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La morale è imperniata

sulla questione se il piacere preceda o segua il dolore Samuel Butler

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MARTEDÌ 15 GIUGNO 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Dopo il rinvio improvviso (e polemico) della scorsa settimana, ieri sera è ripreso il braccio di ferro tra i due leader

Angela insiste: vuole due Euro Serrato confronto a Berlino tra Sarkozy e la Merkel: il francese vuole un Direttorio comune. La tedesca pretende di dividere l’Unione in serie A e serie B: a seconda del debito pubblico IL DECISIONISMO SOFT

di Francesco Pacifico

Intercettazioni in coda alla Camera

hiamarlo «il grande freddo» forse è esagerato, eppure a quanto pare i rapporti tra Merkel e Sarkozy non sono idilliaci, in questo periodo. La scorsa settimana, un vertice tra i due è saltato all’ultimo momento e ieri doveva essere il giorno della tregua. Il Cancelliere e il Presidente si sono visti a Berlino, ma non hanno trovato un accordo: ala Germania chiede ancora che l’Ue multi quei paesi che hanno un debito troppo alto, la Francia vuole un direttorio per la gesione della politica economica europea. Ma sulle due esigenze pesano veti incrociati, anche se le dichiarazioni ufficiali cercano di stemperare il conflitto. Insomma, il problema è sempre il solito: Merkel vuole un’Europa a due velocità per difendersi dalla crisi dell’Euro, mentre Sarkozy cerca di resistere.

Tremonti e Bonanni: la strana coppia

Fini detta C i tempi: prima la manovra

di Gianfranco Polillo

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Riflessioni d’autore tra storia e attualità

Vi spiego perché la nostra moneta può anche morire Un giorno, nel 1998, Fazio mi disse: «Hanno fatto una frittata con troppe uova». Aveva ragione... Giancarlo Galli • pagina 4

a pagina 2

Netta presa di posizione del presidente della Camera: «Dopo due anni, perché tanta fretta di fare la legge entro l’estate?» di Riccardo Paradisi

Classe dirigente Elogio “preventivo” del mister, scritto prima del fischio d’inizio di Italia-Paraguay

Attualità del cristianesimo√Un intervento del grande storico sul nuovo libro di Novak

Marcello Lippi, il destino di un leader

Oggi il pericolo è “l’ateismo debole”

di Paola Binetti

di Ernst Nolte

eri sera siamo stati tutti incollati davanti allo schermo, con il cuore in Sudafrica e con una passione sportiva che si risveglia soprattutto in queste occasioni, quando sembra che ci stiamo giocando onore e identità. Non c’è dubbio il calcio in Italia sia una delle cose che più ci fa sentire italiani, anche nel bel mezzo di un campionato nazionale, quando la lotta per lo scudetto acuisce tensioni e ambizioni… E ieri sera ci siamo giocati la nostra partita con tanta voglia di vincere, anzi di stravincere! Siamo scesi in campo accanto ad ognuno dei nostri giocatori, arlando consigli e rabbia. a pagina 10

ichael Novak, americano di origine slovacca, ha sempre condotto la vita dello scrittore e intellettuale cattolico impegnato. È stato studente alla Gregoriana di Roma e poi ad Harvard. Durante la seconda sessione del Concilio Vaticano II fu corrispondente da Roma per alcune riviste cattoliche statunitensi, ed era considerato nel numero delle forze progressiste. All’inizio degli anni Ottanta lavorava come diplomatico americano, ha scritto diversi libri, e persino due romanzi, e attualmente è titolare di una cattedra all’American Enterprise Institute, oltre che responsabile dagli Usa di questo giornale. a pagina 12

ROMA. «Chi conosce i regolamenti della Camera e la Costituzione sa bene quali saranno i tempi: non c’è nessuna fretta di votare sulle intercettazioni». Gianfranco Fini ancora una volta spiazza la “sua”maggioranza. Il suo orientamento è di far votare prima la manovra e poi le interecettazioni. Gli stessi suoi fedelissimi sembrano essere stati presi in contropiede: «Non abbiamo intenzione di porre degli aut aut, e se ci si dicesse“prendere o lasciare”– aveva detto Italo Bocchino – noi prenderemmo, ma faremmo notare che questo testo ha delle controindicazioni». Detta così la linea dei finiani sul Ddl intercettazioni alla vigilia del suo passaggio alla Camera assomiglia molto alla riposta che quel tale diede in tempo di guerra alla pattuglia che lo intimava a rincasare essendo scattato il coprifuoco: «D’accordo, vado a casa, ma non dormo». a pagina 6 seg1,00 ue a p(10,00 agina 9CON EURO

i Giulio Tremonti e Raffaele Bonanni si parla sempre di più come di una «strana coppia». Incontri pubblici e riservati, convegni, meeting, come l’ultimo di domenica scorsa. È un continuo. La cosa non sarebbe sorprendente se si prescindesse dal carattere dei due personaggi. Schivo e difficile il primo, sornione e bonario il secondo. Caratteri che sembrano compensarsi in un sodalizio che ha, anche, un riflesso politico. Perché, se Bonanni ha cambiato la Cisl (nessun rapporto di sudditanza con il più forte sindacato italiano, la Cgil), insieme con Tremonti ha formato la coppia del decisionismo morbido. a pagina 2

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I QUADERNI)

• ANNO XV •

NUMERO

114 •

WWW.LIBERAL.IT

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• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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pagina 2 • 15 giugno 2010

Equilibri. Delude le aspettative l’incontro di ieri tra i leader di Germania e Francia. Lontano l’accordo sul governo economico dell’area

L’Ue dei veti incrociati

Merkel vuole due Euro. Sarkozy vuole un Direttorio europeo. Così, anche al nuovo vertice di Berlino, continua il braccio di ferro di Francesco Pacifico

ROMA. Non saranno i sorrisi di circostanza o le dichiarazioni di buona volontà a nascondere le distanze tra Angela Merkel e Nicolas Sarkozy. Tra la prima e la seconda economia dell’Eurozona. Ancora di più dopo il vertice di ieri a Berlino, che sulla carta doveva benedire la nuova governance dell’area e che invece ha finito per registrare un’ulteriore pausa di riflessione.

Nonostante i tanti passi fatti assieme (inserimento in Costituzione di un tetto al indebitamento, divieto delle vendite allo scoperto in Borsa, vidimazione preventiva da parte della Commissione dei bilanci nazionali) ieri si è soltanto sfiorato quello decisivo: l’accordo sui confini del futuro governo economico dell’Europea. Berlino continua a pensare che a questo consesso debbano partecipare tutti i 27 membri dell’area. Parigi, invece, guarda soltanto ai 16 Stati appartenenti all’Eurogruppo. E dietro questo schema diverso non c’è soltanto un complesso gioco di pesi e contrappesi in ambito comunitario. Germania e Francia sperano di trovare una mediazione entro giovedì, quando la Task force sulla nuova governance europea guidata dal presidente della Ue, Herman Van Rompouy, sperava di fare un ulteriore passo avanti nella riforma del Patto di stabilità e di crescita europeo. Per ora bisognerà “accontentarsi” di quanto già deciso: esame preventivo sulle manovre di bilancio dei Paesi europei e sanzioni più tempestive ed efficaci per i Paesi iperindebitati. L’obiettivo di Berlino è, da un lato, quello di responsabilizzare tutte le economie che partecipano e traggono sostegni dal bilancio europeo. Infatti al maxi piano da 750 miliardi per rafforzare l’euro fa la sua parte anche la Polonia. Dall’altro, si vuole evitare che alcune aree – sgravate dai controlli e dai vincoli a cui sono soggetti i principali Paesi – possono fare concorrenza sfruttando la diversa leva fiscale e il più basso costo della manodopera. Senza contare poi il malumore, sempre più palese, verso i soci fondatori da parte della nuova Europa. Il premier polacco Donald Tusk ha ripetuto in più occasioni che «non è accettabile che si creino istituzioni separate, il Trattato di Lisbona è abbastanza preciso». E non sono da sottovalutare neppure i dubbi di Londra. Nonostante il neo primo ministro David Cameron si sia dimostrato meno antieuropeista della sua stessa maggioranza, è scontato il suo no all’esame preventivo da parte di Bruxelles delle manovre degli Stati membri. Così come la Gran Bretagna è pronta a utilizzare la sua moral suasion

Ormai per tutti è nata un’altra «strana coppia»

Tremonti-Bonanni: l’asse del decisionismo morbido di Gianfranco Polillo i Giulio Tremonti e Raffaele Bonanni si parla sempre di più come di una «strana coppia». Incontri pubblici e riservati, convegni, meeting, come l’ultimo di domenica scorsa. È un continuo. La cosa non sarebbe sorprendente se si prescindesse dal carattere dei due personaggi. Schivo e difficile il primo, sornione e bonario il secondo. Caratteri che sembrano compensarsi in un sodalizio che ha, anche, un riflesso politico. La Cisl di oggi – ed è questo uno dei tanti meriti di Bonanni – è un’organizzazione diversa da quella che siamo abituati ad immaginare. Nessun rapporto di sudditanza con il più forte sindacato italiano, vale a dire la Cgil, ma un decisionismo dolce che la porta a posizioni che, a volte, possono apparire anche intransigenti. È la fine di una sorta di colletarismo. Quello degli anni dell’unità sindacale, in cui l’organizzazione cattolica sembrava poter aver un ruolo solo nel solco di una tradizione non propria.

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Giulio Tremonti con i suoi interventi, non solo nel campo della politica economica, ma in quel suo filosofare di valori, scelte e responsabilità è divenuto un interlocutore naturale. La sua critica al “mercatismo”ha creato le condizioni perché personaggi con storie e culture diverse potessero trovarsi uniti nel difendere quella che viene definita l’ultima frontiera dell’identità europea. Quell’economia sociale di mercato che, negli anni passati, il trionfo apparente di un liberismo, che aveva assunto la forma di un dogma, sembrava aver relegato negli scaffali polverosi della storia. Poi la crisi ha fatto il resto. Ha fatto riemergere teorie dimenticate, mostrando la forza di chi non aveva ceduto alle mode del momento. E la scintilla è nuovamente scoccata. Non si capirebbe, tuttavia, questo processo senza considerare il ruolo di Maurizio Sacconi. Da sempre

contiguo alle posizioni del sindacato cattolico, negli ultimi tempi la sua passata esperienza socialista ha saputo rinnovarsi incrociando una tradizione diversa: più attenta alla persona ed ai valori ed al trascendente che ne rappresenta l’indubbio presupposto. Ed il cerchio si è chiuso. Per motivi ideali e culturali, ma anche per più terreni motivi di carattere politico. Del resto la convivenza tra il Ministro dell’economia, che tiene i cordoni della borsa, e quello del lavoro che deve gestire la più seria crisi occupazionale di questo dopoguerra, non poteva non divenire più stretta.

Sul fronte del sociale il tentativo della triade, se così si può dire, è stato quello di non arrendersi all’ortodossia. Il problema italiano non si risolve più mettendo in campo qualche risorsa finanziaria aggiuntiva, che del resto manca. Ma facendo appello alle forze sociali, alla loro volontà di contribuire ad un benessere collettivo più vasto e più sostenibile. Anche a costo di andare contro gli interessi più immediati di alcuni lavoratori. Lo si è visto chiaramente per Pomigliano d’Arco, che nella realtà italiana assume un valore paradigmatico. Le resistenze della Fiom, ed i suoi veti intrisi di un operaismo senza tempo, rischiavano di far fallire una trattativa che ha un valore esemplare. Vuole dimostrare che i lavoratori italiani sono disposti a mettersi in gioco, se questo può significare maggiori investimenti ed una ripresa del sentiero della crescita. Scelta – ha detto Bonanni al recente convegno della Fondazione Riformismo & Libertà, questa volta senza Tremonti – che i mercati finanziari dovrebbero apprezzare. E che la politica – aggiungiamo noi – dovrebbe saper interpretare fino in fondo. Forse si è veramente chiusa la fase in cui era il conflitto di classe a scandire i tempi del nostro vivere quotidiano.

per rallentare il processo di integrazione sulla vigilanza bancaria e finanziaria. Per Parigi, invece, allargare il consesso anche a chi non ha responsabilità sulla moneta finirebbe soltanto per aumentare la confusione nell’area. Con l’unico risultato di ripetere quanto è accaduto con il salvataggio della Grecia e di non riuscire a dare risposte repentine alle crisi. Il ministro dell’Economia francese, Christine Lagarde, in un’intervista al quotidiano Sueddeutsche Zeitung, ha spiegato che bisogna «riflettere seriamente sulla necessità di un governo economico che abbia una reale funzione di guida e che non sia soltanto uno strumento di controllo delle banche e dei mercati, ma un esecutivo efficace, in grado di coordinare le politiche economiche dei vari Paesi». Ma se in fin dei conti il futuro governo dell’economia europea resta un problema di forma, di sostanza è lo scontro tra Germania e Francia sul peso da dare al rigore e su

Le due principali economie del Vecchio continente sperano di presentare giovedì, alla riunione del tavolo sul Patto di stabilità, una proposta unica. Ottimismo dai mercati: Milano +2,7 per cento quello da riservare allo sviluppo. Sarkozy ha benedetto tutte le policies provenienti dalla cancelleria tedesca o dalla Banca centrale europea per rafforzare i controlli sulle economie più indebitate. Anche lui ha bene in mente che questa crisi sarà servita a qualcosa soltanto se in futuro si eviterà ai Paesi membri di falsificare i conti come ha fatto la Grecia. Eppure l’Eliseo giudica che il rigore tedesco serve soltanto al vicino per aiutare con interventi diretti le aziende esportatrici in modo da tamponare il deficit di domanda interna.

L’ipotesi si è rafforzata dopo aver visto l’ultima manovra quadriennale da 80 miliardi di euro, che ha varato la scorsa settimana il governo tedesco. Ai tagli alla spesa improduttiva non seguono né agevolazioni welferistiche né liberalizzazioni. Misure che sono indispensabili in Germania per abbassare gli altissimi prezzi dei servizi e liberare liquidità da riversare sui consumi. Di conseguenza molti osservatori consigliano di guardare soprattutto ai passi avanti fatti sul versante istituzionale e al processo avanzato per l’integrazione nella vigilanza di banche, borse e assicurazioni.


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15 giugno 2010 • pagina 3

Nuovo record assoluto per il debito pubblico: 1.812,790 miliardi di euro

Le entrate fiscali giù (in attesa della stangata) Due miliardi in meno: sarà difficile basare la manovra soprattutto sul recupero dell’evasione fiscale di Alessandro D’Amato

ROMA. Crollo del gettito fiscale, record del debito pubblico e retribuzioni in aumento, ma la disoccupazione non cessa di mordere. I dati dell’economia italiana continuano a fare paura. E c’è qualche polemica da registrare anche sui numeri.

Ad aprile il debito pubblico è arrivato a 1.812,790 miliardi di euro, il livello assoluto più alto mai raggiunto, secondo la Banca d’Italia. Palazzo Koch afferma inoltre che le entrate fiscali sono in calo nei primi quattro mesi del 2010. Le entrate tributarie da gennaio a aprile 2010 si sono attestate a 104,7 miliardi di euro in calo di 2 miliardi in valore assoluto e dell’1,8%. Il calo dell’1,8% delle entrate tributarie nei primi quattro mesi del 2010 è in rapporto all’analogo periodo del 2009. Nel solo mese di aprile le entrate tributarie si sono attestate invece a 25,122 miliardi di euro in calo del 2,5% rispetto ad aprile dell’anno precedente. Ma sul punto sono leggermente diversi i dati del Dipartimento delle Finanze del ministero dell’Economia, in base ai quali le entrate tributarie erariali hanno registrato nel periodo gennaio-aprile 2010 un calo dell’1,2% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, in miglioramento rispetto al risultato di marzo (-1,3%) e di febbraio (1,4%). Per i tecnici di via XX Settembre, il gettito totale del periodo è 108.799 milioni di euro, 1.310 milioni di euro in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Resta il fatto che, con queste premesse, per immaginare un’impennata delle entrate per quadrare i conti dello Stato (come previsto dalla matremontiana) novra serve molta fantasia. Cosa che non manca a Tremonti, del resto.

A proposito di economia reale, intanto, l’Istat comunica che le retribuzioni sono cresciute nel primo trimestre del 2010 del 3,6% sul primo trimestre del 2009 e dello 0,7% sul trimestre precedente. Nel primo trimestre di quest’anno il tasso di inflazione Nic è stato pari all’1,3%. L’indicatore sulle retribuzioni di fatto si riferisce a unità di lavoro equivalenti a tempo pieno (Ula) e al netto della Cig. E riguarda gran parte del settore privato, ad eccezione dell’agricoltura e del comparto pubblico. L’aumento su base annua delle retribuzioni di fatto è dovuto - spiega l’Istat - al +4,1% registrato nell’industria e al 3,2% segnato nei servizi. All’interno del settore industriale, le retribuzioni hanno registrato un incremento tendenziale particolarmente marcato nel comparto delle estrazioni di minerali da cave e miniere (+15%) a causa, principalmente dell’erogazione di consistenti incentivi all’esodo in alcune grandi aziende. All’opposto, la variazione tendenziale negativa registrata nel settore della fornitura di energia elettrica, gas, vapore e aria condizionata (-2,5%) è dovuta alla riduzione, rispetto a un anno prima, della stessa componente degli incentivi all’esodo. Per quanto riguarda il terziario, la crescita su base annua più elevata si è verificata nel comparto delle attività finanziarie e assicurative (+5,8%). Inoltre, fa sapere sempre l’Istat, gli oneri sociali per unità di lavoro equivalenti a tempo pieno hanno registrato un aumento tendenziale nel primo trimestre 2010 pari al 3,4%, mentre su base mensile la crescita è stata dello 0,5%. Quanto ai costi del lavoro, per Ula, il rialzo è stato del 3,6% sul primo trimestre 2009 e dello 0,7% sul trimestre precedente.

In base ai rilevamenti Istat, le retribuzioni sono cresciute nel primo trimestre del 2010 del 3,6% sulll’inizio del 2009 e dello 0,7% rispetto ai tre mesi precedenti

Per quella macro-prudenziale, invece bisognerà aspettare. Eppure il mercato si dimostra ottimista sul breve e medio termine. E lo è più di quanto non dicano le chiusure dei listini registrate ieri: Milano, con il suo +2,7 per cento, ha rischiato per buona parte della giornata di essere la migliore d’Europa, ma poi ha dovuto cedere la palma ad Atene (+3,81). Parigi segna un +1,98, Francoforte un +1,28, Amsterdam un +1,81, Zurigo un +0,71 e Lisbona un +0,66 per cento. Zavorrate le piazze di Madrid (+0,23, ma si paga un rimbalzo consistente già nei giorni scorsi) e Londra (+0,74, frenata nella sua corsa dal crollo di Bp).

E che la giornata in Borsa sia stata oltremodo positiva, lo dimostra il fatto che gli operatori non si sono lasciati intimorire dalla notizia rilanciata dall’autorevole Frankfurter Allgemeine Zeitung su un imminente piano di salvataggio sul modello greco per la Spagna, al quale starebbe studiando Bruxelles. Per la cronaca la notizia è stata smentita dai governi di Madrid e Berlino come dallo staff del commissario Ue agli Affari economici Olli Rehn. Ma più che i rumors sull’insolvibilità del Paese che costituisce il 12,5 del Pil dell’eurozona, a sorprendere è proprio la responsabilità dei mercati. Da quanto la Bundesbank ha annunciato che la Germania crescerà più del previsto, il sentiment sembra cambiato. Ma durerà se la Merkel e Sarkozy non troveranno un accordo sulla governance dell’area?

Qui sopra, Angela Merkel e Nicolas Sarkozy: ieri si sono visti a Berlino per un nuovo vertice dal quale non sono uscite soluzioni di mediazione. A destra, Mario Draghi. Nella pagina a fianco, la «strana coppia» Giulio Tremonti-Raffaele Bonanni

Intanto l’Eurostat informa che in aprile la produzione industriale è aumentata dello 0,8% nell’Eurozona e dello 0,5% nella Ue dopo +1,5% e 1,4% in marzo; rispetto ad aprile 2009 +9,5% e +7,8%. In Italia il dato migliore tra i grandi paesi, +1% dopo il +0,2% in marzo, Germania +0,8% dopo +3,1%, Francia 0,4% dopo +1,4%; Spagna -0,3% dopo +2,3%. Ma la disoccupazione ancora morde. Ad aprile nell’area Ocse si contavano 46,5 milioni di disoccupati, 3,3 milioni in più rispetto ad aprile 2009. Il tasso di disoccupazione nell’area Ocse ad aprile rispetto al mese precedente, è però rimasto stabile all’8,7%. Per l’Italia la disoccupazione è invece all’8,9%, in crescita rispetto dall’8,8% di marzo. I Paesi del G7 registrano complessivamente, sempre ad aprile, una disoccupazione dell’8,4%, mentre più alto è il tasso di disoccupazione in Europa: 9,7% per l’Unione europea e 10,1% per Eurolandia. Malgrado ciò, dalla Commissione Ue sembra in arrivo un giudizio positivo sulla manovra italiana.


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l’approfondimento

Il braccio di ferro tra Berlino e Parigi continua a pesare (proprio come in passato) sul destino delle economie comunitarie

L’Euro può anche morire Nella prospettiva di un possibile mercato globale la moneta unica nacque da un accordo di reciproco controllo tra Kohl e Mitterrand. Ora, un’altra intesa tra Francia e Germania potrebbe farla tramontare definitivamente di Giancarlo Galli Euro, in piena tormenta sui mercati finanziari, obbliga ad una serie di riflessioni. Per non dimenticare le speranze e le illusioni coltivate al momento della sua nascita ufficiale, nella “notte magica”del 31 dicembre 1998, allorché venne fissato il cambio col dollaro a 1,166675. Un marziano in orbita satellitare che fosse transitato in quel momento, e dopo aver vagato per una dozzina d’anni nell’universo infinito ripassasse adesso, avrebbe la “sensazione matematica” che ben poco è cambiato. Infatti, attualmente, un euro vale attorno a 1,20 dollari. Quindi, un cambio sostanzialmente in equilibrio, che dovrebbe rassicurare anziché preoccupare. E invece…

L’

Verità è che nel volgere di un decennio la creazione dell’euro ha in larga misura clamorosamente smentito le aspettative che potremmo definire di “geopolitica”: dare vita ad una moneta di riferimento in grado di stabilizzare i commerci in un capitalismo divenuto globale, e non più alla mercè degli umori e degli interessi del “biglietto verde”, i dollari di Washington. La Vec-

chia Europa mirava insomma all’emancipazione.

Qualche nota per una miglior comprensione. L’euro è moneta per le transazioni bancarie a partire, come s’è accennato, dal Capodanno 1999. Inizialmente per Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Italia, Irlanda, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo e Spagna. Successivamente Grecia e Slovenia, nonché Andorra, Cipro, malta, Principato di Monaco, san Marino e Città del Vaticano. Le monete e i biglietti in euro vengono messi in circolazione il 1° gennaio 2002, rapidamente divenendo l’unica moneta a corso legale.

Alla fine del ’98, il cambio col dollaro fu fissato a 1,166675. Come è oggi

Nel periodo di transizione, l’euro va soggetto a forti oscillazioni nei confronti delle principali valute mondiali (dollaro, sterlina, yen giapponese, yuan cinese, franco svizzero), però con la tendenza a rafforzarsi, dopo alcune fasi d’iniziale sbandamento. La Banca Centrale Europa, sede a Francoforte, primo presidente l’olandese Wim Duisenberg, cui succederà il francese Jean-Claude Trichet (ora a fine mandato), si mostra rassicurante, talvolta aggressiva: si prefigura insomma una marcia trionfale.

Alla nascita della “zona euro” (poi, Eurolandia), i firmatari dell’accordo si raccontarono l’un l’altro bellissime favole. Il ministro alle Finanze francese Dominique Strass-Kahn (ora al Fondo monetario internazionale ma con la velleità di contendere nel 2012 la presidenza della Repubblica a Nicolas Sarkozy), in una cena di gala a Bruxelles proclamò tronfio: «L’euro schiaccerà il dollaro!». Il nostro premier, Romano Prodi, esultava con un «Grazie a Dio, l’Italia è dentro». Non mancarono i grilli parlanti, un po’ ovunque. Dalle nostre parti, il governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, poi ingiustamente finito dagli altari alla polvere

per aver contrastato, sia pure con mosse talvolta improvvide, alcune concentrazioni bancarie. Disse Fazio, beccandosi bacchettate in serie: «Per l’Italia sarà un doloroso Purgatorio…». Altro euroscettico, Giorgio La Malfa (figlio di Ugo, europeista della prima ora con De Gasperi, Adenauer, Schumann): sostiene che con l’euro si è messo il carro avanti ai buoi. Nel senso che una reale unificazione politica avrebbe dovuto precedere quella monetaria. Invece, ma solo più tardi divenne chiarissimo, l’Euro nasceva da un patto fra il presidente francese François Mitterrand e il cancelliere tedesco Helmut Kohl, nei giorni che seguirono la caduta del Muro di Berlino. La Francia consentiva all’unificazione delle due Germanie (Ovest ed Est, democratica ed ex-comunista), a patto che i tedeschi dal debordane potenziale economico-industriale, accettassero la camicia di forza di una moneta unica. Per renderla ancora più cogente, chiamando a raccolta una dozzina di Paesi, incluso quelli dai bilanci in rosso. «Hanno voluto mettere sempre più uova nella frittata, ma alla fine si vedrà che frittata resterà», ebbe a dire a cose fatte, in un’amicale conversazione il governatore Fazio.

Non si giudichi offensivo il termine «frittata». L’Euro costituiva un’eccellente idea sotto vari profili. Innanzitutto, fornendo concretezza all’unificazione del Vecchio Continente. Poi, obbligando gli Stati aderenti a politiche di rigore amministrativo; nonché, in un clima di auspicata solidarietà continentale, mettersi in sintonia. Inoltre, lo scenario internazionale pareva favorevole all’affermarsi di una nuova moneta: le difficoltà del dollaro, specchio di un’America in evidente perdita di egemonia planetaria, presto invischiata nei conflitti mediorientali; il declino del Giappone e quindi delloYen, in Asia, incalzato dalla Cina, che mandato in soffitta il maoismo, aveva imboccato la via del capitalismo di Stato. Il dato straordinario di questo decennio è il progressivo consolidarsi dell’euroillusione. Decisivo il contributo dei tecnocrati della Banca Centrale Europea di Francoforte, che un ceto politico sostanzialmente debole nemmeno pensa di condizionare. Ci si compiace dell’impennata sui mercati dell’Euro, che sembra umiliare tutte le altre valute non omologate. E la vertigine del supposto successo fa perdere di vista la realtà: nell’apparente lussureggiante albero dell’Euro, vi sono rami secchi, frutti marci.


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Colloquio con il professore di Economia di Torino dopo l’ultima sentenza del ministro sulla globalizzazione

«Addio conflitto capitale-lavoro, il marxista Tremonti ha ragione» Mario Deaglio: «Analisi giusta, bisogna puntare sul fattore umano. Ma le sue trovate servono sempre a spostare l’attenzione dai problemi» di Errico Novi

ROMA. Nel suo ultimo editoriale sulla Stampa lo prende bonariamente in giro: «Dalla crisi non si esce con la ricetta “magica” di qualche economista o di qualche ministro dell’Economia». Però Mario Deaglio riconosce a Giulio Tremonti, se non proprio virtù taumaturgiche, di sicuro buone capacità profetiche. «È stato il primo in Italia a parlare di globalizzazione. Non solo. Nel 1991 già anticipava il cambiamento delle regole economiche che oggi lo autorizza a dare per finito il conflitto tra capitale e lavoro». Ma qual è la marcia in più del superministro? «Semplice», dice il professore di Economia internazionale dell’università di Torino ed ex direttore del Sole-24Ore, «Giulio Tremonti, culturalmente parlando, ha un’origine marxista». Tremonti marxista? I suoi primi scritti sono usciti sui Quaderni piacentini. Aveva un’impostazione molto ancorata alla corrispondenza tra fattori di produzione e classi sociali. E allora? E allora non dimentichi quello che diceva Marx. Cosa in particolare? Prima di tutto bisogna capire chi fa che cosa. E oggi in effetti non si può più restare nella vecchia opposizione tra capitale e lavoro: basti pensare a quanto spazio abbia preso il terziario in una struttura economica relativamente “vecchia” come quella italiana. Su questo Tremonti ha ragione. Questa fine del conflitto tradizionale però può risolversi anche a svantaggio dei lavoratori. Nel senso che un capitale sempre più impersonale e senza volto impedisce di fatto alla controparte ogni forma di rivendicazione. In questi anni c’è un altro fattore venuto fuori, sempre per restare nelle categorie marxiane: il capitale umano. Al quale bisogna assicurare infrastrutture, opportunità d’accesso alla conoscenza e ai servizi. È il mondo che va in questa direzione. Meno chiaro, nel discorso fatto da Tremonti alla festa della Cisl, è il passaggio sull’economia sociale di mercato come opzione preferibile e ormai prevalente. Il ministro ne parla a proposito dell’intesa tra Fiat e sindacati su Pomigliano, da cui peraltro resta fuori la Cgil. L’economia sociale di mercato nasce attorno al principio del massimo coinvolgimento sociale possibile nelle scelte di politica economica, all’interno delle

aziende e non solo. E in parte questo in Italia avviene. In fondo alla prospettiva tremontiana non si intravede quasi il profilo di una società corporativa? Sì, forse c’è un’eco delle appartenenze corporative concepite nella società medievale. Ma in generale direi che l’impostazione di Tremonti è corretta, seppur condita sempre da qualche trovata brillante, che sposti l’attenzione dagli affanni del contingente e verso un piano

«Giulio cominciò con i “Quaderni piacentini”. Ora vede più lontano di una sinistra senza ancoraggi al reale» d’analisi più ampio, globale. C’è da dire che la realtà italiana è imperniata soprattutto al CentroNord sul sistema dei distretti, su un modo di produzione in cui datore di lavoro e dipendente condividono le ansie quotidiane. Certo, lì si ha la prova che il conflitto capitale-lavoro evolve in forme diverse, l’Italia in questo senso corrisponde bene all’analisi tremontiana. E diciamo pure che quel sistema di medie, piccole e piccolissime imprese è un po’ il mondo ideale di Tremonti. È nota la sua vicinanza alle partite Iva, a quelle aziende che esportano in tutto il mondo prodotti dell’ingegno, dai portali telematici sulla gastronomia italiana a sistemi informatici d’avanguardia. Più servizi che fabbriche. Tremonti sa che in quest’ottica l’Occidente è destinato a fare meno cose e a lasciare che il divario tra noi e le economie emergenti si compensi gradualmente. Eppure la fine del conflitto capitale-lavoro altrove sembra assai meno incruenta che in Italia. In tutto l’Occidente si assiste a

un progressivo spaesamento dei lavoratori di fronte al sopracitato capitale senza volto. E credo che anche questo aspetto sia abbastanza chiaro al ministro dell’Economia. Certo è che lo scenario in questione richiede, come dicevo, nuovi schemi: inannzitutto l’assunzione della responsabilità da parte dei singoli individui, cioè il capitale umano che investe continuamente su se stesso. Sicuramente tra chi fa questa scommessa alcuni sono destinati a ritrovarsi più poveri. Appunto, scena poco rassicurante, conflitto o non conflitto. Ma vede, sarà che anch’io ho qualche ascendenza marxiana, ma non è che possiamo scegliere: se è questa la forma in cui i fattori produttivi si combinano in modo efficiente possiamo solo assecondare la storia. E anzi finiremmo per essere ancora più indeboliti rispetto alla Cina e all’India se non ci adattiamo. Scusi, ma in tutto questo la sinistra d’Occidente a che ruolo è destinata? La sinistra ha un gran bisogno di ritrovare una chiave ideologica. Deve capire, per tornare a Marx, chi fa cosa. E invece in Italia per esempio la si vede attardata nella difesa di modelli tradizionali, non a caso i sindacati si tengono in piedi sui pensionati. Dovrebbe osservare come cambia la produzione, soffermarsi appunto su quel 70 per cento della produzione che ormai viene dal terziario e che negli Usa è all’80. Sempre meno fabbriche. I sondaggi tra i figli degli operai di Mirafiori ci dicono che pochissimi aspirano a ripetere l’esperienza dei padri.Tramontata la sicurezza della fabbrica, la sinistra dovrebbe spendersi perché una nuova rete di sicurezza simile a quella dei sistemi scandinavi venga assicurata a tutti: salario sociale vincolato all’obbligo di accettare l’impiego offerto. Bisogna assecondare l’onda. Sostenere i giovani, soprattutto. È a loro che bisogna assicurare una struttura di servizi e di sostegno. E non è così costoso come si pensa. A Torino la piramide delle età è rovesciata: ogni 100 che arrivano a 60 anni ce ne sono 65 che arrivano ai 18. Sono pochi, ce la possiamo fare ad aiutarli. Come? Fino a 2-3 anni fa i miei studenti finivano a lavorare tutti o alla Fiat o in banca o nel pubblico. Adesso comincia a venirmi a trovare qualcuno che vuole mettersi in proprio e mi chiede consigli sul business plan. Non hanno problemi a stare in Italia o in qualsiasi altro posto d’Europa… Insomma, loro sono fuori dal conflitto, per non lasciarli nella terra di nessuno basta sostenerli un po’. E vedremo dove ci porta questo processo di cambiamento. Al quale di sicuro non possiamo opporci.

Chi dovrebbe esercitare il controllo, chiude gli occhi. Finché con la “crisi greca”, la realtà viene a galla.

I bilanci truccati del governo di Atene sono la punta dell’iceberg di una deriva. Dietro i mito della “moneta forte”, s’è consentito a troppi governanti di Eurolandia di moltiplicare i propri deficit, nel convincimento che alla fine tutto andrà a posto. Senonché la sopravalutazione dell’euro ha penalizzato la crescita, dai consumi all’export. Così, alla fine, i nodi, anziché sciogliersi, sono venuti al pettine. E per un’elementare ragione: la Germania che da sola realizza il 40 per ceto del Pil di Eurolandia, non se la sente più (raggiunta e consolidata l’unificazione, stretto solidi rapporti con la Russia e la Cina), di continuare a “tenere a balia”le Nazioni più deboli. Pertanto, a braccetto di belgi e olandesi, la cancelliera Angela Merkel (profittando, oltre che della crisi greca, dei problemi gravissimi di Irlanda, Portogallo, Spagna) cerca di convincere il presidente Sarkozy a prefigurare, a scadenza non lontana, un’Eurolandia a due velocità. In serie A, i virtuosi; in serie B, gli altri. E l’Italia? A dar credito al nostro ministro Giulio Tremonti, non avremmo di che temere. Saremmo fra i “virtuosi”, nonostante l’enormità del nostro debito pubblico.Tuttavia nascondendo, o tralasciando di rilevare che nell’ultimo decennio la crescita del Pil italiano, ovvero la ricchezza prodotta, è stata debolissima. L’euro artificiosamente forte, avendo penalizzato l’export. Inoltre il peso del fisco, arrivato a livelli insopportabili, costringe le industrie a produrre altrove. La bulimia delle pubbliche amministrazioni, dal centro alla periferia, chiede inoltre sempre di più ai cittadini, senza però offrire maggiori contropartite in termini di servizi. Cosa accadrà in un domani prossimo venturo? Nessuno, sia chiaro, ha la magica facoltà di sapere. Tuttavia, qualche giorno fa, in un summit di economisti tenutosi a Zermatt, Svizzera, si sono udite opinioni che è doveroso riferire. Secondo Andrew Lilico, economista inglese, «vi sono ben scarse possibilità che l’attuale zona euro sopravviva sino al 2015». A sentire il consigliere della Banca d’Inghilterra, David Blanchflower, «in tre o quattro si staccheranno… Grecia, Portogallo, Irlanda. La Spagna è in bilico, un po’ come l’Italia, ma possono resistere…». In queste giornate, mentre il Parlamento italiano dibatte le misure di austerità (risparmi di 24 miliardi in un biennio), il ministro Tremonti, che avendo in mano i cordoni della cassa ha da sapere, si mostra ottimista. Sostiene che stiamo meglio di altri, in Eurolandia. All’opinione pubblica piacerebbe però avere qualche elemento aggiuntivo, e preciso, affinché sia evitata qualche brutta sorpresa. E con l’aria che tira…


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pagina 6 • 15 giugno 2010

Priorità. Il presidente della Camera prende tempo: «La politica ha ancora bisogno di discutere su questa legge»

E Fini fa slittare le intercettazioni A luglio approderà prima la manovra correttiva dei conti pubblici

oi non vogliamo mettere in difficoltà la maggioranza – ha assicurato Bocchino – abbiamo fatto un accordo sulle intercettazioni e abbiamo ottenuto gran parte di quei suggerimenti che abbiamo proposto al Governo, alla maggioranza e al Pdl».

«N

mera, Fabrizio Cicchitto anche se il carteggio tra la terza carica dello Stato e l’opposizione non scioglie certo il nodo principale: il ddl sarà legge entro l’estate? Da parte sua Cicchitto assicura che il limite entro il quale si arriverà al voto sarà il mese di luglio. Ma per rispettare questo limite il ddl dovrebbe rimanere così come è uscito dal Senato, e lo slittamento dopo la discussione sulla manovra certo non agevola la rapidità dell’approvazione.

di Riccardo Paradisi

Ciò non toglie che la pattuglia del presidente della Camera darà battaglia all’interno della maggioranza «perché il ministro Alfano, il governo, il Pdl si rendano conto che il testo così è a rischio incostituzionalità». Fini compie anche un passo più concreto e annuncia che alla Camera, a luglio, approderà prima la manovra correttiva dei conti pubblici, poi il ddl intercettazioni: «Il ddl solleva tante contrarietà, la politica ha bisogno di discutere ancora» e soprattutto di licenziare un provvedimento che «non appaia un indebolimento della lotta alla criminalità. Perché dobbiamo corre-

re tanto prima delle vacanze estive, come se ci fosse qualche nemico da combattere?» dice Fini, parlando a Benevento nel corso di un incontro promosso dall’associazione “Mezzogiorno nazionale”.

La fretta di Angelino Alfano (e di Silvio Berlusconi) ieri è stata stoppata da Gianfranco Fini

Le coscienze critiche del Pdl sostengono quindi che meglio sarebbe che la legge sulle intercettazioni venisse cambiata nel suo passaggio alla Camera, soprattutto nelle parti che riguardano il meccanismo di proroga delle 72 ore e il divieto di pubblicare notizie non coperte dal segreto istruttorio. Cambiamenti necessari per non generare il sospetto che la legge possa indebolire la lotta alla criminalità, dice Fini, ma anche per mettere la legge al riparo da una bocciatura del Quirinale. Ma il punto dirimente, oltre alla discussione che si sta sviluppando sui

tempi e i modi del passaggio del ddl alla Camera, è proprio l’incognita del Quirinale. Si va dalle voci per cui il presidente Giorgio Napolitano avrebbe rifiutato di incontrarsi con il guardasigilli Alfano, che voleva sondare la sua posizione sul prosieguo dell’iter del ddl, a quelle che accreditano invece un accordo di massima del Colle con il premier sul testo uscito al Senato. Ufficialmente il Quirinale respinge ogni tentativo di coinvolgimento in negoziati e fa

del Pd Dario Franceschini, che gli aveva chiesto «di non soffocare il dibattito in commissione a giugno, per portare il provvedimento in Aula a luglio», il presidente della Camera ha risposto che il provvedimento verrà analizzato «nel puntuale rispetto delle norme regolamentari che disciplinano il procedimento legislativo».

Una precisazione con cui Fini – che si è visto con la presidente della commissio-

L’esame del ddl Intercettazioni fissato già dalla prossima settimana. I tempi dell’iter verranno decisi dalla conferenza dei capigruppo sapere di voler mantenere uno strettissimo riserbo sul giudizio del presidente della Repubblica. Un’incognita che in questa partita interna alla maggioranza ciascuno interpreta a suo favore cercando nel Colle una sponda istituzionale. Intanto si discute animatamente anche sui modi e i tempi del passaggio del Ddl alla Camera. Al capogruppo

ne Giustizia Giulia Buongiorno proprio per stabilire l’iter della legge – ha voluto ”assicurare” che tutto il percorso parlamentare del provvedimento sarà effettuato secondo regolamento. Nessuna forzatura, insomma, né sul versante della maggioranza né dell’opposizione. Una risposta “ineccepibile” secondo il capogruppo del Pdl alla Ca-

L’Aula della Camera si occuperebbe di intercettazioni tra la fine di luglio e gli inizi di agosto, con il rischio per la maggioranza che, come chiede il Pd, la legge sulle intercettazioni scivoli addirittura a settembre. Il segretario del Pd Pier Luigi Bersani percepisce la difficoltà della maggioranza e promette battaglia sul ddl intercettazioni: «Non si sognino nemmeno di pensare che si possono contrarre i tempi del dibattito parlamentare. Cicchitto, non pensi che andremo là ad alzar la mano. Non sa a cosa va incontro... Si rimetta piuttosto alla discussione libera del Parlamento e a quelle procedure che Fini vorrà e dovrà garantire». A Fini si appella anche l’Udc che chiede al presidente della Camera di garantire le condizioni perché si possa ridiscutere e migliorare il testo della legge uscita dal Senato. Ma insomma la maggioranza del Pdl sembra blindata sulla linea del mantenere invariato il testo uscito dal Senato anche se il deputato finiano Fabio Granata avverte: «Nell’iter alla Camera non c’e’ nulla di scontato. Improbabile che non cambi nulla». Bocchino arriva addirittura a intimare degli ultimatum: «O c’e’ una svolta e nel Pdl d’ora in poi si discuterà preventivamente su ogni questione, decidendo tutto insieme, oppure noi continueremo a porre all’esterno le questioni, alleandoci con l’opinione pubblica: con il mondo della cultura, con l’editoria, la stampa». La commissione Giustizia della Camera comincerà l’esame del ddl intercettazioni già la prossima settimana. Al termine dell’esame in commissione dovrà essere la conferenza dei capigruppo a decidere i tempi della discussione in Aula del provvedimento.


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15 giugno 2010 • pagina 7

Scandali. Il grande valore simbolico dell’omelia per l’Anno Sacerdotale ispondere al male con il bene è la regola del Vangelo ma può capitare che essa dia frutto sul piano umano e possa aiutare a vincere una grave crisi, anche di immagine, traendo – per dirla con l’apostolo Paolo – una qualche forza dalla debolezza: ne abbiamo un esempio nella richiesta di perdono per i «peccati dei sacerdoti», rivolta venerdì dal Papa «a Dio e alle persone coinvolte». L’eco positivo che essa ha avuto nel mondo e l’incoraggiamento che ha trasmesso ai preti incolpevoli, venuti a Roma a celebrare la conclusione dell’Anno Sacerdotale, ci dicono che probabilmente il Papa teologo ha imboccato il giusto cammino per portare la comunità cattolica fuori dalle sabbie mobili degli scandali sessuali, purchè essa abbia la forza – e soprattutto l’umiltà – di seguirlo in questo affidamento alla regola evangelica.

R

Sappiamo quanto sia stato e sia concreto lo scandalo che ha offuscato la celebrazione dell’Anno Sacerdotale, che era stato indetto nel 150° della morte del Santo Curato d’Ars ma senza alcun riferimento specifico a quella vicenda, che un anno addietro sembrava relativamente acquietata, dopo la tempesta che aveva infuriato per un decennio negli Usa e altrove. Essa invece è riesplosa più forte di prima, infuriano in nuovi Paesi, dall’Irlanda alla Germania, all’Austria, al Belgio, lambendo anche l’Italia. Tant’è che in un anno tondo, da giugno a giugno, abbiamo visto – per richiamare gli eventi di maggiore impatto – ben otto vescovi costretti alle dimissioni per loro colpe o per aver coperto colpe altrui e vi è stata la piena emersione dello scandalo legato alla vita“delittuosa”del fondatore dei Legionari di Cristo, come l’ha definita un comunicato vaticano pubblicato il 1° maggio. Di questo accanimento dei fatti – a cui si è aggiunto quello dei media – il Papa nell’omelia di venerdì ha dato una lettura sapienziale e biblica della quale conviene chiarire i“fuochi”per intendere appieno la pedagogia che ha inteso trarne. Egli non ha neanche evocato l’accanimento dei media e non se l’è presa con nessuno, né fuori né dentro la Chiesa ma ha puntato direttamente l’attenzione sul “peccato” e sul Satana che ne è il grande persuasore. Ha ricordato come l’Anno Sacerdotale avrebbe dovuto mettere in rilievo «la grandezza e la bellezza» del sacerdozio cattolico e ha detto che «c’era da aspettarsi che al “nemico” questo nuovo brillare del sacerdozio non sarebbe

Se la Chiesa coglie il bene dal male Nel «mea culpa» di Benedetto XVI c’è una profonda fedeltà al Vangelo di Luigi Accattoli

piaciuto». Qui – poi – conviene riportare un brano della prosa teologica di Papa Benedetto per cogliere la forza del suo intendimento: «E così è successo che, proprio in questo anno di gioia per il sacramento del sacerdozio, siano venuti alla luce i peccati di sacerdoti – soprattutto l’abuso nei confronti dei piccoli, nel quale il sacerdozio come compito della premura di Dio a vantaggio dell’uomo viene volto nel suo contrario». Si voleva festeggiare ed eccoci chiamati alla penitenza, dice in sostanza il Papa. Che la penitenza l’ha presentata così: «Anche noi chiediamo insistentemente perdono a Dio e alle persone coinvolte, mentre intendiamo promettere di voler fare tutto il possibile affinché un tale abuso non possa succedere mai più; promettere che nell’ammissione al ministero sacerdotale e nella formazione durante il cammino di preparazione a esso faremo tutto ciò che possiamo per vagliare l’autenticità della vocazione». Alla richiesta di perdono è seguito il “mai più” della promessa dell’emendamento, esattamente come nel“mea culpa”giubilare di Giovanni Paolo II per le“col-

Come Papa Wojtyla chiese perdono per errori storici, così Ratzinger parla del presente

Il cardinale Tettamanzi celebra i funerali di monsignor Padovese

«Dal sangue, un seme di pace» MILANO. «Nell’esistenza di questo nostro fratello e padre si è realizzata la parola di Gesù che ha paragonato la vittoria della sua Pasqua al mistero del seme che porta frutto nel suo morire: “se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore produce molto frutto”». È uno dei passaggi fondamentali dell’omelia che il cardinale di Milano, Dionigi Tettamanzi, ha pronunciato in Duomo in occasione dei funerali di monsignor Luigi Padovese, il vicario apostolico dell’Anatolia ucciso lo scorso 3 giugno. L’omelia di Tettamanzi è stata tutta incentrata sul valore della speranza, che porta a interpretare la morte di monsignor Padovese come portatrice di frutto per la Chiesa. «Il suo corpo e il suo sangue sono davvero caduti sulla terra di Turchia e, pur nel dolore e nelle lacrime, ci appaiono per quello che sono davvero: non più segni di una vita strappata da violenza insensata e tragica, ma offerta viva di sé che padre Luigi ha vissuto in ogni giorno della sua missione di vescovo, di amico della pace, di fratello di ogni uomo», ha detto Tetta-

manzi che ha ricordato il religioso ucciso come «un vescovo mite e sapiente, un vero costruttore di riconciliazione e di pace». Nell’ultima parte dell’omelia Tettamanzi ha rivolto poi un pensiero particolare alla chiesa di Turchia così duramente provata dall’uccisione del suo vescovo: «Da oggi la chiesa di Milano si sente legata a voi in modo ancora più profondo e particolare.Vogliamo, come chiesa ambrosiana, insieme a tutte le comunità cristiane, accogliere e affrontare la sfida di essere sempre più coscienti della nostra identità cristiana e di saper offrire, senza alcuna paura, sempre dappertutto, la testimonianza di una vita autenticamente evangelica: amando Cristo e ogni uomo “fino alla fine”». I funerali, comunque, sono stati concelebrati da 350 sacerdoti di cui ben 50 tra vescovi e vicari episcopali, provenienti da tutte le parti del mondo. A rappresentare il Governo è intervenuta in Duomo Stefania Craxi, sottosegretario agli Esteri. Tra le personalità presenti, anche il Console della Turchia a Milano e l’Ambasciatore turco presso la Santa Sede.

pe storiche” dei cristiani, formulato in San Pietro il 12 marzo dell’anno 2000. Possiamo immaginare che senza il magistero della “confessione” dei peccati svolto a lungo e tenacemente dal predecessore non avremmo avuto questo gesto importantissimo compiuto ora da Benedetto.

Ma va anche detto che in questa sua prima richiesta di perdono Papa Ratzinger segna una differenza rispetto alle tante analoghe richieste che sentimmo risuonare lungo il Pontificato wojtyliano: quasi sempre – tranne nel caso del genocidio del Ruanda, in un Angelus del maggio del 1994 – si era trattato di richieste di perdono riguardanti eventi storicamente lontani, dalla tratta dei neri alla Notte di San Bartolomeo, dai roghi degli eretici al caso Galileo; venerdì invece abbiamo ascoltato un Papa che si batte il petto per quanto avviene nella Chiesa ai suoi giorni. Un “mea culpa” più arduo a farsi e speriamo destinato a una maggiore rispondenza comunitaria nel cambiamento di vita che sollecita. www.luigiaccattoli.it


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grandangolo Cresce la rivolta nel Paese: allarme internazionale

La fredda vendetta di Putin strangola il Kirghizistan Nonostante le violenze, Mosca prende tempo e non risponde alle richieste di aiuto. Perché? I kirghizi non hanno chiuso la base americana di Manas, volevano i soldati Nato a Bishkek e permettono a Washington di costruire un centro anti terrorismo vicino a Osh. Dove il Cremlino ha molti interessi... di Luisa Arezzo hanno insegnato i Balcani negli anni Novanta: in un mosaico di culture ed etnie, con tensioni che da sempre ribollono e sono pronte a tracimare, un vuoto o una transizione di potere rischia di lasciare libero il campo alla violenza. È quello che è accaduto con la disgregazione dell’ex Jugoslavia, è quello che sta accadendo da aprile nel sud del Kirghizistan, dopo il colpo di Stato che ha rovesciato il presidente Kurmanbek Bakiev dando fuoco alle polveri e innescando quella che sta rapidamente degenerando in una guerra civile. 124 morti - quasi tutti uzbeki - un migliaio di feriti e migliaia di sfollati in fuga in direzione del Kazakistan e dell’Uzbekistan secondo le fonti ufficiali. Oltre 700 morti - per la maggior parte uzbeki migliaia di feriti e 100mila profughi al confine secondo le fonti di chi quel limes è riuscito a varcarlo. Da almeno tre giorni il nuovo presidente Roza Otunbayeva (che dopo la fuoriuscita di Bakiev aveva promesso di indire le elezioni entro 6 mesi e che già le ha posticipate alla fine del 2011) chiede alla Russia, rivolgendosi direttamente a Putin, di intervenire. E da almeno tre giorni continua ad incassare un «non ancora», ieri ufficialmente siglato da i Paesi

L’

del Patto collettivo di Sicurezza (Russia, Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Tagikistan, Uzbekistan e Kirghizistan, praticamente il patto difensivo tra le sette repubbliche ex sovietiche) che hanno detto di non escludere un intervento, ma di dover prendere tempo per poter mostrare ai rispettivi presidenti le misure immaginate dal Csto. Organi-

Il colpo di grazia all’economia kirghiza lo ha dato Medvedev, bloccando gli aiuti e aumentando i dazi doganali smo fortemente voluto da Putin e da lui indirizzato e governato. Come dire: lo zar ha ordinato di mettersi alla finestra e stare a guardare. A che fine? Vendicarsi con il paese che ha strizzato fin troppo in passato l’occhiolino agli Usa o arrivare come un salvatore per ri-

prendere il controllo di quello che era un ex feudo dell’antica Urss? Probabilmente entrambe le cose. Vediamo perché: povero e senza grandi risorse energetiche, come hanno i suoi vicini centroasiatici, il Kirghizistan rientra però nei piani strategici sia degli Stati Uniti che della Federazione Russa. Interessi geopolitici che il presidente russo Medvedev ha ribadito subito dopo il precipitare della situazione ad aprile, mentre il suo primo ministro Putin si affrettava a dichiarare la completa estraneità di Mosca nell’organizzazione della rivolta, che molti analisti gli riconoscevano.

Già, perché per gli Stati Uniti, e soprattutto in questo momento, il Kirghizistan ha una grande importanza. Il Paese è vicino al teatro di guerra afghano ed ospita sul suo territorio una fondamentale base militare a stelle e strisce, quella di Manas, che agevola non poco il difficile compito statunitense di combattere la resistenza talebana. Gli americani hanno (ma oggi forse è meglio dire avevano) però anche altri progetti per il Kirghizistan. È infatti prevista la costruzione da parte di Washington di un centro anti-terrorismo nel sud del paese, per il quale, secondo i media

locali, erano già pronti 5,5 milioni di dollari americani. L’infrastruttura è parte di un progetto più ampio che ha portato alla costruzione del centro d’addestramento per forze speciali “Scorpion” nella città di Tokmak e di un ospedale militare nei pressi di Besh Kungey. Fino alla fuga di Bakiev, la capitale Bishkek era anche in procinto di ospitare i soldati in uniforme targata Nato. Lo aveva confermato, nemmeno tre mesi fa, il segretario generale dell’Alleanza Atlantica Rasmussen e le più alte autorità del paese centroasiatico. Il programma prevedeva l’apertura di un ufficio di rappresentanza nella capitale kirghiza e lo sviluppo di un programma di cooperazione tecnico-militare. Ovvio che tutto questo a Mosca non era visto di buon occhio. D’altronde anche i russi hanno una base militare nel paese centroasiatico, esattamente a Kant, a poche decine di chilometri da quella americana. E anche loro hanno progetti per il Kirghizistan: la costruzione di infrastrutture militari che però sotto la presidenza Bakiev subivano enormi ritardi. Proprio dove dovrebbe sorgere il centro anti-terrorismo americano, nella regione di Batken, vicino al confine con il Tagikistan, il Cremlino aspetta infatti da 9 mesi il permesso di costruire una


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La comunità uzbeka parla di massacro, ma non ci sono conferme

Allarme Croce Rossa: centinaia di morti e 80 mila profughi (Tashkent chiude le frontiere) di Antonio Picasso olo nella giornata di ieri i morti negli scontri in Kirghizistan hanno superato la soglia di 170 unità. Ma le battaglie di strada combattute in questi ultimi tre giorni avrebbero lasciato sul terreno oltre 700 vittime. A queste si aggiunge il flusso di profughi che si stanno riversando in Uzbekistan. Le stime della Croce Rossa internazionale parlano di 80 mila uzbeki che avrebbero già varcato la frontiera. Tant’è che il Governo di Tashkent ha deciso di chiudere i confini, bloccando 15 mila sfollati che cercavano di entrare nel Paese. Le cifre e lo svolgersi degli eventi bastano per poter parlare di un conflitto etnico fra la maggioranza kirghisa della popolazione (65%) e la minoranza uzbeka (14%), concentrata prevalentemente nelle regioni sud occidentali del Paese. L’epicentro delle tensioni resta l’area fra le città di Jalal-Abad e Osh. Secondo le testimonianze di chi è riuscito a mettersi in salvo, le forze regolari dell’Esercito kirghiso, accompagnate da gruppi di paramilitari, starebbero facendo scempio della popolazione locale. «Il ministero della Difesa non ci ha ordinato di sparare sui civili. Ma a Osh militari e polizia hanno ignorato gli ordini e hanno aiutato i banditi a ucciderli», ha detto Bakhtion Charipov, un ufficiale kirghiso di etnia uzbeka, che ha disertato. Sono numerose le testimonianze di questo genere che sono state raccolte.

S

Sopra, il primo ministro russo Putin. Sotto, il presidente uzbeko Islam Karimov; a destra: Roza Otunbayeva, capo del governo provvisorio di Bishkek. In apertura: soldati e profughi uzbeki al confine con il Kirghizistan

sua base (oltre a quella in progetto nella città di Osh - oggi teatro degli scontri - nella Valle di Fergana).

Lecito allora pensare che lo zampino russo nell’intera insurrezione kirgiza sia più che probabile e che la nuova Russia stia pianificando di riemergere come potenza extranazionale. Una tendenza apparsa già con l’intervento nel Caucaso in sostegno agli ossettini e contro la Georgia di Saakashvili. Una tendenza che presto potrebbe colpire il

Il presidente uzbeko Karimov teme che la sua testa possa rotolare molto presto. Ed è corso dallo zar moscovita vicino Uzbekistan nelle mani del 72enne dittatore Islam Karimov. Che non a caso il giorno dopo la cacciata di Bakiev si era precipitato a incontrare Putin e Medvedev e a riconoscere il governo provvisorio della Otunbayeva. Karimov ha diversi motivi per auspicare una rapida soluzione della vicenda kirghisa: teme infatti che la rivolta possa “filtrare” attraverso il fragile confine anche nel suo paese. Andrei Grozin, analista dell’Istituto per i paesi della Comunità degli stati indipendenti di Mosca ricorda che la rivoluzione dei Tulipani del 2005 che rovesciò Askar Akaiev e portò al potere Bakiev - fu seguita poche settimane dopo, e non casualmente, dalle proteste di massa di Andijan, che misero in discussione il potere di Karimov e

che furono soppresse in un bagno di sangue. Non solo: Karimov non può neanche permettersi una linea in contrasto con Mosca, che da alcuni analisti è considerata l’artefice della caduta di Bakiev, quanto meno indirettamente attraverso il blocco delle tranche dell’aiuto anticrisi che aveva accordato a Bishkek e con l’aumento dei dazi doganali sulle esportazioni di idrocarburi. Una punizione per il mancato sfratto degli statunitensi dalla base aerea di Manas. Una scure che Karimov teme possa cadere sulla sua testa visto che la scorsa estate ha boicottato il summit dell’Organizzazione per il trattato collettivo di sicurezza (Csto) su cui Mosca punta molto e, peggio ancora, ha flirtato con gli Usa alla ricerca di nuovi canali di approvvigionamento per l’accresciuto contingente di stanza in Afghanistan.

Secondo un censimento del 1999, in Kirghizistan il 65 per cento della popolazione è di cultura kirghisa, il 14 per cento è uzbeka, il 13 per cento russa, l’1 per cento Dungan (cioè cinese-islamico) ci sono poi piccole aliquote di uiguri, tatari e uno 0,4 per cento di tedeschi, deportati da Stalin durante la seconda guerra mondiale, ma oggi in via d’esaurimento perché stanno andando via proprio a causa dei conflitti etnici. Uzbeki e kirghisi, nelle province di Osh e di JalalAbad si stanno massacrando in un conflitto etnico che la mano dura di Askar Akaiev, prima, e di Bakiev poi, aveva soltanto sopito. Era l’estate del 1990 quando un altro conflitto etnico aveva lasciato a terra 250 persone. Si tratta di una zona da sempre esplosiva, parte della Valle di Ferghana, che gli osservatori considerano la regione più pericolosa dell’Asia centrale, in cui povertà, miscuglio etnico-culturale, fondamentalismi religiosi creano una miscela altamente esplosiva. Divenuta ancor più a rischio dopo che, nella regione AfghanistanPakistan, la pressione delle forze statunitensi e di quelle pachistane ha portato molti militanti islamici originari di quest’area condivisa da diversi paesi della regione a tornare a casa. E che adesso Mosca sta pensando, proprio come la sua roulette russa, di far esplodere.

Proprio Osh aveva fatto da ultimo baluardo per l’ex Presidente della Repubblica, Kurmanbek Bakiev, una volta che era stato deposto il 13 aprile scorso. L’autocrate, che si era finto leader democratico guidando la “Rivoluzione dei tulipani”nel 2005, si era sottomesso alla volontà dei golpisti e – abbandonando i suoi sostenitori – si era rifugiato prima nel vicino Kazakhstan e ora è sotto la protezione del Presidente bielorusso, Aleksandr Lukashenko. Il Governo provvisorio di Bishkek ne ha chiesto l’estradizione, ma da Minsk è giunta un secco rifiuto. Nei giorni successivi al Colpo di Stato alcuni osservatori avevano paventato l’eventualità che di una “balcanizzazione”dell’instabilità kirghisa. Del resto, Bakiev faceva da “collo di bottiglia” per contenere le istanze indipendentiste e le difficili convivenze

fra kirghisi, uzbeki, russi e le ridottissime minoranze cinese e tedesca. Roza Otunbayeva, da aprile a capo del Governo provvisorio, aveva promesso le elezioni entro la fine del 2010. Un tempo troppo lungo, questo, per evitare che le etnie rivali non arrivassero allo scontro fisico. «A questo punto la situazione non può che peggiorare». È stata la riflessione quanto mai lucida fatta dal capo del Consiglio di Sicurezza Pubblica nazionale ed ex Primo ministro, Felix Kulov. Sia la Otunbayeva sia quest’ultimo, ex sostenitori di Bakiev, hanno cercato di ridare verginità al regime deposto. La loro buona volontà però è stata mal ripagata dalle unità etniche, che stanno approfittando del vuoto di potere per realizzare i loro sogni di autodeterminazione. Vista la posizione geografica del Paese, gli interessi geopolitici coinvolgono in prima istanza tre superpotenze: Cina, Russia e Stati Uniti. È a pochi chilometri da Bishkek la base aeroportuale di Manas, utile per il rifornimento delle truppe Nato nel teatro di guerra afgano. Un conflitto civile in Kirghizistan imporrebbe al Pentagono e agli eserciti suoi alleati un’alternativa difficile da trovare in tempi brevi. Quando si parla del Kirghizistan però si pensa anche alla Valle del Fergana, epicentro dell’Islamic Movement of Uzbekistan (Imu): gruppo terroristico molto attivo a sostegno della causa talebana. L’instabilità di Bishkek potrebbe favorirlo e inglobare il conflitto etnico locale nell’“Af-Pak war”. Nel frattempo il Presidente russo Dimitri Medvedev ha già inviato 150 paracadutisti per proteggere la base militare russa a Kant. Inoltre ha convocato i rappresentanti dell’Organizzazione del Trattato per la Sicurezza collettiva (Csto), l’alleanza tra le sette delle repubbliche ex sovietiche, Kirghizistan compreso. L’obiettivo è un intervento comune, come ha chiesto l’Onu. Nel contesto solo la Cina sembra andare controcorrente. Ieri, invece di rispondere positivamente alla concertazione, Pechino si è limitata a evacuare i 500 imprenditori suoi connazionali. Un gesto di sorprendente disinteresse per quanto sta accadendo oltre i suoi più immediati confini.


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panorama

«Jabulani», pallone senza controllo di Giancristiano Desiderio abulani nella lingua degli Zulu significa “festeggiare” o “celebrare” o “rendere omaggio alla divinità”. Con i Mondiali di calcio del Sudafrica tutto il mondo festeggia “il divino pallone” e infatti il pallone dell’Adidas con cui si gioca si chiama proprio così: Jabulani. Non poteva esserci modo più bello e vero per chiamare il pallone senza la cui sfericità e imprevedibilità i giocatori in campo non solo non saprebbero più cosa fare, ma non sarebbero neanche più giocatori. Eppure, c’è chi si lamenta di Jabulani. Il nostro Buffon, ad esempio, dice che Jabulani è troppo leggero, va troppo diritto, è troppo veloce e, insomma, non è facile da controllare e prendere. C’è una prova, anzi più di una: la “papera”del numero 1 dell’Inghilterra, Robert Green, che si è fatto sfuggire Jabulani dalle mani su tiro, tutt’altro che irresistibile, dello statunitense Dempsey e l’altra mezza papera del portiere algerino Faouzi Chaouchi. Ma se sono delle “papere” che colpa ha Jabulani? Nessuna. «Le polemiche sul pallone», ha detto il grande e simpatico e irriverente Bruce Grobbelaar, «mi fanno ridere». Ha ragione lo storico portiere del Liverpool che con le sue smorfie mise paura anche al grande Falcao in quella notte maledetta in cui gli inglesi vinsero ai rigori la Coppa dei Campioni (si chiamava ancora così) proprio all’Olimpico: «Mi fanno ridere perché tre settimane ad allenarti tutti i giorni bastano e avanzano per abituarti al pallone». Insomma, poche storie: si gioca grazie a Jabulani e non nonostante Jabulani.

J

Il lettore mi perdonerà se giunto “nel mezzo del cammin” dell’articolo cito il titolo del mio libro uscito ora da Vallecchi: Il divino Pallone. Qui celebro e festeggio Jabulani che è la ragion d’essere del calcio: potete immaginare un calcio senza arbitro e guardialinee (quarto uomo incluso), senza allenatore, persino senza porte; ma non potete immaginare il calcio senza pallone. E qual è la qualità essenziale del pallone? Non è totalmente controllabile. Se fosse totalmente controllabile - pesante, lento, sgonfio non si potrebbe giocare. E addio festa. Addio calcio. Perché si possa giocare a calcio il pallone deve essere pallone. Fateci caso: il pallone va controllato, governato, padroneggiato; ma il controllo non può essere fine a se stesso, altrimenti al massimo si giocherebbe a palla avvelenata o roba simile, ma non a calcio. Infatti, una volta che il pallone è stato controllato va messo in gioco ossia va abbandonato. Ecco, questi sono i due principi del calcio: controllo e abbandono. Strano: sono i medesimi principi della vita umana. Anch’essa è Jabulani.

Dalla crisi all’Unità d’Italia, siamo nelle mani di Lippi Mai come stavolta il calcio ha un grande valore extra-sportivo di Paola Binetti segue dalla prima Non c’è dubbio: da qui in avanti gli azzurri non saranno soli, ma questo cordone ombelicale che si rinnova in ogni grande sfida ha un prezzo altissimo, il prezzo che dovrà pagare il mister, il mitico allenatore di una squadra, che è in gran parte specchio ed immagine dell’altra squadra, quella vincitrice del mondiali del 2006.

Su Marcello Lippi si scaricherà ogni responsabilità e lui lo sa bene, perché, nonostante le tante vittorie, ha già pagato questo stesso prezzo varie volte nella sua vita. Un prezzo amaro, spesso ingiusto, che serve solo ad individuare un capro espiatorio su cui scaricare tutte le frustrazioni di un popolo di tifosi deluso e in fondo in fondo convinto che ognuno di loro al suo posto avrebbe saputo fare di meglio. Perché se è vero che davanti a una partita del Mondiale ci sentiamo tutti un po’ più italiani, è altrettanto vero che tra i tanti ruoli che si potrebbero giocare tutti finiscono col sentirsi soprattutto allenatori. E in questa chiave fin da ora stigmatizzano una serie di scelte fatte da Lippi: troppi giocatori della Juve, troppi giocatori in là con gli anni e alcuni perfino un po’troppo acciaccati, e probabilmente schemi di gioco un po’ superati, già visti e già noti agli avversari, che sicuramente si saranno attrezzati per batterci. E poi non si capisce perché manchino all’appello proprio quei giocatori che sono capaci di cambiare le sorti di una partita, quei soggetti geniali e forse per questo un po’ scomodi, che hanno le ali nei piedi e lo sguardo in rete. Ci mancano i campioni di oggi, quelli che nel campionato appena concluso sono diventati idoli delle folle, proprio perché sono stati capaci di rilanciare situazioni drammatiche trasformandole in vittorie clamorose. Quelli, Lippi non li ha voluti. Alla genialità propria del campione ha preferito la disciplina della squadra, all’estro individuale di qualcuno ha anteposto la sua saggezza di allenatore, alla creatività che improvvisa soluzioni estemporanee ha contrapposto la tecnica matura di chi non crea imbarazzi. E d’altra parte anche il silenzio rigoroso sulla formazione prima di ogni scontro, a guardar bene non fa testo, perché in realtà anche ieri -come sempre in questi casi - erano molti ad immaginare come sarebbe stata la tattica di gioco, difensiva assai più che aggressiva,

fedele alle consegne anche se questo la potrebbe rendere noiosa e tutt’altro che esaltante.

Eppure tutti continuamo a sperare che Lippi nel corso di questo Mondiale ci sorprenda, che abbia uno scatto di fantasia e che riesca ad accendere un sogno di cui tutti abbiamo bisogno in questi tempi di crisi: il sogno di un’Italia che potrebbe farcela, che potrebbe davvero tornare a vincere, nonostante i dubbi e le perplessità della vigilia. C’è un Italia che forse digerirà meglio la manovra finanziaria, con tutti i suoi tagli bestiali, se potrà mandarla giù con la vittoria dei mondiali. Come si fa con le medicine amare… Ci sono giovani in giro per i campi scuola estivi che davanti alla minaccia di una sorta di precariato a vita, più o meno a 1000 euro al mese, cominceranno a pensare che imparare a giocare bene a calcio vale più di un corso universitario faticoso e assai poco redditizio. Ma c’è anche la possibilità paradossale che l’eventuale vittoria degli azzurri convinca i giovani che vale la pena studiare e caricarsi di un lungo allenamento intellettuale per vincere i mondiali della propria vita… Tutto, ma proprio tutto sembra stare nelle mani, nella testa e forse anche nei piedi di Marcello Lippi.

La percezione della realtà sociale cambia a seconda dei risultati della nazionale. Il ct lo sa: per questo siamo con lui

La sua storia è straordinaria non solo e non tanto per le sue vittorie, che comunque ne fanno un mito, quanto per come ha saputo reagire davanti ai “licenziamenti”decisamente ingrati che hanno seguito le sue sconfitte. Chi non ricorda come seppe allenare la Juventus nella stagione del 1994-95, riportando 38 vittorie su 56 partite.Venti delle quali ottenute in casa e 18 in trasferta. Quell’anno vinse scudetto e Coppa Italia. Ha vinto cinque scudetti, una Coppa Italia, quattro Supercoppe italiane, una Champions League, una Supercoppa europea e una Coppa Intercontinentale. Ct della Nazionale italiana dal 2004 al 2006, ha conquistato il titolo di Campione del mondo nel 2006, diventando così l’unico allenatore al mondo vincitore della Coppa del Mondo per nazioni (2006) e per club (1996). Eppure tutti ieri sere lo abbiamo guardato e giudicato con una sola spinta forte: abbiamo bisogno di vincere per credere un po’ di più in noi stessi, nel nostro Paese e nella nostra capacità di farcela, proprio quando la situazione sembra tutt’altro che facile. E allora, prima id ogni sfida non gli mancherà la nostra voce: Marcello facci sognare!


panorama

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«Il mondo finanziario non ha ancora capito che il modello del secolo scorso è finito. Lo ha scritto anche Tettamanzi»

«Il futuro del capitalismo? Solidale» Parla Mimmo Sieni, che da quindici anni combatte Credit Suisse nei tribunali di Franco Insardà

ROMA. «Il mondo finanziario non ha ancora capito che il modello capitalistico del secolo scorso è finito. Il futuro della finanza è il capitalismo solidale con finalità etiche, altrimenti alla lunga le banche sono destinate a perdere. La finanza italiana è abbastanza bistrattata, ma ci sono alcuni personaggi che vanno seguiti. Alcuni hanno già parlato di finanza etica e di capitalismo solidale e lo stesso arcivescovo di Milano, Dionigi Tettamanzi, ha pubblicato un libro splendido proprio sull’argomento». A parlare così è il marchese Mimmo Sieni che dal 1995 sta conducendo una battaglia legale contro il Credit Suisse. Ultimamente la Corte di appello di Milano, dopo sei gradi di giudizio con due pronunce della Cassazione, ha emesso una sentenza con la quale si riconosce che la decisione dell’istituto di credito, di recedere dal contratto di apertura di credito bancario a “medio termine”, costituisce un illecito contrattuale per violazione dell’obbligo di buona fede. Già il ministero del Tesoro aveva emesso un decreto sanzionatorio e la Consob aveva suggerito l’applicazione di sanzioni.

ca, sulla malagestio del conto corrente gestione patrimoniale e per la risoluzione illegittima del rapporto a suo tempo sottoscritto davanti al notaio».

Mimmo Sieni, in questa sua battaglia, non ha lasciato nulla di intentato e in due occasioni, nel 2001 e 2010, ha acquistato pagine intere sui maggiori quotidiani nazionali per far conoscere le decisioni delle autorità competenti. «Speravo di guadagnare tempo rite-

nendo che un istituto bancario, di fronte a una pubblicità del genere, fosse stimolato a chiudere la vicenda. Purtroppo non è andata così. Nel 2001 la rete televisiva di stato svizzera ha trasmesso uno speciale sul mio caso e gli amministratori di Credit Suisse hanno dichiarato che la vicenda era chiusa. Purtroppo siamo nel 2010 e la questione è ancora aperta e la malafede prosegue. In secondo luogo volevo mettere sull’avviso i cittadini a prestare maggiore attenzione nei loro rapporti con le banche, ma anche questo obiettivo non ha dato i risultati desiderati perché gli episodi dei bond argentini e di Lehman Brothers si sono verificati lo stesso».

«In totale assenza di finalità etiche, alla lunga le banche sono destinate a perdere il loro ruolo»

Scontrarsi con un colosso bancario non è impresa da poco e per il marchese Sieni si è trattato di dover rinunciare a finanziare i progetti della “Aids Foundation Immunology and Allergology”, organizzazione non governativa riconosciuta dalle Nazioni Unite. «Ancora oggi il mio patrimonio è bloccato e le restanti risorse sono state finalizzate alla battaglia contro il Credit Suisse. Bisogna tener presente che parliamo di un patrimonio periziato all’epoca di 30 miliardi di lire. Poco tempo fa il vicepresidente del Credito Svizzero è venuto in Italia e ha fatto una proposta per noi non accoglibile,

«Per adesso si tratta della vittoria di Pirro – dice il marchese Sieni –. Ora c’è tutta la vicenda relativa ai risarcimenti, finora si è soltanto dimostrato il comportamento illegittimo della ban-

ma ha anche aggiunto che, pur riconoscendo le mie ragioni, la mia vicenda in sede giudiziaria avrà una conclusione a favore degli aventi causa. La mia fortuna è stata che essendomi occupato per quindici anni di diritti dell’uomo e del fanciullo alle Nazioni Unite fatto delle esperienze che mi hanno dato un’energia speciale e sono risultate utili per questa mia vicenda personale che non credo possa essere facilmente gestibile normalmente.

Esperienze che, dal 2005, ho messo al servizio della “Robert F. Kennedy Memorial”, rappresentandola come osservatore permanente presso lo Stato del Vaticano». E per il futuro Mimmo Sieni continua a sperare di poter «realizzare il progetto per il quale avevo iniziato la partnership con il Credit Suisse: la costruzione di un centro abitato, con peculariatà ambientali, su una mia proprietà a Tivoli vicino alle terme. Un progetto che prevede una nuova ubicazione dell’abitabilità nel territorio con l’utilizzo delle acque termali per finalità terapeutiche senza fini di lucro, un centro direzionale delle Nazioni Unite per l’ambiente e un centro di riunioni interreligiose, centro per gli anziani, multiproprietà e residenza abitativa. Doveva essere pronto in occasione del Giubileo del 2000. Invece è ancora nel cassetto».

Tagli. Sit-in davanti al Senato di Cisl, Uil, Confsal e Gilda. Assente la Cgil, sempre più isolata

Scuola, la protesta dei sindacati di Vincenzo Bacarani

ROMA. «Un taglio aggiuntivo iniquo che va a colpire un settore che non versa certo in buone condizioni». Questo è il parere dei sindacati della scuola di Cisl, Uil, Confsal e Gilda Unams che per stamane alle 10,30 al Teatro Quirino, nella capitale, hanno organizzato una manifestazione di protesta che sarà poi seguita da un sit-in davanti al Senato. Non si tratta – precisano gli organizzatori – di una protesta a prescindere, ma di una contestazione su un provvedimento preciso e circoscritto al settore scolastico. E qual è questo provvedimento? Il taglio permanente e definitivo di tre anni di anzianità al personale dell’istruzione. Una sforbiciata che riguarda tutti: dal collaboratore al docente, indipendentemente dall’età e dalla carriera lavorativa.

re, magari con un emendamento, il taglio di tre anni con un danno economico che si ripercuote non solo sullo stipendio, ma anche sulla liquidazione e sulla pensione. Per comprendere meglio la situazione: il blocco proposto da Tremonti nel settore scuola comporta una riduzione dello stipendio di mille eu-

L’obiettivo non è generico, ma preciso e circoscritto: la “sforbiciata” permanente e definitiva di tre anni di anzianità al personale dell’istruzione

Alla manifestazione non parteciperà la Cgil che – sempre più isolata rispetto al resto delle organizzazioni sindacali nazionali – preferisce i cortei e le piazze di tutti i settori (pubblico e privato) per il prossimo 25 giugno. Oggi per Cisl, Uil, Confsal e Gilda-Unams è una giornata di mobilitazione importante che mira a modifica-

ro all’anno per un collaboratore, di due-tremila per un insegnante.Tutto questo a fronte di un taglio di soli 500 euro al dirigente statale che percepisca uno stipendio annuo di 100 mila euro. «Il fatto – dice a liberal Francesco Scrima, segretario generale della Cisl Scuola – è che si tratta di un taglio strutturale a fronte di una manovra congiunturale che già ci colpisce con il blocco del contratto. I nostri scatti sono seisettennali e quindi il blocco dei tre anni può

colpire chiunque, indipendentemente dall’anzianità». Per Rino Di Meglio, coordinatore nazionale della Gilda-Unams «è inaccettabile che siano sempre i poveri a pagare, mentre la classe politica continua a sprecare risorse». Rino Turi, segretario organizzativo Uil Scuola, chiede «che venga cancellata questa bruttura. I nostri non sono scatti, come vengono intesi generalmente, ma progressioni economiche di anzianità». «Siamo di fronte – spiega a liberal il segretario generale della Confsal, Marco Paolo Nigi – a una iniquità. A questo punto chiediamo alla maggioranza e anche all’opposizione un emendamento alla manovra che eviti questa ingiustizia che riguarda un milione e trecentomila persone». Sul fatto che la Cgil non partecipi a questa manifestazione, Nigi spiega: «La Cgil ha scelto la piazza e lo sciopero. Noi abbiamo scelto la protesta e la proposta».


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il paginone

Lo storico tedesco analizza il nuovo libro di Michael Novak sul rapporto tra atei e credenti: «Ha reso udibile la voce della cristianità» ichael Novak, americano di origine slovacca, ha sempre condotto la vita dello scrittore e intellettuale cattolico impegnato. È stato studente alla Gregoriana di Roma e poi ad Harvard. Durante la seconda sessione del Concilio Vaticano II fu corrispondente da Roma per alcune riviste cattoliche statunitensi, ed era considerato nel numero delle forze progressiste.

M

All’inizio degli anni ottanta lavorava come diplomatico americano, ha scritto diversi libri, e persino due romanzi, e attualmente è titolare di una cattedra all’American Enterprise Institute, oltre che collaboratore americano responsabile presso il giornale Liberal, della Fondazione Liberal di Roma. Il suo libro sul rapporto fra atei e credenti è stato pubblicato nel 2008, ed è ora disponibile la traduzione italiana. Il titolo sembra sottintendere che atei e cristiani credenti possano incontrarsi con cautela e prudenza di fronte alla questione della conoscenza di Dio, ma questa non è che un’impressione. «Vedere» è qualcosa di diverso dal conoscere, e Novak nel suo libro non esita a sottopor-

Fascismo e nazionalsocialismo si dichiararono nei primi anni, anche se già allora senza una genuina credibilità, del tutto contrari al carattere fondamentalmente anti-cristiano del loro nemico comunista re ai suoi inevitabilmente «multiculturali» lettori complesse questioni della teologia cristiana, come la dottrina dell’eternità, ovvero della non temporalità del Dio cristiano ed ebraico, l’onniscienza divina, la particolarità della «volontà» di Dio e la Sua trascendenza. La prima parte del libro si intitola False partenze, e si occupa in primo luogo delle pubblicazioni e delle dottrine di tre diversi

atei: Richard Dawkins, Daniel C. Dennet e Sam Harris. Le citazioni dai libri di questi autori portate ad esempio da Novak non lasciano grandi aspettative sul fatto che atei e credenti possano vivere insieme in un clima di moderata tolleranza e senza alcun contrasto. Harris si propone di distruggere le pretese morali e intellettuali del cristianesimo, Dawkins definisce il Dio dell’Antico Testamento un «criminale psicotico», e invita i cristiani a passare dalla sua (di Dawkins) parte al fine di eliminare per sempre la «piaga della religione» e «superare l’illusione di Dio». Christopher Hitchens pone come sottotitolo di uno dei suoi libri How Religion Poisons Everything, e definisce la fede religiosa «una descrizione completamente errata delle origini dell’uomo e dell’universo». È evidente che questi atei siano completamente convinti che la loro opinione sia la sola e unica verità, e di fronte a cristiani ed ebrei parlano con quella stessa sicurezza di sé ed ostilità che nel Medioevo erano proprie dei militanti di certe sette che si opponevano l’una all’altra, o dell’aspra polemica contro le religioni straniere. Novak non si lascia coinvolgere in questo genere di polemica: sottolinea l’oscurità presente anche nell’esistenza cristiana, che pone spesso i credenti di fronte all’assurdo e che rende possibile agli atei delineare l’immagine di un Dio «antropomorfo e fondamentalista». Dawkins, Dennett e Harris non sono assolutamente gli unici atei, e anzi il più noto degli atei moderni, Jurgen Habermas, mostra grande rispetto nei confronti dei credenti. Novak cede inoltre con grande comprensione la parola a una collega, Heather Mc Donald, che espone dettagliatamente la sua visione atea ma umanistica, ed è ancora Novak a porre una fondamentale distinzione tra l’ateismo umanistico dei paesi anglosassoni e «l’ateismo sanguinario e oppressivo del comunismo e del fascismo», distinzione che si riflette nella differenza fra «laici» e «laicisti». Novak distingue anche tra le «visioni», ovvero le concezioni di base o il modo di guardare, e mette a confronto le «visioni» dell’ateismo, del deismo e delle fedi cristiana ed ebraica, nel senso di un’equiparazione sulla base della prima impressione. Ma una tale equiparazione in nessun caso può essere concessa agli atei fanatici, perché farebbe annegare anche i credenti nel mare del relativismo. Ma questa dichiarazione di guerra rimane solo un accenno, perché ci sono numerosissime ragioni per cui credenti e atei (umanistici) debbano incontrarsi in modo nuovo, e cioè con «reciproco rispetto e apertura», perché il mondo è troppo complesso per giustifi-

Ateismi p di Ernst Nolte

Un paio di obiezioni al teologo Usa. Il rifiuto della religione di nazismo e bolscevismo non è esattamente lo stesso. E dov’è l’antisemitismo cristiano?


il paginone campi di concentramento e in parte uccisi. Ma in nessun caso fu presentata come motivazione dell’arresto la «fede cristiana». Si pone perciò la questione se due ideologie così diverse per quanto riguarda il rapporto con la cristianità possano essere ricondotte in egual misura al concetto di ateismo. Nessun altra opinione è stata sottolineata e affermata da Novak più di questa: «la fede cristiana e quella ebraica» hanno uno strettissimo legame, al punto che il lettore potrebbe avere l’impressione che l’autore le ritenga quasi identiche. L’«antisemitismo» nazionalsocialista sarebbe quindi una negazione del Dio cristiano. Ma è così ovvio che la religione più giovane, e in particolare la dottrina di Cristo come Messia così appassionatamente contestata da tutti gli ebrei, non abbia alcun atteggiamento di rifiuto o di opposizione nei confronti della religione più antica, e non abbia quindi una sua propria e genuina identità? In duemila anni di storia della Chiesa non è forse sempre stata sostenuta, fin dai tempi di Giovanni e Marcione, l’opposta immagine del Dio «adirato» dell’Antico Testamento e del Dio amorevole del

pericolosi care una «pretesa di possesso esclusivo della verità» (p.218). E tuttavia si incontra un’altra distinzione, quella fra i moderati e i laicisti intransigenti, ai quali appartengono anche nazionalsocialisti, fascisti e comunisti. L’ultimo giudizio espresso potrebbe quindi apparire molto semplice: «Dobbiamo sforzarci di essere buoni e gentili con il nostro prossimo» (p. 331)

Nessuno può vedere Dio

Osservando il panorama religioso contemporaneo, la divisione tra atei e credenti sembra rigida. Essendosi a lungo interrogato sul fine dell’esistenza e sul significaSarebbero in realtà da porsi alcune to della sofferenza, Michael Novak considera la realtà della vita domande, che avrebbero potuto trospirituale molto diversa dalle devare risposta se il libro fosse stato più scrizioni fornite dagli atei di sucvoluminoso. Fascismo, nazionalsocialismo e comunismo vengono cesso e dai difensori deldefinite in pari misura ideola fede che a loro si opMichael logie e regimi «atei». Ma il pongono. In Nessuno può Novak ERE DIO vedere Dio. Il destino co - NESSUNO PUÒ VED bolscevismo voleva chiaracredenti Il destino comune di atei e mune di atei e credenti, il mente e fin dall’inizio essere ateo, e un “Movimento Novak rimodella brillanateo” si avvalse in maniera temente lo stanco dibatticonsiderevole dei mezzi to che oppone la fede alla statali per la propria proparagione. Sia atei che creganda; invece sia il fascidenti attraversano la stessmo italiano che il nazionalsocialisa “notte oscura” nella smo tedesco si dichiararono inizialquale la presenza di Dio sembra mente, anche se già allora senza una assente, argomenta l’autore; e il genuina credibilità, decisamente conconflitto tra fede e dubbio non proviene da differenze oggettive, trari al carattere fondamentalmente ma dalle diverse attitudini nei ateo del loro nemico comunista, e anconfronti dell’ignoto. Forte della che negli ultimi anni del regime tedesua antica passione per la filososco persino alte autorità delle SS non fia e del suo impegno personale a si dichiaravano «atei», bensì «credenfavore della fede, Novak dimoti». Ancora in questi stessi ultimi anni stra che lungi dall’essere irrazioda parte delle voci ufficiali di entramnale, la prospettiva spirituale forbe le confessioni non mancarono tenisce di fatto le risposte più sodstimonianze di simpatia nei confronti disfacenti alle eterne domande della lotta antibolscevica condotta sul senso dell’esistenza. dal regime, sebbene già migliaia di ecclesiastici fossero stati inviati nei reliOsservando il panorama la divigioso contemporaneo, semsione tra atei e credenti lungo bra rigida. Essendosi a interrogato sul fine dell’esistensoffeza e sul significato della considerenza, Michael Novak ra la realtà della vita spirituale descrizioni dalle molto diversa e fornite dagli atei di successo che a dai difensori della fede loro si oppongono. In Nessuno può vedere Dio. Il destino comune di atei e credenti, Novak rimodella brillantemente oppone lo stanco dibattito che atei la fede alla ragione. Sia la che credenti attraversano nella stessa “notte oscura” semquale la presenza di Dio l’autobra assente, argomentae dubre; e il conflitto tra fede bio non proviene da differenze oggettive, ma dalle diverse attitudini nei confronti dell’iantica gnoto. Forte della sua e del passione per la filosofia a favopersonale impegno suo che re della fede, egli dimostra la lungi dall’essere irrazionale, fatto prospettiva spirituale di soddifornisce le risposte più domande eterne sfacenti alle . La sul senso dell’esistenza sfida, fede attualmente è una l’unico ma cionondimeno offre e coerente esito all’esperienza può umana. Infine, Nessuno e vedere Dio offre a credentidi non credenti la possibilità scoprire un terreno comune attraverso il quale riconoscere la complicata realtà dell’umana lotta con il dubbio. Novak cristiadifende il punto di vista che no senza i toni petulanti il così spesso caratterizzano dibattito sulla fede. In un tempo pieno di sfide comeche quello attuale, tutti colorotrovehanno a cuore la libertàquesto ranno una speranza in nuovo modo di ragionare.

NOVAK

DIO

i di riconoscere Vorrei chiedere ai credent fratelli, negli atei i propri a una parte che talvolta danno voce stessa anima. inespressa della loro chi essi stessi Entrambi devono capire vasto cosmo, realmente sono in questo a galassie, mezzo in del tutto insignificanti e freddi asteroidi, pianeti morti e lune ancora più fredde

NESSUNO PUÒ VEDER

MICHAEL NOVAK, teologo, politologo, teorico dell’economia e di scienze del sociali, portabandiera cattolicesimo neo-conserva della tore, è convinto fautore cattoconciliazione tra l’etica lica e lo spirito del capitalifu smo. Negli anni Ottanta che uno dei giovani ideologi saldarono “l’alleanza” Reagan tra la presidenza Paolo e il papato di Giovanni dei suoi II. Elemento centrale studi è il superamento la di quella diffidenza che Chiesa e gli intellettuali cattolici nutrono e hanno nutrito verso il libero mercato. Nato a Johnstown in Pennsylvania nel 1933, è attualmente direttore di Studi sociali e politici dell’American Enterprise Institute. È direttore da Washingtondi liberal quotidiano. Con liberal Noi, Edizioni ha pubblicato voi e l’Islam (2005).

43-3 ISBN 978-88-88835-

edizioni

€ 22,00

edizioni

Islamofascismo e basso tasso di crescita della popolazione (in Europa e Stati Uniti) sono individuati come i due rischi più pressanti che l’Occidente deve affrontare in questa fase della storia Nuovo Testamento? Novak ha forse fatto sua l’opinione, diffusa anche tra i cattolici in tutto il mondo, che gli ebrei siano gli unici non cristiani che non hanno bisogno di giungere alla redenzione attraverso Cristo, poichè dispongono di una loro propria via per la salvezza.Trattandosi di un libro relativamente agile, ancora una volta c’è appena lo spazio per la domanda, e meno che mai per la risposta, ma la presenza di questo interrogativo è difficile da ignorare. Ma ciò che servirebbe è probabilmente un nuovo libro sull’«antisemitismo cristiano». Nel finale Novak si occupa di due pericoli del presente, primo dei quali è l’«Islamofascismo», e non perciò l’«Islam». Diventa inevitabile chiedersi in quale misura una religione fortemente teista possa rappresentare per la fede cristiana e il «mondo

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cristiano» un pericolo più grande della mancanza di fede dell’ateismo occidentale. Bisognerebbe indagare se nel cosiddetto islamofascismo siano presenti quelle tendenze all’ateismo, ad esempio sotto forma di critiche ad «Allah», che si percepivano già nelle prime forme del fascismo europeo, come nel caso di Maurras. Per arrivare a una risposta forse non sarebbe sufficiente nemmeno un altro libro. Ma come secondo pericolo attuale si indica la «Demografia»: ovvero il basso tasso di crescita della popolazione negli stati «laicisti» dell’Europa e negli Stati Uniti, rispetto alla crescita rapida e fondata sulla religione della popolazione degli stati islamici. Ciò pone la possibilità che la forza vitale dei musulmani, segnata dall’imprescindibile ostilità dello «jihadismo», prevalga sugli stati occidentali in declino. E Novak si esprime qui in maniera metaforica e incisiva, quando scrive: «Avanti soldati del laicismo! Nessuno ha ancora imposto un inno con queste parole per essere cantato nelle guerre di autodifesa». Ma questa frase non vale forse sia per i «credenti» che per i più convinti atei, che in questo frangente si trovano «nella stessa barca»? Novak è chiaramente incline a imboccare la via dell’autodifesa, e perciò deve, anche solo implicitamente, dichiarare guerra alla parte radicaledogmatica degli intellettuali atei, mentre offre all’altra parte una riconciliazione, sulla base delle comuni convinzioni umanistiche e illuminate. La situazione storica mostra che opposizione e unità non si escludono necessariamente l’una con l’altra, e non bisogna perciò rimproverare all’autore il fatto di aver sollevato alcune importanti domande solo “en passant”. Tuttavia, il fatto che egli dedichi la maggior parte del suo libro a Cristo di fronte all’ateismo umanistico, inteso sempre in maniera positiva, e non “capitoli” di fronte ad esso, risulta chiaro alla fine del libro, quando si riprende in esame la vera e propria problematica teologica. In questo contesto Novak sottolinea chiaramente il diritto al dubbio, di fronte alla pretesa che si potrebbe definire sovrumana da parte del cristianesimo, che l’uomo debba e possa credere; un Dio in forma umana, corrispondenza cosmica dell’umanità terrena, si erge, in qualità di creatore e conservatore, su un universo nel quale più nessuno riesce a vedere il «il cielo stellato sopra di me» come Kant, o il vestito di Dio [metafora per indicare il cielo, ndt], perché esso, secondo i risultati della scienza, consiste semplicemente di ampiezze non misurabili e vuote, di polvere incandescente e di nuvole di gas. Alla fine del libro Novak può quindi citare la famosa frase del padre della Chiesa Tertulliano “Credo quia absurdum”. Ma non si intende qui lo stesso “assurdo” delle popolari dichiarazioni degli atei, perché esso per i credenti appartiene alla sfera del mistero. L’autore Michael Novak è da ringraziare, perché nel pieno della moderna cacofonia relativa alle domande fondamentale sull’esistenza umana, ha reso udibile la voce della cristianità sia dal punto di vista delle trattazioni teologiche, sia da quello delle controversie giornalistiche.


mondo

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Analisi. Uno dei più grandi dissidenti cinesi spiega perché le richieste dei lavoratori vanno accolte ora, prima che sia tardi

Sciopero alla pechinese Un’ondata di proteste attraversa la Cina e rischia di travolgere l’intera società di Wei Jingsheng n occasione dell’anniversario del 4 giugno, ho visitato diverse nazioni dell’Europa occidentale. Posso dire che le popolazioni locali e le comunità cinesi che vivono in quei Paesi non hanno perso interesse per la questione democratica in Cina. Veramente, la situazione non è così pessima come alcune persone avevano predetto. Molti amici mi hanno spiegato che questo interesse si mantiene ancora in vita in parte perché la situazione attuale della Cina ha acceso di nuovo il fuoco della speranza. Inoltre, lo sviluppo della situazione attuale potrebbe portare a risultati molto diversi da quelli che molti si aspettano.

I

Il recente aumento dell’influenza dei movimenti dei lavoratori cinesi è uno degli esempi che la popolazione aspettava da tempo, per i quali stava iniziando a perdere la speranza. Sotto la repressione della potente macchina dittatoriale del Partito comunista cinese, negli ultimi decenni non è stata permessa la nascita di veri movimenti dei lavoratori nel Paese. Diversi sono i motivi che spiegano questo fattore. La prima è che, in Cina, esistono dei “sindacati” ufficiali che però, di fat-

to, rispondono al Partito. Queste organizzazioni agiscono come emanazioni governative. I dirigenti di questi presunti “sindacati” sono pagati dal governo, e sono divenuti i principali agenti nel campo del controllo e della distruzione dei veri movimenti dei lavoratori. Quando si presenta un conflitto fra la forza lavoro e i dirigenti, i “sindacati” si pronunciano sempre

I sindacati, nel Paese, esistono. Ma operano per gli investitori, non per gli operai: e questo perché, senza lo sfruttamento della manodopera, non si avrebbe l’enorme crescita economica a favore degli industriali. È difficilissimo che intervengano per i lavoratori. Nel corso delle ultime agitazioni dei lavoratori, sono stati i dirigenti sindacali a confrontarsi con più violenza contro gli operai; sono loro che si sono scontrati, fisicamente, con i dipendenti della Honda. Questo prova la vera natura del “sindacato” ufficiale. La seconda ragione che ha impedito uno sviluppo del movimento dei lavoratori dopo la presa del potere da parte dei comunisti è che, dal 1949, il Partito ha mostrato la sua vera natura. Dopo aver parlato di diritti e doveri, il go-

verno comunista ha iniziato a definire “un crimine politico” la richiesta di diritti da parte degli operai; e il crimine è stato combattuto con violenza. Negli ultimi 60 anni, diverse organizzazioni nate in maniera spontanea sono state spazzate via con l’accusa di essere “controrivoluzionarie”. I loro leader sono stati sbattuti in galera, o perseguitati in altro modo.

Le loro organizzazioni sono state dissolte. Esistono ovviamente anche altre ragioni che spiegano l’assenza di sindacati in Cina, ma queste prime due

sono sicuramente le più importanti. Il governo dittatoriale comunista e l’azione dei suoi falsi sindacalisti spiegano perché i lavoratori cinesi non sono mai riusciti a organizzarsi in difesa dei propri diritti. E questa impossibilità spiega l’interesse dei capitalisti di Hong Kong, Taiwan e altre nazioni rispetto al mercato del lavoro a basso costo in Cina. Dato che questi lavoratori producono buoni oggetti a poco prezzo, chi investe in questo mercato riceve maggiori dividendi. Per mantenere alti questi profitti, che sono eccessivi, tutti i capitalisti su piaz-

za si sono uniti nello sforzo di mantenere il sistema dittatoriale retto dal Partito comunista cinese. Questo sistema appartiene alla più basilare catena alimentare: pesce grande mangia pesce piccolo, e pesce piccolo mangia gamberi.

Da 20 anni a questa parte, insieme ai movimenti dei lavoratori, sono stati colpiti in maniera incessante anche i movimenti democratici. In entrambi i casi, si tratta di repressioni ordinate dai comunisti e dai loro alleati occidentali. Entrambi i movimenti hanno tentato e ten-

Gli stabilimenti del sud sono sempre più spesso teatro di manifestazioni contro lo sfruttamento: è la nuova generazione

L’avanguardia parte dal Delta dello Yangtze n’ondata di scioperi - cominciate alla Foxconn e alla Honda sta dilagando ormai in molte ditte cinesi. I lavoratori della Honda Lock di Zhongshan (Guangdong) hanno ripreso ieri a lavorare dopo una settimana di sciopero. Ma, secondo un portavoce della direzione, gli operai stanno “rallentando artificialmente”le operazioni. Nel fine settimana l’azienda ha offerto aumenti salariali di 200 yuan (circa 20 euro) al mese per ogni dipendente, ed ha annunciato che oggi il lavoro sarebbero ripreso regolarmente. Invece i dipendenti hanno incrociato le braccia e manifestato davanti alla fabbrica. Un’altra fabbrica della Honda in Cina ha concesso infatti aumenti ai suoi dipendenti che hanno scioperato

U

di Vincenzo Faccioli Pintozzi in maggio, e i 1.500 operai della Honda Locks chiedono ora parità di trattamento. Molti osservatori si domandano se queste rivendicazioni sindacali si diffonderanno in tutte le ditte cinesi, costrette dopo decenni a prendere in considerazione le condizioni degli operai.

Foxconn, la società taiwanese che nell’ultimo mese è stato teatro di una serie di suicidi fra gli operai dei suoi stabilimenti a Shenzhen, aumenterà dal primo ottobre gli stipendi di quasi il 70%. Lo ha annunciato la stessa azienda, che fornisce componenti elettriche per industrie come Apple, Hewlett-Packard e Dell. L’annuncio è stato dato da un co-

municato firmato dal fondatore dell’azienda, Terry Gou. Gli stipendi mensili degli operai che lavorano nelle aziende di Foxconn Technology situate a Shenzhen passeranno dunque da 1.200 a 2.000 yuan (290 dollari). All’inizio di maggio, il salario base di un operaio era pari a 900 yuan. L’aumento, spiega il comunicato, «sarà collegato a un test di produzione della durata di tre mesi. Concluso in maniera positiva questo periodo, l’operaio potrà mantenere l’aumento della paga». Sempre secondo la Foxconn, «grazie all’aumento sarà possibile ridurre l’orario di lavoro: gli straordinari diverranno dunque una scelta personale». La scelta, che segue

quella similare della Honda, dimostra un importante cambiamento all’interno della forza lavoro del Paese. I migranti di nuova generazione, nati negli anni ’80, non accettano le condizioni di semischiavitù a cui sono obbligati gli operai, e l’alta mobilità lavorativa rende possibile abbandonare con estrema facilità un impiego troppo usurante.

Intanto negli ultimi cinque mesi l’occupazione degli operai industriali è cresciuta in Cina con la massima velocità da cinque anni, cosa che contribuisce a rendere gli operai consapevoli della loro importanza nel processo produttivo. È la generazione dei figli unici che ha sempre avuto piena attenzione da tutta la famiglia e che non si aspetta dal lavo-


mondo

15 giugno 2010 • pagina 15

Operai della Honda in sciopero nel Guangdong. A lato, il logo della Foxconn: nell’azienda, leader nel settore informatico, si sono suicidati dieci dipendenti che chiedevano salari maggiori. Sotto, scontri fra la polizia e gli abitanti di Taishi: in questo piccolo villaggio sono nate le prime rivendicazioni sindacali. Nella pagina a fianco, Wei Jingsheng portunità per la società cinese. L’ondata dei movimenti, il cui interesse primario è oggi un aumento delle paghe, non risulterà soltanto in organizzazioni di auto-difesa, ma mitigherà l’emergente crisi economica che si sta sviluppando nella Cina. Ed entrambe queste realtà sono di fatto una speranza per

te di questi fondi diventa valuta straniera e se ne va dal Paese. Il risultato naturale è l’enorme disponibilità di moneta nazionale cinese: e questo, è noto, causa inflazione. Per risolvere questo problema esistono soltanto due modi. Il primo è aumentare il tasso di cambio dello yuan, e abolire nel contempo ogni tipo

L’Occidente si è schierato contro i lavoratori: corrotti dal potere di Pechino, gli industriali di tutto il mondo sostengono la tirannia e la dittatura. Sanno che, senza di questa, non avrebbero profitti tano in ogni modo di sopravvivere, ma con sempre maggiore difficoltà: e questo perché non c’è un’alleanza internazionale a loro sostegno, ma ne esiste una a loro contraria.

Questa ha costretto la maggioranza dei politici occidentali ad arrendersi ai desideri dei comunisti, proteggendo soltanto il commercio. D’altra parte, anche i sindacati dell’Occidente subiscono infiltrazioni da parte del mondo dell’industria e si disinteressano dei movimenti dei lavoratori cinesi. E questa mancanza di sostegno è

un’altra ragione che spiega perché non si riescano a creare nel Paese dei veri sindacati. Ma i lavoratori cinesi, che subiscono la più dura delle repressioni, arriveranno a un punto di rottura: a quel punto, lotteranno per difendere i propri diritti e i propri interessi. Da qualche tempo, il movimento operaio nato nelle industrie Foxconn del Guangdong si è sparso rapidamente per tutto il Paese, a riprova del fatto che i sindacati sono necessari oggi più che mai. L’emergere di nuovi leader fra le generazioni più giovani dei lavoratori è, di fatto, un’op-

la Cina contemporanea. Molte persone hanno iniziato a notare la rapida inflazione nel Paese, senza prestare attenzione al rapporto esistente fra questa inflazione e la struttura deformata dell’industria cinese.

Semplicemente, il costo del lavoro è soltanto una minuscola porzione del valore totale della questione: il grosso sta negli investimenti stanziati per espandere la capacità di produzione, il settore finanziario e il mercato degli immobili. Con la recessione che ha colpito l’economia globale, la maggior par-

di barriere di importazione non tariffarie: si tratta di uno sforzo teso a permettere l’ingresso di prodotti stranieri nel mercato cinese, esportando al contempo la moneta. È l’unico modo per rimettere a posto l’equilibrio del mercato cinese, assorbendo inoltre il surplus monetario. Tutto questo, però, deve accompagnarsi a un secondo intervento: aumentare il potere d’acquisto dei salariati, così che possano creare un vero esercito di compratori interni. Ovviamente, agendo in questo modo si ridurrà in maniera sensibile il profitto degli inve-

ro solo un salario, ma chiede una vita non asservita solo alla catena di montaggio. Il direttore dell’Istituto per le relazioni sul lavoro dell’Università Renmin, Chang Kai si è costituito in maniera volontaria consulente legale dei lavoratori. Secondo il docente, l’attuale modello lavorativo del delta del Fiume delle perle, che di fatto si basa sul lavoro sotto-pagato, «deve essere cambiato».

Il livello attuale delle paghe «non è ragionevole, e gli operai non possono essere lasciati per sempre fuori dalla prosperità economica che nasce dal loro lavoro. Prima o poi la situazione potrebbe esplodere». Secondo Chang, inoltre, la fabbrica potrebbe alzare i salari del 34% a tutti i lavoratori perdendo in cambio meno del 5% del proprio profitto: «Sarebbe molto meno costoso che subire i frutti di nuovi scioperi , che potrebbero paralizzare la produzione in

stitori, cinesi e stranieri; eppure, soltanto così potremo stabilizzare l’economia cinese. Se invece non si mettono in pratica queste manovre le grandi crescite – accompagnate da equivalenti cadute – di questi ultimi anni verranno amplificate in maniera naturale, fino a causare il collasso dell’economia. Perché il Partito comunista cinese ha preso tutte le misure possibili tranne queste? Per il profitto.

Di fatto, i guadagni eccessivi correlati all’economia cinese non hanno corrotto soltanto la politica nazionale, ma anche quella occidentale; e questo denaro è divenuto il sangue grazie al quale il Partito sopravvive. Senza le tangenti e il potere assoluto esercitato su fabbriche e operai, i dirigenti comunisti diventano inutili; un peso che il Paese non vuole mantenere. Se questa ultima ondata di movimenti sindacali non costringerà il governo cinese a instaurare una normale struttura economia, allora soltanto il collasso della società potrà farlo. Ho paura che questa sia l’ultima opportunità prima del collasso della Cina.

ta di una mossa disperata di Pechino, che cerca di scaricare esclusivamente sugli industriali (e sulla loro fame di denaro) le condizioni disumane all’interno delle fabbriche del Delta.

Secondo i media di Hong Kong, «sono finiti quei tempi in cui centinaia di milioni di persone erano pronte a massacrarsi per un dollaro al giorno: l’economia globale non sarà più la stessa» qualunque momento». Secondo Liu Kaiming, attivista sindacale indipendente di Shenzhen, questa previsione è molto corretta: «Le dispute sul lavoro sono aumentate nella zona in maniera esponenziale. Negli ultimi cinque anni sono arrivate a circa 10mila all’anno». Il

governo, che teme più di ogni altra cosa le tensioni sociali, ha scelto una linea abbastanza morbida. Da quattro settimane, il governativo Quotidiano del Popolo pubblica interventi a favore di un miglioramento della condizione di vita degli operai. Secondo gli analisti, si trat-

In ogni caso, scrive il South China Morning Post, «è finito il tempo delle noccioline come paga degli operai». In un editoriale apparso sul quotidiano di Hong Kong, quello che sta avvenendo in Cina «è quanto temevano da tempo gli industriali di tutto il mondo, da Tokyo a New York: i lavoratori vogliono un aumento. Sono finiti i tempi in cui centinaia di milioni di operai erano pronti a massacrarsi per un dollaro o due al giorno, e l’economia globale non sarà più la stessa. Quella della Honda è soltanto l’avanguardia di una nuova rivoluzione». Una nuova rivoluzione che potrebbe fermare, una volta per tutte, lo scandalo del lavoro in Cina.


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Baghdad. Corsa contro il tempo per trovare una soluzione politica erfino in Iraq, che pure è uno dei Paesi più dinamici dell’esasperante mondo arabo, il tempo talvolta sembra fermarsi. Dalle elezioni del 7 marzo scorso, attese con trepidazione e salutate come una decisa sterzata verso una forma di democrazia compatibile, sono trascorsi tre mesi. Un tempo biblico secondo gli standard occidentali, ma non è stato ancora possibile formare il nuovo governo. Non è una sorpresa, perché la previsione che sarebbe andata proprio così era stata abbastanza comune tra i commentatori e gli analisti. Le cause politiche sono molteplici, non tutte chiare e non sempre individuabili, in quanto spesso legate alla particolare struttura della società. Forse nemmeno gli iracheni stessi sono in grado di indicarle tutte con certezza. A queste, tuttavia, fanno da paravento due cause note, entrambe di carattere burocratico-formale. La prima è scattata subito, e al solito ha richiesto tempi lunghi. Il premier in carica al-Maliki non aveva accettato di aver perso solo per due seggi (89 a 91) e, premendo sulla commissione elettorale, aveva ottenuto la riconta manuale delle schede, almeno nel distretto di Baghdad. Si è trattato di ricontare manualmente due milioni e mezzo di voti. Il premier in quel distretto aveva già vinto, ma evidentemente necessitava di tempi lunghi per patteggiare nuove alleanze.

P

La seconda era (e ancora rimane) di carattere costituzionale, e riguarda l’interpretazione autentica dell’articolo 76. Questo prevede tout court che la formazione del nuovo governo spetti al leader del gruppo più grande. Non precisa, però, se con ciò debba intendersi il parti-

Partita finale per il governo dell’Iraq Allawi sta giocando la sua ultima carta e se perde la pace sarà a rischio di Mario Arpino

contestare. Ora sembra che qualcosa si stia muovendo e che il processo di formazione del governo sia in una fase di insperata accelerazione. Dei tre fattori di stallo che abbiamo menzionato, quello socio-politico è da consideransi un’invariante e, più di tanto non può mutare. I due di tipo burocraticoformale stanno invece su-

La massima jattura? Una forzata alleanza di al-Maliki con la formazione sciita radicale di Moktada al-Sadr. Allawi cerca di evitarla to vincitore, Iraqiya – in questo caso l’incarico sarebbe spettato al leader al-Allawi – o la coalizione più grande che si viene a formare successivamente alle elezioni, e in questo caso formare il governo sarebbe spettato ad alMaliki. Con una sentenza molto contestata, in tempi insolitamente brevi la Corte Suprema, sovvertendo l’equilibrio dei risultati delle elezioni, avrebbe deciso per quest’ultima interpretazione. Che il vincitore al-Allawi, però, continua tuttora a

bendo un’evoluzione che, con le dovute cautele, si potrebbe giudicare positiva. Sul primo, la vittoria elettorale, ormai non ci sono dubbi. La Commissione indipendente ha constatato che la vittoria è effettivamente di al-Allawi e la Corte Suprema ha già certificato, confermandolo, il risultato di 91 a 89. Non ha invece trovato definitiva soluzione quello costituzionale, ovvero l’interpretazione su “chi” abbia effettivamente diritto di formare il nuovo governo. Ma

fonti locali di questi giorni confermano che Iyad al-Allawi abbia già cominciato a mettere assieme la propria squadra, sulla base «…del suo diritto costituzionale, come leader del partito (Iraqiya) che ha vinto le elezioni…». Una fonte solitamente attendibile, ma che ha chiesto l’anonimato, ha dichiarato al quotidiano di Baghdad Ashrq al-Awsat che «…il prossimo governo sarà di collaborazione, e non una coalizione.

Per questo motivo si stanno selezionando i nuovi ministri in base alle competenze professionali di ciascuno, in armonia con il dialogo che si è sviluppato e ancora si sta sviluppando tra Iraqiya e altri blocchi, con particolare riferimento alla National Iraqi Alliance di Ammar al-Hakim, il leader del Supreme Council of Iraq e l’Alleanza Curda, che include i due principali partiti, che fanno capo rispettivamente al presidente Jalal Talabani e a Massoud Barzani, presidente della regione del Kurdistan…». La stessa fon-

La breve vita del Parlamento È stata aggiornata dopo appena 17 minuti e a tempo indeterminato la prima sessione del nuovo Parlamento iracheno tenutasi ieri a Baghdad. L’assemblea, temporaneamente presieduta dal deputato più anziano, il curdo Fuad Massoum, ha quali primi compiti quello di eleggere il suo presidente e il Capo dello Stato, che a sua volta dovrà poi conferire l’incarico di formare il nuovo governo al leader del gruppo parlamentare che ha il maggior numero dei 325 seggi che formano il Parlamento. Un’operazione al momento ancora impossibile, visto che non ci sono indicazioni su chi potrebbe essere chiamato a guidare il prossimo esecutivo. Per quanto riguarda invece l’elezione alla presidenza del Paese, il presidente uscente, ovvero il curdo Jalal Talabani, sembra avere discrete possibilità di ottenere una riconferma. Ma è l’Iraq, e il se è obbligatorio.

te avrebbe aggiunto che diversi ministri del governo alMaliki, in scadenza, avrebbero espresso il desiderio di entrare a far parte del governo Allawi, a prescindere dal fatto che il loro partito – lo State of Law di al-Maliki – entri o meno nella formazione di governo. I contatti con i singoli candidati, compresi quelli “esterni”, starebbero continuando «in modo serio e costruttivo». In altri termini, scegliendo i ministri in base alla professionalità piuttosto che all’appartenenza politica, confessionale o etnica, si andrebbe incontro a quello che noi chiameremmo un “governo tecnico”, supportato però da un ampio contesto politico. La soluzione avrebbe anche il merito di scongiurare quella che era considerata la massima jattura, ovvero una forzata alleanza di al-Maliki con la formazione sciita radicale di Moktada al-Sadr. Le due formazioni sciite su cui punterebbe al-Allawi sarebbero, al contrario, moderate o non confessionali.

Stando così le cose, l’ultimo ostacolo sarebbe – a meno di sorprese, sempre possibili in medio oriente – quello dell’interpretazione autentica costituzionale. Ma anche qui, se c’è la buona volontà di proseguire sulla strada intrapresa, la spinosa questione dell’articolo 76 potrebbe ora venire superata in modo piuttosto originale, per non dire rocambolesco. Una fonte di Iraqiya – questa volta voce ufficiale – avrebbe rivelato che «…Rafi al-Issavi, uno dei leader della lista, avrebbe trovato nel suo archivio una video-registrazione del tempo in cui la costituzione si stava stendendo in bozza, che dimostra che Humam Hammoudi, presidente della commissione di redazione, e Sami al-Askari, membro del comitato, sottolineavano che l’interpretazione dell’art. 76 era nel senso che il blocco che vince le elezioni è quello che forma il governo, e non quello della coalizione più ampia successiva alle elezioni». Questo video, se validato, smentirebbe quindi l’ultima sentenza della Corte Suprema, che si vedrebbe obbligata a riformularla. Staremo a vedere. Siamo a un passo dalla soluzione, e sarebbe davvero un peccato se si perdesse l’occasione. Infatti, un governo laico, interconfessionale e interetnico come quello proposto da al-Allawi potrebbe essere l’unico in grado di riportare un minimo di ordine in questo tormentato Paese.


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Il gruppo ha deciso di non distribuire i dividendi per l’anno

Secondo l’opposizione, la polizia ha fermato 900 persone

Marea Nera, la Bp ha perso 1,6 miliardi di dollari

Onda Verde, un anno dopo ancora arresti e violenze

WASHINGTON. Il gruppo bri-

TEHERAN. Le forze di sicurezza iraniane hanno arrestato almeno 900 persone, tra cui 300 donne, durante le manifestazioni del 12 giugno scorso. Nonostante il presidio di polizia, agenti in borghese e milizie basij, l’opposizione democratica – a un anno esatto dalle elezioni presidenziali – è scesa di nuovo in piazza per protestare contro la rielezione di Mahmoud Ahmadinejad, frutto di brogli e illegalità. A differenza del 2009, non si è trattato di manifestazioni oceaniche.Tuttavia le proteste nelle varie città e università del Paese mostrano che l’effetto della “Onda Verde” non si è esaurito, tanto che Mehdi Karroubi, uno dei leader, afferma:«Il movimento, oggi, è più

tannico Bp prevede di recuperare fino a 50.000 barili (8 milioni di litri) al giorno del greggio sversato nel Golfo del Messico entro la fine di giugno. Lo ha annunciato ieri un responsabile dell’amministrazione americana, mentre un dirigente del colosso energetico ha chiarito che, fino ad ora, il costo del disastro ecologico si aggira intorno a 1,6 miliardi di dollari. «Dopo essere stata sollecitata dall’amministrazione ad agire più in fretta, la Bp ha intensificato gli sforzi per arginare la fuga di petrolio - ha dichiarato la fonte - ha presentato un un piano per recuperare oltre 50.000 barili al giorno da qui fino alla fine del mese di giugno, due settimane prima di quanto avevano inizialmente proposto».Venerdì scorso, la Guardia Costiera americana ha concesso 48 ore alla Bp per organizzarsi in modo da contenere meglio la fuga di petrolio, accusando il colosso petrolifero di non aver fatto abbastanza.

In una lettera alla Bp, l’ammiraglio James Watson ha scritto: «Sono preoccupato per il fatto che i vostri attuali piani non prevedono il completo impiego della risorse per arrivare a una capacità di recupero (di greggio) che corrisponda alle nuove

Ecco chi indagherà sulla Freedom flotilla Israele vara l’organo d’inchiesta, critiche dalla Turchia di Pierre Chiartano umata nera per la commissione d’inchiesta israeliana sui fatti della Freedom flotilla. Dopo giorni di duro lavoro diplomatico e dietro la forte pressione internazionale, Israele ha annunciato ufficialmente la creazione di «una commissione pubblica indipendente» che avrà il compito di «indagare sugli aspetti relativi all’azione intrapresa per impedire ad alcune navi di raggiungere le coste di Gaza», il 31 maggio scorso. Il blitz degli incursori della marina israeliana, tatticamente mal condotto, si concluse con l’uccisione di nove persone. Della commissione, che sarà guidata dal giudice in pensione della Corte suprema, Yaakov Tirkel, faranno parte anche due osservatori internazionali, l’ex leader del Partito d’Unione dell’Ulster e premio Nobel per la Pace 1998, Lord Trimble, e l’ex avvocato generale dell’esercito canadese, Ken Watkin. Gli altri due membri israeliani saranno invece il docente di diritto internazionale Shabtai Hazan e il generale in pensione Amos Horev. «In considerazione degli aspetti internazionali unici dell’incidente, si è deciso di nominare due osservatori stranieri di statura internazionale nei settori del diritto militare e dei diritti dell’uomo», è stato spiegato in un comunicato dell’ufficio del premier Benjamin Netanyahu. Tuttavia, il loro mandato sarà limitato: non avranno il diritto di voto sui lavori della commissione e sulle conclusioni. Una decisione, questa, che riflette il rifiuto categorico di Israele del principio di una missione d’inchiesta internazionale. La commissione pubblica, che potrà ascoltare «non importa quale persona o organizzazione», dedicherà le proprie attenzioni alle «ragioni di sicurezza che sono all’origine dell’imposizione del blocco marittimo di Gaza e alla conformità di quest’ultimo con il diritto internazionale». Naturalmente con la notizia sulla commissione sono arrivate subito che le reazioni internazionali, prime fra tutte quelle delle parti in causa. La Turchia non nutre «alcuna fiducia» nella «imparzia-

F

lità» dell’indagine israeliana. «Se non sarà creata una commissione internazionale» con la presenza di osservatori di Ankara e «se le richieste legittime della Turchia continueranno ad essere ignorate, avremo il diritto di rivedere unilateralmente le nostre relazioni con Israele e metteremo in atto delle sanzioni», ha avvertito il ministro turco degli Affari esteri, Ahmet Davutoglu.

La Turchia insiste per la creazione di una commissione d’inchiesta «sotto il controllo diretto delle Nazioni Unite (...), un’indagine imparziale con la partecipazione della Turchia e di Israele», ha aggiunto il ministro, sottolineando che «tutte le inchieste condotte unilateralmente da Israele non possono avere alcun valore». E anche da parte dei palestinesi ”laici” dell’Anp non arrivano apprezzamenti, ma una critica in linea con quella turca. Il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen, si è rammaricato, ieri a Parigi, che il formato della commissione «non corrisponda» a quello dal proposto Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Hamas – la controparte islamica dei palestinesi – invece accusa Israele di cercare di sottrarsi alle «pressioni internazionali». Gerusalemme tenta di «attenuare le pressioni internazionali» messe in moto dopo l’assalto alla flotta pacifista, ha dichiarato Fawzi Barhoum, un portavoce del movimento islamico, al potere nella Striscia di Gaza. La Francia invece giudica positivamente la presenza di osservatori internazionali nella commissione. Mentre la Casa Bianca seguendo la nuova dottrina Obama, vuole consocere i fatti, senza schierarsi. Se questa commissione aiuterà a conoscerli, ben venga. Anche se la scelta di tenere ai margini dei colloqui di pace la Striscia di Gaza non sembra più possibile da mantere, affermano molti analisti, tra i quali spicca il politologo Charlie Kupchan. Un prezzo politico che il governo Netanyahu potrebbe dover pagare.

La commissione avrà il premio Nobel Lord Trimble e l’ex legale dell’esercito canadese, Ken Watkin, come osservatori

stime sullo sversamento». E la sorte della compagnia sembra segnata: oltre all’ingente perdita post-fuoriuscita (che il presidente Obama ha paragonato all’11/9), è arrivata sempre ieri la decisione di non distribuire i dividendi per l’anno in corso. Una decisione che preoccupa i fondi pensionistici della Gran Bretagna, che avevano investito diverso denaro nella compagnia. Attesa, inoltre, per il discorso che questa sera il presidente americano pronuncerà dai luoghi del disastro. Secondo fonti dell’Amministrazione, Obama parlerà della necessità di convertirsi all’economia verde, unico modo per impedire altri disastri.

forte e maturo di un anno fa». La Human Right Activists News Agency (Hrana) riferisce che oltre 900 persone sono state arrestate il 12 giugno scorso, a un anno dalla vittoria di Ahmadinejad alle presidenziali. Tra queste, almeno 300 sono donne e i familiari non hanno notizie sulla loro sorte.

Alla vigilia dell’anniversario, le autorità di Teheran avevano negato l’autorizzazione a manifestare e hanno inviato messaggi telefonici in cui si leggeva: «Caro cittadino […] Se ripeti queste azioni, sarai punito in accordo al Codice penale islamico». Anche i leader anti-governativi Mir Hossein Mousavi e Mehdi Karroubi hanno invitato la popolazione a mantenere un basso profilo, per evitare ulteriori spargimenti di sangue.Tuttavia le strade di Teheran e di altre città dell’Iran hanno registrato dimostrazioni con slogan fra cui “Morte al dittatore” e “Dio è grande”. Nell’università di Sistan e Baluchestan circa 1000 studenti hanno indetto una protesta silenziosa, unita allo sciopero della fame. In alcuni casi si sono registrati scontri fra i cittadini e le forze di sicurezza. Ma rimane forte il sospetto che queste siano state più imponenti del previsto.


cultura

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Riletture. Viaggio storico e politico nell’Italia pre e post-unitaria attraverso uno dei fenomeni più indagati dagli studiosi

Alle radici del brigantaggio Fu una reazione allo Stato unitario, una “manovra” papalina o più semplicemente una rivolta sociale? di Ettore Cinnella a nascita del Regno d’Italia fu ben presto funestata da una lunga e sanguinosa guerriglia brigantesca, che s’iniziò non appena nelle regioni meridionali s’installarono i funzionari giunti dal Piemonte: per farvi fronte, vennero mobilitati fino ai due terzi dell’esercito italiano. Nel 1878, rievocando quella carneficina, Pasquale Villari scrisse che «per distruggere il brigantaggio noi abbiamo fatto scorrere il sangue a fiumi». E, nel 1899, Francesco Saverio Nitti osservò: «È costata assai più perdite di uomini e di denaro la repressione del brigantaggio di quel che non sia costata qualcuna delle infelici guerre dopo il 1860». Il fatto che i briganti del sud fossero manovrati e sostenuti sia dal papa sia dall’ultimo sovrano borbonico di Napoli, Francesco II, fece pensare ad un fenomeno politico di natura reazionaria, sorto in un ambiente sociale arcaico e arretrato. Da allora pubblicisti e storici non han cessato d’interrogarsi sulle radici del fenomeno, dando risposte differenti e anche contrapposte.

L

Per alcuni si trattò d’una selvaggia e ottusa reazione, alimentata dalle forze più retrive, contro il progresso civile e politico rappresentato dal nuovo Stato unitario. A codesta interpretazione, che insiste sull’opera civilizzatrice dello Stato piemontese e che potremmo chiamare «sabauda», se ne contrappone un’altra, «papalina», che ripete in sostanza le accuse mosse a suo tempo al Risorgimento e all’Unità d’Italia dall’integralismo cattolico. Per i sostenitori di questa seconda interpretazione, che trova ancor oggi convinti assertori, le plebi meridionali insorte difendevano i diritti del loro legittimo sovrano e del pontefice romano contro gl’invasori

settentrionali, ostili alla Chiesa. C’è inoltre una terza interpretazione, che vede nella disperata guerra dei contadini del sud una rivolta sociale dei ceti sfruttati e derelitti (i «cafoni») contro i tradizionali nemici di classe (i «galantuomini»). Il più autorevole e pugnace assertore

I territori del Sud avevano sempre conosciuto la piaga del banditismo, in forme assai diverse a seconda delle epoche storiche

d’una siffatta visione fu Franco Molfese (e, nell’ambito degli studi locali, lo storico potentino Tommaso Pedio). Che il brigantaggio meridionale nascesse e fosse alimentato dalla miseria e dall’ignoranza dei contadini, fu assai presto riconosciuto da molti funzionari del nuovo governo. La stessa commissione parlamentare d’inchiesta sul brigantaggio del 1863, mentre suggeriva le più crudeli misure repressive, parlava delle «cause predisponesti» e, in primo luogo, della «condizione sociale» e dello «stato economico del campagnolo». Persino alcuni degli ufficiali dell’esercito che combatterono contro i briganti, furono inclini ad ammettere che il fenomeno aveva antiche e profonde radici. In effetti, il brigantaggio meridionale non nacque con l’Unità d’Italia. I

territori del sud avevano sempre conosciuto la piaga del banditismo e del malandrinaggio, in forme e dimensioni varie a seconda delle epoche storiche. In certi momenti il brigantaggio, che peraltro non era sconosciuto in altre regioni (basti pensare alla Romagna), si colorò anche di tinte politiche (per esempio, tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, quando i sovrani borbonici si servirono delle bande brigantesche per combattere i francesi e i giacobini).

Nel Regno di Napoli il brigantaggio fu un fenomeno endemico e permanente, che i sovrani cercavano di arginare in vari modi, con la più spietata repressione ma anche con concessioni a singoli malandrini (come fece il re Ferdinando II graziando il brigante Giosafat Talarico e concedendogli una pensione). Le cause principali erano senza dubbio sociali, nascevano cioè dall’oppressione e dalla mancanza di diritti dei contadini, i quali talvolta reagivano alle prepotenze dei signori dandosi alla campagna. Beninteso, molti briganti non erano che delinquenti comuni desiderosi di sottrarsi alla giustizia o di vivere di rapine; ma altri erano poverissimi contadini o artigiani spinti dalla fame o dai torti subiti a mettersi contro la società. In un mondo in cui la giustizia favoriva quasi sempre i ricchi e i potenti, i quali potevano finanche permettersi di violare l’onore delle donne del popolo, chiunque si ribellasse veniva considerato un eroe dalla gente umile. Qui traeva origine un aspetto fondamentale del brigantaggio meridionale, cioè la peculiare mentalità popolare, pronta a idealizzare i fuorilegge e a ravvisare in loro i vindici dei torti e delle angherie subite dalla povera gente (anche quando non erano che volgari ladri e assassini). Dei briganti più famosi si narravano le ge-

sta nelle pubbliche piazze, su di loro si scrivevano veri e propri poemetti.

Non dobbiamo ignorare il cupo sfondo sociale e antropologico del brigantaggio meridionale, se vogliamo tentar di capire i tragici avvenimenti del 1861-1865. Ma basta ciò a spiegare l’eccezionale virulenza della guerriglia esplosa in concomitanza con l’Unità d’Italia? Senza dubbio, il marasma provocato dagli eventi politici e militari del 1860, oltre a creare un temporaneo vuoto di potere, ebbe conseguenze negative anche sulla situazione economica delle regioni meridionali.Tuttavia, il brigantaggio post-unitario non fu una generale sollevazione contadina, sia pure anarchica e spontanea, né la mera ripetizione, su scala più ampia, di quanto era già tante volte accaduto in passato. I motivi sociali spiegano il fenomeno en-

demico e cronico del ribellismo delle plebi meridionali, non l’incendio che divampò nelle regioni meridionali dopo la proclamazione del Regno d’Italia. L’interpretazione «sabauda» ha sempre messo l’accento sulle mene e sugl’intrighi che Francesco II, rifugiatosi a Roma, cominciò a ordire con l’appoggio del papa e dei legittimisti spagnoli e sotto lo sguardo benevolo del governo francese. I Borboni e la Chiesa di Roma soffiarono sul fuoco della rivolta, dando sostegno alle bande brigantesche che imperversavano in prossimità dello Stato pontificio e inviando emissari nelle province meridionali. Tutto ciò è verissimo e non deve esser minimizzato. Ma sarebbe un grossolano errore credere che, da sola, l’influenza esterna potesse generare e alimentare un fenomeno di così gigantesche dimensioni quale il brigantaggio post-unitario. Altri


cultura più, l’introduzione del servizio militare obbligatorio furono misure sbagliate e odiose, che resero impopolare il nuovo governo. La chiamata alle armi dei giovani provocò, più d’ogni altra misura, ostilità e risentimenti, contribuendo enormemente alla recrudescenza del brigantaggio, perché molti ragazzi preferirono darsi alla campagna piuttosto che servire nell’esercito. Assieme alle mene borboniche e papaline, furono i vistosi errori della nuova amministrazione piemontese a scatenare il brigantaggio su vasta scala nelle province meridionali. Non dobbiamo dimenticare che, dapprincipio, l’impresa garibaldina e la caduta della monarchia borbonica furono accolte con entusiasmo da larghi strati della popolazione meridionale (tranne che nei territori più vicini allo Stato pontificio, dove maggiore era l’influenza della Chiesa). Perché mai, alcuni mesi dopo, gli umori popolari cambiarono ed ebbero inizio le «reazioni» antipiemontesi e filoborboniche?

Oltre alle misure militaresche, che introducevano una sorta di stato d’assedio nel Mezzogiorno d’Italia, occorre ricordare una serie di gravi passi falsi commessi dalle nuove autorità, le quali non seppero trovare un giusto approccio nei rapporti con la gente del sud. Ricordo un episodio fra tanti, piccolo ma significativo. Nel gennaio 1861 una popolana di Melfi, mentre si trovava a la-

furono i fattori che concorsero, insieme con il primitivo sfondo sociale e le mene reazionarie, ad insanguinare le contrade del Mezzogiorno d’Italia.

La frettolosa estensione al sud di leggi e regolamenti vigenti in Piemonte non favorì certo l’amalgama tra le due parti della penisola, troppo diverse tra loro. E la dittatura militare, che di fatto fu imposta alle province annesse dopo l’allontanamento di Garibaldi, scavò un fossato tra il nuovo Stato e gli abitanti dell’Italia meridionale. La lentezza nella cosiddetta quotizzazione (cioè nell’assegnazione dei terreni demaniali ai contadini) e, ancor

vare i panni con altre donne, si espresse in modo colorito contro il nuovo governo e a favore del re borbonico Francesco II. Per codesto reato d’opinione la povera Maria Teresa Capogrosso fu denunciata e arrestata. In casi analoghi c’imbattiamo sovente consultando i fondi giudiziari degli archivi locali. Innumerevoli furono le reazioni d’efferato arbitrio degli ufficiali dell’esercito piemontese non solo contro i briganti e i loro diretti complici (il che si potrebbe, se non giustificare, almeno capire), ma anche nei riguardi della popolazione civile. Poteva persino accadere che fossero violati i luoghi di culto, come avvenne per esempio a Colle-

torto (nel Molise), dove un capitano fece acquartierare la sua compagnia nella chiesa parrocchiale, ordinando «con mal garbo» al parroco di «sgomberare gli altari dei sacri arredi avendo destinato l’ara maggiore a scrivania per il foriere» (secondo il racconto d’un giovane ufficiale del medesimo reparto). Quando poi il capitano giunse a scaraventare per terra la pisside e a malmenare il prete, la gente di Colletorto e dei paesi limitrofi s’indignò, circondando minacciosa «la profanata casa del signore». Fu lo stesso parroco ad adoprarsi per calmare gli animi e a salvare così i militari assediati nella chiesa. Per capire la guerra del brigantaggio, bisogna aver presente sia la psicologia delle popolazioni meridionali (in primo luogo, l’ancestrale culto del brigante) sia l’atteggiamento di chiusura verso la gente e i costumi dell’Italia meridionale, mostrata dalla maggior parte dei funzionari e dei militari settentrionali. Si trattò insomma, per dirla con Giuseppe Galasso, d’un «urto violento» fra «due mondi così diversi anche dal punto di vista antropologico-culturale».

I comitati borbonici, attivissimi tra la fine del 1860 e l’inizio del 1861, seppero approfittare della crisi venutasi a creare dopo la conclusione dell’impresa garibaldina, sobillando abilmente le popolazioni meridionali e reclutando per i loro fini politici le bande brigantesche. Ebbe così inizio la cosiddetta «reazione», il cui epicentro fu nel Melfese. Qui, ad aprile, le bande guidate da Carmine Crocco invasero i paesi di Ripacandida, Venosa e Lavello, proclamando la restaurazione della monarchia borbonica. Il 15 aprile Crocco entrò a Melfi, accolto trionfalmente e rimanendovi fino al 18. Per tutta la primavera e fino all’estate 1861, ebbero luogo molti altri tentativi violenti di restaurazione borbonica, con selvagge rivolte popolari e

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scontri sanguinosi. Clamorosi furono gli avvenimenti di Gioia del Colle (in Terra di Bari), dove la banda del sergente Romano, con il favore della plebe locale, riuscì a conquistare la città. Le repressioni da parte dell’esercito piemontese e della guardia nazionale furono crudelissime: i fatti più efferati avvennero nella zona del Matese, dove furono rasi al suolo due interi paesi (Casalduni e Pontelandolfo), rei di complicità con il brigantaggio.

Questa fu la prima fase del brigantaggio post-unitario, chiamato da molti «politico», perché manovrato dai Borboni e mirante alla restaurazione della vecchia monarchia. In seguito, la guerriglia brigantesca avrebbe assunto una carattere sempre più marcatamente sociale, trasformandosi in violenta lotta di classe tra contadini e grandi proprietari. Codesta è l’interpretazione di chi vede nel brigantaggio una sia pur rozza e primitiva rivoluzione sociale. Ma nulla giustifica una siffatta visione. In realtà, il brigantaggio imperverserà ancora per alcuni anni, con alterne vicende, ma senza finalità sociali. Dobbiamo solo ammettere, per le ragioni sopra accennate, che le bande brigantesche godetspesso tero

d’un largo favore popolare, il che rappresentò un serio ostacolo per le forze repressive, numerose ma incapaci di sradicare il fenomeno. Soltanto la legislazione eccezionale dell’agosto 1863 (la cosiddetta legge Pica), prolungata fino al 1865, parve assestare un serio colpo al brigantaggio meridionale. Con l’installazione dei tribunali militari e l’applicazione del codice penale militare, furono legalizzati e resi obbligatori in tutti i territori infestati dal brigantaggio i metodi spicci e arbitrari a cui fino allora si era fatto ricorso qua e là. Il prezzo pagato dal paese fu, tuttavia, altissimo. Lo disse in parlamento, l’11 gennaio 1864, il giurista Pasquale Stanislao Mancini, il quale denunciò il colpo fatale all’«unità politica dello Stato» e parlò di un’Italia spezzata in due, con la parte meridionale separata dal resto del paese e assoggettata a «leggi speciali» e all’«impero dell’arbitrio». Ma neppure la legislazione eccezionale sarebbe bastata a porre fine alla piaga del brigantaggio, senza l’accorta e intelligente azione di alcuni comandanti militari (come il generale Emilio Pallavicini), i quali usarono anche altre armi (tra cui il ricorso alla collaborazione di briganti «pentiti»).Verso la fine del 1865 operavano solo piccole bande sparse: il grande brigantaggio era ormai finito. Ma i «fiumi di sangue» versati durante quella spaventosa guerra intestina lasciarono segni indelebili nella memoria collettiva delle popolazioni meridionali. I contadini del sud, a lungo, si sarebbero sentiti estranei e ostili allo Stato unitario.

L’unificazione delle due parti d’Italia non era, obiettivamente, un compito agevole, perché secoli di storia avevano creato profonde differenze tra le varie regioni della penisola. I madornali errori e la mancanza di tatto del governo di Torino complicarono ulteriormente le cose, contribuendo al successo dell’agitazione anti-unitaria e suscitando la violenta protesta delle plebi meridionali. In fondo, neppure l’opposizione democratica (la quale ebbe comunque il merito d’invocare il ripristino della legalità) seppe cogliere tutta la complessità della situazione ed occuparsi con pazienza dei problemi concreti, stregata com’era dal miraggio dell’immediata liberazione di Roma e di Venezia. Le piccole bande brigantesche, che da sempre pullulavano nelle regioni del sud, trovarono il terreno fertile per moltiplicarsi e ingrandirsi a dismisura. Quella che, grazie alla miracolosa impresa garibaldina, appariva come una bella occasione storica per avviare la graduale costruzione di un’Italia unita, finì per mutarsi nella prima grande tragedia nazionale.


cultura

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evica e ho le prove. Cronache dal paese della cicuta (Laterza, 119 pagine, 9,50 euro) di Franco Arminio, poeta e narratore di Bisaccia, nell’Irpinia orientale, a ridosso della Lucania, è il quarto sorprendente libro di prose pubblicato nell’arco di sei anni da questo straordinario scrittore di paese, inventore di una pratica dello sguardo e del corpo in movimento denominata “paesologia”, sommo rappresentante in terra meridionale di una narrazione anti-romanzesca, frammentaria, stralunata e tragicomica che ha nelle ariostesche terre del Po (a partire dai “buffi” e dagli “idioti” di Celati e Cavazzoni, e passando per il breve magistero della rivista feltrinelliana Il Semplice) la sua primogenitura, il suo punto d’irradiazione, in una parola: il suo centro normativo.

N

Con Arminio scompare ancora una volta la letteratura come fiction, il romanzo borghese descrittivo, le ambizioni sociologiche e politiche della “letteratura meridionalista”, e tutto quel che rimane - dopo la prova del fuoco della verità e della sincerità estrema - è nient’altro che le ossature delle storie, le sinopie, le confessioni, gli abbozzi, i racconti autobiografici, gli epigrammi, gli apologhi, i “caratteri” (per citare le narrazioni brevi di Mario La Cava), i lunarî, i calendari, gli elenchi e i frammenti narrativi. È un Sud, quello di Arminio, chiuso al mondo, paesano, “osseo”, marginale, avvitato nella noia e in una forzata coabitazione, paradossale, sempre freddoloso di disamore e di fallimenti; epperò anche affratellato, ilare, comico finanche: «Erano così addolorati che ricevettero anche le condoglianze del morto»; e questo frammento ricorda non poco una le poesie più nebbiose e divertenti del Cesare Zavattini di Stricarm’ in d’na parola. La “paesologia”di Arminio non è una scienza, è piuttosto uno stato d’animo: un girovagare per paesi sperduti del Sud senza volerne né approfondire la storia locale né le prospettive future, ma solo coglierne i sospiri, le frasi smozzicate, i silenzi, le mezze confessioni e le stramberie, dando valore inspiegabile epperò sacrale a ogni cosa: a una piazza deserta, a un lampione spento, a una sedia sfondata, a un gesto inatteso. È una pratica, se vogliamo, di amore disperato per un patrimonio che, intanto che tutti si affrettano a dichiarare morto, Arminio continua ad amare, a visitare, ad accarezzare mentre tutt’intorno cresce il gelo sociale. Di questa pratica tarata su una sola persona - la “paesologia”è Franco Arminio abbiamo una robusta testimonianza in due opere cruciali:

Tra gli scaffali. “Nevica e ho le prove”, il quarto libro di prose di Franco Arminio

L’uomo che sussurra ai paesi del Sud di Andrea Di Consoli Viaggio nel cratere (Sironi, 2003) e Vento forte tra Lacedonia e Candela (Laterza, 2008). Quest’ultimo libro appena pubblicato, e il terzultimo (Circo dell’ipocondria, Le Lettere, 2006), sono invece più personali, più raccolti intorno al calore (o al freddo) corporeo di Arminio, più lirici, e anche più “esposti”. Su questa “esposizione”, tra l’altro, Arminio dichiara: «Quando penso alla mia vita mi viene sempre di accompagnarla con questo aggettivo: esposta. Quando penso alla vita penso sempre che è esposta alla morte». Non che in Nevica e ho le prove manchino gli altri, le loro manie, i loro malumori, le loro stranezze, le loro bugie,

le loro dolcezze insopportabili, i loro fallimenti, le loro piccolezze - di fronte alle quali, comunque, Arminio s’inchina sempre, preferendo alle vite solenni e altisonanti le vite sbagliate, incompiute, assurde, spezzate, buffe; ma è come se Arminio fosse di nuovo tornato al nocciolo duro della sua poetica, che poi è, in ultima istanza, il dominio totale della morte, o, più esattamente, lo spettro della morte, cioè l’atroce agonia pensosa dei viventi. In Circo dell’ipocondria emergeva proprio quest’attitudine ossessiva allo spavento, alla paura, al presagio dell’irreparabile, questa ossessiva auscultazione del proprio corpo che sempre

Qui sopra, la copertina del libro “Nevica e ho le prove. Cronache dal paese della cicuta” di Franco Arminio (nella foto a destra). In alto, un disegno di Michelangelo Pace

È un meridione, quello dell’autore, chiuso al mondo, “paesano”, “osseo” e marginale, avvitato nella noia e in una forzata coabitazione s’incrina e lentamente s’ammala anche in assenza di malattia. Era, quel libro, il referto di una nevrosi privata, di un delirio non psicotico (il delirio dell’allarme, della paura); ma l’ipocondria di Arminio non è solo nevrosi, è anzitutto consustanzialità con il collettivo presagio

di morte che pervade consapevolmente o inconsapevolmente i piccoli paesi del Sud; pure, credo che l’ipocondria di Arminio, il suo disprezzo per il corpo deperibile, per questa “gabbia” di carne, nasconda l’eco di una lontana vocazione mistica, di chi, in fondo, non crede a questa vita. A quest’altezza, quella di Arminio è una vocazione assoluta, una letteratura rasoterra - che si muove alla stessa altezza del cane - che però punta sempre in alto, cioè verso un “altrove”, ed è sempre raccolta intorno alla vita calda, sia pure sadicamente torturata dal pensiero della morte. Ma c’è sempre qualcosa anche di buffo, in questi “caratteri”, perché è come se Arminio fosse condannato, per farsi accettare, all’istrionismo un po’ da osteria, e questo atteggiamento, probabilmente, funziona come intimo dispositivo di normalizzazione del tragico. Ne sono un esempio le “cronache” finali, di cui vorrei riportare alcuni esempi: «Saverio Nigro era cattivissimo e doveva fare molti sforzi per diventare cattivo»; «In un anno ha speso tremila lire nel bar dove va tutte le sere»; «Si vede in giro solo quando incolla i manifesti dei morti». Emerge una vena gnomica efficacissima, che un po’ ricorda il Flaiano battutista; anzi, spesso tutto il destino di una vita, Arminio, lo sintetizza in una sola battuta, utilizzandola come genere letterario. Pur scrivendo molto, la scrittura è massimamente “in economia”, e, più che con la tecnica del tagliare, si manifesta con il dono del sintetizzare, del colpo d’occhio, del particolare che vale per il tutto.

Tutto questo è confermato dall’ultima sezione, “Elenchi”, dove Arminio elenca semplicemente fatti irrilevanti, cause di morte nel paese, medicine più usate, ecc., riducendo al minimo le possibilità della narrazione (siccome la morte incombe, anche la scrittura va di fretta). È, se vogliamo, una scrittura della crudeltà attuata sulle infinite possibilità del racconto. «Io sono un gruppo di cani con la lingua di fuori. Il foglio è la campagna» scrive a un certo punto, confermando che la sua “caduta”, il suo stare a terra, la sua paura, il suo sfinimento, ma anche la sua infinita disponibilità per i mille segni della vita, non sono solo i sintomi di una nevrosi privata, ma il segno di una dimestichezza inconscia con qualcosa che molto somiglia alla morale. Non è forse la morale saper vedere il male e il grigiore in cui gli uomini si nascondono, e poi farsene divorare, e infine inginocchiarsi innanzi a esso, e sperare, in un futuro senza corpo, una cosa che possa dare pace e lenimento alle creature ferite dal dolore e dal silenzio?


cultura

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Rassegne. Torna oggi, fino al 19 giugno, il festival emiliano dedicato alla poesia. Ospite d’eccezione, l’artista statunitense (in concerto)

Un americano a Parma di Francesco Napoli

A sinistra, una foto di Bob Dylan, in concerto a Parma il 18 giugno. In basso, il poeta nigeriano Wole Soyinka e il premio Nobel per la Letteratura Herta Müller, entrambi ospiti della VI edizione del “ParmaPoesia Festival”. La manifestazione inizia oggi e terminerà il prossimo sabato 19 giugno

dizione numero 6 per il ParmaPoesia Festival e sono numeri di tutto rispetto: 5 giorni, da oggi fino al 19 prossimo venturo; 21 incontri centrati sulla poesia; 32 appuntamenti diversificati in città (uno dei più intriganti è la presenza sulle principali linee cittadine dei trasporti di una mini-libreria viaggiante, con volumi a disposizione che gli utenti potranno consultare, leggere e riporre di nuovo al termine del proprio percorso); 2 lectio magistralis, di Nicola Gardini (Università di Oxford) ed Ezio Savino (traduttore e saggista), ma non c’è festival che si rispetti in Italia che non le preveda; 1 menestrello di portata internazionale, Robert Allen Zimmerman, classe 1941, che detto così potrebbe suonare ignoto a tanti. Al secolo, quello scorso e quello attuale, suona certo più noto come Bob Dylan; 2 premi Nobel per la Letteratura, Herta Müller (ricevuto nel 2009), oltre modo sconosciuta fino all’assegnazione, e forse anche dopo, e il più noto al pubblico italiano Wole Soyinka (nel 1986).

E

Ora, con numeri di questa portata, l’amministrazione Comunale e la direzione artistica di Nicola Crocetti possono attendere trepidanti gli esiti del pubblico che parteciperà a questa manifestazione. Quanti saranno? I numeri in questo caso verranno poi al resoconto, come sempre molto atteso anche dai diversi sponsor che hanno puntato non poco su questo incontro. Espresso subito che il dettaglio, appuntamento per appuntamento, lo si può utilmente consultare sul sito della manifestazione (festivalpoesia.it), provo a sfogliare questa margherita cercando di offrire alcuni petali. Va da sé che gli occhi sono puntati su Bob Dylan (il più gettonato, in ogni senso) che sarà a Parma il 18 giugno, con un concerto-spettacolo nella cornice del Parco Ducale. Questo è l’evento-clou del 2010, occasione irripetibile per ascoltare un pezzo di storia della musica; il nome di Dylan è altamente evocativo e richiama, per tutti, stagioni e tempi “che furono”, rappresenta il mito della musica che cambia la storia. Ma per favore, non chiamiamolo poeta, non confondiamo le acque. I poeti sono altra cosa e di quelli internazionali a Parma, in questi giorni, ce ne sono e di peso. Infatti, lo sguardo sospinto oltre le mura della petite capitale caratterizza da sempre il ParmaPoesia Festival. Così quest’anno nell’ampio salotto all’aperto del Cortile del Guazzatoio (Palazzo della Pilotta) presenzieranno nomi tra i più noti del panorama poetico internazionale, le cui opere saranno reinterpretate da attori quali Anna Bonaiuto, Alessandro Haber, Manuela Mandracchia, Umberto

Orsini, Alvia Reale, Sandra Toffolatti e Mariàngeles Torres. Alla loro voce, sicuramente ferma e di qualità, si deve aggiungere quantomeno quella dei due Nobel suddetti - Soyinka il 16 ed Herta Müller il giorno dopo - senza mancare, nella stessa giornata del 17, Chihuailaf Elicura Nahuelpàn. Oltre ad affidare alla sua poesia il

ceppi etnici dell’America del sud e ormai in via d’estinzione. Tutti gli appuntamenti internazionali, con inizio alle ore 21, sono curati da Nicola Crocetti e Giorgio Gennari. “Almanacco dei Poeti”, invece, è il titolo del filone di ParmaPoesia Festival che racchiude gli incontri con gli italiani. Appuntamenti cui si è sempre rivolta particolare dedizione sia per dare spa-

Tra le curiosità, una mini-libreria viaggiante con volumi a disposizione, che gli utenti potranno consultare fino al termine del proprio percorso compito di ricordare e di riaffermare l’importanza della parola come principio dell’essere umano, Nahuelpàn è strenuo difensore della cultura dei Mapuche, etnia variegata sopravvivente tra il Cile centrale e l’Argentina meridionale, amerindi risalenti ai più antichi

zio alla scoperta di più giovani talenti e sia per riscoprire i protagonisti di ieri e di oggi. Echeggia un po’ pomposamente il comunicato stampa: «Come in una moderna agorà, si creeranno momenti di incontro in grado di risvegliare il piacere più profondo e insito nella natura stessa della parola poetica: quello di far risuonare la sua carica evocativa attraverso la lettura in pubblico».

Per non offendere nessuno, si sa come sono sensibili in materia i nostrani bardi, si principia il 15 e si arriva il 19 e

tutti gli incontri con “Almanacco dei Poeti”si terranno alle ore 11.30. Mi permetto solo di rammentare, in tema di italiani, gli “Incontri sulla poesia”, quello del 15,“Il dolore indiviso della vita”e condotto da Giuseppe Martini, con ospite la poetessa e traduttrice Patrizia Valduga, fondatrice nel 1988 del mensile Poesia, e quello di due giorni dopo, “Poesia e critica sui quotidiani italiani” che a giudicare da quanto si legge è davvero poca cosa, nonostante l’attenzione della Gazzetta di Parma stessa, come del liberal qui presente.

Personaggi e interpreti dello spettacolo: Alessandro Gnocchi (Libero), Paolo Mauri (Repubblica), Giuseppe Marchetti ed Emilio Zucchi (Gazzetta di Parma). E a Parma non può mancare il ritorno di Alberto Bevilacqua (19 giugno) che invece se la vedrà con Alberto Bertoni, Nicola Crocetti e Giuseppe Marchetti. Lo scrittore gioca in casa, ma non è il solo, e la partita sarà senz’altro interessante e divertente, ci saranno molte aperture soprattutto se l’autore parmigiano sarà in vena di schiudere ancora una volta la cassaforte dei suoi fantastici ricordi.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE

Mafia nel Lazio: il sindaco Alemanno continua a negare. E la Regione? Il sindaco Alemanno continua a sottovalutare il fenomeno del controllo mafioso di vaste aree produttive della capitale. Prima di lui e per tanto tempo, i politici del centrodestra delle province laziali hanno negato l’esistenza della criminalità organizzata nei territori della nostra regione, in particolare nel subpontino. Poi il governo non ha prontamente operato per lo scioglimento del comune di Fondi, per presunte infiltrazioni mafiose. Da anni, invece, la Direzione investigativa antimafia ed alcune associazioni come Libera, descrivono – con più relazioni sia al Parlamento che in Regione – un’allarmante e vistosa penetrazione di clan della camorra e della ‘ndrangheta nel Lazio. Non più infiltrazioni ma un vero e proprio radicamento di cosche che nel nostro territorio hanno non solo esteso i propri traffici ma anche “investito” in nuovi settori strategici. Bisogna strutturare, con proposte e organismi appropriati, un più efficace contrasto a tutte le mafie; invitare associazioni e forze politiche e sociali a costruire insieme un percorso incisivo e vedremo quali saranno le risposte del centrodestra, di Alemanno e della giunta Polverini!

Fabio e Ivano

TERREMOTO: PROTEZIONE CIVILE VENETA A L’AQUILA Prosegue l’impegno della regione del Veneto a sostegno della ricostruzione del dopo terremoto a L’Aquila. L’assessore alla Protezione, accompagnato dei tecnici regionali, ha compiuto una visita nel capoluogo abruzzese per rendersi conto dello stato dell’arte dell’intervento del Veneto sulla Chiesa monumentale di San Marco, “adottata”dalla regione sin dai primi giorni che seguirono la catastrofe. Contiamo di promuovere concretamente anche la rinascita di quel tessuto culturale e sociale che vede nella chiesa uno dei punti di riferimento delle comunità locali. Sotto il profilo tecnico l’intervento sino ad oggi realizzato ha consentito di mettere in sicurezza le strutture murarie esterne, mediante l’impiego di ponteggi di forza, ancorati alle murature, e di cerchiature o puntellazio-

ni per sostenere la facciata principale collegandola agli altri elementi strutturali. Una copertura preserva anche le strutture lesionate dal pericolo di infiltrazioni diffuse e consistenti.

Lettera firmata

I cancelli del Cremlino “Cremlino” è il termine russo corrispondente all’italiano “fortezza” e fa riferimento al complesso di edifici presente all’interno delle città sorte in epoca medievale. La parola è anche usata per indicare il Cremlino di Mosca (dove, a febbraio, è stata scattata questa foto) o, per estensione, il governo

IL GOVERNO RIDUCE GLI INSEGNANTI A PARIA DELLA SOCIETÀ ITALIANA Il governo prima strombazza risorse per riconoscere il merito degli insegnanti e poi invece, grazie a questa manovra, li fa lavorare gratis per un anno. E meno male che, avevano assicurato, la manovra non toccherà la scuola: in realtà si abbatte una scure con un taglio lineare fino al 2050, con un taglio a fine carriera, mediamente, di 29mila euro. E così dopo il più grande licenziamento di massa inflitto al personale della scuola nella storia della Repubblica, assistiamo oggi anche al più grande “col-

po” nelle loro tasche. Il governo aveva assicurato di voler ridare dignità a una categoria cruciale per la vita e il futuro del Paese: ha finito col ridurre gli insegnanti a parìa della società italiana

Francesca Puglisi

EVVIVA I MONDIALI È iniziato un mondiale di calcio all’insegna di un continente che risente e nello stesso tempo si avvale, della sempreverde lotta per la sopravvivenza. Ne risente per-

L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

ché la gestione delle opportunità è in mano a gente senza scrupoli oggi più di ieri; se ne avvale perché l’Occidente dovrebbe ricordare che proprio la reazione ai momenti più bui della sua storia, ha generato dei boom positivi solo perché l’intelletto provato dell’uomo ha riprovato per una volta ancora, la gioia immensa che viene dal voler costruire qualcosa di concreto partendo dalla lotta quotidiana per un piatto a tavola.

Bruno Russo

da ”The Sunday Indipendent” del 14/06/10

Sud Africa, partite fuori campo a nuova Germania travolge i canguri australi, ma fuori dallo stadio i problemi non nascono da scontri tra tifoserie. Si tratta di ben altro e segnala un certo disagio sociale: la crisi economica ha colpito anche in Sud Africa. Lacrimogeni, proiettili di gomma, si fanno sentire più forti delle vuvuzela. Il biIancio della serata vede una donna ferita e due persone arrestate. È ciò che è avvenuto nei disordini di lunedì, a Durban, Sudafrica, a margine della partita dei mondiali Germania-Australia. Gli scontri hanno avuto luogo in un’area dedicata ai parcheggi dello stadio di Moses Mabhida. Il comitato organizzatore dei Mondiali ha spiegato, attraverso un suo portavoce, che la protesta non ha avuto alcun impatto sulle misure di sicurezza.

mosche in mano. Al Parktonian hotel della Città del calcio di Joburg (Johannesburg) hanno rispedito a casa decine di persone che erano arrivate convinte di poter svolgere un lavoro stagionale per i mondiali di calcio. Forse le prenotazioni non sono state all’altezza delle aspettative e il personale respinto ha subito inscenato una protesta.

L

Erano circa 500 i lavoratori (steward) che alla fine dell’incontro hanno organizzato una manifestazione di protesta: denunciavano di aver ricevuto nemmeno la metà del compenso pattuito per il lavoro svolto allo stadio durante l’incontro di calcio. L’equivalente di poco più di 20 euro invece di 42 circa per una giornata di lavoro. E mentre le odiatissime trombette sbarcano anche tra i tifosi di casa italiani, le forze di sicurezza sudafricane sono coinvolte su più fronti. I giocatori della squadra italiana, appena sbarcati, sono infatti stati scortati dai poliziotti, che hanno evitato anche il contatto dei giocatori con i tifosi giunti all’aeroporto per vedere i campio-

ni del Mondo in carica dal vivo. Questo anche perché in Sudafrica è scattato l’allarme ultras, dopo che 10 tifosi argentini, appartenenti al pericoloso e violento gruppo barras bravas, sono stati rispediti a casa perché indiziati in gravi reati penali. La polizia, alla fine della partita tra la formazione tedesca e quella australiana, aveva inizialmente dato dieci minuti di tempo ai manifestanti per disperdersi. Poi era avvenuta la carica. Due gli arrestati: uno di loro sarebbe stato in possesso di una pistola, secondo le fonti del ministero dell’Interno sudafricano. «La nostra era una protesta pacifica, abbiamo manifestato perché pagati meno di quanto pattuito. La carica della polizia ci ha sorpreso» ha affermato uno dei lavoratori, Sydney Nzoli. E anche dei lavoratori nel settore alberghiero sono rimasti con un pugno di

Ricordiamo che, negli ultimi giorni, episodi di tensione sociale non sono mancati, anche in altre parti del Paese, specialmente nelle bidonville dove le condizioni di vita sono già molto precarie, al netto della crisi. Peter Czakan direttore della Innstaff, società che si occupa dell’assunzione del lavoro temporaneo per i mondiali, ha però voluto sottolineare come spesso per un lavoro come il controllo dei biglietti allo stadio o di altro genere si presenti spesso più gente di quella chiamata. «L’eccitazione per il lavoro» crea situazioni fuori controllo ha sottolineato. «Spesso le chiamate avvengono poche ore prima che si svolga una partita, sulla base di lenchi precompilati» spiega Czakan, perché è difficile preventivare il numero esatto del personale che sarà necessario. Insomma i mondiali sono vissuti da una larga fascia di popolazione non solo come un festa dello sport, ma come una delle poche occasioni per poter incrementare il magro bilancio familiare. E se in campo c’è chi cerca di vincere la partita della qualificazione, fuori in molti sono impegnati nella partita della vita.


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Dritti al cuore della creazione artistica Per ora non posso sforzare a lungo i miei occhi, perciò prego V.A.I. di degnarsi di pazientare ancora un poco per le Variazioni di Vostra Altezza, che mi sembrano veramente deliziose, ma che richiedono una disanima più accurata di quella che ho potuto fare. V.A.I. deve ora continuare, in particolare, i Suoi esercizi di composizione e, quando siede al pianoforte, dovrebbe buttar giù le Sue idee sotto forma di abbozzi; a questo scopo ci vuole un piccolo tavolino messo accanto al pianoforte. In tal modo, non solo si stimola la fantasia, ma si impara anche a fissare all’istante le idee più remote. Dovrebbe comporre anche senza pianoforte. E qualche volta lei dovrebbe sviluppare una melodia semplice, per esempio un Corale con armonie differenti, seguendo le regole del contrappunto, e anche trascurandole. Sono tutte cose che non procureranno certo il mal di testa a V.A.I., ma che Le daranno anzi un vero godimento, perché si troverà, così, proprio nel cuore della creazione artistica. A poco a poco si acquista la capacità di rappresentare esattamente quello che si desidera e si sente; un bisogno così essenziale per gli uomini di natura più nobile... Ludwig van Beethoven all’Arciduca Rodolfo

LE VERITÀ NASCOSTE

Sri Lanka: matrimoni, Tigri e pregiudizi VAVUNIYA. Il governo cingalese ce la sta mettendo tutta, per cancellare i decenni di fratricida lotta interna fra l’etnia di maggioranza (cingalese, appunto) e quella di minoranza dei tamil. Dopo aver sconfitto militarmente le Tigri, però, Colombo si è trovata davanti il grave problema della riconciliazione nazionale. Ed ecco che, idea degna di un romanziere ”rosa”, ha ordinato un matrimonio di massa in cui cento Tigri hanno impalmato cento cingalesi. Lo scopo è quello di allontanare dalle menti dei guerriglieri l’idea indipendentista, mostrando privilegi e gioie della vita comune con i membri dell’etnia di maggioranza. Tuttavia, per alcuni queste mosse - di chiaro stampo propagandistico - cercano di coprire quanto avviene nelle province settentrionali dello Sri Lanka, un tempo teatro delle operazioni Tamil. Queste zone, racconta un attivista per i diritti umani che le ha appena visitate, «stanno subendo un nuovo tipo di attacco. Ma questa volta non è militare, bensì culturale e religioso: siamo davanti a una “cingalesizzazione”della zona». Nelle province di Vanni e Kilinochchi, spiega, «un primo esempio di questa nuova guerra (che sembra banale ma non lo è) viene dai cartelli stradali: è sparita la lingua tamil, e tutto è scritto in cingalese. I militari dicono che i termini tamil sono troppo lunghi e complicati, e con questo chiudono il discorso. Rimangono attivi i cartelli con i nomi delle località, scritti in tutte e due le lingue: ma il primo è in cingalese, il secondo in tamil e poi ci sono i vecchi nomi cingalesi della zona. Un sacerdote tamil mi ha spiegato che si tratta di un modo per dimostrare che quelle terre erano cingalesi». Ma il tentativo di cambiare la storia «passa anche dalla religione. Il buddismo sta soppiantando tutto».

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

AL FIANCO DI CHI INVESTE PER AGGANCIARE LA RIPRESA Le banche devono aiutare le imprese e gli artigiani dei nostri territori, un patrimonio insostituibile per l’economia. Episodi come quello accaduto all’imprenditore trevigiano, cui è stata richiesta in garanzia la casa della moglie, sono il segnale di un rapporto che ancora arranca, mentre invece gli istituti bancari devono stare vicino ai nostri artigiani che investono per crescere. Condivido la preoccupazione espressa dal presidente della Cna in merito alla rigidità delle banche nel concedere prestiti anche esigui agli artigiani. È importante per le banche chiedere garanzie, ma questo non deve diventare un atteggiamento che frena la spinta propulsiva all’innovazione e allo sviluppo. Gli artigiani sono da sempre una risorsa strategica del nostro sistema economico e sono sicuro che rivestiranno un ruolo da protagonisti anche nella ripresa.

Ellezeta

TAGLI ANCHE PER MAMMA RAI In tempo di crisi è giusto che ognuno faccia la sua parte, a dieta, quindi, anche mamma Rai. Il Consiglio dei ministri ha dato il via libera all’emendamento, con il quale gli stipendi dei lavoratori non dipendenti che prestano servizio in Rai saranno ridotti almeno del 20% rispetto alla media dei bilanci del triennio 2007-2009. L’emendamento prevede inoltre il divieto per la società concessionaria di sostenere una spesa complessiva annuale per il personale che ecceda del 25% dei costi operativi complessivi annuali.

Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci,

Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,

Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)

Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Collaboratori

APPUNTAMENTI GIUGNO LUNEDÌ 21 - ORE 17,30 - ROMA CAMERA DEI DEPUTATI - SALA DELLA MERCEDE

In occasione dell’uscita del libro “Ho visto morire il Comunismo” di Renzo Foa, ne discutono Ferdinando Adornato, Rino Fisichella, Stefano Folli, Claudio Petruccioli. SEGRETARIO

VINCENZO INVERSO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Giacomo Luzzi

Robert Kagan, Filippo La Porta, Direttore da Washington Michael Novak

IL SISTEMA PAESE NON PUÒ CAMMINARE A DUE MARCE. IL MERIDIONE HA BISOGNO DI TUTELA È ormai evidente che al governo Berlusconi manca quel coraggio e quella spinta propulsiva necessari per addivenire a delle riforme indispensabili e fondamentali per rimettere in moto il sistema-Italia e per ridare slancio all’economia nazionale. Dapprima la farsa dell’abolizione delle Province con popolazione inferiore ai 250mila abitanti (soglia poi scesa a 220mila e 200mila), poi l’ennesimo voto di fiducia posto sul ddl “intercettazioni”e, infine, il provvedimento che, di fatto, cancella le abolizioni degli enti provinciali. Il governo sembra realmente aver perso la bussola e, vittima di un palese atteggiamento di sudditanza nei riguardi della Lega Nord, si rende protagonista di scelte incomprensibili che provocano sdegno e insoddisfazioni perfino all’interno delle forze politiche della maggioranza parlamentare. Quel che rammarica, ancor di più, è che in una situazione di crisi e di stallo dell’economia, il governo cosa fa? Chiede e pretende sacrifici anche e soprattutto dai più deboli e da quelle regioni letteralmente col l’acqua alla gola. Per fortuna, negli ultimi giorni abbiamo assistito ad una levata di scudi bipartisan contro alcuni provvedimenti che, in caso di approvazione, avrebbero ancor di più affossato le famiglie calabresi. Il nuovo corso avviato con la vittoria del governatore Scopelliti e della coalizione formata dal Pdl e dall’Udc, sta dunque producendo i suoi frutti: la Calabria e i calabresi non ci stanno a svolgere il ruolo di vittime sacrificali, ma pretendono rispetto e considerazione. Di questo dato se ne faccia una ragione il governo nazionale che, a causa della Lega Nord, è fermo in un immobilismo istituzionale che, nel peggiore dei casi, si traduce nel promuovere delle vere e proprie riforme di carta che rappresentano solo ed esclusivamente degli specchietti per le allodole. Manca, in ogni modo, un senso delle Istituzioni ed una responsabilità condivisa, con l’aggravante di non riuscire ad urtare e ledere gli interessi di Bossi e dei suoi fedelissimi. E accade che il Meridione diviene il capro espiatorio, l’origine dei mali d’Italia… Non a caso, noi giovani dell’Udc lavoriamo per creare e dar vita ad una classe dirigente autorevole, che sia finalmente in grado di tutelare gli interessi del Mezzogiorno, all’interno di un sistema Paese che non può più permettersi di camminare a due velocità. Giovanni Folino U D C GI O V A N I UD C CA L A B R I A

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ULTIMAPAGINA Antropologia. Che cosa spinge i leader del Carroccio ad applaudire sempre e comunque i separatisti nel mondo

Se la Lega canta... fratelli del di Giuseppe Baiocchi i ampliano i segnali di una possibile divisione anche territoriale del Belgio, tra le due etnie, i due popoli e le due lingue, vallona e fiamminga, dopo il rilevante successo elettorale del partito separatista, la Nuova Alleanza Fiamminga, guidata da Bart De Wever. E, naturalmente, il rimbalzo nostrano è, come al solito carico di polemiche, protagonista quella Lega Nord che già suscita scandalo in molti benpensanti per l’idiosincrasia qua e là ripetuta e periodicamente riemergente verso l’inno nazionale e l’Unità d’Italia.

S

Ma l’esultanza a dir poco mal trattenuta degli esponenti del Carroccio verso le premesse di dissoluzione di uno dei Paesi fondatori dell’Unione Europea ha più di un motivo di ambiguità e forse di scarsa conoscenza. A differenza infatti della“separazione dolce”, pacifica e concordata, tra Repubblica Ceca e Slovacchia, che nel 1993 concluse la“rivoluzione di velluto”di Vaclav Havel a Praga e Bratislava, il caso del Belgio e le tensioni secessioniste in crescente fibrillazione dovrebbero allarmare proprio la Lega, la sua cultura politica e la sua classe dirigente. Infatti, avendo puntato la partita del consenso e della rappresentanza sul sistema di alleanze, la conquista del governo e l’esercizio in prima persona e in piena responsabilità del processo riformatore, ha giocato tutto il suo peso sul raggiungimento del “federalismo” (prima fiscale e poi istituzionale) come obiettivo principe e senza subordinate. Ma se davvero si vuole costruire l’architettura straordinaria di un passaggio epocale per un Paese istituzionalmente immobile e carico di inerzie e di vischiosità, e cioè traghettare dal centralismo al federalismo, si dovrebbe sempre ricordare che esiste un solo esempio (a parte la Spagna che ha una vicenda molto diversa) nella storia recente di una trasformazione similare: guarda caso proprio il Belgio.

BELGIO

Quel Belgio che neppure vent’anni fa accettò una larga ripartizione di poteri e di decentramento di funzioni dalla capitale alla periferia: e ne sancì l’ordinamento con tre entità a fortissima autonomia: la Vallonia, le Fiandre e la regione di Bruxelles. Se l’esperimento non regge alla dura prova dei fatti e alle tendenze identitarie particolarmente coltivate nelle Fiandre, per il ventilato federalismo in salsa italiana saranno dolori. A Bruxelles inoltre c’era una chiave di tenuta unitaria del Paese realmente forte, accettata e condivisa: e cioè la monarchia, un tempo molto popolare, che tuttavia ha perso seguito e influenza dopo la scomparsa dell’amatissimo re Baldovino. Da noi non c’è nemmeno il re (e per fortuna, perché i rampolli attuali di casa Savoia aggravano la mediocrità di una dinastia di scarsissimo prestigio) e l’appartenenza unitaria è tutt’ora faticosa e problematica, anche e nonostante lo zelo di tanti neofiti. Semmai ci sarebbe da chiedersi come mai la Lega così amante del dividersi altrui, poi non tolleri attentati, anche i più morbidi, all’unità padana, quando le diversità tra lombardi e veneti, tra piemontesi e friulani faticano ad affermarsi all’interno dello stesso movimento e delle istituzioni territoriali che governa da tempo.

Le feste padane per le elezioni che di fatto hanno spaccato il cuore dell’Europa arrivano nelle stesse ore in cui si polemizza (per l’ennesima, ormai inutile volta) sulla debolezza musicale e sulla presunta mediocrità lirica dell’inno di Mameli

Piuttosto il rigetto dell’Inno di Mameli, in tempi di patriottismo calcistico e di ampio seguito al tricolore da stadio, rischia di produrre l’effetto inverso. Ossia quello di suscitare per reazione rabbiosa un sentimento di difesa della musica nazionale e un senso di appartenenza italiana

più incattivito e meno cordiale. (E forse la scelta dei calciatori di devolvere parte dei loro premi alle celebrazioni per i 150 anni non è estranea a questo clima). Quello che sicuramente ci perderà è in ogni caso il patrimonio musicale della nazione: da tempo immemorabile, infatti, tutto il mondo della altissima e prestigiosa tradizione musicale italiana si sente mal rappresentato da quell’insulsa marcetta che non simboleggia certo il tesoro profondo della nostra inimitabile cultura.

Per Claudio Abbado ad esempio il simbolo autentico italiano potrebbe essere una musica di Rossini come la sinfonia de La gazza ladra (Anche se il titolo dell’opera, in tempi di “cricca”, appare desolatamente profetico). Una richiesta che si è spenta nel timore di apparire schierati nella polemica politica. Così che, per merito o colpa della Lega, ci toccherà continuare a sentirci legati a un inno mediocre, mentre l’Italia meritava ben di meglio.Un inno che nei versi arruffati contrabbanda anche l’ultima menzogna sul carattere nazionale: «siam pronti alla morte». Ma quando mai?


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