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L’unico posto in cui ”successo” viene prima di ”sudore” è il dizionario

Vidal Sassoon

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • GIIOVEDÌ 24 GIUGNO 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Oggi l’incontro decisivo con la Slovacchia: si può vincere o perdere, ma i mondiali non possono essere “usati” dai governi

Comunque vada,viva l’Italia! Bossi, Sarkozy, Kim Jong-il: il potere strumentalizza il calcio Il Senatúr costretto alle scuse per le accuse alla “nazionale ladrona”. Il presidente convoca Henry all’Eliseo. Pyongyang ordina alla tv di oscurare la partita. Ma la politica non può farsi i fatti suoi? ETICA E FOOTBALL

L’esito del referendum non garantirebbe l’azienda

La Fiat minaccia di lasciare Pomigliano Il Lingotto: «Tratteremo solo con chi ha detto sì». Pressioni di governo e Confindustria per restare in Italia

Da Videla a Tapie a Berlusconi

Il gioco di squadra di un Paese leale

Gli autogol dell’autoritarismo

di Paola Binetti

La storia di un “vizietto” che, da sempre, contagia dittature e democrazie.

è solo una cosa peggiore della sconfitta di oggi: il sospetto che la partita possa essere comprata, perché se questo avvenisse sarebbe il segnale inequivocabile di una corruzione così dilagante nel nostro Paese da far temere seriamente per la sua ripresa morale, economica e culturale. Una corruzione che indubbiamente comincia dalla testa: dal corruttore che compra e che vende: compra una vittoria e vende il nostro onore sportivo. L’Italia di oggi è in crisi, perché è in crisi il suo sistema etico di riferimento, perché le sue regole appaiono più confuse e il merito passa sempre in secondo, terzo e a volte ultimo piano.

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Riccardo Paradisi • pagina 8

Maurizio Stefanini • pagina 4

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Parla Gianni Rivera

«Siamo governati dal bar dello sport» «Ai miei tempi il Palazzo non interferiva con le vicende degli azzurri» Franco Insardà • pagina 2

segue a pagina 5

Incontro infuocato tra il presidente e il capo militare che se ne va irritato

Obama licenzia McChrystal Il generale diserta il Consiglio di guerra. Poteri a Petraeus L’ipotesi è un’imposta locale sugli immobili

LE RAGIONI DI UNO SCONTRO

di Enrico Singer

Forse vuole candidarsi alle Presidenziali 2012

Manovra, i sindaci L la spuntano (con tassa) Annuncio di Tremonti: «Le misure ci costeranno lo 0,5 per cento del Pil per i prossimi tre anni» Francesco Pacifico • pagina 10 seg1,00 ue a p(10,00 agina 9 CON EURO

I QUADERNI)

o strappo si è consumato. Il generale Stanley McChrystal non è più il comandante in capo delle truppe americane in Afghanistan. Richiamato d’urgenza a Washington dopo la sua devastante intervista al settimanale Rolling Stone, ha incontrato prima il ministro della Difesa, Roberts Gates, e il capo di Stato maggiore, ammiraglio Mike Mullen, al Pentagono. a pagina 14

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NUMERO

121 •

di Massimo Fazzi he fine hanno fatto le figure carismatiche sullo stampo di John Wayne? L’America, accerchiata da nemici sparsi per il mondo, ne ha un gran bisogno: il tono soft dell’attuale presidente, le sue politiche forse lungimiranti ma sicuramente rischiose, la sua eloquenza troppo forbita sembrano non convincere la pancia del Paese. Che vede in McChrystal una valida alternativa per il voto del 2012. a pagina 14

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WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Abusi. Ghirelli: «Insopportabile che sia un ministro a offendere i simboli». Dal Lago: «Anche nella propaganda ci manca il senso del ridicolo»

Lasciateci almeno la Nazionale Bossi chiede scusa, ma l’Italia resta l’unico Paese dove un valore positivo come lo sport viene inquinato dai conflitti del Palazzo di Errico Novi

Il guaio dei potenti che “controllano” lo sport

ROMA. Ci è cascato in pieno, Franco Frattini. Certe mattane della Lega e del suo capo non andrebbero assecondate: precauzione sempre valida con chi esibisce disturbi del comportamento. E invece il ministro degli Esteri afferra per il verso peggiore il caso della Nazionale oltraggiata da Bossi: «Noi tifiamo sempre per gli azzurri, ci aspettiamo un risultato pieno contro la Slovacchia». E se non arrivasse? Che fine faranno i ragazzi di Marcello Lippi, magari la stessa che si teme per i calciatori nordcoreani? Paradossi involontari, forse. Certo, oggi in campo l’Italia rischia di avvertire su di sé una responsabilità in più, assolutamente indebita peraltro: togliere argomenti alla propaganda leghista. Ma è una conseguenza paradossale delle sparate antipatriottiche. D’altronde l’uso che la politica sta facendo di questi Mondiali (in Francia con l’interventismo di Sarkozy come in Corea del Nord con le dirette tv modulate in base alla convenienza del regime) è insopportabile. Soprattutto per un motivo: se è vero che la manipolazione dell’immaginario sportivo da parte del potere appartiene alle più nefande vicende politiche del Novecento, dovrebbero essere proprio quei precedenti a scoraggiare nuovi abusi. E invece il vizio ritorna, nelle forme più diverse, ma ritorna.

Certo il caso italiano è speciale, diverso da tutti. Lo fa notare uno dei grandi maestri del giornalismo sportivo italiano, Antonio Ghirelli: «Sembra che ci si dimentichi sempre di una cosa, nel caso di Bossi: il leader della Lega è un ministro, ha giurato fedeltà alla Repubblica italiana, dunque non può permettersi di evocare lo spettro della secessione né di attaccare l’inno, la bandiera o la Nazionale». E invece tutto gli è In perdonato. virtù del fatto che Bossi «parla ai suoi», si fa fin-

Le invasioni di campo di Giancristiano Desiderio uando 28 anni fa la Nazionale vinse i Mondiali in Spagna, Sandro Pertini alzò in segno di vittoria le braccia e la pipa al cielo. Tutti ricordiamo quell’immagine. Tuttavia, è regola buona e giusta che i politici in quanto politici stiano lontani dal calcio e partecipino alle gioie e ai dolori del gioco più popolare del mondo in quanto uomini. Perché? Semplice: il calcio è in sé e per sé - come direbbe Hegel - pura manifestazione di vita e si sa che il potere che vuole mettere le mani sulla vita combina o guai o pasticci. Si prenda il caso attualissimo della Corea del Nord: le sue partite, per scelta politica, non sono state trasmesse in Corea, ma vista la buona prestazione dei giocatori-sudditi, Kim Jong-il ha dato il permesso per la visione della partita con il Portogallo. E cosa ti combinano Ronaldo e compagni? Ne rifilano 7 ai nordcoreani e ora il Caro Leader è furioso perché a Pyongyang il pallone è usato come veicolo di propaganda e la sconfitta è un fallimento anche per il regime comunista.

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Oppure si prenda il caso della “riunione di lavoro” di ieri per analizzare la débacle della nazionale francese ai Mondiali di calcio sudafricani, fissata dal presidente Sarkozy, che incontrerà il premier Fillon, la ministra per lo sport Bachelot e la segretaria di stato per gli esteri RamaYade. E Umberto Bossi? È un capopopolo che vuole usare i dolori della Nazionale per alimentare il sentimento per la sua personale nazionale padana. Fabio Cannavaro, un tempo sugli altari e oggi nella polvere, ha detto: «Questo è un Paese ridicolo». Forse, è un giudizio risentito, ma non ingiusto. Le polemiche sulla Nazionale nascondono non una Nazione divisa, ma una politica totale che ambisce a mettere le mani su tutto. Ma impadronirsi del pallone è semplicemente impossibile perché il pallone gioca. Così si finisce nel ridicolo, come dice Cannavaro, o nella paura e nella tragedia, come accade in Corea. Il calcio è ma-

teria esplosiva che può essere causa di rivoluzioni. Se la Nazionale ungherese, l’Aranycsapat, la squadra d’oro, non avesse perso la finale dei Mondiali contro la Germania per 3-2, in Ungheria ci sarebbe stata la rivolta contro il regime di Màtyàs Ràkosi? Se Puskàs e “compagni”, imbattuti da 4 anni, avessero conquistato quella finale, gli ungheresi sarebbero scesi per le strade di Budapest contro il comunismo? Storici come Andrew Handler e Làszlò Kutassi assegnano a quella sconfitta un ruolo chiave negli avvenimenti sociali e politici. Il ct della Nazionale ungherese Gusztàv Sebes scrisse nella sua autobiografia: «Sono totalmente convinto che non ci sarebbe stata alcuna rivoluzione se avessimo vinto. Sono altresì convinto che il nostro sistema socialista avrebbe resistito ancora per anni». Invece, ancora una volta, non si fecero bene i conti con la imprevedibilità del pallone. Ràkosi puntava molto sulla Nazionale. Alle Olimpiadi del 1952, prima della partita con la Jugoslavia, chiamò Sebes al telefono per dirgli due parole: «Vietato perdere». La squadra d’oro vinse. Da quel momento l’obiettivo divenne il titolo mondiale. Così il calcio ungherese subì una “riforma strutturale”. I calciatori migliori vennero affidati a due squadre prestabilite: «La Honvéd (ex Kispest) fu scelta come il club in cui si doveva formare l’ossatura della Nazionale e fu conosciuta da quel momento in poi come la squadra dell’esercito. L’Mtk (ex Hungària) fu adottata dalla polizia segreta e poté avvalersi delle seconde scelte del calcio ungherese». Ràkosi fu chiaro: «I calciatori devono impegnarsi per segnare un gol contro l’imperialismo». E i calciatori si misero sotto a lavorare sodo. Ràkosi, come Hitler e Stalin credeva di poter controllare in modo totale la palla. Quando Sebes organizzò una partita amichevole con l’Inghilterra ricevette la solita telefonata di Ràkosi che gli chiedeva la vittoria sicura. Sebes cercò di spiegare che la vittoria non è mai certa e allora Ràkosi gli chiarì le idee spiegandogli a sua volta i rischi che avrebbe corso in caso di sconfitta. L’Ungheria vinse 6-3 e i giornali poterono fare il titolo che Ràkosi attendeva: «Il socialismo sconfigge il capitalismo».

Dovrebbero star lontani dal calcio e vivere gioie e dolori del gioco più popolare del mondo in quanto uomini

La finale iniziò nel migliore dei modi. Ma le partite vanno giocate fino alla fine. I tedeschi giocarono come mai avevano fatto quando c’era Hitler, rimontarono e vinsero 3-2. A Budapest gli ungheresi scesero in strada «contro la squadra e indirettamenåte contro il regime stesso». Così, quando gli ungheresi si ribellarono al regime comunista, «anche la casa del ct Sebes fu presa di mira». I giocatori dovettero riparare all’estero. Nemmeno i giocatori avevano messo in conto la imprevedibilità del gioco. Credevano di possederlo. Lo persero per sempre.

ta di nulla. Si considera normale anche che un ministro possa farsi beffe dei simboli. «La nazionale magari è un simbolo meno importante, ma che diciamo allora delle canzonette suonate a Varese al posto dell’Inno di Mameli quando Maroni è andato a celebrare il 2 giugno?», si chiede Ghirelli. È lo spazio lasciato aperto alle scorribande demenziali dei lumbàrd che consente, nello specifico, l’abuso delle vicende sportive a fini propagandsistici. Continua l’ex direttore del Tg2: «Berlusconi non se la sente di fermarlo perché si porta dietro il trauma del ’94, quindi preferisce improntare i rapporti con l’alleato alla massima prudenza. E così siamo destinati a subire di tutto, anche l’appello ai dieci milioni di padani che sarebbero pronti a prendere le armi. Ripeto, rispetto ad altre questioni questa della nazionale di calcio è meno importante, ma nemmeno possiamo trascurare il rilievo che lo sport ha avuto, per esempio, nella lotta di Mandela contro l’apartheid. Come racconta lo splendido film di Clint Eastwood, il riconoscimento del primato sudafricano nel golf è stato uno dei principali strumenti di penetrazione pacifica di quella lotta».

Rovesciare un simile meccanismo, convertirlo in senso negativo come fa Bossi è dunque operazione delle più riprovevoli.Vero è, come dice Alessandro Dal Lago, che «sotto certi aspetti un intervento del genere può essere considerato piuttosto normale, giacché la i politici fanno proprio questo: gestiscono la rappresentazione del Paese nel campo dell’immaginario». Ma anche dal punto di vista del sociologo genovese – che oltre ad essere diventato l’anti-Saviano per antonomasia è soprattutto uno studioso di fenomeni sociali come quello della violenza negli stadi – anche per lui «l’Italia finisce sempre per offrire una variazione tutta particolare sul tema dei conflitti simbolici». In che senso? «Partiamo da un dato: il calcio è lo spettacolo più popolare della terra, e di politici che se ne appropriano è piena la storia recente. Nel nostro caso basta citare il Berlusconi arrabbiato per la vittoria ai Mondiali del 2006, perché riteneva che avrebbe favorito il governo Prodi, o il Pertini patriottico


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A sinistra, l’ex capo dell’Ungheria comunista Màtyàs Ràkosi; a destra, il dittatore nordcoreano Kim Jong-il. In basso, Gianni Rivera. Nella pagina a fianco: il presidente francese Nicolas Sarkozy insieme con la ministra Roselyne Bachelot

Il “padano” Gianni Rivera bolla l’uscita del Senatùr: nonostante le scuse si tratta di una comicità da serie B

«Ormai siamo governati dal bar dello sport» di Franco Insardà

ROMA. «Le parole di Bossi le classificherei nel filone comico di serie B». Gianni Rivera è stato calciatore, ma dice: «il calcio è stata la mia vita, ho chiuso da tanti anni e le partite le guardo in tv» ed è un politico «in attesa che il Partito della Nazione prenda corpo». Parliamo, comunque, di un ministro che ha giurato sulla Costituzione italiana. Glielo ricordano quotidianamente, ha giurato perché non poteva farne a meno, ma non ci ha mai creduto molto. Rivera- Bossi: due padani che la pensano in modo completamente diverso? Direi proprio di sì, non abbiamo alcun punto in comune. Io sono padano senza essere egoista, guardo all’interesse di tutto il Paese e dell’Europa. Bossi parla di partita comprata, il governo francese manda il ministro dello Sport nel ritiro della nazionale: non è un po’ troppo? La Francia ha un ministero dello Sport e quindi è giusto che abbia ritenuto di dover intervenire. Lo ha fatto, però, tardivamente: ormai la frittata era fatta, sarebbe stato più opportuno sostenerli nel momento in cui potevano ancora ottenere un risultato positivo. L’unica cosa che ha potuto fare il ministro francese è stata quella di riaccompagnare la squadra in patria. Il Senatùr ha lanciato queste accuse per avvalorare la tesi leghista di “Roma ladrona”? Il Carroccio fa parte del governo centrale e quindi anche loro danno un contributo a “Roma ladrona”. Lei aveva già polemizzato anche con Bossi jr qualche settimana fa? che si fa fotografare sull’aereo presidenziale mentre gioca a carte con Causio e Zoff». E con Bearzot, per precisione filologica. «Ebbene, da una parte il calcio si presta con molta facilità all’invadenza della politica, non foss’altro per il suo carattere di rappresentazione metaforica di una battaglia. Ma solo in

Quando si fanno certe affermazioni è il minimo che si può fare. Padre e figlio continuano a parlare a vanvera. Forse il papà si è arrabbiato perché, in un secondo momento, il figlio ha confessato di tifare per l’Italia e ha voluto sostituirlo nelle uscite comiche. Ritiene che queste polemiche possano influire sui calciatori? Non vengono minimamente toccati. De Rossi, per esempio, è stato simpatico quando ha replicato a Renzo Bossi. Anche ai mondiali dell’82 ci fu chi insinuò sospetti per il pareggio con il Camerun? Quei sospetti nacquero dopo la partita. Bossi lancia queste accuse prima del fischio d’inizio. Allora, dopo le accuse, l’Italia diventò campione del mondo: la cosa si potrebbe ripetere? Questa uscita di Bossi lascia il tempo che trova. Se ci fosse stato un intervento tecnico o ambientale serio allora le cose avrebbero potuto assumere un significato diverso. Ai suoi tempi la politica interferiva nella Nazionale? Non mi ricordo interventi di questo tipo da parte dei politici. Siamo sempre stati accolti bene dopo delle buone prestazioni, ma nessuno ha mai cercato di strumentalizzare i nostri risultati. Oggi, invece, i politici parlano da tifosi, avendo il vantaggio, rispetto a quelli che frequentano i bar, che le cose che dicono

Italia si assiste a un certo tipo di degenerazione: in Francia per esempio si confonde il vantaggio materiale con l’immaginario patriottico per difendere i prodotti nazionali, che si tratti della moda femminile o dei formaggi. Ma solo in Italia mettiamo al centro dei conflitti questioni esclusivamente simboli-

vengono riportate dai giornali. Questa cosa fa arrabbiare i tifosi dei bar che sostengono le stesse cose, ma nessuno gliele pubblica. E le polemiche che la accompagnarono a Messico ’70? Ci fu una campagna di stampa per non farmi giocare in Nazionale, la Federazione subì un po’ queste pressioni e Valcareggi fu bypassato da Mandelli, presidente del settore tecnico di Coverciano. Ho reagito, ma la cosa è finita lì, senza interventi dei politici. Nel 2000 c’è stato un altro episodio grave:l’abbandono della Nazionale da parte di Dino Zoff dopo le critiche di Berlusconi? Berlusconi è abituato a fare queste cose. Quest’anno ha dato la colpa del campionato deludente del Milan a Leonardo, dopo averlo convinto a fare l’allenatore. Zoff scelse la strada delle dimissioni perché non sopportava la polemica di un uomo politico così importante. Io avrei reagito diversamente: mandandolo a quel paese e basta. Oggi pomeriggio vedrà la partita e farà il tifo per la Nazionale? Certo. Non ho amici in Slovacchia.

Ai miei tempi non c’erano interferenze nel lavoro della Nazionale e nessuno ha mai cercato di strumentalizzare i nostri risultati

che, come avviene con il calcio. Siamo uno strano Paese anche nella manipolazione, con un insufficiente senso del ridicolo».

Il finale rischia di essere stucchevole: dopo la risposta della Federcalcio («Stavolta il ministro ha passato il segno») e l’appello di Gianni Letta («At-

torno alla Nazionale dobbiamo sentirci tutti uniti») arriva la retromarcia del Senatùr: «Chiedo scusa alla Nazionale, era solo una battuta fatta al buvette con i miei. Non pensavo di scatenare questo casino e a questo punto ho capito che sarà meglio non scherzare più. D’altra parte c’è un detto:

scherza con i fanti ma lascia stare i santi. E in questo momento toccare la Nazionale è come scherzare con i santi». Ma va là, Umberto: è proprio la proiezione fantastica del popolo sullo sport che aveva stuzzicato gli appetiti tuoi e degli altri lumbàrd. Ricapiterà, purtroppo.


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l’approfondimento

I casi di Bossi, Sarkozy e Kim Jong-il sono solamente gli ultimi di una lunga serie di strumentalizzazioni

Gli autogol dell’autoritarismo Dalla Germania nazista ai generali argentini: la storia delle ingerenze politiche dimostra come il “gioco” non riesca troppo bene ai regimi totalitari. Ma anche nelle democrazie la questione non è mai stata semplice... di Maurizio Stefanini n Italia c’è un ministro della Repubblica che accusa preventivamente di compravendite di partite la Nazionale del Paese di cui ha giurato di essere“servitore”(significato etimologico del termine ministro): confermando peraltro una tradizione di intervento a gamba tesa della Lega sul calcio azzurro, insistito nella chiassosità anche se non altrettanto nei contenuti, dal momento che se oggi Bossi infierisce sulla fiacca della Nazionale in Sudafrica, quattro anni fa Calderoli esaltava invece la vittoria in Germania contro una nazionale francese popolata da «negri, islamici e comunisti».

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Ma è notorio che la Lega non ha mai saputo bene cosa vuole, ma in compenso minaccia sfracelli se non lo ottiene subito...Anche Sarkozy, però, ha convocato in “riunione di lavoro”, il premier Francois Fillon, il ministro dello sport Roselyne Bachelot e il segretario di Stato allo Sport, Rama Yade, sull’ultimo posto dei Bleus al girone elminatorio in Sudafrica, manco fosse un affare di Stato. E non parliamo della tv

nord-coreana, che dal secondo goal col Portogallo in poi ha smesso di commentare. «Noi calciatori non parliamo mai di politica, perché i politici non stanno a loro volta zitti sul calcio», ha detto Gattuso. Già: perché? E qua è pure inutile prendersela con Berlusconi che scende in campo con un partito modellato sulla struttura dei Milan Club: se si pensa ai tempi di Sandro Pertini, icona della Resistenza e della Prima Repubblica, che si infilava nell’aereo dei campioni del mondo in Spagna per farsi filmare mentre giocava a carte con i vincitori.

Sia consentito però all’autore di queste righe di citare alcune conclusioni di un suo libro di un anno fa: Ultras Identità, politica e violenza nel tifo sportivo da Pompei a Raciti e Sandri (Boroli). Tecnicamente, politica e calcio hanno una stretta parentela funzionale, che li accomuna al teatro e agli scacchi, o a altri giochi.“La guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi”, diceva Clausewitz. Ma anche la democrazia, lo sport agonistico e i giochi in genere

proseguono la guerra con altri mezzi, mentre il teatro la racconta. Non a caso, come nell’antichità la democrazia e il tifo sportivo erano nati nell’Atene di Eschilo, Sofocle e Euripide, così anche nell’Inghilterra moderna gli stessi fenomeni si sono rigenerati dopo il grande teatro di Shakespeare. Con la differenza che la democrazia permette di combattere con mezzi non distruttivi essenzialmente i conflitti interni tra élites per il potere; mentre lo sport agonistico surroga i conflitti territoriali, sia in campo internazionale che infra-

Lo sport agonistico è la prosecuzione della guerra con altri mezzi

nazionale. Proprio perché l’origine è in qualche modo comune, questa differente “specializzazione”dovrebbe però in teoria mantenere i due ambiti ben diversi. Se così non è, significa che stiamo di fronte a una qualche patologia. E il fatto che tali patologie siano relativamente diffuse, non significa che siano meno abberranti. La patologia italiana, ad esempio, si chiama Lega: un movimento politico che basa il proprio richiamo non sulla difesa di idee o interessi, ma su quella di “territori”, per usare la stessa terminologia leghista.

a cercare dappertutto occasioni di Grandeur, e non riesce a riportare neanche una partita di calcio al suo giusto significato. Poi c’è la Corea del Nord, e il problema dello sport nei regimi totalitari. Che sempre si premurano di investire negli atleti risorse importanti, proprio per il ritorno propagandistico che le vittorie sportive assicurano: dalla Germania di Hitler all’Unione Sovietica o alla Cuba di Fidel Castro, per non parlare del doping di Stato della Germania Orientale o delle atlete bambine della Romania di Ceaucescu.

Cioè, un Paese con identità fragile, che alla Nazionale finisce per affidare quel compito di “nazionalizzazione delle masse” in altri Paesi più opportunmente svolto dalla scuola e da altre occasioni di celebrazione della Patria. Compreso il tacchino della Festa del Ringraziamento Usa, o i balli in piazza nell’anniversario della Presa della Bastiglia in Francia. La stessa Francia ha invece il problema opposto di un’ipetrofia dell’ego nazionale, che continua

Attenzione, però. Un conto sono le Olimpiadi: tante competizioni, tane medaglie, e se si spende con generosità qualcosa ne viene per forza. Un conto sono le competizioni di squadra: dove invece gli atleti da curare sono tanti per un alloro solo e inoltre, come sa ogni tifoso, «la palla è rotonda». La Germania di Hitler fece il pieno di medaglie alle Olimpiadi di Berlino del 1936, ma ai Mondiali di calcio del 1938 fu fatta ingloriosamente fuori per 4-2 dalla Svizzera. «Sessanta milioni


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Questo Paese rifiuta il solo sospetto che a qualcuno possa venire in mente di comprare un match

«Caro Bossi, non siamo cialtroni: tiferemo per un’Italia leale» Le (pericolose) affermazioni del senatùr, smentite solo il giorno dopo, umiliano profondamente la maggioranza degli italiani di Paola Binetti segue dalla prima Perché non c’è certezza della pena davanti a reati piccoli e grandi! Perché c’è un sistema di garanzie che garantisce solo coloro che sono già garantiti e marginalizza coloro che desiderano mettersi in gioco, come quei giovani che vogliono solo mostrare di cosa so+no realmente capaci. Il nostro Paese mostra segni visibili di questa sofferenza e lo sgomento che ha colto tutti gli italiani nel conoscere ogni volta con maggiore lucidità le cause che la provocano è parte integrante della patologia che questo Governo dovrebbe curare e non contribuire a peggiorare, come è accaduto con le affermazioni di Bossi in merito ai Mondiali. E diciamo subito che non ci faremo commuovere dalle scuse del ministro, assai tardive (ventiquattro ore dopo!) e visibilmente motivate dall’intento di ”metterci una toppa”. Insomma: l’ennesimo pretestuoso attacco a ”Roma ladrona”(via Lippi) gli veniva dal cuore, le scuse, viceversa, erano mera, fintissima diplomazia.

Nonostante le proprie debolezze e le proprie furbizie di piccolo cabotaggio, negli italiani c’è sempre la speranza di potere e di saper reagire ai mali che ci affliggono attingendo direttamente alle nostre capacità, ai nostri talenti, quelli sportivi e quelli intellettuali, quelli artistici e quelli morali. Sappiamo di essere capaci di reagire, quando vogliamo, quando ce la mettiamo tutta, quando lasciamo che il senso di responsabilità si sostituisca a una pigrizia inerte e rassegnata, che si affida ad altri per risolvere i problemi. E questa volta la stragrande maggioranza degli italiani ha reagito prima di tutto offendendosi e poi respingendo al mittente gli insulti implicitamente contenuti nella affermazione del senatur. Bossi, al di là delle scuse, ha comunque umiliato gli italiani non solo perché ha rivelato il volto oscuro di quel cancro pervasivo rappresentato dalla convinzione di poter comprare tutto da tutti, purché se ne abbiano i soldi, li ha umiliati perché ha giudicato irrecuperabile il risultato della partita affidato al talento dei nostri giocatori in campo. Ma soprattutto ha annunciato con un cinismo aspro e corrosivo che, davanti ad una crisi economica grave come quella che sta vivendo il nostro Paese, si può tagliare su tutto, sui posti di lavoro, sui malati cronici, sulla ricerca, sugli asili nido, ma non sull’immagine del Paese. Come se tutto si risolvesse sempre e solo in una gigantesca operazione di maquillage, come se bastasse la falsa ubriacatura di una falsa vittoria per far dimenticare agli italiani le condizioni drammatiche in cui stanno vivendo. Anche restando su di un piano esclusivamente pragmatico, perché mai dovremmo investire i soldi che non abbiamo

per ottenere una vittoria che inevitabilmente sarebbe annullata nel giro di pochissimo tempo, quando grazie a qualche intercettazione, fortunatamente ancora possibile, si verrebbe a sapere che abbiamo imbrogliato il mondo intero, dal momento che di mondiali stiamo parlando. Questo Paese rifiuta il solo sospetto che a qualcuno possa venire in mente di comprare una partita, importante e decisiva che sia, perché le partite vogliamo giocarle e vogliamo vincer-

L’unico risultato è stato quello di ricompattare il tifo di noi tutti, facendoci stringere intorno agli Azzurri le. E siamo ancora convinti che possiamo vincerle. E comunque vogliamo vincere l’unica vera battaglia che stiamo combattendo: quella per un rilancio morale del Paese. Siamo convinti che occorra ripartire da qui, nello sport come nella pubblica amministrazione, nella finanza come nella ricerca, senza moralismi, ma anche senza quegli opportunismi furbi e fasulli che propongono nuove scorciatoie, insidiose e alla fin fine del tutto sterili. Non vogliamo bluffare, non vogliamo far finta che non ci siano stati errori, vogliamo semplicemente mettere in gioco nuove energie e nuove risorse per ridare slancio al Paese. È per questo che pensiamo che il Paese abbia bisogno di andare oltre questo bipolarismo malato, tipico di una partita truccata e destinata al fallimento totale. Lo

sport è un valore importante, è palestra di infinite qualità che si possono sviluppare proprio mentre si gioca, in competizione con se stessi e in competizione con gli altri, da soli e in squadra. Per molti adulti il calcio resta ancora oggi l’unica forma di gioco, quella che si trasmette di padre in figlio e che restituisce a molti genitori la memoria della loro infanzia, il gusto delle abilità sportive che fanno sentire tutti un po’ campioni e un po’ commissari tecnici. Il gioco del calcio nel vissuto dei bambini che cominciano a giocarlo nelle condizioni più semplici e perfino più povere, nei cortili della scuola, negli spazi protetti dei condomini, nei parchi pubblici e perfino in mezzo alla strada, quando non è troppo pericoloso, è esperienza di libertà, voglia di vincere, legame forte di amicizia e di sana competitività. Sanno di potersi mettere in gioco in campionati poveri di risorse, ma ricchi di sogni e di allegria. Perché mai dovrebbero pensare che i loro campioni, forse meno forti e valorosi di quanto avrebbero voluto, questa volta hanno vinto per finta, sono stati imbrogliati, perché qualcuno ha comprato la partita convinto che loro da soli non ce l’avrebbero mai fatta... Che senso avrebbe questo rituale magico, che ha visto e anche oggi vedrà, incollati davanti al televisore milioni di italiani, se sapessimo che è tutto falso, già deciso, già messo sul mercato come una abituale operazione di compravendita. Ma non possiamo non chiederci perché Bossi abbia voluto lanciare questa profezia così amara e tutto sommato così pericolosa proprio per questo governo e il suo presidente, dal momento che non si vede chi mai potrebbe comprare un risultato di questo tipo...

A chi giova questa accusa lanciata con tanta veemenza e tardivamente ritirata! Perché ha voluto sottolineare un comportamento che non appartiene alla maggioranza del Paese che non si riconosce in questo stile di vita cialtronesco, consumista, superficiale ed ipocrita, con l’unico risultato -fortunatamente positivo - di ricompattare il tifo degli italiani, facendoli stringere intorno agli azzurri, per riconfermare fiducia a Lippi, alle sue competenze tecniche e alla sua statura morale. Bossi con quelle parole che non avremmo voluto sentire, pure ha provocato una reazione virtuosa che in fondo si condensa in uno slogan che i tifosi italiani affidano agli azzurri per la giornata di oggi: giocate per vincere, ma giocate lealmente. E comunque vada a finire, viva l’Italia!

di tedeschi giocheranno a Parigi!», aveva titolato il giornale nazista Völkischer Beobachter. «E così sessanta milioni di tedeschi stavano giocando. A noi sono bastati undici giocatori», fu lo sfottò della Zürich Sport. Altrettanto inferiore alle attese fu d’altronde il risultato delle nazionali comuniste: salvo alle Olimpiadi, dove si avvantaggiavano per presentare le prime squadre di “dilettanti di Stato”, contro le nazionali giovanili degli occidentali. E non parliamo di Saddam Hussein, che sfogava le frustrazioni obbligando i giocatori non all’altezza delle aspettative a giocare partite punitive con palloni di pietra. Ma c’è pure un’altra cosa. Benchè da Berlusconi al francese Tapie, al cileno Piñera o all’argentino Macri e incominciando da Achille Lauro siano stati numerosi i politici “democratici” che hanno cercato di incrementare il consenso facendo i presidenti di squadre di calcio, in effetti proprio le modalità del tifo calcistico lo rendono una tipica attività da oppositori. Nel mondo democratico i tifosi si divertono così a ostentare i simboli di ideologie estreme come comunismo o fascismo, ma ad esempio nella Germania nazista il tifo calcistico fu il rifugio del nazionalismo austriaco dopo l’Anschluss, e anche nell’Europa comunista il malumore si sfogava spesso nel tifo contro le squadre considerate di regime: le Dinamo della polizia, salvo dove come a Zagabria, a Kiev, Tiblisi o a Dresda diventavano simbolo di identificazione regionale; o le squadre variamente denominate dell’esercito (Cska, Steaua, Partizani, Partizan...). In Libia poi il tifo contro una squadra sostenuta dai figli di Gheddafi degenerò una volta in una sommossa di strada, mentre in Iran il governo arrivò a ordinare alla Nazionale di farsi eliminare dal mondiale, pur di evitare feste in strada occasioni di imbarazzanti comportamenti antiislamici. Compresi i balli di tifose donne senza velo, che poi si mettevano pure ad abbracciarsi e baciarsi con maschi.

Anche il tifo per il Barcellona o per l’Atletico Bilbao fu nella Spagna franchista un rifugio per nazionalismi regionali altrimenti vietati. Ma i successi internazionali del Real Madrid, come pure quelli del Benfica con Salazar ancora al potere o la vittoria dell’Argentina della Giunta Militare ai mondiali del 1978 dimostrano come in realtà i regimi autoritari si trovino col calcio più a proprio agio che non quelli totalitari. Probabilmente, perché mentre in un regime totalitario le reti del tifo fanno concorrenza alle strutture di mobilitazione del regime, in un regime autoritario aiutano invece a distrarre le masse dalla politica. Insomma: forse le vittorie dell’Italia ai mondiali del 1934 e del 1938 dimostrano che il regime fascista fu in realtà autoritario e non totalitario più che le stesse pagine di Renzo De Felice.


diario

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Tensioni democratiche. Un ex del Ppi sarà nominato coordinatore del partito nel Lazio: sostituirà un bersaniano

Il doppio binario dei popolari Polemiche su feste e simboli, trattative continue sui ruoli-chiave nel Pd ROMA. «Polemiche nel Partito democratico sul nome da dare alle feste estive: festa dell’Unità o festa democratica». È difficile fare una stima di quante volte questa frase sia apparsa sui giornali degli ultimi tre anni, come illustrazione plastica dell’eterna – e tutt’ora insoluta – querelle su quanto il Pd sia un’evoluzione dei partiti che lo hanno preceduto o un soggetto completamente nuovo. Il tema è tornato attuale nei giorni scorsi, quando a Roma i popolari hanno manifestato notevole nervosismo per il fatto che il coordinatore cittadino, Marco Miccoli, nel descrivere alcuni aspetti logistici si fosse riferito alla «festa dell’unità». Il senatore Lucio D’Ubaldo ha parlato di «nostalgica difesa dell’espressione storica di un partito, il Pci, sciolto vent’anni fa sull’onda del fallimento del socialismo sovietico». Giorni di discussioni e polemiche per arrivare alla più classica delle conclusioni inconcludenti: la festa estiva del Pd a Roma si chiamerà “Festa democratica cittadina-Festa dell’Unità di Roma 2010”.

Caso chiuso, insomma, ma la vicenda dice di più della semplice incapacità del Pd di affrancarsi da questo genere di beghe. Altrettanto rivelatrice è lo scandalo suscitato dal’appellativo «compagni» rivolto sabato scorso alla platea del Palalottomatica dall’attore Fabrizio Gifuni. Anche in questo caso i popolari si sono fatti notare tra le prime file dei censori. Polemiche che sono l’ultimo indizio del

di Francesco Costa

tervista di Franco Marini al Corriere della Sera, a proposito del «dominio ds nel Pd» e del fatto che «un partito erede della sinistra non basta». Che ci sia un forte malessere nell’ala popolare, quindi, è un fatto noto ed evidente, emerso anche alla riunione “formale” convocata al Nazareno un paio di giorni fa per discutere del bilancio della Margherita – riunione a cui ha preso parte anche il fuoriuscito Francesco Rutelli. Meno evidenti sono però le ragioni della continua esternazione di questo di-

Dietro le liti sulla parola «compagni» c’è il timore di essere egemonizzati dagli ex Ds. Resta il no del segretario a un vice espresso dalla minoranza crescente malessere degli ex Ppi: i quali dalla fine della fase congressuale non perdono occasione per criticare Bersani e lamentare il fatto che il Pd stia diventando sempre più stretto. Nelle ultime settimane il problema si era posto discutendo del rapporto tra il democratici e altre forme associative (la massoneria, ma anche CLlo l’Opus Dei): Beppe Fioroni aveva parlato di «scompiglio» tra i cattolici del partito, criticando fortemente l’operato della commissione di garanzia. Poi è arrivata l’in-

sagio, e le possibili evoluzioni di questa rumorosa dialettica. A lungo si è speculato sulla possibilità che un drappello più o meno numeroso di popolari potesse uscire dal Pd per seguire proprio Rutelli. Più di qualcuno in questi mesi non ha fatto mistero di considerare incompiuto il progetto del Pd, definendo l’operato di Bersani come una morbida restaurazione: un ritorno al passato a fronte del quale trovare nuove soluzioni. La realtà però sembra essere ben diversa: se con una mano i

Cosa vogliono Marini e Fioroni da Bersani

Un nuovo patto di sindacato di Antonio Funiciello è una regola aurea tra gli ex comunisti della seconda repubblica: il centrosinistra si governa al centro con un asse di ferro con gli ex democristiani di sinistra. Nella seconda metà degli anni Novanta, D’Alema (segretario Pds) e Marini (segeretario Ppi) si sentivano dieci volte al giorno. Furono loro a promuovere l’Ulivo di Prodi e loro ad abbatterlo con un colpo d’ascia, servendosi delle eccentricità bertinottiane. Fu sull’asse D’Alema-Marini che si estese l’alleanza del centrosinistra a Mastella e Cossiga e si formarono i primi governi a guida post comunista della nostra storia. Dopo la vittoria di Berlusconi del 2001, l’asse D’Alema-Marini stava dietro ogni accelerazione o rallentamento subito dal progetto del nuovo partito, apparentemente per opera dei due segretari di Ds (Fassino) e Margherita (Rutelli). Col Pd poi, l’asse al centro del partito fu subito tra Veltroni segretario e Fioroni responsabile organizzazione. Non si sfug-

C’

ge: il centrosinistra si governa al centro con un mini compromesso storico d’apparati. Bersani, di suo, s’è scelto Letta e la Bindi al posto del duo Marini-Fioroni, non smentendo la regola aurea dell’asse al centro. Il disagio di Marini e Fioroni sta tutto in questa scelta di Bersani, a cui essi rimproverano che l’accordo dovrebbe invece farlo con loro, perché i voti popolari sono loro a controllarli. Una rivendicazione di per sé fondata e legittima, ma che dà l’idea di cosa sia oggi il Pd: una società in costante perdita, in cui un po’ di azionisti forti pretende di far rispettare le proprie quote azionarie, contro po’ di azionisti deboli che detengono posizioni di comando sproporzionate rispetto alla loro presenza nel capitale. Considerando le regole del ridicolo capitalismo italiano, è così più chiaro capire cosa chiedono Marini e Fioroni a Bersani: un nuovo patto di sindacato. Che prima o dopo Bersani - lui stesso azionista debole del Pd - sarà costretto a concedergli.

popolari accusano la leadership del Pd di avere rinunciato all’ambizione di creare un soggetto nuovo, con l’altra chiedono a Bersani di essere coinvolti direttamente nella gestione del partito e nella definizione della sua linea politica. La scissione viene agitata come uno spauracchio, ma difficilmente chi non è andato via dopo il congresso lascerà il partito oggi o comunque prima delle prossime elezioni politiche. Si chiedono invece incarichi, responsabilità, ruoli di dirigenza: le famose “chiavi di casa” a cui Franco Marini faceva riferimento, prima ancora che nell’intervista rilasciata al Corriere, durante il suo discorso all’assemblea dello scorso novembre. Non è un segreto che i popolari abbiano a lungo pressato per ottenere un vicesegretario da affiancare a Enrico Letta, un ruolo che secondo molti sarebbe dovuto andare a Sergio D’Antoni. La stessa cosa è avvenuta in molte altre regioni, all’indomani dei congressi. E se Bersani ha sempre rifiutato di dare un vicesegretario alla minoranza, in giro per l’Italia sono successe cose molto diverse. L’esempio più evidente riguarda proprio il Lazio. Il candidato di Bersani alla segreteria regionale, Alessandro Mazzoli, uscì dalle primarie senza la maggioranza assoluta: gli fu indispensabile l’appoggio dei popolari, che avevano sostenuto Roberto Morassut, per essere eletto dall’assemblea regionale. Ora i popolari hanno tolto il loro appoggio a Mazzoli, che si è dimesso, e chiedono l’incarico di segretario regionale, che con ogni probabilità andrà a Enrico Gasbarra.

Lungi dall’isolarsi o dal preparare le valigie, i popolari hanno tentato di essere coinvolti nelle decisioni del partito ovunque ne abbiano avuto la possibilità: per incidere sulla linea politica del Pd ed evitare l’emarginazione alla quale la vittoria di Bersani rischiava di condannarli. Gli sforzi sono andati a buon fine in alcune realtà locali, non ancora sul piano nazionale: ma non è detto che non possa accadere da qui al 2013. Fino ad allora ci saranno altre polemiche, sfoghi, trattative e discussioni accese: ma niente di più. I popolari vogliono contare, ma nel Pd. Non fuori.


diario

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Il legale: «Solo un vizio procedurale. Ripresenteremo la nostra istanza»

Al via oggi l’ultima udienza del’appello a Palermo

Niente libertà condizionale per Renato Vallanzasca

Processo Dell’Utri, entro sabato la sentenza

ROMA. Renato Vallanzasca resta in carcere. Lo ha stabilito ieri il Tribunale di Sorveglianza respingendo la richiesta di libertà condizionata presentata dal suo legale, giudicata “inamissibile” per un difetto formale: «Il giudice Fadda - ha spiegato l’avvocato Bonalume - non è entrato nel merito della discussione per un difetto di procedura nella nostra domanda, al quale rimedieremo nei prossimi giorni per poi ripresentare l’istanza. Continuiamo a essere convinti di essere nel giusto perché Vallanzasca è la dimostrazione che la pena funziona, il suo cambiamento c’è stato».

ROMA. Si avvia a conclusione il processo d’appello al senatore Marcello Dell’Utri, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, dopo la condanna in primo grado a nove anni di reclusione. Questa mattina si celebrerà l’ultima udienza per le repliche del pg e le eventuali controrepliche della difesa del politico, per concludere con le dichiarazoni spontanee, non ancora confermate, di Marcello Dell’Utri. Subito dopo, i giudici della Corte d’Appello di Palermo, presieduta da Claudio Dall’Acqua - giudici a latere Sergio La Commare e Salvatore Barresi - si riuniranno in Camera di consiglio. L’udienza è stata fissata direttamente all’aula bunker del carcere Pagliarelli di Palermo, per permettere ai tre giudici di potere eventualmente pernottare al bunker nel

L’ex numero uno della “banda della Comasina» ha lasciato il Tribunale senza fare commenti. Ma, secondo le dichiarazioni del suo avvocato, si «è molto arrabbiato, perdere la possibilità di tornare libero per un difetto formale lo ha infastidito». A quanto si è appreso,Vallanzasca non avrebbe pagato una multa di tremila euro, frutto del cumulo pena di alcune condanne a lui inflitte in passato. Una “dimenticanza”che ha portato i giudici a dichiarare inammissibile l’istanza per la liberazione condizionale. Per ottenere la liberazione condizionale, però, la legge non transige: l’imputato deve aver adempiuto a tutte le obbli-

Ennesimo braccio di ferro sulla «Tessera del Tifoso» Squadre di calcio e ministero dell’Interno in rotta di collisione di Maurizio Martucci er chi ancora non l’avesse capito, è in atto un vero e proprio braccio di ferro tra il ministro dell’Interno e le squadre di calcio. L’oggetto del contendere è la famigerata Tessera del Tifoso, una fidelity card che rischia di diventare un boomerang istituzionale. E a circa due mesi dall’inizio dei nuovi campionati, si naviga a vista con ultimatum e parole che suonano un po’ come fulmini tra nubi in tempesta: «Se uno non si adegua - ha sentenziato Roberto Maroni - è perché ha deciso di non adeguarsi, cioè di non rispettare l’impegno che formalmente ha assunto nei confronti del Ministero dell’Interno con una lettera. Dopo di che, se così sarà, ne subirà le conseguenze, naturalmente!».

rebbe un altro rinvio del progetto, dopo la falsa partenza del 1° gennaio 2010? Si profila un nuovo slittamento del programma Tessera del Tifoso? «C’è una lettera scritta con l’impegno di tutti - ha concluso il ministro Maroni quindi non vedo francamente necessità di rinvii». Parole chiare e nette, suffragate dai fatti, se è vero che un mese fa, prima di partire per i mondiali in Sudafrica, dal ritiro azzurro del Sestriere due alti funzionari del Viminale hanno abbandonato la comitiva azzurra, protestando contro le dichiarazioni di Daniele De Rossi: «La tessera del tifoso non mi piace - aveva detto il centrocampista di Marcello Lippi - allora perché non fare anche la tessera del poliziotto?».

Per capirci meglio, ad oggi l’85 per cento delle 132 società di Serie A, B e Lega Pro non hanno ancora la Tessera del Tifoso. E pare difficile che in sessanta giorni si riesca a fare miracoli alPer l’italiana. questo il Ministro Maroni attacca le società inadempienti, intimando di farle giocare senza pubblico, a porte chiuse nelle gare a rischio. Molti stadi non sono ancora a norma per assenza di tornelli e di lettori dei microchip a radio frequenza che validerebbero gli accessi. Si vogliono far saltare i piani? Qualcuno rema contro Maroni? «No, sta mettendo in difficoltà chi non ha voluto adeguarsi in tempo, magari pensando che a non adeguarsi il ministero dell’Interno potesse ripensarci. Non è così. Ne parliamo da due anni, c’è stato tutto il tempo... è un po’ il malcostume italico quello di non adeguarsi alle novità e poi arrivare il giorno prima e chiedere il rinvio». Novità, certo, ma non un obbligo di legge. Forse per questo i club si sono sentiti liberi di scegliere. Aderire alla tessera o non farla per niente. E se qualcuno dovesse presentarsi impreparato ai nastri di partenza? Si prospette-

Una battuta costata una guerra di nervi tra Roberto Maroni e la Figc che intanto, insieme alla Lega Calcio, si è vista recapitare una lettera dai vertici FederSupporter che chiedono una moratoria per la Tessera del Tifoso, appellandosi al testo unico in materia di documentazione amministrativa: «Non c’è bisogno del vaglio della black list delle Questure - ha detto l’avvocato Massimo Rossetti, responsabile legale del nuovo sindacato nazionale unitario dei tifosi, riunitosi in convegno a Roma - Chiediamo una moratoria. È sufficiente che all’atto d’acquisto dell’abbonamento o del biglietto, l’acquirente fornisca una contestuale autocertificazione, magari attraverso un modulo predisposto dal ministero dell’Interno, con il quale si può certificare a norma di legge di non aver riportato condanne per reati da stadio e di non essere soggetto a Daspo. Il governo vuol favorire lo strumento dell’autocertificazione e il calcio fa finta di niente?». Staremo a vedere. Domani è un altro giorno. C’è ancora tempo fino al prossimo 29 agosto, prima giornata del Campionato di calcio di Serie A.

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Sono diverse le società che non hanno aderito alla fidelity-card. Roberto Maroni: «Chi non si adegua subirà le conseguenze»

gazioni civili e pecuniarie che derivano dai reati per cui e’ stato condannato. Nell’attesa che i magistrati lo chiamassero in aula sono state tante le dichiarazioni rilasciate ai giornalisti da Vallanzasca: «La mala non è più quella di una volta oggi i miei migliori amici sono magistrati e forze dell’ordine coi quali ho a che fare da tanto tempo. Ho un buon rapporto col giudice Fadda anche se lei mi ha rimproverato più volte di non averla aiutata ad aiutarmi con qualche mio atteggiamento in carcere... Sono ancora fumantino - ha ammesso - anche se molto cambiato: una volta me le andavo a cercare, adesso se non mi infastidiscono non faccio niente».

caso in cui la sentenza non dovesse essere emessa entro domani sera. Ed è molto probabile che la sentenza verrà emessa non prima di domani o sabato.

Un processo lungo, lunghissimo, che avrebbe dovuto già finire lo scorso anno, ma le dichiarazioni di Massimo Ciancimino prima, anche se non è mai stato sentito perché i giudici hanno rigettato la richiesta dell’accusa, e quelle del neo pentito di mafia Gaspare Spatuzza dopo, hanno allungato notevolmente i tempi fino ad arrivare ai giorni nostri. A marzo un nuovo stop alle dichiarazioni di Massimo Ciancimino. Una deposizione, la sua, ritenuta dalla Corte d’Appello «assolutamente non necessaria» ai fini della prova perché il padre, Vito Ciancimino «non ha mai avuto alcun rapporto diretto o contatto diretto persone con Dell’Utri», quindi il figlio riferisce ai giudice notizie apprese dal padre Vito che «non sono correlate neppure ad una diretta conoscenza da parte di quest’ultimo dell’imputato». Il termine ultimo previsto per il Presidente Claudio Dall’Acqua è il 30 giugno.


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economia A sinistra l’amministratore delegato di Fiat Sergio Marchionne. In basso, da sinistra: Giorgio Cremaschi, che guida la Fiom: il suo sindacato ha scelto la linea dura per Pomigliano. Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria; il leader della Cisl Raffaele Bonanni e quello della Uil Luigi Angeletti. A destra il professor Giuseppe Berta

Il dilemma della Fiat. Insoddisfatto dall’esito del referendum Marchionne ora accarezza l’ipotesi di delocalizzare

Pomigliano o Polonia?

La Fiom non cede: «Quel contratto lede i diritti fondamentali». Pressioni del governo sul Lingotto per rispettare la volontà di chi ha votato l’accordo di Riccardo Paradisi i male in peggio a Pomigliano d’Arco. La Fiat indispettita dell’esito del referendum accarezza ora l’ipotesi di lasciare la produzione della Panda in Polonia. Certo, dopo aver esibito disappunto e delusione per il risultato delle consultazioni il Lingotto ha fatto sapere che la trattativa continuerà con quei sindacati che hanno finora dimostrato di voler collaborare condividendo l’accordo. Ma intanto sul tavolo, tra gli altri strumenti di pressione, c’è anche l’opzione della delocalizzazione.

D

Non è un mistero del resto che l’amministratore delegato del Lingotto Sergio Marchionne si aspettava un plebiscito di si, confidando in una percentuale di assensi almeno dell’80%. Il plebiscito invece non c’è stato e solo poco più del 60 per cento dei dipendenti di Pomigliano ha votato si all’accordo sul contratto. Non è facile, dicono in Fiat, gestire una fabbrica con un dissenso sull’accordo così alto. Dissenso «incomprensibile e negativo», secondo il presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, sbalordita «che ci sia un sindacato che non comprende queste sfide in nome di principi astratti». Laddove i principi astratti sono, secondo la posizione della Fiom, concretissime e

proibitive condizioni di lavoro per gli operai di Pomigliano a cui si deve aggiungere la soppressione di diritti fondamentali tra cui il diritto di sciopero. Una tesi controversa quella della compressione del diritto di sciopero nel contratto mentre è indiscutibile che le condizioni di lavoro previste dall’accordo di Pomigliano siano durissime. Sta di fatto che per la Fiat queste sono “argomentazioni pretestuose”che mettono a rischio il piano per il rilancio. La Fiat apprezza invece «il comportamento delle Organizzazioni Sindacali e dei lavoratori che hanno compreso e condiviso l’impegno e il significato dell’iniziativa di Fiat Group Automobiles per dare prospettive allo stabilimento Giambattista Vico di Pomigliano».

Resta il dato che il dissenso emerso dalla consultazione di martedì ponga una seria ipoteca sugli investimenti da 700 milioni di euro per rilanciare la fabbrica di Pomigliano; il risultato del referendum infatti non è sufficiente per convincere la Fiat a investire su una zona già storicamente problematica in termini di assenteismo e di produttività. Secondo la Fismic – sindacato autonomo nato da una scissione dalla Cisl – sarà dunque addirittura ineluttabile la decisione del-

la Fiat di portare in Polonia la produzione della Panda e della Ipsilon. Per questo c’è chi ora spinge perché come estrema ratio venga messa in campo la cosiddetta “Ipotesi C”, con la costituzione di una Newco per evitare che l’esito di questa durissima trattativa sia l’abbandono della Fiat di Pomigliano.

Intento che Marchionne – secondo osservatori non ingenui – aveva sempre avuto in mente sin dall’inizio: non portare la Panda in Italia, non investire nel nostro paese e sostanzialmente rimettere in discussione lo stesso progetto di Fabbrica Italia. Se così fosse la Fiat avrebbe giocato due parti in commedia, aspettandosi o addirittura auspicando, che il consenso di massa a un contratto pesante per i lavoratori non ci sarebbe stato. Ammesso che sia così sarebbe un falso scopo polemizzare con la Fiom stornando su Cremaschi e compagnia tutte le responsabilità di quello che potrebbe avvenire di negativo nell’area di Pomigliano. Da parte sua la Fiom non retrocede di un metro e anzi rilancia: per Pomigliano c’è una sola via – come sostiene Giorgio Cremaschi – «affrontare la questione con il consenso vero e non con quello imposto o estorto, riaprendo le trattative

e cambiando l’accordo. Se invece si vuole andare avanti con la pressione, l’intimidazione e il ricatto – impostazione che, come si è visto dall’esito delle votazioni, non ha ottenuto il risultato sperato – non si giunge a nulla». La Fiat – queste le condizioni poste dalla Fiom – deve togliere dal tavolo gli elementi di disaccordo che ha introdotto: «Se si applica il contratto nazionale di lavoro la Fiat può arrivare a 18 turni di lavoro che è un sacrificio, senza però forzature su pause, diritti e dignità». Le minacce di abbandono di Pomigliano fatte trapelare dall’azienda torinese comunque hanno avuto come risultato quello di compattare il largo fronte di chi ha caldeggiato l’accordo e che ora parla dell’obbligo di Marchionne di essere conseguente al risultato del referendum.

«L’opzione che si presenta a Fiat è solo quella di confermare la validità dell’accordo – dice il segretario della Uil Luigi Angeletti – e quindi l’investimento da realizzare nei prossimi mesi per trasferire la produzione della Panda nello stabilimento di Pomigliano». No, fermo, ad un ripensamento di Fiat su Pomigliano anche dal leader della Cisl, Raffaele Bonanni: «Se Marchionne volesse fare un passo indietro la Cisl sarà contro. Se si


economia

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L’intervista. L’opinione dello storico dell’Industria e del sindacato ROMA. Vince ma non sfonda il sì al referendum che si è svolto allo stabilimento Fiat di Pomigliano d’Arco: un voto che è servito ai lavoratori per esprimere il proprio consenso o meno all’intesa tra la Fiat e le sigle sindacali, eccetto la Fiom. I sindacati si dicono soddisfatti del 63% dei consensi circa conquistato dal sì mentre il ministro Sacconi afferma che «adesso il Paese è più moderno». Professor Giuseppe Berta lei, che è uno storico dell’Industria e del sindacato, è d’accordo con il ministro Sacconi: così il Paese è davvero più moderno? Mi permetto di dire che l’affermazione del ministro Sacconi appare un po’ troppo ottimistica. Non dimentichiamoci che da una buona parte dei lavoratori di Pomigliano il referendum è stato in un certo senso subito e non voluto. Credo che si sarebbe potuto parlare di Paese più moderno se il voto fosse riuscito a spostare le posizioni di Fiom e Cgil e per fare ciò, ovviamente, innanzi tutto ci voleva un risultato pressoché plebiscitario. Secondo lei con questo voto cambia qualcosa nel mondo del lavoro? Potrebbe cambiare qualcosa solo se al contratto di lavoro nazionale, sempre messo davanti a tutto da Cgil e Fiom, si arrivasse a trattare sulla base di contratti decentrati, a seconda del territorio, della storia, dei soggetti. La Fiat però si aspettava un consenso molto più ampio, secondo lei perché? Io non credo che i vertici Fiat si attendessero davvero una votazione plebiscitaria. D’altronde si sa tutto o quasi della

«Cosa c’è dietro quel 36 per cento» Giuseppe Berta: «Cambierà poco finché ci sarà un dissenso aprioristico più o meno ampio» di Francesco Capozza storia di quella fabbrica. In più anche il territorio è abbastanza difficile, quindi credo che previsioni troppo positive proprio non era il caso di farle. Perché al 36% degli aventi diritto al voto quell’accordo non piace? Non credo che rispecchino numericamente gli aderenti alla linea della Fiom. Piuttosto ritengo che quella percentuale sia il segno di un certo malcontento operaio contro la politica, tutta. D’altronde negli ultimi tempi c’è chi ha definito gli operai di quella fabbrica come assenteisti e di poca qualità. Ecco, a mio avviso quel 36% rappresenta coloro che non ci stanno ad essere definiti così dalla politica e dalla grande industria.

dovesse verificare un’ipotesi del genere con la stessa forza con la quale abbiamo difeso i posti di lavoro saremo contro ad un abbozzo di ripensamento».

Stessa musica nella Cgil. Addirittura il ministro del Welfare Sacconi – secondo il quale l’accordo di Pomigliano apriva la breccia a una nuova era di contrattazioni nel mondo del lavoro – si esprime in termini assertivi nei confronti di Fiat: «Non voglio nemmeno ipotizzare che Fiat cambi idea. Fiat deve rispettare l’accordo. Credo che debba farlo dopo questo travagliato percorso. Non voglio nemmeno pensare ad un’ipotesi diversa, non ce ne sono le ragioni e sarebbe un’ipotesi assurda e molto grave». A fare ”pressione positiva” sulla Fiat è anche Confindustria ricordando con il

rizzata. Oggi sembra essere diventata il sindacato che non sigla gli accordi, che interrompe le trattative, che in un certo senso mette i bastoni tra le ruote. Più che un sindacato autonomo e autorevole tra gli operai sembra diventata l’opposizione interna alla Cgil. Non vedo più da tempo quella dirigenza sindacale caratterizzata dalle acute posizioni riformiste, ed è certamente un peccato. Sempre secondo Sacconi «vi sono tutte le condizioni per realizzare il promesso investimento in un contesto di pace sociale». Lei crede che questa “pace sociale”sia davvero possibile in un Paese come il nostro, diviso su tutto? Francamente ci credo poco.

Negli ultimi 15-20 anni la Fiom ha perso il suo patrimonio di riformismo che l’aveva per lungo tempo caratterizzata. Sembra diventata l’opposizione interna alla Cgil Che ne pensa delle posizioni della Fiom? Credo che negli ultimi 15-20 anni abbia perso il suo patrimonio di riformismo che l’aveva per lungo tempo caratte-

presidente Emma Marcegaglia che «la maggioranza dei lavoratori ha votato a favore e tutti i sindacati, tranne uno. La strada è ora andare avanti sul piano e capire come rendere questo contratto fattibile». Marcegaglia ci tiene a tenere il punto anche su un altro aspetto, non secondario, del dibattito che s’è sviluppato da Pomigliano.

E come a rispondere a chi in questi giorni ha sostenuto che questa vicenda costituisca un pericoloso precedente nel progressivo smantellamento dei diritti dei lavoratori Marcegaglia sottolinea che «L’accordo di Pomigliano riguarda solo Pomigliano. Siamo di fronte a un caso specifico. Dopo decenni di assenteismo e false malattie fuori misura, durante il quale il tasso di scioperi e di non

lavoro è assolutamente anomalo, si deve cambiare strada». Non la pensano così gli operai di Mirafiori, che davanti ai cancelli della fabbrica commentano il risultato del referendum dello stabilimento Fiat di Pomigliano d’Arco. «Si tratta di un ricatto al cento per cento – dice uno di loro – È chiaro che se ti chiedono se vuoi lavorare a condizioni peggiori o andare a casa devi per forza accettare. Se l’accordo passa a Pomigliano tra un anno ci ritroviamo nella stessa condizione anche qui a Mirafiori. Stanno usando questa faccenda dell’assenteismo come una scusa per far passare delle cose inaccettabili». Non diverso l’inquietante scenario prospettato dalla previsione che ieri il sociologo Luciano Gallino faceva su Repubblica: «Le aspre condizioni di lavoro che Fiat intende in-

Non vedo altro che continue azioni di disturbo (penso al movimentismo dei Cobas, per fare un esempio) che minano la pace sociale e non fanno altro che radicalizzare le posizioni più estreme. Intendiamoci: non dico che dobbiamo aspettarci lo scontro sociale, ma certamente nemmeno la pace. Finché ci sarà quello spillo continuo di dissenso aprioristico più o meno ampio, la pace sociale è assai lontana. Altro che pace sociale, però, a sentire la voce dell’azienda, per i vertici Fiat, infatti, è «impossibile andare avanti con chi è pretestuoso, discuteremo il futuro dello stabilimento con le sigle che hanno condiviso il nostro impegno». Che ne pensa di questa posizione? Penso che in tutta questa faccenda si sia saltato un passaggio fondamentale e cioè quello della conquista del consenso. Mi spiego meglio: la Fiat ha presentato qualche tempo fa il progetto di “fabbrica Italia”. Un piano ambizioso e molto ben fatto, che in gran parte apprezzo e condivido. Tuttavia andava gestito quello, come pure l’affare Pomigliano, con tempistiche diverse e più attente a far comprendere i vari progetti. Invece si è rincorsa subito la trattativa sindacale che, come si sa, spegne molto l’euforia del progetto. In buona sostanza, prima della “sindacalizzazione” del progetto, sarebbe stato a mio avviso più importante creare una base consensuale. Basta vedere la rapidità con cui si è andati dalla presentazione del piano industriale di Pomigliano, il 21 aprile, alla trattativa dei giorni scorsi per capire che forse è stato fatto tutto un po’ troppo frettolosamente.

trodurre a Pomigliano, dopo averle sperimentate con successo all’estero, sono la premessa per introdurle, prima o poi, in tutti gli stabilimenti italiani, da Mirafiori a Melfi, da Cassino a Termoli. Dopodiché interi settori industriali spingeranno da noi per imitare il modello Fiat. Dagli elettrodomestici al tessile al made in Italy, sono migliaia le imprese italiane medie e piccole che possono dimostrare che in India, nelle Filippine, in Romania o in Cina le loro sussidiarie vantano una produzione pro-capite molto superiore agli impianti di casa». Certo dovremmo sacrificare la nostra civiltà del lavoro, una tradizione di diritti e di conquiste, una cultura improntata all’umanesimo della produzione. Ma questo, dice Gallino, sembra ormai per molti un particolare insignificante.


politica

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Dopo la protesta. Prime aperture «interlocutorie» dell’esecutivo agli enti locali. In Senato il Pdl chiede al governo di non blindare il testo

La spuntano i sindaci Tremonti: «Gli effetti della manovra ci costeranno lo 0,5 per cento del Pil nei prossimi tre anni» di Francesco Pacifico

ROMA. Premi alle Regioni più virtuose. Maggiore autonomia fiscale ai Comuni. E la possibilità alle Province di decidere autonomamente come tagliare i fondi chiesti dalla manovra. Il tutto senza modificare i saldi, senza fare sconti o accrescere il conto da 24,9 miliardi.

Dopo il muro contro muro dei giorni scorsi, Giulio Tremonti ha fatto le prime, tiepide aperture agli enti locali, ai soggetti ai quali ha chiesto di prendersi in carico quasi la metà degli oneri per riportare entro due anni il deficit sotto il livello del 3 per cento. E se sindaci e presidenti di Province sembrano soddisfatte delle correzioni presentate dal ministro, con i governatori i rapporti restano tesi. Nel vertice con i governatori il ministro ha presentato un meccanismo che garantisce agli enti più virtuosi di poter spalmare su più anni i tagli previsti in manovra, di usare come garanzia i minori costi delle prestazioni (da calcolare però non più con i vecchi costi storici, ma quelli standard), accettando però penali più salati in caso di sforamento. L’importante è che le Regioni abbiano rispettato il patto di stabilità interno e della Salute nel triennio 2007-2009 e che abbiano uscite pari o inferiori alla media nazionale. Proposte, che però, sono state giudicate ancora insufficienti dal leader dei governatori, l’emiliano Vasco Errani: «Non chiediamo la luna, ma una manovra equa. Ciascun comparto deve fare la propria parte». Le trattative tra centro e periferia dello Stato rischiano di essere ancora lunghe. Anche se ieri molti hanno avuto l’impressione che il ministro guarda con preoccupazione anche al passaggio parlamentare. Non a caso il relatore del testo, il presidente della commissione Bilancio Anto-

nio Azzollini, ha detto di «auspicare l’impegno del governo, qualora la commissione concluda i propri lavori, a porre l’eventuale questione di fiducia in aula su un testo corrispondente a quello licenziato dalla Commissione». Ieri si è iniziato, anche se lentamente a discutere degli oltre 2.500 emendamenti presentati. E accanto ai rumors su norme per facilitare la costruzione di nuovio casino, Azzollini si è detto pronto a far saltare l’abbassamento dal 85 al 74 per cento dell’invalidità per ottenere pensioni e accompagnamenti. Mentre il sottosegretario all’Economia, Luigi Casero, ha spiegato che risorse alla scuola potranno arrivare soltanto attraverso «politiche di riqualificazione della spesa pubblica, come per esempio un diverso rapporto insegnanti e studenti nelle

Il Tesoro garantisce ai primi cittadini meno vincoli sul patto di stabilità interno e ne ottiene il placet per la Imu, la tassa che sostituisce l’Ici scuole. Che si deve abbassare». Al netto degli oltre mille emendamenti presentati al Senato, la maggioranza è convinta che questa manovra vada integrata con provvedimenti di sviluppo. E lo è ancora di più dopo aver letto una nota integrativa del Tesoro alla Ruef, secondo la quale la Finanziaria è depressiva al punto da far calare il Pil dello 0,5 per cento nel triennio 2010-2012, con la crescita per l’anno in corso in aumento non più dell’1 per cento ma dello 0,9. Per la cronaca, l’economista e presidente della commissione Finanze di Palazzo Madama, Mario Baldassarri, ha sti-

mato un effetto negativo sul prodotto interno lordo dell’uno per cento. Ipotesi che sono sufficienti a far temere un’ulteriore intervento sui conti pubblici a fine anno, se la dinamica dell’export e il servizio sul debito pubblico non registreranno un andamento migliore. E il tema è talmente sentito che Emma Marcegaglia ha ricordato che accanto alla «necessità di rimettere a posto i saldi di bilancio» con la manovra di luglio, nella «finanziaria di settembre ci sia uno spazio serio per gli investimenti in innovazione e ricerca». Quanto le scelte del ministro dividano trasversalmente la politica italiana, lo si è compreso ieri mattina alla manifestazione dei sindaci e presidenti di Provincia a piazza Navona, alle spalle del Senato. E con i tricolori e le fasce blu listate a lutto c’erano amministratori di destra quanto di sinistra. In un consesso così bipartisan che c’è stato chi – come il primo cittadino di Varese, Attilio Fontana – ha preferito abbandonare il presidio dopo aver sentito l’intervento di Pier Luigi Bersani. Perché accanto a concetti ribaditi dagli altri oratori, il leader del Pd ha anche sottolineato: «Se Bossi vuole venire a spiegare perché da quando c’é il federalismo delle chiacchiere i Comuni sono messi sempre peggio sarebbe il benvenuto, perché sta arrivando una botta micidiale ai servizi targata Lega».

Più in generale era alta la tensione che si respirava in piazza Navona. Il sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, prima ha fatto sapere che «se non arriva dal ministro dell’Economia una convocazione di Comuni, Province e Comunità Montane noi lo riterremo un atto di ostilità e ad ostilità si risponde con ostilita». Quindi ha ottenuto un lunghissimo applauso spiegando che «non esistono Co-

muni più o meno virtuosi, non c’è differenza fra Nord e Sud. Piuttosto c’è un patto di stabilità che non riflette più le realtà dei Comuni e va modificato».

Il primo cittadino di Bari, Michele Emiliano, ha stigmatizzato l’atteggiamento di «un ministro dell’Economia spara la notizia di una nuova tassa sulla casa il giorno che già esisteva, ed era l’Ici, senza scusarsi per averla tolta. Qui la confusione è totale». Il presidente della provincia, Nicola Zingaretti, ha sottolineato «la contraddizione di un governo che, pur dicendosi federalista, fa seguire fatti diverse dalle sue parole». Mentre il torinese Antonio Saitta si «è lamentato di aver in cassa 178 milioni per pagare dei lavori già eseguiti, ma di non poter girarli alle aziende interessate». È per evitare ulteriori polemiche che Giulio Tremonti ha deciso in corso d’o-


politica

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Il centralismo giacobino ignora le mille realtà del Paese

Più potere (fiscale) ai municipi d’Italia Si dovrebbe ridisegnare una mappa della Penisola più aderente alla realtà di Marco Respinti possibile che esistano due verità diverse ma entrambe giuste su una stessa questione? In politica e talora in storia sì. Ha ragione infatti il presidente della Camera Gianfranco Fini nel dire che la Padania non esiste tanto quanto ha ragione Roberto Cota, presidente della Regione Piemonte, ad affermare perentoriamente l’esatto contrario, che sì, la Padania eccome esiste. Se capisco bene, Fini dice che una entità amministrativa come la Padania non c’è, non c’è mai stata e forse – siamo in Italia – non ci sarà mai. Che dunque è inutile e persino dannoso comportarsi come se essa fattualmente esistesse, dotandola cioè di una certa soggettività nonché di potestà interlocutoria con il governo centrale. Sull’altro fronte, ha però altrettanto ragione Cota nel ribadire, comunque la si pensi, che quell’area, vasta, che la Lega Nord da tempo definisce a più o meno felicemente Padania (i cui confini sono certi su tre lati, ovest, nord ed est, ma non sul quarto, il sud), c’è e batte più di un colpo, costante, ritmato, pesino in crescendo. Esiste infatti una parte del Paese, il Nord, che è ben distinguibile, per una serie di questioni note a tutti, dal resto della Penisola, e questo è tanto vero quanto irritante è continuare a ignorare le profonde diversità che oggi contraddistinguono il Nord, il Centro e il Sud del Paese. C’è, insomma, decisamente, e da tempo, una “questione settentrionale”non meno grave della“questione meridionale”.

È

Il sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, arringa le folle durante la manifestazione dell’Anci che si è tenuta ieri a Roma davanti al Senato pera di convocare anche i rappresentanti dell’Anci e dell’Upi. E i toni sono stati molto diversi da quelli usati nelle polemiche a distanza tra le parti in queste ultime settimane. Tanto da far commentare a Sergio Chiamparino che «con la giornata di oggi possiamo dire di aver smosso le acque sui temi che ci riguardano più da vicino». Il ministro dell’Economia ha dato la disponibilità a rivedere i criteri del Patto di Stabilità, a permettere l’utilizzo di parte dei residui passivi per il 2010 e ha accettato di rivedere la distribuzione dei tagli previsti dalla manovra. Ma la svolta è arrivata con la service tax, o Imu (imposta municipale unica). Dopo aver chiarito che saranno esclusi dal pagamento i proprietari della prima casa, il titolare dell’Economia e quello

per la Semplificazione normativa, Roberto Calderoli, hanno fatto intendere di voler raggiungere un doppio risultato: accrescere il livello di autonomia impositiva dei Comuni e far aumentare le risorse per questi enti.

Soddisfatto anche il fronte delle province. Il presidente dell’Upi, Giuseppe Castiglione, ha fatto sapere che il governo ha accettato «che la conferenza Stato-città e la conferenza unificata saranno le sedi nelle quali si deciderà come spalmare i 300 milioni di euro di tagli relativi alle Province per il 2011». Per capire se la tregue reggerà, bisognerà aspettare il testo che arriverà in Senato. Non a caso Chiamparino ha fatto notare che «sulla manovra in sé, restiamo per ora su posizioni interlocutorie».

Il problema è infatti il come è stata fatta, maluccio, l’Italia. No, non voltate pagina pensando che voglia rimandare tutto ai massimi sistemi onde sfuggire il problema. 150 anni dopo, la questione è più attuale e politica che mai. Il come fu fatta l’Italia allora (speriamo qualcuno affronti seriamente il problema l’anno venturo tra un brindisi e l’altro) determina infatti direttamente il perché oggi il Paese è squilibrato e azzoppato, in modi diversi ma equipollenti, al Nord, al Centro e al Sud. La forma Stato-nazione, il centralismo di marca giacobina, l’avere intenzionalmente ignorato le mille e variegate realtà concrete del Paese hanno fatto sì che l’impianto istituzionale e amministrativo nostrano tarpasse l’autentica rappresentanza del Paese in parlamento: cioè quella anche dei territori, oltre che delle persone, ergo dei territori abitati da persone, da storie, da tradizioni, da problematiche assolutamente specifiche e particolari. Con tutti i suoi difetti, è questo il caso, da sempre, degli Stati Uniti d’America, dove si cerca di sposare al meglio la rappresentanza storico-territoriale (il Senato che rappresenta gli Stati del-

l’Unione) e la conta dei cittadini epperò questi riconosciuti come abitanti di realtà concrete e precise, cioè Stato per Stato, secondo logica, appunto, sempre storico-territoriale (Camera dei deputati) e non come si trattasse di massa gelatinosa.

Il modo in cui è stata sviluppata l’Italia, dove il centralismo è stato al massimo poi corretto con la confusione, comporta oggi un sovrapporsi di competenze che a volte tra loro si annullano, un raddoppiarsi e un triplicarsi di livelli amministrativi con relativa perdita di chiarezza quanto alla catena di comando ma soprattutto con perdita totale della responsività nei confronti dei cittadini-elettori-contribuenti, e un moltiplicarsi senza senso di quei costi e di quelle spese che opprimono i cittadini e le loro libere intraprese. Da noi non ha mai cioè funzionato il concetto stesso di organicità della cosa pubblica, lasciamo stare il federalismo. La costruzione dello Stato unitario ha sempre vissuto con inimicizia l’esistenza popoli e genti, di lingue e tradizioni, di storie e di realtà economiche diverse, e così le ha conculcate più che ha potuto finché ha potuto. Poi è venuta l’istituzione delle Regioni, che non è il federalismo soprattutto perché è una graziosa concessione dall’alto, e quando queste, tardi, sono state messe in funzione spesso hanno funzionato male. E l’ulteriore loro rispezzettamento in unità amministrative ancora più piccole, invece di garantire la sussidiarietà, ha frequentemente riprodotto a livello locale la pressione insopportabile del centralismo. Prendi le provincie, che non è che tutti abbiamo capito a cosa servano e cosa rappresentino... Ha scritto bene ieri, su queste pagine, Carlo Lottieri, dell’Istituto Bruno Leoni. La soluzione possibile è ridisegnare una mappa della Penisola più aderente alle sue varie e variegate realtà geoeconomico-politico-culturali in modo da produrre macroaree tentativamente un poco più omogenee e in sana competizione tra loro: come lo si è tra fratelli dentro una famiglia, la quale alla bisogna sa fare quadrato a fronte di mali esterni. Il tutto affidando il massimo del potere fiscale al livello amministrativo più vicino, visibile e controllabile dalle persone abitanti i territori, ovvero generando dal basso una costruzione di una Italia finalmente fatta d’italiani che sanno cosa fare da sé e cosa fare eventualmente assieme. Ma questo comporta inevitabilmente il superamento, anzitutto sul piano culturale, della logica soffocante dello Statonazione. Ecco perché in Italia non accadrà, quanto meno presto. www.marcorespinti.org


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Una rilettura moderna di alcuni passi dei Vangeli: dalla cacciata dei mercanti dal tempio al ritorno del figliol prodigo, passando per un episodio minore... ell’episodio del Tempio il Cristo scaccia i mercanti e i cambiavalute dal recinto sacro rinfacciando loro con le parole di Geremia di aver ridotto «a una spelonca di ladri» quella che Isaia aveva detto dover essere chiamata «una casa di preghiera». La pericope è celebre ed è citata spesso come il caso raro della manifestazione della capacità profondamente umana di indignarsi che anche Gesù manifesta. Accanto ad essa, i vangeli di Matteo (21,1822) e di Marco (11,12-14) riportano però un altro momento di irascibilità di Gesù, stranamente collegato al maggiore per ragioni temporali, e molto meno comprensibile. O almeno questo ci appare dal loro racconto.

N

La mattina seguente all’irruzione nel Tempio secondo Matteo, o quella stessa giornata qualche ora prima secondo Marco, il Cristo compie l’unico miracolo che si potrebbe definire negativo, nel quale usa il suo potere per punire e non per guarire. La storia è nota, Gesù ha fame e si accosta a un fico, cresciuto lungo la strada che sta percorrendo insieme ai discepoli, per coglierne un frutto, ma in mezzo alle foglie non ne trova nessuno. Marco avverte perfino che «non era quella la stagione dei fichi». Non ci sono accenni a una delusione o a un moto di rabbia, ma la condanna si abbatte lo

Gesù non afferra la scure per tagliare la pianta, come noi chiediamo, ma ci invita a riflettere e dichiara la sua disponibilità a compiere il lavoro stesso senza remissione. In Matteo con le parole «Non nasca mai più frutto da te», alle quali segue l’immediato disseccarsi della pianta. In Marco la scena si dilata nel tempo e termina il giorno successivo, seguente alla cacciata dei mercanti dal tempio: una mattina viene lanciata la maledizione «Nessuno possa più mangiare dei tuoi frutti» e quella seguente è Pietro ad accorgersi della morte dell’albero, mentre il gruppetto ripercorre il medesimo itinerario, e a segnalarla a Gesù, quasi con stupore: «Maestro, guarda: il fico che hai maledetto si è seccato». La prima riflessione che viene in mente è relativa all’incertezza del momento della chiamata, un tema che ricorre nei vangeli, presente ad esempio nella parabola delle vergini sagge e di quelle stolte, nelle considerazioni sul padrone di casa che non sa quando arriveranno i ladri nella notte, alla necessità di

essere sempre pronti per qualcosa che ci coglierà all’improvviso senza dar tempo di effettuare nessun preparativo ulteriore. Si è soliti rendere assoluta questa occasione, facendola coincidere con la morte, la chiamata definitiva. Penso però che l’ammonimento vada considerato in senso lato, esteso a tutte le grandi e piccole chiamate che si susseguono nella vita di ciascuno e che noi moderni abbiamo tradotto nel concetto dell’ascolto. Quella che viene condannata dal Cristo è la chiusura, l’indifferenza, la mancanza di attenzione per il mondo che ci circonda e gli altri esseri umani in particolare, come mi sembra diventi chiaro se si affianca questa riflessione al messaggio contenuto in Matteo 25,3146, anticipato sempre in Matteo 10, 4042. Nel momento del giudizio il re dice ai giusti «ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; era forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi». I giusti non ricordano le occasioni nelle quali hanno avuto per il regiudice le premure che ora valgono loro la salvezza e il re spiega loro che “ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.

Non è sull’indifferenza che si costruisce un rapporto di attenzione agli altri e non credo sia un caso se la pericope sul giudizio finale si trova di seguito alla parabola delle dieci vergini e a quella dei talenti. Ciascuno costruisce ogni giorno la propria salvezza nel mondo, ricercando prima di tutto negli altri, il prossimo, l’incontro con Cristo. Basta guardarsi intorno per riconoscerLo vicino a noi, in ogni momento della vita, pronto a soccorrerci e nello stesso tempo a essere soccorso in una condizione che lui ha reso paritaria attraverso il sacrificio della croce. In questo senso la salvezza è una condizione alla quale l’uomo si deve adeguare con dolcezza, non un percorso di fatica e di privazione. Il commento di Gesù riguardo a ciò che è accaduto al fico non va però in questa direzione in Marco. A seguito dello stupore manifestato dai discepoli egli li ammonisce riguardo alla potenza della preghiera: «Tutto quello che domandate nella preghiera abbiate fede di averlo ottenuto», insieme egli dà un invito alla mitezza «Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno perdonate». Non ha senso pregare Dio se non si è in pace con gli uomini. Le parole del Cristo relative all’accaduto riferito da Matteo, anche se più stringate, sono molto simili. Si tratta con sicurezza di uno dei passaggi evangelici di comprensione più difficile, soprattutto nella versione di Marco, nella quale il fico è del tutto incolpevole per la mancanza di frutto, dato che in quella stagione non avrebbe potuto avene. Sembra di leggere una contraddizione nell’agire di Gesù, una lesione ai nostri criteri di giustizia e di amore, o forse scopriamo in questo passo un dono di comprensione per i nostri limiti umani. Per una volta il Cristo ha voluto cedere alla rabbia, un sentimento

L’albero del La radice della nostra salvezza è affidata alla chiamata di Dio. E non bisogna disperare quando i frutti non arrivano. Come nella parabola del “fico sterile” di Sergio Valzania umanissimo, per dimostrarci di conoscerlo e quindi di essere in grado di comprendere il nostro agire nei momenti peggiori e di rimanerci vicino anche in quelli.

L’accostamento con l’episodio della cacciata dei venditori da Tempio suggerisce il tema della misericordia di Dio: ben altra avrebbe potuto essere la loro pena se Gesù si fosse davvero abbandonato all’indignazione per la loro presenza irrispettosa nella casa del Padre. Quello che ha compiuto è stato solo un atto dimostrativo, un gesto simbolico, non lo scatenarsi della sua ira. Il sentimento dell’aggressività Gesù lo ha provato nella sua pienezza di uomo, ma lo ha riservato a un fico, che rimane l’unica vittima della necessità di dimostrare la radicalità dell’incarnazione. C’è in Luca un passo quasi nascosto, quattro versetti appena e fuori contesto, che viene collegato a quelli di Marco e

Matteo, che li illuminarli e ci aiuta a comprenderli. La Chiesa lo sottolinea proponendolo alla meditazione dei fedeli nel periodo quaresimale. Si tratta di una brevissima parabola nella quale il protagonista è appunto un fico improduttivo, anche nella sua stagione, collocata all’interno di una raccolta di fatti e momenti diversi della predicazione di Gesù. E’ talmente breve che alcuni hanno immaginato la pericope sia mutila, dato che il finale rimane sospeso e non si conosce quindi l’esito della storia. Non credo sia così. Altre parabole, ben più complesse, rimangono senza conclusione.

Quella del figliol prodigo, anch’essa in Luca, si chiude sul dialogo incompiuto fra il padre e il figlio maggiore, che ha protestato per l’accoglienza secondo lui troppo festosa riservata al fratello nel momento del ritorno. Non sappiamo se alla fine si sia lasciato convincere a rien-

Un particolare de “Il ritorno del figliol prodigo” di Rembrandt. In alto, un particolare de “La cacciata dei mercanti dal tempio” di El Greco. Nella pagina a fianco, una stampa d’epoca sulla parabola del fico sterile


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Non è questione di fichi ma dello scorrere della vita, del germogliare a primavera e dello schiudersi delle foglie. Se il fico non ha dato i suoi frutti è perché la chiamata non è stata abbastanza insistita e continua, o almeno Dio è disposto a pensarla così e proprio questo sta alla radice della nostra speranza di salvezza. A fronte del nostro rifiuto più cocciuto e ostinato di ascoltare la chiamata ne arriva sempre una nuova e più decisa, più insistente e determinata. Come il pastore va in cerca dell’unica pecorella smarrita e festeggia con gioia il suo ritrovamento, allo stesso modo il vignaiolo non vuole sacrificare nessuna delle sue piante. Non credo sia un caso se Luca attribuisce all’agricoltore la qualifica esplicita di vignaiolo. Nei vangeli, in tutta la bibbia potremmo dire, la vite non è una pianta qualsiasi, è piuttosto il simbolo di un modo di rapportarsi fra Dio e le sue creature. In Giovanni 15,1 Gesù afferma «Io sono la vera vite e il padre mio è il vignaiolo». L’intimità del rapporto fra il Cristo e i membri della sua chiesa è rappresentata dalla similitudine della vite e dei tralci: «Io sono la vite e voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla.» Già nel Salmo 80 la vite era stata il simbolo di Israele, che si rivolge a Dio ricordando: «Hai divelto una vite dall’Egitto, per trapiantarla hai espulso i popoli», per lamentare poi la situazione attuale di sofferenza e giungere alla conclusione piena di speranza «fa splendere il tuo volto e saremo salvi». La vigna è un luogo di dialogo fra l’uomo e Dio, è una parola ben conosciuta da entrambi, usata più volte e con ricchezza di significati.

lla speranza trare in casa e a partecipare al banchetto di riconciliazione. Lui, come tutti gli uomini, è libero di scegliere la propria risposta alla chiamata. Persino nel racconto della parabola la soluzione è aperta, Dio non impone niente all’uomo, neppure nella narrazione. La storia del fico improduttivo in Luca è semplice. Il padrone entra nella vigna e vede un fico che per il terzo anno non dà frutto; dice allora al vignaiolo di tagliarlo, perché le sue radici non impoveriscano inutilmente il terreno. Il vignaiolo si oppone alla decisione del padrone, chiede tempo per governare la pianta in modo che riprenda a produrre fichi. Attribuire un nome ai protagonisti è forse eccessivo.

Qualcuno ha voluto vedere Dio nel padrone, nel vignaiolo l’uomo retto, forse persino il Cristo mediatore, e nel fico improduttivo il peccatore. Penso sia giusto invece lasciare i personaggi nella loro astrazione, anche se la nostra prossimità con l’albero che non dà frutto non può sfuggire. Molto bella la figura del vignaiolo, che obbietta al padrone e chiede tempo, in contrasto con i moniti all’essere pronti in qualunque momento che, come abbiamo visto, provengono da altri passaggi del vangelo. La misericordia di Dio è infinita. È vero che da tre anni, la durata della predicazione di Gesù, il fico non dà frutto, ma forse non è tutta colpa sua dice il vignaiolo, vangando il terreno e concimando le radici se ne potrebbe stimolare la produzione. Chiede di poter fare il lavoro e di avere un anno a disposizione per vederne il risultato prima che la decisione di tagliare la pianta sia confermata. Nel testo latino il termine si fa ancora più vago e si diluisce in un imprecisato in futurum, il tempo della punizione può essere allontanato senza limite. La vicinanza professionale e teologica

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Come il pastore cerca la pecorella smarrita e festeggia il suo ritrovamento, il vignaiolo non rinuncia ad alcuna delle sue piante fra il vignaiolo e il buon pastore salta agli occhi. Il secondo difende le sue pecore perché le ama e non perché gli danno la lana e il formaggio. L’affetto prevale sulla convenienza, Dio ha bisogno dell’uomo perché è oggetto del suo amore non per l’utile che ne può trarre. Le preghiere sono una risposta doverosa a un atto già compiuto in pienezza, non il modo per suscitare un sentimento altrimenti assente.

Così il vignaiolo, il contadino, è affezionato alle piante del suo campo perché le accudisce ogni giorno, ha un rapporto con loro. Ci parla, come fanno quelli che coltivano con dedizioni i fiori del proprio balcone.

Nella parabola di Luca le parti non sono chiare, o forse essa ci parla su piani molteplici. La situazione non è solo quella dell’impotenza dell’uomo davanti al suo creatore e della necessità della mediazione del Cristo per realizzare il progetto di salvezza. Nel racconto l’accidia, la pigrizia del fico e dell’uomo, si affianca alla durezza sbrigativa del padrone, pronto a chiedere e a punire se non ottiene quello che desidera. Ma non è questo il Dio di amore che i vangeli annunciano. Qui scopriamo che con ogni probabilità il padrone della vigna non è affatto Dio, venuto a pretendere quello che non c’è, forse siamo noi stessi che chiediamo alla vita quello che non ci può dare e aspettiamo che altri si facciano avanti a zappare e concimare in modo che diventi possibile raccogliere i frutti. Gesù non afferra la scure per tagliare l’albero, come noi sconsideratamente chiediamo, piuttosto ci invita a riflettere e si presta a dichiararci la sua disponibilità a compiere il lavoro per noi. Ci avverte che i frutti possono venire e non ci chiede neppure di essere noi a fare fatica perché ciò avvenga. Meglio sarebbe se anche noi facessimo la nostra parte, l’importante è però che accettiamo di affidarci alla sua opera sapiente. Il fico non è morto, al contrario sta benissimo e il finale nascosto nella parabola è limpido: i frutti arriveranno. Del resto, se torniamo all’altro fico, vittima senza colpa di una richiesta giunta fuori stagione, quando i discepoli chiedono a Gesù un commento dell’accaduto ne hanno in risposta un invito alla preghiera fiduciosa: «Abbiate fede. In verità vi dico: chi dicesse a questo monte: levati e gettati nel mare, senza dubitare in cuor suo ma credendo che quanto dice avverrà, ciò gli sarà accordato».


mondo

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Rottura. Destituito il generale che aveva accusato i «mollaccioni della Casa Bianca» di non voler vincere la guerra al terrorismo

Lo strappo di McChrystal Obama gli toglie il comando in Afghanistan, ma il problema è come sconfiggere i talebani di Enrico Singer o strappo si è consumato. Il generale Stanley McChrystal non è più il comandante in capo delle truppe americane in Afghanistan. Richiamato d’urgenza a Washington dopo la sua devastante intervista al settimanale Rolling Stone, ha incontrato prima il ministro della Difesa, Roberts Gates, e il capo di Stato maggiore, ammiraglio Mike Mullen, al Pentagono. Poi ha avuto un colloquio di mezz’ora a tu per tu con il presidente Barack Obama e ha ammesso di «avere compromesso la missio-

L

dinazione, tantomeno come una clamorosa gaffe, o come lo scontro tra due personalità incompatibili. Lo strappo di McChrystal porta allo scoperto un problema molto più grosso: la guerra in Afghanistan è entrata in una fase cruciale. Alla fine di quest’anno eguaglierà, in durata, quella condotta tra il dicembre del 1979 e il febbraio del 1989 dai sovietici e rischia di concludersi allo stesso modo se, davvero, la data scelta da Obama per l’inizio del ritiro – il 2011 – sarà rispettata e se le forze americane e della coali-

Drammatici incontri prima con il ministro della Difesa e con il capo di Stato maggiore. Poi, a tu per tu, con il Presidente: «Ho compromesso la missione», ma le scuse formali non sono bastate ne». Ma le sue scuse non sono bastate. Quando McChrystal ha lasciato la Casa Bianca, si è riunito senza di lui il Consiglio di guerra.

Non poteva finire che così. Ma la vicenda del Runaway General, il generale fuori controllo (come il settimanale Rolling Stone ha titolato l’articolo che ha fatto scoppiare tutto), non può essere archiviata come un caso d’insubor-

zione cominceranno a lasciare il Paese nelle condizioni in cui si trova oggi. In altre parole, con i talebani che non sono stati sconfitti. Una responsabilità che Stanley McChrystal non si è voluto accollare e che, anzi, ha scelto di rovesciare sulle «incertezze dei mollaccioni della Casa Bianca». Tra perdere una guerra e non vincerla c’è una sottile differenza. Anche il generale Boris Gromov, che guidò la riti-

Il militare e la Casa Bianca

Stanley, un candidato per il 2012? di Massimo Fazzi he fine hanno fatto le figure carismatiche sullo stampo di John Wayne? L’America, accerchiata da nemici sparsi per il mondo, ne ha un gran bisogno: il tono soft dell’attuale presidente, le sue politiche forse lungimiranti ma sicuramente rischiose, la sua eloquenza troppo forbita sembrano non convincere la pancia del Paese, che ha bisogno di uomini rudi, taciturni e abituati allo stress. Sembra il ritratto del militare che fino a ieri guidava le truppe di Kabul. Ora che la sorte del generale McChrystal sembra essere chiara, rimane l’idea che possa rappresentare l’uomo giusto per gli Stati Uniti che verranno. Se i repubblicani stentano a riconoscere nelle sue quattro stelle la via da seguire per tornare a vincere su scala nazionale - ricordiamo che McChrystal ha dichiarato il proprio voto democratico - è vero anche che la sua è una figura in grado di trascinare. Certo, non si è fatto amare in maniera spassionata dai suoi soldati in Afghanistan, a cui ha negato bowling e fast food. Ma ha fatto impazzire i commentatori parlando fuori dai denti, anche perché il “non detto” che aleggiava nell’intervista galeotta riguarda un assioma cui gli americani sono molto sensibili: qui parliamo dei nostri ragazzi e delle loro vite. Non sono acreclute. cettate Una filosofia che piace agli Usa.

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rata dell’Armata Rossa, disse che i suoi soldati non avevano mai perso una battaglia sul campo. E che, se non erano riusciti a battere i ribelli, la colpa era del Cremino: dei politici che non avevano voluto dargli retta quando chiedeva di combattere quel conflitto come una vera e propria guerra e non come un’operazione di sostegno al regime comunista che Mosca aveva installato a Kabul. Tra l’altro, il disimpegno dall’Afghanistan era stato deciso alla

land, il generale che “perse” in Vietnam. Ma più che il futuro magari politico - di Stanley McChrystal, o il nome del suo successore, il nodo da sciogliere è la strategia americana e della Nato nel Paese delle Montagne. In nove anni di guerra sono morti quasi 1700 soldati della coalizione: 289 soltanto quest’anno. Gli americani hanno superato quota mille in febbraio, trecento sono i morti tra i militari britannici, ventisei tra gli italiani. E i risultati, purtrop-

Ma la vicenda del “Runaway General”, il generale fuori controllo, non può essere archiviata come un’insubordinazione. Mette in discussione tutta la strategia americana per uscire dal conflitto fine del 1988 da Mikhail Gorbaciov che era al potere da due anni e che aveva già rinnegato l’interventismo della dottrina Breznev. Le tentazioni di un parallelo sono forti, ma le differenze sono enormi. A partire dalle ragioni dell’intervento: la risposta all’attacco dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle ordinato da Osama bin Laden dal suo rifugio in Afghanistan.

Resta la delusione del generale che lo stesso Barack Obama aveva scelto per condurre la lotta al terrorismo e che, con le sue parole al vetriolo, ha lasciato capire che la guerra in Afghanistan così non sarà vinta. E, soprattutto, che lui non vuole passare alla storia come il nuovo William Westmore-

po, non sono confortanti. Il governo legittimo di Hamid Karzai controlla soltanto le principali città del Paese dove i talebani e i diversi signori della guerra riescono, comunque, a colpire con micidiali e sanguinosi attentati. McChrystal aveva chiesto 40mila uomini in più alla Casa Bianca e, dopo tre mesi di rinvii, Obama ne aveva concessi 30mila vincolando, però, il rafforzamento del corpo di spedizione a una data certa per l’inizio del ritiro. Anche agli alleati che, nel quadro della Nato, partecipano alla missione Isaf, erano stati chiesti rinforzi che sono arrivati con il contagocce. La questione della consistenza delle forze in campo è importante, certo. Ancora più importante, però, sono gli


mondo

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Fra gli outsider spuntano i nomi di Rodriguez, Dempsey e Stavridis

Ora la scelta da fare è fra Mattis e Odierno

Il primo guida l’Us-Jfcom, il secondo il contingente Usa di stanza in Iraq. Il presidente li stima entrambi di Antonio Picasso a prima domanda che bisogna porsi, dopo il caso sollevato dalle dichiarazioni di McChrystal, è se il Pentagono sia pronto a trovare un generale a quattro stelle che vada a sostituire l’attuale Comandante Isaf. A Washington certo non mancano gli alti ufficiali. Tuttavia la poltrona che McChrystal sta lasciando vuota – se le dimissioni non venissero accettate oggi, si tratterebbe comunque di una proroga a breve termine – costituisce un incarico politico delicato, con al tempo stesso mansioni esecutive altrettanto spinose. Alla guida delle truppe Usa in Afghanistan sono richieste doti strategiche sul campo di battaglia, capacità diplomatiche per mantenere unita l’alleanza Nato e per negoziare con il Governo di Kabul. Il successore di McChrystal deve saper fare la guerra e mantenersi lucido nella sua attività politica. Il valzer dei generali che è cominciato fra Capitol Hill e la Casa Bianca fa pensare che il bastone del comando venga ceduto al generale James Mattis, al vertice del Joint Forces Command (UsJfcom), in pratica il corrispondente dell’italiano Comando operativo interforze (Coi). Mattis è un marine tutto d’un pezzo e noto con il nome di “chaos”. Arruolato dal 1972, vanta un cursus honorum di tutto rispetto. Ha preso parte alle grandi operazioni militari degli Stati Uniti. Ha combattuto sui fronti dell’Iraq nel 1991 (operazione Desert storm), per poi tornarci nel 2003. È stato proprio all’inizio della seconda guerra del Golfo che questo rude generale ha lanciato lo slogan “pochi buoni amici, pochi peggiori nemici”. Una sorta di “meglio soli che male accompagnati”che Mattis indirizzava all’Europa, volendone sminuire lo scarso appoggio fornito agli Stati Uniti nell’operazione Iraqi Freedom. In realtà, questa schiettezza non giocherebbe in favore di Mattis, se davvero venisse nominato comandante di Isaf. A Kabul è necessario un leader che sappia essere primus inter pares. Mattis ha già dato prova di non essere disponibile a sentire il parere altrui. A questo punto Washington potrebbe optare su John Allen, anch’egli marine e attuale vice Comandante del Centcom, quindi numero 2 del generale David Petraues. In questo caso bisogna capire se l’autore della surge in Iraq sia disposto a rinunciare a un valido componente della sua squadra, nata da poco più di un anno. Allen peraltro non è nemmeno un four star general. Le sue tre stellette di tenente generale ne fanno un militare operativo a tutti gli effetti, quindi svincolato da incarichi politici diretti. Gli altri nomi che sono

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Il generale Stanley McChrystal, fino a oggi comandante supremo del contingente americano in Afghanistan. A destra il generale James Mattis, noto come “chaos”, che guida l’Us-Jfcom obiettivi. E non è un caso che l’unica difesa della linea del generale McChrystal è arivata dal palazzo presidenziale di Kabul.

Sostituire il capo delle forze americane in Afghanistan «non sarebbe d’aiuto alla pace e alla stabilità nella regione» ha fatto dire il presidente Karzai al suo portavoce, Waheed Omar. «Il presidente è convinto che ci troviamo in una congiuntura delicata con i nostri partner, nella guerra al terrorismo, nel processo per riportare la pace nel Paese e che qualsiasi interruzione in questo processo non sarebbe opportuna», ha dichiarato testualmente il portavoce incontrando i giornalisti a Kabul. E Karzai stesso aveva riconfermato la sua fiducia al generale McChrystal nella riunione in videoconferenza con Barack Obama che si era svolta martedì scorso, quando alla Casa Bianca, le indiscrezioni sul lungo articolo del settimanale Rolling Stone erano già arrivate. Ma per Obama il problema era ben altro. Come ha scritto il Washington Post il presidente non aveva alternative: doveva «semplicemente comunicare a McChrystal il licenziamento in tronco, altrimenti non avrebbe potuto conservare la sua credibilità». Che è già in pauroso calo: secondo gli ultimi sondaggi, Obama è considerato «un leader forte» dal 57

per cento degli americani contro il 77 per cento dell’anno scorso. Non solo. Era in gioco anche un altro sacro concetto: il controllo del potere civile su quello militare.

Tutto vero, ma sul tavolo di Obama c’era anche anche un’altra possibilità. Quella di rimandare il generale Stanley McChrystal a Kabul dopo una bella lavata di testa e con un mandato chiaro su come svolgere i propri compiti. Era la tesi sostenuta ieri dal New York Times in un editoriale intitolato «Il Presidente e il suo generale» che interpretava un timore molto diffuso negli ambienti militari e politici. Quello di mettere ulteriormente in forse, con un cambio della guardia al vertice del corpo di spedizione, le possibilità di un successo militare significativo che è ufficialmente nei piani della Casa Bianca perché rafforzerebbe il governo di Hamid Karzai e consentirebbe l’avvio del ritiro dei soldati entro l’anno prossimo senza che questo appaia come una fuga. O, come sarà molto più probabile, rinviando i tempi dell’annunciato disimpegno. Tanto che su un punto concordano tutti gli osservatori americani: l’amministrazione Obama ha bisogno di riprendere in pugno la strategia in Afghanistan il più presto possibile.

stati suggeriti sono quelli di David Rodriguez, Martin Dempey e di James Stavridis. Il primo è il vice di McChrystal all’Isaf. Questo potrebbe costituire un motivo valido per elevarlo di grado, ma al tempo stesso un rischio.

Affidandogli la guida della guerra in Afghanistan, Obama sarebbe sicuro delle competenze di Rodriguez in merito al contesto di guerra. Resta il dubbio che questo generale non la pensi allo stesso modo di McChrystal e che, improvvisamente, anch’egli non se ne esca con dichiarazioni altrettanto devastanti per l’esta-

Alla guida delle truppe statunitensi sono richieste doti strategiche sul campo di battaglia ma anche capacità diplomatiche per mantenere unita l’alleanza fra Nato e Kabul blishment di Washintgon. Dempsey è invece l’attuale responsabile dell’addestramento e della formazione dell’Esercito Usa. L’incarico è di “teoria”, ma questo generale ha alle spalle lo stesso curriculum di guerra dei suoi parigrado. È quasi da escludere a priori la candidatura di James Stavridis, attuale comandante della Nato in Europa, in quanto è un ammiraglio e visto che il conflitto afghano è unicamente terreste, è probabile che la Casa Bianca non voglia commettere scelte inopportune sull’uniforme indossata dal futuro comandante di Isaf. A questo punto non restano che due nomi, sui quali Obama ha finora espresso la sua piena stima. Da una parte il generale Raymond Odierno, comandante dal 2008 del contingente internazionale in Iraq, ruolo che, dall’inizio di quest’anno, si è ridotto alla componente Usa. Altrimenti ci sarebbe il Comandante dell’Africom, generale William “Kip” Ward. Odierno è certamente più aggressivo di quest’ultimo. Entrambi però, uno in Iraq e l’altro nel contesto africano, hanno dato prova di coraggio militare, ma anche di capacità diplomatiche. La sintesi necessaria per chi andrebbe in Afghanistan al posto di McChrystal.


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Allargamento. I dodici Paesi della zona studiano la strada per Bruxelles a Istanbul, dove è in corso il XV vertice tra i Capi di Stato e di governo del Seecp (South-East Europe Cooperation Process), che riunisce dodici Paesi dell’Europa balcanica e sud-orientale, arriva un messaggio comune diretto all’Unione Europea: «Vogliamo diventare il volto giovane e dinamico dell’Europa». All’apertura dei lavori il padrone di casa, Abdullah Gul, presidente della Turchia, ha ribadito a chiare lettere che «i Balcani sono parte integrante dell’Europa dal punto di vista storico, geografico e culturale» e l’obiettivo finale per ogni membro del Seecp rimane il raggiungimento dell’integrazione «con l’Ue, basata su valori condivisi». Gul ha invitato tutti ad «evitare che i Balcani vengano visti come un luogo cruento, strano e incomprensibile. Dobbiamo dimostrare che siamo giovani, dinamici. Il volto energico dell’Europa», ha aggiunto il leader turco. Per ottenere questi risultati, secondo il Presidente turco, è necessario tenere fede agli obiettivi prefissati dal Processo di Cooperazione dell’Europa del Sud-Est, lanciato dalla Bulgaria nel 1996: rafforzamento della sicurezza e delle istituzioni politiche; intensificazione delle relazioni economiche e cooperazione nel settore delle risorse umane; democrazia, giustizia e lotta al crimine organizzato.Tutti intenti propedeutici al raggiungimento di una piena e responsabile integrazione europea. Sulla stessa lunghezza d’onda il suo omologo serbo Boris Tadic, che ha lanciato una sfida a Bruxelles: «L’Ue dica chiaramente e senza scuse se è pronta ad accogliere l’intera regione al suo interno e a contribuire concretamente al raggiungimento di questo obiettivo». Tadic ha invitato

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Il restyling dei Balcani, volto giovane dell’Ue Un summit in Turchia per rilanciare i nuovi membri del Vecchio Continente di Massimo Ciullo

occidentali è al suo interno «la Serbia si aspetta ora che quel messaggio venga tradotto in azione» ha dichiarato Tadic. Nel suo intervento, il leader serbo ha illustrato i progressi del percorso europeo della Serbia negli ultimi mesi e ha ribadito che per il suo Paese è di vitale importanza che la Commissione europea decida in tempi bre-

Lo scopo, spiega il presidente Gul, «è evitare che l’area balcanica venga vista come un luogo cruento, strano e incomprensibile» l’Ue ad essere “onesta”e a rispettare i criteri di ammissione già stabiliti, senza introdurre veti e paletti per ostacolare o procrastinare a tempo indeterminato i Paesi che hanno iniziato il percorso di adesione. Un discorso molto apprezzato dalla leadership turca, che ha più volte accusato Bruxelles di addurre motivi pretestuosi per l’ingresso di Ankara nel Club europeo. Dopo lo storico summit di inizio giugno a Sarajevo, in cui l’Ue ha ribadito che il futuro dei Balcani

vi la richiesta di assumere nell’immediato futuro lo status di Paese-membro. Belgrado ha ottenuto di recente l’avvio del processo di ratifica da parte dei 27 Paesi UE dell’intesa di preadesione (Asa) siglata in aprile 2008, e da allora rimasta “congelata”. «Solo quando tutti i Paesi dell’Europa del Sud-Est saranno pienamente integrati nell’Ue – ha detto Tadic – sarà possibile riscuotere i dividendi della pace scaturiti dalla fine della Guerra Fredda». «Solo in quel momen-

Guerre etniche e separazioni geografiche

Un crogiolo di popoli La Penisola Balcanica, anche conosciuta come Balcani, è una penisola dell’Europa orientale che è delimitata a sud-ovest dal mare Adriatico e dal mar Ionio, a sud-est dal mare Egeo e ad est dal Mar Nero. Come generalmente accade per le penisole, incerta è la definizione del suo confine sulla terraferma, dal aggravato fatto che - a differenza di altre penisole - si tratta di uno dei suoi confini più estesi. Non aiuta inoltre la definizione di questa linea di demarcazione il fatto che il territorio presenti al suo interno grandi differenze e frammentazioni riguardanti storia, nazionalità, lingua, cultura e religione delle popolazioni che vi abitano. Secondo il geografo Vittorio Vialli - la delimitazione a nord è rappresentata dalla linea geogra-

fica Trieste-Odessa; solitamente invece se ne stabilisce il confine sui fiumi Kupa-Sava-Danubio, partendo dalla città di Fiume e raggiungendo le foci del Danubio. I Balcani sono un crogiolo di popoli, etnie, lingue e religioni e dalla storia sempre burrascosa, come dimostra la relativamente breve storia della Jugoslavia. Nella Penisola Balcanica sono infatti situati i seguenti Stati: in parte Croazia e Serbia; completamente Bosnia Erzegovina, Montenegro, Bulgaria, Kosovo (de facto), Albania, Macedonia, Grecia e Turchia europea; sui Balcani si affacciano Slovenia, Romania e Moldavia. Il premier Winston Churchill ne diede una descrizione che può valere ancora oggi: « Balcani producono più storia di quanta ne possono digerire».

to», ha detto ancora il Presidente serbo, «vi sarà prosperità democratica, sicurezza economica, giustizia sociale in ogni Paese e nazione che considerano questa regione come la loro casa comune». Tadic ha concluso il suo discorso affermando che la Serbia del XXI secolo è un Paese che desidera pace e relazioni di buon vicinato con tutti e ripone la sua fiducia negli organismi internazionali per la risoluzione delle controversie. Ma il vero nodo da sciogliere è l’avvio dell’esame tecnico da parte della Commissione europea per il conferimento alla Serbia dello status di Paese candidato Ue. Il principale ostacolo da superare riguarda la questione della dichiarazione unilaterale d’indipendenza da parte del Kosovo. Alcuni membri vorrebbero imporre alla Serbia il riconoscimento del Kosovo come condizione per l’adesione all’Ue.

«L’indipendenza dichiarata unilateralmente (da Pristina il 17 febbraio 2008) è solo un altro tentativo di imporre una soluzione unilaterale e un simile risultato è insostenibile» ha dichiarato il presidente serbo a margine del summit, ribadendo che Belgrado «non riconoscerà mai e in nessun caso, né esplicitamente, né implicitamente l’indipendenza autoproclamata del Kosovo». Nel quadro della stabilizzazione dei Balcani occidentali, il governo turco ha annunciato che riprenderà la cooperazione con la Bosnia Erzegovina per cercare di appianare i contrasti con gli altri Stati, nati dall’implosione della exJugoslavia. In una riunione a latere del summit, il Ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu, ha voluto incontrare il suo omologo bosniaco, Sven Alkalaj e quello serbo, Vuk Jeremic. Davutoglu ha detto di ritenere di fondamentale importanza gli incontri trilaterali iniziati nell’ottobre del 2009 per la stabilità interna della Bosnia. «Una Bosnia stabile al suo interno – ha detto il ministro turco – significa stabilità dei Balcani in generale». Davutoglu ha anche assicurato il supporto di Ankara per l’adesione di Sarajevo alla Nato. Dal canto suo, Jeremic ha dichiarato che il processo di riconciliazione tra le popolazioni balcaniche non deve subire interruzioni o arretramenti e ha ricordato la recente commemorazione da parte del Parlamento serbo dell’eccidio di Srebrenica, dove furono trucidati circa 8000 musulmani durante la guerra inter-etnica.


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24 giugno 2010 • pagina 17

Il potente narcotrafficante preso nella periferia della capitale

Il premier Gilani conferma: andiamo avanti con i pasdaran

Kingston, finita la latitanza del boss “Dudus” Coke

Islamabad sfida gli Usa: «Commercio con l’Iran»

KINGSTON. È finita la lunga fu-

ISLAMABAD. Il primo ministro

ga di Christopher “Dudus” Coke, potente boss giamaicano della droga: per lui un mese fa è scoppiato uno scontro armato senza precedenti tra i suoi fedelissimi e la polizia di Kingston che cercava di catturarlo: più di 70 i morti. Coke è stato preso in una zona periferica della capitale: quindi è stato portato in un commissariato nel distretto di St. Catherine, presidiato da uomini dell’esercito che hanno attivato strettissime misure di sicurezza. Era accompagnato dal reverendo Al Miller, un predicatore evangelista che giorni fa ha mediato nella consegna del fratello di Dudus, anch’egli latitante. Di fronte all’edificio si sono radunati molti curiosi. Tempo fa era stata deliberata una ricompensa di 5 milioni di dollari per chi avesse dato informazioni sul boss. Gli Stati Uniti ne hanno chiesto l’estradizione.

pakistano ha ignorato gli avvertimenti degli Stati Uniti e ha confermato ieri che intende andare avanti con il piano di importazione di gas naturale dall’Iran, nonostante le sanzioni imposte dalla comunità internazionale al regime di Teheran. Il primo ministro Yousaf Raza Gilani ha di fatto risposto all’inviato speciale americano in Pakistan – Richard Holbrooke – che lo scorso 20 giugno ha avvertito il Pakistan di non “impegnarsi troppo” nel patto. Questo, ha spiegato l’esponente dell’amministrazione Usa, potrebbe configgere con il nuovo ciclo di sanzioni contro gli ayatollah al momento allo studio del Congresso statunitense.

Coke, 41 anni, è ritenuto uno dei narcotrafficanti più pericolosi del mondo. È stato per anni alla guida di un’agguerrita organizzazione i cui tentacoli si estendono dai Carabi fino agli Usa, al Canada e alla Gran Bretagna. A Kingston Coke controllava un quartiere chiamato Tivoli Gardens, un’area ai margini della città dove imperano

Mosca insiste e taglia ancora il gas a Minsk Non si placa la battaglia del Cremlino sull’energia di Vincenzo Faccioli Pintozzi impero sovietico non dorme, e pur essendo sulla carta svanito da più di vent’anni continua a far sentire il proprio peso, e la propria ingombrante presenza, sui Paesi che un tempo erano sotto la sua influenza. Ne sa qualcosa la Bielorussia – che nel nome porta un patronimico impegnativo – che da anni subisce le ritorsioni di Mosca per le sue posizioni neanche poi troppo filo-occidentali. La principale forma di “violenza psicologica” passa attraverso le forniture del gas. E ieri il colosso para-statale Gazprom ha tagliato un ulteriore 30 per cento delle forniture alla Bielorussia nell’ambito del braccio di ferro tra Mosca e Minsk per il pagamento dei debiti accumulati. Lo ha reso noto, riportano i media russi, il direttore generale del colosso energetico russo, Alexei Miller, che ha comunque assicurato che sono regolari le forniture per il resto d’Europa che passano attraverso la Bielorussia. «Dalle 10 è stata introdotta una sospensione delle forniture del 60%» ha detto Miller, parlando di fronte ad una commissione che si sta occupando della disputa del gas. «I consumatori del gas russo non stanno avendo nessun problema con le forniture» ha poi aggiunto, affermando che il transito del gas che passa dalla Bielorussia verso altri Paesi europei «non è interrotto ed è a pieno regime».

L’

la politica estera del Cremlino ha fatto sì che Minsk, come la maggior parte degli Stati della Csi, venisse costretta ad accettare l’aumento dei prezzi degli idrocarburi importati dalla Russia. Nella recente crisi economica il Cremlino ha concesso al Paese vicino un credito di 1,5 miliardi di dollari, minore di quello da 3,6 miliardi di dollari messo a disposizione del Fondo monetario internazionale.

Comunque Minsk ha risposto alle trasformazioni strutturali della diplomazia russa dando vita a una propria strategia internazionale: rinvio al 2009 della ratifica del Trattato di sicurezza comune, che prevedeva la nascita di truppe di intervento rapido, e mancato riconoscimento di Abkhazia e Ossezia del sud. La nascita del nuovo Stato russo-bielorusso, opzione sicura fino a pochi anni fa, si è di fatto allontanata. E Lukaschenko, padre padrone di Minsk, sembra cosciente che il suo potere dipende più che mai dall’aumento della sovranità del proprio Paese e dal radicamento di una identità bielorussa. Venuti meno questi fattori, il regime non avrebbe scampo. Come l’Ucraina due anni fa, la Bielorussia potrebbe essere ora tentata di usare l’unica arma a propria disposizione: chiudere i rubinetti al gas di Mosca in transito sul proprio territorio verso l’Europa. A differenza di Kiev però le cartucce di Minsk sono bagnate. Solo una minima parte, il 20 per cento, dell’oro azzurro del Cremlino tocca la Bielorussia. Il 5 luglio i capi di Stato della futura Unione doganale si vedranno in Kazakistan. Un vertice necessario per dare forza retroattiva a quanto avrebbe dovuto essere valido dal 1 luglio. I contrasti tra Minsk e Mosca non sono all’ordine del giorno dell’incontro. Almeno per ora. Ma la possibilità che si riacuiscano vecchie ruggini e tornino in auge alcuni vecchi metodi, quelli che prevedono interventi militari e isolamento internazionale, è sempre presente. Almeno quando in campo c’è l’orso che ha fatto grande Santa madre Russia.

Il colosso russo Gazprom conferma una riduzione del 30 per cento del flusso, ma assicura le forniture inviate all’Europa

violenza e miseria. Lì Coke è nato e cresciuto: i suoi uomini si sono distinti per la fedeltà al capo, tant’è che pur di bloccarne l’estradizione negli Usa hanno messo a ferro e fuoco la capitale dell’isola. Il boss ha sempre sostenuto di lavorare per aiutare i più poveri del quartiere guadagnandosi un ampio sostegno popolare, come anni fa in Colombia Pablo Escobar. Di fatto per molti ragazzi di Tivoli era una sorta di padrino, un eroe che dà cibo agli indigenti e fa da mediatore nei conflitti locali. Di sicuro era molto potente visto che l’area che controllava, dove c’è il porto, coincide con il distretto elettorale del primo ministro Bruce Goldling.

Il prezzo del gas per la Bielorussia, secondo il gruppo russo, è fissato in 169 dollari per 1.000 metri cubici. Ma Minsk, dall’inizio dell’anno, avrebbe pagato solo 150 dollari. Il debito accumulato dalla Bielorussia si attesterebbe così intorno ai 192 milioni di dollari, che secondo il piccolo Stato sarebbe ripagato dai “diritti di passaggio” del gas destinato all’Europa attraverso i propri tubi. Ma l’attuale scontro tra Russia e Bielorussia rappresenta solo un lato delle tensioni che caratterizzano i rapporti tra i due Paesi. Le relazioni tra Minsk e Mosca si sono infatti complicate nel 2006, quando la cosiddetta “economicizzazione”del-

L’importazione di gas è un motivo di tensione fra le due nazioni: secondo Islamabad, essa è fondamentale per superare la crisi energetica che ha colpito il Pakistan. Per Washington, invece, il contratto sminuisce sensibilmente tutto l’apparato delle sanzioni (tutte di tipo economico) con cui la comunità internazionale intende fermare il programma nucleare iraniano.

Gilani sostiene però che l’accordo «potrebbe essere messo in discussione se violasse le sanzioni approvate dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Ma noi non siamo in alcun modo costretti a seguire le misure unilaterale decise dagli Stati Uniti». Nel corso dell’ultimo decennio, il Palazzo di vetro ha approvato quattro diversi pacchetti di sanzioni contro il governo iraniano, che comunque non ha mai interrotto il proprio programma nucleare. L’ultimo round è passato all’inizio di giugno. Il contratto di importazione di gas fra Pakistan e Iran rischia di vanificare tutti questi sforzi. Secondo il patto Teheran si impegna a inviare a Islamabad 760 milioni di piedi cubici di gas al giorno, attraverso un nuovo oleodotto la cui costruzione inizierà nel 2014.


cultura

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Marocco. La città ha da poco ospitato il “Festival delle Musiche sacre”, dove uomini e donne hanno cantato, pregato, danzato, e si sono riuniti per pensare

Fez, l’ombelico del mondo Viaggio al centro del dialogo e della convivenza tra i popoli attraverso uno dei luoghi-simbolo dello scambio fra culture di Maurizio Ciampa e si fosse costretti a visitare una sola città in Marocco avverte la Guida Verde Michelin con enfasi quasi perentoria - la scelta dovrebbe sicuramente cadere su Fez!». Credo ci sia molto di vero in questa sollecitazione ad uso di turisti frettolosi: il tracciato tortuoso della Medina, le moschee che emergono quasi all’improvviso dalle strettoie dei vicoli, i cortili delle scuole coraniche, la serrata successione di suk e laboratori artigianali, i palazzi che sembrano condensare e custodire al proprio interno tutta la bellezza della città, il segreto scrigno ombroso dei giardini, le porte geometricamente sontuose, le grandi piazze che si aprono a ridosso delle mura, sono arabeschi dell’anima, le radici ramificate di una meravigliosa utopia.

«S

Da sempre, a Fez, abitano il dialogo, la convivenza fra i popoli, il confronto fra le culture. E nel tempo hanno resistito; nel tempo il confronto si è andato confermando e rinnovando, in contraddizione forse con quello che è andato accadendo nel mondo attorno. Di qui sono passati Ibn Arabi e Ibn Rushd, che conosciamo con il nome di Averroè; qui nell’università della Karaouine fondata da una donna, Fatima al-Fihria - ha insegnato Mosè Maimonide, filosofo e medico ebreo andaluso, in fuga dalla Spagna, autore di una Guida dei perplessi di larghissima diffusione; e qui ha studiato al-Hasan al-Wazzan, detto Leone l’Africano, geografo ed esploratore la cui vita si sviluppa come un’avventura. «La terra di Dio è vasta, e vaste sono le sue mani e il suo cuore», gli fa dire lo scrittore libanese Amin Maalouf nel suo romanzo Leone l’Africano che intreccia abilmente storia e immaginazione (è pubblicato in Italia da Bompiani). Queste parole esprimono lo spirito di Fez,

della sua lunga storia, delle molte voci che qui hanno potuto parlare. E il grande Festival delle Musiche sacre del mondo, che a Fez si è appena concluso, vive nel solco di questa tradizione. Per nove giorni, dal 4 al

È un’iniziativa unica, una piccola grande utopia in movimento che solo la stampa italiana, chiusa nei propri confini, può ancora ignorare...

12 giugno, mentre la città offriva la sua tersa luce primaverile e i colori delle sue fioriture - azzurri tenui e rossi accesi -, uomini e donne di tutto il mondo si sono incontrati, hanno cantato, pregato, hanno danzato, e si sono riuniti per pensare.

Facendo risuonare i ritmi del sacro e le parole che lo raccontano, si sono trovati ad accorciare le distanze che segnano il mondo, superando i confini che lo dividono e spesso lo lacerano. Un’iniziativa credo unica quella di Fez, una piccola grande utopia in movimento che solo la stampa italiana, chiusa nei propri confini, può ancora

ignorare. A Fez, nelle giornate del Festival, ci si affaccia sul mondo intero, si percorre l’intrico delle sue molte strade, lungo le steppe della Mongolia o attraverso la pianura anatolica o i grandi corsi d’acqua, il Nilo, il Gange, e Zanzibar, Gerusalemme, Aleppo, Kabul, Costantinopoli, Baghdad, una geografia sterminata in cui può capitare di smarrirsi ascoltando suoni, canti e ritmi inauditi.

È il richiamo delle origini che riaffiora riemergendo dall’abisso di una memoria ancestrale? Forse. O forse quei suoni inauditi, quei ritmi sono semplicemente i suoni e i ritmi del Mondo, una delle possibili variazioni sul tema del presente, che ci appare spesso indecifrabile, resistente allo sguardo, opaco se non buio. I suoni che per qualche giorno, ogni anno e da sedici anni, attraversano la città di Fez e la sua Medina, dicono il Mondo, quei ritmi ne cadenzano la storia, le storie. Non appar-

In queste pagine, alcune immagini della città di Fez, in Marocco; un’illustrazione che riproduce una danza “sufi”; uno scatto di danzatori tradizionali indiani

tengono al passato, ma al tempo in cui li si ascolta, appartengono a questo tempo, il nostro. Una traversata è l’immagine suggerita da Alain Weber, direttore artistico del Festival. Una traversata delle acque apparentemente immobili delle tradizioni d’Oriente e d’Occidente, seguendo una stella fissa, un fuoco tematico da cui so-

no partiti i passi di tutti gli itinerari. Quest’anno il centro del movimento è stato il Viaggio iniziatico. E il Festival ha offerto una grande mappa, un sondaggio in profondità di un territorio tanto esteso da apparire quasi inesplorabile.

«Il viaggio è ricerca di sé, dell’altro, delle molteplici forme


cultura

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trollabili. È possibile farlo? E come? Ma soprattutto: siamo ancora in grado di farlo? Forse si può cominciare inoltrandosi nel viaggio fra le differenze cui ho assistito a Fez. Si può cominciare dal desiderio di conoscere, che è l’indispensabile presupposto di ogni viaggio, il desiderio, il respiro dell’anima che scioglie il gelo del cuore, smuove le inerzie della mente. «La terra di Dio è vasta, e vaste sono le sue mani e il suo cuore», diceva Leone l’Africano nel romanzo di Amin Maalouf. Ma la vastità può dare le vertigini, quantomeno può disorientare. Chi non ricorda Ulisse al passaggio di Scilla e Cariddi? Si è fatto legare per non sprofondare e dissolversi nel canto mortale delle Sirene. A Fez non è stato necessario farsi legare, anche perché nessun canto metteva a repentaglio la vita di chi ascoltava. Al contrario: il suono forte dei tamburi del Burundi o le trombe laceranti nella Gerusalemme di Jordi Savall e molte altre sonorità si diffondevano piuttosto come un richiamo alla vita, ne rappresentavano il movimento, i salti o la continuità, i dinamismi o i punti d’arresto.

Il viaggio continua. Ma ci si sposta dallo spazio raccolto del Museo Batha a Bab al Makina,

della natura e della vita degli uomini, del loro rapporto alla terra, al cielo, allo spazio e al tempo. Reale o immaginario,fisico o mistico, profano o religioso, il viaggio ha spesso giocato, nella nostra storia, le nostre credenze, i nostri sentimenti un ruolo iniziatico», ha scritto, presentando il programma, Nadia Benjelloun, la direttrice dei Rencontres, gli Incontri che hanno accompagnato gli spettacoli musicali, un’ampia cornice di riflessioni sul tema del viaggio. Nadia Benjelloun, donna gentile e ospitale, incarna lo spirito stesso di Fez, quella disposizione al dialogo e al confronto che è appunto - lo si è detto - il tratto essenziale della storia di questa città.

Una mossa davvero felice la sua: collocare gli Incontri nel perimetro del giardino andaluso del Museo di Dar Batha (il Museo della città che ospita le collezioni di arti e tradizioni popolari: ceramiche, tappeti, libri, miniature e altro ancora), sul limitare della Medina, all’ombra di una quercia materna e protettiva che sembrava quasi abbracciare relatori e pubblico. Erano presenti fra gli altri: Giorgio Agamben, Jan Assmann, Karima Berger, Michael Barry, Kenneth Brown, Danielle Cohen-Levinas, Abdelwahab Meddeb, Hassan

Moussady, Jean-Luc Nancy, Lord Ahmed Nazir, Jordi Savall, Shantum Seth. Sotto la grande quercia sono sfilate le diverse figure del viaggio: il viaggio interiore, il viaggio nelle scritture, il pellegrinaggio, l’esilio, l’esplorazione.

Il tempo è trascorso in fretta nel giardino del Batha, scandito dai rapidi spostamenti: dal Corano a Mozart, dai pellegrinaggi islamici a quelli sulle tracce del Buddha, da Marco Polo a Isabelle Eberhardt, con una spola continua fra le forme e le narrazioni d’Oriente e d’Occidente. Ne è stato un buon esempio l’americano Michael Barry, studioso di letterature e arti tradizionali e moderne dell’Iran (insegna all’università di Princeton), curatore della collezione di arte islamica al Metropolitan Museum di New York. Barry è capace di leggere con la stessa penetrante intelligenza un quadro di Giorgione e una miniatura persiana. La sua lectio magistralis al Centro culturale francese è stata un’autentica avventura della mente: fra lo stupore di chi era lì per ascoltarlo, Barry, ha mostrato la sottilissima rete di nessi simbolici che lega l’Occidente all’Oriente. Mentre la luce del pomeriggio si andava spegnendo, Barry si spostava a

velocità vertiginosa fra le diverse sponde del Mediterraneo e oltre, come su una scacchiera di simboli e forme che muoveva con assoluta disinvoltura e grande audacia intellettuale. Accostava, confrontava, rendeva familiari immagini che possono apparire distanti.

La distanza può fomentare la diffidenza e aizzare la paura. E la paura lavora su tempi lunghi corrodendo il desiderio di conoscere e di confrontarsi e la stessa possibilità di convivenza. Lo si può constatare ogni giorno nelle nostre città, nel nostro paese. È il grande tema che ha attraversato l’intera Europa nel corso degli ultimi anni. Ed è ancora il nodo, un problema aspro, difficile: convivere con l’altro, condividere modi di vita senza cancellare differenze, placare le paure che possono alimentare reazioni emotive e comportamenti incon-

che dalla fine dell’Ottocento costituisce l’accesso principale al Palazzo Reale, uno spazio molto ampio delimitato da alte mura, ed è lo spazio che il Festival dedica ai grandi eventi musicali, quelli con la maggiore affluenza di pubblico, che, in qualche caso, è stata davvero massiccia. Ci si sposta e si cambia orario: la fresca mattina è a Batha talvolta con un po’ di pioggia, e questo mi ha consentito di venire a sapere che la pioggia in Marocco non è affatto associata alla tristezza o alla malinconia come accade più o meno dappertutto, ma suscita addirittura allegria, m’immagino per via dell’aridità e dei suoi effetti benefici sulla terra. Ci sono commercianti nella Medina capaci di prevedere con assoluta precisione, solo annusando l’aria, a che ora smetterà di piovere. «Alle 10 smette», mi ha detto un venditore di ceramiche lungo la Talaa-Kebira. E

così è stato. Il viaggio continua: Bab Al Makina, mercoledì 9 giugno. La sera è molto ventosa, raffiche gelide investono il grande spiazzo, e deve essere un po’ strano da queste parti. Sul palco, quasi appoggiato alla porta, si sistemano gli orchestrali - ne ho contati quaranta. Vengono da Israele, dalla Palestina, dall’Armenia, dalla Grecia, l’Irak, la Siria, il Marocco, l’Afghanistan, la Turchia, e, ovviamente, la Spagna, la Catalogna, la terra di Jordi Savall che, con Monserrat Figueras, li ha messi insieme per comporre questa grande epopea musicale di Gerusalemme, accostando preghiere e canti d’esilio, marce di guerra e lamentazioni, ed estraendo i suoni da tradizioni musicali assai diverse, l’ebraica, la cristiana, l’islamica, che qui si mettono l’una accanto all’altra, in dialogo, per raccogliere i frammenti di una storia tragica, ma anche le sue speranze di pace, il suo desiderio di convivenza. «È un modo - ha detto Jordi Savall in un’intervista per riflettere sull’origine dei conflitti, sulla particolarità di queste visioni del mondo, un modo per sentire la fede, le convinzioni religiose verso un Dio monoteista, un modo di avvicinarsi agli altri. Io e Monserrat Figueras facciamo parte di una cultura catalana, storicamente legata a una terra sulla quale c’è stata una convivenza culturale e umana forte tra il mondo arabo, quello ebraico e quello cristiano».

L’opera non è nuova - del 2008 -, ma l’emozione che provoca nel pubblico è davvero forte, una scossa prolungata per due ore. Sembra la sintesi ideale di quello che il Festival è andato proponendo in tutti questi giorni. La Gerusalemme di Jordi Savall dà unità al coacervo di suoni che vengono dalla storia millenaria della città, che ha espresso armonie celestiali o grida dirompenti. Poi c’è altro, si esce dal Mediterraneo, un “lago interno” - è stato detto -, e si procede, sul filo dei suoni, verso il cuore dell’Africa, e oltre, verso l’Oriente più lontano: il balletto reale della Cambogia, che ha aperto il Festival, gli straordinari giovanissimi danzatori Gotipuas dell’India - poco più che bambini -, dove anche l’acrobazia più spericolata può essere viva manifestazione del sacro; e ancora il gruppo sufi di Zanzibar, i cui movimenti mimano le onde dell’Oceano indiano, e i tamburi del Burundi dal suono imperioso, e l’indiano Pandit Hariprisad Chaurasia, che usa il flauto per esplorare il confine fra il divino e l’umano, e quanta grazia, quanta quiete, sprigiona quel flauto! Il viaggio continua, non trova fine, dovrei parlare dell’Anatolia, della Mongolia, della Corea, del Nilo. Ma ora sulla Medina di Fez scende la notte. In lontananza, da Dar Tazi, sale l’ultimo canto sufi.


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cultura

Tra gli scaffali. Arriva dai tipi di Rubbettino “Storia di Alice”, la nuova fatica di Gianni Scipione Rossi sulla “capricciosa” de Fonseca

La Giovanna d’Arco del Duce di Aldo Giovanni Ricci

In basso, lo scrittore Gianni Scipione Rossi e la copertina della sua ultima fatica “Storia di Alice. La Giovanna d’Arco di Mussolini” (Rubbettino). A fianco, un disegno di Michelangelo Pace

li inglesi hanno due termini per indicare la storia. History è la grande storia: la storia della politica e dei suoi protagonisti, delle relazioni internazionali, delle guerre, degli Stati. Invece Story è la piccola storia, fatta di individui, episodi, noterelle, marginali rispetto ai grandi avvenimenti trattati dalla prima. Questa distinzione viene ripetuta da Gianni Scipione Rossi nella introduzione alla sua ultima fatica (Storia di Alice. La Giovanna d’Arco di Mussolini, Rubbettino, pp. 200, euro 15), dedicata ad Alice de Fonseca, un personaggio per molti versi straordinario che figura a buon diritto tra i protagonisti delle story, ma che in certi momenti, sia pure di sfuggita, mette un piede anche nella history.

G

Alice ha tutti i tratti della donna appartenente alla buona società della prima metà del ’900 a cui la vita mondana tradizionale risulta essere troppo stretta. Non si accontenta delle prime teatrali, dei viaggi, delle vacanze nelle località alla moda, dei pomeriggi con le amiche. Ha bisogno di volare alto e per farlo, non avendo le energie intellettuali necessarie in prima persona, gioca di sponda con i “grandi” con cui riesce a entrare in contatto. Tra questi due su tutti: Mussolini e d’Annunzio. Per questo le sta a pennello, sia pure tra virgolette, il soprannome di Giovanna d’Arco, perché Alice ha bisogno di una causa e di un campione per cui battersi. Nel suo caso la causa è l’Italia fascista, ma i campioni sono due, o quasi, perché se Mussolini è Sua Eccellenza, almeno nelle lettere ufficiali, il Nume che guida l’Italia verso gli alti destini che l’attendono, d’Annunzio è il “Prode Soldato e Altissimo Poeta”, il Vate, l’interprete inarrivabile dei tempi nuovi.

Entrambi le hanno aperto le porte delle loro stanze più segrete, ma, come nelle migliori tradizioni, le porte si sono chiuse dopo l’ingresso di Alice e su quello che vi sia avvenuto i cultori delle story possono solo ipotizzare e i gentiluomini tacere. Al Vate, con cui è in corrispondenza dal 1918, scrive fino alla sua morte e lo incontra più volte al Vittoriale. Nel 1928, dopo una visita, così gli scrive: «L’incanto non si rompe. Rimane nel mio cuore il ritmo di un’armonia nuova e tenerissima... Il sogno rimane e in esso mi perdo come nei cuscini». Gianni Scipione Rossi nel suo libro dedicato alla Giovanna d’Arco di Mussolini (il so-

vivere fino alla morte nella villa sulla Nomentana. Dopo la sua scomparsa, Francesco Pallottelli dovrà trovarsi un impiego nell’amministrazione italiana in Africa, per poi ritirarsi a Fabriano (Villa Gioia, Monte Civita) a gestire la propria tenuta, ma dove sarà anche commissario prefettizio durante la Rsi.

Il figlio maggiore, Virgilio, classe 1917, è ufficiale dell’Aeronautica, fatto prigioniero dagli inglesi in Africa, e poi scampato alla prigionia in circostanze poco chiare. Per alcuni è uno dei tanti figli naturali di Mussolini, per altri la data di nascita renderebbe inverosimile

L’autore ricostruisce la vita della donna e focalizza i rapporti con Mussolini e con D’Annunzio, ma dedica attenzione anche al marito di Alice, il conte Pallottelli Corinaldesi, e al figlio Virgilio prannome nasce prima del saggio di Rossi) segue la vita di questa donna a suo modo eccezionale, e focalizza in particolare i rapporti con il duce e con D’Annunzio, ma dedica attenzione anche a due personaggi collaterali, che svolgono però un ruolo essenziale nell’economia del racconto: il marito di Alice, il conte Francesco Pallottelli Corinaldesi, e il figlio maggiore, Virgilio. Sullo sfondo resta il padre della protagonista, Edordao de Fonseca, tipografo-editore, che con le riviste Novissima e La Casa aveva animato la sperimentazione modernista in campo letterario e figurativo nei primi anni del Novecento.

Il marito, originario di Campodonico di Fabriano, è l’impresario del famoso pianista Vladimir de Pachmann, grande interprete di Chopin, e mecenate della famiglia, presso la quale continuerà a

questa tesi. Sta di fatto che il duce ne segue le vicende sempre con un interesse tutto particolare. L’affetto nei suoi confronti è palese ogni volta che si trova a nominarlo o a scriverne. Quando il giovane ufficiale ricompare a Salò gli affida il compito di portare la madre al Nord, trovandole una sistemazione sul lago di Como, non lontano dalla sua residenza, e poi lo utilizza per diverse missioni di intelligence. Virgilio è al suo fianco nell’ultimo viaggio prima dell’arresto da parte di una colonna partigiana ed è ancora lui a mettergli addosso il pastrano di un soldato tedesco per tentare di sottrarlo alla cattura. A lui si deve anche uno dei tanti memoriali sulle ultime ore di Mussolini. Se questi sono i comprimari, la protagonista della nostra story resta comunque Alice-Giovanna d’Arco, nata a Firenze nell’ottobre del 1892. Incerta la data del suo pri-

mo incontro con il futuro duce, che secondo alcuni andrebbe collocata intorno al 1916. Sicuramente, come si ricava da una lettera del febbraio 1923, lo incontra alla Victoria Station di Londra nel dicembre del 1922, quando gli fa abbracciare il giovane Virgilio, definendolo il suo «più giovane seguace». Nella lettera annuncia i suoi prossimi viaggi negli Stati Uniti, per la tournée del celebre pianista, manifestando l’intenzione di sfruttare l’occasione per un’attività di propaganda in favore del nuovo regime. L’iniziativa incontra l’approvazione e l’appoggio del duce, e comincia così un’attività di promozione politica e di diplomazia parallela che la giovane continuerà a portare avanti in tutte le circostanze possibili, presentandosi come una sorta di inviato ufficioso della nuova Italia.

Ma il rapporto assume anche altri aspetti e Alice si preoccupa della salute del duce (Italo, come lo chiama in codice nelle lettere), in particolare alla fine del 1926, quando l’ulcera tormenta Mussolini ed è lei a organizzare la visita del celebre prof. Castellani. La sua presenza nell’agenda del Nume è saltuaria, ma costante, così come costanti sono le lettere che giungono a Palazzo Venezia. Claretta Petacci, una volta occupato il ruolo della favorita, ne è gelosissima, e le sfuriate tra i due per Alice sono innumerevoli. Il duce per lo più nega, anche se a volte dichiara addirittura che tutti i figli della donna sono suoi. Sono solo alcuni frammenti di un libro a metà tra inchiesta e spy story; un libro che ci convince sempre di più che per Mussolini andrebbe scritta una storia parallela, passando attraverso le più importanti delle sue infinite compagne di viaggio.


spettacoli icordate il 1985? Era l’anno di Into The Groove e di We Are The World, di Madonna e di Usa for Africa. Del dance pop farcito di elettronica, di Mtv e della civiltà dell’immagine che imponeva nuovi divi dal “look”, l’acconciatura e l’attitudine giusta. Che ci faceva lì in mezzo quella biondina carina e un po’ slavata, con il colletto abbottonato e un’aria inconfondibile da intellettuale newyorkese (anche se l’origine era californiana)? Eppure, giusto 25 anni fa, l’omonimo album di debutto di Suzanne Vega, prodotto sotto l’egida di Lenny Kaye, chitarrista del Patti Smith Group, conquistava la critica internazionale risalendo controcorrente le charts inglesi dominate da New Romantics e teen idols di nuova generazione (un bel colpo di fortuna: nell’arco di due anni la ragazza sarebbe passata da un impiego di receptionist al palco della Royal Albert Hall).

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Un exploit inatteso ma meritato, perché quel bel disco di parole & musica, acustico e gentile, raffinato e letterario, rinverdiva i fasti di una nobile tradizione Sixties, quando il Greenwich Village in cui la Vega si era formata era la culla di Bob Dylan e dei primi cantautori di protesta. Inconsapevolmente, la dolce Suzanne aprì la strada a Tracy Chapman e a miriadi di ragazze con la chitarra che sarebbero seguite, alle anti-Madonna che basavano il loro appeal sulla qualità poetica e non sulla trasgressione, sulla musicalità e non sulla voglia di stupire il mondo. Due anni dopo Solitude Standing si apriva con due brani destinati a restare impressi nella memoria: il primo, una delicata ballata intitolata Luka, portava in classifica la storia cruda e realistica di una violenza minorile consumata tra le pareti domestiche; il secondo, Tom’s Diner, era una svagata filastrocca a cappella nata dalle osservazioni della vita di tutti i giorni in un caffè dell’Upper West Side, ma finì inopinatamente sulle piste da ballo di tutto il mondo grazie ai remixer inglesi Dna e diventò “la madre di tutti gli Mp3”facendo da cavia per i primi esperimenti di compressione digitale del suono. Poi la Vega conobbe il produttore dei Crowded House Mitchell Froom, se ne innamorò, e in dischi come 99° F e Nine Objecys Of Desire iniziò a scartare insusitate verso

Musica. “Close Up-Volume One: Love Songs”, la nuova raccolta di canzoni d’amore

Il ritorno nelle charts di Suzanne Vega di Alfredo Marziano

L’album è solo il primo capitolo di una tetralogia, che nell’arco di due anni la vedrà riaggiornare quasi per intero il suo repertorio contaminazioni “industrial folk”, sporcando la sua chitarra e la sua voce angelica con effetti rumoristici, distorsioni e percussioni elettroniche. I critici la applaudirono di nuovo, il pubblico mainstream cominciò a

voltare lo sguardo altrove alla ricerca di nuove eroine meno cerebrali e più rumorose (era il momento di Alanis Morissette). Suzanne divorziò prima da Froom e poi dalle case discografiche (l’ultimo disco per una major, il discreto ma non eccelso Beauty & Crime, risale al 2007), e ora, a cinquant’anni, si

reinventa riappropriandosi del suo passato. Close Up-Volume One: Love Songs, raccolta di canzoni d’amore uscita in questi giorni in Italia, è il primo capitolo di una tetralogia che nell’arco di due anni la vedrà riaggiornare quasi per intero il suo repertorio: dopo le canzoni d’amore, toccherà a quelle che parlano di “gente, luoghi e cose”, di “condizione esistenziale” e di famiglia. Nel volume uno si trovano una nuova versione di Marlene On The Wall, il suo primo successo, e altre piccole meraviglie da quell’indimenticato primo album (il delizioso

In questa pagina, due immagini dell’artista Suzanne Vega (in concerto il 4 luglio a Rovigo, il 6 ad Arezzo), uno scatto di Leonard Cohen e una foto di Bob Dylan

autoritratto in un interno di Small Blue Thing), esercizi di raffinato erotismo (Stockings, la bossa nova alla Jobim di Caramel: quando vuole Suzanne sa essere molto sensuale) e romanticherie alla Gypsy, canzoni di amara disillusione (Songs In Red And Gray, il suo “divorce album”) e di rinnovata speranza (Bound è dedicata al secondo marito Paul Mills, poeta di strada in età giovanile, avvocato votato alla causa dei diritti civili e antico spasimante a cui la Vega ha detto sì 23 anni dopo la prima proposta di matrimonio).Tutte (anche In My Movies e Headshots, che arrivano dal periodo “elettronico” e sperimentale con Froom) sono riviste “da vicino”, con quell’intimità salottiera, l’eleganza, la classe e l’attenzione al dettaglio che le sono proprie (“sui suoi accordi”, ha scritto un giornalista americano,“le melodie si spiegano come uccelli di origami”). Tutte sono figlie di buone letture, di buoni film e di buoni ascolti: Suzanne ha adorato Leonard Cohen e i Beatles (Paul McCartney è stato la sua prima cotta adolescenziale), i concittadini Lou Reed e Laura Nyro, ma soprattutto sua maestà Dylan («da lui ho rubato l’idea di scrivere per immagini, invece di inseguire un filo narrativo»). E qui tornano, in qualche modo, alla purezza folk degli esordi.

«Io preferisco chiamarlo techno-folk», puntualizza l’autrice. «Nel senso che mi piace mischiare la chitarra acustica con quel che la tecnologia attuale mette a disposizione». Rimettere mano al suo songbook, per Suzanne, ha una valenza artistica ma anche pratica: «Molti dei miei vecchi album stanno andando fuori catalogo. Quando un libro viene ritirato dal mercato, uno scrittore non ha la possibilità di riscriverlo. Io, invece, i miei dischi posso ricantarli» (e così riappropriarsi, indirettamente, dei diritti ceduti anni prima alle case discografiche). Un modo intelligente ed economico di autofinanziarsi e di ritornare sul mercato, di rimettere i puntini sulle i, di sfruttare un’occasione per farsi riascoltare dal vivo (il 4 luglio a Rovigo, il 6 ad Arezzo). E pazienza se per qualcuno lei resterà per sempre una “two hit wonder”, una cantante da due successi e via. «Quei due hits», ha spiegato Suzanne al weblog Spinner, «mi hanno permesso di andare a cantare in ogni angolo del mondo. La gente riconosce la mia voce, le mie canzoni e il mio nome, e allora dove sta il problema? Dovrei risentirmene? Essere arrabbiata perché sono solo due, sulle centinaia di canzoni che ho scritto? Io non la vedo in questo modo. Per come la vedo io, quelle due canzoni mi hanno aperto il mondo».


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE

Il referendum sloveno apre la strada all’ingresso della Croazia in Europa Il risultato del referendum sloveno sull’arbitrato internazionale, che risolve la disputa sulle frontiere marine con la Croazia va salutato positivamente, pur considerando il margine risicato della vittoria dei sì. Ritengo doveroso notare la necessità di una forte cooperazione tra tutta la rete portuale dell’Alto Adriatico e spero che l’arbitrato internazionale recepisca questa mia riflessione: questa può essere una occasione per riflettere sulla rete dei porti dell’Alto Adriatico e dare il via a una proficua sinergia per il Golfo di Venezia. Da Ravenna a Fiume e Zara, passando per Chioggia, Monfalcone,Trieste, Capodistria, Parenzo e Pola, con il fulcro appunto su Venezia, si può sviluppare una grande operatività portuale con benefici per tutti, con ciascun porto che si specializza in maniera sinergica, l’uno complementare e non alternativo all’altro: spero che questa considerazione sia colta dagli amici sloveni e croati. Il risultato del referendum è importante per l’Europa, perché permette alla Croazia di completare l’iter per l’ingresso nell’Unione: spero che questo referendum apra la strada verso nuovi orizzonti, nuova cooperazione, nuovi dialoghi tra le nostre regioni, dialoghi che sappiano sanare le ferite della storia, per assicurare ai nostri popoli un futuro di sviluppo e di benessere.

Roberto Ciambetti

EOLICO: SITUAZIONE FUORI CONTROLLO Impianti eolici da anni fuori controllo, paesaggio e biodiversità compromessi su vasta scala, deregulation urbanistica, contributi pubblici eccessivi con infiltrazioni della malavita organizzata, assenza di linee guida nazionali. Uno sforzo immane, quello dello sviluppo di impianti eolici, in termini di costi (a regime 3,7 miliardi di euro all’anno) e purtroppo di perdita di biodiversità e paesaggio, in cambio di un contributo pari solo all’1,5% del fabbisogno energetico complessivo nazionale, tra comparto elettrico, dei trasporti, civile e industriale. Dunque un contributo modesto agli obiettivi fissati dal protocollo di Kyoto, che ora impone tagli all’anidride carbonica che saranno da ricercarsi soprattutto nei comparti dell’edilizia e dei trasporti. In

Italia l’eccessiva contribuzione pubblica sull’eolico, pari a circa il doppio delle media europea e valida per 15 anni rinnovabili con la ristrutturazione della turbina, è alla base di una distorsione del mercato, di spinte ingovernabili, di condizionamenti nell’adozione delle regole e nella comunicazione e di sempre più numerosi episodi di malgoverno o di vero e proprio malaffare, che ha visto infiltrazioni anche da parte della malavita organizzata. Il tema è molto delicato e ormai scottante: da un lato, c’è in gioco l’importantissima questione della riduzione delle emissioni e dunque dell’utilizzo di “cattive” forme di energia. D’altro canto, abbiamo la necessità di salvaguardare quel patrimonio inestimabile che è la biodiversità e il paesaggio italiano, a partire dai siti di Rete Natura 2000, delle altre

Terrazze di riso Lo Yunnan (letteralmente “a sud delle nuvole”) è una provincia cinese, situata nell’estremo sud-ovest della nazione. La parte meridionale della provincia è toccata dal Tropico del Cancro. Lo Yunnan ha una superficie di 394mila km quadrati, il 4,1% della Cina, e la sua capitale è Kunming

aree protette e da tutti i territori con alto valore paesaggistico o naturalistico.

Danilo Selvaggi

L’ANAS NON ABBATTERÀ ALCUNA ABITAZIONE AD ONNA Vorrei fare chiarezza sul progetto della realizzazione della “variante sud”de L’Aquila e sul presunto abbattimento di una delle case superstiti del terremoto ad Onna. Il progetto dell’Anas non prevede l’abbattimento della casa in questione. La necessità di realizzare la variante al servizio della viabilità

L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

de L’Aquila e del territorio era già evidente prima del terremoto, ma dopo l’evento sismico è diventata ancora più urgente. Il tracciato è stato concordato nelle sedi competenti con tutti gli enti locali. Il progetto nel corso di questi mesi è stato già modificato e ad oggi, rispetto alla bozza originaria, prevede l’eliminazione di un viadotto, che è stato sostituito con un rilevato, e l’eliminazione di uno svincolo proprio nei pressi di Onna. Inoltre, è prevista una mitigazione sia acustica che paesaggistica dell’opera.

Valerio Mele

da ”The Independent” del 23/06/10

La rivoluzione di Osborne sulla spesa pubblica eorge Osborne, cancelliere dello Scacchiere (ministro del Tesoro, ndr) vorrebbe farci credere, con un pizzico di malizia e una convinzione appena accennata, che la finanziaria cui ha messo mano per risanare i disastrati conti britannici sia «progressista». Ha usato un termine abbastanza versatile, ma non privo di significato. Effettuare tagli così drastici alle finanze pubbliche non ha nulla di «progressista». Il piano studiato dal neoministro per risanare la bilancia pubblica, in un frangente così delicato, assomiglia di più a un pericoloso approccio reazionario. Una vergogna, visto che qualche vagito progressista sarebbe presente nelle intenzioni del giovane cancelliere. Ma la legge sul bilancio appare come un atto d’accusa contro lo Stato, mentre in realtà non sarebbe proprio così. Osborne, in effetti, ha dato qualche seria indicazione su dove il governo possa essere efficace e dove la sua azione rischi di diventare soffocante. Merita del credito quando vuole salvaguardare la spesa negli investimenti lungo termine e quando vorrebbe colpire i palesi eccessi della spesa corrente in alcuni settori. Qualche guizzo di progressismo, in effetti, emerge dove riconosce l’errore dei conservatori dei primi anni Novanta, che ridussero la spesa sugli investimenti a lungo termine. Un fatto che porta poi a un’importante considerazione. La spesa infrastrutturale è quasi sempre produttiva, stimola l’economia e migliora la qualità della vita. Il sistema britannico in questo settore scricchiola e quin-

G

di Steve Richards

di i finanziamenti andrebbero aumentati non tagliati. E Osborne vorrebbe che numerosi progetti legati al trasporto regionale procedessero nella realizzazione. Sembra che una scure stia per cadere sulla spesa pubblica, ma almeno sappiamo che i tagli non saranno indiscriminati. Il sentiero su cui si è incamminato il cancelliere è però pericoloso, perché lo porta a dovere ridurre i costi della macchina pubblica e far quadrare i conti, in tempo per il prossimo appuntamento elettorale. Nella coalizione di governo tutto ciò che si trova alla voce «debito» è un male. E nonostante il ”buco”stia diminuendo più velocemente del previsto – dicono gli esperti – Osborne è impaziente di cancellarlo tutto, in modo da poter fare un inchino

al contribuente britannico che riconoscente valuterà la sua rivoluzione, fatta così in fretta. E non è esagerato parlare di rivoluzione. Il ministro spera di avviare un cambiamento in maniera da rifondare la struttura dello Stato e rendere questi cambiamenti irreversibili. E la condizione in cui versa l’economia non è l’unica ragione che lo spinge a ragionare in questa maniera. Propone un taglio del 25 per cento nei vari settori della macchina pubblica, ma alcuni esperti affermano che la scure potrebbe affondare di meno, se si riducesse un po’di più la spesa sociale. Ma il governo su questo fronte non ha margini. E visto che gli investimenti produttivi non saranno toccati, è probabile che la stretta potrebbe essere anche maggiore in alcuni comparti.

Osborne ha lasciato anche intendere che Difesa e Istruzione potrebbero non essere colpiti in modo così drastico. Cosa resterà da spendere per gli altri ministeri? I tagli sono veramente importanti e quello che rischia di scomparire è una parte dello Stato. La riforma di bilancio che verrà resa nota in ottobre contiene interventi ben maggiori di questa legge finanziaria. Quindi la grande sfida si giocherà da oggi al prossimo autunno. Dove ognuno cercherà di limitare i danni o di scansare la lama del cancelliere. Anche molta stampa – orfana di Margaret Thatcher – sostiene la politica di rigore del governo, ricordando senza rimpianti i discorsi evanescenti di Gordon Brown.


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Non è meraviglioso che io viva come in un sogno? Sai, quando mi hai detto di pensare a te, mi sono vergognata di pensare a te cosi tanto, di pensare solo a te è troppo forse. Devo dirtelo? Mi sembra, sembra a me stessa, che nessun uomo sia mai stato per nessuna donna quello che tu sei per me, il pieno deve essere proporzionale al vuoto, lo sai e solo io so cosa c’era dietro l’ampio deserto senza fioritura di rose e la capacità di felicità, come un buco nero spalancato, davanti a questa argentea inondazione. Non è meraviglioso che io viva come in un sogno, e possa sfatare, non te, ma il mio stesso fato? Fu mai qualcuno tratto improvvisamente fuori da una cella buia e portato sul picco di una montagna, senza che gli girasse la testa e gli mancasse il cuore, come a me? E tu mi ami di più, tu dici? Devo ringraziare te o Dio? Entrambi, davvero e non c’è possibilità di ritorno da me a ciascuno di voi! Ti ringrazio come può l’indegno e come tutti ringraziamo Dio. Come proverò mai cosa è per te il mio cuore. Come vedrai tu mai cosa provo? Mi interrogo invano. Abbi sufficiente fiducia in me, mio unico amore, da usarmi semplicemente per il tuo vantaggio e la tua felicità, e per i tuoi fini senza preoccuparti degli altri è tutto quello che ti potrei chiedere senza timore Dio ti benedica! Elizabeth Barrett a Robert Browning

LE VERITÀ NASCOSTE

Turchia, un ricorso per tornare a fumare ANKARA. Fumavano, imprecavano, facevano rumore. Erano i turchi, così come tramandati da un immaginario popolare forse condizionato dai tentativi (a volte riusciti) di dominazione ottomana nel sud di Italia e nel resto del cortile del Mediterraneo. Poi arrivò Mustafa Kemal, quell’Ataturk (padre dei turchi), con indosso un completo occidentale e un eloquio perfetto. E il primo mito andò in frantumi. In un secondo tempo, con l’occhio fisso all’Europa, i turchi decisero di cambiare la propria immagine all’estero e smisero di fare confusione per porti e aeroporti mondiali. Poi entrò in vigore una legge anti-fumo, e i turchi non furono più loro. Fortunatamente, il consiglio di Stato turco ha annunciato che si appellerà alla Corte Costituzionale per modificare una parte della celebre legge contro il fumo entrata definitivamente in vigore il 19 luglio 2009. Lo dice il quotidiano Zaman, spiegando che l’azione del Consiglio di Stato riguarderà solo il divieto di fumo nelle caratteristiche sale da tè. Secondo il Consiglio di Stato infatti in questi tipici locali turchi imporre il divieto di fumare sigarette e narghilè è una limitazione della libertà personale e va anche contro la legge suo lavoro, visto che molti locali di questo genere rischiano la chiusura dall’entrata in vigore della normativa. Se la Corte Costituzionale darà ragione al Consiglio di Stato però, secondo il quotidiano Zaman, c’è il rischio concreto che il divieto venga aggirato anche da altri tipi di locali, soprattutto dai caffè e dai ristoranti. Il Consiglio di Stato infatti nel suo ricorso ha puntato molto sul diritto al fumo come scelta personale del consumatore. Quindi seguendo questo ragionamento altre strutture potrebbero decidere di appellarsi alla Suprema Corte.

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

COME SI FA AD USCIRE DALLA CRISI CON MENO SOLDI E PIÙ TASSE? Solo nel 2011 la manovra di Tremonti scipperà Roma e l’intera aerea metropolitana di 732 milioni di euro che si tradurranno in una riduzione dell’offerta del trasporto pubblico e della sanità. In questo contesto le dichiarazioni di Alemanno che smentiscono l’aumento delle tariffe degli autobus e delle rette degli asili nido non ci rassicurano. Come farà il sindaco a garantire i servizi alle famiglie con 2 miliardi e 259 euro in meno fino al 2013? Se afferma di non voler tassare oltremodo i suoi cittadini, Alemanno non avrà alcun problema a firmare un serio piano di calmieramento dei prezzi dei servizi comunali, un impegno ufficiale a garanzia delle famiglie romane che già si ritroveranno con 135euro in meno all’anno per l’aumento dell’addizionale Irpef.

Fabio Nobile

MATURITÀ 2010: QUALCHE RETROPENSIERO DI TROPPO Le tracce dei temi proposti per la prima prova degli esami di maturità mi lasciano perplessa, poiché non sempre si riesce a studiare in modo approfondito il ’900 con tutto il seguito di tragedie alimentate dal rancore per le persecuzioni subite. Se l’intento fosse stato quello di unire il Paese nella memoria delle tragedie del Novecento e non di dividerlo, questi temi avrebbero dovuto invitare i ragazzi ad una riflessione su tutto il periodo storico. Inoltre, accostamenti arditi di “leader”come Mussolini,Togliatti, Moro e Giovanni Paolo II indicano qualche retro pensiero di troppo in un esame di Stato.

Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci,

Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,

Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)

Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Collaboratori

APPUNTAMENTI GIUGNO LUNEDÌ 21 - ORE 17,30 - ROMA CAMERA DEI DEPUTATI - SALA DELLA MERCEDE

In occasione dell’uscita del libro “Ho visto morire il Comunismo” di Renzo Foa, ne discutono Ferdinando Adornato, Rino Fisichella, Stefano Folli, Claudio Petruccioli. SEGRETARIO

VINCENZO INVERSO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Lettera firmata

Robert Kagan, Filippo La Porta, Direttore da Washington Michael Novak

VERSO IL PARTITO DELLA NAZIONE: UN’ALTRA ITALIA È POSSIBILE (I PARTE) Nel mio intervento al seminario di Todi, ho sottolineato la sensazione di sfiducia nel futuro tra le giovani generazioni. Questo perché c’è consapevolezza dei grandi limiti strutturali presenti nel Paese, resi più evidenti dalla crisi economica che attraversiamo. Ma non si tratta soltanto di crisi economica, è l’intera società italiana a vivere un momento di grave difficoltà. Un elemento di crisi della società è determinato dall’affermazione di un individualismo esasperato, spesso fondato sulla prevaricazione e sul principio dell’homo homini lupus. Si perde di vista il bene comune e prevalgono i tanti particolarismi. Si smarrisce il senso di concetti quali merito, responsabilità, giusto rapporto tra diritti e doveri (per alcuni crescono i diritti e si riducono i doveri, per altri è sempre più difficile vedere riconosciuti i propri diritti). E i problemi da tecnici diventano culturali, perché cambia nella cultura del Paese la percezione stessa di cosa è giusto e cosa è sbagliato, e tutto diventa relativo. Penso al tema della giustizia, con i suoi tempi lunghi e l’incapacità di garantire la certezza della pena e il giusto risarcimento a chi è danneggiato. Cui si aggiunge la continua delegittimazione reciproca tra giustizia e politica che genera un sistema in cui sembra non ci siano più colpevoli, ma soltanto perseguitati e persecutori, fornendo un alibi dietro il quale nascondere le colpe di ciascuno. Così si alimenta il senso di insicurezza e si genera la sensazione di impunità per chi si macchia di reati, diminuisce il livello di censura sociale nei confronti degli illeciti che entrano a far parte del costume del Paese, e questa è una causa dell’incremento della criminalità. Ma penso anche alla sfiducia nella burocrazia e nei servizi pubblici, considerati inefficienti, causa di ingenti sprechi, senza dimenticare i tanti casi di cattiva amministrazione. Questo genera la sensazione di un sistema pubblico non proporzionato all’eccessivo carico fiscale cui sono soggetti i cittadini e le imprese, e questa è una delle cause dell’evasione fiscale. A ciò si aggiunge la sensazione di un sistema politico rissoso, incapace di dialogare nell’interesse dei cittadini, troppo spesso autoreferenziale e distante dai problemi reali del Paese. In questo modo cresce nei cittadini la sfiducia nelle Istituzioni, si affievolisce il senso dello Stato, e rischia di venire meno la coesione sociale. Mario Angiolillo P R E S I D E N T E CI R C O L I LI B E R A L GI O V A N I

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ULTIMAPAGINA Armageddon. Lo scopritore del vaiolo afferma che ci restano solo 100 anni prima dell’estinzione a causa del clima

Conto alla rovescia per la di Pierre Chiartano ncora cento anni e poi il genere umano potrebbe scomparire, uscire di scena. Insomma siamo destinati a fare la fine degli abitanti dell’isola di Pasqua, scomparsi misteriosamente. A sostenere questa tesi non è un personaggio qualunque, un Peter Colosimo della scienza, oppure un Uri Geller della futurologia, per intenderci. È Franck Fenner, esimio professore di microbiologia all’Australian national university. Uno degli scopritori del vaccino contro il vaiolo, uno dei virus più aggressivi e letali mai isolati,

A

responsabile di milioni di morti. Dunque il professore è un esperto in flagelli contro il genere uamano. In pratica i cambiamenti climatici di cui siamo solo agli albori provocheranno condizioni tali da portare la razza umana e molte specie animali alla completa estinzione. Come è successo per i dinosauri e come si era ipotizzato sarebbe accaduto nel caso una cometa avesse impattato la Terra. Su quest’ultima eventualità Hollywood ha prodotto una vasta serie di ipotesi, tanto da toglierci ogni genere di fantasia. Questa volta il killer climatico agirebbe progressivamente, ma inesorabilmente. I fattori determinanti per Fenner dovrebbero essere l’esplosione demografica e i consumi fuori controllo.

Intervistato dal quotidiano The Australian il cattedratico è stato a dir poco tranchant: «è una situazione ormai irreversibile e penso sia davvero troppo tardi per porvi rimedio». Il periodo dell’uomo sulla terra, che gli esperti chiamano Antropocene, sarebbe davvero giunto al termine. Naturalmente la tesi ha scatenato non poche reazioni nel mondo scientifico. C’è chi come il professor Stephen Boyden si pone a metà strada con l’ipotesi dell’Armaged-

don e lascia aperto uno spiragllio: «forse possiamo ancora farcela, invertendo la rotta, alcuni di noi hanno ancora la speranza che si arrivi a prendere consapevolezza della situazione e che, di conseguenza, si mettano in atto i cambiamenti necessari a raggiungere un vero sviluppo ecosostenibile». Mentre noti ambientalisti come la testa coronata del principe Carlo annuiscono sconsolati. Il principe aveva avvisato sui pericoli legati alla crescita incontrollata della popolazione mondiale poche settimane fa. C’è chi come il professor Nicholas Boyle dell’università di Cambridge, si è spinto anche oltre, ipotizzando il 2014 come la data del «giu-

500 milioni di unità. Lo aveva affermato un guru della scienza indipendente e un fautore dello sviluppo ecosostenibile come James Lovelock, autore di The Gaia theory.

Tutti comunque d’accordo che sia il clima a rendere esiziale il cattivo comportamento umano. Sarebbe finito il tempo per l’homo sprecone e inquinatore. «Siamo entrati nell’Antropocene, cioè l’era geologica in cui l’impatto dell’uomo sull’ambiente è devastante, tanto quanto quello di una cometa o di un’era glaciale» spiega Fenner, tanto per farci stare più tranquilli. I cambiamenti climatici, al mo-

?

RAZZA UMANA Lo scienziato australiano Franck Fenner: «Siamo entrati nell’Antropocene, cioè l’era geologica in cui l’impatto dell’uomo sull’ambiente è devastante, tanto quanto quello di una cometa o di un’era glaciale» dizio universale», spiegando dalle pagine del suo libro 2014: Come sopravvivere alla prossima crisi globale che il mondo si sta infilando in un cul de sac senza precedenti E che avrà conseguenze molto più ampie dell’attuale crisi economica internazionale. Insomma in questo caso avremmo gudagnato solo un paio d’anni rispetto alla predizione maya del 2012, come data della fine del mondo. Qualche anno fa (2006) era già stato ipotizzata una drastica diminuzione della popolazione terrestre di circa

mento, sarebbero «in una fase molto iniziale». Tuttavia, «già si vedono dei considerevoli mutamenti nelle condizioni atmosferiche». Fenner sottolinea che «gli aborigeni hanno dimostrato che potrebbero vivere per 40 o 50mila anni senza la scienza, la produzione di diossido di carbonio e il riscaldamento globale, ma il mondo non può e così la razza umana rischia di fare la stessa fine di molte altre specie che si sono estinte nel corso degli anni». A voler essere dei veri ottimisti possiamo constatare che la teoria dello scienziato ci da ben una novantina d’anni in più di vita rispetto agli inesorabili maya del «2012». E comunque non sarà certo più un problema per il microbiologo, visto che ormai ha già raggiunto il ragguardevole traguardo di 95 compleanni.


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