2010_06_18

Page 1

he di c a n o r c

00618

Le qualità dell’animo non

si possono acquistare con l’abitudine, si perfezionano Blaise Pascal

9 771827 881004

di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • VENERDÌ 18 GIUGNO 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

In attesa delle regole, che dovrebbero arrivare a ottobre, i singoli Stati dovranno organizzarsi per applicare l’accordo

È Angela la vera Robin Hood La Cancelliera tedesca propone di tassare le banche: «Devono pagare i veri colpevoli della crisi». Il Consiglio europeo approva e proporrà questa linea al G20 di Toronto CONTROPROPOSTA

di Enrico Singer

Le polemiche su Pomigliano

È meglio colpire gli speculatori

T

di Rocco Buttiglione n riaggiustamento severo dei conti pubblici italiani è oggi purtroppo una dura necessità. La proposta di manovra del governo appare complessivamente adeguata dal punto di vista quantitativo. a pagina 5

U

L’OPINIONE DI LA MALFA

Federalismo modello Berlino di Gabriella Mecucci e banche sono certamente colpevoli della crisi. Ma questo non è sufficiente per decidere di tassarle. L’imposizione si fa là dove c’è un reddito. Se hanno fatto molti profitti, è giusto che vengano colpite dal fisco». a pagina 4

«L

assare le banche, non soltanto i cittadini, per ripartire in modo più equo il costo della crisi. La Ue - ma sarebbe meglio dire la ritrovata coppia Merkel-Sarkozy - torna all’attacco e propone una posizione comune dei Ventisette in vista del vertice del G20 che si terrà il 26 e 27 prossimi a Toronto, in Canada, e che proprio di questo dovrà parlare. Così, ieri, nella riunione di Bruxelles che ha concluso il semestre spagnolo di presidenza europea, i capi di Stato e di governo hanno dato il loro assenso di massima - perché i dettagli sono ancora da definire - a quella che nel testo del documento finale viene definita «una necessità»: un prelievo sugli istituti finanziari e, forse, anche sulle transazioni finanziarie realizzate dagli istituti di credito. «Bisogna tassare chi ha messo a rischio il mercato: coloro che più di altri sono responsabili della crisi devono passare alla cassa», ha detto senza troppi giri di parole la cancelliera tedesca. a pagina 2

Ribaltata in Appello la sentenza di innocenza

G8, una batosta per De Gennaro Un anno e quattro mesi di galera al prefetto dopo i fatti della Diaz. La Corte d’Appello di Genova: «Istigò alla falsa testimonianza» Marco Palombi • pagina 10

Possiamo lavarci la coscienza dicendo solo che la Fiom sbaglia?

Un errore non firmare il contratto. Ma sta passando l’idea che non deve essere la Cina a diventare democratica ma l’Occidente a diventare più cinese

Incontro tra il presidente della Camera e il leader del Carroccio: Berlusconi quasi commissariato

Ora nasce il subgoverno Bossi-Fini Intercettazioni, il Senatùr fa il mediatore: «Cambiamo o il Colle non firma» di Errico Novi

ROMA. Difficile anche per un duro come Bossi dettare la linea. All’incontro con Tremonti il leader della Lega si presenta con un corposo quaderno di doglianze, riempito anche dai suoi governatori e dai suoi sindaci. Quello che manca al Senatùr è una strategia di maggioranza: non c’è coesione e unità di indirizzo tra le varie componenti, tra la sua Lega e i berlusconiani ortodossi, per esempio, che, è il caso di Sacconi, invitano gli amministratori locali a non piangersi addåosso. a pagina 8 seg1,00 ue a p(10,00 agina 9 CON EURO

I QUADERNI)

I FINIANI

I LEGHISTI

«Non si può più blindare niente»

«Stiamo giocando con il fuoco»

di Franco Insardà

di Pierre Chiartano

ROMA. «Le Regioni hanno ragione. È difficile attuare il federalismo se vanno in disavanzo con un taglio lineare». Andrea Augello, sottosegretario alla Funzione pubblica, guarda alla manovra con qualche perplessità: «Se prima di attuare il federalismo si tagliano le risorse, la faccenda rischia di diventare una partita di giro».

ROMA. La manovra finanziaria è sul rettilineo finale e subisce gli ultimi scossoni. Il vicepresidente leghista della commissione Bilancio, Massimo Garavaglia, ha risposto a liberal, sottolineando come ora siano i numeri a comandare, mentre lo spazio per le mediazioni politiche ormai si è estremamente ridotto.

a pagina 9

a pagina 9

• ANNO XV •

NUMERO

117 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

di Riccardo Paradisi a vertenza sul contratto che mette a confronto la Fiat con le parti sindacali a Pomigliano d’Arco è qualcosa di più d’un acuto tra i molti nella lunga storia del conflitto che il nostro Paese ha conosciuto tra capitale e lavoro. Pomigliano è la porta d’ingresso attraverso cui la lava incandescente della globalizzazione economica penetra in Italia attaccando alle fondamenta una cultura del lavoro, dell’impresa, del sindacato che sembrava acquisita. Una cultura che invece corre il rischio d’essere definitivamente liquidata. segue a pagina 7

L

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


prima pagina

pagina 2 • 18 giugno 2010

Vertice. A Bruxelles i Ventisette seguono la Merkel e Sarkozy: «Chi ha gravi responsabilità nella crisi, passi alla cassa»

L’Europa tassa le banche Regole coordinate, ma Paese per Paese. E la speranza di convincere tra dieci giorni anche il G20: a Toronto, però, la battaglia sarà dura di Enrico Singer assare le banche, non soltanto i cittadini, per ripartire in modo più equo il costo della crisi. La Ue - ma sarebbe meglio dire la ritrovata coppia MerkelSarkozy - lancia la sfida e propone una posizione comune dei Ventisette in vista del vertice del G20 che si terrà il 26 e 27 prossimi a Toronto, in Canada, e che proprio di questo dovrà parlare. Così, ieri, nella riunione di Bruxelles che ha concluso il semestre spagnolo di presidenza europea, i capi di Stato e di governo hanno dato il loro accordo di massima - perché i dettagli sono ancora da definire - a quella che nel testo del documento finale viene definita «una necessità»: un prelievo sugli istituti finanziari ed anche sulle transazioni finanziarie realizzate dagli istituti di credito. «Bisogna tassare chi ha messo a rischio il mercato: coloro che più di altri sono responsabili della crisi devono passare alla cassa», ha detto senza troppi giri di parole la cancelliera tedesca, sostenuta dal presidente francese e anche dal nuovo premier britannico, il conservatore David Cameron, che una tassa sulle banche l’aveva proposta già all’indomani della sua vittoria elettorale. Come, del resto, ha fatto addirittura sei mesi fa, dall’altra parte dell’Atlantico, Barack Obama.

parte e favorirne un’altra. Non è davvero un caso che la proposta di tassare le banche era stata già discussa e bocciata al summit del G20 che si era tenuto all’inizio del mese a Busan, in Corea del Sud. Allora contro una simile misura si erano opposti i Paesi delle economie emergenti, con l’India in testa. Il ministro delle Finanze di Nuova Delhi, Pranab Mukherjee, aveva detto che «invece di tassare le banche è meglio avere meccanismi del credito ben regolati»: un riferimento alla politica della Banca centrale dell’India che ha recentemente imposto agli istituti bancari di aumentare il rapporto tra depositi e prestiti. Il problema della patrimonializzazione delle banche è al centro delle discussioni del G20 che sta lavorando a una riforma globale del sistema bancario battezzata “Basilea-3”.

Ma, attenzione: quello che è uscito dal Consiglio europeo è un impegno da riempire di regole e di meccanismi, tanto che la Commissione - organo esecutivo della Ue - è stata incaricata di approfondire tutta la materia e di preparare un documento che sarà discusso - e probabilmente anche votato nel prossimo vertice europeo di ottobre. E, in ogni caso, la tassa sarà applicata dai singoli Paesi in base ai diversi comportamenti delle banche. In altre parole, ieri da Bruxelles è partito un segnale politico. Molto importante, certo. Ma che dovrà passare attraverso altri snodi decisivi. A cominciare dal G20 di Toronto perché in questo nostro mondo globalizzato i vincoli al sistema bancario devono essere condivisi - almeno tra i Paesi del “direttorio” dei Grandi - se non si vuole, paradossalmente, penalizzarne una

Tra i nemici della tassa alle banche, a Busan, c’era anche il Canada che è proprio il Paese che ospiterà tra dieci giorni il nuovo vertice del G20. Anzi, il ministro delle Finanze, Jim Flaherty e il governatore della Banca Centrale, Mark Carney, avevano fatto una forte attività di lobbing in Corea del Sud per bloccare l’approvazione della tassa ed è prevedibile che faranno altrettanto a Toronto dove la Ue, adesso, rilancerà la proposta di una “tassa mondiale”. Anche gli Stati Uniti, dove l’amministrazione Obama è favorevole a tassare il sistema finanziario dopo le abbondanti iniezioni di denaro pubblico fatte nel corso della crisi, hanno ammesso per bocca del segretario al Tesoro Tim Geithner che «non c’è un consenso globale su questa materia». Nei corridoi del Palazzo Justus Lipsius, sede del Consiglio euro-

T

peo a Bruxelles, ieri circolava anche l’ipotesi che la determinazione della Merkel, di Sarkozy e di Cameron a chiedere la tassa - oltre che su ragioni di principio - poggiava sull’opportunità politica di far digerire meglio alle opinioni pubbliche interne le manovre molto pesanti appena varate (nei tre Paesi superano i 300 miliardi in quattro anni) dimostrando, come ha ha detto Angela Merkel, che «anche le banche devono passare alla cassa».

Forse è una cattiveria. Ma la corretta interpretazione dell’accordo di principio raggiunto a Bruxelles sarà possibile soltanto quando dalle parole si passerà ai fatti. Anche perché, pur con il coordinamento europeo, saranno poi i singoli Paesi ad applicare la tassa e a deciderne l’entità in base al comportamento delle banche. Per quanto riguarda l’Italia, il ministro degli Esteri, Franco Frattini - che ieri era a Bruxelles con Silvio Berlusconi - aveva già detto prima di partire che «le

Per ora l’intesa è di principio: le norme e i meccanismi saranno definiti entro ottobre. Ma prima c’è il summit dei Grandi dell’economia mondiale che ha già bocciato una volta questo tipo di imposta. Gli Stati emergenti non sono d’accordo

Angela Merkel e Nicolas Sarkozy si abbracciano. Al vertice europeo di ieri hanno ritrovato l’intesa sul Patto di stabilità e sulla tassa alle banche

banche italiane hanno dimostrato di non essere delle sanguisughe». Frattini ha anche confermato che la misura dovrà essere inserita nel documento più generale che la task force del presidente stabile della Ue, Herman Van Rompuy, sta preparando per sottoporla al prossimo vertice europeo di ottobre. Prima di allora ci sarà un altro appuntamento importante: il 30 giugno - quinbdi dopo il G20 di Toronto - il presidente della Commissione, Manuel Barroso, presenterà un rapporto sullo stato delle riforme del sistema finanziario europeo che prevede, fra l’altro, la possibilità di finanziare con il prelievo sulle banche un fondo europeo anti-insolvenza.

Ma la preoccupazione principale dei leader resta comunque quella di procedere con determinazione sul fronte del risanamento delle finanze pubbliche dei Ventisette senza, però, «soffocare la crescita», come è ribadito anche nel documento sottoscritto a Bruxelles. La situazione economica


prima pagina

18 giugno 2010 • pagina 3

Debito, la Ue accetta il “modello italiano” Nel prossimo decennio verrà considerata anche l’incidenza di quello privato di Alessandro D’Amato lla fine il ministro Franco Frattini non ha avuto bisogno di“tenere duro”, e il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi non ha dovuto mettere il veto. Il Consiglio europeo di ieri sembra aver accettato che nella strategia economica dell’Ue per il prossimo decennio verrà considerata, nella valutazione del debito di ogni Paese, anche l’incidenza di quello privato.

A

Una decisione che tecnicamente è più corretta di quella di considerare soltanto i debiti pubblici, e nei fatti pone l’Italia in una situazione di maggiore tranquillità dal punto di vista contabile. Nella bozza si afferma che nelle procedure di sorveglianza dei conti pubblici deve essere data «un’importanza di gran lunga maggiore ai livelli di indebitamento e alla sostenibilità», come previsto inizialmente dal Patto di stabilità e di crescita. Il plurale“livelli”, nell’accezione burocratese ma precisa di Bruxelles, risponde alla richiesta italiana di considerare non solo il debito pubblico ma anche quello privato, e in ogni caso un dato aggregato di entrambi i fattori. «Nel documento di stamani è stato inserito il riferimento al debito privato. Un passo in avanti rispetto al documento di Lussemburgo, sul quale io avevo fatto un blocco completo: nel documento di oggi il debito privato entra tra i parametri di convergenza per il patto di stabilità», ha detto Frattini ai giornalisti. «La maggiore re-

generale resta molti delicata. Proprio ieri la Banca centrale europea, nel suo Bollettino mesile ha scritto che «per il futuro si prospetta un ritmo di crescita moderato nell’area euro, a fronte di perduranti tensioni in alcuni segmenti dei mercati finanziari e di un livello insolitamente elevato di incertezza». Le previsioni parlano di un rialzo della media del Pil di Eurolandia compreso tra lo 0,7 e

sistenza è già stata espressa dalla Germania che ha un debito privato molto grande ma una perplessità così forte non è stata espressa finora da nessun altro paese. La Francia è possibilista. Belgio, Polonia e Spagna sono a favore», ha precisato il titolare della Farnesina. Nella precedente bozza di conclusioni del Vertice Ue ci si limitava a indicare che la vigilanza europea sui conti pubblici deve «attribuire importanza di gran lunga maggiore ai livelli di debito pubblico». La Commissione, “guardiana” dei Trattati, si è detta comunque in disaccordo con l’idea di inserire un nuovo parametro dato che le regole fondamentali della Ue fanno riferimento solo al debito pubblico. Ma una visione non dogmatica dello stato finanziario di un Paese è possibile: il Trattato prevede che siano valutati i “fattori rilevanti”dei quali possono far parte il livello del debito privato così come le spese future implicite (legate all’invecchiamento della popolazione) o quelle “contingenti” (ad esempio il sostegno pubblico alle banche).

plicato è tutto da vedere, caso per caso, e ciò riguarderà Commissione ed Ecofin. Ma di certo le parentesi quadre – che segnalavano che nei punti in questione non c’era l’accordo di tutti – sono state finalmente tolte dai documenti ufficiali.

Questo però non vuol dire che l’obiettivo sia stato raggiunto. Anche perché è facile che il punto adesso finisca per essere inquadrato all’interno dell’eterno scontro tra Francia e Germania. Parigi vuole incontri su base regolare tra i paesi dell’Eurozona e la creazione di un segretariato che si occupi non solo di verificare lo stato dei conti pubblici delle nazioni ma che coordini anche le politiche sul lavoro, il livello di imposizione fiscale e magari il valore della moneta unica. La Germania non accetterà mai, perché questo significherebbe abdicare al ruolo di quella Bce che è diretta emanazione della banca centrale tedesca, e sulla quale Berlino continua a mantenere ascendente e leadership, criticando anche apertamente il francese Trichet quando osa discostarsi dalla linea del rigore tedesco. Anche il mercato del lavoro divide Parigi e Berlino – per i francesi il minor costo del lavoro che consente ai tedeschi di essere leader dell’export potreb-

Il compromesso che è stato raggiunto tra i diplomatici accoglie il principio generale della “sostenibilità”

Il compromesso raggiunto tra i diplomatici accoglie il principio generale della “sostenibilità”: come in concreto sarà ap-

l’1,3 per cento per quest’anno e tra lo 0,2 e il 2,2 per cento per il 2011. Così nel documento finale della riunione dei capi di Stato e di governo della Ue è scritto che «gli Stati membri sono pronti, se necessario, a prendere misure aggiuntive per accelerare il consolidamento». Anche se tutti sperano che non sarà necessario. La chiave rimane la riforma “interpretativa”del Patto di sta-

bilità e di crescita, quella che sta preparando la task force di Herman Van Rompuy e che ieri i leader dei Ventisette hanno approvato, almeno fino allo stato di avanzamento raggiunto. Nella bozza, tra l’altro, è ricomparsa la formulazione del parametro del debito così come la voleva l’Italia (e di questo parliamo nell’altro articolo della pagina), ma non solo. Si dice sì al rafforzamento del coordi-

be essere vicino al dumping cinese. Infine, c’è la necessità di una nuova istituzione capace di abbassare il valore dell’euro: è tra gli obiettivi di Parigi, mentre la Germania insiste sul fatto che un eventuale “governo economico” dell’Unione debba coinvolgere tutti i Ventisette e non solo i 16 membri dell’Eurozona dato che anche paesi come la Gran Bretagna, che non hanno adottato l’euro, sono legati a doppio filo alla moneta unica. Anche ipotesi meno aggressive rispetto alla proposta francese, come quella di armonizzare le politiche fiscali, trovano la loro opposizione, soprattutto nell’Irlanda e nelle economie dell’Est. Il tutto costituirà materia di discussione, e quindi merce di scambio diplomatico, nei prossimi mesi. Con il rischio che qualcosa finisca in cantina, visto che è impossibile trovare un accordo.

Nessuna grande novità nel resto delle conclusioni: si legge ancora come nel mettere a punto nuove manovre «la priorità dovrebbe essere data a strategie di risanamento dei conti pubblici favorevoli alla crescita e imperniate soprattutto sul contenimento della spesa. Il miglioramento del potenziale di crescita dovrebbe essere considerato fondamentale per agevolare il risanamento dei conti pubblici nel lungo termine». Facile a dirsi, in partenza. All’arrivo il diavolo, come al solito, si nasconderà nei dettagli.

namento delle politiche economiche e di bilancio e a quello della vigilanza preventiva sulle manovre e sulle riforme strutturali. Già dal 2011, in pratica, dovrebbe scattare quel meccanismo - che è stato battezzato «semestre europeo» - che prevede una fase di consultazione e di esame delle leggi finanziarie dei singoli Paesi, prima che queste vengano presentate ai Parlamenti nazionali, che do-

vrebbe dare sostanza alla tanto inseguita governance europea dell’economia dei Ventisette. E che prevede anche un sistema di sanzioni per i Paesi non virtuosi. Fino ad arrivare - se in ottobre il documento definitivo sarà approvato - anche alla sospensione del diritto di voto in sede di Consiglio a chi dovesse «ripetutamente sforare» le regole del Patto di stabilità e di crescita.


pagina 4 • 18 giugno 2010

l’approfondimento

La Germania ragiona seriamente sulla riorganizzazione dello Stato, noi facciamo solo melina

Federalismo? Come Berlino La Malfa: «La Merkel ha solo mezza ragione sulle banche: perché sono colpevoli, ma colpendo loro si rischia di colpire i cittadini. Ha invece totalmente ragione sulla riorganizzazione dello Stato: i tedeschi accorpano le Regioni, noi non tagliamo neanche le Province» di Gabriella Mecucci

ROMA.

Il Cancelliere Angela Merkel ha fatto un discorso molto importante: ha affermato infatti che occorre mettere le tasse alle banche, in quanto colpevoli della crisi, e che procederà ad un riaccorpamento e quindi ad una riduzione dei Land. Onorevole La Malfa, è una misura giusta tassare le banche? Le banche sono certamente colpevoli della crisi. Ma questo non è sufficiente per decidere di tassarle. L’imposizione si fa là dove c’è un reddito. Dunque, se gli istituti di credito hanno fatto molti profitti, è giusto che vengano colpite dal fisco. Se però non è così e addirittura lo Stato deve intervenire per salvarle, allora è meglio di no. Perchè quelle tasse finirebbero col pagarle tutti i cittadini. Occorrerebbe un’analisi un po’più approfondita per capire se le banche hanno una vera capacità contributiva e non soltanto delle colpe. Altrimenti si fa solo un po’ di demagogia. Ma sono solo le banche le colpevoli della crisi, oppure parecchie responsabilità ce le hanno anche i governi? Certamente questi hanno alcune

pesanti responsabilità legate alla mancata vigilanza. Spesso gli uomini di governo sono schiavi di qualche economista, magari morto (ndr, Milton Friedman, von Hayek) e si ispirano alle sue teorie. A un certo momento è diventata convinzione comune a molte università e a parecchie forze politiche che il mercato funzionasse perfettamente da sè, senza alcun bisogno dello Stato. Che bastasse lasciarlo andare dove voleva, e tutto sarebbe finito al suo posto. La pensano così in quasi tutti i grandi atenei del mondo, ivi inclusa la Bocconi. Questa assoluta baggianata ha portato ad una mancanza di sorveglianza. Quindi, in questo senso, sono colpevoli anche i governi, ma non solo loro: in tanti hanno partecipato alla costruzione di questo conformismo. L’errore sta insomma nel ritenere che il mercato è perfetto? Non c’è dubbio. Questa sciocchezza ha portato ad una serie di illusioni. Fra queste la più grande è stata quella di pensare che l’euro avrebbe funzionato senza un

ministero del Tesoro. O per dirla meglio: che l’unione monetaria non avesse bisogno di un’unione politica. Ora c’è il rischio della crisi dell’euro. Una crisi che nasce dal fatto che la divisa europea è una costruzione incompleta, in quanto gli manca tutta la parte politica. Ma così ci stiamo allontanando dal nodo centrale dell’intervento della Merkel che considero molto importante, e cioè la riorganizzazione dello Stato. L’accorpamento dei Land? Questo mi pare un messaggio forte anche per il nostro paese.

Siamo in balia dei mercati. Speriamo che la crisi si fermi in Grecia

La Merkel vuole ridurre i Land perchè costano troppo, e noi invece non riusciamo nemmeno a ridurre il numero delle Province. Per non dire che ci apprestiamo a fare il federalismo fiscale come se non fosse successo niente. L’intervento della Merkel non dovrebbe porre qualche domanda anche al nostro ministro dell’Economia? Il governo ha intenzione di cambiare qualcosa nella spesa dello Stato? Direi di no. Basti vedere al balletto sulle Province. All’inizio le vo-

leva abolire tutte, poi solo quelle inutili, poi nove, poi quattro. E alla fine niente. La Merkel ragiona seriamente mentre noi ci limitiamo a mettere dei vincoli di spesa a legislazione non cambiata. Il nostro governo anzichè riorganizzare lo Stato in modo che costi di meno, si limita a trasformare la spesa in debito. Se tu dici ad un medico di un ospedale che deve tagliare la spesa per le siringhe, quello continuerà a comprarle perchè gli sono indispensabili, e cercherà di rinviarne il pagamento. Il risultato sarà che crescerà il debito. Ma cosa bisognerebbe fare? Non si taglia lasciando la legislazione invariata. Occorre fare il ragionamento della Merkel: riorganizzare lo stato in modo tale che costi di meno. Ed allora al primo punto bisogna mettere l’abolizione delle Province, poi l’accorpamento dei Comuni e forse anche quello delle Regioni. Ma la Lega non lo permetterà mai... Non erano loro all’inizio che parlavano di macroregioni? Forse la Lombardia e il Veneto possono essere una sola Regione, così come l’Emilia- Romagna e


18 giugno 2010 • pagina 5

Così puniremmo i responsabili della crisi senza gravare su chi lavora, investe e produce

«Per una volta contesto Angela, è meglio tassare gli speculatori?» Una simile azione darebbe un gettito di circa 8 miliardi di euro, sufficiente per una seria politica di giustizia fiscale per le famiglie di Rocco Buttiglione n riaggiustamento severo dei conti pubblici italiani è oggi purtroppo una dura necessità. La proposta di manovra finanziaria del governo italiano per un ammontare complessivo di 25 miliardi di euro ripartiti in 2 anni appare complessivamente adeguata dal punto di vista quantitativo. Nelle aule parlamentari noi cercheremo di migliorarla senza alterare i saldi di bilancio. In un momento difficile è giusto che tutti facciano dei sacrifici, cominciando dai ministri e dai parlamentari.

zioni speculative, una tassa di importo molto modesto, lo 0,02% potrebbe bastare. È stato calcolato che una simile tassa darebbe un gettito in Italia di circa 8 miliardi di euro, sufficiente ad iniziare una seria politica di giustizia fiscale per le famiglie, finanziando per esempio la legge Galletti proposta a suo tempo dall’Udc.

È però impossibile farsi illusioni: sacrifici verranno chiesti a tutti e non solo ai più fortunati e per i più poveri i sacrifici saranno più amari. Tutto questo non può non lasciare l’amaro in bocca. Per di più sembra che gli unici a non pagare per la crisi debbano essere i maggiori colpevoli, cioè gli speculatori che l’hanno provocata. Esiste una possibilità di fare in modo che essi sopportino la loro quota di sacrifici? Esiste la possibilità di porre un freno alla speculazione internazionale in modo che essa non possa rivolgersi irresponsabilmente contro il benessere e la vita stessa delle nazioni? Probabilmente una possibilità esiste. Si tratta di porre una tassa su tutte le transa-

Il governo Italiano (ma anche l’Europa) dovrebbe lavorare in questa direzione e creare su di essa un consenso

U

Di che cosa si tratta? Gli speculatori usano leve finanziarie di dimensioni

enormi, prendono a prestito cioè enormi capitali per acquisire grandi quantità di titoli che verranno rivenduti a breve. L’ampiezza dei movimenti è tale da influenzare il corso dei titoli stessi facendoli, a secondo dei casi, aumentare o diminuire. Rivendendo, dopo un certo intervallo di tempo, lo speculatore incassa la differenza di prezzo che nel frattempo si è determinata. La differenza di prezzo può anche essere non molto rilevante; tuttavia, un piccolo aumento moltiplicato per un grandissimo numero di titoli genera guadagni straordinariamente alti. Per ottenerli naturalmente bisogna fare ricorso al credito. Se vi fosse una piccola tassa per ogni transazione, i differenziali di prezzo necessari per condurre a buon fine la speculazione diventerebbero più alti. In altre parole il de-

naro allo speculatore verrebbe a costare di più e questo lo scoraggerebbe dall’intraprendere simili operazioni, a meno che i margini non siano molto elevati. Bisogna riflettere con attenzione sul livello a cui la tassa viene posta, un livello troppo alto scoraggerebbe anche operazioni finanziarie non speculative e quindi rallenterebbe l’economia. È tuttavia legittimo immaginare che nessuno rinuncerebbe ad una operazione finanziaria reale soltanto per una tassa dello 0,02%. Si potrebbe naturalmente raffinare il provvedimento escludendo da esso tutte le operazioni che hanno un carattere non speculativo, per esempio le transazioni sui conti correnti delle famiglie. L’idea è del professor Tobin, premio Nobel per l’economia. L’obiezione principale che è stata rivolta contro questa tassa è che essa sarebbe inefficace se applicata a un singolo paese. Se ci fosse una tassa così in Italia gli speculatori potrebbero operare da un altro paese aggirando la nostra normativa. Il risultato sarebbe solo di impoverire le banche e gli operatori finanziari italiani. In questa obiezione c’è del vero. Proprio per questo una simile misura andrebbe adottata ad un livello più europeo coinvolgendo tutti i paesi dell’Unione o almeno tutti i paesi dell’Eurogruppo, cioè i paesi che hanno in comune l’euro. Sarebbe naturalmente auspicabile che a una simile misura aderissero anche gli Stati Uniti, il Giappone, la Cina e tutti gli altri paesi. A lungo ritenuto impossibile, un simile concerto è oggi invece realizzabile.

Nel recente incontro tra Angela Merkel e Sarkozy la Cancelliera tedesca ha accettato per la prima volta l’idea di un governo europeo dell’economia e di questo governo potrebbe facilmente fare parte una tassa sulle transazioni speculative. I benefici sarebbero: 1. Far pagare la crisi, almeno parzialmente, a quelli che l’hanno provocata. 2. Rallentare e scoraggiare nuove ondate speculative. 3. Generare risorse che, nel caso dell’Italia, potrebbero essere utilizzate per iniziare quella seria politica di sostegno alle famiglie che a parole tutti dicono di volere e che tuttavia non è mai riuscita ad iniziare. Il Governo Italiano farebbe bene ad impegnarsi per questa iniziativa e a cercare di creare su di essa un consenso. Egualmente bene farebbe il Partito Popolare Europeo a promuoverla. È un’imposta che non grava su chi lavora, investe e produce. È un’imposta utile ed anche giusta e finalmente riequilibra la situazione a favore dei meno fortunati ed impone agli speculatori di restituire una parte dei loro guadagni.

le Marche. E il Sud avrebbe tutto da guadagnare da un riaccorpamento: si presenterebbe con maggior peso specifico ai tavoli nazionali. L’intervista della Merkel ci dovrebbe spingere a questa riflessione alla quale per la verità saremmo dovuti giungere anche per conto nostro. La Cancelliera fa un ragionamento trasparente e lineare: se voglio tagliare la spesa pubblica, debbo riorganizzare lo Stato in maniera tale che costi di meno. Il nostro governo invece fa i proclami. La sua manovra mette il tappo alla spesa corrente facendo crescere il debito. Se poi pensiamo di fare il federalismo a istituzioni invariate, allora andremo alla moltiplicazione dei costi. E questo potrebbe essere molto pericoloso per i nostri conti. Eppure la Lega dice che li migliorerà.. Se ci fosse una vera riorganizzazione forse sì, altrimenti basta guardare l’esperienza del Belgio per capire cosa può accadere. L’aumento dell’autonomismo dei Fiamminghi e dei Valloni ha fatto ingigantire la spesa ed esplodere il debito pubblico. Il ministro Calderoli garantisce che col federalismo fiscale qualcuno starà meglio e nessuno starà peggio. Benissimo, vuol dire che sarà lo Stato ad indebitarsi di più. Ma il governo dice che noi stiamo facendo una manovra meno costosa di quella di altri paesi: Francia e Germania comprese. Già e non se ne capisce il perché, visto che i nostri dati economici sono peggiori rispetto a quelli della Francia e della Germania: il nostro deficit è uguale a quello tedesco e un po’ più basso del francese, in compenso il nostro debito è il doppio del loro. Ma noi in questi anni abbiamo detto e ridetto che stavamo meglio degli altri. In realtà stiamo peggio e il governo ha raccontato bugie. Ora Berlusconi e Tremonti debbono fare una manovra meno pesante di quella degli altri paesi – nonostante le nostre difficili condizioni – per non smentire clamorosamente le balle da loro stessi accreditate. Si sono autolegati le mani. Che cosa può succedere? Siamo in balia dei mercati finanziari. C’è da sperare che la crisi si fermi in Grecia, perchè se continua, arriva anche a noi. Il governo è responsabile di non lavorato ad un vero taglio della spesa pubblica. Epperò, le pensioni le riformerà, il limite dei 65 anni verrà esteso anche alle donne. È vero. Ci ha obbligato l’Unione europea. Sarebbe stato meglio che il governo Berlusconi vi mettesse mano nel 2008. Perchè gli imprenditori approvano questa manovra? Perchè non li tocca. A pagare sarà il pubblico impiego. E, ironia della sorte, pagherà senza che lo Stato venga riorganizzato. Un sacrificio per tappare la falla, ma che non serve ad affrontare i problemi di fondo.


pagina 6 • 18 giugno 2010

panorama

ragioni&torti di Giancristiano Desiderio

Il fenomeno (antico) della pop-filosofia a chiamano “pop filosofia” per distinguerla dalla filosofia accademica. È un fenomeno filosofico e popolare che mette insieme questi due elementi: il pensiero e la cultura di massa. È un fenomeno che è nato prima all’estero e poi è stato importato in Italia traducendo alcune cose come Pillole rosse. Matrix e la filosofia oppure I Simpson e la filosofia e tante altre cose ancora (ne cito una per tutte: La filosofia del Dr. House). La rivista Vita e Pensiero ha dedicato alla “pop filosofia” un saggio Che cos’è e a cosa serve la pop filosofia di Simone Regazzoni (esperto di pop filosofia), Ciro De Florio e Lorenzo Fossati (dell’Università cattolica del Sacro Cuore), Roberto Presilla (Pontificia Università Gregoriana).

L

In questo saggio scritto a più mani e più menti si sostengono varie cose, ma le più interessanti sono forse quelle dette da filosofo pop Regazzoni. Sostiene Regazzoni che è tempo che la filosofia esca dalle aule accademiche e ritorni nelle piazze, che curi il suo aristotelico aspetto essoterico, rivolto appunto al pubblico, a tutti e non solo “agli addetti ai lavori”. La definizione di pop filosofia è un’invenzione dei filosofi accademici per dire che in fondo la filosofia seria è un’altra cosa. Invece, la filosofia seria non è mai stata accademica. I maggiori filosofi non sono professori e i pensieri più importanti non sono nati in ambito accademico. Anzi, il pensiero vero è quasi sempre nato in funzione dialettica se non di aperto contrasto con la “filosofia ufficiale” delle scuole e delle accademie.Vale per la filosofia antica come per la filosofia moderna, da Socrate a Cartesio. L’ambiente naturale del pensiero non è l’università, ma la vita. Croce aveva una limpida consapevolezza - lo dice con chiarezza nell’epistolario ma anche nei suoi scritti - che andasse costruito un movimento filosofico al di fuori dell’università: perché una cosa è il pensiero legato alla vita, all’esistenza, alla storia, ai problemi degli uomini e altra cosa è il lavoro accademico che è legato alle carriere dei docenti, alle scuole e alle discipline. Ecco perché non è condivisibile quanto dice lo stesso Regazzoni: la pop filosofia deve trovare spazio anche nell’accademia e la filosofia della cultura di massa deve diventare una disciplina accademica. Ma questo vorrebbe dire far morire la vitalità della filosofia popolare che è di per sé anti-accademica prima che extra-accademica. La verità è che c’è un equivoco di fondo. La filosofia - senza specificazione - non è definita dal suo oggetto ma da se stessa come critica: la filosofia è critica dei poteri perché mostrandone i limiti evidenzia la nostra condizione e così tutela la libertà degli uomini. La tradizione accademica ci fa credere che il filosofo è un professore, quella religiosa che è un prete, mentre la filosofia ci dice da sempre che il filosofo è un giocatore. Il primo ha la cattedra, il secondo il pulpito, ma solo il terzo parla, come tutti noi, dalla vita e per la vita.

La triste mediocrità della sinistra impiegatizia Sembra di essere tornati ai tempi del Pds di Occhetto di Antonio Funiciello

ROMA. Alla fine la risposta della sinistra alla «macelleria sociale» della manovra di Tremonti consisterà nella grande manifestazione del Pd al PalaEur il sabato 19 e nello sciopero generale della Cgil venerdì 25. Confermando che uno dei principali intellettuali che occorre utilizzare per capire la sinistra italiana resta lo scienziato russo Ivan Pavlov: quello del riflesso condizionato. Lui, cento anni, fa aveva dimostrato che il suo cane, avendo per un po’ricevuto da mangiare al tintinnare di un campanello, ormai al solo tintinnio cominciava a sbavare. Così la sinistra italiana: indipendentemente da testi, pretesti e contesti, al solo accenno di una manovra fondata su tagli alla spesa pubblica, subito reagisce ringhiando. Malgrado tutto. Malgrado il contesto internazionale e le manovre similari in corso in tutte le democrazie avanzate d’Occidente. Malgrado le indicazioni piuttosto prescrittive delle varie istituzioni europee e internazionali. Malgrado l’apprezzamento del Presidente della Repubblica. Malgrado il consenso del Governatore della Banca d’Italia. Lo schema di Tremonti è semplice perché ordinario: per abbassare il rapporto tra deficit e Pil, si interviene sul primo, con un taglio alla spesa pubblica di 15 miliardi. Apriti cielo: il Pd - sindacalizzato ormai a partito del pubblico impiego - convoca gli stati generali nel palazzetto dello sport della capitale.

lo sciopero della Cgil si ergerà a difesa degli elettori dei primi e degli iscritti dei secondi: i lavoratori super-tutelati del pubblico impiego.

L’involuzione impiegatizia del Pd è ormai in uno stato parecchio avanzato: neppure i Ds - e men che meno la Margheirta - si erano configurati in passato come i pretoriani politici degli statali. Bisogna riandare indietro al 1992 e ai tagli del governo Amato, che allora era ancora un nemico del popolo, per ricordare un atteggiamento di lotta senza quartiere simile a quello odierno. Allora c’era già la Cgil a chiamare allo sciopero contro la scure del Dottor Sottile mentre, sul lato politico-parlamentare, il Pds (solo una “s” in più rispetto a oggi) s’incaricava di fare muro contro il governo. Il Pd partito impiegatizio di oggi non differisce in nulla dal Pds di Achille Occhetto, che due anni dopo quel fatidico ’92 mise in piedi la gioiosa macchina da guerra per interdire la discesa in campo del Cavaliere. Un filo rosso lega il ’92 col 2010, se la difesa sindacalpolitica dei lavoratori dello stato da parte della sinistra ha fatto registrare, negli ultimi dieci anni, un incremento degli stipendi del pubblico impiego del 39,7%, contro l’aumento del solo 25,7% del privato: un fenomeno anti-crescita per definizione. E nel solco di questa difesa risoluta, perché ideologica, il Pd di Bersani intende continuare. In realtà i tagli di Tremonti, ancorché perfettibili, erano inevitabili e risulteranno salutari per il sistema-paese. Un’opposizione non sindacale e meno vocata al minoritarismo ideologico avrebbe dovuto attaccare altrove. Uno studio del 2007 della Fondazione Rodolfo De Benedetti segnala che la gran parte delle riforme strutturali conosciute nelle democrazie avanzate d’Occidente sono state realizzate in periodi di stagnazione o recessione economica. È qui che il governo Berlusconi mostra tutta la sua debolezza e si presta alle critiche più radicali. Al di là delle chiacchiere sull’articolo 41 della Costituzione che non è un granché, ma la cui modifica non è certo determinante - un partito di governo temporaneamente all’opposizione avrebbe scagliato i suoi strali contro l’incapacità di Berlusconi e Tremonti di progettare il futuro dell’Italia, pensando a come rimettere in moto la crescita. Il Pd non riesce, però, a pensarsi in questi termini, preferendo rassicurare il suo tradizionale elettorato di riferimento (pensionati e pubblico impiego) e il suo abituale partner di lotta sociale (la Cgil). Un brutto film e, per giunta, visto e rivisto.

Bisogna riandare indietro ai tagli di Amato per ricordare un atteggiamento di lotta senza quartiere simile a quello odierno

Nel Pd sono molti in verità a non condividere la linea di Bersani. A partire dal suo vice segretario Letta che, mentre Bersani infuriava in tv contro la macelleria sociale, organizzava inVeneto la kermesse Nord Camp su contrastanti posizioni, per così dire,“lingottiste”. Altre voci dissonanti si sono fatte e si faranno sentire, ma che su la politica economica segretario e vice segretario del Pd esprimano orientamenti non omogenei è già assai significativo. Bersani è talmente consapevole del diffuso malcontento che cova nel partito, da convincersi a scegliere una struttura come il PalaEur, che si riempie facilmente con 7-8mila persone, disponendo il palco degli oratori nel modo giusto. Malgrado il Pd abbia già comunicato alle strutture periferiche che si farà carico delle spese dei pullman noleggiati, sarà sufficiente mobilitare la sola federazione romana per dare l’effetto tutto esaurito alle telecamere. Il PalaEur varrà come anteprima dello sciopero generale che di lì a una settimana la Cgil imporrà all’attenzione del paese, con una chiamata militare alla diserzione dal posto di lavoro. Il combinato disposto della manifestazione del Pd e del-


panorama

18 giugno 2010 • pagina 7

La Fiom sbaglia a non firmare il contratto, ma le condizioni poste dalla Fiat agli operai sono durissime. E segnano un precedente pericoloso

A Pomigliano la Cina è più vicina Con la crisi potrebbero essere liquidati i diritti conquistati da generazioni di lavoratori. È accettabile? di Riccardo Paradisi segue dalla prima Intendiamoci la Fiom sbaglia a scegliere la linea del rifiuto e dell’opposizione a oltranza perché purtroppo è vero che non c’è alternativa – a parte la chiusura degli impianti – alle condizioni che vengono poste dalla Fiat al sindacato. Ma è pur vero che non è un clima normale quello in cui scatta l’aut aut tra la scelta di lavorare accettando di sacrificare i diritti conquistati da generazioni di lavoratori e la prospettiva di non lavorare per niente. Per questo lo stato di necessità, la condizione di emergenza che ormai rischia di diventare permanente, non deve far dimenticare nemmeno per un attimo che le condizioni che verranno imposte agli operai di Pomigliano d’Arco sono durissime.

zare l’utilizzo degli impianti si prevedono ritmi di lavoro a rotazione su tre turni giornalieri di otto ore, solo alla fine delle quali è prevista una mezz’ora per i pasti. Per non parlare della metrica del lavoro, un sistema di controllo della produttività che prevede la determinazione dei movimenti che un operaio deve eseguire per effettuare nella maniera più proficua ed economica possibile il suo tratto di lavoro. Ecco, come ha opportunamente scritto su Repubblica Luciano Gallino, sarebbe interessante vedere «quante settimane

resisterebbero a un simile modo di lavorare coloro che scuotono con cipiglio l’indice nei confronti dei lavoratori e dei sindacati esortandoli ad acettare senza far storie le proposte Fiat». Certo, le cose bisogna dirle tutte e si deve dire che Pomigliano d’Arco ha una brutta tradizione di largo assenteismo. Ma insomma ci sono altri metodi meno draconiani e più equi per combattere l’assenteismo.

Il fatto è che però Pomigliano, come si diceva, segna uno spartiacque che rischia di chiudere un’epoca e aprirne un’altra, un passaggio che costringe a ragionare sugli esiti d’una globalizzazione tutt’altro che virtuosa. Si perché se la promessa dei teorici e dei cantori della mondei dializzazione mercati era l’espansione fatale dei diritti e del benessere ciò che sta accadendo è esattamente il contrario: avviene cioè che non sono i paesi di più avanzata civiltà giuridica e sociale a contaminare positivamente i Paesi in via di sviluppo ma sono questi ultimi a conta-

Non è un clima normale quello in cui scatta l’aut aut tra la scelta di lavorare senza diritti e quella di non lavorare per niente

Come si deve sottolineare il rischio che quello di Pomigliano costituisca un precedente pericoloso, un prolegomeno ad ogni futura vertenza contrattuale. Una volta derogato a un principio infatti – come ad esempio il diritto di sciopero che dal testo del contratto risulta fortemente compresso – quel principio smette di fatto di essere tale, diventando una variabile, un corollario accessorio, una concessione. E sicuramente segna una regressione delle condizioni del lavoro la prospettiva che agli operai di Pomigliano si prepara nei prossimi anni. Per massimiz-

minare negativamente la qualità della vita sociale dei primi. L’Occidente sta conoscendo l’abbassamento graduale e sempre più progressivo di salari e condizioni di lavoro, sta percorrendo un piano inclinato che sta conducendo questa parte di mondo verso l’allineamento alle condizioni dei cosiddetti paesi emergenti. Un trend che con la crisi finanziaria esplosa negli Usa 3 anni fa non ha solo conosciuto un’impressionante accelerazione ma ha anche trovato la copertura ideologica di chi brandendo – spesso per gli altri – il principio di responsabilità, ha preso a definire ogni umanesimo del lavoro come un lusso che sarebbe colpevole continuare a concedersi, una variabile dipendente dai flussi dell’economia mondo e ad essa sacrificabile. Una logica di ferro contro cui l’obiezione di chi, come la dottrina sociale della Chiesa, rivendica la centralità della persona e il primato dell’uomo sull’economia, risulta inutile. La risposta che ci si sente opporre infatti è che l’alternativa al lavoro senza diritti è l’assenza di lavoro o la delocalizzazione. Prendere o lasciare. Una logica spietata e brutale ma che è il rispecchiamento fedele di una realtà che è altrettanto spietata e brutale. È a questa inversione a U della storia che ha condotto l’ideologia mercatista, a questo esito polacco o cinese. Un esito che per l’Occidente che voleva esportare diritti e civiltà appare grottesco oltre che tragico.

Manovra. Si allarga la protesta del mondo scolastico contro i tagli previsti dall’esecutivo

«Non siamo il bancomat del governo» di Angela Rossi

ROMA. Da Mantova a Pescara attraversando Roma. La protesta del mondo scolastico contro i tagli previsti dalla manovra finanziaria si allarga ogni giorno di più. A Pescara gli insegnanti sono scesi in piazza, protestando davanti alla sede Rai cittadina al grido di «per difendere la scuola e i diritti dei lavoratori» e «il compito di fare i sacrifici spetta alla casta degli intoccabili e non ai professori» e bloccando gli scrutini che di fatto sono saltati in moltissime scuole pescaresi. Sul piede di guerra i sindacati che denunciano «il taglio alla scuola significa 41.200 precari senza più un posto di lavoro – come dichiara all’Ansa Ettore D’Incecco dei Cobas - una provocazione inaccettabile che ci porterà ancora in piazza per protestare all’inizio del prossimo anno scolastico». «I lavoratori pubblici, compresi gli insegnanti - afferma Silvio Di Primio dell’Usb - non sono il bancomat del governo. È ora di farsi sentire contro questa truffa che fa pagare tutto ai lavoratori e pensionati e niente agli speculatori e corruttori». A Mantova ad essere in prima linea è l’Age,

l’associazione dei genitori preoccupata per i rincari dei cosiddetti contributi volontari ma in realtà tasse. Sono infatti le quote chieste alle famiglie dalle scuole superiori al momento dell’iscrizione dell’alunno. «Lo Stato onori i debiti che ha verso le scuole affermano alcuni rappresentanti - ma gli istituti non possono far pagare alle famiglie

pre state a carico del Ministero dell’Istruzione e naturalmente lo saranno anche quest’anno», fanno sapere da Viale Trastevere. Proprio prendendo spunto da Putignano interviene sulla situazione Francesca Puglisi, responsabile scuola del Pd: «È di un miliardo di euro l’ammontare dei crediti che le scuole possono vantare nei confronti del governo. Chiedere soldi alle famiglie degli studenti è illegittimo, così come lo è utilizzare i contributi volontari delle famiglie per pagare le supplenze brevi, ma evidentemente è a questo che la Gelmini costringe le scuole». Per completare il giro di Italia sul versante scolastico, infine, anche a Milano si è registrata la protesta di insegnanti e genitori delle scuole primarie che hanno occupato simbolicamente l’ufficio scolastico provinciale.

Le associazioni dei genitori preoccupate per i rincari dei cosiddetti contributi “volontari” chiesti alle famiglie, che in realtà sono vere e proprie tasse le mancanze ministeriali attraverso i contributi volontari». A Putignano la cronaca di questi giorni registra la vicenda del preside del liceo Majorana, Pietro Gonnella, che visto lo stato delle casse scolastiche ha chiesto un prestito alle famiglie degli studenti per poter pagare i commissari d’esame. La vicenda però è controversa. «Le spese per gli esami di maturità sono sem-


politica

pagina 8 • 18 giugno 2010

Senza rete. Il Senatùr si inventa mediatore anche sulla manovra e chiede a Tremonti di alleviare i tagli agli enti locali. Anci in rivolta

Anarchia di governo Bossi e Fini commissariano il premier sulle intercettazioni: «Il Colle non firma» di Errico Novi

ROMA. Difficile anche per un duro come Umberto Bossi dettare la linea. All’incontro serale con Giulio Tremonti il leader della Lega si presenta con un corposo quaderno di doglianze, riempito anche dai suoi governatori e dai suoi sindaci. Quello che manca al Senatùr è una strategia di maggioranza: non c’è coesione e unità di indirizzo tra le varie componenti, tra la sua Lega e i berlusconiani ortodossi, per esempio, che, è il caso di Maurizio Sacconi,

maggioranza, il responsabile del Tesoro si concede persino una generosa celebrazione dei successi berlusconiani al Consiglio europeo: «Ha ottenuto un grande risultato», giacché la Ue considererà d’ora in poi «il debito pubblico ma anche la sua dinamica e la sua complessiva sostenibilità». Tutti sanno d’altronde che con i partner continentali il vero garante delle posizioni italiane è lui, Tremonti appunto. E dunque, ogni successo formalmente at-

«Bisogna cambiare il ddl sugli ascolti», dice il capo della Lega dopo l’incontro con il presidente della Camera, «intervenga Silvio o Napolitano non darà l’imprimatur e restiamo tutti fregati» invitano gli amministratori locali a non piangersi addosso. C’è scarsa compatibilità anche con i correttivi alla manovra messi a punto dalla minoranza finiana, in pratica dal solito Mario Baldassarri: sia perché questi ultimi puntano più a introdurre stimoli alla crescita nel decreto economico, sia perché di tutto Tremonti vuol sentir parlare tranne che di una sterzata “ideologica” nell’impianto del provvedimento,come quella che gli ex An vorrebbero promuovere.

Nel caos assoluto che il governo e la sua coalizione vivono in queste ore, tra contestazioni alla manovra e dubbi sulle intercettazioni, resistono in pochi. Uno di questi è appunto il superministro all’Economia. Tanto per fare un esempio, persino la controparte più battagliera scesa in campo nelle ultime ore, l’Anci presieduta da Sergio Chiamparino, mette in discussione tutto ma non il «saldo complessivo» da 24 miliardi fissato a via XX Settembre. Sono in discussione casomai gli equilibri tra Stato e periferia, come spiega lo stesso primo cittadino torinese a Giorgio Napolitano, in un incontro pomeridiano al Quirinale. Tutto vacilla, tranne le cifre concordate da Tremonti con Bruxelles. Consapevole di questa posizione di forza, forte di una comoda estraneità alla bagarre politica aperta nella

tribuito al premier accresce in realtà soprattutto il prestigio del suo debordante Richelieu.

Non è un caso se la figura meglio posizionata in questo momento nell’esecutivo sia quella appunto meno intaccata dalla guerriglia politica quotidiana. È un’ulteriore prova delle difficoltà in cui si affannano sia il Pdl che la Lega. Umberto Bossi, prima dell’incontro serale con Tremonti sulla manovra, capisce ancora una volta tutto con un certo anticipo rispetto agli altri: e assume una iniziativa, un po’ insolita per lui, anche sulla giustizia. In mattinata incontra Gianfranco Fini nello studio al

Qui a fianco, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti insieme con il ministro del Welfare Maurizio Sacconi. A destra, dall’alto: Andrea Augello e Massimo Garavaglia

piano nobile di Montecitorio. Prova a cercare una quadra sia sulla querelle dei tagli che sulle intercettazioni. Ne esce con una certezza: ha ragione il presidente della Camera quando, con un certo rilassato sadismo, dice che tutto dipende da Berlusconi: «Bisogna parlare con lui e con Napolitano, perché se il presidente della Repubblica decide di non firmare siamo fregati». Non che lo stop alla cosiddetta legge-bavaglio creerebbe chissà quale crisi di consenso, al Carroccio. Però il Senatùr è consapevole che una paralisi su un tema considerato così importante dal premier può mettere in pericolo la tenuta stessa della maggioranza, e con essa anche il destino dell’agognata riforma federalista. È per questo che Bossi si spende tanto. Lo fa dopo essersi convinto che in questo momento di confusione la leadership berlusconiana è troppo

indebolita per portare la nave fuori dalla tempesta. E questa rinconversione “diplomatica” del leader padano è forse la cartina di tornasole più attendibile e significativa di quanto avviene nella maggioranza.

Oltretutto Bossi deve fronteggiare il malcontento degli amministratori locali, esteso evidentemente anche ai rappresentanti della Lega. Già i gruppi parlamentari lumbàrd sono al lavoro per definire un pacchetto di modifiche alla manovra che sgravino un po’ governatori e sindaci del peso dei tagli. Definito «insostenibile» dall’Anci, pronta a scendere in piazza con Chiamparino il 23

Tutto sarebbe più semplice, appunto, se la maggioranza fosse coesa nel raggiungimento di pochi, chiari obiettivi. E invece degli enti locali è preoccupa-

Blitz del Carroccio per introdurre subito i costi standard e salvare le amministrazioni “virtuose”. Ma non c’è sintonia con gli ex An. Sacconi contro i governatori: «Davvero non hanno nulla da ridurre?»

Il sindaco: «Uffici fermi il 30 giugno per simulare le conseguenze della sforbiciata»

Genova «chiude» per contestare i tagli GENOVA. Dall’anagrafe al trasporto pubblico, un’intera giornata di chiusura totale di tutti gli sportelli comunali che forniscono servizi ai cittadini. Prevista per il prossimo 30 giugno, è l’idea del sindaco di Genova Marta Vincenzi, che sta organizzando l’iniziativa per protestare contro i tagli contenuti nella manovra del governo. «Gli interventi porteranno a una riduzione drastica di tutti i servizi comunali», dice il primo cittadino, del Pd, «perciò quest’estate, spero il 30 giugno, simuleremo che cosa è questa manovra chiudendo tutti i servizi che rischiano di sparire. La ricaduta più terribile sarà su sanità e trasporti. Per i mezzi pubblici

giugno, giorno in cui si riunirà la Conferenza Stato-enti locali. Bossi e i suoi tentano un colpo in extremis, affidato soprattutto al capogruppo in commissione Finanze, il deputato Maurizio Fugatti: «Anziché aspettare i cinque anni previsti dalla legge delega sul federalismo per il passaggio ai costi standard, introduciamoli subito, in modo che le amministrazioni capaci di spendere meno per uno stesso servizio non siano penalizzate come quelle poco virtuose».

la manovra significa 3.400 chilometri di percorso in meno sui 30mila chilometri attuali, il taglio di 560 giovani autisti e di 380 impiegati di Amt. In pratica licenziamo tutti». Il sindaco ha inoltre affermato che si augura di organizzare la protesta insieme a sindacati e realtà economiche cittadine, che è sua intenzione proporre all’Anci di estendere a tutti i comuni liguri se non addirittura a tutto il Paese la giornata di protesta, e ha annunciato che in ultima istanza la sua intenzione è quella di consegnare la fascia tricolore sperando che altri amministratori locali seguano il suo esempio. (a.r.)

to sì il Carroccio, mentre la componente finiana guarda in tutt’altra direzione: a una maggiore spinta per lo sviluppo, come chiesto da Confindiustria e buona parte dell’opposizione, Udc in testa. Obiettivi diversi, in parte incompatibili se non apertamente confliggenti, che rendono debole la coalizione. Basta per tutte la posizione assai distante da quella leghista di un altro ministro economico come Maurizio Sacconi, che da una parte cerca di conservare un po’ di ottimismo («l’intesa si troverà») ma dall’altra assesta una decisa stoccata agli amministratori locali: «Le Regioni, come lo Stato, devono riflettere: davvero non hanno nessun ente da sciogliere, nessuna


politica

18 giugno 2010 • pagina 9

L’intervista/1. Parla il sottosegretario alla Funzione pubblica, Andrea Augello

«Non si può blindare più niente»

agenzia tra le tante prodotte in questi anni, nessuna azione di dimagrimento da fare?».

Altro campo di verifica è la discussione sul ddl intercettazioni: se Bossi se ne fa carico e Fini rimette tutto nelle mani di Berlusconi, la presidente della commissione Giustizia della Camera Giulia Bongiorno approfitta delle aperture arrivate il giorno prima proprio da Palazzo Grazioli per affermare senza equivoci che «la legge va modificata in diversi punti». Tutti d’accordo, almeno su questo? Macché: un altro rappresentante del Pdl in commissione Giustizia, Enrico Costa, tiene subito a dire che «la Bongiorno parla a titolo personale». Il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini prova a indicare una via d’uscita non impraticabile: «Si può garantire la privacy senza bloccare le inchieste cominciando a introdurre per esempio un tetto di spesa massimo per le intercettazioni». Ma la maggioranza non sembra in condizione di accogliere buoni suggerimenti. Incassa piuttosto una bocciatura persino da Radio Vaticana e l’ennesima rettifica dall’Anm, che sciorina nuovi dati in contraddizione con le denunce del premier e sui costi dà la colpa alle agenzie esterne: «Sono loro a chiederci sempre di più», dice il presidente dell’Anm di Palermo Nino Di Matteo. Dal fronte berlusconiano interviene Altero Matteoli, che ancora spera in un’approvazione entro agosto: «Si può fare, settimana più settimana meno». Sempre che la maggioranza non si perda nel frattempo tra i suoi mille contrasti.

ROMA. «Le Regioni hanno ragione. È difficile attuare il federalismo se vanno in disavanzo con un taglio lineare». Andrea Augello, sottosegretario alla Pubblica amministrazione, pur con moderazione, guarda alla manovra con qualche perplessità. Perché è d’accordo con le Regioni? Se parliamo di contabilità pubblica il federalismo non è altro che la redistribuzione del gettito fiscale alla Regioni che effettivamente contribuiscono alla sua formazione. Ma se prima di attuarlo si tagliano le risorse la faccenda rischia di diventare una partita di giro. All’interno del Pdl si stanno preparando una serie di emendamenti alla manovra. Un segnale di poca coesione della maggioranza? Non ricordo nessuna manovra finanziaria senza emendamenti presentati dalla maggioranza. Bisognerà vedere che cosa succederà in aula. Il gruppo finiano punta a recuperare risorse attraverso i tagli, selezionando e colpendo anche settori che ancora non sono stati individuati, per destinare poi le risorse alla crescita e allo sviluppo. Già è accaduto nella precedente Finanziaria. L’elemento fondamentale è quello espresso dal presidente del Consiglio sul

di Franco Insardà fatto che gli emendamenti possono essere presentati a patto che si rispettino i saldi. Il presidente della commissione Finanze del Senato, Mario Baldassarri, propone interventi strutturali oltre alla cedolare secca sugli affitti. La cosa è tecnicamente possibile, a patto che le linee guida di questa manovra siano rispettate. Su tutte la lotta all’evasione che ha un’incidenza importante quasi del venti per cento dell’intera misura. Baldassarri propo-

mi sembra se la passino male. Ci sono altre situazioni sulle quali si può incidere, non è detto che debba ricadere soltanto sul pubblico impiego e gli enti locali. Uno dei fronti più caldi è quello degli enti locali con la Lega, che chiede un premio per i “virtuosi”, è d’accordo? Qui non si tratta di stabilire a chi dare il premio, ma dove si recuperano le risorse per evitare i tagli agli enti locali, trovando delle alternative. Questo dibattito si svolgerà in commissione, dove ci sono le competenze per decidere se un saldo è rispettato. Sono favorevole a non fare tagli agli enti locali e a premiare i più virtuosi. Purtroppo non è possibile avere tutto. E allora? Bisogna mettersi intorno a un tavolo e individuare dei tagli alternativi a quelli degli enti locali. Se si stabilisce di evitare quelli alle Regioni occorre, comunque, reperire 7 miliardi di euro. Su questi argomenti ci sarà il confronto vero. Gli uomini del Carroccio si sono mostrati infastiditi dalla vostra richiesta di una commissione interna al Pdl per verificare i costi del federalismo. A che punto è? È stata una proposta del presidente Berlusconi e penso che la commissione sarà nominata nella prossima direzione del partito.

Bisogna mettersi intorno a un tavolo e individuare dei tagli alternativi a quelli degli enti locali ne al posto dei tagli lineari una riduzione della spesa di tutta la pubblica amministrazione in percentuale.Anche questa è un’ipotesi, occorre vedere che cosa viene fuori dalla presentazione degli emendamenti e poi si dovrà discutere delle coperture. Lei ha qualche proposta? Questa manovra non tocca alcuni settori come le banche, i petrolieri e altri che non

Intervista/2. Parla il vicepresidente leghista della commissione Bilancio del Senato, Massimo Garavaglia

«Stiamo giocando con il fuoco» ROMA. La manovra finanziaria è sul rettilineo finale e subisce gli ultimi scossoni. Le regioni protestano per i tagli. I sindaci sono sul piede di guerra. Anche Bossi ieri è sceso in campo: «La manovra non tocca il federalismo, ma le Regioni si sentono nude. Bisognerà trovare la via per aiutare le Regioni più virtuose». Il ministro del Lavoro Sacconi è convinto che alla fine un’intesa sarà trovata. L’impressione è che ci si trovi su di una specie di «linea del Piave» finanziaria. O si diventa virtuosi o si muore. Il vicepresidente leghista della commissione Bilancio, Massimo Gravaglia, ha risposto a liberal, sottolineando come ora comandino i numeri e lo spazio per le mediazioni politiche sia ridottissimo. Se Bossi indica come esempio le regioni più virtuose, cioè quelle che spendono meglio e non quelle che sfruttano la spesa storica per fare cassa Garavaglia non può che essere d’accordo. «La mia posizione è quella di Bossi». Insomma dobbiamo abituarci a un’Italia a due velocità. Una virtuosa ed efficiente un’altra un po’ meno. «Il Paese viaggia a due velocità già da parecchio tempo. Il punto che ora questa situazione non è più sostenibile. Adesso, per forza e per il be-

di Pierre Chiartano ne di tutti occorre farla viaggiare, non dico alla stessa velocità, ma almeno con un differenziale molto ridotto». Un approccio che alcuni leggono come un antipasto verso il federalismo, ma potrebbe essere più semplicemente una buona pratica amministrativa, che nel nostro Paese è spesso rimasta lettera morta. «Il federalismo è l’unico sistema che abbiamo per salvare i conti di questo Paese». La cifra totale della manovra sarebbe blindata,

La politica non può prescindere dai numeri. Il rigore non è la linea del Piave della Lega, è quella del Paese

per cui sarà una lotta tra enti locali. Ma non è possibile sapere chi vincerà, chi avrà un pezzettino di coperta in più. «Non abbiamo ancora presentato gli emendamenti per cui non si può dire nulla al momento». E il percorso della finanziaria appare al vicepresidente leghista molto chiaro. «È semplicissimo. Domani (oggi per chi legge, ndr) c’è la scadenza

degli emendamenti. La settimana prossima se ne discuterà in commissione e nell’arco di due settimane si cercherà di trovare delle soluzioni». Già ma quali soluzioni? Su questo argomento Garavaglia non si sbottona ed elenca il percorso procedurale standard di tutte le finanziarie. «Prima, con le audizioni, si sentono le parti in causa, poi si presentano le proposte di modifica che vengono discusse. È dalla discussione che nascono le soluzioni. Ciò che stanno scrivendo i giornali in questi giorni ha del paradossale».Sarebbe interessante capire se in casa leghista si ha la sensazione che ci sarà la svolta “culturale”del governo: maggior rigore sulla spesa dei denari pubblici. Insomma sfruttare il clima di crisi generale per introdurre, «finalmente», una piccola dose di calvinismo amministrativo.

«O si attua una svolta del genere, oppure non c’è alternativa: andiamo a carte quarantotto», per Garavaglia lo spazio per la mediazione politica non c’è più. Ora contano solo i numeri. «La politica non può prescindere dai numeri» e lo spazio politico per comunicare al Paese i cambiamenti non c’è più «da diversi anni ormai». «Non è la linea del Piave della Lega. È la linea del Piave del Paese».


politica

pagina 10 • 18 giugno 2010

G8 di Genova. Ribaltata la sentenza di assoluzione in primo grado per i fatti relativi all’irruzione alla Diaz nel 2001

Batosta per De Gennaro Un anno e 4 mesi all’ex capo della Polizia: indusse il questore alla falsa testimonianza di Marco Palombi na sentenza stupefacente». Effettivamente, come dicono i suoi avvocati, la condanna in appello di Gianni De Gennaro ad un anno e 4 mesi di reclusione per istigazione alla falsa testimonianza nell’ambito delle indagini sull’irruzione alla scuola Diaz durante il G8 del 2001 lo è. Se non altro perché il prefetto dalla supercarriera è un uomo potente, potentissimo, uno zar del sistema di sicurezza interno del Paese. Prova ne siano gli attestati di solidarietà bipartisan o tripartisan ricevuti appena arrivata la condanna. Classe 1948, dopo la laurea in giurisprudenza alla Sapienza di Roma di arruola in polizia: primo incarico ad Alessandria, poi alla Squadra mobile della capitale e da lì una serie ininterrotta di successi professionali.

«U

Le indagini sulla mafia tra gli Ottanta e i Novanta lo conducono, nel 1993, alla poltrona di capo della Direzione nazionale antimafia e l’anno successivo alla nomina a vicecapo della Polizia: al posto di vertice ci arriverà nel 2000, governo di centrosinistra, e lo conserverà per 7 anni attraversando altre due maggioranze. Lascerà nel luglio 2007, quando stava per esplodergli addosso l’inchiesta sulla Diaz, sostituito da Antonio Manganelli. De Gennaro però non lascerà le stanze del potere: capo di gabinetto del ministro dell’Interno e commissario straordinario per l’emergenza rifiuti in Campania, poi – siamo al maggio 2008 – la nomina a direttore del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, l’ex Cesis, l’organismo di raccordo tra i servizi segreti interno ed esterno con sede a palazzo Chigi. Oggi De Gennaro è uno zar, lo è perché è al vertice da moltissimi anni, sa tutto, conosce tutti e, in più, sa gestire benissimo i rapporti: da qualche tempo, dicono, non ha praticamente più nemici, cioè non ha un contropotere. In ottimi rapporti con Gianni Letta, sottosegretario con delega alla gestione dei servizi, avrebbe anche ricucito il rapporto con Nicolò Pollari, quest’ultimo, prima di incappare nell’inchiesta sul sequestro Abu Omar, potente gestore della cordata avversa alla sua.

Dalla morte di Carlo Giuliani ai sanguinosi fatti del dormitorio

Quei tre giorni d’orrore sotto la Lanterna di Francesco Lo Dico enova. Luglio 2001. Sotto la Lanterna convergono gli otto ministri dell’Economia dei Paesi più industrializzati del mondo. Quattro giorni, quelli che vanno da giovedì 19 a domenica 22 luglio, che invece passano alla storia come i“i fatti del G8”. Già a ridosso del summit ligure, i manifestanti del movimento noglobal si erano riuniti a Davos, Goteborg e Napoli per protestare contro il neoliberismo. A Genova sono attesi contestatori appartenenti a più di 700 associazioni. Vittorio Agnoletto e Luca Casarini, portavoce del Social Forum, chiedono l’annullamento del G8 e contestano la zona rossa (limitata ai residenti) perché da loro ritenuta lesiva della Costituzione. Il nuovo governo Berlusconi, entrato in carica l’11 giugno, va dritto per la sua strada. Giovedì 19 luglio, la tensione è alle stelle, ma tutto fila liscio. In città sfila una pacifica manifestazione a favore dei diritti degli extracomunitari e degli immigrati, Circa 50mila persone. Tutto comincia nel primo pomeriggio di venerdì, nei pressi della stazione Brignole. Alcuni Black Bloc, infiltratisi nei cortei si confrontano con le forze dell’ordine servendosi di bastoni, molotov e sassi. Nei pressi di Marassi, davanti a numerosi testimoni allibiti, e molti giornalisti, i carabinieri caricano la folla. Molti manifestanti vengono sottoposti a pestaggio. Poco dopo le 17, intanto, a Piazza Alimonda, una compagnia dei carabinieri, la Ccir, carica un corteo a via Tolemaide. I settanta agenti non reggono l’urto della folla, e indietreggiano. Una quindicina di persone assedia una Land Rover con a bordo tre carabinieri. Tra questi c’è

G

Mario Placanica, che come i due colleghi viene ferito al viso da alcuni sassi. Un manifestante raccoglie da terra un estintore e lo solleva contro il mezzo. Mario Placanica esplode due colpi di pistola. Uno raggiunge il manifestante. È un ragazzo, si chiama Mario Giuliani, ed è stato ammazzato. Genova è una bolgia infernale, ma l’orrore è appena cominciato. Sabato 21 luglio, alla scuola Diaz che è stata concessa dal comune al Genoa Social Forum comune come dormitorio, vengono segnalate alcune persone intente a sistemare dei cassonetti per strada. Sono le 21. Più tardi, una pattuglia di poliziotti in tenuta antisommossa irrompe nella scuola dove dormono 93 persone tra ragazzi e giornalisti stranieri. Ufficialmente si tratta di una “perquisizione”.Tutti gli occupanti vengono picchiati e arrestati senza aver posto resistenza. I giornalisti segnalano decine di persone portate fuori in barella. Uno degli arrestati resta in coma per due giorni. Le telecamere mostrano muri e pavimenti sporchi di sangue. Molti degli arrestati scoprono il motivo d’arresto in ospedale: associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e al saccheggio, resistenza aggravata e porto d’armi. Ma molti non si conoscono tra loro. Dei 63 feriti, tre sono in prognosi riservata: Melanie Jonasch, trauma cranico cerebrale, Karl Wolfgang Baro (trauma cranico con emorragia venosa) e il giornalista inglese Mark Covell, mano sinistra e 8 costole fratturate e perforazione del polmone. Domenica 22 luglio, Genova conta i danni. Ma a distanza di otto anni, sui fatti della Lanterna, è ancora buio fitto.

Nella foto grande, l’ex questore Gianni De Gennaro. A destra, e qui sotto, due momenti degli scontri del G8 a Genova

La buccia di banana di Gianni De Gennaro, invece, si chiama G8 di Genova, una sorta di buco nero della gestione politica e di sicurezza, la summa di tutto quanto può essere fatto male nell’organizzazione di un evento. Se non si capisce questo, non si capisce come si arriva alla condanna di ieri. Intanto la scelta del capoluogo ligure, effettuata nel 1999 dal governo D’Alema, fu un enorme errore: Genova è una città indifendibile e il movimento no global in quegli anni era una forza in potente espansione, una realtà magmatica e difficilissima da gestire in piazza. De Gennaro arriva ai vertici della polizia l’anno successivo, nominato dal governo Amato, e nel marzo 2001 gestisce la piazza altermondialista a Napoli, in occasione delle proteste contro il Global Forum sull’e-government: per strategia e livello di violenza esercitato dalle forze dell’ordine, una sorta di prova generale del G8 ligure. Quando Silvio Berlusconi torna a palazzo Chigi, nella tarda pri-

mavera di quell’anno, sposa il programma stilato dai governi di centrosinistra, ma ci mette del suo. Blinda la città, chiude frontiere e stazioni, interrompe i rapporti coi portavoce del movimento, si organizza attorno ad un unico obiettivo: far sì che il vertice si svolga senza interruzioni, alla piazza ci penseranno i celerini. Il capo della polizia, come gli altri responsabili delle forze dell’ordine, si schiaccia su questa impostazione: all’interno della zona rossa, protetta da gabbie alte 5 metri, tutti i reparti d’elite – dallo Sco ai carabinieri del Tuscania – fuori i pischelli, i soldati di leva (sarà uno di loro, nel pomeriggio del 20 luglio, ad uccidere Carlo Giuliani). Risultato: i no global nemmeno ci provano seriamente a sfondare la zona rossa, ma in giro la situazione è fuori controllo, la catena di comando salta più volte (il questore di Genova, Francesco Colucci, viene sostanzialmente esautorato) mentre dalla sala di controllo


politica

18 giugno 2010 • pagina 11

Parla il presidente della commissione Giustizia del Senato

«È un servitore dello Stato non deve dimettersi»

«Sarebbe gravissimo pensare che i magistrati possano essere stati condizionati da film e documentari di parte» di Ruggiero Capone ilippo Berselli, deputato del Pdl molto vicino ad Ignazio La Russa(ministro della Difesa) non crede alle dietrologie ma, ugualmente, noncomprende la sentenza di condanna in appello comminata a Gianni DeGennaro (già capo della polizia, oggi al vertice degli 007 italiani). L’ex capo della Polizia Gianni De Gennaro è stato condannato inappello a un anno e 4 mesi di reclusione per induzione alla falsatestimonianza nei confronti dell’ex questore di Genova FrancescoColucci nel processo per l’irruzione alla Diaz del G8 nel 2001. Che nepensa? Ovviamente sono molto sorpreso per quanto affermato dalla Corted’appello di Genova. Non so cosa abbia giocato contro De Gennaro, eperché non sono a conoscenza di fatti che solo i legali dell’attualecapo del Dis potrebbero rivelare. De Gennaro per me è sempre stato unottimo servitore dello stato. E credo non debba dimettersi, e perché aparer mio l’uomo è innocente fino all’ultimo grado di giudizio. Si mormora che qualcuno ambisca ad occupare la poltrona di De Gennaro.È plausibile? Non reputo che qualcuno attenti alla sua poltrona. Ammetto che è moltoambita. Ma nessuno potrebbe o vorrebbe sostituire il migliorpoliziotto italiano. E la storia di certa sinistra radicale, oggi in Sinistra libertà edecologia che ha anni chiede la condanna di De Gennaro? Mi hanno letto più volte, mentre ero in auto, una dichiarazione di Agnoletto, storico leader delle tute bianche di Genova 2001. Agnolettoha esultato “giustizia è fatta”. Ritengo che certa sinistra vogliastrumentalizzare l’accaduto. E per questo chiedo a De Gennaro dirimanere al suo posto, forte del suo senso del dovere. E quei documentari e film, trasmessi anche da Rai cinema, che davanola colpa solo alla Polizia? Non pensa possano aver influenzato ilverdetto? Escludo che i giudici si siano prestati a favorire una successionealla poltrona di De Gennaro. Direi piuttosto che s’è trattato d’unerrore più che d’una condanna. La Cassazione darà ragione a De Gennaroe potrà riparare a certi malintesi.

F

della Questura osservano apparentemente soddisfatti gli uomini di An, Gianfranco Fini in testa, e ministri vari.

In questo contesto scatta il blitz della Diaz che oggi inguaia De Gennaro. L’ennesimo errore di una tre giorni piena di errori. Il VII Reparto Mobile guidato da Vincenzo Canterini la notte del 21 luglio, nonostante non avesse deleghe di polizia giudiziaria, entra nella scuola e arresta 93 persone, massacrandone di botte la maggior parte. Una scena da “macelleria messicana”dirà il vicequestore Furnier al processo attirandosi gli insulti dei colleghi. Per giustificare la mattanza, i poliziotti falsificano persino le prove: due molotov sequestrate

anche lui tra gli indagati, tenta di convincere Colucci – a suo dire su incarico del Capo - a ritrattare: è quello che avviene nell’udienza del 3 maggio. Così la raccontò lo stesso questore – all’epoca in attesa della nomina a prefetto – in una telefonata a Mortola: “Ho dato due legnate al pm. Anche il capo mi ha telefonato per dirmi che li ho sbaragliati”. Secondo i pm, la strategia difensiva dei superpoliziotti era semplice: minimizzare il ruolo di De Gennaro e incolpare chi non era in grado di replicare (Arnaldo La Barbera, deceduto nel frattempo, Lorenzo Murgolo, uscito dal processo, e Ansoino Andreassi, che era pure contrario al blitz). Per farlo serviva una testimonianza a supporto: sarà quel-

La sentenza d’appello colpisce anche Spartaco Mortola, ex capo della Digos di Genova e attuale vice questore vicario di Torino. Gli avvocati: «Verdetto sorprendente, andremo in Cassazione» la mattina vengono portate nella scuola, qualcuno simula un finto tentato omicidio accoltellando uno dei giubbotti usati nell’assalto. Il vertice della polizia, De Gennaro in testa, copre tutto. Dopo Genova, c’è l’11 settembre. Il clamore mediatico s’abbassa, le inchieste procedono a rilento. Fino al 2007: all’inizio dell’anno scompaiono dall’ufficio corpi di reato le “finte”molotov,“distrutte per sbaglio”. La Procura genovese non ci sta e decide di mettere sotto controllo alcuni telefoni, tra questi quello di Francesco Colucci. Il questore di Genova, che fino a quel momento aveva sempre sostenuto di aver concordato ogni scelta col capo della Polizia, cambia versione: secondo l’accusa, proprio per le pressioni di De Gennaro. In una telefonata intercettata Spartaco Mortola, ex capo della Digos e

la di Colucci, convinto da Mortola e istruito direttamente dal Capo (prima della deposizione ne leggerà i verbali per conformarsi alla sua versione).

Questa è l’accusa con cui fu chiesto il rinvio a giudizio nell’aprile del 2008, questa è l’accusa ritenuta “non provata”dai giudici di primo grado l’8 novembre 2009, questa è l’accusa avallata dalla Corte d’appello ieri. Adesso l’intero mondo politico, esclusa la sinistra radicale, omaggia “il servitore dello Stato”, il centrodestra mette le mani avanti ed esclude qualunque ipotesi di dimissioni. Gli imputati – anche Mortola è stato condannato a 14 mesi – presenteranno appello in Cassazione. Si vedrà, ma sarebbe imbarazzante avere un capo dei servizi condannato con sentenza definitiva.

L’avvocato Carlo Biondi insieme al professor Franco Coppi hanno difesoDe Gennaro. Una grande difesa. Perché questa sentenza? Gli avvocati hanno annunciato ricorso. È sorprendente che certicentri sociali esultino. Sarebbe gravissimo se solo sipensasse che i magistrati possano essere stati condizionati da unpaio di film e da un documentario di parte. In questi anni sono certoaumentati i prodotti cinematografici, anche in concorso ai varifestival, che rendevano una versione di parte dei fatti del G8 diGenova.

«È una sentenza che non rende un servizio al Paese. Temo che possa solo dare spago alle tifoserie della disobbedienza sociale. Comunque, resta innocente fino all’ultimo grado di giudizio»

Non credo De Gennaro si sia mai prestato a falsare i fatti. Giovedì mattina l’udienza si era aperta con le repliche di accusa edifesa. In aula era presente il prefetto De Gennaro. La richiesta delpg Pio Macchiavello era stata di due anni di reclusione per De Gennaroe un anno e quattro mesi per Mortola. Nel processo di primo grado, chesi era svolto con rito abbreviato, entrambi erano stati assolti perché“non c’erano prove sufficienti di colpevolezza”? È una sentenza che non rende un servizio allo Stato. Temo che possasolo dare spago alle tifoserie della disobbedienza sociale.


il paginone

pagina 12 • 18 giugno 2010

Il rugby è il suo parente più stretto, ma lo sport che oggi vanta miliardi di appassionati ha una lista sterminata di avi, che arrivano dalle epoche e dai luoghi più impensabili. Tutto nacque con un pallone di caucciù... el calcio crediamo di sapere tutto. Le formazioni di ciascuna squadra nazionale che giocherà i Mondiali in Sudafrica. Le vicende che riguardano i club italiani oggi, ieri e domani. Le vite dei grandi campioni che sogniamo di vedere con i nostri colori. E anche la storia: che il football sia nato in Inghilterra nell’Ottocento è dato per assodato. Ma in qualche modo è falso. Il calcio, che oggi appassiona miliardi di persone, è nato molto prima e in luoghi diversi, forse inaspettati. La mente va subito al calcio storico fiorentino, e infatti anche da lì bisogna passare, ma per le origini siamo ancora fuori strada. Il calcio infatti è davvero uno sport mondiale, e la stessa nascita abbraccia l’intero pianeta, andando oltre perfino i territori storici del calcio moderno.

D

Se lo sport come lo conosciamo oggi è effettivamente stato codificato meno di due secoli fa in Inghilterra, gli antenati del calcio hanno migliaia di anni e si rincorrono dalla Cina al Messico passando per la Grecia e Roma. Per la verità il calcio ha un parente stretto, direi un fratello gemello: il rugby (e forse non a caso la versione americana si chiama football). I loro antenati sono infatti comuni, e solo in epoca recente nasce il calcio moderno perché si divide regolamentarmente proprio dal rugby vietando che la palla possa essere toccata con le mani. Prima invece non sempre c’era una distinzione così netta sugli arti con cui si poteva giocare, e anche i contatti fisici erano meno penalizzati. Cosa che evidentemente, in tutte le parti del mondo, per la prevalenza della forza bruta sulla classe (non me ne vogliano i rugbysti, erano altri tempi) ha fatto giocare a qualcosa di tendenzialmente più simile al rugby che al calcio. Ma controllare il pallone con le gambe e i piedi richiede maggiore abilità, e proprio la sopravvivenza e la definizione del calcio dimostra che i gesti tecnici legati all’uso virtuosistico dei piedi rispetto al contatto fisico erano molto apprezzati, tanto da finire per essere tutelati e andare a costituire uno sport a sé. E una differenza fondamentale già in passato era nel fatto se la palla oltre che essere toccata con le mani poteva o no essere trattenuta. Andando indietro nei secoli scopriamo che il primo antenato del calcio si trova in Asia, in Cina. Per quanto oggi da quelle parti non si riesca a raggiungere livelli di primo piano nonostante il miliardo e mezzo di abitanti, eppure nell’antichità e per secoli era molto sentito il gioco del Tsu-chu (o cuju),

che tra l’altro si può tradurre esattamente con football, infatti si traduce “palla spinta con i piedi” (proprio i piedi, dunque), cioè calcio. Il pallone era di cuoio o di una vescica animale gonfiata, o anche di sostanze vegetali, ed era riempito di crini o forse di capelli di donne o fanciulli. Due porte di appena 30 o 40 centimetri erano delimitate da pali di bambù, a cui già poteva essere legata una rete. Nell’era Han, (206 a.C. - 220 d.C.) era giocato da due squadre, di dodici giocatori, il campo era diviso in due parti, ciascuna con sei porte. Ogni porta era difesa da un portiere. C’erano, quindi, dodici portieri nella partita. Gli altri giocatori si passavano la palla e tiravano.Vinceva la squadra che per prima riusciva a segnare in tutte e sei le porte degli avversari. Poi le porte si ridussero a due. Secondo una delle variazioni (nei secoli se ne conoscono almeno 25), il giocatore non poteva segnare il punto incontrastato ma doveva difendersi dall’attacco avversario usando piedi, braccia,

strate le più antiche partite internazionali, i primi “mondiali”, con sfide tra Cina e Giappone, come attesta un manoscritto del 50 a.C. oggi conservato a Monaco. Abbiamo nomi di calciatori, tra cui personaggi famosi e anche di stirpe regale, abbiamo episodi di ogni tipo, una storia curiosa e ben documentata. Il Tsu Chu declinò sotto i mongoli e Marco Polo non ne parla, poi si riprese al tempo di Matteo Ricci ma sotto i Ming finì per sparire.

Già dall’XI secolo a.C. In Giappone era nato un altro sport con la palla che richiama il calcio: è il Kemari, ancora giocato. Non aveva la competitività del Tsu Chu, non c’erano mischie per il possesso della palla, si stava in cerchio e i giocatori si dovevano passare la sfera senza che toccasse terra, una specie di torello al volo. Per la nostra storia è fondamentale ricordare che seppure l’uso delle mani non era escluso, era però caratterizzante l’uso dei piedi. In Giappone il Kemari non era praticato come addestramento dei soldati, ma piuttosto

Il campo dello Tsu-chu cinese (nell’era Han) era diviso in due parti, ciascuna con sei porte. Ogni porta era difesa da un portiere. C’erano, quindi, dodici portieri nella partita schiena e spalle, ma non poteva toccare la palla con le mani.Alcune tradizioni letterarie fanno risalire questo gioco addirittura ai primi imperatori mitici del 2500 a.C., mentre dati più attendibili parlano comunque del mille prima della nostra era.

Verso il 500 a.C. il tsu-chu faceva parte dei programmi di addestramento dell’esercito, come testimoniato anche da un manuale militare del 200 a.C. circa, ed era pertanto finalizzato, come molti altri esercizi, all’efficienza fisica dei soldati, cosa confermata a lungo nei secoli successivi, specie con la dinastia Han nei quattro secoli a cavallo della nascita di Cristo, quando lo sport raggiunse il Giappone. Ed ecco un’altra sorpresa: in quel periodo proprio nell’estremo oriente sono regi-

era diletto delle classi nobili. Si usava una palla di 22 centimetri rivestita di pelle di cervo. Aveva alcuni elementi che ancora oggi danno davvero sapore di Giappone: il campo era delimitato ai quattro angoli da quattro diversi alberi, un ciliegio, un salice, un mandorlo e un pino. E avrebbe fatto la gioia di ogni sostenitore del fair play, altro che terzo tempo: seppur il gioco poteva essere duro, non negando gli scontri fisici, però era continuamente interrotto non da calci di punizione, bensì da scambi di scuse e di complimenti. Un gioco forse che a molti sarebbe apparso da signorine, mentre certo così non era quello praticato dai legionari di Cesare. Sì, perché sono stati i romani di Giulio Cesare a importare il calcio in Inghilterra, che oggi vanta di esser-

ne la patria. Ma facciamo un passo indietro. Se infatti forse il cinese Tsu Chu percorse con i mercanti arabi la via della seta arrivando in Medio Oriente e in Egitto e infine in Europa, e se giochi con la palla erano presenti nell’antico Egitto fin dal terzo millennio a.C., nelVecchio Continente già si giocava a palla da millenni prima degli arabi. Il primo a parlarne è Omero, e anche Nausica trova Ulisse mentre giocava a palla con le compagne. In Grecia i giochi con la palla erano vari, ma prevaleva l’episkyros (il nome derivava da skyros, la linea centrale che divideva in due parti il campo) noto anche come phaininda, e al Museo di Atene c’è un bassorilievo del quinto secolo a.C. rinvenuto al Pireo che raffigura un giocatore che palleggia con il ginocchio. Era giocato da uomini ma anche da donne (separatamente) e come nella tradizione greca gli atleti erano nudi. Le squadre erano di dodici effettivi e il campo aveva misure simili a quelle odierne, ma i vari tipi di palla non rimbalzavano molto bene e si potevano usare le mani. Il gioco ci viene descritto da Antifane, un poeta del IV secolo d.C.: «...Prese la palla ridendo e la scagliò ad uno dei suoi compagni. Ruscì ad evitare uno dei suoi avversari e ne mandò a gambe all’aria un altro. Rialzò in piedi uno dei suoi amici, mentre da tutte le parti echeggiavano altissime grida “È fuori gioco!”,“È troppo lunga!”, «È troppo bassa!”,“È troppo alta!”,“È troppo corta!”».

Il gioco passò ai romani come harpastum, ed era appunto molto diffuso tra i legionari che lo esportarono in mezzo mondo. La versione romana, come forse ci si poteva attendere, era più brutale. Per certi versi era ancor più simile al rugby (harpastum vuol dire “strappare a forza”) e consisteva appunto nel rubarsi la palla senza tanti complimenti, ma allo stesso tempo alcune fonti dicono che furono proprio i romani ad aggiungere la caratteristica del calciare la palla, cose che ne farebbe il vero antenato del calcio più delle versioni greche. Le squadre erano di numero uguale, di solito tra 5 e 12 giocatori, ma anche fino a 30, e le regole erano precise, sebbene permissive. Il campo rettangolare era diviso a metà e l’obiettivo era tenere la palla nella propria metà campo. Solo il giocatore in possesso di palla poteva essere aggredito, costringendo a complessi schemi e passaggi. Sembra che si giocasse con una palla piccola e dura, ripiena di lana o stoppa. Marziale descrisse altri due tipi di pallone usati ai suoi tempi forse per altri tipi di gio-


il paginone

Tutti i mondiali del Duemila (avanti Cristo)

18 giugno 2010 • pagina 13

chi: la più leggera pila paganica (adoperata specialmente dai contadini) fatta di cuoio e piena di piume, e la follis, sempre di cuoio ma con camera d’aria costituita da una vescica. I romani visto il contesto in cui si giocava amavano chiamare questa attività anche pulverulentus, cioè il polverone. C’è traccia di un altro antico“mondiale”, che segna forse il passaggio ereditario dai romani agli inglesi: i britanni sconfissero i romani con punteggio 10 nel 276 in una partita della quale è stata trovata documentazione. Ci sono poi attestazioni di ragazzini che giocano per le strade di Roma calciando una palla, e Cicerone fa riferimento a un uomo morto mentre faceva la barba quando una palla venne calciata dentro il negozio.

Nel Medioevo i giochi di palla ebbero alterne fortune, declinando insieme a tutta la civiltà precedente ma poi avendo una ripresa che mise lentamente le basi del calcio moderno. Abbiamo notizie di uno sport simile fra i vichinghi d’Islanda: il Knattleikr. La palla era colpita anche con mani e con bastoni, era possibile il contatto fisico, era normale avere spettatori e si organizzava-

ca rispetto all’intransigenza del precedente puritanesimo. All’inizio del millennio scorso in Francia ci sono documentazioni di gioco del pallone, si giocava esclusivamente con i piedi e in modo assai violento la Savate. Al 1147 risale una ricevuta per l’acquisto di sette palloni. Una lettera di grazia del 1374 per il paese di Chanuy parla della Soule come di contesa col pallone da lungo tempo praticata tra villaggi. La soule consisteva nel far passare una palla di cuoio in un traguardo delimitato da due pali o da un cerchio. È registrata una partita del 1393 a Parigi davanti sant’Eustacchio. Al 1396 risale una codificazione delle regole della soule, nel 1412 vennero stabilite le dimensioni della palla, che doveva poter essere tenuta con una mano. Nei decenni successivi si susseguono divieti locali. Poi arriviamo al calcio storico fiorentino, che in realtà all’inizio era giocato anche a Venezia e Bologna. Già nel 1410 un anonimo poeta fiorentino, cantando le glorie e le bellezze della città, accennava a una popolarissima forma di divertimento che veniva espressamente chiamata «gioco del calcio». Piero de’ Medici, appassio-

Nel Vecchio Continente già si giocava a palla da millenni prima degli arabi. Il primo a parlarne è Omero, e anche Nausica trova Ulisse mentre giocava a palla con le compagne

I Maya e l’antica Roma, il kemari giapponese e la Cina prima dei Ming, il large-football medievale e l’hurling britannico: storia (e preistoria) degli antenati del calcio di Osvaldo Baldacci

no tornei. Forse c’è un legame con un antico gioco britannico che ricorda più direttamente il calcio e però deriva da una parola scandinava, “hurling”, che significa colpire, con cui si intendeva un gioco che consisteva nel portare avanti a calci una palla di stracci nonostante l’opposizione degli avversari. Nel medioevo comunque molti giochi vennero messi al bando sì per motivi di cultura religiosa, ma soprattutto perché causa frequente di incidenti e violenze, nonché di distrazione per i soldati.Verso la fine del 1200 arrivano notizie della presenza di un gioco con la palla, il Large-football dalle Isole Britanniche. Una cronaca londinese del 1175, narra i timori del popolo per la violenza con cui si giocava al pallone durante il carnevale. Un secolo dopo, per questa sua natura violenta, il gioco fu regolato o addirittura proibito da Enrico II. Il 13 aprile 1314 il Re Edoardo II proibisce la pratica del gioco a Londra e nei luoghi pubblici. Nel 1388, con un editto del Re Enrico V, il gioco fu messo definitivamente al bando. In Inghilterra, invece, Giacomo I Stuart, promulgando la Declaration of Sports, aboliva nel 1617 divieti e restrizioni che avevano colpito il calcio, favorendone così la rapida diffusione, specie nei colleges: Giacomo I rappresentava la breve e più permissiva stagione della restaurazione cattoli-

nato, chiamò alla sua corte i più abili giocatori, dando così vita al primo esempio di calciomercato. I Medici usarono lo sport anche come sfogo per il popolo. È noto il legame di questo sport col calcio, e soprattutto il fatto che è stato il primo a portare questo nome.

Ma è noto anche quanto siano prevalenti le somiglianze col rugby. Il gioco prevedeva una divisione di ruoli e la presenza di arbitri. Il pallone poteva essere colpito con i piedi o afferrato con le mani, con le quali non era però consentito lanciarlo. L’obiettivo di entrambe le squadre era di collocare il pallone in una porta custodita da uno dei difensori, il solo che potesse utilizzare le mani, come l’attuale portiere. Non si può concludere questa carrellata senza fare un riferimento ad altri inventori di uno sport di palla che ha qualche legame col calcio, e cioè i mesoamericani, specialmente maya e olmechi. Quello sport a volte viene paragonato più alla pallacanestro perché la palla doveva passare attraverso un cerchio, però il pallone non poteva essere toccato con le mani, ma solo con gambe, fianchi e gomiti. Il pallone era di caucciù massiccio e pesava tre chili e mezzo. Poi venne il 1800, i club inglesi, le regole del calcio moderno, le federazioni internazionali.


mondo

pagina 14 • 18 giugno 2010

Medioriente. Dopo il pressing internazionale, Netanyahu alleggerisce l’embargo. Ma ad Hamas non basta

Stop alla morsa su Gaza Sì di Israele all’arrivo di merci e beni nella Striscia. Resta il blocco navale di Luisa Arezzo sraele apre alle pressioni internazionali e si prepara ad allentare il blocco su Gaza: e così a breve un milione e mezzo di palestinesi potranno ricominciare a godere di un certo numero di beni di consumo. Dopo giorni di tentennamenti, il gabinetto di sicurezza (l’organismo ristretto del governo israeliano) ha ieri acconsentito ad alleggerire il blocco imposto da quattro anni alla Striscia (Israele vi ha infatti fatto ricorso durante la guerra del Libano del 2006 in modo pienamente legittimo visto che si trattava di un conflitto tra Stati)

I

gno 2006. Il blocco di Gaza era stato imposto da Israele subito dopo la cattura di Shalit e venne poi rafforzato l’anno dopo quando Hamas prese il controllo dell’enclave palestinese.

Com’era prevedibile, il movimento palestinese non ha gradito l’apertura di Israele e ha bollato l’allegerimento come «propaganda»: definendo assolutamente «banali e futili» i beni di consumo e gli oggetti che verranno lasciati passare e chiedendo la cancellazione completa di tutte le restrizioni imposte sui Territori. «Respingiamo la scelta sionista che costituisce un tentativo di aggirare la decisione internazionale della sospensione completa del blocco imposto alla Striscia di Gaza», ha detto Ismail Radwane, un dirigente di Hamas, che ha denunciato anche «un tentativo di attenuare la pressione internazionale al fine di poter mantenere l’assedio a Gaza». Il capo della diplomazia europea, Catherine Ashton, ha invece reagito con «grande interesse» alla notizia. Sulla stessa lunghezza d’onda, il nostro ministro degli Esteri, Franco Frattini: «Israele, paese democratico e ragionevole, ha compreso che la strategia dell’assedio di Gaza è controproducente»,

Il Gabinetto di sicurezza israeliano permetterà di far arrivare ai palestinesi generi alimentari, giocattoli, cancelleria, utensili da cucina, materassi e asciugamani. Ma non il cemento e permetterà il passaggio di prodotti «di uso civile» che erano stati vietati negli ultimi tre anni; sarà ampliato anche l’ingresso dei materiali da costruzione, ma solo per i progetti civili che sono sotto la supervisione della comunità internazionale; mentre verranno mantenute «le misure di sicurezza per evitare l’entrata di armi e materiali bellici». I dettagli del piano saranno resi noti nei prossimi giorni, ma Raed Fattuh, il coordinatore palestinese delle forniture verso l’enclave, ha detto che la nuova lista riguarda: tutti i prodotti alimentari, giocattoli, cancelleria, utensili da cucina, materassi e asciugamani.

Il via libera non cambia invece il blocco navale di Israele lungo la fascia costiera nè il divieto di importare materiali di costruzione privatamente: materiale che sarebbe certamente utile per la ricostruzione su larga scala del territorio palestinese, ma proibito dal governo di Gerusalemme, giustamente convinto che un’importazione anche limitata di cemento spingerebbe Hamas a sequestrare il materiale e utilizzarlo per ricostruire le infrastrutture militari. La decisione israeliana di allegerire il blocco nella Striscia di Gaza arriva a seguito delle ripetute richieste della Comunità internazionale. Pressioni fortemente aumentate dopo l’attacco del 31 maggio scorso contro la Freedom Flotilla che tentava (grazie alla regia turca) di rompere l’embargo e consegnare aiuti ai palestinesi locali. L’incursione è costata la vita a nove attivisti turchi e provocato numerose proteste nel mondo. In cambio dell’allentamento della morsa su Gaza, Israele ha chiesto alla comunità internazionale «di lavorare per l’immediato rilascio di Gilad Shalit», il soldato israeliano nelle mani di Hamas dal giu-

ha sottolineato il titolare della Farnesina. «Tenere Gaza bloccata vuol dire consegnare ad Hamas le chiavi del destino» della Striscia, «non aiutare Abu Mazen è mettere in difficoltà la comunità internazionale». Molto meno soddisfatto invece Bernard Kouchner, il ministro degli Esteri francese, che ha definito l’allegerimento dell’embargo «un passo avanti» ma non sufficiente. «Saremo contenti - ha affermato quando un giorno il blocco verrà completamente abolito». E sempre ieri è arrivata l’ennesima ritorsione turca contro Israele: il paese della mezzaluna ha deciso di congelare tutti i progetti di collaborazione e i contratti nel settore militare e della difesa. A scriverlo il sito del quotidiano Zaman, spiegando che la decisione è stata presa dal Comitato di attuazione per l’industria della difesa (Ssik), riunitosi ieri sotto la presidenza del premier Recep Tayyip Erdogan, e che riguarda 16 accordi in vigore tra Turchia e Israele.

Accanto, il premier Netanyahu; sopra, un’imbarcazione della Freedom Flotilla e Catherine Ashton. A destra, Assad

Va intanto avanti anche il tentativo di attivisti iraniani e libanesi di rompere l’assedio a Gaza via mare, iniziativa che «sarebbe considerata non solo una provocazione e una violazione della legge, ma un atto ostile in quanto le navi e i loro carichi provengono da Paesi nemici». È così che il portavoce del ministero israeliano degli Esteri, Yigal Palmor, ha avvertito Beirut e Teheran in merito al nuovo convoglio di navi che mirano a seguire la via indicata dalla Freedom Flotilla. «Vengono da uno Stato nemico - ha detto Palmor - e questo significa che, certamente, il trattamento è differente, perché dal punto di vista legale sono diffe-


mondo

18 giugno 2010 • pagina 15

Durissima posizione del presidente siriano, che nega di aver inviato armi a Hezbollah

Assad: «È colpa degli ebrei se la guerra è più vicina» Damasco non può nulla contro il «governo piromane» di Gerusalemme, «che ha distrutto ogni possibilità di pace» di Antonio Picasso

«Q

renti» rispetto ad altri paesi. Al momento sono due le organizzazioni non governative che hanno annunciato l’intenzione di inviare navi verso Gaza, ovvero il Free Palestine Movement e la sede di Beirut di Reporter without borders. Il capo dell’Fpm, Yasser Qoshlok, ha rivolto un appello a «tutti coloro che si considerano liberi di partecipare al convoglio per rompere l’assedio contro la popolazione di Gaza». Qoshlok ha aggiunto che le imbarcazioni trasporteranno materiale per l’assistenza e l’educazione dei bambini palestinesi. A bordo, ha aggiunto, ci saranno anche giornalisti che potranno documentare gli effetti del blocco israeliano della Striscia. Thaer Ghandour, di Rwb, ha detto che la nave, che trasporterà 50 giornalisti e 25 attivisti europei, compresi alcuni eurodeputati, lascerà il porto di Beirut questa settimana. Ma una data non è ancora stata fissata.

E ieri un’altra giornata torrida per Gerusalemme, con la polizia in massima allerta per la manifestazione di oltre 80mila ebrei ultra ortodossi scesi in piazza in due manifestazioni separate - a Gerusalemme e a Bnei-Brak, alle porte di Tel Aviv - per protestare contro una recente sentenza della Corte suprema e contro le imposizioni che dicono di dover subire dagli organismi secolari dello Stato. La dimostrazioni, fra le più clamorose sul fronte del conflitto fra religiosi e laici in Israele, si svolgono in un clima di forte tensione. Gli ultraortodossi contestano una sentenza della Corte che ha decretato come illegale la separazione obbligata fra studenti ebrei askhenaziti (ortodossi radicali) e sefarditi in una scuola nella colonia ebraica di Immanuel, in Cisgiordania. Sentenza che i seguaci della comunità chiamata in causa hanno dichiarato di non voler accettare - perché in contrasto con quanto prescritto dai loro rabbini e dalla loro tradizione - dicendosi pronti ad andare oggi stesso in massa in prigione.

uando non riesci a ottenere la pace, ti devi aspettare la guerra». Il presidente siriano Bashar el-Assad, intervistato ieri dalla Bbc, ha tratteggiato uno scenario assai preoccupante per il Medioriente. Le ripercussioni politiche degli scontri di due settimane fa, tra la Marina israeliana e la “flottiglia della pace” diretta a Gaza, si riversano come un’onda lunga su tutte le cancellerie della regione. Adesso è giunto il turno di Damasco a prendere una posizione in merito. L’atteggiamento del leader siriano è apparso deciso e realista. Non ha parlato di una terza Intifada, né ha pronosticato uno scontro diretto fra il suo esercito e quello israeliano. «I rischi di una guerra esistevano anche prima dell’incursione contro le navi dei pacifisti», ha spiegato Assad, aggiungendo che «Israele non è un partner per la pace», perché il «governo piromane» di Netanyahu non può essere riconosciuto come un interlocutore attendibile per procedere sul cammino dei negoziati. La visione del leader di Damasco si distacca quindi dai fatti accaduti recentemente e si trasforma in una analisi di lungo periodo relativa alle condizioni interne della classe politica israeliana e al suo elettorato.

tutti gli interlocutori nel processo di pace. Si tratta di una scelta, quella del Presidente siriano, che non porta alcun vantaggio né al suo Paese né all’intero contesto mediorientale. La Siria in questo modo non può sperare di ottenere la revisione dei confini ante-1967 e quindi la restituzione delle Alture del Golan.Tanto meno la comunità internazionale può aspettarsi risultati positivi nel processo di pace. Tuttavia quella di Damasco appare come una reazione automatica alla decisione di Netanyahu di non volersi compromettere con negoziati impopolari di fronte all’opinione pubblica interna.

Così facendo la Siria ha scaricato tutte le responsabilità delle tensioni attuali sulle spalle di Israele. Del resto il fatto che nessuna delle navi del “Free Gaza movement” sia salpata da un porto siriano – bensì da quelli turchi, ciprioti e libanesi – solleva Damasco da qualsiasi coinvolgimento indi-

A dispetto della sua tradizione di Giano bifronte, la Siria questa volta ha assunto una posizione incendiaria. E inequivocabile

A dispetto della sua tradizione di Giano bifronte, la Siria questa volta ha assunto una posizione inequivocabile. Secondo Bashar elAssad, in questo momento il processo di pace è bloccato perché l’attuale classe dirigente israeliana preferisce mantenere lo status quo. Ciò è dimostrato dalla sua politica espansionistica degli insediamenti, dal rifiuto di negoziare con l’Autorità palestinese perché questa è divisa al suo interno fra l’intransigenza di Hamas e la moderazione di Abu Mazen e, infine, sulle modalità di come e quanto alleggerire l’embargo sulla Striscia o meno. Di fronte a questa sommatoria di inflessibilità ideologica, scarso decisionismo politico e interventi militari improvvisi, Damasco ha deciso di allinearsi e attendere. Assad ha accettato uno status quo che, a suo giudizio, Netanyahu starebbe imponendo a

retto nella crisi. Assad sta raccogliendo l’opportunità di dare nuovo lustro al suo Paese come potenza regionale e come interlocutore del quale non si potrà fare a meno in futuro. La capitale siriana continua a ospitare il Segretario generale di Hamas, Khaled Meshal, mantiene aperto il dialogo con l’Iran e con Hezbollah in Libano. Certo, ieri Assad ha negato alcun traffico di armi fra il suo esercito e le milizie sciite di Beirut.Tuttavia, mentre questi fattori sono una conferma per Israele che la Siria resti una sua nemica, per chi vuole riprendere i negoziati di pace si tratta di elementi di tutt’altro valore. A Washington il Presidente Obama non può trascurare le relazioni vantate da Assad. Il realismo, che pare ispiri l’attuale Amministrazione Usa, dovrebbe suggerire che la pace si fa con i nemici e che per raggiungerla è necessario un mediatore ascoltato da entrambe le parti. L’obiettivo di Assad è quello di ricoprire questo ruolo in modo credibile e autorevole. Ne consegue la scelta di non assumere un atteggiamento di ulteriore sfida nei confronti di Israele, in quanto rischierebbe di provocare nuove frizioni. Al contrario, a Damasco conviene far passare Netanyahu come l’unico responsabile della crisi. Le sue dichiarazioni alla Bbc quindi non vanno interpretate come una minaccia di guerra, bensì come un ammonimento. «Il pericolo c’è – sembra dire Assad – ma non è colpa nostra». «Tuttavia, se si vuole riprendere il cammino per la pace, la Siria sa come ricondurre tutti i partner sulla strada maestra».

Il 10 giugno del Duemila, moriva Hafez elAssad, la “Volpe di Damasco”, protagonista fondamentale di tante pagine di storia del Medioriente. Alla sua scomparsa furono in molti a tremare per la stabilità del governo siriano. Il passaggio di consegne al figlio, Bashar appunto – allora privo di alcuna esperienza politica – appariva come la fine del Partito Baath. A dieci anni dall’assunzione della presidenza, il leader siriano ha dimostrato di saper sopravvivere e di voler traghettare la Siria in una nuova condizione di soggetto forte nella regione.


quadrante

pagina 16 • 18 giugno 2010

Marea nera. Ieri l’audizione di Hayward, fra accuse e gaffes imbarazzanti lla fine, Golia ha incontrato il suo nemico. Che, in barba alle tradizioni, si chiama anch’esso Golia. Perché l’audizione svoltasi ieri al Congresso degli Stati Uniti d’America non aveva parti deboli: da una parte c’era lo Stato, certo, ma dall’altra c’era l’uomo che governa una delle più importanti compagnie petrolifere del mondo. Ovvero Tony Hayward, amministratore delegato della British Petroleum La procedura dell’audizione è conosciuta ma sempre abbastanza folcloristica: iniziano i deputati con un breve messaggio personale sulla questione in discussione; poi tocca al malcapitato di turno, che ha modo di parlare senza essere interrotto; e infine arriva il momento delle domande, a ruota libera e fondamentalmente senza controllo. La Commissione per le inchieste parlamentari della Camera dei rappresentanti, che ha diretto il balletto, ha iniziato il turno con il proprio presidente, il democratico Henry Waxman.

A

Che ha attaccato senza pietà: «Non abbiamo trovato nessuna prova del fatto che lei abbia prestato alcuna attenzione ai rischi che la Bp stava scegliendo di correre ». Subito dopo è toccato a Burt Stupak, che presiede la commissione Energia di fronte alla quale si è svolta l’audizione, che - insieme al collega - ha ripetuto le durissime e circostanziate accuse di “sconvolgente negligenza” nella realizzazione della piattaforma esplosa lo scorso 20 aprile che erano state espresse nella lettera inviata nei giorni scorsi alla Bp. Ma almeno una voce a difesa di Hayward e della Bp si è sollevata dagli scranni dei repubblicani, con il deputato Joe

Il Congresso sfida il leader della Bp Il Gop punta il dito anche contro Obama: «Vergognosa la richiesta di risarcimento» di Vincenzo Faccioli Pintozzi

scusa anche due giorni fa dicendo: «Noi siamo il tipo di compagnia che ha a cuore la piccola gente». Facendo infuriare i “piccoli” abitanti della “piccola” Louisiana, che l’hanno costretto a una precipitosa marcia indietro e a nuove scuse. In aula, l’amministratore delegato del colosso petrolifero si è scusato di nuovo «per un disastro che

I democratici caricano a testa bassa: «Nessuna prova scagiona la compagnia, che sembra non aver mai preso in considerazioni i rischi» Barton che - sottolineando più volte di parlare a titolo personale e non del partito ha detto che si «è vergognato del fatto che una corporation è stata costretta dal presidente ad una stretta di mano da 20 miliardi di dollari, con un accordo che bypassa le inchieste in corso per determinare le responsabilità». Accolto da una pittoresca manifestante – con mani e viso coperte di una vernice nera – ha poi fatto il suo ingresso in aula l’uomo del momento, quell’Hayward che aveva chiesto

non sarebbe dovuto succedere». Subito dopo, Hayward – che testimoniava sotto giuramento - ha detto che la Bp «è una società forte, che pagherà tutto e non risparmierà alcuna risorsa per fare fronte alla marea nera». Intanto il Washington Post ha fatto le pulci proprio alla “stretta di mano”. E, in un articolo pubblicato ieri, si chiede: «Quante compagnie potrebbero permettersi di pagare 20 miliardi di dollari in risarcimenti e continuare a sopravvivere?». La cifra da accantonare,

Dalla prossima settimana, 28mila barili al giorno

Ma le pulizie stentano... Ripulire le coste della Louisiana sarà un’impresa titanica. Ma riuscire a fermare lo sbocco di petrolio dal pozzo subacqueo e recuperare in qualche modo il greggio sembra un’impresa ancora più complicata. Anche perché la posizione della fuoriuscita e il ritardo con cui essa è stata affrontata sembrano destinate a seppellire per sempre le speranze di rivedere entro la fine dell’anno una porzione d’acqua pulita nel Golfo statunitense. La British Petroleum - unica indelle caricata operazioni di emergenza - riuscirà a recuperare dal Golfo del Messico 28mila barili di petrolio al giorno. Ma soltanto dagli inizi della prossima settimana. Lo ha reso noto ieri nel corso di una conferenza stampa Thad Allen, ammira-

glio della Guardia Costiera Usa incaricato da Washington di monitorare e coordinare le operazioni in loco. Il colosso petrolifero sarà in grado di aumentare la propria capacità quando una seconda nave, la Q4000, sarà pienamente operativa nell’area, ha detto Allen, spiegando che «al momento la Bp è in grado di recuperare diverse migliaia di barili di greggio in più, da aggiungere ai 15mila barili già raccolti a bordo di una nave di contenimento posta in superficie». Ieri la Q4000 è stata collegata ad un tubo per la raccolta del greggio, posto direttamente sul punto di rottura del pozzo della Bp. Le operazioni di raccolta prevedono anche che parte del petrolio raccolto sia incendiato. Sempre che si riesca a farlo.

calcola il quotidiano americano, «basterebbe a coprire l’intero budget della Nasa per un anno, o a comprare tutte le azioni di un colosso del settore alimentare come la Kellogg». Parliamo di una somma «superiore al Prodotto interno lordo di 90 nazioni. Questo non deve sconvolgere, dato che anche i conti della Bp hanno un ordine di grandezza decisamente superiore a quelli di altre compagnie pure considerate dei colossi». In effetti, solo nel primo trimestre di quest’anno la compagnia britannica ha realizzato profitti per 5,6 miliardi di dollari, che si aggiungono ai 14 miliardi di dollari di utili netti realizzati nel 2009. Ogni giorno le piattaforme della Bp estraggono due milioni e mezzo di barili di greggio in tutto il mondo, dalla Russia, all’Angola, all’Alaska. Appena due giorni fa, la Bp sarebbe stata in grado di pagare 10 miliardi e mezzo di dollari in dividendi ai suoi azionisti e conservare ancora una liquidità compresa tra i 5 e i 10 miliardi di dollari. Nonostante la sua indiscutibile solidità finanziaria, la Bp si è però trovata nelle ultime settimane a fare i conti con la diffidenza degli investitori e delle agenzie di rating, sempre meno certi che la compagnia sarebbe uscita indenne dal disastro del Golfo. In otto settimane le azioni della compagnia hanno perso circa metà del valore originario, e il suo rating è sceso al livello BBB.

A svelare la provenienza dei 20 miliardi di dollari per il fondo risarcimenti ci ha pensato il presidente della compagnia, Carl-Henric Svanberg, che ha spiegato come «solo dalla sospensione di tre quarti dei dividendi si otterranno 7,8 miliardi di dollari di liquidità». Altri 7 miliardi verrano dalla vendita di una parte degli asset, mentre una riduzione del 10% del piano di investimenti, come riferito dal direttore finanziario Byron Grote, «consentirà di risparmiare 2 miliardi di dollari nel 2010 e altri 2 miliardi nel 2011». A questi vanno aggiunti altri 5 miliardi all’anno che la Bp conta di ottenere dalle operazioni finanziarie. L’accordo stipulato con la Casa Bianca permetterà inoltre alla compagnia di dilazionare i pagamenti nel tempo. La prima fetta, pari a 3 miliardi di dollari, verrà versata nel terzo trimestre di quest’anno, a cui seguiranno 2 miliardi nel quarto trimestre e 1,25 miliardi per ogni trimestre successivo per un periodo di circa tre anni.


quadrante

18 giugno 2010 • pagina 17

A bloccarsi questa volta gli stabilimenti della Toyota

La denuncia della Croce Rossa internazionale: profughi in fuga

Cina, arriva nel Nord il fronte degli scioperi

Kirghizistan: «È in corso una crisi senza precedenti»

PECHINO. Il fronte degli scioperi arriva anche nel nord del Paese: la Toyota Motor ha confermato questa mattina che, nel proprio stabilimento di Tianjin, si è verificato uno sciopero che tuttavia «non ha creato problemi alla produzione». Secondo il portavoce della compagnia nipponica, Liu Peng, «gli operai hanno ripreso il lavoro subito dopo una breve interruzione, che si è risolta ieri con un accordo fra i lavoratori e la dirigenza». Tuttavia, secondo il quotidiano giapponese Asahi Shimbun, la compagnia – la più grande al mondo per quanto riguarda la produzione di automobili – potrebbe presto dover affrontare un nuovo sciopero in un’altra fabbrica (sempre di Tianjin) che produce le portiere. Da Tokyo, la dirigenza conferma di aver evitato danni alla produzione accettando di aumentare i salari degli 800 operai, che in cambio hanno ripreso a lavorare nonostante in Cina sia festa nazionale.

BISHKEK. In Kirghizistan «è in atto una crisi immensa». Lo dice la la Croce Rossa Internazionale (Cri), secondo cui ai profughi mancano di tutto: cibo, acqua, riparo, medicine. La popolazione vive in una grandissima incertezza, timorosa che le violenze possano riprendere in ogni momento. Severine Chappaz della Cri parla del dramma dei molti dispersi, «tra diverse centinaia e alcune migliaia», di cui le stesse famiglie non hanno notizie. Ora l’esercito ha ripreso il controllo e pattuglia le strade di Osh, ma la calma è innaturale e carica di minacce. Grazie a questa tregua, la Cri ha potuto raggiungere le zone dei disordini, che per giorni erano rimaste tagliate fuori da

Il caso della Toyota rappresenta un importante passo in avanti per il movimento dei lavoratori cinesi. Fino ad oggi, infatti, le agitazioni aziendali si erano verificate quasi esclusivamente nella ricca provincia del Guangdong, dove ha sede la maggior parte delle fabbri-

Dopo Bloody Sunday, verità su Ballymurphy Effetto domino dopo l’inchiesta Saville: l’Ulster vuole giustizia di Massimo Ciullo a diffusione dei risultati della Commissione d’inchiesta “Saville” sulla Bloody Sunday ha suscitato grande emozione e sconcerto in tutto il Regno Unito. Le dure parole del primo ministro sull’operato dei militari inglesi in Irlanda del Nord durante gli anni dei cosiddetti Troubles (disordini) hanno riacceso le speranze della comunità cattolica nordirlandese di poter ottenere giustizia per le violenze e le angherie compiute dalle truppe d’occupazione britanniche. Ieri, la richiesta dell’istituzione di un’altra commissione indipendente è giunta dai familiari delle vittime di Ballymurphy, morte sempre a causa dell’uso indiscriminato di armi da fuoco da parte di soldati britannici. I fatti di Ballymurphy sono poco conosciuti e per certi versi ancora più sconvolgenti di quelli della Bloody Sunday. All’inizio dell’estate del 1971, i comandi militari in Irlanda del Nord decidono di lanciare la famigerata “Operazione Demetrius”, che prevede l’arresto, anche senza prove o accuse specifiche, di chiunque sia sospettato di appartenere a gruppi paramilitari. La mattina del 9 agosto il Reggimento Paracadutisti circonda l’area ovest di Belfast, nel tentativo di compiere una retata. La ricostruzione di quanto accadde successivamente è ancora controversa. I militari affermarono di essere stati affrontati da gruppi di repubblicani armati, che aprirono per primi il fuoco contro di loro. Di tutt’altro tenore le testimonianze dei cittadini di Ballymurphy, che parlarono di una sorta di “tiro al piccione” da parte dei cecchini britannici. Le prime vittime infatti, furono colpite da tiratori scelti, che impedirono ai soccorritori di prestare aiuto ai feriti. Francis Quinn, 19 anni, fu ucciso mentre cercava di aiutare un uomo, ferito da un cecchino appostato nei pressi della base militari di Ballymurphy. Identica sorte toccò a Hugh Mullan, un prete cattolico, fulminato da un proiettile, mentre soccorreva un’altra persona ferita. I loro corpi furono rimossi parecchie ore dopo, visto che i tiratori scelti sparavano su chiun-

L

que cercasse di avvicinarsi. Il 10 agosto, un altro civile che camminava tranquillamente per strada venne colpito da un colpo di fucile. Il giorno dopo, altre quattro persone morirono nei pressi della base di Ballymurphy.Tra le vittime dell’eccidio viene annoverato anche Paddy McCarthy, 44enne, che ebbe una violenta lite con un gruppo di soldati. Portato all’interno della base, l’uomo fu stroncato da un infarto dopo che un soldato gli aveva infilato in bocca una pistola scarica e aveva premuto il grilletto. Anche in questo caso, le autorità britanniche preferirono attestare la veridicità dei rapporti dei militari, che parlavano di elementi pericolosi in atteggiamenti sospetti.

Anche in questo caso, i protagonisti della mattanza furono i paracadutisti del Reggimento di stanza a Belfast ovest. Nessun membro dell’esercito ha subito nel corso degli anni procedimenti disciplinari o penali. I parenti delle 11 persone uccise nell’agosto del 1971 hanno convocato una conferenza stampa per spiegare i motivi della loro richiesta di una commissione d’inchiesta. A loro fianco è apparso Gerry Adams, attuale Presidente dello Sinn Fein, un tempo considerato il braccio politico dell’Esercito Repubblicano irlandese (IRA). «A Ballymurphy, sei mesi prima della Bloody Sunday, abbiamo avuto un altro impressionante esempio della brutalità con cui agirono i Parà e di come il sistema politico britannico fosse connivente nel tentativo di insabbiare le responsabilità dei militari», ha detto Adams. Le somiglianze con i fatti di Derry, ha aggiunto il politico, «sono impressionanti». Insieme al leader repubblicano ha parlato Carmel Quinn, sorella di John Laverty, morto ad appena venti anni nella strage di Ballymurphy. La donna ha avanzato una sola richiesta a nome dei familiari delle vittime, sulla scorta del rapporto “Saville”: una “dichiarazione di innocenza per coloro che sono stati uccisi” da parte del governo britannico, che si ostina a definire “terroristi” quegli irlandesi.

A sei mesi dalla “domenica di sangue”, i parà britannici hanno compiuto un’altra strage impunita. Su cui ora si indagherà

che di dirigenza straniera. Fa eccezione il caso della Honda di Shanghai, i cui operai – che dicono di “essere stati ispirati” dai colleghi del Sud – hanno scioperato e ottenuto un aumento salariale. L’arrivo delle proteste anche nel Nord sottolinea la diffusione del malcontento fra i migranti. Figli di una nuova generazione di figli unici, gli operai sono meno disponibili a lavorare con turni massacranti per salari estremamente bassi. Il governo teme questo movimento, ma si comporta in maniera ambigua: Wen Jiabao ha definito i migranti “figli”, ma Pechino ha chiesto alla polizia di “controllare ogni forma di tensione sociale”.

qualsiasi aiuto. Secondo dati ufficiali, almeno 200mila persone sono fuggite dalle loro case, anche se il dato è ritenuto sottostimato. Circa 75mila sono state accolte nei campi profughi e in rifugi improvvisati in Uzbekistan, ma di tantissime altre non si hanno notizie precise. Molti sono rimasti a stazionare presso il confine, dopo che l’Uzbekistan lo ha chiuso; non hanno viveri né ripari, intere famiglie con bambini dormono in mezzo alla strada. Ma dicono che non possono tornare indietro, a qualcuno la casa è stata bruciata, tutti hanno paura che la violenza riesploda.

Anche ad Osh la situazione è gravissima. Le autorità hanno cominciato a liberare le strade da carcasse di auto date a fuoco. Manca il cibo e autocarri vendono solo vegetali, burro e pane, sotto l’attento controllo dell’esercito per prevenire violenze. La diplomazia internazionale è cauta nell’intervenire. Robert Blake, massimo funzionario diplomatico Usa della zona, è stato a Tashkent e nella Valle Ferghana dove sono i rifugiati, oggi sarà a Bishkek per parlare col governo provvisorio kirghiso, che ha dichiarato 3 giorni di lutto nazionale in ricordo degli almeno 180 morti.


spettacoli

pagina 18 • 18 giugno 2010

A Spoleto. Con “Gogo no Eiko” di Hans Werner Henze si inaugura oggi la 53° edizione del Festival dei Due Mondi. Tra le star Malkovich e la Ardant

L’acqua, culla della vita Il primo allestimento scenico italiano dell’opera in due atti tratta dal “Sapore della gloria” di Mishima di Jacopo Pellegrini el 1963 Mishima Yukio, il romanziere nipponico, dà alle stampe Gogo no Eiko, tradotto in italiano, vent’anni dopo, da Mondadori come Il sapore della gloria. Il titolo originale punta invece, sull’ambiguità semantica congenita agli ideogrammi kanjii: Eiko in giapponese vuol dire sia rimorchiatore sia gloria, dunque può trattarsi tanto del pomeriggio (Gogo, appunto) di un rimorchiatore che d’un pomeriggio glorioso. L’etica arcaica dell’onore, del valore, del sacrificio, sono i temi attorno a cui ruota tutta la narrativa di Mishima (pregasi accentare tutte e tre le sillabe, e pronunciare sempre il cognome prima del nome, come si fa sotto le armi). A essi, stavolta, si aggiunge la vastità dell’oceano, l’acqua culla della vita.

N

vani ribelli). È il Giappone del dopo Hiroshima e Nagasaki, quando gli antichi ideali aristocratici vengono svenduti, meglio, adattati (traditi, avrebbe detto Mishima) ai nuovi valori della borghesia imprenditoriale - l’agiatezza, la tranquillità, il consumismo (Fusako è la proprietaria d’un negozio e sogna per il proprio figlio un futuro come studente a Oxford); il Giappone odiato da Mishima, fondatore, non a caso, di una setta lealista (verso l’imperatore e verso gli antichi precetti dei samurai) e paramili-

per dimora, militante nelle fila della sinistra ma ugualmente allarmato dinanzi alla crisi morale della società, musica un libretto in due atti che Hans-Ulrich Treichel ha tratto dal lavoro di Mishima. Il debutto ufficiale di Das verratene Meer (Il mare tradito: titolo suggerito dalla traduzione tedesca del romanzo, Il marinaio che tradì il mare) si tiene nel maggio 1990 alla Deutsche Oper di Berlino. L’anno dopo, a marzo, al Lirico di Milano, per la stagione della Scala, prima in Italia e in italiano come Lo sdegno del mare. Passano gli anni, e nel 2002, su istigazione del direttore d’orchestra Gerd Albrecht, Henze acconsente a far tradurre il testo in giapponese: in questa nuova veste, assunta l’intestazione originale di Mishima, l’opera si presenta al pubblico del Suntory Hall a Tokio, il 15 ottobre 2003. Prima e dopo quest’esecuzione, l’autore interviene sulla musica con tagli, aggiunte e revisioni (specialmente sulla parte strumentale). Nell’autunno 2006, Gogo no Eiko approda alla Rai di Torino, ma solo in forma di concerto.

Tutti orientali i cantanti, diretti da Joahannes Debus. Mentre Giorgio Ferrara, presidente della rassegna umbra, firma la regia

Kuroda Fusako, una vedova di 33 anni, madre del tredicenne Noboru, s’innamora di Tsukazaki Ryuji, secondo ufficiale sulla nave da carico Rakuyo-Maru. Per amore della donna, il marinaio è disposto a mettere da parte gli ideali di disciplina e coraggio che l’hanno spinto a imbarcarsi e che tanto fascino esercitano su Noboru: dopo il matrimonio resterà a terra, si farà commerciante; lavoreranno insieme nella boutique di moda ch’ella possiede a Yokohama. L’adolescente, legato alla madre da un intricato rapporto voyeuristico di attrazione e possesso, resta profondamente deluso dalla decisione e, insieme ai membri della banda in cui milita, opta per un omicidio rituale, che restituisca l’equilibrio al mare, l’unico elemento per il quale i componenti della gang nutrano rispetto; l’autorità costituita, viceversa, i padri (e Ryuji, prima ammirato poi rifiutato da Noboru - non a caso, il solo tra gli affiliati alla società segreta a essere orfano, - è tra questi), «severi o buoni, calmi o nervosi», sono sempre «bugiardi e vigliacchi». La duplice opzione del titolo si spiega dunque facilmente: situate al cuore della vicenda, le distese marine possono essere declinate in chiave prosaica (il rimorchiatore riporta la nave in porto, nel caso di Ryuji per sempre) come in chiave eroica (l’austerità, il rigore intransigente, la mancanza di paura dell’uomo in eterna lotta contro la natura: la mitologia dei gio-

tare, la Società dello scudo. Poco prima di commettere il seppuku, il suicidio rituale (25 novembre 1970), lo scrittore arringherà in questi termini una guarnigione militare: «Vediamo il Giappone sprofondare nel più assoluto silenzio dello spirito: la prosperità gli ha dato alla testa…». Tra il 1986 e l’89, Hans Werner Henze (1926), compositore tedesco ma italiano

Finalmente, stasera alle 19 al Nuovo di Spoleto (con repliche domani e domenica), il Festival dei due mondi ne propone il primo allestimento scenico italiano: dirige Johannes Debus (specialista della Nuova musica e assiduo collaboratore di Henze), tutti specialisti e orientali i cantanti, la regia è firmata da Giorgio Ferrara, presidente e direttore artistico della rassegna umbra, e, se non erro, esordiente sulla scena operistica. Quando, ragazzo, udii Das verratene Meer a Milano, ne riportai l’impressione d’una musica sapiente, aspra però e violenta, priva di luce e di consolazione: una tensione spasmodica, non allentata, semmai accresciuta dalle stasi contemplative, dalle immersioni nell’interiorità dei personaggi (la foga amorosa degli adulti, le pulsioni aggressive dei fanciulli). Davvero Henze, come si legge nella sua autobiografia, non ha voluto prendere «partito per nessuno», è restato «indifferente come il mare». Tutt’altro l’effetto provocato da Gogo no Eiko: un lirismo intenso e penetrante avvolge adesso l’intera narrazione;

nuclei melodici e polarità armoniche forti e inequivocabili accompagnano pensieri e azioni, dilagano negli interludi strumentali, bagnano persino le esplosioni di violenza nei due finali d’atto simmetrici (immolazione del gatto/immolazione di Ryuji). Non saprei dire se tutto ciò sia frutto del nuovo idioma, dei ritocchi apportati alla partitura, o di un mutato approccio all’ascolto; so però che anche Henze ha avvertito questo capovolgimento di prospettiva sonora, e tanto mi basta.Questa nuova vena cantabile non può attenuare la cupezza d’una storia tanto triste e amara; ma, in Gogo no Eiko, è come se la fatalità ferrigna sorda implacabile di Das verratene Meer cedesse il posto a un debole lumicino di compassione reciproca tra esseri umani affratellati nel dolore della vita.


spettacoli

18 giugno 2010 • pagina 19

Tradizione. L’altro Giappone sognato dal grande scrittore

Il lamento degli spiriti eroici di Gennaro Malgieri erché mai un divino imperatore ha voluto farsi uomo?». Intorno a questo interrogativo si è dispiegato per tutta la vita il tormento di Yukio Mishima che è stato anche la linfa della sua ispirazione letteraria. Nel racconto breve, intenso, drammatico e suggestivo, La voce degli spiriti eroici (Eirei no koe), del 1966, Mishima dà sostanza a quella domanda, incurante dello scandalo che avrebbe provocato nel Giappone ormai «normalizzato» dagli americani e piegato sulla sua stessa rinuncia, facendo parlare coloro che in due occasioni si immolarono per la patria e l’imperatore ottenendo dalla prima l’indifferenza e la rimozione del ricordo, dal secondo il tradimento. Mishima, ricostruisce i due episodi, che poi saranno al centro di altri due romanzi, Crisantemi del decimo giorno e Patriottismo, attraverso la trascrizione di una immaginaria seduta spiritica nella quale gli eroi degli eventi che cambiarono l’anima del Giappone si chiedono perché il Tenno, discendente della dea Amaterasu Omikami, li abbia sconfessati e abbandonati rinunciando alla sua origine divina.

«P

Tanto teatro e la musica un po’ Cenerentola

Gli appuntamenti in pillole John Malkovich, Peter Brook, John Neumeier e il Balletto di Amburgo, Fanny Ardant… Non si può dire che manchino i nomi celebri e di grande richiamo al 53° Festival dei due mondi. E immancabile (Ferrara non riesce proprio a risparmiarcelo), c’è anche Bob Wilson autore e regista di uno Shakespeares Sonette (in tedesco!), con «musiche originali del songwriter canadese»Wainwright. Com’è abitudine del direttore artistico Ferrara, tanto teatro, fors’anche troppo rispetto al Dna e alla storia di Spoleto; e non tutto di pari livello: accanto a Eleven and Twelve di Peter Brook (2, 3, 4 luglio), accanto alla ripresa dello storico Barbablù di Trakl con regia di Lievi, accanto a una succulenta commedia di Parise, La moglie a cavallo, la serata su Mahler dell’assessore alla cultura del comune di Milano, Finazzer Flory, Troilo e Cressida di Shakespeare con Michele Placido, regia di Maccarinelli, il monologo sulla mafia con Sebastiano Lo Monaco The Inrischiano di fare magra figura. Malkovich (T Chants d’est) alternafernal Comedy) e la Ardant (C no recitazione e musica (barocca nel primo caso, ungherese-slava-russa nel secondo). Sempre un po’ Cenerentola, la musica; quella etnica e leggera (Eugenio Bennato, Facchinetti, Bisio che celebra Gaber) quasi la vince sulla classica: segnaliamo il tanto, benvenuto Schumann nel Concerti di mezzogiorno e l’appuntamento finale in piazza, con l’astro nascente della direzione, Diego Matheuz (Bernstein e Mahler). (jj.p.)

Lo scrittore si riferisce al fallito colpo di Stato di 1936, quando alcuni giovani ufficiali si ribellarono alla strumentalizzazione che una parte della borghesia affaristica giapponese stava facendo della figura dell’imperatore e vennero dallo stesso mandati a morte senza onore, vale a dire impedendogli di compiere seppuku, il suicidio rituale. E a questo episodio accomuna la tragedia e la gloria dei kamikaze i quali non sanno darsi pace per essersi immolati nel nome di un sovrano che tradendo la sua stessa natura ha di fatto tradito la plurimillenaria tradizione nipponica e loro stessi. Gli spiriti degli uni e degli altri gridano al mondo il loro dolore, vedono la loro patria rivoltarsi nel fango e nell’ignominia, assistono all’inabissarsi dell’onore e della fedeltà, guardano con orrore ai giapponesi che si prostituiscono ai nuovi padroni e si ritraggono tremanti davanti a un mondo che li rinnega. Mishima è con loro e si prepara, fin dal 1966, a raggiungerli, come avrebbe fatto il 25 novembre 1970 immolandosi per il Giappone eterno e trovando ancora la forza e il coraggio di emettere l’ultimo grido d’amore che è anche a un omaggio sacro alla bellezza della morte: Tenno heika banzai!, lunga vita all’imperatore, nonostante tutto. Alla stessa maniera il 15 agosto 1945, quando la nazione apprese da Hiro Hito la capitolazione, l’ammiraglio Onishi che aveva co-

mandato i kamikaze quale comandante supremo delle forze aeree della marina, fece seppuku senza chiedere aiuto per la decapitazione che costituisce la seconda parte del rito dopo lo squarciamento del ventre. Agonizzante chiese perdono alle anime dei kamikaze per il loro inutile sacrificio compiuto nella certezza che il Giappone non si sarebbe mai arreso. Intanto l’imperatore diventava «umano». La nazione perdeva la sua aura di sacralità. Il mondo, attonito, non capiva cosa stava succedendo. La voce degli spiriti eroici non avrebbe superato quell’arcipelago inondato dal sangue di eroi ormai senza patria ed espulsi dalla memoria collettiva.

In Lezioni spirituali per giovani samurai (1968-1970), Mishima avrebbe scritto: «Non posso continuare a nutrire speranze per il Giappone futuro. Ogni giorno si acuisce in me la certezza che, se nulla cambierà, il Giappone è destinato a scomparire. Al suo posto rimarrà, in un lembo dell’Asia estremo-orientale, un grande Paese produttore, vuoto, inorganico, neutrale e neutro, prospero e cauto. Con quanti ritengono che questo sia tollerabile io non intendo parlare». Preferiva parlare con gli «spiriti eroici» per ascoltare il loro lamento che nelle sue pagine assume un valore letterario eccellente, forse il lascito migliore sotto il profilo umano edideologico dello scrittore. L’estetica mishimiana in questo lavoro si compenetra con lo stile di vita dello scrittore: l’una e l’altro sono le tessere, sontuose e scintillanti, di una personalità lontana dai canoni occidentali che, tuttavia, a quarant’anni dalla sua morte continua ad animare la curiosità e l’interesse in quest’altra parte dell’emisfero, come testimonia la pubblicazione continua delle sue opere. Da Patriottismo Mishima trasse un film, suggestivo e incompreso, nel quale l’amore, l’erotismo, la bellezza e la morte sono parte di una visione del mondo in cui lo scrittore seppe immedesimarsi al punto di costruire la sua fine come gli spiriti eroici che lo hanno guidato nel corso della vita. C’è la carne che sanguina e l’anima che s’invola per posarsi dove vuole e quando vuole nella vicenda degli spiriti del 1936 e del 1944-1945. E c’è l’orrore del dio che si fa uomo, con un tratto di penna, davanti a un mondo incredulo che non sprofondò nella vergogna soltanto perché gli fecero credere nella possibile rinascita. Da allora, il Giappone è solo. Anzi, è un’altra cosa.

«Non nutro speranze per il futuro... Saremo un grande Paese produttore, inorganico, vuoto, neutrale...»

Sopra, la locandina del Festival. In alto, la piazza di Spoleto. A destra, Mishima. A sinistra: Henze, un’immagine di una precedente rappresentazione della sua opera e del Nuovo di Spoleto


cultura

pagina 20 • 18 giugno 2010

on tiriamola troppo per le lunghe. Per capire lo stato di salute in cui versa la più grande democrazia della storia moderna bastano i Simpson. La saga della più tragicomica e geniale famiglia degli Stati Uniti d’America è forse il miglior termometro della vita pubblica a stelle e strisce, lo stetoscopio con il quale auscultarne evoluzioni e involuzioni, risorse e fragilità, dinamiche e impoverimenti dalla sua nascita all’era obamiana. A sostenerlo è stato Michael docente alla Schudson, School of Journalism della Columbia University, nella presentazione, targata Luiss Guido Carli, del suo saggio Il buon cittadino.

N

Una storia di vita civica americana, appena tradotto da Rubbettino. Se nella popolare serie animata, Marge è il modello ottocentesco di una democrazia educata e benpensante, Homer è invece l’ultimo Novecento, il paradigma di una democrazia consumistica, distratta e disinformata; Bart rappresenta il disincanto, la dissacrazione del superego americano, mentre Lisa è la nostalgia delle origini, il desiderio di libertà e progresso sociale; infine Maggie, la vulnerabilità della democrazia di oggi, ma anche la speranza della democrazia di domani. «Il buon cittadino è il tipico soggetto che nella vita pubblica americana non è mai esistito». L’ironia di Schudson è feroce e non poco pessimistica. Addirittura antiamericana. Ma subito smentisce la sua fosca diagnosi con una nota di fiducia, un segnale di opposizione alla “retorica del declino”: «Considerando gli indicatori socio-psicologici, la nostra democrazia non è pessima, non è così mal ridotta come lo è stata in passato». Nel cuore dei Pilgrim Fathers, del resto, non soffiava uno spirito democratico. I Padri fondatori non avevano la minima idea della democrazia, per lo meno per come la intendiamo oggi: suffragio universale, elezione diretta dei candidati, voto personale e segreto, eguali diritti politici, rappresentanza e partiti, libertà di stampa e d’informazione. È su questo punto che il discorso di Schudson insiste, persuaso che in una società complessa e plurale come quella statunitense, madre dell’odierna società globalizzata, un’autentica democrazia si dà quando libertà di stampa e informazione sono effettive. Le tradizionali istituzioni della rappresentanza democratica sarebbero infatti sempre più ostaggio di gruppi d’interesse, tecnocrati ed “esperti” il cui obiettivo sarebbe quello di neutralizzare la sfera pubblica, addormentando la partecipazione sociale e riducendo la

Tra gli scaffali. “Il buon cittadino”, il nuovo saggio di Michael Schudson

La democrazia americana è malata? di Giulio Battioni responsabilità politica. Con Tocqueville ci saremmo illusi di vedere nella democrazia americana il luogo della libertà e della solidarietà, della eguaglianza delle opportunità e delle infinite possibilità di distinzione e autodeterminazione.

Schudson vede nella storia civile statunitense la gigantesca lotta tra le forze della partecipazione, le associazioni ci-

sofisticati, ha conquistato nuovi spazi di impegno sociale, dalla famiglia alle scuole, ai luoghi di lavoro. Internet e la rivoluzione informatica hanno moltiplicato, secondo il sociologo nordamericano, le possibilità della democrazia liberando comunicazione, creando condivisione, facendo community. Sospeso tra il tipo ideale e la realtà incarnata, il buon cittadino, interessato, informato e intensamente coinvolto nella

Nonostante l’assalto della pubblicità e la crisi dell’informazione tradizionale, con un

Il volume, caratterizzato da una brillante quanto ironica analisi del professore della Columbia University, studia l’evoluzione della vita pubblica statunitense dai Padri fondatori fino ai nostri giorni viche e i partiti politici da una parte, e le forze della spoliticizzazione dall’altra, un grumo di potere tecnocratico, lo state mugwumpery, formato da “esperti” che esercitano una influenza spropositata sulle istituzioni governative. Certo, anche la cittadinanza ha acquisito tecniche e strumenti di partecipazione politica sempre più

vita pubblica, è il custode della democrazia autentica. Il buon governo di uno Stato dipende anche da questa partecipazione, una partecipazione critica e informata sui problemi più significativi della vita associata. Altra occasione imperdibile per una democrazia vera e funzionante è inoltre il mondo dei nuovi media.

Qui sopra, la copertina del nuovo saggio di Michael Schudson, docente alla School of Journalism della Columbia University “Il buon cittadino” (Rubbettino). In alto, un disegno di Michelangelo Pace

calo dei lettori della carta stampata e una tendenziale preferenza per l’intrattenimento a scapito della cultura, sta emergendo un giornalismo amatoriale sempre più utile, anche per il giornalismo professionistico. La qualità critica dell’opinione pubblica è aumentata dall’esplosione dei social media, dei blog e dell’informazione spontanea.

Le nuove tecnologie consentono una circolazione impressionante di idee, segni e significati che possono contribuire a migliorare la vita di una democrazia ma senza un’adeguata antropologia rischiano di risultare incapaci, se non quando rovinose. Questo Schudson non lo dice e forse il pessimismo con il quale denuncia la presunta inesistenza del “buon cittadino” rivela il bisogno di ritrovare una dimensione profonda, realistica e umana della democrazia. Il bisogno di una democrazia radicata nella giustizia e in una partecipazione non solo informata ma anche formata da uomini consapevoli e responsabili è il sentimento che accomuna il dibattito pubblico delle due sponde settentrionali dell’Atlantico. Ma se con Schudson la democrazia americana ha l’umiltà intellettuale di sottoporsi a un esame di coscienza, la vecchia Europa è lontana dal superare quelle resistenze ideologiche che le impediscono di ricordare l’immenso valore antropologico delle sue radici spirituali.


spettacoli

18 giugno 2010 • pagina 21

Cinema. Esce il 30 giugno in Italia “Eclipse”, il terzo capitolo della saga dedicata ai vampiri. Eccone qualche anticipazione...

Twilight, il momento della scelta di Domenico Palesse a vita o l’ultraterreno. L’anima o l’amore. L’amicizia o la passione. In Eclipse, il terzo capitolo della saga Twilight, è il momento delle scelte. Per tutti. Bella Swank (Kristen Stewart) sarà messa davanti al bivio più importante della sua giovane quanto rocambolesca - vita: seguire per sempre il suo amato Edward (Robert Pattinson) o preferirgli Jacob (Taylor Leutner), ormai diventato molto più di un amico del cuore. Un triangolo che in questo film si definisce ulteriormente.

L

La competizione in amore è d’altronde la stessa che mette Edward e Jacob l’un contro l’altro anche per loro stessa natura: un vampiro ed il suo predatore, un licantropo. Uno scontro che ha caratterizzato il secondo episodio della saga New Moon - ma che in Eclipse avrà risvolti differenti. Le due specie dovranno unire le loro forze contro il nuovo male, rappresentato dai NeoNati. Sono vampiri “giovani”, appena trasformati e, proprio per questo, dotati di forza, malvagità e sete di sangue fuori dal normale (per quanto di “normale” ce ne sia ben poco in tutta la saga). Una lotta che porterà ad uno degli scontri più adrenalinici della pellicola. Lupi a caccia delle prede, vampiri pronti alla guerra fratricida pur di salvare la comunità, ma soprattutto Bella. La ragazza, ormai prossima al diploma, è anche l’obiettivo principale di Victoria, vampira assetata di vendetta dopo la morte del suo compagno ad opera di Edward. La “rossa”non è però l’unica interessata a Bella. Sulle sue tracce ci sono anche i Volturi, antica famiglia di vampiri che in New Moon concesse a Edward l’opportunità di salvare la ragazza in cambio della promessa di trasformarla. La caratteristica che più salta all’occhio in Eclipse è il crescente uso di scene di azione, centellinate nei due precedenti episodi. La prima apre il film: Victoria fugge dal territorio dei Cullen (la famiglia di Edward) fino a sconfinare - con un salto su un precipizio - in quello dei Lupi infrangendo così il patto di “non belligeranza”firmato dai capostipiti delle due specie centinaia di anni prima. La seconda vede protagonista Jasper che insegna alla famiglia Cullen i se-

fan - degli attori, più che del film - si sono ritrovati per incontrare i loro beniamini. Chi fa sfoggio di gadget, chi delle tshirt del film, chi, invece, chiede disperatamente un autografo di cui farsi vanto poi con gli amici. «Non credo che i nostri fan siano solo ragazzini appunta Lautner -, anche se non posso nascondere che la maggior parte lo sono. Il messaggio che il mio personaggio trasmette è quello della perseveranza, della determinazione. Jacob se vuole una cosa lotta fino ad ottenerla». Kristen Stewart, Bafta come “stella nascente”, parla della sua carriera e di come il successo di Twilight in qualche modo ha condizionato anche le scelte personali. «Chiaramente bisogna essere più attenti a dove si va, con chi e che cosa si fa», dice specificando però che «non tutti sono fan scatenati di Twilight».

Qui a fianco, uno scatto di Robert Pattinson, tra i protaginisti della saga “Twilight” (interpreta il vampiro Edward Cullen). In basso, l’attore insieme con Kristen Stewart , che nel film interpreta Bella Swank, e un’immagine del terzo capitolo della saga, “Eclipse”, in tutte le sale italiane a partire dal prossimo 30 giugno

Come ormai tradizione, anche il terzo film - che uscirà nelle sale italiane il 30 giugno in ottocento copie distribuite da Eagle - è stato affidato ad un nuovo regista. Dietro la macchina da presa questa volta, dopo Catherine Hardwicke e Chris Weitz, c’è David Slade, inglese di nascita ma americano di adozione lavorativa. Già autore del vampiresco 30 giorni al buio, Slade riesce a dare un’impronta più dark alla pellicola, grazie anche al contributo del pluripremiato direttore della fotografia, Javier Aguirresarobe (The Road, The Others, Parla con lei, tanto per citare i più conosciuti). Il capitolo finale della saga Breaking Down, di cui gli attori non hanno ancora ricevuto neanche la sceneggiatura, è stato scelto Bill Condon. Il film sarà diviso in due parti ed uscirà a fine novembre 2011. I fan quindi dovranno attende ancora prima di rivedere i propri beniamini sul grande schermo. Nel frattempo, il 10 luglio prossimo esce nelle sale italiane Adventurland con Kristen Stewart. L’attrice sta anche preparando il film On the Road, basato sul capolavoro di Jack Keruac. Taylor Lautner, invece, comincerà tra due settimane le riprese del thriller di John Singleton Abduction.

Ieri i due attori Kristen Stewart (nel film Bella Swank) e Taylor Leutner (Jacob Black) erano a Roma per presentare la pellicola. Che stavolta mette la giovane protagonista di fronte a un bivio: scegliere il suo amato Edward (alias Robert Pattinson) o preferirgli il suo grande amico licantropo

co. Ogni volta che c’erano queste scene - afferma sorridendo -, io ero lupo mannaro (che viene ricreato in computergrafica, ndr)». Accanto a lui, in conferenza stampa, c’è Bella Swank, alias Kristen Stewart, che se la ride.

«Certo - continua

greti del combattimento per affrontare l’esercito di NeoNati. Matrix, in questo caso, ha fatto scuola. La terza ed ultima scena si svolge simultaneamente in cima ad una montagna - dove Edward porta Bella per nascondere il suo odore ai vampiri nemici - e in una zona poco distante dove si svolge il combattimento con i NeoNati.

«Le scene d’azione sono fantastiche - dice Taylor Lautner, l’interprete di Jacob Black che ieri era a Roma per presentare il film -. Peccato però che io personalmente ho fatto ben po-

Lautner – lei se ne stava in un angolo a vedere noi che ce le davamo di santa ragione». In Eclipse, le caratteristiche dei protagonisti vanno definendosi sempre più. «Bella è cresciuta – dice Kristen Stewart -, se prima pensava di aver preso una decisione, ora è convinta di prenderla, sa come farlo. Tant’è vero che nel film successivo si sposerà ed avrà dei figli». «Il mio personaggio - sottolinea Lautner - è cresciuto molto. Dal bravo ragazzo di Twilight, è passato per la trasformazione di New Moon, per

poi prendere coscienza del suo essere “diverso” in quest’ultimo capitolo. È un uomo maturo ora». Il fenomeno Twilight ha preso piede anche in Italia. I


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE

Porto Tolle: il Tar sentenzia la vittoria del progresso ecocompatibile La decisione del Tar è una vittoria per l’ambiente e per lo sviluppo ecosostenibile del territorio. La riconversione dell’impianto Enel di Porto Tolle, sulla quale saranno investiti due miliardi e mezzo di euro, è un intervento necessario, che porterà grandi vantaggi economici, ambientali e occupazionali. La riconversione, attesa da anni, della centrale Enel di Porto Tolle sarà fatta nel pieno rispetto degli ecosistemi di quel luogo e delle attività di pesca e mitilicoltura che vi si praticano. Ridurrà il consumo di combustibile e - per circa l’80 per cento - le emissioni prodotte dalla centrale. Creerà nuovi posti di lavoro, valorizzando le professionalità e le risorse, tanto nella fase della vera e propria ristrutturazione dell’impianto che nella sua futura gestione. ,Come ha ribadito anche il Tar dopo anni di contenziosi, il Polesine e le sue bellezze paesaggistiche e ambientali sono al sicuro. Il Veneto non sarà vittima di una visione oscurantista della scienza e della tecnologia, che sono invece strumenti di progresso da mettere al servizio del territorio, come nel caso di Porto Tolle.

Luca

GESTIONE ACQUA: E SE VINCE IL REFERENDUM? Vorrei sottolineare i rischi che si corrono per la gestione dell’acqua, nel caso di vittoria dei referendum. Il decreto Ronchi manca di parti rilevanti. Manca una politica industriale per il settore idrico e la previsione di strumenti di attuazione. Manca il riferimento ad un’Autorità che accompagni il processo regolando le contese tra i diversi interessi legittimi. Ma se il decreto Ronchi limita le possibilità di scelta, il referendum le assolutizza, accettando unicamente la gestione pubblica anche quando non dovesse funzionare. ,Anche la tanto sbandierata ri-pubblicizzazione di Parigi, prevede che dopo cinque anni l’ente locale possa valutare se la gestione è andata bene o, in caso contrario, cambiare gestore. In Italia non sarebbe più possibile. La parte più grave del referendum è quella

che attacca la remunerazione del capitale, dicendo che non si devono far soldi sull’acqua. Nella realtà l’acqua è un servizio che ha bisogno di grandi investimenti, per il presente e per il futuro, dalla rete potabile, alla depurazione: oltre 60 miliardi di euro. Dove si vanno a prendere se il capitale non può essere remunerato? O dalle tasse o dal debito pubblico! Non c’è governo che in questo momento non combatta contro l’aumento delle tasse o del debito pubblico. Con tariffe corrette ed eque, stabilite da un’Autorità indipendente, il settore idrico si autofinanzierebbe e le fasce sociali più deboli sarebbero protette. Abbiamo le tariffe più basse d’Europa e tra le più basse al mondo e tra le più alte, in Italia, ci sono quelle di gestori totalmente pubblici. Non ha senso quindi alcun approccio totalitarista.

Mauro D’Ascenzi

La perla della Cinque Terre Manarola (“Manaèa” in ligure), antico borgo della Riviera ligure di Levante, è una frazione del comune di Riomaggiore, in provincia della Spezia, e costituisce una delle cosiddette Cinque Terre. È spesso considerato come uno dei borghi più belli d’Italia

DOPO LA BURLA DELLA ZTL, IL PARCHEGGIO DEI BUS TURISTICI Gli abitanti di viale di Porta Ardeatina si sono svegliati con una nuova sorpresa: le strisce blu di sosta tariffata lungo le Mura Aureliane sono state trasformate in soste riservata ai bus turistici. Un enorme parcheggio a cielo aperto di mezzi pesanti e inquinanti che, oltre a deturpare la visibilità e la fruibilità del tracciato archeologico, determinerà un irrimediabile ulteriore degrado di una zona che dovrebbe rappresentare un patri-

monio da tutelare nell’interesse comune. Questo nuovo scempio si aggiunge alla vera e propria burla della Ztl notturna in via Guerrieri, inqualificabile iniziativa di favore politico che, lungi dal limitare il fenomeno della prostituzione, lo ha beffardamente spostato di 50 metri, a largo Chiarini e viale di Porta Ardeatina! Quanto durarà ancora il silenzio su questi ultimi scempi nonché sulla lunga sequela di interrogazioni dei cittadini su tali cruciali argomenti?

L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

Giacomo Carioti

da ”Newsweek” del 16/06/10

Le mie prigioni tra i taliban ra dall’attacco alle Torri gemelle che nessun reporter occidentale entrava nelle regioni tribali a cavallo del confine tra Pakistan e Afghanistan. Pensavo di poter essere il primo. Arrivato a sessant’anni avevo speso gran parte della mia vita professionale lavorando e viaggiando in lungo e in largo per quelle lande. Avevo avuto una prima impressione di quelle terre guardando dal posto di guida di una vecchia Volkswagen negli anni Settanta. Dopo l’invasione sovietica mi ero dato alla macchia sulle montagne, vivendo con i mujahedin. Ho scritto un libro su queste esperienze e, dopo l’11 settembre 2001, sono ritornato in quelle zone, con un contratto per la Cbs. Sono posti strani che attraggono personaggi altrettanto improbabili. A metà di giugno è stato arrestato un carpentiere del Colorado. Andava a caccia di bin Laden con una sciabola da quasi un metro e mezzo. I miei obiettivi erano decisamente più orientati al pragmatismo.Volevo semplicemente venire a conoscenza di ciò che il governo americano e pachistano non sapevano o non ci volevano dire: la verità sui talebani, al Qaeda e possibilmente anche su bin Laden. Aveva anche firmato un contratto per scrivere un libro su ciò che avrei scoperto. Appena arrivato a Kabul, era l’agosto del 2007, cominciai subito le procedure per mimetizzarmi con l’ambiente pashtun. Evitavo di frequentare gli occidentali, digiunavo durante il Ramadan e mi lasciavo crescere la barba. Dal momento che conosco bene le regole di abbigliamento locale, quelle dell’alimenta-

E

di Jere Van Dyk

zione e come guardare il prossimo, soprattutto come non farsi osservare troppo, non attiravo l’attenzione. A parte un vecchio paio di stivaletti Timberland, ben nascosti sotto gli abiti, la lingua era il solo elemento che avrebbe potuto tradire la mia vera identità. Nei cinque mesi successi, feci diversi viaggi nelle aree tribali, attraversando ogni angolo di quella regione color della ruggine. Entrai in contatto con i talebani in quattro occasioni e un volta arrivai fino a Chitral. Un posto ritenuto da molti il nascondiglio di bin Laden. Non avrei voluto trovarmi in un posto diverso al mondo, ma avevo anche molta paura. Dopo ogni uscita, tornavo a Kabul temendo ogni volta in modo sempre più forte di essere stato seguito. Grazie a un mio vecchio amico, un ex comandante mujahiddin

diventato membro del parlamento afgano, organizzai un’operazione più ambiziosa. Si trattava di andare con un capo talebano in un caposaldo del Waziristan e del Bajaur. Il talebano voleva conquistare i favori del politico. Dare una mano al sottoscritto faceva parte del suo piano. Per queste ragioni ero convinto che non mi avrebbe ucciso. Ripensandoci ora, non sono sicuro che non ci abbia provato. Dopo una lunga serie di passaggi di mano, mi ero ritrovato a viaggiare in una stretta valle accompagnato da tre guide. Era quasi notte quando mi accorsi di qualcosa che si muoveva fra le rocce. Raggelai.

«Dannazione! Non è possibile». Una dozzina di uomini stavano scendendo dalla montagna, compreso un tipo allampanato con un turbante nero e un lancia granate in spalla. Erano talebani, ma era evidente che non ci stessero dando un benvenuto. Ho passato gran parte dei 44 giorni con loro chiuso in una cella di quattro metri per quattro. Aspettando solo di morire, in compagnia di altri detenuti stesi intorno a me. Immaginavo come potesse essere l’impatto con le pallottole. Le ferite avrebbero bruciato? Pensai al collo: quanto tempo sarebbe stato necessario per decapitarmi completamente. Comincia a piangere. Un giorno fecero delle riprese video chiedemdomi di inginocchiarmi. Aspettavo solo la lama del coltello. Invece mi diedero solo un ultimatum: convertirmi all’islam o morire. Non è successa nessuna delle due cose.


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog

dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Ho visto “persone siderali” divenire “vecchi cammelli” Signora duchessa, scriverei volumi e volumi su Monsieur Robert de Montesquiou, tanto il soggetto è inesauribile. Io l’avevo conosciuto quando ero così giovane che per me è rimasto sempre ciò che una “persona grande” è per un bambino. Il miracolo è che in tutti gli anni in cui ho visto una dopo l’altra tante “persone siderali” diventare improvvisamente “vecchi cammelli” con la sorpresa di chi, non accorgendosi che il tempo passa, non capisce perchè il suo orologio non vada al passo con gli altri, ebbene, in tanti anni, mai una nube ha offuscato la nostra amicizia ed egli mi ha sempre consentito con un sorriso di rimproverargli la sua condotta verso tanta gente... non credo, nel senso letterale del termine (e malgrado tutti i messaggi che mi inviò l’anno scorso da una casa di cura) che egli sia morto. Era poi davvero malato? In ogni caso, se lo era, questa circostanza deve avergli fatto venire l’ispirazione di inscenare una falsa morte alla quale avrebbe assistito come Carlo Quinto per poi sorprenderci. È riuscito ad architettare messe in scena ben più complesse di questa! Se invece, ahimè, la morte non fosse finta ma vera (cosa a cui non credo) ritornerà lo stesso. Le ingiustizie hanno il loro tempo e, almeno in spirito e verità, egli rinascerà. Marcel Proust alla duchessa Elaine de Gramont

LE VERITÀ NASCOSTE

Garibaldi e i Mille? Sbarcarono a Londra LONDRA. Non tutti lo sanno, ma Giuseppe Garibaldi e i suoi Mille sbarcarono persino nella capitale del Regno Unito. Le avventure di Garibaldi ebbero infatti una tale eco da essere narrate persino Oltremanica e diventare il soggetto di popolari “spettacoli”di piazza. Già nel 1861, infatti, a Nottingham erano narrate in una particolare forma di teatro, antenato dell’odierno filone del news-tainement, in cui con l’ausilio di un dipinto su tela si raccontava l’attualità dell’epoca in versione romanzata. A rivelarlo è un progetto seguito dalla Brown University americana, Garibaldi Panorama, basato su un dipinto opera di un certo John James Story. Il progetto è stato presentato ieri sera all’Istituto italiano di cultura di Londra, in occasione dei festeggiamenti per il 150esimo dell’unità d’Italia. Il dipinto è alto un metro per circa 80 di lunghezza, è diviso in 48 scene e arrotolato su due rulli che permettevano di scorrere la tela col susseguirsi delle immagini. Come spesso accadeva in questo tipo di rappresentazioni, lo scorrere delle scene era accompagnato da un testo narrante e da musica. La Brown University ha riprodotto il testo narrato, a secondo dei manoscritti dell’epoca. Non solo le battaglie ma anche i valori che Garibaldi rappresentava erano al centro del racconto.Valori liberali che, secondo i ricercatori, spinsero numerosi britannici a imbarcarsi per l’Italia per seguire l’Eroe dei due mondi nelle sue imprese. Tutti colpiti dal carisma dell’eroe, anche in Gran Bretagna. Che non era solo frutto dei suoi “occhi penetranti”che, dicono gli studiosi, vengono spesso ricordati nelle cronache dell’epoca, ma anche del suo alto grado di moralità. Sembra dunque che in Gran Bretagna, attorno al 1860, Garibaldi fosse l’uomo del momento.

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

BISOGNA MODIFICARE IL REGOLAMENTO DEI PESCATORI Il discorso che il Ministro Galan ha tenuto in commissione Agricoltura non è sostenibile, perché non si capisce come possa partire un attacco diretto solo agli Stati europei affacciati sul Mediterraneo, lasciando quindi fuori dal regolamento Croazia, Montenegro, Albania, Marocco, Libia e Tunisia, che continuerebbero invece a pescare senza divieti, inviando poi il prodotto finale sui nostri mercati. Il ministro delle Politiche Agricole Giancarlo Galan ha sostenuto che il regolamento europeo, approvato nel 2006, relativo alle misure di gestione dello sfruttamento sostenibile delle risorse della pesca nel mar Mediterraneo non può più essere derogato e che a decorrere dal primo giugno 2010 entra in vigore. È inaccettabile il fatto che non si sia potuto intervenire su questo regolamento, che abbatte del 40% la produzione di pescato nel nostro Paese, mettendo in seria crisi tutto il comparto: ovvero 15mila moto pescherecci, 100mila posti di lavoro, con un fatturato pari a 1,4 miliardi di euro. Non è demagogia pensare di aiutare i nostri pescatori, che non ci chiedono risorse economiche, ma soltanto di poter svolgere il proprio lavoro ed è altresì opprimente pensare che dal 2006 a oggi non si sia intervenuti per bloccare tale provvedimento. Soprattutto non è chiaro perché non sia stata fatta la sperimentazione necessaria per capire che danno potesse creare questo tipo di regolamento. Non è vero che tutti i siluri che partono dall’Europa non si possano modificare o comunque far cambiare di traiettoria per evitare i danni.

Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci,

Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,

Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)

Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Collaboratori

APPUNTAMENTI GIUGNO LUNEDÌ 21 - ORE 17,30 - ROMA CAMERA DEI DEPUTATI - SALA DELLA MERCEDE

In occasione dell’uscita del libro “Ho visto morire il Comunismo” di Renzo Foa, ne discutono Ferdinando Adornato, Rino Fisichella, Stefano Folli, Claudio Petruccioli. SEGRETARIO

VINCENZO INVERSO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

S.O.

Robert Kagan, Filippo La Porta, Direttore da Washington Michael Novak

BARI, TERRIBILE INCIDENTE TRANCIA GAMBA A 25ENNE: CHI HA VISTO DENUNCI Sprono, attraverso una lettera aperta ai baresi, quanti avessero visto qualcosa in merito all’incidente avvenuto domenica 6 giugno ai danni di un 25enne barese a denunciare anche il minimo dettaglio alle autorità competenti. Episodi del genere lasciano amarezza mista a profondo dispiacere nell’animo di chi nutre un minimo di buon senso. E Bari e i baresi hanno spesso mostrato di avere un cuore grande. Con questa breve missiva intendo rivolgermi a quanti, nel pomeriggio di domenica 6 giugno, avessero assistito all’incidente, a quanti dovessero conoscere il seppur minimo dettaglio relativamente al mostro che ha causato il taglio netto della gamba di un giovane ragazzo che passeggiava in quel momento col suo scooter. Tengo a esprimere la franca solidarietà alla famiglia di Paolo Venezia e i più affettuosi auguri allo stesso Paolo affinché possa ritrovare il suo dinamico spirito giovanile e l’entusiasmo di vivere anche dopo questo doloroso accadimento. Mi rivolgo soprattutto ai giovani baresi: se avete visto qualcosa in quel momento o se nutrite anche piccoli sospetti su chi possa essere stato, se avvistate autovetture danneggiate nella parte anteriore e con il radiatore rotto, denunciate tutto alle autorità competenti in quanto questo pirata, che ha rischiato di compromettere la vita di un nostro giovane concittadino, possa essere assicurato alla giustizia. A Paolo auguro di ritrovare la piena serenità quotidiana e una ripresa fisica graduale e completa, a voi tutti invece chiedo di non omettere nessun particolare se ne siete a conoscenza, chiedo di mobilitarvi a sostegno di Paolo. Il suo dolore, il suo tragico strazio, seppur solo emotivamente, sarà in buona parte lenito se otterrà giustizia. Non permettiamo a quel delinquente di farla franca: chi sa, denunci. L’incidente è avvenuto nel rione periferico del capoluogo Poggiofranco, in via Camillo Rosalba. Dopo l’urto frontale, il guidatore dell’auto – tra le ipotesi è che si tratti di un’Opel Astra di colore grigio – è fuggito. Sergio Adamo U D C - MO V I M E N T O GI O V A N I L E ME Z Z O G I O R N O

Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,

Maria Pia Ammirati, Mario Arpino,

Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,

Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi,

Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,

Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,

Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,

Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma

Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1

Amministratore Unico Ferdinando Adornato

Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118

Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato,Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747

John R. Bolton, Mauro Canali,

Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli,

Franco Cardini, Carlo G. Cereti,

Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana,

Enrico Cisnetto, Claudia Conforti,

Roselina Salemi, Katrin Schirner,

Angelo Crespi, Renato Cristin,

Emilio Spedicato, Davide Urso,

Tipografia: edizioni teletrasmesse New Poligraf Rome s.r.l. Stabilimento via della Mole Saracena 00065 Fiano Romano

Francesco D’Agostino, Reginald Dale

Marco Vallora, Sergio Valzania

Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.”

Abbonamenti

06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro - Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro

Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc

e di cronach

via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 0 6 . 6 9 9 2 4 0 8 8 - 0 6 . 6 9 9 0 0 8 3 Fax. 0 6 . 6 9 92 1 9 3 8 email: redazione@liberal.it - Web: www.liberal.it

Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


ULTIMAPAGINA Finanza. Requisendo d’imperio le riserve auree spagnole, il dittatore russo ha risparmiato quelle italiane

Dalla crisi ci ha salvato di Maurizio Stefanini una questione d’oro. Nel novembre del 2006 l’Economist prevedeva che la Spagna avrebbe «sorpassato l’Italia entro il 2009». Il 2009 ha invece visto gli spagnoli risospinti con vergogna in quel mazzo dei Pigs, i Paesi europei non virtuosi. Un po’ è colpa dei fondamentali, con la disoccupazione che in tre anni è triplicata e la crescita del Pil che si è invece ridotta a un terzo. Mentre invece il nostro modello di piccola e media impresa sta mostrando una flessibilità insospettata di fronte alla tempesta, anche se ovviamente non è tutto rose e fiori. Ma c’è di mezzo pure l’oro. L’Italia possiede infatti 2451,8 tonnellate d’oro, pari al 66 per cento delle proprie riserve: che al prezzo corrente, equivale a 75 miliardi di euro. Come cifra assoluta è la quinta riserva al mondo: dopo le 8133,5 tonnellate degli Stati Uniti, le 3422,5 della Germania, le 3217,3 del Fondo Monetario Internazionale e le 2680,6 della Francia. Mentre quarti siamo come percentuale sulle riserve, dopo l’80,5% della Grecia (che però corrispondono a solo 112 tonnellate, trentesimo posto in assoluto); il 77,4% del Portogallo (382,6 tonnellate, 13esimo) e il 76,1 per cento degli Stati Uniti. La Spagna con 281,6 tonnellate sta invece appena al 19simo posto assoluto, mentre il 34,6 per cento di quota sulle riserve equivale all’undicesimo posto relativo. Insomma: non ha le garanzie necessarie a evitare l’allarme default.

È

La cosa può apparire paradossale, se si pensa a tutti i metalli preziosi che la Spagna predò al Terzo Mondo: nell’immaginario resta soprattutto l’oro, anche se in realtà il flusso maggiore fu quello dell’argento delle miniere di Potosí. Un po’ tutti però abbiamo studiato a scuola dell’inflazione del ‘500 e dei pirati alla Francis Drake, che in modo diverso finirono per drenare gran parte di questi metalli preziosi verso il Nord Europa. Meno studiato ma in realtà più importante fu il particolare che l’intera Europa aveva all’epoca un deficit commerciale strutturale verso India e Cina. Prodotti tipici come le spezie e le “cineserie” da una parte, il basso costo della manodopera da alto sviluppo demografico dall’altra, assicuravano infatti ai due giganti asiatici un tradizionale ruolo di grandi esportatori che durava dall’Impero Romano e a cui in effetti solo la Rivoluzione Industriale avrebbe posto termine. Anche se ora, a loro volta industrializzate, Cina e India stanno tornando alla situazione di quei tempi. L’argento arrivato all’epoca la Cina lo ha poi in gran parte usato per importare oppio, ma l’India con la sua mania popolare per tesaurizzare gioielli è presumibilmente oggi il Paese che continua a custodire la gran parte dei metalli preziosi presi dalla Spagna nel Terzo Mondo. Si dice poi che il colpo di grazia lo diede Stalin al tempo della Guerra Civile Spagnola. Iniziò facendosi pagare in oro le forniture militari alla Repubblica, e terminò con l’incamerare le intere riserve auree che si era fatto mandare a Mosca come garanzia, per “sottrarle ai franchisti”. Una bazzecola da 51 milioni di dollari dell’epoca. Anche l’Italia, però, subì a sua volta un salasso del genere. Nel 1944 le Ss di Kappler misero infatti le mani a Roma sulla riserva aurea della Banca d’I-

STALIN venne comunque restituita una volta che il debito fu saldato. Pur con una produzione nazionale che non oltrepassa i 5 all’anno, però, l’Italia è il più grande trasformatore d’oro del mondo: 450-500 tonnellate lavorate ogni anno, metà a Arezzo, il resto per lo più tra Valenza Po e Vicenza. Ma fino alla legge 7/2000 da noi vigeva un regime di monopolio per cui era vietato ai privati comprare oro per investimento, e potevano possederlo solo come oro lavorato o monete.

Il nostro Paese venne salassato dalle truppe naziste subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale, ma siamo riusciti a rifarci nel tempo. Ora, abbiamo in cassa quasi 2.452 tonnellate d’oro, pari a 75 miliardi di euro. L’assicurazione per il futuro talia, e anche su quella di Belgrado, trasferita anch’essa in un sotterraneo di Via Nazionale dopo che il Regio Esercito era riuscito impadronirsene nel 1941, al momento del crollo jugoslavo. E di almeno una quarantina di tonnellate non si sa che fine abbiano fatto, così come sono pure scomparse le altre riserve che i tedeschi avevano già trafugato in Polonia, Danimarca, Norvegia, Belgio, Olanda, Lussemburgo e Grecia: si favoleggia disperse in depositi segreti sparsi tra la Corsica, i laghi austriaci e il Monte Soratte. Una avidità di oro, tra parrentesi, non esclusiva dei nazisti. Oro spagnolo finito a Stalin a parte, dopo il 1945 anche il governo inglese avrebbe incamerato l’oro delle annesse all’Urss Estonia, Lettonia e Lituania custodito a Londra, per indennizzare i propri cittadini vittime degli espropri subiti a opera del regime comunista. E la stessa Germania Federale nel 1976 chiese gran parte delle nostre riserve auree come pegno per un prestito al nostro Paese in difficoltà: una garanzia che

A queste restrizione venivano esentate, previa autorizzazione ministeriale, solo alcune banche che si trovavano nelle aree dove esiste la più alta concentrazione di laboratori d’oreficeria: Banca Popolare Vicentina, dell’Etruria e del Lazio, Banco Ambrosiano Veneto. E di ciò ha approfittato lo Stato per ricostruire una riserva utilizzata proprio per sostenere la credibilità di un sistema che svalutava in continuazione. Dopo l’Euro si è iniziato a dire che non ce ner più il bisogno, e che forse era il caso di vendere qualcosa. Se lo ricordate, un anno fa Tremonti parlò addirittura di una tassa sulle riserve auree. Ma la Banca d’Italia tenne duro. E forse ora si potrà constatare che aveva avuto ragione.


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.