso si sarebbe do-

Bersani glissa sulla compatibilità tra tessera e muratoria: «Vedremo» to, ovvero che comportino forme di mutuo sostengo tali da porre in pericolo il principio di uguaglianza di fronte alla legge e l’imparzialità delle pubbliche istituzioni». D’accordo, la parola massoneria non compare esplicitamente nel testo, ma Pierluigi Castagnetti – cattolico, ex Margherita – capo della commissione incaricata della manutenzione del codice etico

vuto astenere dalle decisioni della commissione di Garanzia su questo tema. L’ex ministro della scuola ha smentito con ”amarezza” di essere iscritto alla massoneria mentre cattolici insistono nel chiedere che venga resa chiara l’incompatibilità tra Pd e massoneria. Il cattolico Beppe Fioroni, leader dell’area popolare del Pd rilancia:«La questione riveste un


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carattere politico e il segretario deve dare una risposta». Ma la sollecitazione non viene raccolta: Bersani dice che: «ci sono altri problemi ora».

Un silenzio che magari si spiega con i numeri che gentilmente il maestro del Grande Oriente d’Italia, nel vivo della polemica, fornisce sugli iscritti del Pd alla massoneria. Ebbene su 21mila iscritti a 744 logge massoniche oltre 4mila sono del Pd. Diavolo d’un Raffi. Che per ora non fornisce dati simili sul Pdl e la destra, dove magari la sensibilità antimassonica è meno esibita ma dove si scoprirerrebero, come garantiscono fonti interne a palazzo Giustiniani, imbarazzi e doppie obbedienze: una pubblica, quella a Santa Romana Chiesa e una alla massoneria. Un doppia appartenenza più in odore di opportunismo che di sincretismo. Insomma non si sarebbe di fronte a discepoli di Albert Lantoine, storico del-

iscritti sono saliti da 12 a 20mila aderenti, le logge sono ormai 744». E certo quello che sta accadendo nel Pd aiuta il lavoro di Raffi, non lo ostacola. Si perché se è vero che il maggior partito della sinistra italiana, il pulpito da cui in certi settori si continua a parlare di doppio stato e di terzi livelli, è così tanto abitato di fratelli muratori, è evidente che pregiudizi e polemiche antimassoniche perdono molta della loro forza. D’altra parte lo stesso Raffi – che non è mai stato di sinistra ed è stato segretario provinciale del Pri di Ravenna – lascia spesso intendere senza dirlo che il suo cuore batte a sinistra. Nel 2009 aveva chiesto ai massoni di lavorare per un ‘intelligente multiculturalità e in un convegno dedicato a Giuseppe Garibaldi, a occhi semichiusi, aveva ricordato le brigate Garibaldi della Resistenza. Simpatico, umano, anche “de sinistra” dunque Gustavo Raffi, la cui elezione al vertice del

I tradizionalisti gli contestano l’ultima elezione e di aver profanato la dottrina con pubblicità e proselitismo la massoneria e massone lui stesso, membro del Supremo Consiglio dei 33 di Francia, che in un volumetto a stampa intitolato Lettre au souvrain Pontile (Parigi 1936) invocava a Papa Pio XI armisitizio e tregua tra logge e chiesa cattolica, nell’intento di unire le forze da un lato contro il comunismo ateo e dall’altro contro il risorgente neopaganesimo che avrebbe preso forma compiuta nel mostro nazista. Questioni sottili, forse troppo per un massoneria che sembra interessata all’implemento quantitativo. E che per voce del Gran Maestro Raffi esibisce l’impennata di adesioni dell’ultimo anno: «Abbiamo conseguito il massimo storico di richieste di iniziazione in tutte le nostre logge; dal 1999 al 2010 gli

Goi ha suscitato però dure polemiche. Raffi avrebbe modificato lo statuto dell’Istituzione – secondo le accuse dei suoi oppositori – per eternarsi alla sua guida che occupa dal 1999. ll Gran Maestro si ricandida e riesce a essere confermato ma raggiunge appena il 43% dei consensi mentre il suo oppositore, Natale Di Luca sfiora il 40%. Soprattutto c’è un numro elevato di astenutiche dimostra la grande perplessità dei massoni del Grande Oriente dopo una campagna elettorale velenosissima andata avanti per mesi a colpi di sciabola. Si perché quella di Raffi resta comunque una guida molto discussa. Il cartello che ha candidato come suo antagonista il medico legale Natale Di Luca infatti – 60 anni docente alla Sapienza di Roma –

non attacca il Gran maestro solo per una gestione personalistica dell’Istituzione, lo critica soprattutto per avere secolarizzato il Goi, per averne profanato la tradizione sapienziale ed esoterica, riservando un’attenzione parossistica alla pubblicità esterna, al proselitismo, alla promozione di sé. «Non occorre pubblicità alcuna invece – dichiarano i dissidenti – solo dall’osservanza incessante dei doveri e dall’esercizio perenne delle virtù il massone assume quel carisma che, per naturale induzione, porterà i profani a bussare alla porta del Tempio. Le antiche regole ammonivano i massoni ad avere un determinato linguaggio tra loro e a dissimulare la loro identità assumendo altro linguaggio in presenza dei profani.Tutto ciò sempre stridette, stride e striderà con la pretesa tutta profana di diffondere il“pensiero massonico”. Da dieci anni almeno invece – continua il manifesto anti-Raffi – nella più grande delle obbedienze italiane solo la falsa luce dei metalli ha fatto da cornice alla pretesa di far conoscere la Massoneria, erigendo osceni monumenti ai tre cattivi compagni che spensero la vita del Supremo Costruttore, ponendo in una assurda auge l’ignoranza, il fanatismo, l’ambizione».

I tradizionalisti si lamentano anche di altro: «Un pernicioso culto della personalità, capillarmente diffuso e destinato a confondere gli animi più deboli e facili ad appagarsi nelle forme più meschine di una frustrata ambizione». Le accuse si fanno meno filosofiche quando si appuntano sulla gestione del Grande Oriente d’Italia:«Per fare proselitismo e pubblicità, in dieci anni, sono andati milioni di euro. Cifre figuranti in bilanci approvati a forza e in ritagli di tempo. Occorre una urgente riforma di tutto il sistema. Le società esterne che governano immobili e pubblicazioni devono tornare sotto un’unica regia del G.O.I. che deve trasformarsi in una fondazione. Si depositino i bilanci presso le sedi competenti affinché ogni occhio possa avervi accesso, anche profano se serve. Si distingua il sacro dal profano. Si torni alla pace della nostra ritualità e all’ombra della nostra riservatezza». Tanto più come ha sostenuto Aldo Mola proprio su liberal, il più importante storico della massoneria italiana, il rapporto tra l’autorevolezza del Grande Oriente e il numero dei suoi aderenti è sempre stato inversamente proporzionale. «Dal 1880 al 1889 Il Goi aveva un numero modesto di affiliati, 250, 300 all’anno ma è il periodo in cui l’istituzione ha contato davvero molto. Sono gli anni in cui la Massoneria è quella di Crispi, Carducci, Zanardelli, Aurelio Saffi, Nunzio Nasi. Insomma la vera classe dirigente italiana che aveva il controllo dell’organizzazione culturale, che era capace di una straordinaria azione politica. Dai primi del Novecento fino al 1917 invece – continua Mola – le “iniziazioni” (le adesioni ndr) saltano a 2mila all’anno: è il periodo in cui il Gran Maestri sono prima Nathan e poi Ettore Ferrari. È lui che imprime un nuovo orientamento al Grande Oriente, che incoraggia e patrocina la svolta ultrademocraticista, razionalista e anticlericale. Da qui la spinta alla candidatura di Nathan a sindaco i Roma, e l’appoggio dei blocchi popolari e delle reti anticlericali». Ed è proprio a Nathan che Raffi si ricollega replicando alle accuse di chi gli contesta una successione di mandati oltre al consentito che «anche Nathan rimase a capo del G.O.I. per 13 anni e si dimise solo per problemi di salute. È un precedente illustre no?» Senonché è proprio la deriva laicista nathaniana che innesta le divisioni in se-

Un Venerabile democratico e piacione Gustavo Raffi, nato 66 anni fa a Bagnocavallo, in provincia di Ravenna, stato iniziato alla massoneria nel 1968 ed è maestro libero muratore dal 1970. Ha fondato la loggia massonica La pigneta di Ravenna. Dal 1999 è Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, la più antica e numerosa comunione massonica italiana. Dopo la prima elezione, la giunta massonica da lui presieduta ha introdotto la possibilità – sino ad allora preclusa – che il Gran Maestro fosse eletto per un altro mandato, che Raffi ha poi svolto dal 2004 al 2009. Nel 2009 si è presentato per la terza volta alle elezioni ed è stato nuovamente eletto con una maggioranza relativa del 43,38%, mentre i suoi avversari hanno riportato, rispettivamente, il 39,25% (Di Luca), il 13,37% (Losano) ed il 4,00% (Catanese). La candidatura ha suscitato contestazioni nell’ambito del Grande Oriente stesso. È stato segretario provinciale di Ravenna del Partito Repubblicano Italiano dal 1989 al 1990, e consigliere nazionale del partito tra il 1990 ed il 1992. Con la sua direzione il G.O.I. ha raggiunto oltre 20mila adesioni

no alla massoneria: «Sulla richiesta del Goi di vietare l’insegnamento della religione a scuola si consuma la scissione della Gran Loggia d’Italia (la massoneria di Piazza del Gesù) per iniziativa di Saverio Fera. Che aveva capito come quella presa dal Goi fosse una deriva politicista e un errore. La mozione Bissolati infatti, che fa sua la mozione del Goi, ottiene in Parlamento solo il 12% dei consensi. La massoneria subisce una sconfitta, un autogol: è la bocciatura della linea dell’impegno diretto in politica».

Anche Raffi ha investito molto nella difesa a oltranza della laicità della scuola, nella polemica antivaticana, nella battaglie laiciste. «Una sindrome di Stoccolma – la definisce Mola – il vecchio complesso di non avere nemici a sinistra. Una strategia che non ha portato nessun risultato. Raffi si è anche vantato di avere avuto Bakunin in loggia. Bel vanto: Bakunin dopo essere entrato nel Grande Oriente si organizzò subito una sua massoneria. Se ne fregava di iniziazioni. E del resto anche Raffi ha detto che a lui dei riti importa ben poco». Insomma se il senso e lo scopo della Massoneria – continua Mola – è moltiplichiamoci e abbiamo più sedi allora sarebbe più sensato impegnarsi in un partito politico o per rendere florida una realtà immobiliare. Ma non tutta la Massoneria italiana, spiega Mola, si dibatte in questa situazione. «La Massoneria di Piazza del Gesù per esempio – estranea all’idea del potere e dell’influenza politica – vive con serenità e senza troppe contraddizioni la sua funzione di scuola iniziatica. Che è quella soprattutto di coltivare e meditare una tradizione regolare che ha come fine l’affinamento e la nobilitazione dell’uomo e gli ideali di fraternità e libertà».


ULTIMAPAGINA Eventi. Nei play off rivive l’eterna sfida tra Celtics e Lakers, quella che ha fatto la storia del basket

Nba: ritorna l’orgoglio di Marco Cherubini

fantastici Chicago Bulls del mitico Micheal Jordan e con i Los Angeles Lakers dell’altrettanto favoloso Kobe Bryant, a sbiancare una squadra tutta di color nero. Perché per la Nba la questione razziale è cosa ormai vecchia, anzi morta e sepolta nei difficili anni ’50. Oggi si può vincere con un centro catalano, con un playmaker serbo, con campioni che arrivano da tutto il mondo, Italia compresa (Bargnani, Belinelli e Gallinari) attratti dalla pallacanestro più bella, divertente e competitiva che ci sia. Un basket che è come l’America di Lucio Dalla, sta dall’altra parte della Luna e che incolla appassionati di tutto il globo a seguire in diretta tv (vendute a più di 100 televisioni straniere) le finali Nba a qualsiasi ora del giorno e della notte.

eat L.A. Come al solito le magliette con questa scritta, rigorosamente bianca in campo verde o viceversa, sono andate a ruba. Come due anni fa, quando l’impresa riuscì e fece felice una città, uno Stato. Battere Los Angeles per quelli che amano il basket a Boston e in tutto il Massachussets è qualcosa di più del semplice valore sportivo, di una battaglia agonistica tra giganti di ben oltre 2 metri, che guadagnano come le star di Hollywood e vivono idolatrati molto più di quanto non avvenga qua da noi con i calciatori più famosi. Beat L.A. è uno stile di vita, che attraverso gli anni, nel basket, ha contrapposto due grandissime squadre di pallacanestro professioniste: i Boston Celtics e i Los Angeles Lakers, facendone un classico della vita sociale statunitense.

B

Da una parte i bianchi irlandesi di Boston, dall’altra i colored della California: gioco rude e concreto a Est, fantasia e spettacolo a Ovest. Ma la molla razziale, ancora molto forte nel secondo dopoguerra, ha lasciato il posto negli anni ad una sfida che ha surrogato quello che è stato definito, per i Celtics, il Boston Pride, l’orgoglio bostoniano. Questione di appartenza, di spirito. Un po’come laurearsi ad Harward. Certo, nella Nba, la lega professionistica americana, i valori contano, ma i quattrini comandano. Eppure, al netto di milioni di dollari, di contratti da nababbi, di diritti televisivi (e sponsor) pronti a svenarsi pur di trasmettere in prime-time (lo fa la Abc) le finale dei play offs, esiste ancora uno spirito. Quello che l’altra notte, al TD Garden di Boston, ha permesso ai Celtics di pareggiare la serie 2 a 2. I play offs si giocano al meglio delle 7 gare, chi arriva a 4 è campione. Oggi l’orgoglio dei Celtics non è più affidato alle icone di giocatori bianchi leggendari come Red Auebarch o Larry Bird. Oggi per battere il più forte giocatore in assoluto, il 31enne Kobe Bryant, numero 24 dei Los Angeles, il consorzio di imprenditori del Massachussets proprietario della squadra ha voluto un esercito di campioni tutti rigorosamente di colore. Dal piccolissimo Nate Robinson, 1 metro e 75 d’altezza - il più piccolo giocatore di basket americano, ma gambe esplosive (da fermo salta un metro e 10 centimetri) - al gigante Kevin Garnett, dieci anni più vecchio e 38 centimetri più alto del suo play maker; da Big Baby Davis, un vero e proprio armadio a quattro ante di 2 metri e 03 centimetri per 135 chili che due notti fa ha spazzato i tabelloni in gara 4, garantendo il pareggio in una gara che poteva decidere tutta la serie, ai talentuosi ma non sempre continui Ray Allen, tiratore micidiale, Rusheed Wallace, veterano di tante battaglie nell’Nba, Rajon Rondo, guardia e playmaker eccezionale all’occorrenza grande inventore di giocate ai limiti della leggi della fisica, e Paul Pierce, il simbolo dei Celtics, l’uomo che dal 1999 ha vissuto la trasformazione del club, da ultima della Lega, dopo i fasti degli anni 60’ e ’80 alla rinascita importante. Tutti neri, tutti orgogliosi di vestire la maglia biancoverde. Compreso il tecnico, Doc Rivers, classe ’61, un grande passato da cestista a New York e San Antonio e poi una fulgida carriera sulla panchina di Boston, col titolo storico, il diciassettesimo, conquistato due anni fa dopo una astinenza che era durata addirittura 22 anni. Grazie a lui, agli investimenti,

Se poi davanti ci sono Celtis contro Lakers, la questione è ancora più seria, più sentita, più gustosa e divertente. E non a caso questa serie 2010 è equilibratissima: nelle prime due sfide a Los Angeles vittoria dei Lakers e pareggio dei Celtics; a Boston stessa storia, con le zampate di Bryant e Fisher in gara 3 e la replica sontuosa due notti fa con Robinson e Davis. 2 a 2 e domani notte allo Staples Center di L.A. gara 5 che promette altre scintille. A seguire dalle tribune i campioni che hanno fatto la storia di questi due club straordinari: Walton, Angie e Mc

BOSTONIANO L’altra sera la squadra di Allen, Robinson e Garnett ha pareggiato i conti con Kobe Bryant e compagni: lo scontro di sempre va avanti, per la gioia degli sponsor e delle televisioni

l’orgoglio dei Celtics è tornato di moda. Ed è stato un orgoglio nero, perfettamente integrato nella waspissima Boston.

È curioso come l’integrazione razziale sia più appannaggio di Los Angeles, con il catalano Pau Gasol bianco latte nei suoi 213 centimetri per 115 chili e col tecnico Phil Jackson, il Mourinho della Nba, che ha vinto tutto con i

Hale per i bostoniani, Magic Johnson e Kareen Abdul Jabbar per i lacustri. Già, i Lakers, nome di un club (franchigia) che fu di Minneapolis (ecco il perché dei Laghi) e che poi cedette il marchio e il nome alla squadra di Los Angeles. Dal ’54 agli anni ’80 hanno combattuto quasi sempre contro Boston. Ed ora, a chiudere la prima decade del terzo millennio, tornano di moda con questa sfida, la più bella e famosa dell’Nba. Condita come sempre dal Boston Celtics Pride, l’orgoglio di appartenere a questo storico club biancoverde e di mostrare, senza timori e senza remore, la maglietta con la scritta Beat L.A.


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