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di e h c a n cro

La buona educazione è

nascondere il bene che si pensa di sé e il male che si pensa degli altri Mark Twain

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • VENERDÌ 25 GIUGNO 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Ventiquattr’ore consecutive di lavoro alla Camera per smontare la demagogia antipolitica dell’Idv sugli enti musicali

Un fiasco “La traviata” di Di Pietro Era già pronto a dire: i politici immorali guardano la partita e se ne fregano della lirica. Ma Montecitorio batte il suo ostruzionismo e migliora la legge. E il Pd rompe con l’ex pm TESTIMONI OCULARI

Clamorosa sconfitta ai Mondiali di calcio

di Errico Novi

Una notte tra nani e ballerine

ROMA. Può succedere che un

di Enzo Carra o passato la notte tra nani e ballerine. Dico sul serio. I tersicorei, ballerine e ballerini, sono gli onesti lavoratori dello spettacolo ai quali il decreto sulle fondazioni liriche fissa l’età pensionabile al compimento del quarantacinquesimo anno. Dico sul serio: il dato è contenuto all’art. 3 del decreto sul quale ci siamo lungamente soffermati intorno alle due. I nani, quelli eravamo, siamo tutti noi, deputati ai quali l’intesa Casini, Cicchitto, Reguzzoni (Lega) e la benevola astensione del Pd ha imposto una seduta non-stop e senza partita Italia-Slovacchia, che dura ancora adesso mentre scrivo. Di Pietro, lui non sarà un nano ma non è neanche un tersicoreo.

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Eliminata l’Italia senza innovazione Settanta minuti contro la Slovacchia senza mai entrare davvero in partita. Soltanto alla fine gli Azzurri hanno alzato la testa. Ma ormai, purtroppo, era troppo tardi. Una squadra vecchia, logora e non riformata. È lo specchio del Paese…

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Parla l’ex capogruppo Soro

«Continuate così e il Pd farà a meno di voi» «L’accordo con governo e Udc? Ha vinto la democrazia: un momento alto per il nostro Paese»

provvedimento non decisivo per la legislatura diventi uno spartiacque? Sì, può succedere eccome. Basta solo che un paio di giorni prima dell’arrivo a Montecitorio del decreto sulle fondazioni liriche, Antonio Dio Pietro inciampi nell’ennesima buccia di banana giudiziaria. Basta uno scivolone più teatrale del solito – l’accusa sollevata dall’ex sodale Elio Veltri, di aver intascato personalmente i rimborsi elettorali destinati al partito – basta questo per ottenere che l’Italia dei valori getti la sua maschera. E sveli soprattutto la sua vocazione anti-democratica, evidente nel disprezzo per la centralità del Parlamento. È proprio il partito dipietrista infatti a impegnarsi con tutte le forze per impedire un minimo di restyling sul decreto Bondi. Preferisce l’ostruzionismo, la pattuglia agli ordini di Tonino, anziché il confronto costruttivo.

Francesco Capozza • pagina 5

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Le Regioni pronte a rinunciare ai poteri garantiti dal Titolo V

La manovra sta deragliando «Non c’è crescita se non c’è equilibrio tra Nord e Sud» GOVERNO IN DIFFICOLTÀ

di Savino Pezzotta

L’ammutinamento dei governatori

Italia ha perso. Ha giocato settanta minuti contro la Slovacchia senza mai entrare davvero in partita. Soltanto alla fine gli Azzurri hanno alzato la testa, tirando fuori la grinta, creando occasioni e segnando due reti. Ma ormai, purtroppo, era troppo tardi...

l dibattito sulla manovra e sul referendum di Pomigliano ha fatto emergere con maggiore evidenza le differenziazioni che esistono tra le diverse aeree territoriali che compongono il nostro Paese, ma anche quelle che esistono all’interno delle stesse. Mentre le persone e le famiglie vivono una situazione difficile che esigerebbe maggiore attenzione dalla politica.

collasso», intima Giulio Tremonti. «E noi siamo pronti a restituire le competenze garantite dalla Bassanini», ribatte Vasco Errani. Il Titolo V della Costituzione li costringe a trovare un accordo. Eppure la guerra tra il ministro e i governatori non sembra destinata nel breve a una conclusione. A 24 ore dal rifiuto di alleggerire i tagli in manovra, i governatori non si sono fatte intimorire.

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di Paola Binetti

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I QUADERNI)

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• ANNO XV •

NUMERO

122 •

di Francesco Pacifico

ROMA. «La manovra è necessaria, senza c’è il

WWW.LIBERAL.IT

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IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Svolta. Smascherata l’ipocrisia dell’ostruzionismo dipietrista, ideato per alzare una cortina fumogena sugli scandali del leader

Vince il Parlamento

Decreto migliorato grazie al dibattito fiume di Montecitorio. Casini, Franceschini e Cicchitto per una volta d’accordo: «L’unica politica dell’Idv è la provocazione» di Errico Novi

ROMA. Può succedere che un provvedimento non decisivo per la legislatura diventi uno spartiacque? Sì, può succedere eccome. Basta solo che un paio di giorni prima dell’arrivo a Montecitorio del decreto sulle fondazioni liriche, Antonio Di Pietro inciampi nell’ennesima buccia di banana giudiziaria. Basta uno scivolone più teatrale del solito – l’accusa, sollevata dall’ex sodale Elio Veltri, di aver intascato personalmente i rimborsi elettorali destinati al partito – basta questo per ottenere che l’Italia dei valori getti la sua maschera. E sveli soprattutto la sua vocazione anti-democratica, evidente nel disprezzo per la centralità del Parlamento. È proprio il partito dipietrista infatti a impegnarsi con tutte le forze per impedire un minimo di restyling sul decreto Bondi. Opta per l’ostruzionismo, la pattuglia agli ordini di Tonino, anziché per il confronto costruttivo. Avrebbe preferito addirittura che mercoledì pomeriggio il ministro della Cultura imponesse il voto di fiducia: dopo che Pier Ferdinando Casini per l’Udc e Dario Franceschini per il Pd riescono a ottrenere un compromesso su tre modifiche al testo di maggioranza in cambio del ritiro degli emendamenti, Massimo Donadi e Fabio Evangelisti, fedelissimi dell’ex pm, si inalberano e gridano all’inciucio. Con una coda di insulti, allusioni pesanti, che va avanti per tutta la giornata e la nottata di ieri, e che non risparmia una pietosa polemica sulla partita della Nazionale.

Dietro i toni da sceneggia – di cui il deputato napoletano dell’Idv Franco Barbato si dimostra impareggiabile interprete – emerge una chiara volontà: sollevare un polverone, con la scusa del no al decreto, per assumere il ruolo delle vittime. E manipolare così la realtà di un leader, Di Pietro appunto, incorso nell’ennesima disavventura giudiziaria. Non è l’ex pm a dirottare sui conti della sua associazione fai-date i finanziamenti, sono gli altri a metterlo in mezzo.Vittimismo, esasperazione dei toni: tutto fa giuoco. Ma più di un esponente del Pd smaschera la montatura: «Non abbiamo assecondato l’interpretazione che pure girava

Di solito forzano la mano e il Pd, pallidamente, li segue. Stavolta non è accaduto

Quella lunga notte trascorsa con nani e ballerine di Enzo Carra o passato la notte tra nani e ballerine. Dico sul serio. I tersicorei, ballerine e ballerini, sono gli onesti lavoratori dello spettacolo ai quali il decreto sulle fondazioni liriche fissa l’età pensionabile al compimento del quarantacinquesimo anno. Dico sul serio: il dato è contenuto all’art. 3 del decreto sul quale ci siamo lungamente soffermati intorno alle due. I nani, quelli eravamo, siamo tutti noi, deputati ai quali l’intesa Casini, Cicchitto, Reguzzoni (Lega) e la benevola astensione del Pd ha imposto una seduta non-stop e senza partita Italia-Slovacchia, che dura ancora adesso mentre scrivo. Di Pietro, lui non sarà un nano ma non è neanche un tersicoreo. In una situazione che per lui si fa difficile semplicemente sceglie la via dell’ostruzionismo al decreto sugli enti lirici per cambiare discorso.

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Altre volte gli è riusci to a Di Pietro. Lui sanguigno forza la mano e il Pd pallido lo segue. Stanotte no. Il partito di Bersani si dichiara doppiamente soddisfatto, pur di fronte a un decreto che non piace a nessuno di noi, perché ha sventa l’ennesimo voto di fiducia del governo e perché ottiene concreti migliora-

menti alla legge. Soprattutto, il Pd che ha già diverse rogne di suo decide che è ora di finirla con ricatti tipo: è l’Idv a fare l’opposizione, quella vera,

e il Pd fa finta. Dopodiché quello gli corre dietro. Con grande piacere ascolto nelle prime ore del mattino, nell’aula assonnata, le voci di Dario Franceschini e di Antonello Soro che vanno giù duri, durissimi su Di Pietro, ricordandogli – senza giri di frase – che se il suo partito è in Parlamento è al Pd che lo deve (in particolare a Veltroni) e che il tempo di prendere lezioni dall’ex pm è finito. Si diceva, questi ha inforcato l’ostruzionismo anche per diradare la foschia che si è posata su di lui da quando il suo ex amico Veltri lo ha fatto indagare per truffa. Per capirci ieri mattina Il Fatto – di Antonio Padellaro – apre con una requisitoria di Flores d’Arcais. “Di Pietro, così non va”.

Il giornale circola a Montecitorio quando sta per cominciare il giorno più lungo della Camera. La giornata non comincia tanto bene per il leader dell’Idv. Una cosa è la fastidiosa persecuzione dei suoi nemici berlusconiani, un’altra è la denuncia impietosa dei suoi autori di riferimento, sul giornale di Padellaro-Travaglio. A un passo dall’epurazione, Di Pietro fa qualcosa per uscire dall’accerchiamento. Riprende il comando delle operazioni sulla sinistra. Se gli riesce confermerà l’egemonia che da due anni, con alterne fortune, marca sul Pd, costringendolo a un ostruzionismo senza sbocchi e senza ragioni che darà contemporaneamente un colpo al rapporto tra Pd e Udc che tanto lo preoccupa. Ieri, però, il piano dipietresco non riesce. La buona tenuta fisica del gruppo Idv consegue un unico risultato: trascinare per quarantott’ore la seduta. Gli occhi pesti, i vestiti spiegazzati, l’afrore che emana nei banchi, non sono il contesto di un episodio importante nella storia della Camera. Non è, per dire, una di quelle belle sedute fiume in cui si discute di leggi che cambiano il corso della società. Al massimo qui oltre a tagli sugli enti lirici si discute di nani e di ballerine che, tutti e due, temono per il loro futuro.

secondo cui l’Italia dei valori aveva sviluppato questa grande opposizione ostruzionistica per coprire altre questioni che erano all’ordine del giorno», dice l’ex capogruppo democratico Antonello Soro. Un modo per ricordare che proprio quella del polverone è la logica dell’estenuante opposizione dell’Idv.

Ed emerge una realtà finora contraddetta dalla propaganda dipietrista: è l’Italia dei valori ad avere in spregio, più degli altri, la centralità delle Camere. È il partito di Tonino a mostrarsi disposto a ba-

Dall’ex pm persino l’accusa di voler chiudere i lavori in tempo per la partita. Da Bondi esempio di civiltà istituzionale: «Fase nuova» rattare le migliorie al decreto con una cortina fumogena da alzare attorno agli scandali del suo leader. Ed è appunto il Pd di Bersani e Franceschini a rendersene conto, ad ammettere la sempre più difficile sostenibilità dell’alleanza. «Ora il Partito democratico non può non affrontare il capitolo del patto con Di Pietro», dice il vicepresidente pd della commissione di Vigilanza, Giorgio Merlo.

E in effetti il distacco tra due modi incompatibili di intendere l’opposizione, si produce progressivamente nel corso della due giorni di lavori sul decreto Bondi. Inizia mercoledì con il tentativo riuscito dell’Udc e dei democratici di evitare il ricorso alla fiducia. Un compromesso di partenza sul quale i parlamentari dell’Italia dei valori si avventano come furie. Basta infatti che il pd Roberto Giachetti rivolga a Bondi un civile apprezzamento per l’atto di apertura («difendo il comportamento di un ministro che onora questo Parlamento») per scatenare Massimo Donadi: «Sono le prove generali per una nuova convergenza». Reagisce innanzitutto Casini: «Solo chi è in malafede può sostenere questo, si tratta semplicemente di due modi di intendere il ruolo delle Camere». Anche Franceschini coglie subito il nocciolo della questione: «Anche così si concretizza la tante volte invocata centralità del Parlamento, non solo alzando la voce e il tono dello scontro».


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Ridimensionata al 25% la sforbiciata sui contratti integrativi

Ecco come l’opposizione ha ridotto i tagli alla lirica

I debiti accumulati dalle fondazioni dal 1996 a oggi ammontano a oltre 300 milioni di euro di Riccardo Paradisi uasi la metà, il 47%, dei 450 milioni del Fondo unico dello Spettacolo viene spesa ogni anno per il comparto della lirica. Per questo il governo ha presentato il decreto relativo alle Fondazioni lirico-sinfoniche. Un decreto necessario – secondo il ministro dei Beni culturali Sandro Bondi – o l’opera sarebbe morta in Italia: «Se non fossimo intervenuti, davvero avremmo lasciato perire l’opera lirica in questo Paese». Un decreto che non è stato blindato dal governo con la fiducia e nel quale anzi l’opposizione – rinunciando a presentare una serie di emendamenti e concentrandosi su quelli essenziali – è riuscita a ottenere delle modifiche essenziali.

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provvedimento serve solo a fare cassa sulla pelle dei lavoratori del settore, non riforma, non raccoglie le istanze degli operatori dello spettacolo» Il pensiero del governo è invece che le entrate delle 14 fondazioni lirico-sinfonico italiane derivano troppo dei loro introiti dal finanziamento pubblico e poco da quello privato. Il ministro ha fornito anche le cifre di questa partita: il 60 per cento deriva dal contributo statale e soltanto il 20 per cento delle entrate delle fondazioni deriva dai contributi degli enti locali, appena il 7 per cento infine deriva da privati. Uno scenario a cui deve aggiungersi il fatto che i debiti accumulati dalle fondazioni dal 1996 a oggi ammontano a oltre 300 milioni di euro. Ma si sa che in Italia niente è più opinabile dei numeri. Maria Di Freda, direttore generale il Teatro alla Scala di Milano, fornisce infatti una situazione diversa «si sta troppo sbilanciando l’equilibrio tra sostegno pubblico, ricavi propri e sostegno privato. Attualmente il 40% viene dal contributo pubblico e il 60% da ricavi propri (il 40 per cento) e da privati (20%): noi riteniamo che dovrebbe essere l’esatto contrario visto il tipo di attività che abbiamo”.

All’interno dei Beni culturali – sostiene Gianfranco Cerasoli (UilMibac) – ci sono margini per tagliare almeno 18 milioni di euro incidendo su enti e società inutili

Antonio Di Pietro, ex pubblico ministero e leader dell’Italia dei Valori. A destra il ministro dei Beni Culturali Sandro Bondi. Nella pagina a fianco Jane Hachiya-Weiner, etoile americana, e Enzo Carra

Siamo sempre nel pomeriggio di mercoledì.Tra le prime linee della maggioranza comincia a farsi strada la stessa convinzione: qualcosa sta cambiando riguardo all’approccio con l’aula, che dall’inizio della legislatura fino a quel momento è stato assai problematico. Dice Cicchitto: «Va dato atto a Pd e Udc di aver assunto un atteggiamento non ostruzionistico che va dritto al merito dei problemi». È in fondo soprattutto un’affermazione della linea proposta fin dal maggio 2008 dall’Udc e da Pier Ferdinando Casini. All’Italia dei valori la cosa non sfugge. E infatti è proprio contro il leader centrista che i “pit-bull”dell’Idv si scatenano, dopo che lo stesso Casini mercoledì notte riesce a ottenere il dibattito a oltranza sul provvedimento. Fabio Evangelisti la prende malissimo e dice che «tanto vale che anche il Pd voti a favore». Dopo una nottata di ostruzionismo e votazioni sonnambule, quando Casini torna in aula gli uomini dell’ex pm lo accolgono tra i fischi: è lui l’ideologo di questa nuova fase e lo hanno capito. Se ne trae spunto per quella che

ancora Cicchitto definisce «una polemica da quattro soldi»: in pratica i dipietristi accusano Casini di aver voluto la discussione fiume per chiudere i lavori sul decreto entro l’orario di’inizio di Slovacchia-Italia. «Noi restiamo a votare anche alle 16, alle 17 e alle 18, della partita non ci interessa nulla», dice il leader dell’Udc. Franceschini lo segue, sempre più persuaso che dal fronte idv si punti a difendere semplicemente il principio dell’opposizione barricadera. Il dibattito continua, finché tutti gli articoli vengono votati.

E Sandro Bondi, rimasto con esemplare dignità al suo scranno per tutta la due giorni, riconosce che «c’è un altro modo di condurre i lavori parlamentari oltre a quello del ricorso alla fiducia. Dal governo non si è voluta fare alcuna imposizione». I risultati si vedono: sulle retribuzioni dei dipendenti delle fondazioni liriche si riesce a dimezzare il taglio ipotizzato all’inizio. Le opposizioni – quelle non teatrali – portano a casa un risultato oltre le attese. Almeno questa partita finisce bene.

Nel testo arrivato in aula a Montecitorio c’è anzitutto la riduzione del taglio sui contratti integrativi aziendali che scendono dal 50 per cento al 25 per cento e la garanzia del rispetto dei diritti acquisiti; l’eliminazione del ruolo del ministero nella fase di contrattazione per cui saranno soltanto le parti sociali interessate ad essere coinvolte nel rinnovo dei contratti; lo slittamento di un anno del divieto di prestazioni di lavoro autonomo per i dipendenti delle fondazioni. Di fronte alle accuse di intelligenza col nemico che vengono mosse dall’Italia dei Valori Pd e Udc rivendicano il merito di aver ottenuto, negoziando con la maggioranza, sia l’abolizione della legge 800, unica legge in materia di musica, come era previsto originariamente dal decreto Bondi sia l’affidamento della responsabilità dei bilanci delle fondazioni ai consigli di amministrazione e ai sovrintendenti. Un provvedimento utile per sapere chi è realmente referente di eventuali bilanci in rosso e per eliminare l’handicap di tetto ai cachet, che avrebbe impedito l’ingaggio di artisti prestigiosi. E pazienza per la delega che di fatto il governo assume su questo tema: con la condotta della trattativa – rivendica l’opposizione – si è migliorato un decreto che resta comunque negativo perché aumenterebbe la precarietà e l’incertezza nella vita professionale dei lavoratori delle fondazioni lirico sinfoniche. Per gli oltranzisti dell’Idv si tratta invece della bancarotta dell’opposizione moderata che firma una cambiale in bianco al governo in materia di spettacolo: «Questo

Un calendario di scioperi è in programma per tutta la stagione estiva e oltre, coinvolgendo teatri e manifestazioni all`aperto dall`Arena di Verona a Caracalla e Santa Cecilia: la convinzione degli addetti ai lavori è che i tagli metteranno in ginocchio il settore. Tagli che vengono percepiti come un falso scopo. Anche perché, come dice a liberal il segretario nazionale della Uil-Beni culturali Gianfranco Cerasoli: «Ci sono risorse all’interno del ministero che possono impedire il taglio di 18 milioni di euro. Non ha senso per esempio tenere in piedi società come Arcus che costa 3 milioni e mezzo di euro all’anno, né tenere in piedi Ales, società di servizi nata per reimpiegare gli ex lavoratori socialmente utili poi trasformata in una scatola per la ricollocazione di politici. Una cosa che costa 14 milioni di euro. Se assumessimo le 400 persone che ci lavorano risparmieremo comunque. Insomma all’interno del Beni culturali ci sono margini ampi dentro cui calare tagli opportuni. Per non parlare dei consulenti dove si potrebbe risparmiare un altro milione di euro».


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l’approfondimento

La lunga deriva dell’Italia dei Valori, che sulla carta si proclama pura ma che secondo alcuni giudici lo è molto meno

L’extraparlamentare

Storia della progressiva metamorfosi di un pubblico ministero di destra che ha sposato le tesi del gauchismo più estremo. E che strumentalizza il posto in Parlamento come provocazione per fomentare la piazza di Maurizio Stefanini ultima storia è quella del decreto sulle fondazioni liriche. Con da una parte lo stesso capogruppo del Partito Democratico Dario Franceschini ad attaccare il partito di Antonio Di Pietro per il suo atteggiamento ostruzionista “mediocre e autolesionista”; dall’altra l’Italia dei Valori, che accusa Democratici e Udc di «svendere il loro ruolo di opposizione». «Voi avete privilegiato la propaganda, noi il merito, rispetto al quale pensiamo che non si facesse l’interesse né dei lavoratori, e ancora meno della cultura italiana e delle istituzioni culturali italiane, se avessimo convertito con un voto di fiducia questo testo così com’era stato approvato dal Senato», ha risposto irato per il Pd Soro.

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Rimproverando ai dipietristi le accuse allo stesso Pd «di essere prono rispetto alle esigenze del governo, di essere la stampella e tante altre cose che abbiamo sentito dire, sulle

quali, per carità di patria e anche per rispetto delle prospettive che, qualche volta, ancora ci illudiamo possano essere possibili, abbiamo pensato di non replicare».

E ancora: «Se vi illudevate di dettare l’agenda del Pd adottando la regola del “più uno”, spostando sempre più in là l’asticella, vi siete sbagliati. L’agenda, oggi e in futuro, il Pd la sceglie da solo». «Non abbiamo assecondato l’interpretazione, che pure girava, che l’Italia dei Valori avesse sviluppato questa grande opposizione ostruzionistica per coprire altre questioni, che erano all’ordine del giorno, rispetto alle quali noi non l’abbiamo assecondata». Questo è invece il linguaggio del capogruppo Idv Massimo Donadi ai democratici: «Avete anche preferito fare opposizione al nostro gruppo piuttosto che assumervi fino in fondo la responsabilità delle vostre scelte, forti o deboli che fossero. Questa è la vostra mancanza

di buona fede e qui, oggi, dobbiamo dirvelo e sottolinearlo, perché è qualcosa che non resterà privo di conseguenze nei rapporti tra le nostre forze politiche». Idea, peraltro, su cui è paradossalmente d’accordo il democratico Giorgio Merlo: «Ora il Pd non può non affrontare il capitolo dell’alleanza con il partito di Di Pietro. È giunto il momento di piantarla con la rincorsa all’irresponsabilità politica di chi lavora sistematicamente per il tanto peggio tanto me-

«L’atteggiamento di Bersani si ripercuoterà nei rapporti fra i due partiti»

glio. Il Pd non può costruire un’alternativa credibile al centrodestra con una coalizione che si poggia su partiti e movimenti che fanno dell’antipolitica e dell’estremismo verbale la loro cifra politica».Certo, tra il dire e il fare c’è sempre di mezzo il mare. La scelta del Pd di fare a meno dell’Idv era in astratto possibile nel 2008, quando negare a Di Pietro l’apparentamento gli avrebbe fatto fare la stessa fine extraparlamentare di comunisti vari, socialisti e verdi.

Ma ormai l’Idv si è rafforzata, proprio perché rappresenta sempre di più l’unico sbocco rimasto per quel tipo di elettorato radicale che la legge elettorale ha lasciato se noi senza rappresentanza. Allo stesso tempo, questa sinistra radicale di matrice classista viene così saldata a un altro tipo di elettorato che non è necessariamente di sinistra, ma che comunque è radicale nelle proprie pregiudiziali giustizialiste. Due tipi di utenza politica che in realtà sarebbe difficile far andare d’accordo, se non sulla piattaforma di intransigentismo su tutto e tutti.

D’altra parte, l’Italia dei Valori è una forza politica tendenzialmente ancora più eterogenea della semplice sommatoria tra radicali di sinistra e giustizialisti. Progenie dichiarata di contadini democristiani, Antonio Di Pietro è per propria vocazione antropologica un classico rappresentante di quel tipo di atteggiamento mentale Law and Or-


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Parla l’ex capogruppo del Pd alla Camera, autore di un durissimo intervento a Montecitorio

Soro: «Continuate così e il Pd farà meno di voi»

«L’accordo con governo e Udc? È soprattutto una vittoria per la democrazia. Uno dei pochi momenti “alti” di questa legislatura» di Francesco Capozza

ROMA. «Se vi illudevate di dettare l’agenda del Pd adottando la regola del “più uno”, spostando sempre più in là l’asticella, vi siete sbagliati. L’agenda, oggi e in futuro, il Pd la sceglie da solo». Con queste durissime parole Antonello Soro, già capogruppo del Partito democratico alla Camera, è intervenuto ieri a Montecitorio contro l’Idv, nell’ambito del dibattito sul decreto legge riguardante le fondazioni liriche. Onorevole Soro, cosa l’ha spinta a scontrarsi cosi duramente contro l’Italia dei Valori , che per di più è un vostro alleato? È accaduto che sistematicamente, per tutte la notte precedente a ieri, l’Idv abbia accusato il Partito democratico di essere prono rispetto alle esigenze del governo, di essere la stampella e tante altre cose che abbiamo sentito dire, sulle quali, per carità di patria e anche per rispetto delle prospettive che, qualche volta, ancora ci illudiamo possano essere possibili, abbiamo pensato di non replicare. Nel dibattito parlamentare ci sono momenti in cui è necessario mettere a fuoco le proprie posizioni e a me, come a tutto il gruppo parlamentare del Pd, è sembrato doveroso mettere in chiaro all’Italia dei Valori che non accettiamo accuse o critiche su come intendiamo portare avanti il nostro lavoro come opposizione. Qualche malevola lingua ha ipotizzato che quegli attacchi contro di voi siano stati rivolti dall’Idv per spostare in un certo senso l’attenzione dai recenti “problemi” con la magistratura del suo leader, Antonio Di Pietro. Guardi, noi non abbiamo assecondato l’interpretazione, che pure girava, che l’Italia dei Valori avesse sviluppato questa grande opposizione ostruzionistica e quegli attacchi contro di noi per coprire altre questioni, che erano e sono all’ordine del giorno per quel partito e per l’onorevole Di Pietro, rispetto alle quali noi non abbiamo voluto assolutamente dare giudizi. Ritiene una vittoria per il Pd l’aver convinto il governo a rinunciare al voto di fiducia e l’aver fatto passare diversi dei vostri emendamenti? Ieri c’erano due possi-

bilità: convertire un decreto-legge che a noi non piaceva attraverso l’ennesimo voto di fiducia, o intervenire in un processo emendativo e ridurre il danno, per fare un decreto migliore di quello approvato del Senato. L’Idv ha scelto la strada di un’opposizione frontale finalizzata soltanto a favorire la

contare su una maggioranza di circa cento parlamentari tra Camera e Senato, ha più volte dimostrato che senza il ricorso al voto di fiducia non è in grado di far passare nulla. Che cosa vi ha chiesto in cambio il governo? Non c’è stato alcun baratto, come ho sentito dire da alcuni. Il governo ha solo fatto presente, legittimamente, che i tempi sono brevi e che essendo necessaria una terza lettura al Senato, lo sono ancora di più. Noi abbiamo compreso quest’esigenza e ci siamo dimostrati disponibili a collaborare. Credo che sia stato uno dei pochi momenti “alti” di questa legislatura. E secondo lei il governo è stato così accondiscendente in vista di dibattiti ben più duri quali saranno quelli sulla manovra e sul ddl intercettazioni? Le ripeto: non c’è stato nessun baratto, anzi, le posso assicurare che fino all’ultimo il governo era deciso a porre la questione di fiducia. Noi, che rispetto all’Idv abbiamo scelto la linea del dialogo e del dibattito parlamentare, siamo riusciti a far capire che il processo emendativo poteva migliorare il decreto legge e, soprattutto, migliorare la situazione di molti lavoratori del settore teatrale e lirico. Secondo lei l’Idv non aveva a cuore i lavoratori del settore lirico? Non ho detto questo, ma l’Italia dei valori ha privilegiato la propaganda, noi il merito, rispetto al quale pensiamo che non si sarebbe fatto l’interesse né dei lavoratori, e ancora meno della cultura italiana e delle istituzioni culturali italiane, se avessimo convertito con un voto di fiducia questo testo così com’era stato approvato dal Senato. Gli attacchi nei vostri confronti da parte dell’Idv hanno fatto dire a qualcuno che la vostra alleanza è arrivata al capolinea. È cosi? Ci sono momenti in cui è necessario riflettere sul metodo di lavoro parlamentare. Noi ieri l’abbiamo fatto, evidenziando che ci sono momenti, come quello di ieri, in cui ci sentiamo molto distanti dalle posizioni dell’Idv. Questo non vuol dire che il futuro sia pregiudicato.Voglio ricordare che anche in passato ci siamo più volte distanziati dalle posizioni di Di Pietro come pure molte altre volte abbiamo lavorato insieme con una linea d’opposizione comune.

«Abbiamo scelto la linea del dialogo e siamo riusciti a far capire che potevamo migliorare il decreto» decisione da parte del governo di porre la fiducia. È evidente che questa strada noi non l’abbiamo condivisa e non la condividiamo. Lei poi mi chiede se ritengo un successo per il Pd l’aver convinto il governo a rinunciare alla fiducia: certamente sì, ma più che altro la ritengo una vittoria per la democrazia parlamentare. Cosa intende onorevole? Questo governo, nonostante possa

der che in Italia è stato spesso accostato alla destra anche radicale. Ma a livello europeo ha ascritto il suo partito alla famiglia tipicamente moderata e garantista dei liberali e democratici. Ma nelle sue liste ha sempre dato spazio in quantità appunto a vecchi arnesi del marxismo, del terzomondismo e addirittura del filosovietismo. Franca Rame, che votò pure alla Presidenza della Repubblica. Giulietto Chiesa, che fece entrare nel gruppo liberale al Parlamento Europeo, dove poi però non votò alla Presidenza dello stesso Parlamento dell’ex-dissidente polacco Geremek, appunto candidato dai liberali. E ora Vattimo, noto filo-castrista e filo-chavista.

Però, la gran massa del suo personale locale viene dalla vecchia Dc e dai partiti moderati. E specie alll’inizio i suoi eletti sono stati tra i più rapidi a passare poi in campo berlusconiano. Nel contempo, quasi tutte le sue scelte concrete sono appunto ispirate al radicalismo spicciolo più spinto. L’ultimo attacco al referendum di Pomigliano, tacciato di “referendum-farsa”, continua in effetti quel supino allineamento alle posizioni della sinistra sindacale che già sui vide ad esempio nel caso Alitalia. Da ultimo, c’è poi quel personalismo che paradossalmente avvicina in modo impressionante Di Pietro al suo arcinemico Berlusconi. D’altra parte, non è un mistero che a lungo Di Pietro fu un trattativa per diventare suo ministro, e l’impressione di sostanziale omogeneità tra i due personaggi fu ad esempio teorizzata da un commentatore come Eugenio Scalfari. Poiché la politica, come ricordava Benedetto Croce, non si fa con i Paternostri, certe situazioni possono magari essere viste anche senza eccessivi moralismi. Il fatto ad esempio che Italia dei Valori dia alla sinistra radicale una tribuna è bizzarro, ma tutto sommato serve a far sì che un certo settore dell’opinione pubblica resti nel gioco democratico. Il fatto che l’Italia dei Valori i voti continui a prenderli ed anche a aumentarli, dimostra che tutto sommato corrisponde ai bisogni del mercato politico: sia pure un mercato politico che dal 1992 in poi è stato devastato in tutti i modi. Ed è proprio il personalismo di Di Pietro in fondo l’unico virtuosistico collante che può tenere tutto ciò assieme. Ma proprio che Di Pietro sia il fulcro di tutto, rende poi questa sintesi fragilissima. Proprio perché questa sintesi si basa poi sul moralismo, e oggettivamente è quasi impossibile trovare un individuo che di fronte al moralismo possa essere al di sopra di ogni sospetto.


diario

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Caso Fiat. Sacconi: «Il risultato è molto chiaro, ora bisogna procedere. Non voglio nemmeno pensare ad un’ipotesi diversa»

Ora vacilla la linea-Marchionne Dopo il referendum di Pomigliano, arrivano le prime frizioni con il governo

ioca l’Italia, noi vorremmo lavorare e invece c’è la cassa integrazione». In questo striscione comparso ieri in concomitanza con l’inizio della partita della Nazionale con la Slovacchia per i mondiali in Sudafrica, e firmato dai lavoratori di Termini Imerese c’è tutto l’assurdo di una situazione, quella di Fiat, che sta diventando sempre più surreale. Proprio ieri è cominciato il primo dei quattro giorni di cassa integrazione per tutti gli operai di Termini Imerese. L’iniziativa è stata organizzata da Fim, Fiom e Uilm, in risposta all’amministratore delegato del Lingotto, Sergio Marchionne, che nei giorni scorsi aveva criticato gli operai di Termini Imerese accusandoli di avere scioperato solo per potere vedere in Tv la partita di calcio Italia-Paraguay.

«G

La battaglia di Pomigliano, che ha impegnato la Fiat in una strategia mediatica oltre che industriale, vede uscire i vertici di Torino con le ossa rotta. Partita con l’appoggio del governo, dei giornali e persino della Cgil, la guerra di Sergio si è infranta su quella percentuale, il 62% di sì e il 38% di no, ottenuta dalla Fiom contro tutti i pronostici (e a dispetto dei Tg del giorno prima, dove tutti gli operai intervistati dicevano che avrebbero votato sì e si auguravano un’adesione tra il 70 e l’80%), e soprattutto sul comunicato successivo, dove la Fiat diceva che avrebbe lavorato soltanto con quelli che hanno firmato l’intesa. Un comunicato stigmatizzato persino dal ministro Maurizio Sacconi: «Il risultato è molto chiaro, ora bisogna procedere. Non voglio nemmeno pensare ad un’ipotesi diversa, non ce ne sono le ragioni e sarebbe un’ipotesi assurda e molto grave». Il riferimento, stante la polemica continua del responsabile del Welfare con la Fiom, è invece da leggere tra le righe: niente piani B o C, come sembrava si ventilasse dalle parti di Torino quando sono usciti i (deludenti)

che la Fiat stia cercando di limitare i diritti dei lavoratori in Italia e che voglia fare altrettanto qui da noi, mettendoci gli uni contro gli altri. Ma Solidarnosc lo impedirà, noi stiamo cercando di difendere e allargare i nostri diritti qui e pensiamo che i colleghi italiani stiano facendo altrettanto». Come se non bastasse, sempre ieri un centinaio di dipendenti dell’ex Alfa Romeo di Arese (Milano) ha bloccato l’ingresso dello stabilimento, mentre erano in corso i festeggiamenti per il centenario della storica casa automobilistica. A organizzare il presidio, preceduto da un corteo lungo viale Alfa Romeo, il sindacato Slai-Cobas, che ha anche impedito l’accesso a decine di auto d’epoca invitate per la cerimonia.

di Alessandro D’Amato

Il Giornale è stato l’unico quotidiano del centrodestra a schierarsi al fianco dell’ad

risultati del referendum. Ma soprattutto, quello che sembra cambiato nel breve lasso di tempo, è l’atteggiamento dell’opinione pubblica nei confronti della Fiat.Vittorio Feltri, nel suo editoriale di prima pagina, lancia la proposta di «adottare la formula Alitalia. E cioè istituire una nuova società e riassumere soltanto il personale che sottoscrive il contratto con le clausole considerate qualificanti e irrinunciabili».

Ma il Giornale, anche tra i quotidiani di centrodestra, è l’unico a schierarsi al fianco di Marchionne. Libero, tra le altre cose, fa notare: «Se salta tutto la grana è in mano al governo». Tra i giornali di area di centrosinistra, la posizione è netta nel richiamare Marchionne: «Il dovere della Fiat», è il titolo del fondo firmato da Paolo Nerozzi sulla prima pagina di Europa. L’Unità dedica l’apertura alla Fiat con un riferimento calcistico: «Secondo tempo», mentre all’interno di sottolinea che è stata «sconfitta la linea di Sacconi». La bocciatura che brucia di più però è quella di Antonio Polito, che gli dedi-

ca l’editoriale di prima pagina del Riformista: «Marchionne è parso impegnato sempre più in una battaglia ideologica vecchio stampo, del tipo “spezziamo le reni al sindacato rosso”; se il manager lavorava fin dall’inizio per fare fallire l’operazione Panda a Pomigliano, si è comportato coerentemente. Ma siccome non era e non è cosi, il suo comportamento è stato irrazionale». Insomma, per la prima volta il manager dal tocco magico deve fare i conti con una maggioranza di critiche, invece che con gli elogi sperticati a cui erano abituati lui e la “sua” Fiat. E nelle proposte di “nazionalizzazione”, che pur venendo da destra riecheggiano quelle di Bertinotti, è impossibile non vedere anche una critica all’operato dello stesso Marchionne. Che oggi deve incassare anche qualche piccolo strale che arriva dalla Polonia, che per un breve periodo si era anche illusa di poter vedere la linea di produzione della Panda definitivamente spostata a Tychy, e adesso deve incassare e digerire la delusione.

A spiegarlo all’agenzia Adnkronos è stata Wanda Strozyk, responsabile di Solidarnosc di Fiat Auto Poland. «Osserviamo con attenzione quello che succede in Italia e rispettiamo ogni decisione che prenderanno i colleghi di Pomigliano. Credo

E anche sul fronte politico la situazione non è ottimale. Oltre alle grida della sinistra radicale, le critiche cominciano ad arrivare anche da fronti non pregiudizialmente ostili alla Fiat. Pierluigi Bersani ha chiesto alla Fiat di rispettare i patti: «Si era detto Panda a Pomigliano, e cosi deve essere». «Noi abbiamo spinto per il sì e ha vinto; le percentuali non cambiano il risultato, noi invitiamo Fiat a mantenere gli impegni», ha rincarato la dose Enrico Letta. «Certo le percentuali sono importanti politicamente; ma il risultato è valido, anche se il sì avesse vinto con il 51%. Noi invitiamo la Fiat a tenerne conto: alla vittoria del sì deve seguire l’investimento dell’azienda e il trasferimento dalla Polonia a Pomigliano». E se anche il lato più “riformista”del Pd comincia ad utilizzare toni del genere, significa che davvero qualcosa si è rotto. In più, anche nella maggioranza qualche “voce dal sen fuggita” ha cominciato a criticare l’atteggiamento di Fiat, specialmente dopo il responso del referendum. Ovviamente, tornando a toccare il tasto degli incentivi, la querelle che ha visto contrapporsi pesantemente qualche mese fa Marchionne e Sacconi. Insomma, oggi la Fiat si trova dall’altra parte della barricata, con tanti fronti aperti e nessuna soluzione di continuità. Pomigliano, Termini, Arese, Tychy: qualunque scelta effettui il Lingotto, ora è sotto l’occhio del ciclone. Dal punto di vista “politico” fino alle scelte industriali, Marchionne non può più sbagliare.


diario

25 giugno 2010 • pagina 7

Il gup di Milano manda gli atti del processo alla Corte costituzionale

Sì a quelle per la sicurezza urbana ma non per il disagio sociale

Mediatrade: il giudice si affida alla Consulta

E l’Alta Corte boccia alcune norme sulle «ronde»

MILANO. Il gup di Milano Marina Zelante ha accolto l’istanza di legittimo impedimento presentata dai difensori di Silvio Berlusconi in questi giorni in Canada per il G8 ma ha deciso di mandare gli atti alla Corte costituzionale affinchè venga fatta una scelta sulla validità del Lodo Alfano che consente il rinvio dei processi per il presidente del Consiglio e per i ministri. Il giudice è poi rientrato in camera di consiglio perchè deve decidere se separare la posizione di Berlusconi da quella degli altri imputati. La posizione del premier potrebbe essere stralciata e l’udienza preliminare proseguire per gli altri 11 imputati tra i quali Fedele Confalonieri e Pier Silvio Berlusconi.

ROMA. La Corte Costituzionale ieri ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalle regioni Toscana, Emilia-Romagna e Umbria sul provvedimento del governo istitutivo delle cosiddette “ronde”.Vale a dire, in merito alla possibilità degli enti locali di avvalersi «della collaborazione di associazioni tra cittadini non armati al fine di segnalare alle forze di polizia dello Stato o locali eventi che possano recare danno alla sicurezza urbana». Le tre regioni avevano lamentato soprattutto il fatto che l’aver attribuito ai sindaci la possibilità di avvalersi di cittadini non armati con compiti di segnalazione alle forze dell’ordine di eventi che

In precedenza i giudici della prima sezione penale avevano inviato le carte del processo Mediaset in cui il premier è accusato di frode fiscale e i colleghi della decima sezione avevano mandato gli atti della vicenda in cui il fondatore di Fininvest risponde di aver corrotto il testimone David Mills. La decisione della Corte Costituzionale è attesa per la primavera prossima. I difensori di Berlusconi non si sono ancora costituiti in giudizio davanti alla Consulta. Lo faranno entro il prossimo 6 luglio. Da quel momento passeranno almeno sei mesi prima che la Corte fissi la data dell’udienza.

L’Aquila in piazza Navona e ortaggi contro la Rai Gli abruzzesi a Roma per chiedere garanzie sulla ricostruzione di Franco Insardà

ROMA. «Venticinque anni dopo il terremoto, dei morti sarà rimasto poco. Dei vivi ancora meno». Queste parole del poeta irpino Franco Arminio, riferite al sisma del 1980, ronzano nella testa degli aquilani come un triste presagio che loro sono intenzionati a scacciare in tutti i modi. Hanno manifestato nel centro storico distrutto il 16 giugno, sono venuti ieri a Roma per celebrare un consiglio comunale straordinario a due passi dal Senato, dove la commissione Bilancio sta discutendo gli emendamenti alla manovra, e hanno votato all’unanimità “lo stato di agitazione permanente”. Intanto proprio ieri il Consiglio dei ministri ha approvato un emendamento per il rinvio dei versamenti contributivi nelle zone terremotate dell’Abruzzo.

Il sindaco, Massimo Cialente, i consiglieri comunali, i sindaci del cratere, ma anche il presidente della Provincia dell’Aquila, Antonio Del Corvo, i rappresentanti del consiglio regionale e i parlamentari abruzzesi hanno ribadito la necessità di «una proroga delle agevolazioni fiscali, maggiori certezze sulle risorse, magari attraverso una tassa di scopo o un contributo di solidarietà in grado di assicurare un flusso costante di denaro». Cialente, riconoscendo l’opera svolta dal governo e dalla Protezione civile nella fase dell’emergenza, ha denunciato «l’attuale degrado in cui versa la città, la mancanza di risorse, l’impossibilità di tornare a pagare tasse e contributi, già dal primo luglio, a meno di emendamenti alla manovra. Restituire in cinque anni le tasse che non abbiamo pagato per le nostre famiglie è come avere un mutuo da pagare da 250 milioni. Inoltre abbiamo ancora 32mila sfollati senza case». In mattinata il presidente del Senato, Renato Schifani, ha incontrato una delegazione guidata dall’ex presidente della provincia dell’Aquila e responsabile nazionale Pd per la ricostruzione, Stefania Pezzopane, che ha ribadito la necessità di una legge speciale, “ad urbem”. Gli oltre seicento aquilani in piazza Navona non hanno, invece, gradito molto

l’incursione del parlamentare dell’Idv, Stefano Pedica, che si presentato con una carriola piena di cartelli ironici diretti alla “cricca”. Contestato anche il senatore del Pdl, Filippo Piccone, che, dopo un tentativo di difesa d’ufficio dell’opera del governo, ha abbandonato la seduta. Successivamente ha polemizzato con Cialente accusandolo di «incapacità a gestire la ricostruzione», parole alle quali il sindaco ha replicato che con le sue parole getta la croce soprattutto sul Commissario, e suo compagno di partito, Gianni Chiodi. L’ex presidente del Senato Franco Marini ha invitato i parlamentari abruzzesi di tutti gli schieramenti a trovare «dei punti d’intesa per vincere la battaglia che deve avere come priorità la ricostruzione, il lavoro e la zona franca».

L’invito di Franco Marini è stato ripreso dalla senatrice dell’Udc, Dorina Bianchi, presente in piazza con il collega di partito Pierluigi Mantini, con Anna Finocchiaro, Luigi Zanda e tanti altri parlamentari abruzzesi. «Bisogna accantonare le polemiche e trovare le risorse per far rinasce il gioiello architettonico e sociale che L’Aquila ha sempre rappresentato per tutta la nazione». Mantini ha ricordato che l’Udc «ha avanzato tre proposte: la parità di trattamento fiscale dei cittadini dell’Abruzzo con quelli dell’Umbria, delle Marche e degli altri terremoti. L’istituzione di un contributo di solidarietà una tantum pari all’un per cento sui redditi superiori a centomila euro. L’attuazione concreta della legge che impone agli enti previdenziali pubblici di investire nei programmi per la ricostruzione in Abruzzo». Gli aquilani hanno lamentato il silenzio dei media nazionali, soprattutto televisivi, sulle loro manifestazioni e, alla fine del consiglio comunale a piazza Navona, sono andati a protestare sotto la sede Rai di viale Mazzini, lanciando pomodori e altri ortaggi. Ma la protesta non finisce qui. I comitati, infatti, hanno organizzato per martedì 6 luglio una nuova mobilitazione a Roma.

Intanto ieri il Consiglio dei ministri ha approvato un emendamento per il rinvio dei versamenti contributivi

«La decisione del Gup è al di fuori di quanto detto dalla Corte Costituzionale sulla leale collaborazione tra le parti». Così uno dei legali di Silvio Berlusconi, l’avvocato Niccolò Ghedini, ha commentato la decisione del gup: «Noi eravamo disponibilissimi a fare il processo e a concordare le date con l’ufficio. Da parte nostra c’era la massima disponibilità». «Si dice legittimo impedimento ma si chiama ladrocino di Stato da parte di persone che sono andate al potere solo per essere nelle condizioni di rubare legalmente»: ha detto a Montecitorio, con la consueta moderazione, il leader dell’Idv Antonio Di Pietro.

possono «arrecare danno alla sicurezza urbana ovvero situazioni di disagio sociale» avrebbe comportato la violazione della competenza legislativa statale circoscritta, in ambito di ordine pubblico e sicurezza, alla sola prevenzione dei reati e al mantenimento dell’ordine pubblico. La Corte - con la sentenza n. 226 scritta dal giudice Frigo - ha accolto solo in parte i ricorsi. Via libera dunque all’impiego delle ronde sul fronte della «sicurezza urbana».

La Corte ha invece dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 40, della legge 15 luglio 2009, n. 94 limitatamente alle parole «ovvero situazioni di disagio sociale». Ha quindi stabilito che le ronde, introdotte dal Pacchetto Sicurezza del governo, non potranno intervenire in situazioni di disagio sociale. Sono state invece dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 41, 42 e 43, della medesima legge 15 luglio 2009, n. 94, promosse dalle Regioni Toscana, Emilia-Romagna e Umbria, in riferimento agli artt. 117, secondo, quarto e sesto comma, e 118 della Costituzione, nonché al principio di leale collaborazione, con i ricorsi indicati in epigrafe.


politica

pagina 8 • 25 giugno 2010

Analisi. Il mondo si è evoluto, mentre il nostro Paese è rimasto troppo indietro. La globalizzazione è un richiamo per tutti: dobbiamo lottare per non rallentare

Stiamo perdendo il treno Così come è oggi, la manovra non risponde alle vere necessità del Paese. Come dimostra Pomigliano di Savino Pezzotta l dibattito sulla manovra e sul referendum alla Fiat di Pomigliano ha fatto emergere con maggiore evidenza le differenziazioni che esistono tra le diverse aeree territoriali che compongono il nostro Paese, ma anche quelle che esistono all’interno delle stesse. Mentre le persone e le famiglie vivono una situazione difficile che esigerebbe una maggiore attenzione e provvedimenti di politica capaci da un lato da alleviare le difficoltà ma soprattutto in grado di generare speranze. La vicenda che si sta vivendo a Pomigliano, al di là dalle questioni sindacali, evidenzia l’esistenza di problemi inediti per il nostro Paese, sui quali c’è un ritardo di analisi e di comprensione che allarma. Il problema su cui si discute poco è quello della crescita: non ci si può illudere che con tagli e politiche di restringimento sul terreno dei diritti si possano affrontare i nostri problemi, e in particolare quelli del nostro futuro. La nuova fase

I

di globalizzazione, quella che sta emergendo dopo la crisi finanziaria e dell’economia reale che ha colpito i Paesi industrializzati, sta cambiando paradigmi economici e politici.

Dobbiamo renderci conto che nel mondo esistono Paesi che stanno registrando una fase di crescita in termini di consumi, d’investimento, di qualità di vita e di strati sociali. Ormai sono in grado di produrre in modo competitivo su diversi settori. Inoltre dobbiamo tenere presente che essendo di recente industrializzazione - possiedono sistemi produttivi, organizzativi e di innovazione permanente in grado di essere protagonisti del futuro e di determinare una nuova divisione internazionale del lavoro che giocherà a loro favore. La rivalutazione dello yuan è il segno più evidente del peso che certi Paesi stanno avendo nell’economia, negli scambi e nella dimensione geopolitica. Da oggi il

mondo in cui viviamo è già profondamente diverso da quello in cui siamo cresciuti e dove abbiamo costruito modelli di democrazia in cui i diritti personali si sono intrecciati a quelli sociali. L’aumento del benessere per milioni di persone è certamente un bene, ma produce cambia-

stere? Nei nostri Paesi l’agricoltura potrà ancora essere considerata un’attività abbastanza marginale? Sono domande che ci dovrebbero inquietare. Ma la manovra del Governo non mi sembra inizi a rispondere a questi interrogativi. Capisco che oggi la questione dei conti pubblici

Non basta fare un’operazione ragionieristica, ma serve un’impegnativa e seria scelta politica. Bisogna riequilibrare la manovra sul terreno degli investimenti innovativi, al nord come al sud menti profondi sul mercato energetico, delle materie prime, del cibo e sull’idea stessa di sviluppo. Potremo nel prossimo futuro continuare a misurare la crescita e lo sviluppo utilizzando solo i metri dell’economia e dimenticare l’umano, le relazioni sociali, l’ambiente e la cura del territorio? La classica divisione tra settori primario, secondario e terziario avrà ancora ragione di esi-

sia dirimente, sopratutto per quanto riguarda il nostro rapporto con i mercati finanziari e con l’Europa, ma sono convinto che si poteva e si doveva osare di più. Di fronte a questa situazione abbiamo una manovra che, se mantenuta sui livelli con cui è stata presentata, non produrrà processi di cambiamento ma potrebbe innescare processi recessivi. Il problema principale è og-

gi quello di innovare i paradigmi tecnologici per rendere il nostro Paese più competitivo.

L’Italia non uscirà dalla crisi, non si renderà più competitiva solo chiedendo ai lavoratori i necessari sacrifici come successo alla Fiat: serve un cambio di marcia profondo e se questo non avverrà i livelli di vita delle lavoratrici e dei lavoratori e in particolare quelle dei giovani sono destinati a contrarsi, come già, purtroppo, sta avvenendo. Stiamo condannando un’intera generazione all’anomia. Guardo con attenzione ai mutamenti che si stanno determinando nel-

Per protesta contro i tagli, Regioni pronte a rinunciare ai poteri garantiti dal Titolo V. Confindustria: ripresa più solida

L’ammutinamento dei governatori di Francesco Pacifico

ROMA. «La manovra è necessaria, senza c’è il collasso», intima Giulio Tremonti. «E noi siamo pronti a restituire le competenze garantite dalla Bassanini», ribatte Vasco Errani. Il Titolo V della Costituzione, con i poteri di fatto equamente divisi tra centro e periferia, li costringe a trovare un accordo. Eppure la guerra tra il ministro dell’Economia e i governatori non sembra destinata nel breve a una conclusione.

A 24 ore dal rifiuto del Tesoro di alleggerire i tagli da 9,5 miliardi in manovra, i governatori non si sono fatte intimorire. E hanno alzato il tiro. Come in passato si sono appellati a Silvio Berlusconi per far cambiare idea al titolare di via XX settembre e hanno chiamato alle armi – perché la causa è comune – sindaci e presidenti di Province. In più, e per la pri-

ma volta, hanno minacciato di far saltare l’architettura istituzionale italiana. In un documento approvato all’unanimità dalla Conferenza delle Regioni è stata annunciata «la convocazione straordinaria della Stato-Regioni, con al primo punto all’ordine del giorno la restituzione delle competenze relative allo Stato, con l’impegno di mettere nella manovra le norme per riprendersi le competenze». Nella riforma del Titolo V il legislatore non ha inserito norme per riportare allo Stato centrale le competenze trasferite alla periferia. Servirebbe una modifica costituzionale, come provò a fare nel 2006 la CdL con la Devolution. Di conseguenza, dietro la restituzione dei poteri si legge la minaccia di usare il potere di veto e ricorrere alla Consulta nelle materie concorrenti. Se non rallentare l’approvazione del federalismo fiscale. Soprat-

tutto in vista dei prossimi decreti attuativi sull’autonomia impositiva e sulla relazione sui costi degli enti locali da calcolati non più secondo spesa storica, ma standard. Non potendo toccare la sanità, i tagli della manovra di Tremonti riguardano le materie trasferite dalla Bassanini, i cui finanziamenti dovevano essere fiscalizzati dando il via al primo fondo perequativo per aiutare le realtà più deboli. E che potrebbero portare riduzioni, ha accusato a Errani, nei servizi del trasporto pubblico locale, della sicurezza o nell’assistenza agli anziani. In quest’ottica Roberto Formigoni rilancia la sua personale battaglia con Tremonti e afferma che «c’è la sensazione che il ministero del Tesoro non sappia dove sono gli sprechi».Tanto da chiedere «una commissione mista Stato-enti locali che valuti dove sono realmente sprechi e cattiva gestione».

A ben guardare c’è il sentore che in questa sfida ci sia ben altro che i 9,5 miliardi chiesti alla periferia per riportare entro due anni il deficit sotto il 3 per cento del Pil. Anche perché il ministro non perde occasione di mostrarsi più generoso con le altre categorie colpite dalla manovra.

Mercoledì è stata la volta dei sindaci, ai quali il ministro ha promesso un alleggerimento dei vincoli del patto di stabilità interna e l’introduzione di un’imposta unica municipale sui servizi che a regime dovrebbe registrare incassi complessivi per 20 miliardi di euro. Ieri, invece, è toccato agli insegnanti registrare piccole aperture. Davanti ai sindacati della scuola (mancava soltanto la Cgil) il ministro ha promesso che «una quota dei risparmi provenienti dal blocco nell’istruzione, destinata al miglioramento delle scuole e al per-

sonale può essere destinata ai docenti». Soprattutto sul recupero dell’anzianità. Di conseguenza è facile ipotizzare che il ministro voglia approfittare della Finanziaria per chiudere i conti con i governatori, in una guerra che lo ha visto negli anni provare a imporre tagli nei bilanci locali o trasferire Fas e fondi per la coesione su politiche nazionali. Intanto perché le considera le maggiori centrali di spesa pubblica. «E se non la si riduce», ha spiegato ieri, «è impossibile ridurre le tasse». Eppoi c’è la partita del federalismo fiscale. Il titolare dell’Economia vede in questa riforma l’unica stra-


politica to, la multiculturalità è cresciuta e si sono create nuove aspettative. Dobbiamo pertanto rilevare che c’è ora una parte di Paese che si è differenziata e che pensa più al suo rapporto con il mondo e l’Europa che all’Italia, ma che sostanzialmente non vuole rinunciare all’unità nazionale e che ha bisogno che le sue tensioni di nuovo sviluppo siano sostenute.

le aree del nord del Paese. Nei tempi passati, quest’area era segnata dalla presenza della grande industria che costituiva la triangolazione tra Milano, Torino e Genova. Milano era la capitale morale del Paese ed era in grado di trascinare il Paese e si poteva gridare con forza e convinzione «Nord e Sud uniti nella lotta». Oggi tutto questo è cambiato, e la stessa popolazione operaia che segnava la presenza con le sue istituzioni (sindacato e partito) e con miti progressivi si è frammentata e ha creato a nuove forme di lavoro e d’imprenditività. La piccola impresa è cresciuta, il terziario si amplia-

da per responsabilizzare i governatori sulla spesa. Soprattutto vuole vincolare i trasferimenti e l’autonomia fiscale alla spesa standard, con un meccanismo simile a quello usato per calcolare gli studi di settore. Ed è su questo che si tratta tra governo e Regioni. Al Sussidiario.net Luca Antonini, il presidente della commissione per l’attuazione del federalismo fiscale, ha spiegato che «chi ha già provveduto ad auto-ridurre le spese sarà premiato, chi spreca avrà un segnale che non può più andare avanti così». Nel prossimo futuro i trasferimenti saranno rimoduti in base a quelli che Antonini chiama «indici di virtuosità. Per esempio, nel rapporto tra spesa per il personale e spesa corrente, chi ha tagliato il personale in eccesso o ha rispettato il patto sulla salute sarà premiato, subirà tagli meno pesanti». Emblementico al riguardo l’allarme lanciato dalla Corte dei conti. Nella requisitoria sul Rendiconto dello Stato il procuratore generale, Mario Ristuccia, ha definito «pletorica la struttura amministrativa delle Regioni e degli enti loca-

La Lega è forte perché riesce a percepire un sentire che mette insieme timore della modernità (globalizzazione, multietnicità, trasformazione delle condizioni tradizionali) e conservazione del radicamento territoriale. Per questo cerca di definire dei confini che identifica sotto il nome di Padania, che non è una Patria ma un simbolo mitico. Una manovra economica come quella che si sta discutendo - con i suoi tagli lineari ed egualitari - non risponde alle esigenze di modernizzazione che si agitano in queste contrade, ma non aiuta nemmeno il Mezzogiorno a recuperare quegli spazi di autonomia che sarebbero necessari per innovare i paradigmi tecnologici ei per rendere il nostro Paese più competitivo. Da qui l’esigenza di un quadro di finanza pubblica, dei riferimenti chiari, con numeri coerenti. Non basta fare un’operazione ragionieristica, ma necessita un’impegnativa e seria scelta politica. Bisogna riequilibrare la manovra sul terreno degli investimenti innovativi. Resta un dato: la manovra non è adeguata alle sfide del tempo presente e, in ogni caso, i “sacrifici” devono essere proporzionalmente suddivisi tra tutti. li», ricordando che si tratta di«un sistema parcellizzato» e che costa al contribuente tra i 15 e i 20 miliardi. E il fenomeno che sembra più inarrestabile è quello del “capitalismo municipale”. Nel 2009 il numero di società e consorzi pubblici è aumentato del 5 per cento rispetto all’anno precedente, toccando quota 7.106. «Attività», ha chiosato Ristuccia, «utili sovente a procurare unicamente opportunità di comoda collocazione a soggetti collegati con gli ambienti della politica».

Una nota positiva invece arriva da Confindustria. Nonostante la manovra abbia un impatto negativo nel prossimo triennio dello 0,8 per cento sul Pil (quasi il doppio di quanto paventato dal governo) l’ufficio studi dell’associazione annuncia che l’economia italiana va verso una ripresa più solida. L’euro debole che aiuta l’export e la correzione dei conti che riduce il servizio sul debito potrebbero portare il Pil a +1,2 per cento nel 2010 e a +1,6 nel 2011. Invece l’evasione fiscale è salita a 125,4 miliardi di euro.

25 giugno 2010 • pagina 9

Se le tasse sono altissime, chi governa l’Italia non può accusare gli altri

Tra il dire e il fare, il governo è schizofrenico Va bene il ritorno alla “retorica liberista”, ma sarebbe ancora meglio far seguire alle parole i fatti di Carlo Lottieri a svolta liberista che da qualche settimana caratterizza le uscite del ministro Giulio Tremonti va certamente salutata con favore. È infatti positivo che, dopo anni passati ad accusare il mercato di ogni nefandezza e a promuovere il ritorno di logiche “colbertiste”, l’uomo che ha nelle proprie mani l’economia pubblica sottolinei oggi l’importanza della libera impresa, il ruolo fondamentale del commercio e del profitto, l’esigenza di eliminare tutto quanto intralcia la vita economica.Tra l’altro, questo sta offrendo anche a Berlusconi l’occasione per tornare a lanciare vecchi messaggi: tanto che ieri il premier ha riconosciuto che in Italia vi è un’oppressione fiscale e burocratica che grava sulle imprese. Non vi è dubbio, come molti hanno rilevato, che la battaglia del governo sull’articolo 41 abbia un tono pretestuoso, poiché l’economia del nostro Paese può essere largamente liberalizzata anche senza lanciarsi in un lungo e rischioso lavoro di revisione costituzionale. Ma è comunque positivo che si enfatizzi la necessità di eliminare “lacci e lacciuoli”, favorendo non solo la creazione di nuove aziende, ma anche la sopravvivenza e la crescita di quelle già esistenti. Sarebbe buona cosa, però, che da parte del governo vi fosse più coerenza. Assai più che dall’articolo 41 il mondo delle imprese è infatti messo in difficoltà da quel fiscalismo che – purtroppo – nessuno intende accantonare e che anzi connette in maniera assai evidente il primo Tremonti,Visco e il secondo Tremonti. Se molte norme del nostro sistema tributario hanno un carattere illiberale (si pensi, ad esempio, alla frequente inversione dell’onere della prova), non si può accusare di ciò il destino cieco e baro. Se poi la pressione tributaria è altissima e l’insieme delle regole quanto mai instabile, chi da anni governa l’Italia non può accusare gli altri. Ma con prelievi tanto elevati e con norme in costante trasformazione, come è pensabile che l’Italia sia un ambiente favorevole per chi vuole investire e produrre?

L

missibili: in qualche caso perfino rafforzati nel corso degli ultimi anni.

Il caso delle poste non è il solo, dal momento che esiste un gran numero di ambiti economici in cui le interferenze della politica e delle agenzie di vigilanza chiudono ogni spazio di mercato. Ad esempio, è ormai quasi un anno (era il 10 luglio 2009) da quando Zopa (un’esperienza innovativa, presente in molti altri Paesi, che permette ai singoli cittadini di prestarsi e ottenere denaro, saltando l’intermediazione bancaria e in questo modo stimolando l’intero sistema) è stata chiusa. Ecco: c’è un vero stridore tra i pronunciamenti retorici in favore della concorrenza e il persistere di simili gabbie, che uccidono imprese dinamiche e vanno a colpire la parte più intraprendente della società. Per essere coerenti con le proprie premesse,Tremonti dovrebbe insomma scardinare il sistema di regole e controlli che protegge gli istituti bancari esistenti e impedisce a chiunque altro di entrare in questo mercato. Anche l’intero dossier relativo alle professioni è in questo senso veramente rappresentativo. Secondo gli studi dell’Istituto Bruno Leoni, l’area delle professioni liberali è liberalizzata solo per il 54% rispetto al Paese più liberale d’Europa in questo ambito, il Regno Unito. Nonostante le riforme introdotte da Pierluigi Bersani, siamo ancora molto in ritardo. Eppure, nonostante questo, solo due mesi fa il ministro Alfano ha sottolineato l’esistenza di asimmetrie informative (noi non siamo in grado di giudicare l’opera di avvocati e commercialisti) per compiacere i professionisti protetti e per lasciar intendere che ha tutta l’intenzione di non intervenire. O addirittura di ritornare all’antico nel caso di qualche positiva innovazione degli ultimi anni. C’è insomma, nel governo, una vera schizofrenia tra ciò che si dice e ciò che si fa. Ovviamente nessuno sente nostalgia per il Tremonti dei mesi scorsi, che metteva costantemente sul banco degli imputati «gli spiriti animali del capitalismo», duettava con un altro pensatore bolscevico fai-da-te quale è il professor Guido Rossi, strizzava l’occhio alle estreme di destra e di sinistra, prometteva una guerra spietata ai santuario del profitto e a ogni paradiso fiscale. Meglio la retorica odierna, senza dubbio. Ancor meglio, però, sarebbe se si passasse dalle parole ai fatti, e se si iniziasse a smantellare (magari partendo dal fisco, e quindi dalla cancellazione di larga parte delle riforme tremontiane) quell’intrico di leggi e regole che stanno sfiancando la nostra economia e che sono il principale ostacolo sulla strada di una vera ripresa.

Le leggi e le regole che sfiancano la nostra economia e che sono il principale ostacolo sulla strada di una vera ripresa

Oltre a questo, è anche necessario ricordare che è certo una buona cosa poter avviare un’attività in un giorno, ma è poi indispensabile che ci si trovi in un contesto davvero aperto e competitivo. Prendiamo il caso del recapito postale. Se Tremonti manterrà le sue promesse, presto chiunque potrà avviare un’azienda immediatamente (salvo poi ottenere in un secondo momento autorizzazioni e permessi). Il guaio però è che continuerà a fare i conti con un soggetto, Poste Italiane, che non solo non ha veri vincoli di bilancio (dato che l’azionista è il contribuente), ma che per giunta gode di privilegi inam-


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grandangolo

Dall’inizio alla fine, senza alcuna eccezione, per noi è stato un Mondiale tutto da dimenticare

Eliminata l’Italia senza innovazione La nostra Nazionale ha giocato 70 minuti contro la Slovacchia senza mai entrare davvero in partita. Soltanto alla fine, nell’ultima frazione di gioco, ha alzato la testa tirando fuori la grinta, creando occasioni e segnando due reti. Ma è una squadra logora, vecchia e non riformata. Lo specchio del Paese... di Paola Binetti remessa: la lunga notte della vigilia. È stata una notte lunga, praticamente insonne, non solo per Lippi e i nostri azzurri, ma anche per i parlamentari impegnati a votare la conversione in legge di un decreto legge che tratta delle disposizioni urgenti in materia di spettacolo e attività culturali in una Camera dei Deputati tenuta in scacco dall’ostruzionismo dell’Italia dei valori. In questa legislatura non era ancora successo, neanche in occasione di disegni di legge ancora più complessi e densi di conseguenze pesanti per il Paese. Ce l’eravamo cavata sospendendo i lavori in un intervallo di tempo compreso tra le 20 e le 21, tutti d’accordo nel rinviarli al giorno dopo, per essere più lucidi e concentrati. Questa volta non è stato così, perché oltre al calcio c’è solo un’altra cosa capace di unire gli italiani, qualcosa che appartiene alla nostra tradizione culturale e che a livello mondiale fa dell’Italia il paese leader, la patria del bel canto. Stiamo parlando della lirica, a tutti gli effetti la più italiana delle arti. Per questo ieri sera tutto il Parlamento ha affrontato insonne la sua lunga notte per difenderne i diritti, un’aula compatta, con la sola IdV impegnata in una opposizione faziosa ed ideologica. La veglia notturna in altri termini ha gettato un ponte tra le due passioni più forti degli italiani, da Roma a Joannesburg, dalla lirica al calcio, tutti uniti in un tifo forte e coeso per migliorare il decreto, con una opposizione costruttiva soprattutto da parte dell’unione di centro impegnata a renderlo più umano ed efficace. Si è trattato di una competizione leale degna di una buona partita, guastata solo dai toni aspri e pungenti dei colleghi dell’IdV, in-

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capaci di andare oltre una visione miope e sterile delle proposte di legge. Metafora chiarissima di ciò che imbriglia il Paese e non gli consente di crescere e di dare vita a quelle riforme che potrebbero ridargli slancio anche in questi tempi di crisi. La partita in Parlamento si gioca tra una opposizione costruttiva e creativa e una maggioranza troppo spesso frettolosa nelle sue scelte, incapace di fare i necessari distinguo tra ciò che si può e ciò che si deve tagliare, evitando di tagliare ciò che non si dovrebbe neppure toccare. Quando però l’opposizione si mette di traverso in modo preconcetto per il solo gusto di ottenere una visibilità personale e incapace di guardare oltre il proprio naso, allora si ha la sensazione di trovarsi da-

Peccato per gli Azzurri, a cui non mancano né talento né carattere, ma che spesso finiscono col buttar via l’uno e l’altro vanti ad una partita truccata, e non solo si perde il gusto di giocare, ma si sperimenta un senso di inutile oppressione.

Aspettando che cominci. La nostra lunga sessione di dibattito parlamentare continua,mentre ci sentiamo contempo-

raneamente in aula e sul campo di gioco. Da un lato seguiamo gli articoli e gli emendamenti di questo decreto da cui dipendono le sorti di una parte significativa della nostra cultura e la sorte di tante persone di grande valore artistico. Dall’altro mentre il tempo passa ci sentiamo sempre più vicini agli azzurri e vorremmo seguire in tempo reale cosa fa ognuno di loro, qual è la strategia di gioco a cui Lippi ha affidato le sorti della partita, come si va strutturando il gioco… Si fanno ipotesi, si avanzano proiezioni, non si parla di altro… I collegamenti internet sono tutti on line e questo ovviamente riduce la qualità del segnale, per cui si cercano anche i collegamenti audio offerti da radioline di nuova generazione, spesso inclusi in telefonini di terza generazione. Per il resto basta il passaparola, che mette in relazione i colleghi tecnologicamente più sofisticati, con quelli che rivelano uno status di analfabetismo tecnologico pericoloso, fortunatamente scatta una solidarietà virtuosa e virtuale che funziona, come un vecchio tam tam,sulla falsariga di quei telefonini senza fili con cui tutti abbiamo giocato da piccoli. Fin dall’inizio Lippi ha detto con fermezza: questa volta non voglio politici, eppure se sapesse – a parte la gaffe grossolana di Bossi - con quanta passione i politici stanno seguendo le sorti della partita, forse si ricrederebbe e si sentirebbe molto più appoggiato di quanto non crede. Qui siamo tutti con lui e abbiamo messo la sordina alla ripetitività degli interventi che con monotonia vengono dall’ostruzionismo dell’IdV, proprio per pensare a lui e alla squadra, per parlare di lui e della squadra, per fare previsioni, per rilanciare speranza ed ottimi-

smo. Ci si scambiano informazioni e si commentano anche i risultati delle altre squadre, sempre però in chiave italiana, e a pochi mesi dalle celebrazioni per i 150 anni dell’unità di Italia ci si chiede davvero se ci siano più forti del Calcio e della Lirica per farci sentire tutti italiani.

Alla fine il gioco comincia. Difficile seguire bene la partita tra un voto e l’altro, ma facciamo quello che si può per stare attenti in aula, mantenendo testa e cuore sul campo di gioco.Tutti i deputati, in modo trasversale, sembrano stupiti da quello che vedono e che sentono: non è possibile che i nostri peggiori timori vadano prendendo forma e si materializzino davanti a noi. Si va facendo strada la convinzione che agli azzurri manchi strategia di gioco, sono smarriti, confusi, incapaci di tenere la palla. Gli slovacchi sembrano subito più aggressivi e determinati, capaci di occupare il nostro campo imponendoci le loro tattiche. Hanno voglia di vincere e non lo nascondono, sembra che la posta in gioco per loro sia molto più pressante che per noi. C’è nella faccia degli azzurri una sorta di maschera di pietra, che diventa una smorfia di dolore o di disappunto in alcune azioni di gioco degli avversari, che li sorprendono per la forza e a tratti anche per la violenza. La superiorità degli slovacchi è tale che il loro primo goal non fa che confermare una evidente superiorità in campo. Reagiamo in modo contenuto: vorremmo gridare il nostro disappunto, ma il contesto non ce lo concede e ci guardiamo sorpresi e sgomenti. Non è possibile che siamo perdendo, non può accadere a noi quello che è appena accaduto alla Francia. E la speranza della vittoria si sfu-


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Quella sottile linea rossa tra “lippismo” e “brunettismo”

Una nazione pallonara sospesa tra “gufi” padani, vestaglia di flanella e frittatona di cipolla di Matteo Orsucci a battuta più bella, forse perché involontaria, o almeno non si sa quanto tale, l’ha fatta il leader del Carroccio Umberto Bossi dicendo che le sue dichiarazioni sulla Nazionale erano, appunto, solo una boutade. Sta di fatto che esiste una sottilissima linea rossa che congiunge il governo al fenomeno del lippismo in questi giorni vero tema italico. È quello che inanella lungo il medesimo filo sia parte del sentimentalismo trionfante tradito e figlio di un glorioso 2006 che sembra non volersi ripetere – anche perché il Fattore “Elle”capita una volta ogni tanto, il calcio totale, il catenaccio, vincere un Mondiale, Caressa&Bergomi che diventano il leit motiv manco fossero la Nannini e Bennato – sia l’atteggiamento tipico della Prima Repubblica per cui siccome c’è la partita acceleriamo i lavori di Camera, Senato, commissione, sottocommissione, diamo la giornata libera al vice-scambio del sott’aiuto, le guardie del corpo guardino pure un mega schermo con Italia-Slovacchia e quindi e insomma siamo sempre a parlare del modulo all’italiana, al fatto che il 4-4-2 a trazione energica rende molto meglio, che Vincenzo Iaquinta non ne inzuccava più una, che Gilardino deve sbloccarsi in una delle sue magie sennò son dolori, che Marchisio dovrebbe fare il metronomo di centro campo e non il portiere e su Facebook gira pure la foto ritoccata che ha per didascalia un meraviglioso calembour “Marcello l’Hippie” e tutte queste cose da inizio estate...

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ma nell’attesa di un possibile pareggio. Ma pochi ci credono davvero e la presenza in aula riflette una visione scoraggiata che si estende dalla partita alla gestione della crisi generale. C’è un contagio emotivo, che sfugge ad una analisi razionale delle cose, e che getta un’ombra scura sullo sguardo con cui dall’aula contempliamo il futuro del Paese e il campo di gioco diventa ancora una volta metafora di un futuro che ci sfugge. Alla fine del primo tempo, quando Montolivo spreca l’opportunità di pareggiare, i visi delle persone che fanno parte dello staff che segue gli azzurri dalla panchina si irrigidiscono e diventano più eloquenti di qualsiasi commento. Anche loro non credono nella possibilità di una ripresa degli azzurri. Senza parole e apparentemente senza reazioni appare chiaro il giudizio che i tecnici della nazionale hanno appena formulato nel loro cuore: la sensazione generale è che stiamo giocando malissimo, che siamo impauriti, che non crediamo di poter vincere. Nell’intervallo tra i due tempi vorremmo essere negli spogliatoi con loro, vorremmo sentire cosa dice Lippi, in che modo cerca di tirar fuori da ognuno di loro la grinta che p mancata nel primo tempo. In che modo rilancia l’entusiasmo e la passione sportiva e soprattutto trasforma radicalmente il timore della sconfitta nella speranza della vittoria. Come ogni sfida, anche quella sportiva, si vince prima di tutto nella rappresentazione che ognuno di noi si fa di quell’evento: si vince e si perde prima di tutto nella propria mente e nella propria immaginazione. Nel primo tempo gli azzurri hanno mostrato di non credere in se stessi e ora noi – chusi nell’aula parlamentare, impossibilitati a muoverci - vorremmo trasmettere loro non solo il nostro incoraggiamento, ma anche le nostre energie compresse, quelle che ci sembra difettino a molti di loro. In realtà non siamo ancora definitivamente delusi, e continuiamo a sperare. Ma la partita riprende e i nostri appaiono ancora impauriti, come se le loro gambe fossero legate e le loro tattiche di gioco slegate e confuse. Gli slovacchi segnano il loro se-

condo goal e tutto sembra davvero finito. Ci sono solo i loro visi, su cui le telecamere indugiano volutamente che mostrano il disagio che leggiamo nelle loro gambe, ma che evidentemente è nel loro cuore e nella loro testa. Chissà se si tratta davvero di inferiorità tecnica o se invece si tratta di una mescolanza di sentimenti che oscillano tra ansia da prestazione e panico allo stato puro. E poi all’improvviso a poco più di dieci minuti dalla fine gli azzurri si svegliano, è come se una sferzata di energia desse loro una nuova magia, segnano il primo goal con una azione straordinaria di Quaglirella. Il loro amor proprio si risveglia, diventano più veloci, riescono a raccordarsi su alcune azioni di gioco, fino a che segnano il goal del pareggio, che si accompagna ad un grido di vittoria forte e condiviso. Ma l’arbitro lo annulla ritenendo che si sia trattato di fuori gioco e la delusione scatena un nuovo dibattito tra i banchi parlamentari , anche se non ha nulla a che vedere con il dibattito parlamentare. Le discussioni si riaccendono toni toni più o meno animati, per giudicare e criticare le scelte di Lippi. Su di un punto tutti sembrano d’accordo se Quagliariella avesse giocato fin dall’inizio, forse sarebbe andata meglio. Il terzo goal degli slovacchi però ci spiazza completamente e ci ammutolisce. Ormai sappiamo che è finita! Siamo fuori da questo mondiale e per una di quelle misteriose coincidenze, arriva anche il voto finale a questo decreto: tutta l’opposizione vota compatta contro… Ma il decreto passa lo stesso. Abbiamo cercato di migliorarne una serie di aspetti concreti, e in parte ci siamo riusciti grazie ad una opposizione costruttiva, a cui non ha partecipato l’IdV, che ha fatto un ostruzionismo pesante, tenendoci ininterrotta in aula per 35 ore. La sconfitta dell’Italia ai mondiali e questo decreto legge sono entrambi simboli di un’Italia che non sa osare, che si sottrae ai processi di riforma, mettendo in gioco persone nuove, strategie nuove e sogni nuovi. Peccato per quest’Italia, a cui non manca né talento né carattere, ma che troppo spesso finisce col buttar via l’uno e l’altro...

Il polso della faccenda lo dà lo sbuffo semiserio dell’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, e risalente a pochi giorni fa. Il quale, davanti alla minaccia ennesima di uno sciopero indetto dalla Fiom, ha così commentato: «Smettiamo di prenderci per i fondelli. Lunedì a Termini Imerese si è scioperato solo perché giocava la Nazionale. E così si fa a Pomigliano e in tutti gli stabilimenti italiani». Il che è geniale. La verità è che la storia a lungo

termine noi italiani l’abbiamo messa in cantina, ce ne freghiamo del passato e guardiamo solo al mese scorso. Quando quattro anni fa il mister viareggino Marcello Lippi riuscì in un’impresa epica, ovvero vincere il Mondiale di Germania, ha condannato suo malgrado questa Nazione a campare di rendita, ad essere ancora più pallonaro del solito.

Il lippismo di oggi va di pari passo col brunettismo di bassa lega: tirare a fare, chissenefrega del come, tanto giocano gli Azzurri, chiudiamo tutto e via andare. L’Italia dei Mondiali non ha nulla delle Notti magiche, è fatta semmai di strade deserte e città invisibili, saracinesche abbassate, un unico grande boato che dal pizzettaro di via della Scrofa, passando per le stanze del Palazzo, arriva a Termini Imerese, ha la sua gran cassa di risonanza nella cassa integrazione... Siamo questa roba qui, né più né meno, gente che sputa sui politici mangioni che se la prendono comoda con fiducia e Decreti Legge ma che davanti alla partita hanno il familiare di Peroni gelato, la vestaglia di flanella in salotto, un frittatone di cipolle per il quale andiamo matti e il rutto libero. E Lippi giustamente che s’indigna quando criticano i suoi, e Cannavaro – ormai, dicono, molto bravo tra arabo e inglese per gli Emirati – che dice che questo è un Paese finito, e il Paese che lo fischia ma che spera di non uscire, di andare avanti, che tocca corni e cornetti, suona vuvuzelas, fa opere di carità alla chiesa per non tornare a casa, dài ragazzi alè, dài ragazzi alè, e non sai più se è il coro di Pretoria o uno slogan elettorale. Il calcio in Italia è così, e Lippi è stato un degno ct allo specchio di questa realtà e si potrebbe portarla avanti all’infinito tra Lega e Padania, inni e soldi ai calciatori, Abete e Fifa, il pallone che rimbalza male... Ma si è fatta una certa ora. Fischio dell’arbitro. Si comincia.


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onoscete la storia dell’uovo di Colombo. Il grande navigatore – l’uomo che ha traghettato l’umanità dal Medio Evo all’Evo Moderno – non era uno di quelli che si lasciano dietro un dossier nutrito di aneddoti. Pare che un giorno – irritato da alcuni dotti che cercavano di minimizzare l’impresa da lui compiuta con il primo viaggio oltreoceano – li sfidò a far stare in piedi un uovo. I goffi tentativi dei presenti non ottennero alcun risultato, e allora Colombo ruppe l’estremità di un uovo e lo piazzò dritto sul tavolo. Gli altri protestarono, sostenendo che si trattava di un trucco facilissimo, e Colombo replicò: «Bastava pensarci». (Secondo Voltaire il giochetto era stato già sperimentato molti anni prima, con successo, da Filippo Brunelleschi che, oltretutto, aveva una maggiore pratica con le superfici sferiche).

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Bastava pensarci, e cercare una nuova quadratura del cerchio (tanto per rimanere in tema di superfici rotonde). Chiudere la polemica che da oltre cinque secoli divide Italia e Spagna riguardo alla nazionalità dell’uomo che scoprì l’America (Cristoforo Colombo, genovese, secondo i nostri connazionali; Cristobal Colon secondo gli iberici, capeggiati da un illustre storico come Salvador de Madariaga). Piantarla, una volta per tutte con le storie (vagamene leggendarie) che attribuiscono ai vichinghi il merito di essere arrivati per primi nel Nuovo Mondo, non riuscendo però a spiegare razionalmente perché il merito sia poi stato attribuito universalmente alla spedizione del 1492. Offrire un significato convincente al criptogramma (davvero singolare e misterioso) con il quale l’Ammiraglio del Mare Oceano si firmava: un triangolo esoterico con al centro le lettere X, M e Y (che potrebbero indicare Cristo, Maometto e Jahweh, padri riconosciuti delle tre religioni monoteiste). Spazzare la rotta seguita dalle tre caravelle dall’imbarazzante ipoteca di una scoperta per caso (o per errore), continuando ad attribuire al loro comandante l’intenzione di raggiungere la Cina e il Giappone, e non un nuovo continente (di cui molti uomini di mare già parlavano a quei tempi). Archiviare (finalmente) la figura del Colombo colonizzatore, una specie di avanguardia armata delle invasioni successive firmate da Pizarro e da Cortès. Rinunciare – persino – all’accusa di ignoranza rivolta da secoli agli scalpellini che (sicuramente non per iniziativa propria) scrissero “Novi orbis suo aevo inventi gloria” (nel tempo del suo pontificato la gloria della scoperta di un nuovo mondo) sotto il monumento funebre di Innocenzo VIII, il papa che era morto il 25 luglio 1492, cioè nove giorni prima che le caravelle salpassero da Palos. Spiegare, infine, perché due papi (Pio IX e Leone XIII) abbiano tentato di avviare il processo di santificazione di Colombo, che meriterebbe di sicuro il titolo di “patrono dei viaggiatori” più dell’altro San Cristoforo, vissuto nel III secolo (e a lungo festeggiato proprio il 25 luglio, il giorno della scomparsa di Innocenzo). La “quadra” (come direbbe Umberto Bossi) l’ha trovata Ruggero Marino, che da vent’anni si dedica anima e corpo a riscrivere la storia di Colombo, con il puntiglio dello storico, rileggendo e interpretando tutto quel che è stato raccontato fino a oggi, scovando nuovi documenti negli archivi, ragionando da giornalista e comportandosi da storico professionista. Nel suo terzo libro dedicato al grande genovese – L’uomo che superò i confini del Mondo,Vita e viaggi di

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Esce per Sperling & Kupfer “L’uomo che superò i confini del Mondo”, saggio di Ru

Colombo, in missione Cristoforo Colombo, l’eroe che dovrebbe essere santo (Sperling & Kupfer editore, 430 pagine, 20 euro). Per Marino, ormai, la ricerca della verità su Colombo è diventata un fatto personale, una battaglia di revisionismo storico, un imperativo morale prima ancora che il risultato di una ricerca, sicuramente profonda e documentata (lo dimostrano le 59 pagine di note che chiudono questa sua ultima fatica).Anche chi affronta il volume con una ragionevole dose di scetticismo finisce inevitabilmente per essere sedotto dalla grandinata di indizi e di prove che l’autore sparge in ogni pagina, con una dottrina e una convinzione paragonabile a quella che i magistrati impiegano nelle loro sentenze per condannare, o assolvere, l’imputato di un processo. Marino va oltre: non condanna e non assolve; riscrive tutto, sostenendo che la Storia ha – più o meno dolosamente – travisato tutto. «La storia», avverte nel frontespizio, citando una frase di Francis Bacon, «è una bugia sulla quale si è d’accordo». Dolosamente, quindi.

Era un aristocratico, probabilmente imparentato con il papa Innocenzo VIII, forse addirittura suo figlio. Su incarico del pontefice dedicò la sua vita all’impresa che lo ha reso immortale, consapevole che a Occidente avrebbe trovato un altro continente, e non le Indie Colombo – questa è la tesi di fondo – non era un marinaio qualsiasi che inseguiva il sogno di una conquista. Era un aristocratico, probabilmente imparentato con Giovanni Battista Cybo (il papa Innocenzo VIII) forse addirittura suo figlio (nessuno scandalo, se si pensa che il successore Alessandro VI Borgia, di figli ne ebbe nove). Colombo dedicò la sua vita (su incarico del pontefice) all’impresa che lo ha reso immortale, pienamente consapevole che navigando verso occidente avrebbe trovato un altro continente, e non l’Asia. La promessa che aveva fatto alla regina di Spagna (“Buscar el levante por el poniente”, andare in cerca del levante puntando verso ponente) era dettata dal riserbo, dal desiderio di non scoprire fino in fondo le sue carte. E non si proponeva di accumulare ricchezze, ma di convertire al cristianesimo e alla parola di Dio le popolazioni che avrebbe trovato lì. Si presentò loro come uomo di pace, non come guerriero e conquistatore. Non si sorprese affatto di non trovare le città le cui case avevano i tetti d’oro, con ponti talmente alti da permettere il passaggio di navi provviste d’alberatura, con strade sopraelevate e viali abbelliti da duplici filari di alberi, e

Le lettere vergate di suo pugno, le ammissioni di Pio IX e i documenti segreti: è il momento di raccontare la vera storia del’esploratore... di Massimo Tosti mezzi pubblici di trasporto, e vigilanza notturna della polizia. Cioè le meraviglie descritte oltre due secoli prima da Marco Polo al ritorno dal suo lungo viaggio che lo aveva condotto nel Catai, alla corte di Cubilai Khan. Non manifestò alcuna meraviglia nel trovare“gente nuda”, povera e primitiva.

Aveva ragione Pascarella (nella magnifica Scoperta dell’America) nella descrizione del primo incontro: «Se fermorno. Se fecero coraggio: / - Ah quell’omo! - je

fecero, - chi siete? / - Eh - fece, - chi ho da esse’? So’ un servaggio. / e voi antri quaggiù chi ve ce manna?»; e poi, nella prosecuzione di un dialogo degno di Jonesco, o di Samuel Beckett o (meglio ancora) di Achille Campanile: «Sa? noi venimo da lontano, / per cui, dice, vorressimo sapere / si lei siete o nun siete americano. / Che dite? - fece lui, - de dove semo? / Semo de qui: ma come so’ chiamati / ‘sti posti fece noi nu’lo sapemo -. / Ma vedi sì in che modo procedeveno! / Te basta a di’ che lì c’erano nati / ne l’America, e manco lo sape-


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uggero Marino che svela i legami tra la Santa Sede e il genovese

e per conto di Dio Nella foto grande, “Il ritorno di Cristoforo Colombo” di Eugène Delacroix. In basso, la copertina del libro di Ruggero Marino. A fianco, alcuni celebri ritratti del navigatore genovese

vano». Che quel continente non fosse l’Asia era – secondo Marino – un “segreto di Pulcinella”. Lo sapevano perfino i portoghesi che protestarono contro la linea di demarcazione (la raya) sancita dal papa Alessandro VI nel 1493 fra i domini spagnoli e quelle portoghesi. E ottennero una rettifica (di 270 leghe verso ovest) che permise loro di rivendicare il Brasile (che, molto probabilmente, avevano già raggiunto).

Come si spiegano le bugie della Storia? e perché ne sarebbero state inventate tante? La ragione – secondo Marino – è molto semplice. Colombo partì per servire il papa Innocenzo (che fu il principale finanziatore dell’impresa: e su questo aspetto finanziario si erano già pronunciati molti storici), ignorando che era morto pochi giorni prima che lui salpasse da Palos con la Nina, la Pinta e la Santa Maria. Raggiunse le isole del Centro America per evangelizzarne le popolazioni. Ma – al ritorno – dovette fare i conti con una situazione politica molto cambiata. Era morto il suo protettore principale (e la sua guida spirituale) sostituito sul trono di Pietro dallo spagnolo Rodrigo Borgia (che non era uomo di fede, ma di conquista) eletto grazie anche agli intrighi dei cattolicissimi re di Spagna, Ferdinando e Isabella. Era morto anche Lorenzo il Magnifico (che aveva procurato ingenti somme di denaro per la spedizione, e che era a sua volta imparentato con Innocenzo VIII, avendo dato sua figlia in sposa a un altro figlio del papa). Colombo fu costretto a fare buon viso a cattivo gioco, tenendo nascosta la meta del viaggio appena concluso e di quelli che progettò e realizzò in seguito, e parlando genericamente di “Indie”. Secondo Ruggero

Il proposito del viaggio è illustrato in una missiva da lui inviata al re: «Confido in Nostro Signore che faccia sì che le Vostre Altezze si dedichino a riunire alla Chiesa sì grandi popoli e che li convertiranno così come hanno sgominato coloro che non vollero farlo» Marino, il legame di Colombo con la Chiesa era a doppio filo: probabilmente era un cavaliere Templare. Nelle sue spedizioni si comportò come un crociato alla conquista della Terra Santa. Al papa Cybo si attribuiva il proposito di indire una nuova Crociata nel 1500, in coincidenza con il Giubileo. E la storia ci dice che il successore condivise questo disegno: la indisse il 1° giugno del 1500, forte dell’alleanza con la Repubblica di Venezia che voleva muovere guerra ai turchi, e sicuro di coinvolgere molti Stati europei, sia per il finanziamento dell’impresa che per l’arruolamento di 80mila fanti e 50mila cavalieri. Il progetto svanì tre anni dopo quando Venezia firmò un armistizio con l’impero ottomano, più o meno in coincidenza con la morte di Alessandro VI. Quali fossero i reali propositi di Colombo (evangelizzatore, e non colonizzatore) risulta evidente dal testo di una lettera del navigatore ai re di Spagna nella quale descrive l’opera da compiere con i “selvaggi”: «Sono certo che quando persone devote e religiose venissero e ne conoscessero la lingua, subito diventerebbero tutti cristiani, e così confido in Nostro Signore che faccia sì che le

Vostre Altezze si dedichino a ciò con grande diligenza, per riunire alla Chiesa sì grandi popoli e che li convertiranno così come hanno sgominato coloro che non vollero riconoscere il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo; e finiti i loro giorni, posto che siamo tutti mortali, lasceranno i loro regni in pace e scevri da eresia e malvagità, e saranno ben ricevuti al cospetto dell’Eterno Creatore, il quale voglia concedere loro lunga vita e l’aumento dei loro regni e signorie e volontà e disposizione ad accrescere la Santa Religione Cristiana così come hanno fatto sino ad oggi».

L’obiettivo è chiaro, ma anche il tono della lettera – osserva Marino – dovrebbe indurre a qualche riflessione: non è quello di un marinaio, ma di un nobile, un aristocratico che tratta quasi alla pari con un re e una regina. Che non fosse un marinaio qualunque, risulta evidente anche dal rapporto con la Chiesa. In una lettera ad Alessandro VI chiese che il suo figlio minorenne fosse fatto cardinale (esattamente come Innocenzo aveva concesso la porpora al figlio minorenne di Lorenzo il Magnifico, che sarebbe poi stato eletto pontefice con il nome di Leone X): una pretesa inimmaginabile per un uomo qualunque, sia pure Ammiraglio del Mare Oceano. Nel XIX secolo (pensando alla canonizzazione di quell’ammiraglio) Pio IX affermò che «Colombo si mosse spinto dalla Santa Sede e che quando verranno alla luce i veri documenti si conoscerà la verità», e Leone XIII in un’enciclica sostenne: «Colombo è nostro, quello che ha fatto lo ha fatto per la Chiesa». Ecco la “quadra”. O – se preferite – l’uovo di Colombo. Nessuno ci aveva pensato prima. Bastava rompere le ricostruzioni storiche precedenti per piazzarne una nuova ritta sul tavolo.


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Cambio di guardia. Come farà il super generale a governare sia CentCom che la guerra in Afghanistan? Rallentando le operazioni

Incognita Petraeus Quattro motivi per dubitare della strategia di Obama, sempre più confusa di Luisa Arezzo er i talebani, come si sono subito premurati di far sapere, sarà pure lo stesso. Ma per i capi dei Regional Command di Isaf (in cui l’Afghanistan è suddiviso), per i generali della coalizione, per le truppe Usa e per molti leader di governo, la sostituzione di Stanley McChrystal con il generale di CentCom David H. Petraeus, non è foriera di buone notizie. Non certo per scarsa stima nei confronti del generalissimo di CentCom, (effettivamente la scelta migliore che Obama e Gates potessero fare), ma per una serie di considerazioni. Innanzitutto perché è evidente che la sovrapposizione dei due incarichi non è gestibile non solo nel lungo, ma nemmeno nel medio periodo, anche se David H. Petraeus è l’uomo delle operazioni impossibili. In secondo luogo perché il suo subentro certamente farà slittare l’affondo a Kandahar (il feudo della famiglia Karzai) previsto per l’estate, quantomeno a settembre (al massimo ai primi dell’autunno, ma non oltre, per non inficiare quel ritiro che comunque si allontana sempre più). In terza istanza perché i legami che McChrystal aveva sia con le truppe sia con il presidente afghano Hamid Karzai (che infatti si è pubblicamente speso a suo favore appena uscita l’intervista al magazine Rolling Stone, chiedendo esplicitamente di non rimuoverlo), non si possono risolvere in un passaggio di consegne.

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E infine, perché il subentro non è stato concordato non diciamo con tutti, ma almeno con gli alleati più impegnati in Afghanistan, eccezion fatta per la Gran Bretagna (che infatti ha preteso di affiancare a Petraeus il parigrado inglese, Nick Parker). L’Afghanistan - e certo la cosa non fa piacere - è avvertito ormai dalla maggior parte delle opionioni pubbliche come un pantano dal quale sarebbe meglio uscire nel giro di poco tempo. Dalla Germania alla Gran Bretagna, dall’Olanda al Canada, e che dire degli States, i segnali di stanchezza certo non mancano. E l’esperienza di Petraues non mitiga la sensazione di incertezza. E ancora:

I militari, l’obbedienza e lo spettro del tradimento

Guerra e politica non vanno d’accordo di Mario Apino osì, Stanley McChrystal se n’è andato. I suoi soldati lo amavano perché era uno di loro, e sapeva combattere. Era un Capo credibile. Non molto tempo fa, in Inghilterra aveva dato le dimissioni Andrew Mackay, il protagonista della riconquista di Musa Qala, nel nord dell’Helmand. Aveva espresso l’opinione che la politica ministeriale fosse troppo lontana dalla realtà sul terreno e «istituzionalmente incapace» di gestire la missione in Afghanistan. C’è da riflettere, perché qualcosa non funziona. È anche vero che non tutti i politici sono uguali, così come non lo sono tutti i generali. Il fatto è che, nessuno si offenda, le due categorie sono nate, cresciute e vivono rispettando - o meno principi diversi. Non migliori o peggiori, solo diversi. Questo è il motivo per cui, a volte, al di là della cortesia, il loro è un rapporto sofferto. Ma non è la regola. Ci sono dei militari che con i politici ci si trovano benissimo, tanto da dedicare a questo rapporto gran parte della loro carriera. Con questo tipo di generali, anche i politici vanno d’accordo. Con gli altri sono più attenti, ed è difficile - talvolta succede - che il rapporto si trasformi in amicizia. Si tratta di culture diverse, originate, più che dal male o dal bene, da differenti esigenze. Un politico avrebbe i giorni contati se applicasse alle lettera i principi che le accademie militari cercano di inculcare negli allievi, e credo altrettanto fermamente che, se un allievo si muovesse con la disinvoltura con cui usualmente devono muoversi i politici, sarebbe ben presto espulso

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dall’Istituto. Ci sono poi dei casi in cui qualche generale diventa egli stesso un politico, ma di rado l’operazione ha successo. Non ci sono invece politici che diventano generali. Qualcuno in verità ha provato ad assumerne le prerogative, ma il risultato è stato ciò che oggi possiamo osservare in Afghanistan, e che avevamo già visto in Iraq. Se la guerra è cosa troppo seria per lasciarla fare ai generali, farla fare ai politici può essere un disastro. In Italia, a dir la verità, gli “scontri” veri e propri si contano sulla punta delle dita, perché i militari sanno bene che “la politica è tutto” e che loro ne sono un mero strumento, assieme alla diplomazia ed altri ancora.

Una cosa, però, dà loro molto fastidio: sentirsi isolati, quando difenderli diventa scomodo. Certo, McChrystal l’ha fatta grossa, ma non dimentichiamoci che non è né un pazzo, né uno sprovveduto. Una cosa: i militari rimangono molto male quando si accorgono che quelle che essi ritengono essere virtù, quali la disciplina e il senso del dovere, vengono scambiate per debolezza o remissività. Il fatto è che, in genere, dopo aver detto le loro ragioni, fanno un passo indietro e obbediscono, anche se sono convinti di non avere torto. In questi casi, nel ritirarsi, cercano solo di limitare i danni, facendosi a volte carico di responsabilità non proprie.

Sopra, il generale David H. Petraeus, appena nominato al posto di Stanley McChrystal, a lato assieme al generale Ray Odierno. Sotto: Obama. A destra: Cameron, la Merkel e Sarkozy

chi governerà CentCom se Petraeus dovrà occuparsi di Kabul (e viceversa)?

U.S. CentCom è uno dei cinque settori strategici creati dal Pentagono negli anni Ottanta per coordinare le operazioni militari fuori dagli Stati Uniti. CentCom è il settore più grande e difficile: ha la responsabilità sul Medioriente, sull’Asia e su un pezzo di Africa. Questo significa che fino a ieri Petraues non si occupava solo di Afghanistan, ma di Iraq e delle altre zone di guerra e di instabilità nell’arco di mondo che corre dal Cairo a Pechino. Il Pakistan, dove il governo di Zardari non ha ancora deciso se opporsi agli estremisti filotalebani che spadroneggiano nelle regioni frontaliere del nord e


mondo

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Al summit di Toronto il presidente Usa dovrà illustrare i suoi piani

Gli alleati mugugnano e aspettano il G20 di Antonio Picasso liminato McChrystal, le reazioni tardano ad arrivare. L’esautorazione del comandante dell’Isaf da parte di Obama ha preso gli alleati degli Stati Uniti in contropiede. È anche vero che le incomprensioni fra i due si erano palesate almeno sei mesi fa. Questo avrebbe dovuto far intuire a tutti i Paesi impegnati sul fronte centro-asiatico che, prima o poi, si sarebbe giunti alla resa dei conti. Al momento però, in seno alla Nato, pare che si stia vivendo una sorta di shock posttraumatico. Salvo quella britannica, le cancellerie europee tendono a non esporsi con i propri dubbi o commenti. La prima sensazione è che nel quartier generale dell’Alleanza atlantica a Bruxelles non sia piaciuto il fatto che Obama abbia contattato esclusivamente il primo ministro britannico, David Cameron, per informarlo direttamente del licenziamento di McChrystal. A giustificazione del filo diretto Obama-Cameron, va ricordato che Londra, con i suoi 9.500 uomini, è il primo partner degli Usa a combattere in Afghanistan. Washington si è sentita quindi in dovere non solo di ragguagliare il suo più tradizionale alleato europeo, ma anche di cedergli ad interim una parte del comando dell’Isaf. Il generale David Petraeus, momentaneamente nominato a capo della missione, è stato affiancato dal suo parigrado inglese, Nick Parker. La scelta tuttavia è stata accolta da Downing Street come un placebo, che non risolve il problema. Ieri la stampa inglese parlava della peggiore crisi fra la Casa Bianca e i suoi generali dai tempi della guerra di Corea. Nel 1951 il Presidente Harry Truman richiamò a Washington il generale Douglas MacArthur, il quale, preso da un eccesso di bellicismo, pretendeva di sganciare una bomba atomica sulla Cina. La Casa Bianca allora volle evitare l’olocausto nucleare. «Oggi il dramma che si è consumato a negli Usa – si leggeva sull’Independent – è meno nobile ed esclusivamente personalistico». Ma soprattutto rischia di mettere in crisi il sistema di alleanze in un conflitto già di per sé complesso da gestire. Dal canto suo, il Segretario dell’Alleanza atlantica, Anders Fogh Rasmussen, ha accettato ob torto collo il siluramento di un “valido soldato”. «Prendiamo atto della decisione, ma vogliamo che si tenga conto che la strategia di McChrystal si stava dimostrando efficace», ha commentato il Segretario Nato. Ben più realista è

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che ogni giorno si avvicinano di un altro passo ai silos dell’arsenale atomico. L’Iran, che non ferma il programma nucleare, minaccia da vicino Israele e continua ad alimentare la violenza e l’instabilità nel vicino Iraq, in Libano e a Gaza (ma Israele, per le sue peculiarità, cade sotto la vigilanza del Comando europeo). E anche la Cina: il governo di Pechino spende una parte enorme delle proprie risorse in armi per diventare la nuova superpotenza capace anche di incutere timore a Washington. Come farà adesso a star dietro a tutto questo? Ov-

si volesse “catapultare” in Afghansitan, perché non gode della stessa stima di McChrystal e Petraeus, perché troppo giovane per poter governare l’intera coalizione e perché meno amato fra i soldati e fra i politici.

Per Obama, dunque, il risiko si ingarbuglia sempre di più. Oltretutto, dopo l’uscita di McChrystal, sono in tanti a chiedere la testa di altri uomini chiave Usa nella zona. Perché anche chi ha considerato inopportuna l’uscita del generale, non nasconde che le sue critiche verso l’ambasciatore a

Dopo l’uscita di McChrystal sono in tanti a chiedere la testa degli uomini oggetto delle sue critiche: l’ambasciatore a Kabul, Karl Eikenberry e lo zar di Af-Pak, Richard Holbrooke viamente non potrà. E c’è già chi dice che il generale Ray Odierno, già vice di Petraeus in Iraq e poi promosso al suo posto, potrebbe nuovamente seguire le orme del suo mentore e arrivare in capo a CentCom. Fra tutte le cose dette e lette in questi giorni, bisogna dire che ci sembra davvero difficile. Perché il mondo militare ha le sue regole (come quello civile) e se norma vuole che un presidente non torni a fare il ministro, fra i soldati un generale CentCom non viene “declassato”al solo Afghanistan. Dunque la chance Odierno (teoricamente in uscita dall’Iraq in agosto, ma presumibilmente visti i guai nell’area prossimo a una proroga dell’incarico) non quadra. Nemmeno se lo

Kabul Karl Eikenberry e lo zar di Af-Pak, Richard Holbrooke, fossero più che pertinenti. E che i due dovrebbero quantomeno mostrare lo stile del militare e rassegnare le proprie dimissioni o, in caso contrario, essere esautorati dai rispettivi incarichi. Ma questo ancora non è. Infine: che cosa pensa Hillary Rodham Clinton? Se il Segretario di Stato non ha ancora rilasciato alcuna dichiarazione ufficiale non è certo perché troppo impegnata ad organizzare il matrimonio del secolo di sua figlia Chelsea, ma perché i conti, probabilmente non le tornano. Come sempre più spesso accade nel suo rapporto con il presidente.

stato invece il suo predecessore, Jaap de Hoop Scheffer. «Se un generale non sa stare all’ordine, è giusto che venga sollevato dal comando». Frase sibillina, quella del diplomatico olandese. Svincolato ormai dai bavagli istituzionali, ha fatto capire che le responsabilità dell’atteggiamento di McChrystal starebbero a monte, o meglio alla Casa Bianca, la quale non avrebbe saputo farsi rispettare da un suo sottoposto. Silenzio invece dai governi continentali. Il ministro della Difesa tedesco, Karl Theo zu Guttenberg è stato il solo ad aver rilasciato una dichiarazione. «Ci dispiace per quanto accaduto», è il laconico commento di Berlino. Dal suo omologo a Parigi, Hervé Morin, né tanto meno da Madrid o da Roma sono giunte prese di posizione di qualsivoglia tendenza. L’Europa temporeggia quindi.

D’altra parte, ciascun governo ha una propria giustificazione di facciata nell’evitare commenti affrettati sulla decisione di Obama. In Francia l’opinione pubblica e le istituzioni appaiono più preoccupate per il collasso della Nazionale ai Mondiali, piuttosto che per il “caso McChrystal”. Al limite, se proprio di Afghanistan si vuole parlare con i francesi, appare loro più urgente capire come e quando liberare i due giornalisti di France 3, Hervé Ghesquière et Stéphane Taponier, ostaggi dei talebani da fine dicembre 2009. La Spagna a sua volta sta vivendo la sua emozione collettiva per l’incidente ferroviario avvenuto nei pressi di Barcellona. Sul fronte istituzionale emerge però un’implicita linea di comportamento comune. Sarkozy e la Merkel – ma altrettanto Berlusconi – aspettano il G20 di oggi a Toronto, in Canada, dove potranno ascoltare direttamente da Obama le sue intenzioni future. Il summit ha in agenda la discussione per la riforma della finanza mondiale. È probabile che questo argomento perda la priorità acquisita. Gli europei, ma anche il Governo canadese e quello australiano – e non da ultima la Turchia – sembrano concordi nel giustificare Obama. Lo sono altrettanto però nel voler sapere dagli Usa chi comanderà adesso in Afghanistan. Quella di Petraeus appare infatti una sostituzione temporanea. In questo le critiche unanimi verso Washington sono due: non aver saputo gestire un McChrystal ipercritico e averlo eliminato improvvisamente, senza una previa consultazione con gli alleati.

A giustificazione del filo diretto ObamaCameron, va ricordato che Londra, con i suoi 9.500 uomini, è il primo partner degli Usa a Kabul


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Riletture. Sternberg e i pericoli del movimento anti-occidentale appiamo cosa volevano Marx, Stalin e Mao (il controllo da parte dello Stato di ogni cosa) e come hanno conseguito questo obiettivo (il totalitarismo brutale); ma cosa vogliono i loro successori, e come sperano di conseguirlo? È un argomento che stranamente non è stato preso in esame. Ernest Sternberg dell’Università di Buffalo offre delle risposte in un sorprendente articolo pubblicato su un recente numero di Orbis, titolato “Purificare il mondo: che cosa rappresenta la nuova ideologia radicale”. Inizia col tratteggiare ciò che l’estrema sinistra contemporanea osteggia e cosa vuole. Il nemico numero uno è qualcosa chiamato “Impero”, un presunto monolite che domina, sfrutta e opprime il mondo. Sternberg sintetizza l’accusa a tutto campo lanciata dalla sinistra a Impero: «La gente vive in povertà; il cibo è contaminato, i prodotti sono artificiali, lo spreco è d’obbligo, i gruppi autoctoni vengono spodestati, e la natura stessa è sovvertita». Impero consegue tutto ciò per mezzo del «liberalismo economico, del militarismo, delle multinazionali, dei grandi media e delle tecnologie di sorveglianza». E poiché il capitalismo causa milioni di vittime che un sistema non-capitalista eliminerebbe, esso è altresì colpevole di eccidio. L’America, naturalmente, è il Grande Satana accusata di fare incetta di risorse sproporzionate. Le sue forze armate opprimono gli indigenti in modo tale che le grandi imprese possano sfruttarli. Il suo governo promuove lo pseudo pericolo del terrorismo per aggredire all’estero e reprimere in patria. E Israele è il Piccolo Satana, sinistro alleato di Impero: o forse è il vero padrone? Da-

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Se l’Asse del male è Israele-Stati Uniti Per l’estrema sinistra contemporanea, c’è un Impero da combattere a tutti i costi di Daniel Pipes

dell’aggressore». Per combattere le risorse superiori di Impero, la sinistra ha bisogno di allearsi con chiunque altro vi si opponga: specialmente gli islamisti. Gli obiettivi di questi ultimi sono in contraddizione con quelli della sinistra, ma non importa; finché gli islamisti aiuteranno a combattere Impero, essi avranno un posto di ri-

Questo vago concetto oppressivo mette insieme militarismo, liberalismo e censura: Washington e Tel Aviv ci vogliono schiavi gli incontri del Forum sociale mondiale in Brasile alla conferenza contro il razzismo indetta dall’Onu a Durban, il sionismo viene dipinto come il male assoluto. Perché Israele? Al di là dell’antisemitismo non così sottile, è il solo Paese occidentale a vivere sotto una raffica di costanti minacce, che a loro volta lo costringono a ingaggiare continue guerre. «Sfrondate di tutto il contesto», osserva Stenberg «le azioni di Israele calzano a pennello con l’immagine

lievo in seno alla coalizione. Ma cosa cerca la sinistra? Uno dei suoi motti è “autenticità”: l’artificiosità di Impero rende la cultura autoctona identica alle specie in via di estinzione. La cultura dovrebbe essere autoctona, organica e messa al riparo dal mercantilismo crasso di Impero, dal suo razionalismo artefatto e dai suoi pseudoconcetti di libertà. Un secondo motto è “democrazia”: la sinistra ricusa la vaga struttura di una repubblica matura: celebra piuttosto una de-

È l’ex brigatista il teorico del complotto

Toni Negri, autore Nel dicembre del 2001 - a pochi mesi dagli attentati alle Torri Gemelle di New York e all’inizio della cosiddetta ”Guerra al terrorismo” - il settimanale Time inserì Antonio Negri - considerato ideologo delle Br - tra «le sette personalità che stanno sviluppando idee innovative in diversi campi della vita La moderna». motivazione di questa scelta risiedeva nell’enorme successo mondiale del saggio di Negri Impero e dalle recensioni di molte testate giornalistiche mondiali che segnalarono il libro come un testo fondamentale nell’analisi della globalizzazione e della storia economica e sociale contemporanea. Definito da alcuni il nuovo ”libretto rosso” di diversi movimenti noglobal, no-war o altermondia-

listi nati a partire dalla rivolta di Seattle del 1999, questo testo ha suscitato un grande dibattito teorico: Fredric Jameson, docente emerito di letteratura comparata alla Duke University, citato da Le Monde definì Impero «la prima grande sintesi teoretica del nuovo millennio». A Impero fece seguito nel 2004 la pubblicazione di Moltitudine dove, dopo lo studio delle dinamiche globali affrontate in Impero si passa all’analisi dei soggetti sociali in grado di costruire una “democrazia gobale” in alternativa alla catastrofe, anche ecologica, causata dal dominio economico e bellico dell’Impero. Infine nel 2006 lo studio di tali dinamiche venne integrato da un nuovo saggio, Movimenti nell’impero. Paesaggi di passaggio.

mocrazia popolare e nonegemonica, che offre una voce più diretta. Il processo democratico «procederà attraverso incontri scevri delle redini manipolative della legge, delle procedure, dei precedenti e della gerarchia». Ma queste parole che puntano in alto mascherano una chiave di dispotismo: quelle leggi e procedure fungono da vero e proprio scopo. Un terzo motto è “sostenibilità”: per integrare i sistemi economici nell’ecosistema della Terra, il nuovo ordine «si baserà sulle energie alternative, sull’agricoltura biologica, sui mercati alimentari locali e sull’industria riciclabile a ciclo chiuso, se pur l’industria sarà necessaria. La gente si muoverà utilizzando i trasporti pubblici o guiderà automobili che toccheranno leggermente il manto stradale o, ancora meglio, andrà in bicicletta. Risiederà in abitazioni ecologiche costruite con materiali locali e abiterà in città che crescono in modo organico all’interno di bioregioni. Non vi saranno più emanazioni di carbonio. Sarà uno stile di vita tranquillo e permanente». Il socialismo fa di certo parte di questa immagine, ma l’economia non è più dominante come un tempo. Il nuovo obiettivo della sinistra sarà più complesso di quello del puro e semplice anti-capitalismo, che costituisce un intero modo di vita. Sternberg chiama questo movimento «il purificazionismo mondiale», ma io preferisco definirlo “fascismo di sinistra”. Poi egli si pone un interrogativo fondamentale: l’ultima incarnazione della sinistra si trasformerà una volta ancora in totalitarismo?

Sternberg trova prematuro rispondere con certezza, ma indica vari “segnali d’allarme totalitari”, incluse la disumanizzazione dei nemici e le accuse di eccidio. Egli mette in guardia da un punto di inflessione quando i fascisti di sinistra «tengono fede alla retorica catastrofista e si legano la cintura suicida o alzano le braccia per diventare martiri». In altre parole, i pericoli sono reali e attuali. Questo per quanto concerne quelle teorie in voga vent’anni fa, strombazzate come la caduta del Muro di Berlino, riguardo alla fine dell’ideologia. La sinistra si è ridimensionata dopo la caduta del leninismo e ora minaccia l’umanità con una nuova versione della sua ideologia anti-occidentale, anti-razionale, contraria alla libertà e anti-individualista.


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Toyota e Honda sotto scacco, si blocca del tutto la produzione

I fatti risalgono all’ottobre 2006, coinvolta una massaggiatrice

Cina, ancora scioperi contro le industrie giapponesi

Al Gore accusato di molestie sessuali

PECHINO. Non si ferma l’ondata di scioperi che nell’ultimo mese ha colpito la Cina: il gigante giapponese Toyota conferma che la propria fabbrica di Guangzhou è ancora ferma, per il terzo giorno consecutivo, mentre la rivale Honda è riuscita a riprendere la produzione soltanto dopo aver ceduto su tutta la linea alle richieste degli operai. Il sindacalista Han Dongfang commenta: «Trent’anni di repressione stanno finendo. I lavoratori hanno preso in mano il loro destino». La produzione della Toyota si è interrotta lo scorso 22 giugno, dopo che gli operai della Denso Corp. – un’affiliata che produce iniezioni per autovetture – hanno incrociato le braccia: la catena si è interrotta e alcuni operai della casa madre si sono uniti ai colleghi. Si tratta di oltre 200 lavoratori, che chiedono un aumento dei salari e una riduzione delle ore di lavoro obbligatori. I portavoce della compagnia confermano: «La produzione rimane sospesa, mentre vanno avanti le trattative».

NEW YORK. Il premio Nobel per la pace ed ex candidato alla presidenza degli Stati Uniti Al Gore è stato accusato di molestie sessuali da una massaggiatrice di Portland. I fatti sarebbero avvenuti in un albergo nell’ottobre del 2006, durante una visita di Al Gore nella città dell’Oregon. Già allora la donna si rivolse alle autorita’ per denunciare la vicenda, ma nessuna accusa formale fu formulata a carico dell’ex vice presidente a causa della mancanza di prove. Pochi mesi dopo la denuncia, riferisce il Telegraph citando il procuratore distrettuale Michael Schrunk, la donna chiese alle autorità di non procedere oltre con le indagini, rifiutandosi di sottoporsi a inter-

Si tratta del secondo grande sciopero che colpisce la Toyota, dopo quello durato tre giorni che ha fermato il lavoro della fabbrica di Tianjin, nel nord del Paese. Gli operai chiedono un aumento dei salari da 1.200 a

Obama e Medvedev tra missili e Twitter Il presidente russo apre un account di micro-blogging di Vincenzo Faccioli Pintozzi vederle da fuori, le relazioni fra Stati Uniti e Russia non sono mai state così calorose. E la visita compiuta ieri dal presidente russo Dmitri Medvedev alla Casa Bianca servirebbe a dimostrare questo assioma. È molto raro, infatti, che uno dei due leader degli schieramenti che si contrapposero durante la Guerra fredda se ne vada in gita di piacere a casa dell’altro. E invece, le cose sembrano cambiate. Sembrano, appunto, perché nell’eterno mistero che è la politica interna dell’ex Unione Sovietica, il gioco del poliziotto buono e quello cattivo messo in scena da Medvedev e Putin dimostra che nulla è come sembra: soprattutto nei pressi del Cremlino. In ogni caso, complice l’avvento del G20 canadese, i due si sono visti per rilanciare le relazioni economiche e commerciali fra i due Paesi, ma anche per parlare di temi di politica internazionale che interessano entrambi. Come Iran, Kirghizistan, Afghanistan e l’attacco nordcoreano alla corvetta di Seoul. «Stiamo cercando di usare questa visita soprattutto per stimolare gli scambi persona e persona, le relazioni imprenditoriali e l’aumento degli investimenti nell’economia russa in modo che sia di beneficio per entrambe le parti», ha spiegato il vice consigliere per la sicurezza nazionale Usa, Ben Rhodes. Medvedev, che è arrivato già lo scorso martedì negli Stati Uniti per cenare a San Francisco con i pionieri del settore IT americano, ieri ha trascorso la giornata nella Silicon Valley. Qui ha dimostrato il proprio volto umano, dopo aver parlato alla Stanford University, per poi volare in California. Il presidente russo ha compiuto tutte le tappe d’obbligo: Twitter, Cisco e il ramo americano della società russa “Yandex”. In realtà si è spinto fino alle Apple, dove il patron Steve Jobs ha regalato al leader del Cremlino un iPhone particolare, con il quale Medvedev ha videochiamato il suo consigliere per gli affari economici Arkady Dvorkovic. Concludendo l’incontro, Medvedev ha ammesso che «in realtà sono stato ispirato da

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quello che ho visto in California», per poi sottolineare di aver provato «una invidia buona per quelle persone che hanno avuto l’opportunità di lavorare qui. Hai la possibilità di creare, di insegnare, di guadagnare soldi facendo le cose che ami. E cosa è questo, se non la felicità umana?». Era talmente felice che si è persino aperto un account di Twitter: e tanti saluti alla storica segretezza dei leader russi.

Anche Obama ha preparato l’incontro nel più caldo dei modi. Il presidente Usa ha dichiarato di voler discutere «il modo di promuovere insieme l’innovazione. In occasione della visita del presidente Medvedev sono particolarmente interessato a discutere con lui i modi con cui gli Usa e la Russia possono migliorare gli scambi e gli investimenti tra i nostri due Paesi e lavorare insieme creando le condizioni per promuovere l’innovazione» ha detto Obama in un’intervista a Interfax. «Visto l’interesse del presidente Medvedev per l’innovazione, penso che sia molto giusto che abbia cominciato il suo viaggio con una visita in California e nella Silicon Valley, uno dei centri dell’innovazione e dell’imprenditorialità nel nostra Paese. Da quando ci siamo incontrati un anno fa a Mosca, io e Medvedev abbiamo lavorato insieme in stretto contatto per fermare la deriva delle relazioni Usa-Russia e riavviare i rapporti su una strada più costruttiva». Adesso il punto è capire chi terrà i redini dei due Paesi dopo le prossime presidenziali, che cadono entrambe nel 2012. Il presidente russo ha detto che potrebbe correre per un secondo mandato alle presidenziali del 2012 a determinate condizioni, ossia «se i progetti che ho formulato saranno stati realizzati e se i cittadini mi sostengono». Mentre per Obama i problemi si chiamano guerra e petrolio. Le basi fra i due, personalistiche e quasi amichevoli, rischiano di diventare un ponte inutilizzato dai prossimi leader di Russia e America. A quel punto, per parlarsi resterà Twitter .

L’ex delfino di Putin in visita negli Usa parte dalla Silicon Valley e annuncia: «Pronto a un secondo mandato nel 2012»

1.700 yuan mensili (poco più di 170 euro) e vogliono che la dirigenza aumenti il bonus di fine anno da 1.200 a 6.800 yuan (circa 680 euro). I dirigenti hanno approvato l’aumento salariale ma non vogliono toccare il bonus finale. La rivale Honda, invece, ha ceduto su tutta la linea e ha convinto gli operai a tornare a lavoro nelle fabbriche di Huangpu e Zengcheng, entrambi zone industriali di Guangzhou. Nella trattativa è intervenuto uno dei vicepresidenti locali dell’industria, che è anche deputato all’Assemblea nazionale del popolo di Pechino. Il governo teme questi scioperi, ma adotta una linea ambivalente per affrontarli.

rogatorio. Nel gennaio del 2009, tuttavia, la massaggiatrice contattò nuovamente la polizia, dichiarando di aver subito «contatti sessuali non desiderati» da parte di Al Gore durante una seduta di massaggi nel lussuoso Hotel Lucia di Portland, dove l’ex vice di Bill Clinton era registrato con il nome di Mr. Stone. Kalee Kreider, portavoce della famiglia Gore, ha dichiarato che il premio Nobel, che solo poche settimane fa aveva annunciato la separazione da sua moglie, non ha nulla da dire in merito alla vicenda.

Secondo il tabloid americano National Enquirer, il primo a portare alla luce la vicenda, l’accusatrice sarebbe una donna di 54 anni. In base a un rapporto della polizia stilato nel 2007, le molestie sarebbero avvenute il 24 ottobre del 2006, giorno in cui Al Gore si trovava a Portland per una conferenza sui cambiamenti climatici. La donna avrebbe dovuto rilasciare la sua testimonianza nel dicembre dello stesso anno, ma rifiutò per ben due volte, il 21 e il 26 dicembre, di presentarsi all’appuntamento con le autorità. La donna «si rifiuta di cooperare con gli investigatori e perfino di denunciare un crimine», si legge nel rapporto.


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Il personaggio. La sua filmografia è solo la punta dell’iceberg delle migliaia di interventi, postille, appunti, lettere, testi, diari a cui è affidata la sua attività

L’artigiano del cinema Cesare Zavattini, ovvero l’arte di incarnare splendori e miserie del mestiere di sceneggiatore di Orio Caldiron oggettista e sceneggiatore tra i più fervidi e irrequieti del cinema italiano, Cesare Zavattini ha incarnato in modo esemplare la figura dello scrittore di cinema, l’ispirata coscienza artigianale dell’inventore di film. Se ha contribuito come pochi a definirne l’accidentato statuto professionale, è stato il solo a rappresentare in modo straordinariamente vivo gli splendori e le miserie del mestiere di sceneggiatore, sempre in lotta con la fretta della macchina-cinema, l’invadenza dei registi, l’approssimazione delle strutture produttive. Ma non si può dimenticare che la sua foltissima filmografia è soltanto la punta dell’iceberg delle centinaia di soggetti e delle migliaia di pagine di interventi, postille, dichiarazioni, appunti, lettere, testi, diari a cui è affidata la sua attività, l’affollato intreccio d’impegni e di progetti che ha animato per tanti anni la sua profonda carica innovativa, la sua inattesa capacità di folgorazione.

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Dopo i curiosi tentativi degli inizi, sono decine e decine i progetti irrealizzati del dopoguerra, dai grandi viaggi italiani alle fertili trasferte straniere, da Tu, Maggiorani a Van Gogh, da Italia mia a La grande vacanza, da La cavia a Diario di una donna. Nella fervida operosità di Zavattini, l’attività letteraria sembra prendere il sopravvento sull’attività cinematografica. Se gli anni Sessanta si aprono con Non libro più disco, che recupera il rapporto con le provocazioni e gli sperimentalismi delle avanguardie e delle neoavanguardie, non si può dimenticare la folgorazione di Stricarm’in d’una parola, la raccolta di poesie in dialetto luzzarese, né la disseminata e coinvolgente riflessione del racconto-saggio La notte che ho dato uno schiaffo a Mussolini, uno dei suoi libri più segreti e rivelatori. Ma l’esuberanza zavattiniana rompe gli steccati e straripa negli altri mezzi di comunicazione, riprendendo l’indagine su Luzzara, avviata nel ’55

cessità del bilancio individuale e collettivo, la provocazione dell’autoanalisi che, tra effrazioni e invadenze, avviene sempre sul luogo del delitto. Se numerosi temi e propositi sono confluiti in La veritàaaa - che va in porto soltanto all’inizio degli anni Ottanta dopo un ventennio di rielaborazioni, modifiche, aggiornamenti - il progetto conserva l’intatta vivacità dell’incompiuto, del testo aperto, del processo ancora in fieri, idealmente suscettibile di modifiche e integrazioni. La struttura del racconto è incentrata sulla cena come convivialità istituzionalmente aperta alla discussione a più voci, in cui si ripropongono le grandi domande: «Dove va il mondo? Che cosa veramente vogliamo? Quali responsabilità abbiamo? Siamo vicini alla salvezza o al naufragio? Su quali sentimenti possiamo ancora contare considerandoli una zattera nel mare in tempesta? Hanno ancora un spunti, ipotesi, riflessioni che senso un peso una influenza le sono venute affiorando in un parole di Cristo o sono già state lungo arco di tempo a partire da superate? E noi, dopo tanto falLa conferenza, abbozzato sin limento, cerchiamo un’altra vedal ’43 ma ripreso anche in se- rità che sostituisca quella criguito. Vi si ritrovano la sugge- stiana? L’amore è finito e si lastione del film in piazza, la ten- scia ormai solo spazio all’odio tazione del monologo sui rap- che si trasforma ipocritamente porti tra sé e gli altri, l’urgenza in tanti modi per manifestarsi? della ricerca della verità, la ne- L’egoismo è più che mai alla radice di ogni azione, il più duro individualismo, o si fanno luce delle Scrittore, giornalista, pittore, poeta, autore radiofonico strutture che poe teatrale, soggettista e sceneggiatore cinematografico, tranno attenuare Cesare Zavattini (1902-1989) è una delle figure più sile nostre continue gnificative del Novecento. A lui si devono libri (Parliaesplosioni aggresmo tanto di me, I poveri sono matti, Io sono il diavolo, sive, la nostra feroStraparole) e film memorabili (Sciuscià, Ladri di bicicia in atto?». La diclette, Miracolo a Milano, Umberto D., I misteri di Ronamica della rapma). Ha attivamente contribuito al cambiamento del presentazione non cinema attraverso idee, progetti e iniziative di risonanpuò fermarsi alla za internazionale. La mostra Cantiere Zavattini s’icena ma si allarga naugura venerdì 25 giugno all’Antico Palazzo di Città fino a coinvolgere di Cagliari alle ore 19. Promossa dal Comune, dalla l’intero paese, conFicc, dalla Società Umanitaria-Cineteca Sarda, in colsentendo alla colaborazione con l’Archivio Cesare Zavattini-Biblioteca munità di parteciPanizzi di Reggio Emilia, ripercorre i momenti fondapare all’autoanalimentali dell’attività creativa di Za attraverso centinaia si avviata dal di fotografie, manifesti e locandine. È curata da Orio gruppo di amici. Caldiron e Matilde Hochkofler, con la collaborazione La scelta di Luzzadi Damiana Ernesto. Il percorso della mostra è integrara nasce dalla to da un’ampia rassegna cinematografica, curata da esemplarità di un Antonello Zanda e Marco Asunis che va da che va da I microcosmo che bambini ci guardano al recente Cesare Zavattini firriflette il più ammato da Carlo Lizzani. pio scenario delle vicende collettive con Paul Strand, in Un paese vent’anni dopo, il libro fotografico con Gianni Berengo Gardin del 1978, in cui si interroga sui cambiamenti già avvenuti e sulle trasformazioni in corso. Si esprime anche nella tv con la collaborazione alla sceneggiatura di Ligabue, tratto dalla biografia in versi del pittore «meraviglioso come noi», e nella radio, dove inventa e conduce Voi e io, punto e a capo. L’ultima cena, il progetto più significativo dei settanta, tira le fila di idee,

la mostra

In queste pagine, alcune immagini del soggettista e sceneggiatore Cesare Zavattini. Oggi, all’Antico Palazzo di Città di Cagliari, si inaugura una mostra a lui dedicata, promossa dal Comune, dalla Ficc, dalla Società UmanitariaCineteca Sarda, in collaborazione con l’Archivio Cesare ZavattiniBiblioteca Panizzi di Reggio Emilia. L’esposizione è curata da Orio Caldiron e Matilde Hochkofler, con la collaborazione di Damiana Ernesto

attraverso la ricostruzione di momenti particolarmente significativi: «Si tratti del ricostruire quel giorno che il paese fu circondato, e furono arrestati dei ragazzi e portati via con le madri dietro che imploravano pietà verso le brigate nere. Si tratti di quei giorni del fascismo che gravarono come una cappa di piombo sul paese anche lì ci furono dei morti. Ma sarebbe troppo poco fermarsi a una iconografia di quell’epoca, puntare soltanto sulla mozione degli affetti e non sull’analisi più profonda, razionale, oserei dire scientifica, che raffronti continuamente ieri e oggi: la storia del paese ha un senso solo se il conoscerla ha questo scopo e questa forza illuminante di una verifica nuova di ciò che stiamo vivendo con un segreto sgomento, con una manifesta incapacità di giudicarci e di giudicare. E un subbuglio di accuse gli uni i unirò gli altri». Il rapporto tra il passato e il presente è

uno dei nodi fondamentali nella misura in cui la memoria non si rifugia nella dimensione retrospettiva ma è in grado di rimbalzare sull’oggi, compromettendosi con la più incalzante contemporaneità.

La scommessa più alta coincide con l’imitazione dell’ultima cena di Cristo, un percorso obbligato ma estraneo all’oleografia di maniera attraverso cui si viene approfondendo lo sguardo su se stessi nei termini di un’impietosa introversione. Lo stimolo del grande esempio moltiplica le domande e le risposte, le apparizioni e i gesti in un clima di misteriosa sospensione: «L’ultima cena avvenne in un momento di trapasso da antichi pensieri, da antiche abitudini, da antichi interessi, da una morale trasformata in diritto e dagli orizzonti corti. Un gruppetto di uomini credevano in qualche cosa di nuovo, uno soprattutto credeva lucidamente in quello che le folle credevano confusamente e


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presente. Anche la lettura di un giornale acquisterà delle risonanze insolite, ci comprimerà in una odiernità che dobbiamo riconoscere di voler sfuggire a tutti i costi».

misteriosamente. Bisognava cambiare. Sono passati duemila anni e anche oggi si sente dire che bisogna cambiare, e queste parole trovano molti d’accordo. Anche se parecchi che gridano le stesse parole si scannano tra loro. Anche quella era una sera quieta come questa nella valle padana. Sarebbe meraviglioso poter riuscire a essere così umile da immaginare almeno in parte cosa si dissero quegli uomini lontani, perché erano uomini, e anche Cristo era più che mai uomo. È possibile tradurre quei discorsi, quegli stati d’animo, quella grande sospensione di quella sera, quella mescolanza di grandezza e di viltà, di fede e di tradimento, di futuro e di immediatezza, che investiva tutto.

Fuori c’erano le stelle, i grilli, forse anche le rane, come nei nostri fossati. Le guardie erano in agguato. Aut aut. Bisognava decidere. Fuggire o stare lì. Pagare di persona o no. Giuda è il contestatore che non crede in Cristo: lo riduce a uomo come lui, lo processa a suo modo, con cattiveria, con intelligenza, con diffidenza, lo offende perfino, lo accusa di parole parole parole che il vento porterà nei secoli ingannando tante generazioni. Tra un bicchiere di lambrusco e una addentata a una fetta di culatello, Z. alternandosi nella parte di Cristo o di Giuda, ora affannosamente per l’età, ora riposatamente, costringendo anche gli altri nelle loro parti fittizie di apostoli, a intervenire, loro che sono operai, contadini, artigiani, come gli apostoli erano pescatori, cercando insieme uno spiraglio nel buio che abbiamo intorno».

Il gioco è esplicito. Si tratta di analizzare la cena fra amici, di sviscerarla mettendola a confronto con le domande che tutti si pongono in modo sempre più assillante. Se ogni pensiero deve trasformarsi in azione drammatica, il filo logico della

conversazione non potrà che essere continuamente interrotto, trasformandosi di volta in volta in «esaltazione, depressione, rabbia, bisogno furente, parossistico di capire di più, di dimostrare, di voler essere dimostrati, di disperarsi e di impegnarsi totalmente» come se la cena fosse l’ultima occasione: «Calmi o forsennati, geo-

metrici o spiritati, a seconda dell’effettivo intrecciarsi e dipanarsi della serata, dell’“ultima cena”, i presenti daranno un loro contributo nutrito di quello che sono, di quello che credono di essere, di quello che vorrebbero essere. Tutti o quasi tutti, partiti per recitare e cautelarsi, diffidenti e pieni di una propria definizione soprattutto

di se medesimi, sarà tanto più nel difenderla che si scopriranno. Certo che prenderà l’aspetto di un gioco, con qualche forzature perfino dissacratrice, l’imitazione dell’ultima cena di Cristo. E il discorso, è la polemica, è questo immedesimarsi in tutto ciò che si sperimenta, e atteggiarsi come gli apostoli, come Cristo, e io, che in questo istante non so prevedere se farò la parte di Cristo o di Giuda o entrambe, mi porrò e porrò delle domande, dei quesiti, che possono diventare buoni anche se sono messi sul tappeto con semplicità, con onestà, con ignoranza, però coi dubbi, volgari e sublimi, escandescenti e mormorati, circa i nostri rapporti con Dio, con Cristo, con questa montagna di invadenza a tutti i livelli che è ancora il cristianesimo. Quella stanza non è un’isola. La sentiamo raccordata con ogni fibra del

Nel singolare esperimento, l’autore non è soltanto l’ideatore ma anche il protagonista, l’attore di questa particolarissima inchiesta: «Il perno sono io. Potrò essere condizionato mio malgrado dalle parole, dai fatti, dai contatti che si svilupperanno, ma è chiaro che, malgrado tanta apertura e disponibilità, io ho radicalmente un’intuizione e una concezione della cosa che mi appartiene razionalmente e fantasticamente, che è il frutto, si è detto, di una convivenza tutta particolare con dati, esperienze, situazioni, delusioni, illusioni, e che qui prende il carattere, data la mia età, il mio umore morale, di qualche cosa di estremo. Non sono solo un ideatore ma l’attore dell’esperimento. Ma ci vogliono delle qualità di attore? Ho delle qualità di attore? L’uomo è un attore. Quando lo diventa troppo, diminuisce le qualità profonde, un suo contributo a svelare qualche cosa di se stesso a favore della collettività. Ho un’esuberanza di gesti, di voce, non escludo qualche istanza di compiacenza, però una mia schietta disposizione a dire quello che penso, a parlare come modo di pensare, fa sì che il mio gestire e il mio aspettare la comunicazione, sia in sincrono con la comunicazione stessa così che non c’è spazio per dire: qui voglio effettare. Oramai il mio esprimermi coinvolge parole, gesto, arterie, occhi. Qui spero di essere così dentro alla cosa da dimenticare assolutamente gli altri come “spettatori”ma di constatarli sempre come complici, come avversari, come alternativamente soggetti e oggetti, capaci di indignarmi e io di stupirmi, di essere in sostanza sempre insieme. Nell’Ultima cena non compio un’azione da attore. Come non compio neanche un’azione da regista». Sorta di ideale riepilogo delle inchieste sull’uomo che gli sembrano il compito più urgente e ineludibile di chi voglia misurarsi con i battiti più segreti della propria coscienza, l’ultima cena ci appare oggi - assieme alle spiazzanti folgorazioni di La veritàaaa come lo sproloquiante testamento di Zavattini. Nell’incontenibile foga di un ultimo poscritto, ci consegna l’inedita rappresentazione, al tempo stesso radicalmente cristiana e laicissima, della cena tra amici nel paese-mondo di Luzzara, in cui il coraggio di andare fino in fondo, incidendo con chirurgica lucidità nel cuore del reale, si popola dei guizzi e dei fantasmi di un notturno padano d’incantevole freschezza.


spettacoli

pagina 20 • 25 giugno 2010

In questa pagina, alcune immagini dell’artista statunitense Natalie Merchant, che torna sotto i riflettori dopo sei anni di silenzio con il nuovo, coinvolgente album “Leave your sleep”, una raccolta di 26 poesie di scrittori antichi e moderni, messi sapientemente in musica dalla Merchant

stata chiamata la Emily Dickinson del pop per I suoi testi provocatori e I suoi evidenti spunti letterari. Non per nulla considera la scrittura e la lettura fonti inesauribili di idee per la sua musica. Appassionata lettrice di Tolstoji e Dostoevskji, adora raccontare storie, descrivere strani personaggi, rapporti familiari. Natalie Merchant, cantante e compositrice americana, leader dei 10.000 Maniacs negli Ottanta, torna dopo un lungo silenzio durato sei anni. Dopo il formidabile The House Carpenter’s daughter del 2003, ecco un nuovo album, Leave your sleep in uscita dallo scorso aprile.

È

Un disco importante, coinvolgente, ricco. Un lavoro gigante realizzato con l’etichetta Nonesuch, in cui mette in musica 26 poesie, scritti di poeti antichi e moderni. Charles Causley, Rachel Field, Albert Bigelow Paine, Edward Lear, Arthur Macy, Ruth Crane e tanti altri. Uno sguardo ammaliante e un’estroversione che trovano traduzione in una musica originale, particolare. Un muscuglio di poesia e musica colta. Jazz, blues, cajun, irish folk,country, musica celtica, orientale, balcanica, gitana, cinese. Un caleido-

Musica. Dopo sei anni di silenzio, Natalie Merchant torna con un nuovo album

La Emily Dickinson del pop e del folk

sobri e melodie delicate, si staccava nettamente dal pop elettronico in voga negli anni Ottanta per abbracciare una forma di cantautorato acustico che sarebbe poi venuta alla ribalta nel Novanta. La band, formata a New York nel 1980 era un sestetto, formato da una diciassettenne Natalie, Dennis Drew alle tastiere, Robert Buck e John Lombardo alle chitarre. Dopo Human Conflict Number Five (1982), il loro primo successo, i 10.000 Maniacs pubblicano un anno dopo l’album d’esordio Secrets of The I Ching, in cui si comincia ad avvertire la personalità della Merchant, autrice di ballate colte come The Latin One, Grey Victory e My Mother The War. Ma è con il successivo The Wishing Chair (1985) che la band di Jamestown si fa notare presso la critica più attenta, grazie al fascino di ballate intense. Merchant assume le redini del gruppo a partire da In My Tribe, 1987, che regala loro la fama internazionale. Tre anni dopo, i 10,000 Maniacs tornano con Our Time In Eden, che ne rilancia le sorti grazie a episodi freschi e seducenti, come la ballata di Stockton Gala Days e la sonata atmosferica di Noah’s Dove e la melodia accattivante di These Are The Days (uno dei loro massimi hit). All’apice della creatività Natalie Merchant lascia i 100,000 Maniacs, celebrando l’ultimo atto insieme alla band con il fortunatissimo live Mtv Unplugged (1993), forte anche di un’ottima cover del classico di Bruce Springsteen e Patti Smith Because The Night.

di Valentina Gerace scopio di suoni, colori, condito da una voce sensuale, estremamente espressiva. Un disco intenso, edito in due formati. Uno con 16 canzoni e un altro con 26. Una musica che è espressione del suo cuore, della sua passione, della sua raffinatezza culturale. Natalie ha voluto far partecipare al disco quelle che definisce le “well-oiled machi-

zione, esperto in colonne sonore per film, capace di dirigere un ensemble di archi.

Un uomo all’altezza, pronto a rendere magico qualsiasi strumento, fino al più strano. E fargli ottenere il suono migliore. Un lavoro portato a termine dopo cinque anni di ricerca sui musicisti. Natalie è curiosa, fa

Louis Stevenson, Robert Graves, Gerard Manley Hopkins) ma anche sconosciuti. Ninne nanne, poesie senza firma, o racconti di vita intessuti dalla sua stessa fantasia. Da questo mix di poesia e tradizione sono scaturiti brani country come la struggente Adventures of Islabel, folk di ambientazione irlandese, The Walloping Win-

bear. La blues Griselda e l’orchestrata The land of Nod sono solo altre due ballate che rendono il disco struggente, profondo, tutto da scoprire.

In “Leave your sleep”, un lavoro realizzato con l’etichetta Nonesuch, l’artista mette in musica 26 poesie, scritte da autori antichi e moderni: da Charles Causley a Rachel Field, da Albert Bigelow Paine a Edward Lear nes”, musicisti che suonano insieme da millenni. Riunisce ben 130 musicisti. Tra cui il mitico Wyton Marsalis e la sua orchestra, Medeski Martin & Wood, Klezmatics, Membri della New York Philarmonics, The Memphis Boys, Lunasa, Katell Keineg, Hazmat Modine. E fa persino volare un ingegnere da Londra. Nick Wollage, un nuovo George Martin della produ-

una indagine e raccoglie informazioni e immagini antiche di personaggi del passato con cui collabora. Musicisti che uniscono I loro stili per creare un album intriso di musica folk celtica, musica da camera, reggae, jazz e musica zigana, dixieland jazz, blues. La poesia è uno degli ingredienti essenziali del disco. Natalie sceglie poeti conosciuti ( Odgen Nash, Robert

dow Blind, un po’ reggae. Ancora folk come le splendide Nursery Rhyme of Innocence and experience e Equestrienne, ancora un country, la turgida Calico Pie quasi dixieland.

E ancora ballate di grande impatto come No one ever marries me, le lente e orchestrali Spring and fall e Autumn Lullaby, la gitana The dancing

Con i 10,000 Maniacs Natalie Merchant ha dato vita a una delle esperienze pop più raffinate degli anni Ottanta. Il loro peculiare folk-rock, fatto di ballate intimiste, arrangiamenti

Austera e sensibile, raffinata e graffiante, Natalie Merchant afferma definitivamente il suo stile con Ophelia (1998) con la partecipazione persino di Carmen Consoli. Altro successo da solista, Motherland del 2001 co-prodotto con T Bone Burnett che spazia da ballate folk a ritmi reggae, da aromi arabi a orchestrazioni da camera, da accenni gospel a sprazzi di tango e flamenco. Natalie Merchant getta uno sguardo politico sull’America con un testo che diventa anche la testimonianza della rabbia di una popolazione ferita, che «vuole fuggire dalla realtà, e non si rende conto che l’11 settembre anche l’America ha avuto il suo Armageddon, il giorno del giudizio». Ammalianti arrangiamenti di archi e fiati arabeggianti e ritmi reggae. Non mancano ovviamente le contaminazioni etniche e incursioni nella musica nera. La raffinatezza fatta persona, questa Merchant. Conviene approfittarne, prima che si assenti per altri sei anni.


spettacoli

25 giugno 2010 • pagina 21

Ritratti. Fermo immagine su Filippo Timi, fino al 27 giugno al Teatro India con la replica della sua versione di “Amleto”

Un “mattatore” a Roma di Enrica Rosso

non ce l’ho Ofelia, io l’amore necessario a distrarmi da me stesso non ce l’ho». Dunque impazzito di non amore. Un timbro di voce corposo, pastoso e roco che già da solo riempie la scena, con cui gioca a fare Petrolini (che apre lo spettacolo in voce con una ghiotta registrazione sull’Amleto), ma anche a fare “il sempio”perché lui in scena si diverte come un matto, o almeno questo è quello che ci fa credere. Mattatore assoluto anche quando rientra in scena di corsa con la sigarettaccia pendula, mezza fumata e si affianca ai suoi attori per dirigerli in diretta, nei momenti climax dello spettacolo.

vete presente quegli attori un po’ tirchi, sempre preoccupati di non fare brutte figure, di non rischiare troppo, sempre in bilico tra l’esibizione e il ritegno? Quelli insomma che si osservano da fuori in modo ossessivo, per capirci, che controllano l’incontrollabile? Ecco, Filippo Timi è tutta un’altra cosa. A cominciare dalla sfida impossibile di far uscire le sillabe di bocca con le giuste pause, tutte per benino,Timi soffre infatti di una forma di balbuzie conclamata, che si dissolve per magia quando calca la scena, ma che ricompare implacabile nelle interviste. Lui è bravissimo, ci scherza, ci gioca e ci sta lavorando, ma certo si dispiace quando s’impunta nel bel mezzo di un’argomentazione importante. Non solo, la sua vista lascia parecchio a desiderare per cui quando in cinema deve girare i primi piani devono indicargli l’altezza giusta dello sguardo perché da solo non lo becca mai. Un bel pezzo di sfrontato, in tutti i sensi.

A

Timi non si esibisce, si mostra, si fa giullare di se stesso, mette a nudo il suo estremo bisogno d’amore supportato dalla forza dell’amore che in cambio, mette in campo lui. «Il rispetto è un sentimento orribile come l’umiltà. L’arroganza forse è l’unico colore a non aver paura della vita». Detto cosi sembra un po’ estremo, la differenza in questo caso la fa la lealtà di chi lo dice, anzi lo scrive. Lo mette nero su bianco nei suoi libri, crepitanti, poetici e sfornati al ritmo di uno all’an-

esponenti del Teatro Valdoca di Cesena, con Robert Wilson, con Pippo del Bono, tutta gente niente affatto confusa, con grande personalità, roba di prima scelta. Poi nel ’96 incontra Giorgio Barberio Corsetti e si assesta nella sua Compagnia Teatrale. Timi, da intenditore, divide il teatro in due ere: prima di Carmelo e dopo Carmelo (Bene, of course). Ha una faccia importante sostenuta da un

Mussolini. Non male considerando che nel frattempo continua a scrivere, recitare, scrivere, scrivere, recitare, scrivere. Vivere: d’altronde sostiene che «la vita va succhiata». Come dargli torto? Lo abbiamo rivisto a fine tournée al Teatro India dove fino al 27 di giugno replica la sua versione di Amleto Il popolo non

In scena è un turbine, una furia della natura, una vera e propria esplosione di energia. Sviluppa lo spettacolo in modo frammentario con passaggi sostenuti da un’autoironia vincente: sul palco succede di tutto no: l’autobiografico Tuttalpiù muoio, scritto con la complicità di Edoardo Albinati, uscito nel 2006 e già in ristampa, E lasciamole cadere queste stelle del 2007, entrambi editi da Fandango, Peggio che diventare famoso per le edizioni Garzanti 2008 e Racconti perugini datato 2009 per i tipi di Midgard. Lo incide nell’aria negli spettacoli che conduce. Insomma puoi amarlo o detestarlo, in ogni caso non puoi non riconoscergli un talento pazzesco. Nato nel ‘74 a Ponte S. Giovanni, in provincia di Perugia, si traccia una formazione di tutto rispetto iniziando a collaborare al Centro per la Sperimentazione e la Ricerca Teatrale di Pontedera con

corpo vibrato, energico. Normale che abbiano pensato a lui per interpretare personaggi come Orfeo, Danton, Percival, Odino, Satana, Woyzeck... Nel 2004 ha vinto il Premio Ubu come miglior attore dell’anno under 30 per Metafisico Cabaret, nel 2006 ha adattato per il teatro il suo primo romanzo portandolo in scena col titolo La vita bestia diretto da Barberio Corsetti. Nel 2009 è stato premiato dal Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani per la pellicola La doppia ora di Giuseppe Capotondi. Sempre nel 2009 arriva la candidatura al David di Donatello per il film di Marco Bellocchio Vincere in cui interpreta Benito

ha il pane? Diamogli le brioche di cui firma la regia a quattro mani insieme con Stefania De Santis, già aiuto regista - quando si dice il caso - di un certo Carmelo Bene. «Ogni testo è un pretesto» quindi anche questo, «ridere è la risposta alla coscienza della tragedia», «ridere e piangere sono una smorfia sola» e allora ecco composto l’identikit di un principe di Danimarca viziato e osceno, in una sala del trono-stanza dei giochi, con tanto di palloncini, che si confronta con la sua incapacità di essere amato e di amare, «io tutto questo amore

In questa pagina, alcune immagini dello spettacolo portato in scena da Filippo Timi “Il popolo non ha il pane? Diamogli le brioche”, una rivisitazione dell’Amleto di William Shakespeare. Lo spettacolo di Filippo Timi è al Teatro India di Roma fino al 27 di giugno

In scena è un turbine, una furia della natura, un’esplosione di energia. Un pensiero tradotto in corpo. Abolita la quarta parete si rende spesso complice del pubblico, ci gioca apertamente («ora faccio chiudere le porte e con la spada vi uccido tutti. Strage al teatro India: attore impazzito per i tagli fa una carneficina») entrando e uscendo dal personaggio con estrema naturalezza. E quando ci rientra il silenzio in sala è assoluto. Sviluppa lo spettacolo in modo frammentario con passaggi sostenuti da un’autoironia vincente: in scena succede di tutto. Alcuni spettatori restano sconcertati (il signore che mi sedeva accanto era totalmente basito). Per non farsi mancare proprio niente, il 1° di luglio nell’ambito del Festival Internazionale di Villa Adriana, Filo - come lo chiamano gli amici - si esibirà in una serata unica che si preannuncia notevole. Nell’area delle Grandi Terme in compagnia dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia diretta da Carlo Rizzari, l’impavido Timi si scatenerà nell’interpretazione di Pierino e il lupo su musiche di Prokofiev. Se vi interessa datevi da fare perché il ragazzo ormai registra i tutti esauriti. Ah dimenticavo, ha in cuore di scrivere un musical anni ’80 con Michael Jackson e Alice nel Paese delle Meraviglie protagonisti. E oggi è il suo compleanno.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE

Scuola in mutande, donne a casa: ecco le conquiste del centrodestra Non si pensi che la protesta di genitori e docenti della scuola romana di Grottarossa che si sono messi in mutande su un cavalcavia sia un eccesso: è, invece, l’esatta rappresentazione dello stato della scuola pubblica italiana, così come la vuole il governo. I tagli al tempo pieno sono drammatici, ma il ministro Gelmini continua nel suo gioco delle tre carte: nasconde i dati reali e confonde classi a tempo pieno con quelle a 31-39 ore. Tempo pieno significa 40 ore settimanali con le “compresenze”di più docenti, e non meno ore con un unico insegnante. Alla fine il trucco si scopre, e fra “carta vince, carta perde”, alle famiglie toccherà sempre la carta perdente. E così le donne che lavorano saranno costrette a fare i salti mortali per sistemare i propri figli, chi se lo potrà permettere dovrà assoldare costose baby sitter, e chi non ce la farà dovrà licenziarsi, sottraendo non solo reddito indispensabile alla famiglia, ma negando a se stessa la realizzazione personale, la dimensione di donna non solo come madre ma anche come lavoratrice.

Francesca Pugliesi

AUMENTARE LE POTENZIALITÀ OCCUPAZIONALI CON LE PARAFARMACIE Tutte le regioni debbono disporre di una legislazione che permetta di stipulare convenzioni con le parafarmacie in materia di farmaci da dispensare. Bisogna compattare una maggioranza trasversale che legiferi in materia al fine di creare un mercato più ampio e concorrenziale, per dare ai cittadini un più diffuso servizio di dispensa, anche nei piccoli centri, di farmaci a prezzo più economico. La professionalità del farmacista titolare di parafarmacia deve essere maggiormente tutelata. È giusto anche, in tempi di grave crisi come questa, che i cittadini possano accedere ai medicinali a costi ragionevoli, perché il servizio sanitario è a tutela della salute, e non un’espressione bonaria per camuffare interessi speculativi di grandi aziende.

G.C.

SOLE SÌ MA CON DISCERNIMENTO La buona stagione è iniziata, le spiagge sono affollatissime e dopo mesi di piogge un buon “bagno di sole” è quello che ci vuole. Attenzione, però, a chi tiene alla propria pelle, perché il sole è il responsabile, per il 70%, dell’invecchiamento della pelle. Una avvertenza per i nostri vacanzieri che passano ore al sole: tenete presente la faccia rugosa dei marinai e dei contadini per avere una idea degli effetti del sole sulla pelle. Le “lucertole”da spiaggia sono sempre moltissime e passata la stagione si ricorre a creme o trattamenti antirughe. Le creme sono una emulsione di grassi e l’effetto è di protezione fisica, perché limitano il contatto con l’esterno. Le creme non eliminano le rughe una volta che si sono formate. Utili le creme con filtri solari che, abbinati ad una appropriata esposizione, limitano i danni. Non va trascurato l’effetto negativo per la salute

Tartarughe verdi alle Hawaii La Chelonia mydas, comunemente nota come “tartaruga verde”, è una tartaruga marina della famiglia Cheloniidae. La colorazione della corazza, in realtà, è bruno-olivastra, con striature e macchie gialle o marmorizzate. L’adulto è lungo fino a 140 cm., per un peso che può raggiungere i 500 kg.

dovuto alla comparsa del melanoma legato alla quantità cumulativa di luce solare assorbita dalla pelle.

Primo Mastrantoni

DA MATTEOTTI ESEMPIO INDIMENTICABILE Tutti i socialisti si sono associati con entusiasmo alla richiesta di Veltroni al presidente della Camera perché venga posta una targa commemorativa allo scranno che occupava a Montecitorio Giacomo

L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

Matteotti quando pronunciò il discorso che ne avrebbe causato la morte. L’esempio di coraggio e nobiltà d’animo contro la dittatura fascista merita di essere ricordato in ogni modo e soprattutto oggi perché, dopo oltre un sessantennio di vita repubblicana, giovani e meno giovani non dimentichino che libertà e democrazia non sono un regalo del destino ma vanno difese e consolidate giorno dopo giorno.

Riccardo Nencini

da ”Today’s Zaman” del 24/06/10

La strategia della tensione in Turchia a Turchia non deve cadere nella trappola del terrorismo, deve fuggire i mecanismi della strategia della tensione. In sintesi è questo il senso dell’appello promosso da Fethullah Gulen, un fautore del dialogo interreligioso e uno studioso tra i più affermati del panorama islamico internazionale. Le sue posizioni a favore della tolleranza e delle relazioni interculturali sono ben conosciute. Per questa ragione ha voluto intervenire mercoledì sulla situazione molto delicata che sta attraversando la Turchia. Un Paese, oggi più di ieri, sotto i riflettori dell’attenzione internazionale.

za colpite dalle violenze». Secondo l’analisi di Gulen, questi non sarebbero che dei tentativi per far perdere al Paese le tante conquiste fatte nel campo dei diritti umani e della democrazia. «Attuati spesso in passato dai soliti circoli che ben conosciamo – ha sottolineato il professore – ogni volta che la Turchia stava per fare un passo in avanti» sulla strada della democrazia. La proposta elaborata da Gulen è un merger tra passato e presente che tenta di unificare il fronte delle vittime. Sia di quelle del terrorismo tout court, sia quelle dei colpi di Stato e del regime di restrizioni delle libertà che spesso la Turchia ha dovuto subire, in nome della custodia dei principi dello Stato laico. Un tentativo per superare un passato che non passa.

L

«La gente non deve soccombere di fronte a un terrorismo così brutale» ha affermato Gulen (che è anche uno degli editori di Today’s Zaman, ndr). Il riferimento evidente è all’ondata di violenza che negli ultimi tempi si è scatenata in Turchia. Solo negli ultimi cinque giorni sono morti 17 cittadini turchi a causa delle azioni del Pkk, il Partito comunista curdo, e dell’esplosioni di alcuni ordigni. La violenza ha colpito Istanbul, Hakkari e Elazig, in una mappa del terrore che vorrebbe coprire un ampio fronte geografico. I terroristi curdi, sabato mattina, hanno attaccato alcune unità militari nel distretto di Hakkari. Il bilancio è stato terribile, con nove soldati rimasti sul campo e altri 14 feriti. Più tardi, sempre nella stessa zona altri due soldati turchi sono rimasti vittima dell’esplosione di una mina. E sempre nel medesimo giorno, quasi seguendo una precisa agenda

del terrore, nel distretto di Elazig, durante un assalto armato ad un avamposto, un altro militare è morto e uno rimasto ferito. Arriviamo a martedì a Istanbul, quando una bomba nascosta sul ciglio di una strada, ha provocato cinque morti e 17 feriti. Un vero bolletino di guerra. Gulen è convinto che ci sia una regia occulta dietro questa martellante serie di attacchi.

«Circoli» che pianificherebbero una strategia della tensione che lo studioso islamico vorrebbe vedre fallita. Le numerose perdite «di figli della nostra madrepatria», afferma Gulen, sono «una ferita per i nostri cuori». Il messaggio di condoglianze è diretto anche ai «membri delle forze armate e di sicurez-

La risposta di tutte queste persone dovrebbe essere il «buon senso» per far capire a «questi traditori della nazione» che i loro obiettivi non saranno raggiunti. Il progetto dei moderati è quello «di creare un fronte comune contro il terrorismo, senza distinzioni politiche, religiose o etniche». In pratica si vorrebbe fare leva sul forte nazionalismo che accomuna il popolo turco – spesso utilizzato per alimentare il radicalismo – per superare i meccanismi identitari che hanno caratterizzato la Turchia kemalista del secolo scorso. Un tentativo per spingere il Paese verso la modernità. Un appello alla «pacifica coesistenza» che lo scrittore e filosofo, Gulen spera venga ascoltato dai turchi.


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LETTERA DALLA STORIA

Non c’è davvero nulla di più arduo che amarsi

di Vincenzo Bacarani

LAVORO NERO, UN ESERCITO DI 3 MILIONI DI PERSONE Un esercito di circa 3 milioni di persone combatte ogni giorno una battaglia che porta con sé sofferenze, umiliazioni e incertezze. È l’esercito dei lavoratori in nero, costretti spesso a superare il tetto delle otto ore giornaliere, senza contributi e senza assicurazione. Sono infatti 2 milioni e 966 mila (dati Istat riferiti al 2009) gli “occupati” dell’altro mondo del lavoro, quello irregolare, quello che sfugge al fisco, alla Finanza, all’Inps e all’Inail. Una “anomalia” che negli ultimi anni si è lievemente attenuata (dal 2001 c’è stato un calo di poco più dell’un per cento degli irregolari), ma che continua ad essere su alti livelli, tanto da interessare ben il 12,2 per cento dei lavoratori con un’incidenza sul prodotto interno lordo nazionale del 6,4 per cento (praticamente la metà del mercato dell’auto). Sono i dati emersi recentemente nel corso delle sedute della “XI Commissione Lavoro pubblico e privato della Camera dei deputati”.

Mio caro Friedrich, ho dovuto fare l’esperienza che non c’è davvero nulla di più arduo che amarsi. È un lavoro, un lavoro a giornata, Friedrich, a giornata. Com’è vero Dio, non c’è altro termine. Come se non bastasse, i giovani non sono assolutamente preparati a questa difficoltà dell’amore; di questa relazione estrema e complessa, le convenzioni hanno tentato di fare un rapporto facile e leggero, le hanno conferito l’apparenza di essere alla portata di tutti. Non è così. L’amore è una cosa difficile, più difficile di altre: negli altri conflitti, infatti, la natura stessa incita l’essere a raccogliersi, a concentrarsi con tutte le sue forze, mentre l’esaltazione dell’amore incita ad abbandonarsi completamente... Prendere l’amore sul serio, soffrirlo, impararlo come un lavoro: ecco ciò che è necessario ai giovani. La gente ha frainteso il posto dell’amore nella vita: ne ha fatto un gioco e un divertimento, perché scorgono nel gioco e nel divertimento una felicità maggiore che nel lavoro; ma non esiste felicità più grande del lavoro, e l’amore, per il fatto stesso di essere l’estrema felicità, non può essere altro che lavoro. Chi ama deve cercare di comportarsi come se fosse di fronte a un grande compito: sovente restare solo, rientrare in se stesso, concentrarsi, tenersi in pugno saldamente; deve lavorare deve diventare qualcosa. Rainer Maria Rilke a un giovane amico

LE VERITÀ NASCOSTE

Abramoff, dalle lobby alla pizza kosher NEW YORK. Quando la fantasia non va al potere, si rende estremamente utile per sbarcare il lunario: Jack Abramoff, l’ex lobbista milionario finito al centro di un’inchiesta che durante il secondo mandato di George W. Bush ha fatto tremare il Congresso, è finito a lavorare in una pizzeria kosher a meno di 10 dollari l’ora. Lo rivela il New York Times in un articolo intitolato: “Abramoff dalla prigione al lavoro in pizzeria”. Condannato a quattro e sei anni per diversi reati tra cui truffa e corruzione, l’ex lobbista vicino ai repubblicani ha cominciato a lavorare alla Tov Pizza di Baltimora (“La miglior pizza kosher in città”) questa settimana, dopo aver vissuto gli ultimi tre anni e mezzo nel penitenziario di Cumberland dove, ebreo ortodosso osservante, pare si dedicasse regolarmente alla lettura della Torah. Dalle sacre scritture ebraiche ora Abramoff è passato alla pizza “ebraica”, cioè preparata secondo i dettami della cucina kosher che gli assicura una paga tra i 7,50 e i 10 dollari l’ora. Il Times non entra nel dettaglio sul tipo di lavoro svolto dall’ex lobbista ma precisa che, come molti impiegati della pizzeria, indossa la kippah, il tradizionale copricapo ebraico. «La gente mi chiede: perché dai lavoro ad Abramoff?», ha raccontato al quotidiano americano il titolare della pizzeria Ron Rosenbluth, «e io rispondo, perché no? Non corrisponde al ritratto del mostro che tutti ne hanno dato». Lo scandalo Abramoff, una sorta di Tangentopoli a Capitol Hill che ha sfiorato anche il presidente Bush, era scoppiata quando il super lobbista decise di pentirsi e smascherare una vasta rete di corruzione di parlamentari attraverso contributi elettorali, regali, viaggi offerti e accettati in cambio di favori politici a beneficio dei suoi clienti.

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

FIRENZE, PIAZZALE MICHELANGELO: TERRA DI NESSUNO? I vigilini del bello, le associazioni della società civile che si impegnano a dare una mano al sindaco per il decoro della città. Ne leggiamo diverse di notizie del genere, corredate da sorrisi e strette di mano. Ma tutti sappiamo che la realtà è diversa in questa città, che milioni di persone decidono di visitare ogni anno. Quei milioni che, pur scansando la sera vari venditori che illegalmente stendono la mercanzia per terra in piazza della Repubblica o via dei Calzaioli o in Por Santa Maria, vanno anche a visitare piazzale Michelangelo, da dove godersi un panorama mozzafiato che fa concorrenza anche al Gianicolo romano. Cosa si trova in piazzale Michelangelo? Mega struttura disarmonica e blocca visuale. Un terzo della piazza occupato da una mega struttura con i marchi degli sponsor altrettanto grandi per ospitare un megaschermo che trasmette i mondiali di calcio. Troppo difficile concepire una struttura che si monta e si smonta alla bisogna? Auto in sosta ovunque anche in zona pedonale. Due terzi della piazza occupati da auto in sosta e, come se non bastasse, le catene che indicano la zona pedonale, più vicina alla balaustra, sono aperte e auto e moto sono ovunque: bimbi lasciati scorrazzare, perché ad un primo approccio i genitori credono di essere in zona pedonale, devono essere riagguantati perché auto e moto in cerca di parcheggio anche lì spuntano dovunque. Venditori ambulanti illegali ovunque. Perché le autorità del bello o di polizia non sono assidue in uno dei punti chiave del turismo di questa città?

Gli ammiratori di piazzale Michelangelo Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Robert Kagan, Filippo La Porta,

Direttore da Washington Michael Novak

Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,

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Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,

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Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,

Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,

Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,

Nell’aprile scorso il presidente dell’Istat, Enrico Giovannini, ha illustrato ai deputati delle varie forze politiche i fenomeni distorsivi del mercato del lavoro in Italia: dal lavoro nero allo sfruttamento dei lavoratrori italiani e stranieri. A fine maggio la commissione ha approvato all’unanimità (con le riserve della Lega Nord) un documento conclusivo con alcuni suggerimenti l’adozione di alcuni provvedimenti da adottare per far fronte al fenomeno. Un fenomeno che riguarda molti settori produttivi con l’agricoltura in testa (ben il 24,5% di irregolari), seguita da commercio, turismo e trasporti con il 18,7%, dai servizi (esclusa la pubblica amministrazione) con il 17,4%, dalle costruzioni - che hanno registrato tuttavia un netto miglioramento passando dal 15,7% di irregolari del 2001 all’attuale 10,5% - e dall’agricoltura con il 4,4%. Disaggregando i dati a zone geografiche, vediamo che si va da un tasso di irregolarità frl 8,6 prer cento nel Nord-Est a uno del 18,3% o nel Mezzogiorno. Tra le regioni virtuose troviamo Emilia-Romagna, Lombardia, provincia di Bolzano, Veneto e Toscana. La maglia nera spetta invece a Calabria (27,3%), Molise (19,4), Basilicata (19), Sardegna e Sicilia (18,8) e Campania (17,3). Evidentemente nel Sud, ad esclusione della Puglia, poco si è fatto e si sta facendo per affrontare in maniera organica il problema. Quali possono essere allora gli strumenti per combattere il fenomeno? La Commissione della Camera ha individuato alcuni meccanismi: razionalizzare la normativa che regola la domanda e l’offerta di manodopera, responsabilizzare gli enti locali, rafforzare la funzione degli enti bilaterali (organismi composti da imprenditori locali e sindacati a livello territoriale), adottare una riforma fiscale, premiare le imprese virtuose. E peraltro di questi problemi si parlerà proprio oggi a Spoleto (Perugia) alle 16,30 all’hotel San Carlo nel corso di un incontro organizzato con la collaborazione di Fondazione Liberal e Udc Umbria che, partendo dai dati nazionali, intende far luce anche sulla situazione in Umbria.

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ULTIMAPAGINA Australia. È la prima donna ad essere stata nominata premier nella terra dei canguri

Il salto di Julia per salvare i di Pierre Chiartano Julia, la rossa, che sarà al timone dello Stato degli aussie. Per la prima volta in Australia una donna guiderà il governo federale. Julia Gillard, ex avvocato, é diventata premier subentrando all’ex leader Kevin Rudd, che, criticato dal suo stesso partito e in forte calo nei sondaggi aveva rassegnato le dimissioni. Uno scontro consumato tutto all’interno della casa laburista dunque. E c’è già chi titola «È cominciata l’era Gillard», come l’autorevole quotidiano The Australian. Oppure «È il sogno femmista che si avvera». Basterebbe immaginare solo se trent’anni fa fosse stato mai possibile che una donna che convive con un parrucchiere, in un sobborgo di Melbourne (Altona), potesse aspirare alla carica di premier. Impensabile. E che sia stata una manovra di palazzo o meno a metterla su quella sedia, gli australiani sono d’accordo sul fatto che sia una donna capace. Per non parlare delle australiane, che hanno fatto un tifo da stadio per la sua nomina.Visti anche gli scarsi risultati della squadra di calcio in Sud Africa, hanno sfogato l’entusiasmo represso con la politica. Impensabile, in Italia questa volta. Gillard, vicepremier e ministro delle relazioni industriali e dell’istruzione nel governo di Rudd, mercoledì sera aveva sfidato l’ex Premier cedendo alle richieste del partito che temeva una sconfitta alle prossime elezioni generali. Rudd si è visto costretto a dimettersi constatando la grande maggioranza dei consensi del partito a favore della rivale. E soprattutto le poche carte che gli erano rimaste da giocare, visto il crollo dei consensi degli ultimi mesi.

È

«Non avevo intenzione di stare a guardare. Ho chiesto ai miei colleghi di fare un cambio di leadership, perché credo che un buon governo stesse perdendo la sua strada», ha detto la Gillard nel corso di una conferenza stampa, spiegando che fino all’ultimo momento non era interessata a sfidare Rudd al ballottaggio. Insomma una donna con gli attributi – quelli femminili di tenacia, determinazione e intelligenza sono più che sufficienti, senza bisogno di aggiungerne altri – che ha colto l’occasione politica per fare il grande salto. E nel Paese dei canguri non ci potevamo aspettare di meno. Ormai ex leader del partito laburista australiano, Rudd era stato eletto premier nel 2007. Nell’ultimo anno, la sua vice, Julia Gillard per l’appunto, gli aveva lanciato una sfida all’interno del casa laburista. Il motivo era stato il crollo in termini di consensi a causa del mancata realizzazione di quanto promesso in campagna elettorale. Già, ma cosa aveva così irritato il popolo di ex galeotti britannici, diventati cittadini di uno dei Paesi più invidiati del Pianeta? Risposta fin troppo facile, in tempi di vaticini sulla fine e del mondo e sull’estinzione dell’uomo: ambiente e clima. Principale soggetto del centro-sinistra e a vocazione governativa, il partito laburista ne ha preso atto e, con l’appoggio del proprio gruppo parlamentare (nelle due camere) ha dato il via libera all’operazione che vede l’avvocatessa subentrare a Rudd, in vista delle imminenti elezioni politiche. In Australia, infatti, vige una monarchia parlamentare federale. Formalmente capo dello Stato è la Regina d’Inghilterra. Il suo rappresen-

LABOUR C’è già chi titola «È cominciata l’era Gillard» come l’autorevole quotidiano The Australian, oppure «È il sogno femminista che si avvera». Il cambio di premier, in casa laburista, sembra aver galvanizzato gli australiani che tra poco torneranno alle urne tante al governo è Quentin Brice, nominato nel 2008, governatore generale dell’Australia. Governatore, primo Ministro e ministri, fanno parte del Consiglio federale esecutivo. Di fatto, però, il potere esecutivo è esercitato dai ministri attraverso i rispettivi dicasteri ed a capo di tutto è il primo ministro. La forma di governo parlamentare è espressa dal rapporto fiduciario tra governo e parlamento. È la camera dei Rappresentanti ad eleggere il primo Ministro, mentre i ministri sono scelti tra i membri delle due camere: ecco perchè è stata possibile la formazione di un nuovo governo in assenza di consultazione elettorale. La struttura federale è assicurata soprattutto dalla composizione del senato federale (cosiddetta camera Alta, rappresentativa degli Stati membri), su base proporzionale, ma anche in parte dalla composizione della camera dei Rappresentanti (cosiddetta camera Bassa, elettiva), con sistema elettorale maggioritario uninominale. La Gil-

lard ha alcuni mesi a disposizione per invertire il trend negativo che ha investito l’ex primo ministro e coinvolto il partito laburista. In termini di consensi, tutti i sondaggi danno in autentica picchiata nell’ultimo anno. Il suo vice è Wayne Swan, già ministro del Tesoro nel governo Rudd. La strategia potrebbe essere quella di capitalizzare il più possibile la luna di miele con gli australiani, per arrivare in buona forma alle nuove elezioni, in modo da recuperare il gap accumulato dai laburisti. E l’avvocato Julia sembra essere sulla buona strada.

Tra le eredità del passato governo c’è anche una guerra commerciale con la Cina, che tempo fa voleva allungare le mani sulle materie prime estratte dalla società Rio Tinto. Una vicenda di mancate acquisizioni societarie, finita con una vera spy story, ricadute giudiziarie e ricatti economici. Ma Julia è una toga forense e forse saprà come muoversi nel difficile scenario dei nuovi equilibri mondiali, che hanno catapultato Camberra in prima linea. Comunque non vedremo al governo le pettinature improbabili della Thatcher o quelle out of fashion di Sua maestà.


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