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ISSN 1827-8817 00626

he di c a n o r c

La vera generosità verso

il futuro consiste nel donare tutto quanto al presente Albert Camus

9 771827 881004

di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • SABATO 26 GIUGNO 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Il lamento per la qualità del gioco è purtroppo solo un esercizio retorico

La Grande Ipocrisia Nazionale: ma che, quattro anni fa giocavamo bene?

CALCIO E CRISI

CALCIO E POLITICA

Lo specchio del declino

E la Lega sognò la Slovacchia

di Enrico Cisnetto

di Francesco D’Onofrio

io ci scampi e liberi dalla retorica. E il calcio è fonte inesauribile di retorica, tanto quando si vince come quando si perde. E se poi a perdere è la Nazionale, e per di più in una maniera come mai era accaduto nella sua storia, allora le frasi fatte e le iperbole si sprecano. Ed è quello che accaduto a botta calda, puntualmente. a pagina 9

imprevisto e sgradevole risultato conclusivo della Nazionale italiana ai Mondiali di calcio, può concorrere a far discutere del rapporto tra la Lega Nord e l’Unità d’Italia ancora una volta anche in termini di secessione. Si tratta – in questo caso – di una rilevantissima questione, che richiede una analisi sociale e culturale. a pagina 10

D

Abbiamo vinto un Mondiale senza talento e rubacchiando: ma il risultato coprì la realtà. Suona allora piuttosto singolare scoprire solo oggi che il calcio italiano è in crisi Franco Insardà • pagina 8

L’

I Grandi della Terra si riuniscono a Toronto con molti nodi da sciogliere.Anche se tutto potrebbe risolversi con un nulla di fatto

Ha ragione Angela. A metà... Si apre un G20 difficile con l’America e mezza Europa divise sulla governance della crisi: ma davvero tassare le banche (Merkel,Sarkozy,Cameron) è alternativo a misure di stimolo della crescita (Obama)? UN FALSO BIVIO

di Enrico Singer

Non mettete contro etica e sviluppo

Napolitano gela la “mossa” di Berlusconi

obiettivo è comune: sostenere la ripresa dell’economia e dare nuove regole al mercato finanziario per lasciarsi alle spalle una crisi che ha avuto - e che continua ad avere - effetti devastanti. Ma le ricette per raggiungere questo risultato non mettono tutti d’accordo. Anzi, i venti Grandi che si riuniscono oggi e domani a Toronto e che rappresentano il 90 per cento del Pil mondiale, in molti casi hanno interessi divergenti da difendere. Tanto che la prospettiva di accordi parziali, di piccoli passi avanti e di rinvii a nuovi summit è la più realistica. a pagina 2

L’

di Marco Respinti economia mondiale che soffre e che non accenna a rimettersi, il suo capezzale bell’e pronto, i “grandi della Terra” che si confrontano ancora un a volta, le ricette possibili per uscire dalla palude ognuno la sua, insomma il G20 di Toronto, Canada. Bel posto. Riusciranno i manovratori a non farsi distrarre?

L’

La Cgil sullo sciopero: «Un milione»

Casini a Pd e Pdl: «Cambiamo insieme la manovra» I leader Udc: «Non può esserci autosufficienza di fronte alla crisi» Giuliano Cazzola ed Errico Novi

pagine 6 e 7

a pagina 2

A trent’anni dalla tragedia

Ritrovata una lettera di Hitler

Gran finale di stagione al cinema

Strage di Ustica, oltre ogni limite

Futuro Führer cerca Mercedes grigia

“City Island”: segreti in famiglia

Paradisi • pag.26

Casini: «La democrazia non può convivere con buchi neri così grandi»

Stefanini • pag.24

seg1,00 ue a p(10,00 agina 9CON EURO

Dopo il putsch di Monaco chiese soldi (a un ebreo) per comprare una macchina

I QUADERNI)

• ANNO XV •

Dell’Olio • pag.11 NUMERO

123 •

“City Island” di Raymond De Felitta, l’ultimo film della stagione da non perdere

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

Lo schiaffo del Colle: «Brancher deve andare al processo»

Dopo giorni di polemiche, interviene il Quirinale: «Il neoministro, essendo senza portafoglio, non ha diritto al legittimo impedimento». Ritratto dell’uomo sul quale si sta creando un vero incidente istituzionale Francesco Pacifico • pagina 30 IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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pagina 2 • 26 giugno 2010

Exit strategy. Alla vigilia del G20 pranzo al fast food tra il presidente americano e quello russo alla ricerca di un’alleanza

Il puzzle di Toronto

Allarme del Fmi: sono in pericolo 30 milioni di posti di lavoro Obama cerca la sponda di Medvedev per sostenere la ripresa di Enrico Singer obiettivo è comune: sostenere la ripresa dell’economia e dare nuove regole al mercato finanziario per lasciarsi alle spalle una crisi che ha avuto - e che continua ad avere effetti devastanti. Ma le ricette per raggiungere questo risultato non mettono tutti d’accordo. Anzi, i venti Grandi che si riuniscono oggi e domani a Toronto e che rappresentano il 90 per cento del Pil mondiale, in molti casi hanno interessi divergenti da difendere. Tanto che la prospettiva di accordi parziali, di piccoli passi avanti e di rinvii a nuovi summit - il prossimo è già fissato per novembre a Seoul - è la più realistica. La storia del G20, del resto, è lì a dimostrarlo. Da quando è nato, nel 1999, ha ridimensionato l’importanza del G8 (le sette maggiori economie dell’Occidente più la Russia), ma non si è ancora trasformato in quel governo globale dell’economia del pianeta così invocato e così difficile da realizzare proprio perché è impresa titanica comporre le aspettative di Washington con quelle di Pechino, Mosca, Berlino, Roma, Parigi, Londra, New Dehli, Brasilia e via via elencando le vecchie e le nuove capitali che contano.

un’intesa generale, si possono prendere dei provvedimenti. Cosa che Berlino e Parigi potrebbero fare molto presto. Forse anche prima che la Ue indichi - come si è impegnata a fare entro ottobre - una linea di comportamento comune.

L’

Quando non c’è unità, però, sono le alleanze, i cosiddetti “fronti”, ad avere il loro peso. E di sicuro quello tra Angela Merkel, Nicolas Sarkozy e David Cameron sul tema della tassa sulle banche e sulle transazioni finanziarie lascerà il segno, anche se si scontrerà con la fiera opposizione del Brasile, dell’India e dello stesso Canada e, probabilmente, non troverà spazio nell’elenco degli accordi di Toronto. Ma viene voglia di dire “forza Angela” perché spostare una parte, almeno, del peso della crisi anche sul settore finanziario, riequilibrando così il debito pubblico con il privato, è una strategia già condivisa sia pure in principio - dalla Ue nell’ultimo vertice europeo di dieci giorni fa a Bruxelles. Non solo. Al tavolo del G20, la troika Markel-Sarkozy-Cameron si presenta anche con un fatto, oltre che una proposta: il governo liberal-conservatore di David Cameron ha già deliberato la sua tassa sulle banche dimostrando che, pur in assenza di

Le due tendenze che si sfidano non sono affatto in contraddizione

Forza Angela, ma anche la crescita... di Marco Respinti economia mondiale che soffre e che non accenna a rimettersi, il suo capezzale bell’e pronto, i “grandi della Terra” che si confrontano ancora un a volta, le ricette possibili per uscire dalla palude ognuno la sua, insomma il G 20 di Toronto, Canada. Bel posto. Riusciranno i manovratori a non farsi distrarre e a prospettare soluzioni efficaci, virtuose e praticabili per quel bailamme che ha creato e tuttora crea la venuta al pettine del nodo dei nodi, ossia lo scollamento totale dell’economia reale da quella finanziaria, con conseguente e pericolosa virtualizzazione delle monete, abdicazione delle responsabilità e assenza di criteri certi in base ai quali accordare fiducia?

L’

Sul piatto, le due tendenze che si sfidano ora fanno capo l’una al Cancelliere tedesco Angela Merkel, l’altra al presidente degli Stati Uniti Barack Hussein Obama. La stampa ne ha riassunto lo scontro ampiamente annunciato attraverso un binomio di facile presa, austerità contro crescita. La Merkel, reduce tra l’altro dall’approvazione della “cura del dimagrimento” varata il 7 giugno dal governo tedesco, sostiene che per uscire dai guai occorre tassare subito le transazioni finanziarie affinché colmino i buchi. Mezzo mondo di addetti ai lavori le si rivolta contro, ma lei persiste imperterrita: «Lotterò per questa tassa», dice. E per farsi comprendere bene ha telefonato pure a Obama, al quale ha ribadito che per Berlino è assolutamente prioritario ridurre il deficit. Sacrosanto. Anche se quelli che lottano per introdurre nuove tasse sono sempre tipi a dir poco sospetti. La questione vera però è un’altra: basta ridurre il disavanzo pubblico e piegare le

braccia in attesa che smetta di piovere? O forse occorre assieme, se non addirittura prima, far di tutto per rimettere in moto il meccanismo e i cicli, per aumentare la produzione, per rilanciare l’economia (reale, mi raccomando) deficit o non deficit? Meglio aspettare o agire, insomma, addirittura osare?

Se la storia ha un valore, essa insegna che la seconda è sempre l’opzione vincente. Anche perché viene subito da chiedersi: e come si colma il deficit se non fatturando, cioè promuovendo la crescita economica? Con nuove tasse? Cattivo gusto e nessun senso. Ha detto per contro Obama che «un forte ricupero dell’economia globale deve essere costruito su una equilibrata crescita della domanda». Incredibile. Quasi un criterio da mercato libero. Certo, sappiamo tutti che Obama è (al massimo) capace di belle parole ma non di fatti, e però come, hic et nunc, dargli torto? Anche perché, là dove egli aggiunge che occorre «evitare gli errori del passato», tutti comprendono che il colpevole additato è quella iniziativa di restrizioni delle politiche economiche detta New Deal che invece di rilanciare il Paese dopo la depressione del 1929 lo affossò ancora di più, prolungandone le sofferenze. È vero che dicendo così Obama ha le narici sature del gusto che emana dalla rivolta fiscale-elettorale, a mazzi di milioni di cittadini, che si chiama “Tea Party”, ma questo è bene. Austerità o crescita? Entrambe subito, ma se serve scegliere precedenza al rilancio. www.marcorespinti.org

Il capitolo-banche non è l’unico sul tappeto. Il cuore del dibattito è l’exit strategy per superare la crisi con Barack Obama che insiste - come ha fatto apertamente proprio con Angela Merkel - perché i Paesi del G20 non stringano i cordoni della spesa pubblica fintanto che la ripresa economica non sia in grado di reggersi sulle proprie gambe. E su questo cerca a sua volta alleati. Dal cinese Hu Jintao ha ottenuto, almeno, l’apertura a una parziale fluttuazione dello yuan. Ma è dal presidente russo, Dmitri Medvedev, che il capo della Casa Bianca si aspetta di più. Ieri, prima di partire per Toronto, Obama e Medvedev si sono incontrati a Washington in un clima molto informale: addirittura con un pranzo al Ray’s Hell Burger, uno dei più popolari fast food di Arlington. Davanti ai rispettivi cheesburger e a unico un pacchetto di patatine fritte «cibo saporito anche se non molto salutare», come ha detto Medvedev comunque contento di «respirare lo spirito dell’America» - i due leader hanno concordato un approccio comune ai lavori del summit. In cambio, Obama ha promesso di accelerare i tempi dell’ingresso di Mosca nel


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In Grecia, dopo gli incidenti nelle manifestazioni contro le misure di austerità, sono entrati in azione anche i terroristi che hanno ucciso un collaboratore del ministro degli Interni. A sinistra, Obama e Medvedev al fast food. Sotto, Angela Merkel

Ma il dubbio dei Grandi è ancora Atene Nuovi scontri nella capitale greca: muore uno stretto collaboratore del ministro degli Interni di Massimo Ciullo attentato che l’altra sera ha ucciso uno stretto collaboratore del Ministro degli Interni greco ha destato forte preoccupazione non solo ad Atene, ma anche a Toronto, dove sono iniziati i lavori del G8 e del G20, focalizzati sui rimedi per la crisi internazionale. D’altro canto, lo stesso premier ellenico Georges Papandreu nel condannare il “vile atto”, ha messo in relazione l’attentato con la grave crisi che sta attraversando il suo Paese. «I terroristi non raggiungeranno i loro obiettivi», ha detto, riferendosi ai tentativi di cavalcare la drammatica situazione sociale greca, messi in atto dai gruppi eversivi legati alla sinistra radicale e all’area anarco-insurrezionalista.

L’

«Mentre il nostro Paese e il nostro popolo stanno combattendo una battaglia quotidiana per uscire dalla crisi, vili assassini vogliono nuocere alla nostra democrazia e alla società greca» ha detto il leader socialista. Papandreau ha assicurato che i terroristi «avranno la risposta che meritano non solo dallo Stato, ma dall’insieme della società». Da mesi la Grecia è segnata da un clima di forti tensioni sociali, soprattutto dopo il varo di un duro piano di austerità del governo, contrastato da sindacati e ampi settori della popolazione. Le forze di polizia e gli uomini dell’anti-terrorismo sono al lavoro per cercare di scoprire gli autori dell’attentato dinamitardo, costato la vita a Giorgio Vasilakis, uno dei più stretti collaboratori del Ministro degli Interni, Michalis Chryssohoidis. Finora non è giunta alcuna rivendicazioWto. Che, a proposito degli interessi nazionali, è quello che sta più a cuore alla Russia che vuole entrare a pieno titolo nel salotto buono dei Grandi.

Ma il vero confronto resta quello tra le due grandi anime del G20: i Paesi emergenti, che sono già avviati verso la ripresa, e il blocco dei più industrializzati, che viaggia con tassi di crescita molto più lenti e contenuti. È un confronto che si pre-

ne e gli inquirenti non escludono alcuna pista, anche se i principali indiziati restano elementi gravitanti attorno all’area anarco-insurrezionalista. Il portavoce della polizia greca, Panayotis Vlachos, ha giudicato prematuro indicare la matrice dell’attentato, sottolineando che l’inchiesta è solo all’inizio. Le indagini, condotte dalla Brigata anti-terrorismo, si stanno concentrando su come il pacco bomba sia stato introdotto nel palazzo che ospita la sede del Ministero degli Interni, fino al settimo piano, a due passi dall’ufficio personale del Ministro, aggirando tutti i controlli. Thanassis Kokkalakis, un altro portavoce della polizia ateniese, ha dichiarato di “non voler credere” a una complicità interna, evocando invece “negligenze”delle guardie preposte ai controlli di sicurezza. La possibilità di connivenze all’interno del ministero è stata però, evocata dall’ex viceministro del dicastero, Christos Markogiannakis, secondo il quale non si può escludere un “aiuto dall’interno”. La bomba è stata recapitata nell’ufficio di Vassilakis, in una scatola per scarpe, a circa una decina di metri dall’ufficio del ministro, che era presente al momento dell’esplosione. Quando il collaboratore di Chryssohoidis ha aperto il pacco, la bomba è esplosa, uccidendolo. L’esplosione,“molto forte” secondo i testimoni, è avvenuta in una stanza a pochi metri da quella del ministro. Secondo quanto riferiscono le stesse fonti,

senterà sia sul tema centrale della exit strategy per archiviare la crisi, sia su quello - più tecnico, ma non meno importante - della regolamentazione bancaria che va sotto il nome di “Basilea 3”: in sostanza, come rafforzare il capitale bancario non solo in termini quantitativi ma anche qualitativi per limitare i rischi assunti da un istituto di credito. Sulla regolamentazione bancaria non mancano le divergenze all’interno della Ue:

Chryssohoidis si trovava al lavoro in sede al momento della deflagrazione. Il sistema di sicurezza del ministero non è fornito di apparecchiature per la rilevazione di materiale esplosivo. Si deve capire come è stato possibile che il pacco bomba sia stato recapitato negli uffici personali del ministro, posti al settimo piano del ministero dell’Ordine Pubblico, che è anche sede della polizia e all’interno del quale l’accesso è vincolato da due precedenti controlli. Le autorità ritengono che la vittima fosse il vero obiettivo dell’attacco, a causa del suo impegno nella lotta alle organizzazioni terroristiche, e temono la possibilità di nuove azioni. Chryssohoidis ha affermato che “i terroristi assassini saranno arrestati e processati”, esprimendo dolore per “la perdita di un buon amico e collaboratore”. Ed ha aggiunto che“la lotta contro il terrorismo proseguirà sino alla fine”. Secondo fonti della polizia appare evidente che l’attentato, avvenuto poco prima delle 21 ora locale, aveva lo scopo di uccidere in quanto l’esplosivo utilizzato era potente e doveva detonare al momento dell’apertura del pacco. Inoltre, negli ambienti ministeriali è noto che Chryssohoidis lavora nel suo ufficio sino a tardi al pari dei suoi più stretti collaboratori. L’attentato fa seguito ad un periodo di relativa tregua sul fronte della violenza armata dopo una serie di successi conseguiti proprio dall’attuale Ministro degli Interni, che è riuscito di

Papandreou attacca i “vili assassini” che, mentre la Grecia soffre, approfittano per colpire i più deboli

la Gran Bretagna, per esempio, vuole regole morbide per mantenere la centralità di Londra come piazza finanziaria. Mentre i Paesi emergenti non vogliono regole troppo stringenti perché non dispongoo di mercati di capitali forti.

Sullo sfondo rimangono ancora i temi già affrontati negli ultimi quattro G20. A cominciare dal ruolo del Fondo monetario internazionalei sul quale, or-

fatto a smantellare la principale organizzazione eversiva greca, Lotta Rivoluzionaria (EA) arrestandone il presunto capo e cinque collaboratori e trovando l’arsenale del gruppo. Ma l’azione di Chryssohoidis, che negli anni scorsi aveva già sgominato la storica organizzazione marxista rivoluzionaria 17 Novembre, di cui EA è erede, aveva provocato la dura risposta di un altro gruppo legato all’area anarco-insurrezzionalista, la “Cospirazione dei Nuclei di Fuoco Nichilisti”. Questa aveva compiuto lo scorso maggio attentati, ma senza fare vittime, contro il carcere di massima sicurezza di Atene (Korydallos) e contro il palazzo di giustizia di Salonicco.

Nel rivendicarli come risposta alla crescente repressione poliziesca, i Nuclei avevano annunciato una “intensificazione dell’azione rivoluzionaria”contro “la crisi sociale provocata dal piano di austerità” e per “la liberazione” delle persone arrestate. Non si esclude neppure un gruppo poco conosciuto,“Volontà di Popolo”, che nel febbraio scorso compì un attentato contro l’ufficio privato di Chryssohoidis ad Atene. Secondo le prime analisi l’esplosivo, contenuto in una scatola per scarpe, sarebbe dello stesso tipo della bomba che nel marzo scorso uccise un ragazzo afghano davanti ad un edificio della polizia sempre nella capitale greca. La quantità e il tipo di esplosivo impiegati nell’attentato della scorsa sera, potrebbero far pensare che i gruppi eversivi vogliano alzare il livello dello scontro con lo Stato ed aprire una nuova stagione del terrorismo ellenico.

mai da tempo, è aperto il confronto sull’ipotesi di un rafforzamento, sia in termini di risorse, sia di governance, passando poi per il collegamento con l’Fsb, il Financial stability board, che è guidato dal governatore di Bankitalia, Mario Draghi. E proprio il Fondo monetario internazionale ha lanciato il suo allarme ai leader del G20: senza un accordo in grado di produrre politiche anti-crisi coordinate si rischiano 30 milioni di

posti di lavoro e quattromila miliardi di produzione industriale entro i prossimi cinque anni. I dati sono contenuti in un documento che verrà distribuito oggi al summit e che rafforza l’appello di Obama: «Promuovere la crescita, riformare la finanza e rafforzare l’economia perché la crisi ha dimostrato, e gli eventi lo confermano, che le nostre economie nazionali sono inestricabilmente intrecciate».


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l’approfondimento

Le riserve finanziarie del gigante d’Asia sono l’unica garanzia contro il crollo totale dell’economia

C’è un giudice. A Pechino Mentre Europa e Stati Uniti litigano quasi su tutto, Hu Jintao atterra al G20 canadese e detta le regole: lo yuan non si tocca, le fabbriche cinesi continuano a inquinare e la produzione non deve avere dazi... di Vincenzo Faccioli Pintozzi e regole sono state dettate e sono abbastanza semplici, anche per le menti inferiori degli occidentali. La Cina è disposta a cooperare graziosamente con il resto del mondo, mettendo in campo le proprie incredibili risorse finanziare, per evitare altri dolorosi crolli; ma in cambio pretende che il cambio dello yuan non venga più discusso, che l’inquinamento non sia motivo per stuzzicare Pechino e che, ovviamente, alle proprie esportazioni non vengano applicati dazi di alcun tipo. Non sono richieste: sono ordini. Manca, ai nostalgici della storia cinese, la chiusa con cui gli imperatori siglavano le proprie missive: «Ascoltate queste parole e obbedite tremanti». Il Fiore Vermiglio – soprannome riservato a Sua Maestà imperiale prima dell’avvento dei maoisti, che nasce dal fatto che soltanto a lui era concesso scrivere in rosso – oggi non indossa paramenti con il dragone ricamato e non fa inginocchiare gli emissari di governi stranie-

L

ri. Oggi si veste all’occidentale, usa evidentemente la brillantina e ha degli occhiali (dicono) di produzione tedesca; ma l’atteggiamento non è cambiato. La Cina è l’Impero di Mezzo, l’unico Paese a metà strada dal cielo; e i cinesi hanno una capacità di fare denaro che imbarazza il resto del mondo.

Oggi sono stanchi di fare la parte dell’ospite esotico, e con molta probabilità hanno abbandonato la velleità di guidare il mondo. Hu Jintao, il nuovo imperatore, non vuole dominare nessuno: quello era il sogno del megalomane Jiang Zemin, suo predecessore, esterofilo e convinto della necessità di un’apertura anche di indirizzo culturale al mondo. Chi governa ora la pensa in maniera diversa: pur essendo figlio della più rigida educazione maoista, ha un che di confuciano che lo radica in maniera imprescindibile al suo mondo. Ed ecco che, ai leader del G20 riuniti in Canada, non intende presentare proposte, avanzare appunti,

proporre: detta le regole, e basta. Certo, è difficile che - almeno negli incontri bilaterali e in particolare in quello col presidente americano Barack Obama - non gli vengano chieste spiegazioni sulla sua politica monetaria e sulle sue intenzioni nei riguardi della Corea del Nord. E la mossa a sorpresa della vigilia - l’annuncio dato dalla Banca centrale cinese su una “maggiore flessibilità”della valuta cinese, lo yuan - è stata infatti tradotta in pratica in un modo che ha sollevato perples-

«Il cambio della valuta è già stato un grosso regalo. Non ne faremo più altri»

sità e non è stata considerata sufficiente dai “falchi” americani, che accusano Pechino di mantenere artificialmente basso il valore della sua moneta. Alcuni di loro, sia democratici che repubblicani, affermano che il valore di mercato dello yuan dovrebbe essere del 40 per cento superiore a quello imposto dalla Cina, che fissa ogni giorno un tasso di cambio di riferimento intorno al quale consente oscillazioni dello 0,50 per cento in più o in meno. In prima battuta, l’annuncio cine-

se aveva suscitato euforia nei mercati e lo yuan aveva toccato il suo valore più alto da quasi due anni. Nei giorni successivi, massicci acquisti di dollari da parte delle grandi banche pubbliche cinesi hanno riportato indietro di qualche punto il tasso di cambio della moneta cinese. Troppo poco per mettere a tacere i politici americani, che chiedono vengano prese severe misure legislative per alzare il costo delle esportazioni cinesi.

Secondo il portavoce governativo cinese Qin Gang, il G20 di Toronto ha il compito di «rafforzare le comunicazioni e la collaborazione per assicurare slancio al processo di ripresa economica globale, considerato che la ripresa stessa è ancora instabile e poco equilibrata, non quello di discutere del problema del tasso di cambio della valuta di un singolo Paese». Capito? Non vanno discusse cose che non interessano. I leader dei Paesi industrializzati che partecipano al vertice, ma anche quelli di alcuni Paesi emer-


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La bozza conclusiva punta il dito contro la crisi: «Impossibile onorare gli impegni presi tempo fa»

E il G8 si prepara a ritirare gli aiuti destinati all’Africa

La figura peggiore fra gli otto grandi la fa l’Italia, che ha promesso l’anno scorso l’invio di 150 milioni di euro e se ne è “dimenticata” di Massimo Fazzi l G8, la riunione degli otto Paesi più industrializzati al mondo, si chiuderà nella giornata di oggi. E, a meno che non si verifichino grandi sconvolgimenti nel piano emotivo dei leader che lo compongono, sarà l’ennesimo flop: tutti con l’occhio al programma di lavoro del giorno – che prevede l’inizio dell’oramai più importante G20 – gli otto capi di Stato e di governo difficilmente saranno riusciti a tirare fuori qualcosa di buono dal tema in agenda per loro. Che poi sarebbe la messa in pratica degli impegni a favore dell’Africa.

I

D’altra parte, hanno messo le mani avanti già da ieri: la crisi economica degli ultimi due anni «ha messo in pericolo i progressi compiuti verso il raggioungimento di alcuni obiettivi per il 2015», ovvero i Millennium Development Goals definiti dall’Onu per combattere la povertà e le gravi malattie. Lo hanno scritto gli sherpa – quei piccoli miracoli della diplomazia, gli uomini che di fatto preparano i vertici e ne portano a compimento la missione - nella bozza preparata per il vertice del G8 che si è aperto ieri

in Canada e che suona come un campanello d’allarme per gli impegni di solidarietà formulati dai Paesi più sviluppati. I leader del G8 hanno discusso delle politiche di sostegno allo sviluppo con alcuni esponenti africani, quegli “outreach” che verranno ammessi anche al tavolo dei grandi, seppur nella veste di osservatori. Nella bozza si sottolinea come «un decennio di impegno e di forzi congiun-

Il nostro Paese è all’ultimo posto per generosità dopo Malta, con lo 0,16 per cento del Pil per gli altri ti con i nostri partner hanno portato progressi verso gli obiettivi del Millennio» ma - si ammonisce - «tanto i Paesi sviluppati che quelli in via di sviluppo debbono fare di più».

Dal ve rt ice canade se potrebbero venire nuovi impegni finanziari per interventi mirati a ridurre la mortalità infantile e quella per parto, in cui i passi in avanti compiuti finora - si legge nella bozza - «sono stati inaccettabilmente lenti». Due giorni fa Banca Mondiale aveva diffuso un documento in cui invitava i leader riuniti in Canada a impegnarsi a promuovere una crescita di lungo termine il più ampia possibile, così da permettere a decine di milioni di persone di uscire dalla povertà. Nel rapporto - dal titolo La ripresa a un bivio - l’organizzazione internazionale ricordava come basti un taglio dello 0,50 per cento nella crescita dei Paesi in via di sviluppo per aumentare di 80 milioni il numero di persone che vivono sotto la soglia della povertà (pari a un reddito di 1,25 dollari al giorno). Nel G8 del 2005 a Gleneagles, in Scozia, i leader mondiali avevano formulato promesse di contributi per 50 miliardi di dollari: cinque anni dopo all’appello mancano 18 miliardi di

dollari, come ha rivelato un documento preparatorio per il vertice. E in questa storia le note dolenti sono per l’Italia. In occasione del vertice G8 de L’Aquila, ricorda l’Ong ActionAid, l’Italia aveva promesso di onorare il suo debito con il Fondo globale per la lotta all’Aids, alla tubercolosi e alla malaria, versando il contributo italiano per l’anno 2009 di 130 milioni di euro e un contributo straordinario di 20 milioni entro l’agosto 2009. Dieci mesi dopo, tale promessa non è ancora stata mantenuta. Negli stessi giorni del vertice, gli otto grandi della Terra avevano lanciato l’Aquila Food security initiative, che prevede l’investimento di 22 miliardi di dollari in tre anni in aiuti per la sicurezza alimentare e per uno sviluppo agricolo sostenibile. Oggi, mentre il numero degli affamati supera il miliardo di persone, i G8 dichiarano che solamente sei miliardi sono risorse nuove: due terzi sono fondi già impegnati in passato. Nel caso dell’Italia il risultato è preoccupante: sono 180 milioni di euro le risorse addizionali, meno della metà di quanto è stato speso in pochi mesi per gli appalti G8 italiano.

«L’Italia, che deve ancora saldare il suo debito, non può tirarsi indietro. Ne va della credibilità del nostro Paese sulla scena internazionale, soprattutto in vista del Summit di valutazione delle Nazioni Unite sullo stato di attuazione degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio che si terrà a settembre a New York», spiega il presidente della Ong De Fraia. Il presidente Berlusconi, continua, «si è personalmente impegnato a mantenere gli impegni su Aids e lotta alla fame e non ci sono alibi che tengano per non rispettarli». Ma a settembre, l’Italia si presenterà all’Onu con un livello di aiuti lontano da quello promesso. Il nostro Paese, infatti, si colloca all’ultimo posto in termini di generosità dopo Paesi come Grecia, Portogallo, Malta e Cipro con solo lo 0,16 per cento del Pil destinato all’Aiuto pubblico allo sviluppo (Aps) - a fronte di una media europea dello 0,44 e di una media G7 dello 0,26 - e la riconferma del taglio drastico del 2009 (-56 per cento del 2008). «La crisi economica internazionale non può giustificare il mancato rispetto degli impegni presi e l’Italia si presenta al Vertice G8 senza avere le carte in regola» riprende De Fraia. Che conclude: «Ci auguriamo che il presidente Berlusconi, prima di sedersi al tavolo degli Otto grandi, annunci l’esborso delle risorse promesse lo scorso anno alla lotta all’Aids e alla sicurezza alimentare. In caso contrario, qualunque altro impegno verrà preso dal nostro Paese non avrà alcuna credibilità»”

genti come l’India (che lamentano squilibri nei rapporti commerciali con Pechino), «vorranno rassicurazioni che da parte della Cina l’impegno (a lasciar lievitare il valore dello yuan) sia sincero» secondo il professor Patrick Chovanec dell’Università Tsinghua di Pechino. Hu sarà sotto pressione anche sulla questione della Corea del Nord, accusata dalla Corea del Sud di aver affondato in marzo la sua nave Cheonan, uccidendo 46 marinai, e recalcitrante a riprendere le trattative sul disarmo nucleare. Seoul e Washington chiedono un intervento dell’Onu ma Pechino si è finora rifiutata di condannare apertamente Pyongyang, una sua alleata storica’ Si prevede che le pressioni saranno moltiplicate dopo che Pechino pochi giorni fa ha votato a favore delle sanzioni economiche contro l’Iran, anche queste imposte a causa di un programma di sviluppo del nucleare che, come quello nordcoreano, si ritiene abbia un versante militare.

In un’intervista pubblicata ieri dal quotidiano Global Times, il professor Niu Xinchun dell’Istituto per lo studio delle relazioni internazionali contemporanee di Pechino sottolinea che «negli ultimi tre summit del G20 raggiungere accordi sui pacchetti di stimolo è stato relativamente facile, dato che tutti erano intrappolati nella crisi». Ora che tutti sono in ripresa, «anche se con diverse intensità, tutti riprenderanno di nuovo a fare dei calcoli egoistici. Il G20 dovrebbe quindi essere considerato una piattaforma per il dialogo, piuttosto che un meccanismo internazionale che impone obblighi legali». E per “egoismi” e “obblighi internazionali”, il docente intende altri due argomenti estremamente caldi che, ci si può scommettere, animeranno gli incontri fra i leader occidentali e quello cinese. Nello specifico, per “egoismo” si intende la vexata quaestio dei dazi commerciali moltiplicati per le importazioni che provengono dalla Cina: una tassa che per Pechino è iniqua e che, va detto, impone una frenata sensibile alla produzione industriale del Paese asiatico. La Cina quelle tasse in più proprio non le vuole, e gli Stati Uniti ci penseranno bene prima di imporle con la forza: oggi, sono quelle merci a buon mercato a vestire e spesso nutrire i propri cittadini, colpiti dalla crisi. Per “obblighi internazionali” si deve invece intendere la questione dell’inquinamento. Mettendo un tetto alle emissioni, le fabbriche cinesi inizierebbero a soffrire non poco, con conseguente ricasco sul Pil. E non c’è nessuno che vuole questo risultato, che comporta perdere l’ancora di salvataggio in mari (finanziari) tempestosi. Queste sono le regole di Pechino. E per questa volta convengono a tutti.


diario

pagina 6 • 26 giugno 2010

Fase nuova. Dopo il dialogo sugli enti lirici, il Centro apre a un confronto costruttivo in Parlamento sul decreto economico

«Unire le forze contro la crisi»

Manovra, Casini presenta le proposte dell’Udc: «Basta con l’autosufficienza» ROMA. Dopo il voto sugli enti lirici a Montecitorio il cambio di passo della legislatura è possibile. Può esserci un rapporto diverso tra governo e opposizione, soprattutto se la maggioranza riuscirà a cogliere l’occasione. E Pier Ferdinando Casini, nel presentare le controproposte dell’Udc alla manovra, dà per scontato che l’idea di una fase nuova cominci davvero a farsi strada anche nell’esecutivo. Si può non essere d’accordo con l’impianto generale del maxi-decreto ma, dice in conferenza stampa il leader centrista, «la manovra è indispensabile ed è inutile scioperare». Certo, «è fatta male e neppure se volessimo potremmo votarla». Ma questo assunto non impedisce all’Unione di centro di presentare un pacchetto denso, non eccessivamente lungo di emendamenti su famiglie, imprese, enti locali, opere pubbliche, ambiente. «Sull’impianto generale non potremo che dare un giudizio negativo, ma se venissero accolte le nostre modifiche si affermerebbe comunque un fatto positivo, e cioè che la maggioranza sa non essere sorda alle proposte ragionevoli dell’opposizione». Anche perché il contesto generale della crisi richiede uno spirito di unità e di condivisione più ampio. Casini cita l’esempio di Netanyahu che «di recente ha incontrato Silvio Berlusconi e gli ha detto: per affrontare la crisi servono governi larghe coalizioni. Il premier italiano gli ha risposto che il suo esecutivo è autosufficiente. Io la penso come Ne-

sua corsa prima del previsto. «Con i numeri che hanno», ricorda a sua volta Lorenzo Cesa, «è assai improbabile». Ma è l’approccio che può essere diverso. L’acceso confronto a Montecitorio sul decreto Bondi ha in qualche modo isolato la posizione «sfascista», come la chiamano i dirigenti di via dei Due Macelli, dell’Italia dei valori. Ma ha messo in luce anche la civiltà istituzionale del ministro alla Cultura San-

Prime nomine sul territorio dopo l’azzeramento delle cariche stabilito da Cesa. Fissate anche le regole per l’adesione al nuovo soggetto politico tanyahu e spero che tra qualche merse lo stesso Berlusconi cambi idea». È questo il filo logico che accompagna l’intero briefing del numero uno dell’Udc con la stampa parlamentare. Incontro in cui c’è l’occasione per soffermarsi su diversi temi, oltre che sulla manovra, dal caso Brancher al ddl intercettazioni, ma che gira attorno alla convinzione centrista di una possibile svolta per la legislatura.

Non vuol dire che l’esecutivo inciamperà interrompendo la

governo si incrociassero con gli estremisti dell’opposizione, finendo sempre col mettere la fiducia proprio perché dall’altra parte l’interlocutore era in grado di dire solo no».

di Errico Novi

dro Bondi, esemplare nella sua apertura alle correzioni suggerite da Pd e Udc, e nella conseguente rinuncia alla fiducia. È un caso o la situazione può ripetersi? Casini, Cesa e gli altri big dell’Unione di centro riuniti con la stampa (ci sono Antonio De Poli, Enzo Carra e Ferdinando Adornato) propendono nettamente per la seconda Ipotesi. Confidando non tanto in una netta intenzione della maggioranza di voltare pagina, ma nella forza dei fatti, nelle scelte rese obbligate dalla crisi.

Non si tratta di stabilire «se regge il governo» ma piuttosto «se regge l’Italia», dice Adornato a proposito della richiesta rivolta nelle scorse settimane a Tremonti affinché «assumesse l’iniziativa». E lo stesso Tremonti, ricorda Casini, «non ha difficoltà ad ammettere che siamo seduti su un vulcano». Cos’altro può fare dunque una forza d’opposizione responsabile se non provare a migliorare la manovra? Permane, è vero, un errore di fondo, quello di procedere «secondo la logica facile, ma non utile, dei tagli lineari per le Regioni, che dovranno ridurre i servizi. Non si è avuto il coraggio di tagliare le province e i piccoli comuni sotto i 1000 abitanti». Sono questi alcuni dei punti sui quali agiscono i correttivi: eliminare le province con una popolazione al di sotto del mezzo milione, accorpare i comuni al di sotto del migliaio, ma anche introdurre variabili al patto di stabilità interno, per esempio con l’autorizzazione per i comuni virtuosi ad effettuare pagamenti ai privati. Senza trascurare un intervento sulla tassazione delle rendite speculative.Tutto in modo da dare priorità «alle fasce di cittadini che

soffrono». Nello specifico, Casini chiede di «dare risposta su un tema emblematico come i Lea, i livelli essenziali di assistenza della sanità pubblica, già definiti da due anni dal ministero della Salute». Maggiori risparmi sulla spesa pubblica consentirebbero di passare poi dal sistema delle detrazioni a quello delle deduzioni per carichi familiari, e di rivedere le tariffe per l’accesso ai servizi comunali in modo da tutelare chi ha anziani o giovani disoccupati a carico.

È il modello adottato per esempio a Roma, dopo il caso pionieristico di Parma, con il “quoziente” proposto dall’Udc e accolto da Alemanno. È un margine di manovra ampio, fa intendere il vertice del partito centrista, quello a a disposizione della minoranza in Parlamento, se la strada seguita resta quella della dialettica costruttiva. «Il gioco del tanto peggio tanto meglio lo lasciamo a Di Pietro». Qui torna il caso esemplare del decreto Bondi: «Gli sfascisti non hanno prevalso», è la rivendicazione di Casini, «non è successo quello che spesso si è verificato dall’inizio della legislatura, e cioè che gli estremisti del

Nella sua sindrome di autosufficienza l’esecutivo ha finito per commettere molti errori, secondo il numero uno dell’Udc, per esempio «sul legittimo impedimento: estenderlo anche ai ministri è stato un infortunio, il troppo stroppia». È questa la morale che si può ricavare dalla vicenda Brancher, il quale certo «avrebbe fatto bene a rinunciare allo scudo». Un conto è «teorizzare una specifica condizione di Berlusconi, altro è estendere il beneficio a tutti i componenti del governo». Stessa linea di ragionamento sulle intercettazioni: «La questione non l’ha inventata Berlusconi. Anche Prodi quand’era premier, e con lui l’allora Guardasigilli Mastella, tenne bloccato il Parlamento sulla stessa materia». È sempre la misura che fa la differenza: «Non si può indebolire la lotta alla legalità, anche perché il tasso di eticità in questo Paese va sempre più giù». Lungo la traiettoria dell’opposizione responsabile e costruttiva l’Udc sa di poter incrociare più facilmente, d’ora in poi, il Partito democratico. Lo sa dopo il lavoro comune alla Camera sugli enti lirici che ha visto l’Italia dei valori arroccarsi da sola in un ostruzionismo inconcludente: «È curioso che il Pd abbia più cose in comune con noi che siamo andati da soli che con Di Pietro, il quale deve la sopravvivenza parlamentare proprio a loro», dice Casini. «Mi auguro che il rapporto con i democratici continui e si consolidi». Soprattutto in un quadro generale «di confronto pacifico in Parlamento», di cui gli ultimi positivi segnali «potrebbero essere un prologo». E a proposito di anteprime, il coordinamento dell’Udc approva il regolamento per le adesioni al nuovo soggetto politico, in vista del Partito della nazione. E dopo l’azzeramento dei vertici disposto da Cesa, arrivano anche le prime nomine sul territorio, con nuovi vertici in sette regioni: un significativo passo dopo la svolta annunciata a Todi.


diario

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Sindacato. Ridimensionare la Fiom, trattare con i “socialisti” al governo (leggi Sacconi), recuperare un ruolo politico

Cgil, le sfide della Camusso di Giuliano Cazzola

on ha scelto il giorno più adatto, Susanna Camusso, per mettere a confronto il suo tasso di socialismo con quello del ministro Maurizio Sacconi. Di culture socialiste ce ne sono tante; e la prossima segretaria della Cgil non è in possesso sicuramente della licenza per rilasciare patenti di riformismo. Tony Blair (grazie a lui i laburisti hanno governato a lungo il Regno Unito) andava certamente più d’accordo con Sacconi, mentre nei confronti di tanti che ragionano come l’indomita Camusso avrebbe usato la definizione di «sinistra reazionaria». Soprattutto, è sbagliata l’occasione per fare paragoni, dal momento che le sue parole fanno parte di un’intervista al Corriere della Sera a commento di uno sciopero generale (l’ennesimo di una lunga serie negli ultimi due anni) privo di programmi, di idee e di obiettivi, rigonfio di autosufficienza, di slogan impraticabili e di ostilità preconcetta non solo contro gli avversari (il governo della «fame, del freddo e della paura»), ma anche nei confronti degli altri partner sindacali. Ma ognuno deve fare il suo mestiere.

N

Così, anche i sindacalisti - come tutte le persone che si muovono all’interno di organizzazioni complesse finiscono per credere che la realtà vera sia quella che vivono nel loro mondo e per essere più interessati e maggiormente coinvolti da quei processi che dall’effettiva realtà del Paese. Susanna Camusso, anch’essa ex socialista, è destinata a sostituire presto Guglielmo Epifani. È molto attenta, pertanto, a non commettere errori in vicinanza del traguardo a cui meritatamente aspira (il suo curriculum è assolutamente adeguato a prendere il posto che fu di Argentina Altobelli all’inizio del Novecento). Con la

I dati dell’Istat: «Ad aprile flessione dell’1,9% su base annua»

Grandi imprese, cala l’occupazione ROMA. Scende l’occupazione nelle grandi imprese. È quanto rileva l’Istat che ha sottolineato come «nel mese di aprile 2010, l’indice dell’occupazione, depurato dagli effetti della stagionalità, ha registrato una variazione congiunturale di - 0,1% sia al lordo, sia al netto dei dipendenti in c.i.g. Nel confronto tra la media degli ultimi tre mesi (febbraio-aprile) e quella dei tre mesi precedenti (novembre 2009-gennaio 2010) si è registrato un calo dello 0,4% al lordo della c.i.g. e dello 0,1% al netto della c.i.g. In termini tendenziali (aprile 2010 rispetto ad aprile 2009) sono state registrate variazioni negative dell’1,9% al lordo della c.i.g. e dello 0,8% al netto della c.i.g.». «Complessivamente, nei primi quattro mesi del 2010 la variazione media dell’occupazione, rispetto allo stesso periodo del 2009, è stata di - 2,0% al lordo della c.i.g. e di - 1,4% al netto della c.i.g.», continua l’Istat. «Nel mese di aprile 2010 l’indice dell’occupazione alle dipendenze nelle grandi imprese dell’industria ha registrato, al netto della stagionalità, una variazione congiunturale, rispetto al mese precedente, di - 0,1% al lordo della c.i.g. e di + 0,1% al netto della c.i.g. La variazione, nella media degli ultimi tre mesi, rispetto ai tre mesi precedenti, è stata di - 0,5% al lordo della c.i.g. e nulla al netto della c.i.g.». «L’occupazione nelle grandi imprese dell’industria ha segnato, in termini tendenziali, una diminuzione del 2,7% al lordo dei dipendenti in c.i.g. e un aumento dello 0,2% al netto dei dipendenti in c.i.g. Complessivamente, nei

primi quattro mesi del 2010 la variazione dell’occupazione, rispetto allo stesso periodo del 2009, è stata di - 2,9% al lordo della c.i.g. e di - 1,5% al netto della c.i.g.», rileva l’Istat. Tra i comparti delle attività manifatturiere, quelli che registrano i cali tendenziali più marcati sono la fabbricazione di computer, prodotti di elettronica e ottica, apparecchi elettromedicali, apparecchi di misurazione e orologi (8,6%), l’industria del legno, della carta e stampa (- 6,1%), le industrie tessili, dell’abbigliamento, articoli in pelle e simili (- 4,8%)», ag-

giunge l’Istat. «All’interno del terziario, il settore delle attività di noleggio, agenzie di viaggio, servizi di supporto alle imprese è l’unico a segnare una variazione tendenziale positiva (+ 1,7%). Variazioni negative si registrano nel settore del trasporto e magazzinaggio (2,6%), nelle attività finanziarie e assicurative (- 2,1%), nelle attività professionali, scientifiche e tecniche e nei servizi di informazione e comunicazione (entrambi - 1,5%), nel commercio (- 0,5%) e nei servizi di alloggio e di ristorazione (- 0,4 %)».

Fiom di problemi ne ha ben due: uno di carattere generale non diverso da quello che ogni leader della Cgil ha dovuto e deve affrontare quotidianamente ed in prospettiva; un secondo di natura personale. L’attuale gruppo dirigente della categoria dei metalmeccanici è contrario alla sua leadership per una ragione molto banale, ma anche molto ferma: quando Camusso dirigeva la Fiom lombarda si scontrò con Claudio Sabattini, allora segretario generale dei metalmeccanici Cgil. Sabattini? Chi era costui? Di Claudio, prematuramente scomparso, si potrebbero scrivere intere biblioteche. Basterà ricordare che era soprannominato Sandino e i suoi fedeli adepti, erano definiti sandinisti. Questi ultimi lo seguivano in tutti gli incarichi da lui ricoperti in Cgil. Oggi sono annidati ai vertici della Fiom e nelle principali strutture periferiche della categoria. Camusso ha il merito di non essere mai stata sandinista, ma soltanto socialista “achilliana” (ovvero lombardiana a 18 carati).

Così, si dice che i rancori di un tempo non si siano ancora spenti. Intanto, l’unico aspetto di un certo rilevo della giornata di ieri (a parte le piazze colme di pensionati, dipendenti pubblici e varie umanità periferiche della gauche) è risultata essere la riconciliazione tra la confederazione e la Fiom. Con il suo 36 per cento nel referendum a Pomogliano d’Arco, Maurizio Landini - sandinista in carica - ha recuperato credito nei confronti di Epifani. In tutte le piazze, i valorosi metalmeccanici sono stati osannati come gli eroi del giorno. Che dire? La Cgil preferisce le sconfitte onorevoli alle vittorie, sia pure sofferte. Le sue battaglie somigliano sempre più alla carica della Cavalleria polacca contro i Panzer tedeschi e russi. O alla cavalcata della Brigata leggera di Sua Maestà britannica contro i cannoni nemici, nella vallata della morte, durante la campagna di Crimea. Bandiere al vento, schiene diritte, fede inflessibile. E tanto eroismo, che è poi solo compiaciuta presunzione. Non è un caso che tra la Cgil ed Antonio Di Pietro sia scoppiata una simpatia tanto robusta e sia in corso una vera e propria convergenza culturale (sic!) prima ancora che politica. A quando una corrente di dipietristi in Corso d’Italia?


disastro sudafrica

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Nel 2006 abbiamo vinto un Mondiale senza talento e rubacchiando: ma il risultato coprì tutto

La Grande Ipocrisia Nazionale Anche Fabio Cannavaro sostiene la tesi di tutta la stampa: «Il nostro calcio è in crisi» Ma come mai questo lamento per la scarsa qualità del gioco parte solo quando si perde? di Franco Insardà ampioni a Berlino, bidoni a Johannesburg. È questo il destino amaro di Marcello Lippi e dei suoi calciatori. All’indomani della cocente sconfitta maturata contro la Slovacchia, i cahiers de doléance nazionali sono stati sommersi da corsivi stizziti e insospettabili acrimonie, tenute ben celate in un remoto angolo dello stomaco nell’ebbrezza della vittoria di quattro anni fa. A rigor di logica non c’è infatti alcuna buona ragione per stracciarsi le vesti oggi, così come non ce n’era una altrettanto valida per inginocchiarsi adoranti di fronte all’impresa degli Azzurri nel 2006. Se si punta al risultato va tutto bene, se invece si vuole guardare alla qualità del gioco bisogna ammettere che giocavamo male anche a Berlino 2006.

C

Allora salimmo tutti, politici in testa, sul carro di Marcello, ma nessuno volle entrare davvero nel merito di quel trionfo. Elogiammo l’affiatamento del gruppo, la convinzione, il polso fermo del mister dagli occhi di ghiaccio (che nell’euforia fu persino accostato a Paul Newman) lo spirito di rivalsa maturato nell’infamante clima di

da, consorella d’emisfero di quell’Australia che subì una beffa da parte nostra, l’Italia è fuori, sembra quasi di poter intuire quanto possa essere beffardo, o forse semplicemente giusto, il “Dio della Pelota”. Ciò che abbiamo tolto, abbiamo restituito. Esattamente come la Francia che rubò la qualificazione in casa dell’irlandese Trapattoni. Forse solo curiose coincidenze, magari esercizi di intelletto che però non possono fare a meno di indurci a riflettere, anche solo per un attimo, su un’antica legge. Chi ruba, seppure soltanto nell’agone sportivo, prima o poi paga. Un concetto che se applicato alla politica degli ultimi mesi, o forse di sempre, non smette mai di dimostrare tutta la sua rudezza inesorabile. I politici, però, non hanno un campo da gioco, delle regole precise e un tempo definito per disputare la partita e riescono a trovare, infatti, giustificazioni alle loro debacle. Le partite si perdono o si vincono, per le elezioni, invece, vale sempre il raffronto più favorevole con una precedente competizione per poter dimostrare che non si è trattato di una vera sconfitta. L’Italia pallonara oggi scopre che i migliori calciatori del campionato sono stranieri e che l’unico calciatore italiano da Nazionale dell’Inter è Mario Balotelli. Scopre anche che i vivai non sono più seguiti come una volta, eppure uno studio della commissione Cultura della Camera, nel 2004, approvò all’unanimità un documento, a conclusione di un’attenta indagine conoscitiva sul mondo del calcio, che impegnava le società a schierare calciatori under 21. Da allora non se ne è fatto nulla e oggi raccogliamo questi risultati . Se in Germania fossimo stati eliminati al primo turno le critiche per il brutto gioco dell’Italia si sarebbero sprecate, esattamente come sta accadendo in questi giorni. Ma quel rigore segnato da Francesco Totti cancellò, come un colpo di spugna, polemiche e malumori, portando l’Italia a vincere i mondiali tedeschi. Ulteriore dimostrazione che si vince in tanti e, invece, quando si perde è molto difficile trovare chi se ne assume le responsabilità. A Marcello Lippi, italiano atipico, forse presuntuoso ma mai codardo, va riconosciuto almeno il merito di aver fatto una delle poche cose buone di questo mondiale sudafricano da dimenticare: essersi assunto in pieno le sue colpe, senza invocare fantasmi improbabili e complotti internazionali.

A Berlino ci qualificammo in modo rocambolesco agli ottavi, superando l’Australia grazie a un rigore “regalato” allo scadere del terzo minuto di recupero e realizzato da Totti Calciopoli. E magari. quattro anni dopo, di tutti questi bei valori non è rimasta alcuna traccia. Ma la verità è che al termine di quella cavalcata che vide Cannavaro levare la Coppa del Mondo verso il cielo, parlammo di tutto, pur di non parlare dell’unica cosa davvero importante per leggere la debacle sudafricana. Con orgoglio ferito, tutti oggi denunciano il brutto gioco di Marcello Lippi. “Ci siamo meritati di uscire”, è il concetto unanimemente condiviso e condivisibile, ma assai pericoloso. Perché se è vero che “ci siamo meritati di uscire”, e scomodiamo la categoria ontologia del peccato, è anche vero che quel mondiale di quattro anni fa non meritammo di vincerlo, visto come superammo la qualificazione agli ottavi. Lamentando la mancanza di idee, di energia e, soprattutto, di gioco di questa Italia, facciamo un ottimo servizio alla verità, e un pessimo servizio alla nostra memoria. Giocammo male anche quattro anni fa, diretti dallo stesso tecnico e sospinti da un gruppo assai simile a quello sconfitto in Sudafrica. Nessuno vuol ricordare ad esempio la rocambolesca qualificazione contro una modestissima Australia, superata soltanto grazie a un rigore “regalato”allo scadere del terzo minuto di recupero, una vittoria arrivata quando nessuno ci credeva più. E oggi che anche per il pareggio con la Nuova Zelan-

Ma si sa il tifoso è tifoso. Quando arriva il risultato non va tanto per il sottile, manda giù tutto e dimentica facilmente sia il gioco alla viva il parroco, sia quello della palla avanti e pedalare, sia i vari catenacci italioti che hanno fatto la fortuna di tanti undici


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Dal 2006 al 2010 A sinistra il capitano della nazionale Fabio Cannavaro portato in trionfo dopo la vittoria del mondiale; a fianco un Marcello Lippi sconsolato a Johannesburg e a destra il portiere azzurro, Federico Marchetti, in ginocchio dopo il terzo gol subito dalla Slovacchia

nostrani in giro per il mondo. Non interessa molto avere in campo una squadra con schemi che interpreta alla perfezione, calciatori padroni della situazione che dettano il ritmo della partita: l’importante è vincere. Se poi c’è anche il bel gioco siamo ancora più contenti. Ancora oggi si ricorda il campionato argentino del 1978 con Cabrini e Paolo Rossi, con gli azzurri autori del miglior calcio dei mondiali, al punto da riuscire a battere la stessa Argentina, padrona di casa. Ma in tutti c’è il rammarico di non essere riusciti a superare l’Olanda in semifinale, magari con un “golletto” anche in fuorigioco o su un

rigore dubbio. Alla faccia del bel gioco. Un bel gioco smarrito nella fase eliminatoria dei mondiali dell’82 in Spagna, al di là della ventilata combine con il Camerun, e subito duramente criticato, al punto da far decidere il silenzio stampa a Enzo Bearzot e agli azzurri. Ma in quell’occasione il turno fu superato e poi si ritrovò gioco, campioni e risultati. Da quel momento abbiamo continuato a tifare per l’Italia, qualcuno per motivi politici, ha dovuto modificare l’incitamento agli azzurri, ma abbiamo dovuto aspettare ventiquattro anni per gioire. In molti hanno riconosciuto a Marcello Lippi, ol-

tre alle indubbie doti tecniche, anche una buona dose di fortuna. Dopo la partita con il Paraguay e il pareggio con la Nuova Zelanda i tifosi si sono attaccati anche al “fattore c” del nostro commissario tecnico, poi hanno dovuto rendersi conto della sconfitta e iniziare a elaborare il lutto. Ecco allora partire le accuse all’Italia inguardabile: la peggiore della storia. Ma se l’arbitro inglese Webb non avesse annullato il gol in fuorigioco di Quagliarella la musica sarebbe stata sicuramente diversa, nessuno avrebbe parlato di gioco brutto e ci saremmo tutti preparati alla sfida con l’Olanda. Poi chissà...

La rovinosa caduta dell’Italia non è che lo specchio impietoso del declino del nostro Paese

Vecchi, senza strategia, privi di stimoli sembravano la nostra classe politica di Enrico Cisnetto io ci scampi e liberi dalla retorica. E il calcio è fonte inesauribile di retorica, tanto quando si vince come quando si perde. E se poi a perdere è la Nazionale, e per di più in una maniera come mai era accaduto nella sua storia, allora le frasi fatte e le iperbole si sprecano. Ed è quello che accaduto a botta calda, puntualmente. Non senza qualche incursione fuori dal perimetro del campo di football, come solo certa sociologia da strapazzo sa fare. Per di più, il calcio è fatto di episodi, e quindi se giovedì con la Slovacchia l’arbitro avesse concesso il goal sul tiro respinto sulla linea ma forse un pelo oltre, o se il guardalinee non avesse segnalato il fuorigioco millimetrico (ma esistente) di Quagliarella, oggi saremmo qui a raccontare un film diverso. O forse sarebbe bastato avere in panchina un allenatore meno cieco e presuntuoso, per avere nella rosa qualche campione rimasto a casa o vedere in campo qualcuno meno bolso di quelli su cui si è ostinato a insistere Lippi, e così superare agevolmente il turno (come era possibilissimo fare) e salvare decorosamente la faccia. Insomma, le equazioni tra i risultati sportivi e le condizioni politiche e socio-economiche di un Paese sono sempre un azzardo.

D

gioco, e un capitalismo che fatica a tenere il passo con la velocità del cambiamento imposta al mondo dalle economie emergenti che hanno “fame di affermazione”, il passo è davvero breve.

Tuttavia, non credo di contraddire la premessa se osservo che nella rovinosa - e meritata - caduta dell’Italia ai Mondiali del Sudafrica si possono intravedere i segni del declino più complessivo che blocca da tempo questo nostro benedetto Paese. Perché le analogie sono molte, e non c’è bisogno di ricorrere all’armamentario sgangherato dell’anti-politica, tipo «ci sono

Si dirà: ma il declino politico, economico e morale dell’Italia inizia ben prima di questa sconfitta calcistica, e quattro anni fa quando lo stesso allenatore e la stessa squadra (più o meno) erano diventati campioni del mondo, la decadenza italica già esisteva, dunque perché allora le condizioni del Paese reale e di quello pallonaro divergevano e oggi invece convergono al ribasso? A parte il fatto che la vittoria del 2006 non fu molto meritata, tanto è vero che tutti parlarono di fortuna sfacciata, ma in realtà tra allora e oggi una differenza fondamentale c’è: quattro anni fa la crisi finanziaria mondiale non si era ancora manifestata - partirà un anno dopo la nostra vittoria in finale sulla Francia, con l’esplodere della bolla immobiliare - mentre oggi quella crisi, la più grave dal 1929 in poi, ha dispiegato tutta la sua furia devastatrice. Con molte gravi conseguenze. La più importante delle quali è aver imposto al mondo globalizzato nuovi rapporti di forza, a tutto danno delle aree occidentali più ricche e appagate. Un processo di trasformazione che era già in atto da tempo, ma che la crisi ha brutalmente reso molto più evidente. E in questa situazione, a pagare il prezzo più alto è proprio l’Italia, che quando è scoppiata la crisi aveva accumulato di suo un gap di crescita economica misurabile in 15 punti di Pil in 15 anni rispetto alla media europea e 35 punti rispetto agli Usa.

Tra una Nazionale capace solo di offrire “vecchie glorie” e un capitalismo che fatica a tenere il passo con la velocità del cambiamento, il passo è breve troppi stranieri nelle nostre squadre», per capire che tra la Nazionale vecchia e priva degli stimoli necessari per conquistare traguardi sportivi e una classe politica autoreferenziale priva di visioni strategiche per il futuro del Paese, c’è una linea di continuità magari sottile ma resistente. E che tra una Nazionale capace solo di offrire “vecchie glorie”, intese come giocatori e schemi di


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Ma mentre fino a tutto il 2006 e inizio 2007 questa realtà era occultata da una classe dirigente che non vedeva o non voleva vedere e da una società civile troppo avvezza a cercare le scappatoie ai problemi per guardare in faccia la realtà, dopo, con la crisi, tutto è apparso più chiaro e nitido: l’Italia, come buona parte dell’Europa, è in declino, e in tutte le manifestazioni della vita - quelle economiche in primis, ma non solo - è ragionevolmente più destinata a soccombere che a vincere. Di qui la sconfitta in Sudafrica di Italia e Francia, e la fatica delle nazionali blasonate del Vecchio Continente a tener testa alle giovani e fresche nazionali dei Paesi che vogliono emergere a tutti costi, che siano posizionati a Est, in Asia o in Africa.

E sicco me ha ragione Mario Sechi, direttore del Tempo, quando dice che «il calcio è geopolitica allo stato puro, espressione della potenza e della vitalità di un Paese», ecco perché credo che ci sia una relazione profonda tra la condizione di declino dell’Italia - dovuto a stanchezza, appagamento, mancanza di rabbia nel combattere le avversità e i competitor, mancanza di visione strategica, inclinazione a sacrificare il futuro a favore del presente - e la debacle calcistica della Nazionale. Siamo ultimi. Prendiamone finalmente atto - e la sconfitta sul campo cui teniamo di più può aiutarci ad aprire gli occhi - e rimbocchiamoci. Per risalire. In tutte le classifiche. (www.enricocisnetto.it)

Gli “illustri” esclusi

Il Carroccio e le diverse sfumature dell’ipotesi federale della “Padania”

Tra Catalogna e Baviera, sognando la Slovacchia Lo “sport” della Lega: autonomia o secessione? di Francesco D’Onofrio imprevisto e sgradevole risultato conclusivo della Nazionale italiana ai Mondiali di calcio, può concorrere a far discutere del rapporto tra la Lega Nord e l’Unità d’Italia ancora una volta anche in termini di secessione. Si tratta – in questo caso – di una rilevantissima questione, che richiede una analisi sociale e culturale dell’intera questione politica concernente l’Unità d’Italia nell’attuale fase storica, caratterizzata – come tutti sappiamo – dal processo d’integrazione europea da un lato, e dal più ampio contesto dell’attuale globalizzazione dall’altro. Occorre infatti aver sempre presente che l’attuale Lega Nord nasce come Lega lombarda, e che come tale ha costituito un punto di emersione dell’intera questione dell’Unità nazionale: il federalismo della Lega Nord nasce lombardo, e non ha quasi nulla in comune con il federalismo delle venti regioni che si sta in qualche modo sperimentando oggi in Italia.

L’

L’origine lombarda della Lega caratterizza infatti l’idea stessa di federalismo che la Lega Nord proclama, e lascia in qualche modo indefinita la stessa questione della “secessione” della cosiddetta “Padania” dall’Italia, per come abbiamo conosciuta questa dall’Unità in poi. L’oscillazione della Lega Nord infatti è avvenuta ed avviene tra una ipotesi rigidamente indipendentistica e territoriale che si può definire catalana, nel senso che anche il partito catalano è stato di volta in volta alleato dei socialisti o dei popolari spagnoli, ponendo l’indipendenza della Catalogna al centro delle ragioni dell’intesa di governo spagnolo generale: rigida rivendicazione della specificità catalana da un lato, ma anche accettazione che sul territorio della Catalogna siano presenti soggetti politici dichiaratamente nazionali, quali sono appunto i socialisti e i popolari spagnoli. L’ipotesi catalana dunque appartiene per così dire ontologicamente all’origine lombarda della Lega Nord: preferenza per un sistema elettorale proporzionale, ed accettazione – anche se a malincuore – della presenza sul territorio lombardo di soggetti politici nazionali. L’ipotesi bavarese appartiene invece ad uno scenario del tutto diverso: alleanza strategica con il centrodestra in quanto tale, ponendo la questione della rappresentanza dell’intera “Padania”, così come in Baviera la Csu è alleata strategica della Cdu, e non consente a quest’ultima di essere presente come tale sul territorio bavarese. L’oscillazione della Lega Nord tra ipotesi catalana e ipotesi bavarese non è dunque una oscillazione puramente verbale, perché si tratta – come si è visto – di una alternativa, che ha comunque all’origine la Lombardia intesa questa quale fondatrice sia dell’ipotesi identitaria nel senso della Catalogna, sia dell’ipotesi autonomistica della Baviera tutta, perché in questo caso l’origine lombarda della Lega Nord finisce col dare una coloritura particolare alla stessa ipotesi

L’origine lombarda è stata ed è a sua volta anche alla base della stessa separazione ogni tanto richiamata da esponenti singoli della Lega Nord o da parti significative di suoi elettori, soprattutto nelle ritualistiche occasioni degli incontri di Pontida. L’esito negativo della avventura sudafricana realizza questa spinta Qui sopra, il calciatore slovacco Marek Hamsik. A sinistra, dall’alto: Antonio Cassano; Mario Balotelli; Francesco Totti; Fabrizio Miccoli

“federale”della “Padania”. L’origine lombarda è stata ed è a sua volta anche alla base della stessa “secessione”, ogni tanto richiamata o da esponenti singoli della Lega Nord, o da parti significative di suoi elettori, soprattutto nelle ritualistiche occasioni degli incontri di Pontida: è in questo senso che l’esito negativo della avventura sudafricana della Nazionale italiana, finisce con l’assumere persino lo spunto per la riaffermazione del sogno secessionista.

La vittoria della Slovacchia sull’Italia ha infatti finito col rappresentare agli occhi dell’origine lombarda della Lega Nord l’eventualità di una secessione persino concordata, come è avvenuto nel caso della Cecoslovacchia, oggi divisa in Cechia e Slovacchia. Discutere dunque del rapporto che la Lega Nord ha instaurato con Forza Italia dapprima; con la sinistra in un secondo momento, grazie soprattutto al sistema elettorale prevalentemente maggioritario instaurato in Italia a partire dal 1994; con la Casa delle libertà in senso strategico nel 2001, ma a condizione che fosse accolta la soluzione strategica della devolution e della trasformazione del Senato della Repubblica in Senato federale; con il Popolo delle libertà, a partire dal 2008, accettando il primato elettorale di Silvio Berlusconi, ma salvaguardando orgogliosamente la propria specificità nordista. Tra Catalogna e Baviera dunque, restando comunque nell’Italia unita, anche se in termini profondamente diversi gli uni dagli altri. La sconfitta della Nazionale italiana ad opera anche della Slovacchia ridà vita e voce al sogno della secessione, soprattutto se morbida: ora che il federalismo fiscale ha sostituito la devolution è opportuno aver presente che si tratta sempre di una ipotesi federale a base regionale che per la Lega Nord non esclude mai la secessione.


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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

Gran finale di stagione con “City Island”

SEGRETI DI FAMIGLIA di Anselma Dell’Olio

ity Island è una delizia di opera indipendente; ha vinto il Premio del ranti di pesce (specialità astice al pomodoro e minestra di ostriche), tea room È Pubblico al Tribeca Film Festival nel 2009, ed è l’ultimo film dele piccole botteghe di antiquariato. Popolata da una grande comunità itaun film la stagione da non perdere. È una commedia famigliare che lo-americana, collegata via ponte con l’isola-madre di Manhattan, ruota intorno alla famiglia Rizzo, che da tre generaziol’indigeno Raymond De Felitta vi ha ambientato la sua storia delizioso da non ni risiede nell’anomalo quartiere del Bronx che si trova in di una sconocchiata, riottosa famiglia disfunzionale piena perdere quello di Raymond mezzo a Long Island Sound, più simile a un isolotto di segreti. Il capofamiglia Vince Rizzo è una guardia De Felitta, bravo autore dei pescatori del New England che al famigeracarceraria («Agente di custodia, prego», corregto borough della metropoli al quale apparge sempre, inutilmente). Vince è Andy Garindipendente amato da pubblico e critica cia, l’attore cubano americano che spesso intiene per ragioni amministrative. «The ma poco sostenuto nei finanziamenti terpreta parti di italo-americano (Il padrino III di Bronx? No thonx!», motteggiava il celebre versae nella distribuzione. Un intricato Francis Coppola, Gli intoccabili di Brian DePalma e tore umorista Ogden Nash, collaboratore del New Yorker e paroliere di un musical su Kurt Weill. Varrebbe la Ocean’s 11, 12 e 13 di Steven Soderbergh). Vince è il marito e divertente intreccio pena di vedere City Island solo per scoprire questa simpatica cudi Joyce, centralinista in uno studio legale, brava madre e mocon un ottimo riosità geografica semi-sconosciuta, dal nome città-isola, che pare un glie, molto suscettibile e sospettosa da quando il marito è spesso fuocast ossimoro. Grande un miglio quadrato, la main street conta numerosi ristori casa e la trascura.

C

Parola chiave Cratocrazia di Franco Ricordi Rileggendo Parise del “Prete bello” di Leone Piccioni

NELLA PAGINA DI POESIA

Gli incantesimi di Stevenson, nostro fratello di Roberto Mussapi

Il Signore del Kalevala di Marco Respinti La petite musique del Maestro Céline di Pier Mario Fasanotti

Capolavori dimenticati del nostro Novecento di Marco Vallora


segreti di

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gno erotico è di foraggiare una cicciona. Fuma di nascosto pure lui. La sorella Vivian torna a casa per le vacanze estive, ma senza dire che non frequenta più l’università perché ha perso la borsa di studio per infrazione delle regole, né che lavora come lap dancer e spogliarellista in un locale per soli uomini. Spera così di risparmiare abbastanza da pagarsi gli studi da sola. E volete che non fumi di nascosto pure lei? La giovane Garcia-Lordo è figlia di Andy, il quale dice di essere fuggito dal set quando la figlia discinta girava le scene scabrose.

Lei non crede alla balla delle partite di poker, convinta che Vince la tradisca. Joyce è la ben ritrovata Juliana Margfulies, la premiata attrice della serie E.R., amata per la sua interpretazione di Carol Hathaway, infermiera dalla massa di riccioli corvini con una turbolenta storia d’amore con il medico Doug Ross (George Clooney). In City Island è quasi irriconoscibile, molto truccata e con una parrucca mora liscia. Vinnie Jr. è Ezra Miller, visto spesso in ruoli di liceale in preda a confusione ormonale. Si è fatto notare nel suo debutto Afterschool, opera prima di Antonio Campos (Tribeca 2008) e in Beware the Gonzo (Tribeca 2010). Ha fatto molta tv di qualità (Californication, Law & Order: Special Victims’ Unit) e nella prossima stagione sarà il protagonista di We have to talk about Kevin, opera molto attesa di Lynne Ramsay (Morvern Callar, Ratcatcher) con Tilda Swinton. Vivian Rizzo (Dominik Garcia-Lordo) completa il quadretto famigliare; ventenne universitaria con borsa di studio, sarà la prima della famiglia a laurearsi. Ha un segreto inconfessabile, come tutti. È vero, Vinnie non gioca a poker come racconta alla moglie, ma la tradisce non con una donna ma con lezioni di recitazione a Manhattan. Il suo professore è il sempre magnifico e spiritosissimo Alan Arkin (Little Miss Sunshine, Comma 22, Havana, Gattaca). Attori, registi o aspiranti tali non devono perdere le scene delle sue classi serali. Chi ha frequentato corsi del genere, si contorcerà dalle risate. De Felitta propone con conoscenza di causa vezzi, pretese e delusioni del mestiere. Impagabile la scena in cui Vince, che vuole realizzare il suo sogno di recitare, trova la forza di andare a un’audizione aperta per il ruolo di un tipo working class in un film di Scorsese. Sussulta quando scorge il suo maestro (Arkin) disciplinatamente in fila che studia avidamente le pagine da recitare per il provino, esattamente come lui. È proprio il professore che scatena la trama, dando come compito alla classe di prendersi come partner la persona accanto, alla quale rivelare la vicenda più vergognosa, più imbarazzante, più taciuta della vita. Alla lezione successiva si dovrà recitare un monologo basato sul proprio segreto.

Il partner di Vince è Molly (la delicata e incisiva Emily Mortimer: Shutter Island, Match Point). Tra lei e Vince non è amore, ma simpatia e solidarietà reciproca, in cui confluisce l’energia di un’attrazione naturale ma trattenuta. Vince confessa non solo di aver nascosto le sue ambizioni artistiche a moglie e figli, ma anche di avere un figlio illegittimo,Tony Nardella (l’assai promettente e yummy Steven Strait, 10,000 B.C. e StopLoss) che ha scoperto essere detenuto nel suo carcere. Tony potrebbe avere la libertà condizionata, e scontare da uomo libero gli ultimi due anni dei cinque comminati, se un famigliare fosse disposto a prenderlo in affido a casa propria. Vince decide di fare «la buona azione», senza rivelare né al ragazzo, in carcere per furti e rapine, né tanto meno alla famiglia, che è suo figlio.Vince aveva diciannove anni durante la storia con la madre di Tony, più grande di lui e destinata a una vita in discesa; quando era rimasta incinta, lui si era eclissato senza farsi mai più rivedere. Poi aveva incontrato e sposato Joyce, l’amore della sua vita, senza aver mai trovato il modo di aprire il suo cuore sul figlio abbandonato. Non vuole nemmeno dirle che fuma ancora, dopo averle giurato di smettere.Vinnie Jr. (Miller) cova una passione ciclopica per le donne obese. Frequenta i loro siti e scopre che la sua Bbw (Big Beautiful Woman) preferita è la vicina della porta accanto, che inizia a spiare dal tetto mentre lei prepara leccornie in cucina. Il suo soanno III - numero 25 - pagina II

famiglia

CITY ISLAND GENERE COMMEDIA

REGIA RAYMOND DE FELITTA

DURATA 104 MINUTI

INTERPRETI ANDY GARCIA, STEVEN STRAIT, EMILY MORTIMER, ALAN ARKIN, JULIANNA MARGULIES, DOMINIK GARCÍA-LORIDO, EZRA MILLER, SHARON ANGELA

PRODUZIONE USA 2009 DISTRIBUZIONE MIKADO

Le danze cominciano sul serio quando Vince firma le carte per avere in affido Tony; lo porta a casa sua ammanettato, per nervosismo e paura che scappi. A Joyce spiega che il ragazzo passerà l’estate da loro a ristrutturare la vecchia rimessa-barca fatiscente, che lei minacciava di demolire se non si sbrigava a sistemarla. Tony avrà vitto, alloggio e un compenso corretto. Abbiamo raccontato solo le premesse per un film che De Felitta ricama ed elabora con humour, autorevole mestiere e il piglio di un autore che ama i suoi personaggi, con tutti i loro difetti e vergogne. Il pubblico, quando riesce a vedere i suoi film indipendenti, se ne innamora. Qualcuno ha osservato che una volta uno come De Felitta sarebbe diventato un regista di Hollywood a cui affidare quei film comico-drammatici a grosso budget con star affermate, che gratificano le platee e arricchiscono i produttori. Il primo lungometraggio, Café Society, è del 1990. Basato su un celebre scandalo sessuale newyorchese degli anni Cinquanta, in cui l’erede diseredato di un’immensa fortuna è coinvolto in un giro di prostituzione, con attori bravi come Peter Gallagher (Sex, Lies and Videotape, opera prima di Steven Soderbergh) e Laura Flynn Boyle (Twin Peaks di David Lynch), il film ha avuto buone recensioni, anche dal NewYork Times, e una distribuzione molto limitata. L’apprezzamento del pubblico e le ottime critiche per il suo secondo film non facilitano il finanziamento del lavoro successivo. Two-Family House (Premio del pubblico a Sundance 2000) è sempre la storia di un italo-americano che vive su un’altra isola accanto alla Grande Mela, Staten Island. Se Vince Rizzo sogna una carriera d’attore, Buddy Visalo aspira a una casa bifamigliare, per abitare al piano di sopra e gestire un bar al pianterreno. La moglie Estelle disapprova e gli inquilini irlandesi al piano superiore non intendono sloggiare, tanto più perché c’è un bambino in arrivo. Michael Rispoli e Katherine Narducci, star della stimata serie Hbo I Soprano, sono la coppia Visalo. Cinque anni dopo, il musicista De Felitta gira un bel documentario su un bravissimo cantante jazz d’origini italiane, conosciuto quasi unicamente da addetti ai lavori, Jackie Paris («Chet Baker moltiplicato per dieci», così lo descrive un collega). ’Tis Autumn: the Search for Jackie Paris accende i riflettori sulla carriera di un grande talento mancato; dopo i primi successi in tournée con Dizzy Gillespie e Charlie Parker, non realizza la carriera che merita, per le solite, incasinate ragioni di genio e sregolatezze. Molto lodato e poco distribuito, De Felitta ci mette un lustro a trovare i cinque milioni di dollari per girare City Island, budget assai modesto per un film americano. La storia è geniale, ben scritta e girata, e gli attori si fanno onore. Il regista gestisce bene il complesso intreccio, inclusa la scena-madre finale in cui cadono i veli di tutti. Anche Molly ha un segreto, forse il più scottante, e il modo in cui viene rivelato scopre il Dio nascosto nel cuore di questo simpatico, divertente, very satisfying film. Da vedere.


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parola chiave

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CRATOCRAZIA a parola esiste già, qualcuno ne ha parlato, tuttavia non ha ancora una precisa definizione. Ma se è già stata utilizzata è anche segno che in qualche maniera è pure nell’aria, ovvero sta entrando nel nostro lessico; così cercheremo di darne una giusta visione. Letteralmente significa «potere del potere», ovvero «dei poteri». Una sorta di sovrapposizione della struttura del potere su se stesso. Chi ha il potere non sono i pochi o i molti, gli anziani o i tecnici, gli uffici o i partiti: è la stessa struttura del potere che comanda se stessa. Ma allora chi sono o chi è questa entità, questo cratos che comanda o comanderebbe oggi, rendendosi in qualche maniera autoritario? Ciò che colpisce è anzitutto l’insensata tautologia, ovvero il blocco ontologico che la stessa parola viene implicitamente a significare: cratocrazia allude anche all’impossibilità di esercitare il potere, o nella migliore delle ipotesi a una struttura del potere assolutamente o quasi del tutto bloccata da se stessa. E qui forse ci avviciniamo ulteriormente a ciò che intendiamo: cratocrazia vuol dire «blocco del potere», potere che blocca il suo stesso esercizio, o magari vive proprio di questo blocco, di questo veto continuo che impone a se stesso.

L

La cratocrazia è la tendenza inevitabile della società in questo primo scorcio del XXI secolo. Essa è la diretta conseguenza di questa nostra democrazia che annaspa, e nella quale confluiscono alla fine, in maniera inevitabile, tutte le suddette categorie: dalla tecnocrazia alla gerontocrazia, dalla burocrazia alla partitocrazia fino alla telecrazia. La cratocrazia è il risultato dell’intreccio che si è creato fra le varie strutture di potere che si sono confrontate nel nostro paese che, come noto, è stato fra i più difficili da governare negli ultimi sessant’anni in Europa. È un fenomeno solo italiano? Certo che no, ma la tendenza più evidente si è espressa in Italia. Perché? Semplice: il nostro paese è stato, fra gli europei, il più bloccato negli ultimi sessant’anni. La Democrazia cristiana e il Partito comunista (il più forte dell’Occidente) ne sono stati gli attori principali. E il risultato di tutto questo è stata la cratocrazia. Dalla connivenza, ovvero implicito accordo, fra le forze politiche di maggioranza e di opposizione, e dalla loro storica spartizione settoriale: la cultura, l’istruzione e la magistratura all’opposizione; i poteri economici, bancari e politici alla maggioranza. Ma questo sistema durato per più di mezzo secolo alla fine è imploso su se stesso, anche se per molti versi non ce ne siamo accorti. E così continuiamo ad andare avanti senza riflettere sulle deleterie conseguenze che si sono create. E se vivessimo davvero in un regime di cratocrazia? La verità è racchiusa nel-

“Potere del potere” è il suo significato letterale che nasconde però una tautologia perché allude anche all’impossibilità di esercitarlo. Un blocco che si sta imponendo globalmente su tutta l’umanità

La dittatura del compromesso di Franco Ricordi

È la tendenza inevitabile della nostra società, diretta conseguenza di una democrazia che annaspa e in cui confluiscono tutte le categorie: dalla tecnocrazia alla gerontocrazia, dalla burocrazia alla partitocrazia, alla telecrazia, in un intreccio di potere tipico di un paese difficile da governare la diretta conseguenza di quella realtà italiana che, pur non essendosi mai concretizzata, ha dominato profondamente la nostra storia dal secondo dopoguerra: il compromesso storico. La cratocrazia è l’istituzione invisibile del compromesso continuo che ci ha accompagnato per tutta la nostra vita. Non è facile capirlo: la cratocrazia si esprime infatti attraverso un condizionamento che è di «tutti e nessuno», e che da sempre ci sovrasta nella struttura sociale. La nascita, scriveva Pasolini, è tutto. È ingenuo e anche pretenzioso opporsi a essa; qualcuno ci ha forse provato? Senza dubbio: tutti coloro che hanno parlato, positivamente, di meritocrazia; l’onore al merito e quindi il governo e il

potere dei meritevoli. La cratocrazia trae la sua forza anche dalla debolezza e dalla pretenziosità di coloro che perseguono, in maniera a tratti anche pericolosa, il principio della meritocrazia. È evidente come in teoria saremmo tutti d’accordo nell’attribuire alle eccellenze meritevoli gli onori professionali di competenza; ma una simile prospettiva non tiene conto delle strutture che ci sovrastano dalla nascita: la famiglia, la società, lo Stato. In queste l’onore al merito rappresenta una percentuale assai esigua della propria organizzazione, e di fronte all’interesse delle tante associazioni e corporazioni la forza dell’individualità inevitabilmente soccombe. È così fin dalla nostra nascita, anche se noi ci sforziamo di

liberarci dalle sue tenaglie, anche se tutti vorremmo «farci da soli». E in questo modo si impone il regime cratocratico in cui viviamo, l’accettazione del senso che indica nella maniera più giusta le soluzioni ricercate. È evidente come tale politica delle relazioni sia sempre esistita, ma nella nostra epoca si è esasperata: se pertanto nella meritocrazia si vorrebbe tenere lontana la raccomandazione, ovvero l’aiuto esterno per il conseguimento dell’affermazione professionale, la cratocrazia rappresenta l’acquisizione più matura e ufficiale dell’impossibilità di tale evenienza. Una disillusione, che però a ben guardare è frutto di una più autentica visione della realtà. Le strutture esterne superano l’individuo che, come tale, non potrà mai pretendere di farne a meno, anche se in misura ridotta. Pertanto il compromesso dell’individuo nella società è inevitabile.

È evidente come in un paese debole dove la democrazia è sempre a rischio, il fattore cratocratico si imponga sempre di più. Ma questa sindrome italiana, quel compromesso che è riuscito in qualche maniera a tenere unito il nostro paese dopo la seconda guerra mondiale, si sta sempre più estendendo su scala continentale. La cratocrazia non è soltanto italiana, ma inevitabilmente europea. L’odierna Unione, che persegue soltanto la tenuta dell’euro, sta assumendo sempre più i connotati di un grande patto si stabilità che poi, immancabilmente, si ritorcerà sulle dinamiche delle singole nazioni che ne fanno parte. E questo creerà un ulteriore blocco continentale che, seppure a suo beneficio economico, provocherà una nuova congestione politico-sociale. Infine la cratocrazia si esprime e sempre più sarà riferita a un livello mondiale: per il semplice «patto di non belligeranza» (anche se qualche paese sarà escluso) che dovrà crearsi fra le nazioni del mondo, al fine di evitare la catastrofe universale. Nell’epoca in cui si sta mettendo in crisi la sopravvivenza della vita, non solo attraverso le armi di distruzione di massa ma anche le possibilità virtuali di cui «non si sa», ecco che l’umanità intera è portata a «bloccare se stessa», a preferire il male minore, a rifugiarsi in un possibile compromesso con se stessa, che peraltro salvaguardi la propria esistenza in vita. E in questo senso la cratocrazia è il pendant diretto di ciò che è stato definito globalizzazione. La possibilità di controllo del mondo, soprattutto attraverso i mezzi di comunicazione di massa, a beneficio dei pochi dirigenti che saranno registi di tale operazione. Cratocrazia: blocco di potere che si sta imponendo su scala nazionale, europea e infine universale. Un compromesso storico globalizzato.


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Pop

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musica

Impariamo da Louis, IL GENIO CHE RIDE di Bruno Giurato

di Stefano Bianchi el 1978, mentre in Inghilterra il punk sbotta anarchia, al di là dell’oceano (Akron, Ohio) cinque musicisti si presentano in scena vestiti da operai/schiavi delle macchine. Muovendosi a scatti, assecondano ritmi centrifugati e cortocircuiti elettronici. Alle loro spalle, scorrono le immagini di In The Beginning Was The End: The Truth About De-Evolution, video grottesco e nichilista. La loro musica/plastilina, intreccio di pop sperimentale e voci su di giri, piace a David Bowie e a Iggy Pop. Ma è Brian Eno, alla fine, a produrre il disco d’esordio intitolato Q: Are We Not Men? A: We Are Devo!. Contraddicono la teoria di Charles Darwin, i Devo. Scandendo i principi della de-evoluzione, puntano all’essere umano che si affida alla tecnologia omologandosi, serializzandosi, automatizzandosi. È un sofisticato uomo primitivo, quello de-evoluzionista: incapace di manifestare emozioni, regredisce fino alla stupidità accompagnato da suoni che rovesciano il sistema dall’interno, anziché mordergli le caviglie come fa il punk. Demoliscono ogni cliché del rock, i Devo, a tal punto da robotizzare e destrutturare (I Can’t Get No) Satisfaction dei Rolling Stones accusandoli di avergliela copiata poiché il mondo non solo va a rotoli ma pure alla rovescia. Album dopo album (fedeli alla linea Duty Now For The Future del ’79 e New Traditionalists dell’81, da poco ristampati con un bel po’ di inediti) la band si trasforma in Devo-demenziale sostituendo l’avanguardia con un pop sintetico, di bocca buona, dalle connotazioni dance. Anno dopo anno, però, l’annunciata deevoluzione si è tradotta in realtà: alzi la mano chi non si sente schiavo di pc, smartphone, email, sms, HD, 3D… C’era una volta l’homo sapiens, oggi c’è l’homo stupidus. D’accordo: negli anni Ottanta i Devo profetizzarono il caos del Ventunesimo secolo mentre oggi somigliano a goffi personaggi d’un fantascientifico B movie. Il mondo, probabilmente, s’è mes-

N

Jazz

zapping

uardiamolo un po’ questo Genio dell’Occidente moderno con la faccia da funerale, pronto allo sbadiglio, al concetto, al tedio. Guardiamolo mentre sogna patiboli fumando il narghilè. Pensiamo ai movimenti bizzarri di un Paganini, tra il cane e l’automa come ebbe a scrivere Henrich Heine, pensiamo al vino dell’assassino di Baudelaire, alle bestemmie di Rimbaud (ma prima c’era stato l’angelo che si fa la ragazza di Blake), pensiamo in un crescendo di disperazione vampirica agli squali in formalina di Hirst, ai bambini impiccati di Cattelan. Alla faccia di Antonio Scurati in televisione. In Occidente chi vuol fare il genio deve anche fare il tenebroso, sembra che le due cose siano coessenziali. Genio e tenebra. Genio e vampiro come in The Addiction di Abel Ferrara. Il genio dell’Occidente moderno è costituzionalmente triste, forse perché a ripetere tra sé e sé la parola «io» viene fuori un raglio, come da ciuccio solitario. Ma per fortuna non c’è solo l’Occidente. Per chi coltiva nostalgie tribali, rituali, gioiose c’è questa biografia: Pops. A Life of Louis Armstrong di Terry Teachout. Dove si vede che l’inventore del jazz - giriamola, friggiamola, facciamola al sugo, ma quello è Armstrong - ebbene sì, era un tipo che esprimeva gioia. Gioia intelligente, gioia ruffiana da giullare quale era, gioia comica, gioia sardonica. Armstrong che aveva sudato nella calca dei funerali marcianti di New Orleans all’inizio del Novecento, quando tornando dal cimitero ci si scatenava in balli su tempi veloci. Armstrong che aveva imparato dal suo primo caporchestra King Oliver la massima che ci piacerebbe ripetere a ogni genio triste del palloso Occidente: Never wear the trouble in your face: «non metterti i guai in faccia».

G

Devo

la colonna sonora del mondo che affonda so a correre più in fretta di quanto potessero immaginare; eppure la loro musica suona ancora moderna, lucida, amara, velenosa. Ascoltare per credere i dodici pezzi di Something For Everybody: dentro, come allora, ci sono i fratelli Mothersbaugh (Mark e Bob) e i fratelli Casale (Gerald e Bob) con l’aggiunta del batterista Josh Freese, ex Nine Inch Nails e Guns N’Roses. I Devo, come allora, sfoggiano l’energy dome (cappellino di plastica a forma di vaso rovesciato) e tutine giallo limone da laboratorio. Se li accusate di fare i catastrofisti, vi rispondono: «Siamo semplici osservatori di un mondo ridicolo. Non vogliamo spaventare nessuno, ma intrattenere tutti mentre

affondiamo. Proprio come l’orchestra del Titanic». E allora, in attesa di andare a fondo, ecco il ritmo forsennato ma orecchiabile di Fresh con l’heavy metal che prende a ceffoni l’elettronica; l’onda d’urto techno e il rap dell’altro mondo di What We Do; il technopop e le chitarre barricadere di Mind Games e Step Up; il rockabilly cibernetico di Please Baby Please e il rock & roll da science fiction di Don’t Shoot (I’m A Man). E ancora, Human Rocket che sta fra i Rockets e Sweet Dreams degli Eutythmics; Sumthin’ e Cameo, schizzate e danzerecce come certe canzoni dei B-52’s; il rock parossistico di Later Is Now; la bizzarra, cabarettistica No Place Like Home e March On, che è tutto un risuonare d’anni Ottanta. I Devo son tornati. E con loro, i seguaci sparsi in giro per il mondo. Devootes, li chiamano.Tutti insieme, appassionatamente, guardano in faccia la realtà. Devo, Something For Everybody, Warner Bros, 19,50 euro

Big Bill Broonzy e la lingua segreta del blues l 26 giugno del 1893 a Scott, piccola città rurale dello Stato del Mississippi nasceva uno dei più grandi cantanti di blues della storia, William Lee Conley Broonzy detto «Big Bill» per la sua corporatura. Figlio di una schiava scomparsa nel 1957 a centodue anni, Big Bill è stato uno dei rari cantanti di blues del primo periodo ad aver raccontato, in un libro autobiografico, la sua vita professionale iniziata a Chicago negli anni Venti e terminata, sempre a Chicago, il 14 agosto 1958. La biografia di Big Bill raccolta dallo studioso belga Yannick Brynoghe, inizia con alcune righe che fanno nascere immediatamente una grande curiosità: «Io penso - racconta - che ognuno di voi vorrebbe sapere la verità sui neri dello Stato del Mississippi, che cantano e suonano il blues. Di questi neri sono il più anziano» - quando raccontava Big Bill aveva solo ses-

I

di Adriano Mazzoletti santadue anni - «e io voglio che tutti sappiano che noi cantanti di blues del Mississippi diamo una grande importanza al nostro modo di suonare, cantare e vivere il blues». I blues di Big Bill, che ebbe l’occasione di incidere i primi dischi nel 1926 per il catalogo race records (dischi incisi da neri e distribuiti solo nei quartieri neri) della casa discografica Paramount, raccontano storie straordinarie. In molti blues e non solo in quelli di Big Bill, i testi sono spesso incomprensibili. L’utilizzo di frasi a doppio senso, di vo-

caboli con un diverso significato da quello normale sono utilizzati da tutti i cantanti di blues. Nel corso degli anni però, il significato di queste frasi e vocaboli cambia completamente. Ad esempio, quando un cantante di blues, negli anni Venti, utilizzava il vocabolo bread - che in inglese significa «pane» - intendeva parlare dell’organo sessuale femminile. Negli anni Quaranta la stessa parola significava «soldi», «danaro». Negli anni Cinquanta ad esempio, buttercup - letteralmente «tazza di burro» - significava «ragazza

innocente» o «ragazza senza esperienza». E gli esempi potrebbero continuare all’infinito. Il mondo segreto del blues, il linguaggio incomprensibile ai bianchi e a volte anche agli stessi neri, sarà oggetto di un serata, esattamente quella di sabato 17 luglio, nel corso dell’annuale Torre Alfina Blues Festival che si svolgerà dal 15 al 18 nello splendido paese laziale in provincia di Viterbo. A raccontare la storia del blues e a svelare i suoi segreti sarà Mark Hanna, chitarrista e cantante che da molti anni suona e spiega i blues con un suo complesso formato da due chitarre, contrabbasso e armonica secondo lo stile classico di Big Bill, ma anche Blind Lemon Jefferson, Lonnie Johnson, Robert Johnson e di tutti i grandi bluessingers che viaggiavano, con le loro chitarre, in lungo e in largo negli Stati bagnati dal Mississippi.


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arti Mostre

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di Marco Vallora

a piacere che, in questo clima di trionfalismo del Contemporaneo spinto, con l’apertura concordata del Maxxi e poi del Macro (subito richiuso, per ultimare i lavori), anche il Novecento storico (se vogliamo romano, che tante frecce ha al proprio arco) faccia sentire, in parte, la sua flebile ma doverosa e autorevole voce. In effetti è abbastanza scandaloso che la Galleria Comunale d’Arte Moderna, che dopo molti mutamenti e traslochi era finalmente giunta nell’ex-convento delle Carmelitane scalze di via Crispi, trovatavi una sua degna ospitalità (anche se inadeguata visto che le opere di qualità, acquistate dal comune a partire dagli anni Venti, con prestigiose collaborazioni d’esperti, sono oltre cinquemila, e solo un centinaio in rotazione si potevano qui mostrare al pubblico), è dal 1995 almeno che non fa ascoltare un vagito di vitalità e addirittura dal 2003 che è chiusa, definitivamente, per una complessa vicenda di messa a norma dei locali e di solita burocrazia organizzativa. Sta di fatto che quadri bellissimi, spesso poco conosciuti o non adeguatamente studiati, da troppi anni non si possono ammirare, giacendo in una inoperosità imperdonabile. Si approfitti dunque di questa felice occasione, di fuori-uscita dal convento imbalsamato, per ammirare una settantina di opere di grande fascino, che un comitato di funzionarie della galleria, tutte al femminile, hanno scelto come campionatura del complesso secolo Novecento e come assaggio di quello che si potrà apprezzare, nell’auspicabile riapertura della Galleria stessa. Elisa Tittoni, Federica Pirani, Maria Catalano e Cinzia Virno hanno scelto, non sappiamo come spartendosi il lavoro di taglio e scelta, opere

F

renità, del ’25, che è una complessa risposta, quasi «dereniana», ai vecchi Déjeuner sur l’herbe di tradizione paraimpressionista, ma anche alle Bagnanti di Cézanne e Renoir, e ai baudleriani Luxe, calme et volupté di Matisse. Non male nemmeno la lezione della scultura del periodo, con il Pastore-capolavoro, estatico e terrestre, di Arturo Martini, un notevole esempio di bagnante di Marino, un riottoso Cavallino di Arturo Dazzi e un curioso Busto di Adolescente di Ettore Colla, benissimo tornito, ancora alla Rossellino, poco prima di passare alle vie di fatto dell’avanguardi, e alla scultura di ricupero di materiali ferrosi, da automa. L’avanguardia storica, qui, è rappresentata da un folto gruppo di futustisti, soprattutto aeropittori, con una bella invenzione grafica di apertura alare delle onde, dopo il passaggio d’un motoscafo, che porta la firma di Benedetta Cappa, moglie siciliana di Marinetti: e poi tutto il circuito d’obbligo di pittori asserviti al dogma della velocità aerea, da Gherardo Dottori, a Monachesi, da Tato a Crali, chi vedendo il mondo distorto dalla carlinga, chi lasciandosi catturare dai vortici d’una ventosità artificiale d’aeroplano, chi scendendo in picchiata, sulla pittura stessa. Ma anche il periodo decadentesimbolista mostra i suoi charmes, che sia una signora dall’abito intonato con il salotto di Amedeo Bocchi, o con un’arancia maliziosa, di Arturo Noci, tra opere di Janni e Ziveri, senza dimenticare il bellissimo-fotografico ritratto di fanciulla simbolista, di schiena, di Balla, prima d’esser travolto dal tornado futurista. E poi ancora, ovviamente, una maternità assai petrosa di Sironi, una scena di gladiatori da camera di De Chirico, pronta a entrare nella celebre stanza da pranzo del gallerista Rosenberg, e infine, sempre sottovalutato ma come sempre intrigante, Melli.

Capolavori dimenticati del nostro Novecento

Architettura

interessanti che permettono di ritracciare un ritratto dei diversi «percorsi» che hanno attraversato il Novecento, e raggrumare alcune tematiche o correnti stilistiche o periodi storici, che si dividono le varie sale del Casino dei Principi di Villa Torlonia, sede dell’Archivio della Scuola Romana, che ha ispirato anche questa bella mostra, a capitoli. Per rimanere alla Scuola Romana, un capolavoro assoluto è il visionario Cardinal Decano del ’30, di Scipione, paonazzo di malesseri crepuscolari e di sopori demonici, che ha ispirato anche il Fellini di Roma e delle sue folli sfilate cardinalizie. E

poi un bellissimo interno di donne che si spogliano, di Mafai, del ’34, veri fantasmi d’appartamento arresi alla violenza e quasi tarantolati, e un non meno bello, disassato romanzo di nudità morbosa, una palestra a firma Fausto Pirandello. Per non citare poi i paesaggi stregati di Donghi o altre liriche prove dei cosiddetti «tonalisti», gli ancora per poco figurativi Cavalli e Capogrossi, prima d’intraprendere la via del l’astrattismo segnico. Incredibile infine che non fosse mai stato mostrato a Roma, dove pure Carena ha avuto un lungo periodo di apostolato didattico, il suo bellissimo e rilassato Se-

Percorsi di arte del Novecento, Roma, Casino dei Principi di Villa Torlonia, fino al 4 luglio

Due giganti (Nervi e Morandi) alle Olimpiadi

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uest’anno ricorrono i cinquant’ anni dalle XVII Olimpiadi di Roma del 1960, un evento straordinario per la capitale che per l’occasione fu rinnovata nell’assetto urbano, estendendosi oltre il quartiere dei Parioli, verso l’area semidisabitata del Flaminio. Questa parte di città venne destinata alle attrezzature sportive e alle residenze per gli atleti: il magistrale villaggio Olimpico, un progetto corale che coinvolse maestri del calibro di Luigi Moretti e Adalberto Libera. Sotto il profilo delle grandi opere a far da protagonisti sono i due grandi ingegneri italiani del Novecento: Pier Luigi Nervi (1891-1979) e Riccardo Morandi (1902-1989), incaricati di numerosi ed eccezionali cantieri. Tra il 1957 e il 1960 Nervi, in collaborazione con altri progettisti, costruirà nella zona olimpica l’elegantissimo palazzetto dello Sport, il viadotto di Corso Francia, lo

di Marzia Marandola stadio Flaminio; mentre all’Eur innalzerà, con l’inaffondabile Marcello Piacentini, il monumentale palazzo dello Sport. Contemporaneamente Morandi realizza il cavalcavia di Corso Francia e (in collaborazione) l’avveniristico aeroporto Leonardo da Vinci a Fiumicino. La grande occasione di mostrare al mondo la sapienza e la modernità costruttiva dell’Italia è offerta dalle Olimpiadi aggiudicate alla città caput mundi, che dopo aver mancato le previste Olimpiadi del 1940, annullate a causa dello scoppio della seconda guerra mondiale, diviene finalmente teatro dell’evento planetario. Mentre per le Olimpiadi del 1940 le nuove strutture erano previste ad ampliamento del complesso del foro Mussolini (oggi Italico), per il 1960 Roma appronta una straordinaria scenografia architettonica che si avvale, contemporaneamente, dei luoghi fastosi dell’antichità e di quelli tecnologicamente innovativi appena edificati. Le gare olimpiche si svolgono infatti tra le antiche terme di Caracalla e il palazzetto dello Sport, tra le solenni volte a lacuna-

ri della Basilica di Massenzio e le moderne piscine del nuoto al foro Italico. Si tratta di una scelta strategicamente dimostrativa, mirata ad attestare la forte continuità costruttiva (e di civiltà) tra la Roma imperiale e quella moderna e democratica. Nervi e Morandi sono messi a confronto e in competizione; attraverso due visioni assai diverse della progettazione strutturale i due geniali costruttori hanno esaltato con le opere per le Olimpiadi le possibilità estetiche della costruzione in calcestruzzo. Da una parte Nervi brevetta e costruisce in spessori sottili di «ferrocemento», una miscela di cemento spalmata su griglie di metallo, dall’altra Morandi persegue il primato assoluto del cemento armato precompresso, secondo un sistema personale che brevetta e utilizza in tutte le sue opere. Nervi è già un ingegnere famoso, quando Morandi, di 11 anni più giovane, entra nel mondo della costruzione. Nei cantieri per le Olimpiadi si svolge un equilibratissimo e costante confronto a distanza ravvicinata, che tuttavia non si risolverà mai in una diretta collaborazione. Agli sfaccettati apporti delle Olimpiadi del 1960 è dedicato un importante incontro internazionale: il convegno multidisciplinare, organizzato dal professor Corey Brennan, The 1960 Rome Olympics games, che si terrà dal 30 settembre al 2 ottobre 2010 all’American Academy in Rome, via Angelo Masina 5.


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il paginone

Elias Lönnrot, filologo, medico, botanico. È lui che creò a tavolino la bibbia che doveva rifondare l’orgoglio e l’identità finlandese. Quella “Terra di Kaleda”, grande poema epico solo in parte basato su testi antichi e carmi diffusi nella tradizione orale finnica, ora riproposto in una nuova traduzione italiana di Marco Respinti ei balsami il più antico è l’acqua,/ dei farmaci la schiuma della cascata,/ dei guaritori il Creatore stesso,/ dei taumaturghi Dio in persona». Così Joukahainen prega nel terzo dei runot, italianizzato in runi (canti), di cui si compone il Kalevala, il poema nazionale finnico, malinconico e a tratti tragico, psicologico ed eroico, autentico e al contempo finto. In parte, infatti, il poema raccoglie certi canti popolari diffusi nelle terre che oggi identifichiamo (più o meno) con la Finlandia, scritti, almeno in gran parte, in careliano, la variante del finnico (lingua agglutinante di ceppo uralico) parlata in un angolo conteso di terra nordica (oggi, ancora una volta, diviso fra Finlandia e Russia), «magico», «atavico», «originario».

«D

In parte invece è creazione a tavolino del filologo, medico e bota-

culturale del popolo finlandese. La sua storia è davvero importante. La nuova traduzione completa in lingua italiana e in versi poetici, curata da Marcello Ganassini, Kalevala. Il grande poema epico finlandese (Edizioni Mediteranee, Roma, 369 pagine, 24,50 euro), offre l’occasione per tornare a frequentarla. Come scrive nella Prefazione Luigi G. De Anna, filologo dell’Università di Turku, in Finlandia, l’opera di Lönnrot nasce da un bisogno preciso, fortemente avvertito nella prima metà dell’Ottocento, allorché «il movimento di identità nazionale finlandese esigeva […] un modello culturale e linguistico cui rifarsi, che diventasse il simbolo della ritrovata finnicità, ritenuta essere stata oppressa prima dall’appartenenza al regno di Svezia e, dopo il 1809, all’impero zarista». Quella che diverrà la Finlandia, infatti, era stata un po’ la Polonia del Grande Nord, anzi

forza dell’utopia armata d’imporre ai tempi umani una seconda alba, il Vecchio Continente si trovò scosso in lungo e in largo da una nuova coscienza, un po’ semplicisticamente definita romantica, ma in realtà voce di quell’insopprimibile desiderio di senso e di storia che anima gli uomini e dunque i popoli.

La Finlandia però non esisteva, e i suoi intellettuali di punta parlavano tutti svedese. Così, osserva De Anna, «un’intera classe dirigente cambiò pelle, […] mutò la propria lingua madre dallo svedese al finlandese, cambiò il proprio cognome per prenderne uno di fantasia o calcato sull’antico». Una operazione artificiale, certo, ma il riappropriarsi della memoria è sempre una costruzione volontaria. Il Kalevala, dunque, narrazione eroica ma pure «ricostruzione del cammino storico del popolo finnico»

La prima edizione uscì nel 1835, suddivisa in 32 runi, cioè più di 12 mila versi. Autentica e al contempo finta, è una grande testimonianza, nell’evo moderno, della forza suggestiva della creazione artistica nico finlandese Elias Lönnrot (1802-1884), che dunque ne figura come l’autore, il quale affermò di basarsi su alcuni cicli di carmi diffusi nella tradizione orale di quelle latitudini e resi popolari e celebri da cantastorie come Arhippa Perttunen, che si diceva ne dominasse a memoria più di mille. Il titolo significa «Terra di Kaleva», dal nome del progenitore mitologico del popolo finnico, e ancora oggi simboleggia l’unità

peggio, e cioè una terra contesa fra vicini potenti e spesso capaci di grandi rapacità, smembrata, ridotta al lumicino, i suoi territori annessi soprattutto con la forza ad altri stranieri, la sua lingua svilita e sostanzialmente cancellata, la sua peculiarità smarrita. Dopo il fallimento dell’universalismo illuminista, che durante il Settecento aveva cercato di cancellare ogni afflato identitario nei popoli d’Europa tentando con la

(De Anna), fu lo strumento che in quel preciso momento storico la nascente nazione finlandese cercava come l’aria per respirare. Scrive l’autore della Prefazione alla nuova traduzione italiana del poema che «il Kalevala non rappresenta un’operazione puramente filologica di collazione di antichi testi; anzi, in molte parti risulta essere di pugno di chi aveva trascritto quel materiale, cioè Elias Lönnrot, il quale

Il Signore aveva raccolto, grazie ai viaggi fatti in molte province della Finlandia, anche quelle più isolate, una enorme quantità di materiale epico e di materiale lirico, circa 2400 poemi per 75.000 versi complessivi. Il primo formerà il nucleo del Kalevala e il secondo della Kanteletar, raccolta di poemi lirici del popolo finnico».

Quanto, in quei versi, c’è dunque di originale e quanto di ricostruito? Domanda sbagliata, direbbero in coro i finlandesi. Infatti, «che […] il Kalevala fosse in realtà assai poco storico nella verità effettuale, poco importò ai finlandesi, pronti a credere che la loro nazione esistesse già in età antichissima, e che il suo declino

fosse dovuto proprio allo scomparire di quell’antica società, fatta di maghi dai molti incantesimi, di fabbri capaci di dar vita ai simulacri, di cavalieri terribili con i nemici e dolci con le dame». Un grande falso, insomma, ma trasparentissimo, di cui coscientemente vengono accettate le norme e le regole; non una menzogna inavvertita spacciata subdolamente per verità. Accadeva infatti che il senso comune di un popolo smembrato chiedesse in quell’istante ragione di sé e così, per iniziare a rispondersi con qualche pregnanza, esso firmò un patto non scritto che vincolava ogni singolo finlandese al suo Poeta. Lönnrot e i finlandesi si accordarono allora «giurando» di

Alcune illustrazioni del “Kalevala”, la copertina della nuova edizione italiana e di due diverse edizioni in inglese. Al centro un ritratto di Elias Lönnrot (1802-1884), filologo, medico e botanico finlandese, autore del poema anno III - numero 23 - pagina VIII


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modalità di trasmissione impediscono ai cicli gemelli, più autonomi, di allontanarsi troppo dai nuclei originali, dall’altro sono spesso costretti ad attingere a essi per restare al passo con i motivi lirici in voga».

Operazione scorretta? Niente affatto. Il narrare, tutto il narrare è costruito in questo modo, in specie quello identitario; e una narrazione che non sia identitaria, cioè riconoscibile, trasmissibile, «classica» già nel momento stesso della sua stesura, è destinata all’oblio. La letteratura che non costruisce pagine per ricostruire popoli e persone è quella che viola

tro un’ottica voluta e ampiamente intenzionale: quell’itinerarium mentis in Deo che, come il Kalevala è la costituzione letteraria della Finlandia, è la costituzione teologica della cristianità. Dietro di lui, modello anch’egli esplicito di Eliot, si staglia Virgilio (70-19 a.C.) con il suo canto supremo della latinitas, pure esso intenzionale e politico come non mai nel voler ricondurre la civiltà romana (che Eliot definirebbe forse provvidenziale) al grembo degli dèi dell’Olimpo. Per non parlare dei Lusiadi, il poema epico dello scrittore portoghese Luís Vaz de Camões (1524 ca.-1580), o di William Shakespeare (1564-1616).

Come Dante ed Eliot prima di lui, Lönnrot ha trasformato la “fictio” in mito. Un’operazione a cui si è ispirato anche Tolkien per redigere, trasfigurandolo in modo del tutto originale, il suo legendarium

e del Kalevala prestare fede ai carmi del Kalevala, di cui a tutti interessava anzitutto la verità narrativa e non principalmente la fattualità letteraria. Fra le due, infatti, può stendersi l’abisso. Ciò che è vero dentro una fictio è il costrutto coerente, il tessuto intelligibile, la cogenza delle metafore, non l’accuratezza solo materiale degli eventi narrati. Per questo il linguaggio scelto per il Kalevala è la sublimazione della storia in epica, la lettura simbolica della storia che si fa mito, l’essere le sue vicende reali in quanto vere nel significato che possiedono. A un popolo in cerca di sé, a un uomo che ricerca la propria anima, servono bibbie non enciclopedie.

La prima edizione del Kalevala, nota come Vanha Kalevala («Vecchio Kalevala»), uscì nel 1835, suddiviso in 32 runi cioè 12.078 versi. Nel 1849 ne fu pubblicata la seconda edizione definitiva, l’Uusi Kalevala («Nuovo Kalevala»), 50 runi per 22.795 versi, quella oggi riproposto integralmente anche in italiano. Ora, per l’edizione del 1835 Lönnrot

vergò una «confessione» (la intitolò Autenticità dei Runi del Kalevala) che disperse nella pagine, a tratti professorali, della sua Prefazione. Eccola, magistrale. «Queste strofe - scrive il filologo finlandese - vengono cantate ancora oggi con lo stesso scopo di un tempo in tutta la Carelia da ambo le parti del confine russo-finlandese nonché in Ingria e, localmente, in Savonia e Ostrobotnia, e nel corso del tempo è probabile che in essi come verosimilmente in altri Runi siano state aggiunte frasi e luoghi nuovi che è oramai difficile o pressoché impossibile distinguere all’interno dei canti epici originarî». Ma, aggiunge subito, «è […] preferibile tralasciare queste distinzioni e considerare tali canti come semi gettati sul terreno del racconto folcloristico, sul quale nel corso di secoli e forse millenni è germogliata e cresciuta la ricca messe di materiale lirico così come ci è pervenuta fino a oggi». La premessa, pro domo sua, è stesa; Lönnrot può procedere. «Per quanto riguarda l’autenticità dei Runi la questione è così sintetiz-

zabile: durante banchetti o altri eventi sociali il rapsodo ascolta un canto nuovo e si sforza di tenerlo a mente. Quindi in un’altra circostanza recitando il medesimo canto di fronte a un altro uditorio egli ricorderà con maggior precisione il soggetto rispetto allo svolgimento del racconto parola per parola. Se in un passaggio egli ha dimenticato le frasi originali ricorrerà a parole proprie apportando miglioramenti al canto che aveva udito. Può infatti accadere che alcuni passi poco significativi vengano tralasciati e sostituiti da materiale frutto della propria fantasia. Analogamente altri rapsodi cantano i versi che hanno udito e il canto è soggetto a ulteriori variazioni non tanto nel tema generale quanto nei dettagli narrativi e lessicali. Accanto a questo genere di tradizione orale ve n’è un altro che tende a mantenere le parole originarie e la sintassi relativa: è quanto accade quando i bambini apprendono i canti dai genitori e li ripetono identici di generazione in generazione. Se da un lato i canti derivati da questa

volontariamente il patto non scritto fra autore e lettore, quel patto che rende assolutamente vera persino la creazione più fantasiosa dentro quel recinto di norme non derogabili che essa si è data e a cui il pubblico sceglie, accingendosi a leggere, volontariamente di sottostare. La fictio, infatti, non è falsità, ma mito. E «inventandosi» (alla latina: scoprendo e creando al contempo) il Kalevala, Lönnrot altro non fa che rifare ciò che gli antichi aedi e scaldi e bardi già fecero, non meno autentici di lui per il solo fatto di essere giunti a noi anonimi. Lönnrot, insomma, è la grande testimonianza, dentro l’evo moderno, della forza suggestiva che la creazione artistica possiede e della potenza evocatrice che la poesia usata pedagogicamente, politicamente e documentalmente ha. Quel che con il Kalevala egli fa è concedere ai finlandesi, che l’invocano a gran voce, una costituzione, una costituzione letteraria, non meno cogente di quelle politiche. Il Thomas Stearns Eliot (1888-1965) che a modo proprio rivisita la «materia graalica» nel Paese guasto (traduzione assai migliore del noto The Wasteland, 1922, che non La terra desolata), o che si riappropria di Dante Alighieri (12651321), o che ripercorre fra cronaca e mito la storia della cristianizzazione dell’Inghilterra in La Roccia (1934) non agisce diversamente da Lönnrot. E, persino più di Lönnrot, confessa tutto nell’indimenticabile saggio Tradizione e talento individuale (1919). Del resto, lo stesso Dante era un altro manipolatore di storie, vicende e persino miti den-

Come scordare, infine (e del resto Luigi De Anna è un esperto del tema), che l’erede più lucido di Lönnrot è John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973), filologo supremo al pari dello studioso finlandese, che a lui s’ispirò direttamente per redigere il proprio sontuoso legendarium, traendo sì spunto da fonti storiche, epiche e mitologiche, fra cui proprio alcune scene e alcuni personaggi del Kalevala (sulla lingua finnica egli modellò pure una delle proprie lingue elfiche, «artificiali»), ma sempre trasfigurandole in modo assolutamente originale e per uno scopo preciso. Dare all’Inghilterra, che egli giudicava povera di miti fondativi, una coscienza identitaria che la legasse direttamene al trascendente e che riverberasse nel tempo in dimensione sacrale. L’insieme delle storie tolkienane infatti prende abbrivio da Ilùvatar, il Padre di tutte le cose. Bibbie, vogliono gli uomini e i popoli, non enciclopedie.

Ridotta all’essenziale, la trama di tutto il legendarium tolkieniano è tratta pari pari dal Kalevala. Storia di eroi plumbei e di raggi improvvisi di sole che squarciano inaspettati le coltri del cielo, creature magiche, incantesimi e divinità capricciose o latenti che si trascinano interpretando segni enigmatici, il tutto fino al giorno in cui (questo è il Kalevala) «il vecchio mondo deve farsi da parte per lasciare il posto al fanciullo concepito dalla vergine Marjatta» (De Anna). In Tolkien, parimenti, tutto è propedeutico al tramonto degli elfi onde far posto agli uomini, là dove il mito si salda con la storia fattuale. Perché per Tolkien, oltre il mito, il sangue degli Alti Elfi misto a quello degli uomini che si pentirono di aver tentato le potenze angeliche genererà nella nostra storia la salvezza del Figlio dell’Uomo. Il puer della IV Egloga di Virgilio. Come in Elias Lönnrot, nessuna enciclopedia. www.marcorespinti.org


Riletture

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unica amicizia della signorina Immacolata - ricca e un po’ stagionata - era Don Gastone Caoduro, il cappellano della Chiesa dei Servi di Maria: era un prete molto alto, giovane e bello; dicevano che fosse avvocato, che avesse biancheria tutta di lino e calze di organzino di seta. Ogni settimana passava per il portico della custodia biciclette con una borsa nera sotto il braccio; dentro quella borsa c’era la biancheria che portava a mettere in ordine dalla serva della signorina Immacolata. Ma - rivela il testimone del romanzo di cui si parla - credo che fosse piuttosto quest’ultima a occuparsene perché in quelle rare occasioni in cui si chiamava in casa, la trovavo a cucire o piuttosto a esaminare con occhio di paradiso, centimetro per centimetro, le mutande, le camicie, le sottovesti e i calzini neri e sottili come un velo». La signorina Immacolata era evidentemente innamorata di Don Gastone, che passava imperturbabile un po’ chiuso in sé, tutto d’un pezzo. Ma non solo la signorina Immacolata era innamorata di lui; c’era anche la signorina Camilla e le sorelle Waleska, e insieme ad altre invidiavano a Immacolata le confidenze vestiarie che aveva con Don Gastone. Ma Immacolata tentò una carta che credeva risolutiva per togliere Don Gastone dalla sua freddezza: gli regalò un’automobile. Non sortì alcun effetto. Così all’inizio di Il prete bello di

libri Goffredo Parise IL PRETE BELLO Adelphi, 259 pagine, 19,00 euro

«L’

Goffredo Parise in una foto di Lorenzo Capellini

Parise

e le tentazioni di Don Gastone “Il prete bello” è un romanzo allegro, scritto dal narratore vicentino con l’intenzione di allontanare il freddo e la solitudine della sua opera d’esordio di Leone Piccioni Goffredo Parise del ’54 ristampato recentemente da Adelphi. Il romanzo ebbe un clamoroso successo.

Ma riprendiamo il filo del racconto. La signorina Immacolata non demorde e riusciva a somministrare a Don Gastone ogni gior-

Il bibliofilo

no delle pillole che lei chiamava ricostituenti. Si trattava invece, secondo la scritta della boccetta, di «EROS pillole ormonali per combattere la debolezza e la nevrastenia sessuali». La sentenza fu decisiva: Don Gastone era impotente. È qui che entra in scena la bella ragazza Fedora che va ad

abitare in una soffitta nello stesso palazzo delle signorine innamorate. Don Gastone la incontra quando va a casa sua a benedire per le feste pasquali. Intanto gli inquilini hanno avvertito un gran rumore di sciabole di ufficiali della guarnigione che, uno dietro l’altro, fanno frequentemente visita a Fedora. Insieme a loro ci sono due personaggi maschili di grande rilievo: il segretario Federale fascista e il cavaliere Esposito, vedovo e padre di cinque figlie tenute in casa, che si gode due soli beni: il gabinetto, perché è l’unico inquilino a possederlo e il Duce. Entrambi si scontrano per ottenere i favori di Fedora. Ma neanche Don Gastone si sottrae. Il giorno dopo la benedizione, torna da Fedora con il pretesto di fare un’altra benedizione e via via, giorno dopo giorno, va dalla ragazza: «Pareva che non avesse ancora commesso peccato, lui era timido, balbettava, si vergognava, scappava via»… Ballavano al suono del grammofono e a baciarla c’era arrivato di sicuro. Anche Fedora si innamora. Don Gastone non è im-

Quel giovane talento bacchettato da Neri Pozza eri Pozza pubblicò nel 1951 Il ragazzo morto e le comete, scritto quando Goffredo Parise non era ancora ventenne, in una tiratura di 1000 copie. Il romanzo, il cui titolo originario era Il ragazzo di quindici anni, venne accolto nella collana «Narratori moderni italiani» in cui uscirono opere campali del nostro Novecento come In quel preciso momento di Buzzati (1950) e Il primo libro delle favole di Gadda (1952). Nel verso e nel recto della fragile sovracoperta campeggiano due spaccati di ville palladiane su fondo rosso che sembrano preludere all’aspetto visionario della trama, incentrata sulle vicissitudini di un ragazzo quasi coetaneo del suo autore. Il volume, molto difficile da trovare sul mercato antiquario in buone condizioni, deve preferibilmente essere completo del dépliant accluso, in cui Neri Pozza, dopo una lunga e travagliata vicenda editoriale, prende le distanze dal suo pupillo, reo di non aver accolto i consigli stilistici offerti: «Nella nostra professione la scoperta di uno scrittore nuovo è il premio di un’attenta amministrazione, il risultato di letture di centinaia di manoscritti. Ma

N

di Pasquale Di Palmo quando lo scrittore che si presenta è addirittura un giovane, non soltanto la professione perde peso e acquista di colpo una fisionomia affascinante, ma solleva di colpo le più vive speranze. Così è per questo romanzo, l’autore del quale ha compiuto da poco vent’anni e che è stato scritto a Venezia, tra l’inverno e l’estate del 1950. [...] Senonché conviene all’editore aggiungere ancora qualche notizia. Dopo la prima lettura dell’opera egli ha insistito presso l’autore perché tornasse pazientemente sul testo a togliere storture ed errori. L’autore ha rifiutato di farlo con l’ostinazione spavalda di chi ha davanti una vita e si ripromette di trarre da questa nuove esperienze ed opere. Così il romanzo è rimasto tale e quale era nato e oggi si pubblica: frutto dolorosamente di un grande talento». Sembra paradossale che la quotazione attuale di tale edizione, aggirantesi intorno ai 500 euro, riguardi la stessa opera che, esposta nelle vetrine dei librai vicentini, incontrava lo scherno pressoché unanime degli avventori, come ricordava ancora Neri Pozza: «[…] il letto-

Cinquecento euro per la prima edizione del “Ragazzo morto e le comete”

re d’oggi deve cercare di figurarsi quel che successe a Vicenza quando il libro andò in vetrina […]. Non ci fu un lettore, al di sopra della giovinezza, che dicesse una parola di consenso. Parise era, per i suoi venticinque lettori,“matto da legare”». Ma, sul versante critico, bisogna segnalare i lusinghieri apprezzamenti riservati da critici d’eccezione come Geno Pampaloni, Enrico Falqui e Giuseppe Prezzolini che, dal suo esilio statunitense, si adoperò al fine di far tradurre il romanzo presso la prestigiosa casa editrice Farrar, Straus & Young di New York nel 1953. Nello stesso 1953 Parise pubblicò, nella stessa collana, anche il suo secondo romanzo: La grande vacanza. Il libro uscì con una litografia dello stesso Neri Pozza in sovracoperta, riproducente un volo di pipistrelli che si estende anche alla quarta. Fu la fine della collaborazione tra i due autori vicentini. L’anno successivo uscì per Garzanti Il prete bello che, nonostante sia considerato uno dei primi best-seller del dopoguerra, non ha lo stesso fascino dei due libri d’esordio di Parise. L’autore rivide in seguito le proprie posizioni rimaneggiando Il ragazzo morto e le comete nelle successive ristampe allestite da Feltrinelli ed Einaudi. Forse un tardivo credito ai suggerimenti del suo lungimirante primo editore.

potente e lo dimostra mentre sorge in lui anche la gelosia per Fedora. Nel Prete bello ci sono anche spassose pagine su una visita del Duce. Si arriverà a una malattia di Don Gastone per una tubercolosi: «Una malattia così brutta e disonorevole per la gente ignorante del rione». Goffredo Parise (1929-1986) si presentò nel ’51 con un libro che suscitò molta emozione: Il ragazzo morto e le comete. Un linguaggio nuovo tutto tenuto su una frenata liricità, con colori tenui, colori pastello, e un’intima, grande e poetica malinconia. Eugenio Montale scrisse di «una sostanza poetica che ribolle e rifiuta di assestarsi entro schemi definitivi». Il prete bello, come s’è detto, arriva nel ’54. È Parise a dirci che ha voluto scrivere un romanzo allegro per allontanare il freddo e la solitudine del primo libro. Si tratta, infatti, come si è potuto vedere nel racconto della trama, di un libro comico. Non derivato da una comicità involontaria ma direttamente comico e divertito. Rimanendo sui libri che sono caposaldi della carriera di Parise eccoci a Il padrone del 1971. Un libro polemico, ironico che prende a pretesto la figura di un editore infaticabile gestore e operaio, personaggio facilmente riconoscibile.

Liricità, dunque, comicità, polemica, ma Parise non si sottrae a un’altra prova diversa, forse la più importante della sua carriera: i Sillabari numero 1 e numero 2 tra il ’72 e l’82. Sceglie vocaboli semplici e ricchi dal punto di vista dei sentimenti. Personaggi consueti di tutti i giorni; fatti neanche destinati alla cronaca, ma momenti in cui ognuno si può riconoscere. Una prosa fluida, chiara come l’acqua di fonte che commuove con semplicità. Qui si potrebbe chiudere il ricco panorama di uno dei maggiori e multiformi scrittori di questi tempi. Parise è stato anche un personaggio di grande originalità e spregiudicatezza: i suoi interessi erano vasti a cominciare da quelli della visione politica delle cose. Poteva diventare anche, sul tipo di Pasolini, un commentatore dei fatti ideologici e politici di quegli anni. Famoso per i suoi scherzi, per le sue burle, spesso destinate a sorprendere l’ingenuità di Carlo Emilio Gadda che fu un suo amico. Se ne potrebbero raccontare delle belle, e io ci ho provato in un ritratto a lui dedicato nel libro Maestri e amici del ’69. Ma nel ’79, alla vigilia della morte, Parise ci dà anche un libro con un tono molto diverso: nell’Odore del sangue c’è rabbia, c’è violenza, c’è intolleranza certamente dovute a un suo periodo di crisi fisica e sentimentale. Ma noi - come dicevamo - preferiamo chiudere la parabola narrativa di Goffredo Parise con i Sillabari, mentre ancora sorridiamo con le pagine del Prete bello.


Personaggi

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ntipatico? Sì, anche molto. E poi: cinico, sbruffone, vittimista, attore, polemista dalla testa ai piedi. Ma a leggere certe sue interviste, viene il dubbio che siano state le tremende tribolazioni «in un cervello morbosamente sfrenato», a renderlo così. Il dottor Louis-Ferdinand Destouches, medico dei poveri, firmava i suoi romanzi con il nome di una nonna molto amata: Céline. Dopo varie peregrinazioni, raggiunse la Danimarca. Ricevette alcuni giornalisti, molti dei quali capirono poco di lui o perché non lo conoscevano abbastanza o perché cercavano una macchietta, un burattino tragico da far parlare a ruota libera. Solo che Céline, che era sempre tra paranoia e lucidità, si accorgeva e tirava poi fuori ciò che potremmo definire come la colonna sonora delle sue pagine tragiche: la risata. Ovviamente caustica: «Io sono qui per divertire la platea».

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ALTRE LETTURE

L’UOMO OCCIDENTALE SECONDO SCRUTON di Riccardo Paradisi

A

È molto utile, per conoscere l’uomo Céline e magari correggere certi giudizi imprecisi su di lui, scorrere le pagine di Polemiche (1947-1961) edito da Guanda (120 pagine, 12,50 euro). Misurata ed essenziale l’introduzione di Ernesto Ferrero, il quale chiarisce subito che Céline «le grane se le andava a cercare». È scrittore dell’insoddisfazione, esaltato da un «altrove» che poi in realtà lo deluderà sempre, è dalla parte dei diseredati, degli «scombussolati» del secolo guerresco, e di loro parla con linguaggio che a volte pare una petite musique, un tango o una mazurca, ma che in realtà - ed è lo stesso artista che lo precisa - non è mai libertà senza regole, ma lavoro faticoso e assiduo per cercare uno stile (è quel che importa, aggiunge, visto che la trama è niente e oggi c’è assai poco da inventare) al fine di traslare su pagina il suono autentico delle frasi della gente. Inevitabilmente i cronisti vanno al punto dolente delle sua vita. Scrisse Bagatelle per un massacro e questo decretò la sua fama di antisemita. La pagò cara: la sua casa parigina fu devastata dai «rossi» (qualcuno si scusò, dopo), fu processato, imprigionato, ritenuto un collaborazionista all’epoca dell’occupazione nazista. Sta di fatto che Céline, odiava i tedeschi, non scrisse mai su un giornale filo-germanico (Sartre invece sì). Ha attraversato la Germania devastata dalle bombe, assieme alla seconda moglie Lucette e il gatto Bébert, ed è approdato a Copenaghen perché lì aveva qualche risparmio. La Francia chiede l’estradizione, il governo danese traccheggia e intanto gli infligge 14 mesi di carcere duro. L’accusa che viene da Parigi è di alto tradimento. Pochissimi gli stanno vicino, pare abbia la lebbra. Ma Henry Miller lo venera come un maestro. Passano tanti anni prima che la sua opera entri nella Pléiade di Gallimard. Il dottore dei poveri non se ne può rallegrare: muore un anno prima (1961). Céline, con il suo dolente funambolismo, divide tutti. Sconcerta. Il romanzo più noto, Viaggio al termine della notte (1932), pare ad alcuni un libro di sinistra. Se i comunisti non sanno bene se apprezzarlo o censurarlo, gli anarchici e gli antimilitaristi vedono in lui uno di loro, un «refrattario». L’imbarazzo della sinistra lo si può capire. Nel 1936 Céline, con Mea culpa,

uomo occidentale, soprattutto quello europeo, è prigioniero di una tendenza che lo porta a negare la propria identità storica e culturale e a cercare sempre nuovi riferimenti in un non meglio definito «universo dei diritti». È intorno a questa intuizione, peraltro dolorosa, che ruota Il suicidio dell’Occidente, la bella intervista di Luigi Iannone a Roger Scruton pubblicata da Le Lettere (71 pagine, 9,50 euro). Prigioniero di una società sempre più edonistica e priva di riferimenti al sacro, l’uomo occidentale secondo Scruton - sta cedendo alle suggestioni teoriche dei negatori della tradizione e si trova a doversi misurare con le pulsioni antioccidentali dell’Islam e delle sue degenerazioni. Un’intervista che tocca i temi più scottanti dell’attualità politico-culturale, rilasciata dal maggiore pensatore conservatore contemporaneo.

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La petite musique del Maestro Céline Smettiamola di ridurre la sua grandezza al “Viaggio” e a “Morte a credito”, afferma Henri Godard nella prefazione della “Trilogia del Nord” (appena pubblicata da Einaudi). È, a tutti gli effetti, un innovatore del Ventesimo secolo. E per conoscerlo meglio basta scorrere le pagine di “Polemiche”... di Pier Mario Fasanotti aveva bastonato tutti coloro che avevano aderito acriticamente al comunismo: «Tutta quella roba è abietta, spaventevole, incredibilmente fetida. Vedere per credere. Un orrore. Sporco, povero, ripugnante. Una prigione di larve.Tutta polizia, burocrazia e caos fetido. Tutto bluff e tirannia». Questo è per lui il «socialismo reale». La prova dell’uomo difettoso, sadico e feroce. Butta qua e là giudizi al cianuro. Parla male di Albert Camus, dice che è uno che vuole insegnare sempre agli altri. E qui il rancoroso Céline restringe la sua intelligenza: Camus era uomo sobrio, stava dalla parte degli sconfitti, mai fu vanesio e profittatore. Schierato a sinistra, ma non in modo ottuso. Curioso quello che Céline afferma del suo Voyage: «Il mio libro non è letteratura, è la vita com’è. La miseria umana mi sconvolge, sia essa fisica che morale. L’uomo è nudo, spogliato di tutto, perfino della fede in se stesso. Questo è il mio libro». Ma, diciamo noi, come poteva non accorgersi che Camus era dalla sua stessa parte e addirittura fu lui per primo a parlare dell’«uomo nudo»? Antisemitismo: Céline sostiene che Bagatelle profetizzava il massacro dei francesi. Sarà anche così, ma il libro ha tratti rivoltanti. Eppure Céline ha amici ebrei. Nel ‘44 il Movimento nazionale ebraico lo difende: «Il suo individualismo, la sua solitudine intellettuale

lo fanno fratello degli ebrei». Male informato da certe letture, credette a un complotto delle alte sfere giudaiche. Ha una cattiva parola per tutti, comunque: anche contro la cultura di massa che presto sommergerà il mondo sotto una coltre di banalità (non male come profezia). Chiama Bedain (trippa) il maresciallo Pétain, Hitler lo ribattezza col nome di un clown, Dudule. Ride delle «fesserie di Hitler», infarcite di «satanismo wagneriano». «La mia colpa? Aver sempre detto la verità. Senza barare» dice a un giornalista.

In questi giorni Einaudi pubblica La trilogia del Nord. Nella prefazione, Henri Godard scrive una cosa importante: smettiamola di considerare Céline solo come autore del Viaggio e di Morte a credito. C’è altro materiale letterario che «colloca Céline entro la linea dei grandi innovatori del Ventesimo secolo». E spiega come l’autore abbia descritto «esseri stralunati» che vagano tra le rive d’Europa. Godard insiste anch’esso sul falso mito della incontrollabilità delle passioni del medico-narratore: «Al contrario, il suo lavoro è perfettamente lucido, e rivolto verso tutt’altra cosa che l’affermazione delle sue idee o la soddisfazione dei suoi rancori». Céline: «Quando si scrive, il foglio di carta, se ne fotte… bisogna sedurlo». E ancora: «Di tanto in tanto qualche testardo mi scova… forse devo farmi una ragione d’essere lo smerda-pagine che si legge di più».

BACHOFEN, EVOLA E L’ETÀ MATRIARCALE *****

reparata negli anni Trenta ma pubblicata soltanto nel 1949 la silloge di scritti delle opere di Jakob Bachofen dal titolo Le madri e la virilità olimpica (Mediterranee, 268 pagine, 24,50 euro) presenta una vera e propria metafisica dell’antichità. Una teoria secondo la quale l’età matriarcale sarebbe stata propria di ogni popolazione, quindi anche di quelle uranie, secondo l’espressione con cui il curatore di questa opera, Julius Evola, parla delle civiltà tradizionali. In questo libro viene proposta una scelta ampia e significativa delle principali considerazioni dello studioso svizzero.

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L’ESSENZA DELLA FILOSOFIA NEI DIALOGHI DI PLATONE *****

l pedagogista americano Jerome Bruner sosteneva che quello che conta nell’educazione è «la struttura della conoscenza. È infatti questa struttura a dare significato a ciò che possiamo imparare e a rendere possibile il dischiudersi di nuovi regimi d’esperienza». Seguendo questo approccio, Dialogo con Platone di Stefano Cazzato (Armando editore, 62 pagine, 8,00 euro) intende proporre un metodo per lo studio della filosofia che metta al centro della didattica il testo con le sue connessioni interne e con le sue idee organizzative; il coinvolgimento attivo dell’alunno nell’apprendimento delle strutture e delle abilità fondamentali della disciplina come le tecniche argomentative. I dialoghi platonici analizzati in questo libro - dal Crizia al Minosse, dal Clitofonte al Carmide - sono un’occasione per parlare appunto dell’essenza stessa della filosofia: della forma dialettica dei processi logici e delle finalità del discorso filosofico.

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pagina 20 • 26 giugno 2010

di Enrica Rosso l 17 giugno scorso John Malkovich ha inaugurato Opificio Jm, la sua bottega nel centro di Prato. Giovani attori non illudetevi, non si tratta di una scuola di teatro bensì del primo di una serie di store in cui lanciare articoli vari, dal vino all’abbigliamento, di fattura rigorosamente artigianale. L’idea è quella di creare una catena in grado di esportare un modello di gusto senza altre intermediazioni. Non stupitevi, l’eclettico Malkovich che già disegna e firma una linea di abbigliamento, la Tecnobohemien, ama stupire e non pone limiti alla creatività. A giorni porterà in Italia - per sole tre date: 1 luglio a Ravello, 2 luglio a Spoleto e 16 luglio proprio a Prato - uno spettacolo che rappresenta in pieno la sua voglia di novità. Si tratta di una commedia teatrale per orchestra barocca, due soprano e un attore: The Infernal Comedy, ovvero confessioni di un serial killer. Scritto e diretto da Michael Sturminger il testo si ispira alla vita di Jack Unterweger. Abbandonato in tenerissima età dalla madre prostituta, spenderà l’intera esistenza a vendicarsi. Imprigionato in seguito all’omicidio della moglie userà i quindici anni di galera per diventare scrittore e poeta. Una volta scarcerato guadagnerà la stima della critica e il favore del pubblico. Durante i suoi primi dodici mesi in libertà si macchierà di sei omicidi tra Praga,Vienna e New York: tutte giovani donne, molte prostitute. Definito «uno psicopatico sessualmente sadico con tendenze narcisistiche e istrioniche», nuovamente catturato è condannato all’ergastolo e nel ’76 si toglierà la vita impiccandosi in carcere. La regia mette in scena la presentazione, in diretta dagli inferi, del suo ultimo best seller in cui svelerà i retroscena della storia. Da sempre innamorato della musica, Malkovich è accompagnato in quest’avventura dalla Wiener Akademie Orchestra diretta da Martin Haselbock e dalle

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Teatro

MobyDICK

spettacoli DVD

Viaggio all’Inferno

con John Malkovich Tre date italiane per la commedia con orchestra barocca interpretata dall’attore americano

Televisione

due soprano Laura Aikin e Alexsandra Zamojska che interpreteranno le vittime dell’omicida. Lo spettacolo si snoda quindi in un racconto-conferenza in cui la forza della musica e le parti cantate, tematicamente collegate al racconto, come avveniva per la musica barocca, offrono degli approfondimenti emotivi. Il fascino dell’operazione, oltre alla possibilità di ascoltare dal vivo la voce suadente di una delle star più carismatiche di Hollywood, è quello di godere di un repertorio musicale di grande potenza espressiva eseguito live da un’orchestra formidabile, impegnata in un repertorio che spazia da Gluck a Boccherini a Vivaldi e che prevede arie di Mozart, Hendel, Beethoven, Haydn, Carl Maria von Weber in un rincorrersi di parole e note che, abbinate alla classe di Mister Malkovich, daranno vita a un eccezionale ibrido tra opera e teatro. Nato 56 anni fa in una cittadina dell’Illinois da padre croato e madre scozzese, Malkovich deve proprio al teatro il suo primo riconoscimento importante, l’Emmy Award del 1984 per la trasposizione in video di Morte di un commesso viaggiatore al fianco di Dustin Hoffman. Da lì ha preso il via una densa carriera cinematografica che lo ha visto misurarsi anche col ruolo di regista, anche se spesso torna a calcare le assi del palcoscenico. The Infernal Comedy segna il suo debutto italiano. «Mi piacciono le nuove forme, mi piacciono le nuove sfide, mi piace tutto ciò in cui potrei fallire in ogni momento… Il teatro è un’onda, devi solo lasciarti andare, sperando di catturarla e cavalcarla». Detto così sembra facile e noi non vediamo l’ora che ce lo dimostri.

LE ROTTE PERDUTE DI CRISTOFORO COLOMBO ivinò un mondo e fu deriso: lo scoprì e fu calunniato: lo diede a un re e n’ebbe catene». Così Mario Rapisardi riassunse il paradosso di Cristoforo Colombo, grande esploratore che si vide riconosciuti solo dai posteri gli immensi meriti della sua scoperta. E proprio al marinaio genovese è dedicato il doppio documentario di Cinehollywood, a lui intitolato. La prima parte ripercorre le vicende biografiche del navigatore, dalle prime esperienze in mare al sogno di raggiungere le Indie. La seconda si concentra sull’ ultimo viaggio di Colombo, alla luce del ritrovamento di un antico vascello nel 2000. Godibile e puntuale.

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TOURNÉE

CARMEN, L’EROINA DEI DUE MONDI stata una fortuna poter ascoltare la sua musica in una maniera intima che rappresenta al meglio il suo cambiamento musicale». È un Jon Pareles entusiasta quello che commenta l’ultimo tour di Carmen Consoli in terra americana. Dalle colonne del New York Times, il grande critico statunitense loda la cantautrice siciliana che ha incantato tutti nei brillanti concerti tenuti a Chicago, Boston, Montreal, Toronto e New York. E proprio nella Grande Mela, la «superstar italiana» si è esibita nel prestigioso club del Poisson Rouge. E a riprova del feeling instaurato con gli States, Harvard e Columbia University hanno prenotato un’esibizione della «cantantessa» per la prossima primavera.

«È

di Francesco Lo Dico

Velone, il “non è mai troppo tardi” imbandito da Iacchetti a signora Vittoria è romana e ha 72 anni. Sale sul palco e racconta una storia drammatica e commovente. Quando aveva quattro anni, quindi in tempo di guerra, era stata affidata assieme al fratello all’Istituto dei bambini figli dei combattenti, a Roma. Un giorno c’è una retata dei nazisti, i quali vogliono prelevare i bimbi ebrei. Le suore si agitano, ma hanno la prontezza di dire ai piccoli: fuggite, fuggite! Vittoria torna poi all’Istituto e vede due suore impiccate, le stesse che si erano opposte all’intimazione dei tedeschi. Enzo Iacchetti commenta come può quella «tristezza», ma poi, come da copione, l’accantona. Con garbo. Lì sul palco salgono le donne di una certa età che provano, per una serata, a fare le «veline». Siamo in una bella piazza italiana, c’è aria da strapaese anche perché ogni concorrente si porta dietro parenti e amici. Il programma, su Canale 5 in prima serata, si chiama Velo-

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ne. Ogni concorrente o balla o canta, poi lo «stacchetto» dopo la performance: imitazione del sinuoso agitarsi delle giovanissime veline, quelle che scommettono sul proprio sedere. Ecco: a sentire quella vicenda raccontata in un contesto così assurdo è roba da brividi. C’è un solo aggettivo cui far ricorso: indecente. Tocca a Maria Luisa, 65 anni, contadina di Sulmona, il cui sogno è da tempo quello di «toccare» Iacchetti. Lì lo può fare perché, assieme al conduttore (a volte teneramente imbarazzato, a volte forzatamente spiritoso), si esibisce nel «tuca-tuca», quel ballo lanciato da Raffaella Carrà. È la volta di Luci, al-

banese, 67 anni. Anche lei racconta la sua dolente storia: nell’87 suo fratello fu arrestato al confine, lei subì le ripercussioni del regime a tal punto da essere costretta a divorziare per evitare i lavori forzati al marito (ma lei lì subì). In Italia, Luci ha trovato il sole della libertà, non quello dell’«avvenire» di marca sovietica. Ma anche tanto cattivo gusto: quello di Mediaset, che ha inquinato molti italiani. A questo punto qualcuno potrebbe obiettare: perché accanirsi sul gioioso outing di donne che magari sono sole, che magari non hanno occasione di stare in mezzo alla gente? Sbagliato: da quello che abbiamo visto, le mature starlet hanno raccontato di avere una vita sociale intensa. D’altra parte a

un’emarginata o a una depressa verrebbe mai in mente di mettersi in fila per una competizione (con tanto di voti) che dura fino a settembre? Proverebbero un’immediata sensazione di vergogna, come la provano le donne che convivono in equilibrio con l’avanzare dei propri anni e sicuramente imbarazzate nel vedere coetanee dimenarsi in minigonna. Il programma è un circolo di perfidia, un insulto con consenso preventivo. «An vedi ‘sta vecchia! E daje, mòvete, buzzicona!»: potrebbe essere questo il commento, o al bar o sul divano di casa. Accanto a Iacchetti c’è la bonazza di turno: Nina Senicar, 22 anni, ex miss Jugoslavia. Il suo curriculum: laureata alla Bocconi (così si legge nel suo sito), fa calendari, compare a Striscia la notizia. Flirt con Eros Ramazzotti. Questa è una parte dell’Italia. Quella che apprezza quei politici quando raccontano barzellette o fanno mo(p.m.f.) struose gaffes.


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poesia

26 giugno 2010 • pagina 21

Stevenson, nostro fratello di Roberto Mussapi l lettore si prepari a un prodigio, se inizia la pagina con queste mie parole, prima di accostare i versi del grande, meraviglioso Robert Louis Stevenson. O, se ha già letto i versi, vi ritorni un istante: qui, in una poesia sull’infanzia, volutamente semplice nel lessico, quanto perfetta nell’alchimia metrica, si sta svelando una verità su un rapporto fondamentale nella storia dell’uomo: quello tra la poesia e l’anima. Tra le parole svelanti del poeta, il suo definire immagini in forme chiuse e perenni, quanto fatte di materia impalpabile, e quell’entità sfuggente ma certa a molti, da Platone, a Plotino, a Jung, che noi chiamiamo Anima. Il lettore abbia pazienza, tra poche righe avrà gli antefatti, la collocazione della lirica nell’opera del suo autore, quella del suo autore nella storia della grande letteratura di tutti i tempi. Mi conceda un salto, non cronologico, ma di campo: da Stevenson, l’autore dell’Isola del tesoro, passiamo a un altro scrittore dell’Ottocento, uno dei poeti massimi, lontanissimo dall’omerico narratore scozzese: Charles Baudelaire. Fermiamoci su un verso folgorante di Baudelaire: Vous, hypocrite lecteur, mon semblable, mon frère, dove hypocrite non va tradotto con l’aggettivo «ipocrita», poiché indica l’attore, chi sta recitando: «Tu lettore recitante, mio simile, fratello».

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Che cosa significa questo strano, paradossale affratellamento tra il poeta e il lettore? Il grande Baudelaire sa benissimo che hypocrite è comunque aggettivo ambiguo, ma lo spinge in una direzione sola, a chi sa intendere: poiché la poesia è «il mio cuore messo a nudo», definizione leggendaria dello stesso Baudelaire, esiste una sola condizione perché agisca, compia l’incantesimo: che il lettore vi si immedesimi totalmente, come un attore (stanislaskiano, aggiungerei oggi, a quel tempo non era necessario). Pensiamo ad Amleto, quando il principe esamina gli attori per la recita a corte: si

il club di calliope

A OGNI LETTORE Come ti vede mamma dal salottino giocare intorno agli alberi in giardino così vedrai, se tu vorrai guardare dalle finestre del libro da sfogliare, molto lontano da te un altro bambino giocare lontano, in un altro giardino. Ma sappi bene che se vorrai bussare alla finestra, non ti potrà ascoltare. Tutto rapito e chiuso nel suo gioco non ti sente né vede neanche un poco. Da questo libro non lo potrai rapire, perché da tanto tempo, devi capire, egli è cresciuto e se ne è andato via, per questo tu non sai bene chi sia: è d’aria, è tutto d’aria quel bambino che indugia ancora in questo giardino.

domanda come abbia fatto il capocomico a immedesimarsi così completamente nel compianto per Ecuba quando per lui, uomo del XVI secolo e non del mito greco e romano, Ecuba non è nessuno. Se non esisti tu e non sei recitante, non sillabi il mio verso, scrive Baudelaire al lettore, io non esisto. Per questo sei mio simile, anzi, in crescendo, fratello. Perché la poesia agisce, compie il miracolo? Perché il lettore vi si riconosce, anche se chi parla è un uomo mai conosciuto, di un altro paese e di un altro tempo. Ma se il lettore si immedesima, se recita con le proprie labbra il verso del poeta, si scopre suo fratello, rende vera, reale, la poesia. Che cosa sarebbe della Divina Commedia se nessuno avesse mai aperto il libro? Attenzione: avere un lettore o un milione di lettori certo è diverso per un poeta (preferirei averne cinquecentomila che cinquemila, tanto per essere espliciti), ma non cambia l’essenza della situazione. Se esiste un lettore esiste il libro, se non c’è un solo lettore il libro è al buio, non parla, non è ancora stato scoperto, non è ancora nato. Ora torniamo a bomba sulla poesia qui presente. È quella che conclude A child’s garden of verses, da me tradotto e curato in italiano per Feltrinelli con il titolo Il mio letto è una nave. Che è il titolo di una poesia centrale per comprendere l’opera, e che i lettori di liberal hanno trovato su queste pagine più di un anno fa. Un compatto canzoniere o poemetto di poesie sull’infanzia, in rima, filastrocche magiche in cui Stevenson rievoca gli anni, in cui, nel giardino della bella casa edimburghese, nacquero i sogni del futuro scrittore. Il piccolo Stevenson era di gracile salute, ma lungi dall’abbattersi se ne infischiava, e trasformava le lunghe ore a casa (la tisi non scherzava) in occasioni per organizzare le prime avventure, escursioni nel giardino che diveniva savana, giochi nella vasca che simulavano partenze e approdi di pirati, evasioni notturne dove si trovava, fuori dalla sua cameretta, al cospetto magnificente del cielo stellato. Tutto il suo mondo futuro si disegna nei giochi d’infanzia, tra i bagliori del camino e le ombre sotto i divani: in queste filastrocche magiche e rapinose noi vediamo già le avventure dei suoi personaggi lanciati verso l’alto mare aperto, ma anche la percezione del «doppio», che porterà al sinistro e profetico racconto di Jekyll e

Robert Louis Stevenson (Traduzione di Roberto Mussapi)

Hyde, non solo, ma pure alla «strana coppia» Jim Hawkins e Long John Silver. È evidente infatti che qualcosa del losco pirata dalla gamba di legno alberga anche nell’animo del giovane che salpa verso l’isola del tesoro, così come Silver non nasconde la sua simpatia per il ragazzo. Stevenson, con grande semplicità, scopre la natura dell’ombra, che intuisce come indizio dell’anima.

E ora, che si sta congedando dal libro illustrato, si rivolge al lettore, un bambino come era lui a quell’epoca: «Guarda tra i versi e le figure - gli dice - e vedrai un altro bambino, simile a te. Ero io. Ma se busserai alla finestra non ti potrà aprire, non lo potrai incontrare, toccare. Eppure è lì. È il bambino che ero io, il poeta, ora adulto, ma in quei versi è ancora lì. È d’aria quel bambino, si è fatto d’aria grazie anche ai miei versi, per passare a te: non puoi toccarlo, perché è già parte di te». Così la poesia mette in comunicazione l’anima degli individui, ne affratella gli afflati e i sogni. «Lettore recitante, mio simile, fratello». Stevenson lo sta dicendo a un bambino, uno che in quelle pagine è ancora egli stesso bambino, mentre da tempo è altrove, e sa bene dove. L’anima individuale non ha sede stabile, la poesia la rende però visibile, piena, generante.

I BAGLIORI DI STEINER SU DANTE in libreria

POLVERE, ERBA

di Loretto Rafanelli

Quanta polvere hai portato varcando la mia soglia. Leggerissima d’estate, quasi bianca, senza peso, raggrumata nell’autunno, greve di graniglia, quasi nera nell’inverno, si colora in primavera, è già pronta a germogliare. Sì, germoglia nella mia stanza! È nata una vita d’erba sotto i tuoi passi, mio fioritore. Rosita Copioli

eorge Steiner collaborò per trent’anni (dal ’67 al ’97) al New Yorker, cioè alla rivista culturale più prestigiosa del mondo. I suoi erano interventi che spaziavano su tematiche di vario tipo: dalla poesia alla storia, dall’arte all’attualità politica. Saggi non solo di una profondità straordinaria, ma «guide» uniche per comprendere libri, personaggi, vicende storiche. Steiner, dall’alto delle sue infinite conoscenze, della sua eccezionale intelligenza, mette in ogni scritto qualcosa di originale, pur partendo da posizioni che paiono semplicemente oggettive. Nel suo ultimo libro, uscito come di solito da Garzanti (Letture. George Steiner sul «New Yorker», 400 pagine, 22,00 euro), c’è una sezione intitolata Italiana, dove il critico scrive di Dante, della nostra nazione, di Garibaldi, dell’arte italiana (Michelangelo, Borromini, ecc.), del caso Moro, di Salvatore Satta, mostrando sempre amore e attenzioni particolari per il nostro Paese. A leggere Steiner si rimane affascinati e si scopre il piacere della lettura, le sue pagine sono infatti avvincenti come un rapinoso romanzo, colme di sorprese, di intuizioni, di bagliori.

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i misteri dell’universo

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MobyDICK

u molti anni fa che in Inghilterra trovai il libro di Heinrich Harrer, Seven years in Tibet, in vendita per pochi pence in uno di quei mercatini, chiamati car boot sales, che il sabato e la domenica delle belle giornate si trovano un po’ dappertutto, con oggetti di ogni tipo disposti sui verdi prati. E le occasioni di trovare cose rare e anche di valore si offrono spesso. Fu quel libro, affascinante come pochi libri di viaggio-avventura del Novecento, a introdurmi al grande alpinista, esploratore e antropologo, morto da non molto a oltre novant’anni di età. Nei suoi ultimi anni, terminate le scalate e i viaggi in zone poco frequentate, si era ritirato sulle montagne della Carinzia dove era nato, nel paesino di Huettenberg, non lontano da Klangenfurt, in una zona ricca di boschi, verdissima, sede di antiche miniere di ferro ora trasformate in un museo, a un migliaio di metri di altezza. Qui viveva in una villetta dal giardino pieno di sventolanti e colorate strisce di stoffa tipiche del Tibet. Qui gli telefonavo alcune volte per avere la sua opinione su certe parole sumere che avevo ritrovato nella geografia del Tibet, e che lui, in particolare riferendosi a Nimush, mi disse che erano comuni in Tibet. Aveva apprezzato i miei lavori sulla geografia dell’Eden e dei viaggi di Gilgamesh (recentemente l’indologo Raniero Gnoli, discepolo di Tucci, avendoli letti, mi ha incoraggiato a farne subito un libro. Proposta che vorrei realizzare ma nell’ambito di una collaborazione con la Fondazione Aga Khan e l’Università del Karakorum a Gilgit).

ai confini della realtà

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erano contenti di passare il tempo nel campo di concentramento, e dopo più di un tentativo riuscirono a fuggire ed entrare nel Tibet il cui accesso era proibito ai bianchi. E in Sette anni in Tibet si ha lo straordinario racconto delle due fasi in cui si svolse la loro esperienza. La prima fu la traversata di una parte del desolato altipiano, alto fra i 5000 e 6000 metri, popolato da pastori di yak e pecore, e da banditi. Soffrirono fame e freddo e solo la loro capacità di arrampicarsi su pendii assai ripidi li salvò almeno in un caso dai banditi. Poi, entrati a Lhasa e venendo protetti da una famiglia nobile, Harrer divenne tutore del giovane Dalai Lama, cui insegnò inglese, matematica, geografia... e lo aiutò nella sua passione per la meccanica, insegnandogli ad aggiustare orologi e anche un’auto, regali del passato e fermi da tempo. E lo accompagnò quando il Dalai Lama fuggì a seguito dell’arrivo dei cinesi in Tibet, le cui tragiche conseguenze sono ben note (distruzione di quasi tutti i templi e biblioteche, sterilizzazione forzata, cambiamento forzato delle coltivazioni locali, arrivo di immigrati cinesi che in futuro potrebbero ridurre a minoranza i tibetani...). Harrer ritornò in Tibet con la liberalizzazione in Cina, dichiarando, nel libro che poi scrisse, che la grande civiltà di un tempo era stata ampiamente cancellata.

Nel Tibet segreto di Heinrich Harrer

Presso la sua villa si trova il Geozentrum, dove non ebbi difficoltà a tenere due volte conferenze sui citati lavori geografici, davanti a un pubblico di geografi e geologi dell’Università di Vienna, il cui commento fu che solo un matematico poteva arrivare a quelle conclusioni. Conferenze la cui proposta fu subito accettata, mentre in Italia la risposta usuale è il silenzio tombale. Non lungi dalla sua casa si trova il Museo Harrer dedicato al Tibet, ricco di materiale da lui donato. Qui sta una sala con la replica del trono del Dalai Lama, inaugurata proprio da questa alta autorità religiosa. Harrer iniziò la sua carriera di conquistatore di montagne inviolate e di esploratore di terre remote quando, appena passato l’esame di laurea in Austria, inforcò la moto e raggiunse tre compagni in Svizzera, ai piedi della parete nord del monte Eiger. Parete inviolata, su cui si erano sacrificati una ventina di scalatori, difficilissima non solo per la sua estensione di oltre 2000 metri in verticale, ma per la pericolosità della roccia, con vaste aree di superficie instabile, oltre che ghiacciata. I quattro ce la fece-

di Emilio Spedicato ro, partendo il 19 luglio e raggiungendo la vetta a 3970 metri il 21 luglio 1938. Ora so che un alpinista della Cecoslovacchia, in un solo giorno, muovendosi da una base all’altra con un elicottero, ha scalato la parete nord dell’Eiger e due pareti nel Monte Bianco e nel Cervino! Ma oggi, a parte la dotazione più sicura, si sa quale strada fare perché più sicura o veloce. Non è più l’esplorazione di una volta, dove la cono-

Quando non fu più giovane, Harrer si dedicò a vari viaggi esplorativi e a imprese minori, ma sempre importanti (come fece anche Walter Bonatti).Andò in Nuova Guinea, nella parte indonesiana, dove fu scoperta una gigantesca miniera di rame puro a 4000 metri di altezza, il cui sfruttamento

Conquistatore di montagne inviolate ed esploratore di terre remote, si è rivelato al grande pubblico con il suo resoconto dei sette anni vissuti sul “Tetto del mondo”. Tutore del giovane Dalai Lama è morto ultranovantenne nel suo paese natale in Carinzia dove si era ritirato, fondandovi anche un museo

Sopra: Brad Pitt nei panni di Heinrich Harrer nel film tratto dalla sua opera “Sette anni in Tibet”; Harrer da giovane e, ormai anziano, col Dalai Lama. Sotto un’immagine di Lhasa

scenza mancava e doveva essere costruita. Dopo l’Eiger, Harrer partì per l’India con l’amico Anstreicher, cercando di essere tra i primi a conquistare l’Everest. Ma nel frattempo c’era stato l’Anschluss, l’Austria era divenuta parte della Germania, e come tedeschi i due furono internati dagli inglesi padroni dell’India. La conquista dell’Everest toccò poi nel 1953 a Hillary e Tenzing - ricordo la copertina della Domenica del Corriere che ne celebrava il trionfo - ma Harrer ebbe poi la soddisfazione di salire sul difficilissimo Naga Parbat (dove Messner perse il fratello...). I due austriaci non

ha avuto tragiche conseguenze ecologiche. Qui rischiò di morire scivolando lungo un canalone. Citiamo poi la sua scalata della più alta montagna nelle isole Andamane, fra India e Malesia, dove vive una delle poche popolazioni primitive (in parte) protette. Montagna di solo 800 metri, coperta di giungla e infestata dalle sanguisughe (note per poter uccidere in pochi minuti un uomo per dissanguamento). Scrisse che fu questa la scalata più difficile della sua vita. E al termine si contarono 108 ferite da sanguisughe sul suo corpo. 108 numero sacro e rituale su cui ritorneremo...


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando,Giuseppe Baiocchi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato,Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza

Rivedere il meccanismo dell’8 per mille alle confessioni religiose La revisione del meccanismo dell’otto per mille del gettito Irpef, almeno nella parte della ridistribuzione delle scelte non espresse, produrrebbe nuove entrate per le casse dello Stato di oltre mezzo miliardo di euro all’anno. Bisogna sicuramente rivedere il meccanismo. I contribuenti che annualmente in sede di dichiarazione dei redditi esprimono la loro preferenza a questa o quell’altra confessione religiosa, sono circa il 40% del totale. Un esempio: nel 2008 l’ammontare dell’otto per mille è stato di euro 948.583.048,73. Le scelte espresse sono state pari al 41,83% del totale dei contribuenti. Col meccanismo attuale, tutta la cifra a disposizione è stata distribuita in due battute: prima il 41,83% (pari a euro 396.792.289,28) a tutti i beneficiari secondo l’indice di gradimento dei firmatari, e poi il restante 58,17% (pari a euro 551.790.759,45), sempre secondo l’indice di gradimento dei firmatari, ma questa volta solo a coloro che hanno accettato la quota non espressa (tutti meno le ADI-Assemblee di Dio in Italia e i Valdesi). Se venisse rivista la formula attuale sulla ripartizione delle scelte non espresse, lo Stato avrebbe reintroitato quei quasi 552 milioni di euro.

Donatella

UN ROBIN HOOD PER LA SANITÀ La sanità è oggi il regno degli sprechi, come dimostra anche la vicenda del vaccino contro l’influenza suina e ha bisogno urgente di un Robin Hood che tolga risorse alle case farmaceutiche e le redistribuisca ai cittadini. Al ministro Fazio chiedo di non pagare gli oltre 84 milioni di euro dovuti dall’Italia alle case farmaceutiche per l’inutile vaccino contro l’inesistente pandemia influenzale, frutto di un colossale raggiro mondiale, proprio mentre la finanziaria taglia le risorse per la sanità, aprire una trattativa sulla somma già impegnata, e destinare i soldi risparmiati a migliorare l’assistenza a decine di migliaia di anziani non autosufficienti. Gli Stati membri dell’Unione europea hanno utilizzato solo il 20% dei prodotti acquistati durante l’emergenza pandemica per un’allarme del tutto ingiustificato con un enorme spreco di denaro pubblico. In Italia sono state acquistate oltre 12 milioni di dosi di vaccino con un impegno di spesa di circa 98 milioni di euro ma risulta che ne siano state somministrate solamente un milione e lo Stato italiano si era impegnato a pagare 184,8 milioni di euro ma 11 milioni di dosi non sono state più acquistate Dunque finora 84,7 milioni di euro non sono stati pagati, fissando la spesa effettivamente sostenuta per i vaccini finora a poco più di 100 milio-

ni di euro e che dunque ciascun cittadino, dal neonato al centenario, ha già pagato 3 euro, per finanziare un campagna di vaccinazione contro una pandemia che non c’è mai stata.

Lettera firmata

IL PENTITISMO È UN TORRENTE IN PIENA La decisione di negare la protezione al pentito di mafia Spatuzza,fa ipotizzare che non si vuole fare luce completamente sulla mafia e le sue stragi del ’92 e del ’93, ma nel contempo pone un paletto al dilagare delle inattendibilità che girano intorno a quel pentitismo che si avvale di troppe garanzie. Lo Stato non se lo può più permettere. Stiamo ottenendo vittorie sia sul campo della mafia che della camorra, arrestando molti latitanti pericolosi, adoperando lo strumento delle intercettazioni in attesa di una opportuna regolazione: se il pentitismo fosse uno strumento garantito al 100% non si avrebbero più dubbi sul periodo nero delle stragi di mafia e forse si potrebbe anche fare a meno delle intercettazioni.

Giacomo

GREEN ECONOMY Obama vuole aprire l’era post petrolio dando una sferzata alla ripresa della green economy, senza però analizzare a fondo la marea di lobby presenti sul terri-

L’IMMAGINE

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LE VERITÀ NASCOSTE

Wellington, villaggio vendesi WELLINGTON. Un investimento per il futuro, una garanzia per una tranquilla e serena vecchiaia. Non la fornisce certo un semplice piano azionario, o una bella villa: con l’equivalente di soli 580mila euro, oggi stesso, potete acquistare un intero villaggio di montagna in Nuova Zelanda, con il pub annesso. Il villaggio di Otira nel mezzo di un parco nazionale nelle Alpi meridionali, completo di stazione ferroviaria, municipio, scuola, pub, 18 case e una popolazione di 40 abitanti che pagano l’affitto, è messo in vendita per un milione di dollari neozelandesi dai proprietari e gestori del pub, i coniugi Bill e Christine Hannah, che lo acquistarono per 80mila dollari 12 anni fa, dopo che ci erano passati per caso e si erano “sentiti dispiaciuti” per il suo stato di abbandono. I coniugi, che hanno superato i 60 anni, hanno detto di non avere piu’ l’energia per gestire il pub e per la manutenzione degli edifici. Chiedono 350mila dollari per il pub, e un milione per l’intero villaggio: «C’è bisogno di qualcuno che lo rilanci.Vi è molto potenziale, con molte opportunità. Sarebbe ideale per una coppia con molta energia e molte idee». Otira, fondato nel 1923, si era sviluppato con la costruzione del tunnel della ferrovia.

torio statunitense, molte delle quali arrivano anche a personaggi della Casa Bianca. La sua nuova America eco-sostenibile, che rispetto ad alcuni Paesi europei si trova ancora molto indietro, deve fondarsi sulle soluzioni tecnologiche di tipo alternativo, che permettono di avere una quantità di energia con costi minori. Il problema resta però il petrolio stesso, perché di soluzioni tecnologiche avanzate in America ne sono state presentate a iosa, e anche da parte di molte note case automobilistiche, ma dal momento che il petrolio rappresenta l’oro nero degli Usa, non si può dall’oggi al domani eliminare una moneta così importante. Forse l’unica strada, in un momento di recessione come questo, è affidarsi alle nuove tecnologie come investimento scientifico del futuro del Pianeta, visto che da quelle parti la ricerca non è tartassata come da noi.

Bruna Rosso

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EVITIAMO IL TRACOLLO DEL SISTEMA PENITENZIARIO

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La cena è servita Leggete attentamente il menù e prenotate sul touch screen il vostro piatto: subito un androide travestito da samurai arriverà al vostro tavolo con la pietanza richiesta. Non siamo in un film di fantascienza ma all’Hajime Restaurant, il primo ristorante giapponese in Thailandia ad aver “assunto” camerieri robot

Il Parlamento e il Governo cercano di superare le molteplici criticità penitenziarie e forte è l’auspicio che il loro impegno conduca presto a risultati tali da rendere meno oneroso il quotidiano svolgimento dei compiti istituzionali della polizia penitenziaria. Il presidente Napolitano segue con grande attenzione le questioni carcerarie. Speriamo che si prenda finalmente atto del momento di estrema gravità del sistema carcerario, che i nostri 37mila colleghi e le loro famiglie sono costretti a vivere, sopportare, subire, anche per le indifferenze mostrate fino ad oggi da tutto l’arco parlamentare. Governo e Parlamento individuino con urgenza soluzioni politiche e amministrative concrete per evitare il tracollo del sistema penitenziario italiano.

Donato Capece, Sappe


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grandangolo Ritrovata una singolare lettera di Adolf Hitler

Futuro Führer cerca Mercedes grigia con gomme bianche. In cambio di Mein Kampf... Dal carcere di Landsberg, dopo il fallito putsch della birreria di Monaco, scrive una missiva a un concessionario (forse ebreo) per avere «qualche migliaio di marchi» da investire nell’acquisto di una berlina di lusso. Come garanzia propone i diritti di un libro scritto da lui, che si avvia ad avere un discreto successo... di Maurizio Stefanini ornano di scena le auto di Hitler. Dal mese prossimo andrà all’asta in Germania una lettera che nel 1924 il futuro Führer aveva scritto a una concessionaria per chiedere un prestito, in modo da poter acquistare una Mercedes 11/40, colore grigio e con le gomme bianche. Un modello per fasce di consumatori decisamente medio-alte: una delle ultime Benz prima della fusione con la Daimler, motore a 6 cilindri da 2860 cc, con 40 cavalli di potenza era in grado di raggiungere gli 80 chilometri orari. Ma costava 18mila marchi. Il momento era particolare. Da una parte Hitler si trovava nel carcere di Landsberg, dove era detenuto dopo il fallito putsch di Monaco. Dall’altra però li aveva avuto il tempo per scrivere il suo libro Mein Kampf, che stava già diventando un best-seller. I diritti d’autore non sarebbe però arrivati che tre mesi dopo, spiegava Hitler nella missiva al signor Jacob Ferlin, proprietario del concessionario. Dunque, nell’attesa, «una somma dell’ordine di qualche migliaio di marchi sarebbe di grande aiuto». La lettera, di cui una copia trattenuta dalle autorità carcerarie è stata ritrovata in un mercatino delle pulci e autenticata dall’Archivio Statale della Baviera, rivela anche che Hitler si atteneva all’antico princiopio del “chi disprezza compra”. «Non posso permettermi una macchina che ogni due o tre an-

T

ni ha bisogno di riparazioni costose», spiegava infatti al signor Ferlin, nel chiedergli se effettivamente la 11/40 aveva un’affidabilità tale da giustificare quel prezzo. Nel dicembre di quell’anno Hitler sarebbe stato poi scarcerato, ma non si sa né se abbia poi effettivamente comprato quel modello, e neanche se Ferlin gli abbia dato il prestito, o comunque risposto. Oltre a ciò, meriterebbe forse di essere chiarito se quel nome Jacob del

Per sincerarsi della bontà dell’acquisto, il leader tedesco scrisse: «Non posso permettermi una vettura fragile» concessionario indica effettivamente un’origine ebraica, come verrebbe da sospettare. Indubbiamente, Adolf Hitler che - dopo aver scritto il Mein Kampf chiede soldi a un ebreo offrendogli come garanzia i futuri proventi del libro è una storia quanto meno singolare. Si sa in

compenso che un volta libero da preoccupazioni finanziarie e alla testa della Germania Hitler si sarebbe scatenato nel soddisfare questa sua passione. Gli storici definiscono la sua collezione come «una vera flotta di automobili con la stella a tre punte», e ogni tanto qualche pezzo di questa collezione non manca di saltare fuori. Nel novembre scorso, ad esempio, fu un miliardario russo rimasto anonimo a acquistare per un numero di milioni di euro non ben quantificato (ma stimabile tra i 4 e i 10), la Mercedes preferita di Hitler da Michael Fröhlich, commerciante di auto d’epoca di Düsseldorf. In effetti, è stato il miliardario a contattare il rivenditore attraverso un mediatore, non senza suscitare qualche scrupolo di coscienza. «Ero combattuto. Alla fin fine si trattava pur sempre dell’auto di quel terribile massacratore», ha confidato alla stampa. E analoghi problemi ha d’altronde rilevato quando si è messo a fare ricerche su internet ed a telefonare agli esperti di tutta Europa: «Nessuno voleva parlarne, un tema spinoso». Alla fine ha però scoperto che l’auto, una Mercedes blu scuro 770 K, dopo la Seconda guerra

mondiale era stata venduta in Austria per duemila marchi tedeschi, e dall’Austria era rimbalzata al museo delle auto Imperial Palace di Las Vegas. Come in un gioco a rimopiattino, dal Nevada la Mercedes era poi tornata in Germania, nella collezione di un miliardario fabbricante di birre di Monaco di Baviera. Ma alla sua morte la vedova l’aveva rivenduta. Alla fine, l’acquirente è risultato un privato, che teneva semplicemente lo storico cimelio in una garage di Bielefeld. Non da solo però: i modelli erano in tutto sei, tra cui uno appartenente all’aiutante di campo di Hitler e un altro al ministro degli Esteri nazista Joachim von Ribbentrop. Con documenti originali e libretto tecnico alla mano le vecchie foto sono state comparate con l’auto, e anche la targa è risultata quella giusta: 1A 148461. Il miliardario russo è allora arrivato col suo jet privato è a comprato tutto. La Mercedes di Hilter se l’è poi portata a Mosca, mentre le altre ha dato l’incarico a Fröhlich di rivenderle. Nel febbraio del 2007 Christie’s pose poi all’asta a Parigi una Union D-Type: una macchina da corsa realizzata nel 1939, e commissio-


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Una carrellata fra le ossessioni di chi ha comandato nazioni ed eserciti

Le manie dei dittatori: dal flauto di Federico II agli scacchi di Napoleone di Massimo Tosti alle piccole chiese nascoste tra il verde rigermogliato delle valli, l’Ave Maria della sera veniva dolcemente a morire sul lago. Le cime scheggiate delle montagne brillavano agli ultimi riflessi crepuscolari e già l’ombra della notte scendeva lieve sui boschi, sugli abituri solitari e faceva accelerare il passo ai viandanti attardati sulla strada delle Giudicarie». Questo è l’incipit di un romanzo d’appendice, pubblicato a puntate (fra il 20 gennaio e l’11 maggio 1910) da Il Popolo di Trento (di cui era direttore Cesare Battisti, il patriota irredentista che sei anni più tardi sarebbe stato impiccato dagli austriaci nel Castello del Buon Consiglio di Trento insieme a Fabio Filzi). L’autore del libro fu invece giustiziato dai partigiani il 28 aprile 1945, davanti al cancello di una villa a Giulino di Mezzegra. Il romanzo si intitolava «Claudia Particella, l’amante del cardinale». Il Popolo nel trasse grande beneficio, con un’impennata delle vendite, ma l’autore – per la verità – non se ne fece mai vanto. «È un romanzo da sartine, à sensation. Mi dicono che ebbe un grande successo. Il che non depone molto a favore della mentalità dei lettori delle appendici nei fogli quotidiani». Nel 1932, nei Colloqui con Emil Ludwig si spinse oltre nel denigrare il romanzo: «La storia del cardinale», disse, «è un orribile libraccio, un libro di propaganda politica». Oratore istrionico e sicuramente persuasivo, Mussolini conservò la passione per la scrittura anche negli anni della dittatura. Collaborò con Gioacchino Forzano alla stesura del dramma Campo di maggio, rappresentato al Teatro Argentina di Roma nel 1930, e poi messo in scena anche all’estero con il nome del duce in cartellone. Ottavio Dinale, un socialista rivoluzionario convertito al fascismo (come Nicola Bombacci, che finì a piazzale Loreto con Mussolini e la Petacci), perse il senso delle proporzioni – dopo aver assistito al Campo di Maggio – e scrisse su Gerarchia questo sobrio commento: «Si chiamò Benito Mussolini, ma egli era invece Alessandro Magno e Cesare, Socrate e Platone, Virgilio e Lucrezio, Orazio e Tacito, Kant e Nietsche, Marx e Sorel, Machiavelli e Napoleone, Garibaldi e il Milite Ignoto». La scrittura – tutto sommato – era una mania inoffensiva. Hitler non scriveva, ma leggeva. In modo assolutamente vorace. aveva messo insieme una biblioteca di sedicimila volumi, e si vantava di leggere un libro ogni notte. Federico II di Prussia (Federico il Grande) era pazzo per la musica. Uno dei figli di Bach lo dipinse in modo irriguardoso:

«D

nata da Hitler per affermare la qualità tecnica e la modernità dell’industria automobilistica tedesca. Costruita in due soli esemplari, quel modello fu l’unico a sopravvivere: portato in Russia, dove fu studiato, e nel 1990 rimesso in sesto da un completo restauro.

Mentre nel 1988 il Comune di Napoli aveva messo all’asta una Alfa Romeo 12 cilindri modello presidenziale, che aveva trasportato Hitler durante il suo viaggio nella città partenopea. Sembra anche che sia ancora esistente la gemella della Mercedes finita a Mosca, e che come l’altra risale al 1941. Presa nel 1945 dai paracadutisti della 101esima Airborne Division Usa al Nido dell’Aquila Berchtesgaden e poi portata negli States, dove

L’auto preferita rimane però la 770 K, che finita la guerra ha iniziato un giro del mondo che l’ha portata fino in Nevada nel 1966 faceva parte della colezione di Tom Barrett, un costruttore dell’Arizona. Ma nel 1973 Barrett concluse di non avere più spazio nei suoi garage, e dunque decise di mettere all’asta 50 auto tutte assieme. La seconda Mercedes 770 k di Hitler sarebbe così finita in Sudafrica. Curiosamente, però, pur maniaco di Mercedes, Hitler una volta al potere si adoperò proprio per creare a quella società il più temibile dei concorrenti. Già nel 1933 convocò infatti il pilota e costruttore di vetture da corsa austriaco Ferdinand Porsche, per incaricarlo della realizzazione di un’utilitaria alla portata delle tasche di tutti i tedeschi. La Opel, rovinata dalla disfatta della Prima guerra mondiale, era infatti divenuta già da quattro anni proprietà della General Motors. «La

‘vettura popolare’ (in tedesco, appunto, Volkswagen) che io concepisco», scrisse Porsche, «non è un’automobilina di misure e prestazioni ridotte, ma una macchina che può entrare in concorrenza con tutte le altre della sua classe. Perché una tale macchina possa trasformarsi in una vettura popolare sono necessarie soluzioni totalmente nuove». Dopo quattro anni di studi ed esperimenti, la società fu infine costituita nel maggio 1937 a opera del Deutsche Arbeitsfront, il Fronte tedesco del lavoro, sindacato unico hitleriano. Porsche diventò il capo e due funzionari del Fronte i direttori. E fu sempre il Fronte a curare la distribuzione delle speciali cedole con cui gli operai potevano prenotare la nuova vettura, che sarebbe costata 5 marchi alla settimana.

Lo scoppio della guerra dirottò però le linee di montaggio verso le esigenze belliche, e ne venne fuori il mitico Kubelwagen: la camionetta tedesca che ben figurò su tutti i fronti. Le uniche 210 Vw civili costruite furono date a funzionari di partito, e chi aveva anticipato i soldi li perse completamente. Dopo il 1945 quello che era rimasto degli stabilimenti fu utilizzato dall’esercito inglese, nella cui zona di occupazione rientravano gli impianti. Ma si trattava di poca roba, e sarebbe stata probabilmente smantellata, se Stalin non si fosse messo in testa di chiederne il trasferimento in Russia, come riparazione di guerra. Pur di non dargli i macchinari gli inglesi dissero che «la produzione di auto degli stabilimenti era indispensabile alle truppe di occupazione», e a quel punto furono costretti a far partire davvero la produzione di Maggiolini in serie. Offrirono a Ford di occuparsene ma l’azienda rifiutò: non gli sembrava che ne valesse la pena. Così, quando l’8 ottobre 1949 il regime di occupazione si concluse, la Volkswagen fu affidata al governo della nuova Repubblica Federale di Germania, che a sua volta la passò al Land della Bassa Sassonia. Da allora il governo regionale è sempre rimasto sia nel pacchetto azionario sia nel consiglio di sorveglianza, malgrado le periodiche rimostranze da parte dell’Unione europea.

«Voi credete che il re ami la musica; no, ama il flauto; se poi credete che ami veramente il flauto, vi sbagliate ugualmente: ama il suo flauto». In realtà Federico suonava il flauto in modo apprezzabile, e prese lezione per molti anni per migliorarsi. Si cimentò anche come compositore, firmando 121 sonate per flauto e cembalo, quattro concerti per flauto e archi, una sinfonia in re maggiore), tre marce militari, quattro libri di solfeggi per flauto, una decina di arie per opere di altri autori. Un catalogo corposo, per un dilettante. Bach (non quel mascalzone del figlio) pubblicò una Fuga tratta da un tema composto dal re di Prussia, al quale dedicò anche una poderosa raccolta organica. Napoleone giocava a scacchi. A differenza del principe di Condé – che la notte prima della battaglia di Rocroi ronfava indecorosamente – Napoleone, alla vigilia degli scontri in campo aperto, sfidava i suoi ufficiali a scacchi, battendoli regolarmente. Che i suoi trionfi fossero legittimati dalle sue capacità strategiche, o da elementi accessori, è arduo da stabilire. Sembra – per dirne una – che l’imperatore perdesse sempre a bocce con Jean-Baptiste Drouet, Maresciallo di Francia, e che un giorno gli domandasse come ciò fosse possibile; «Semplice, Maestà», gli rispose l’altro, sfacciato: «A bocce non si può barare». Anche le dittature – purtroppo – non sono più come quelle di una volta. Degli ultimi si conoscono soltanto vizi deplorevoli legati al denaro e alla foia di accaparramento. Il Times ha stilato una classifica dei Paperoni del potere. Al primo posto figura Kim Jong-il (Corea del Nord) che ha messo insieme 17 palazzi e centinaia di auto. Il satrapo coreano è seguito in classifica dall’ex dittatore filippino Ferdinand Marcos, la cui moglie Imelda aveva una collezione di cinquemila scarpe; da Nicolae Ceausescu, che fece demolire migliaia di case per costruire il Palazzo del Parlamento di Bucarest; da Saparmurat Niyazov, ex presidente del Turkmenistan, che spese 6 miloni di dollari per far costruire una statua rotante placcata d’oro che lo ritraeva; dal mitico ugandese Idi Amin Dada (che disponeva di un harem illimitato); da Stalin, che si spostava su un treno privato (e blindato), amava i palazzi, gli alcolici e i sigari; dall’ultimo Scià di Persia Rezha Palhavi; da Saddam Hussein, che si stava facendo costruire un palazzo degno dell’antica Babilonia; e dall’ex presidente indonesiano Suharto, che aveva accumulato un patrimonio di circa 18 miliardi di euro.


mondo

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Misteri italiani. Celebrati a Bologna, dai familiari delle vittime, i trent’anni della strage del Dc-9 in cui il 27 giugno del 1980 persero la vita 81 persone

Ustica, oltre ogni limite Casini: «Una democrazia normale non può convivere con certi buchi neri della sua storia» di Riccardo Paradisi ulla strage di Ustica, dopo trent’anni e centinaia di udienze processuali, non c’è ancora nessuna verità accertata. Ci sono delle ipotesi, una ragnatela di ipotesi, che si sono sedimentate in questi decenni e che hanno evocato scenari tra loro diversissimi: il cedimento strutturale, piste neofasciste, missili francesi dal mare, battaglie aeree sui cieli italiani tra aviazione nato e libici, persino piste sovietiche, l’ipotesi infine di una bomba piazzata in coda al Dc-9 Itavia, l’aereo partito da Bologna e inabissatosi vicino a Ustica alle 21 del 27 giugno 1980 con 81 persone a bordo.

S

Ora con la richiesta della procura di Roma a Francia e Stati Uniti su eventuali notizie relative al traffico aereo militare nello spazio al largo di Ustica, si riaffaccia la speranza che qualche elemento di novità e di verità possa riemergere. Perché sono passati trent’anni ma Ustica è una ferita ancora aperta e certo non è bastata per chiuderla la sentenza pronunciata dalla Prima Corte d’Assise d’Appello di Roma che cinque anni fa ha mandato assolti, dall’accusa di alto tradimento e depistaggio, l’ex Capo di Stato maggiore dell’aeronautica Lamberto Bartolucci e il suoi vice Franco Ferri. Si spiega con questa esigenza di tenere alta l’attenzione e la memoria la serie di iniziative che l’associazione dei parenti delle vittime di Ustica ha aperto con una giornata di studi a Bologna in memoria della strage. Iniziativa dove sono intervenuti Pier Ferdinando Casini, che in qualità di ex vicepresidente della commissione Stragi ha partecipato con un contributo esterno, Walter Veltroni e Beppe Pisanu, di cui è arrivato un messaggio. È stato lo stesso Veltroni ad aprire le celebrazioni bolognesi parlando di un’impossibilità di dimenticare Ustica. Una strage paradigmatica, una vicenda piena di depistaggi, occultamenti, segreti. Ma è una storia quella di Ustica che oggi è possibile chiarire secondo Veltroni: «Ci sono testimonianze rilevanti, c’è un affermazione del presidente Napolitano che ha parlato della strage dentro il contesto di un intrigo interna-

zionale con opacità dei corpi dello Stato. Da parte di organismi internazionali potrebbero arrivare contributi rilevanti». Casini non ha certezze: «Non mi piacciono le dietrologie né le ipotesi fantasiose, ma una democrazia normale non può convivere con pagine buie come

do del Dc9 Itavia. Per lui non c’è stato nessun missile; nessun coinvolgimento di Francia e Stati Uniti «che ci hanno risposto 66 volte ed è stato appurato che quella sera non avevano né aerei né navi». La realtà è però quella che sostiene Giovanni Pellegrino, ex presidente della

Un mistero, quello del massacro, intorno a cui ruotano ancora solo ipotesi. La più improbabile, tenuta in piedi per anni, è quella del cedimento strutturale che ha fatto fallire la compagnia Itavia quelle di Ustica. Per questo è doveroso continuare a cercare la verità anche chiedendo collaborazione a stati e nazioni a noi amiche oltre che piena collaborazione agli apparati dello Stato». Un pensiero Casini lo dedica all’associazione delle famiglie delle vittime: «Sono stati i testimoni scomodi e spesso disarmati di una vicenda che se non fosse stato per il loro impegno sarebbe già stata archiviata. Si deve alla loro sacrosanta tenacia se Ustica non è finita nell’oblio». Contemporaneamente in un dibattito televisivo il sottosegretario Carlo Giovanardi esprime invece una convinzione: una verità c’è secondo lui, è quella della bomba a bor-

commissione parlamentare sul terrorismo e sulle stragi. La verità è che a distanza di 30 anni l’unica certezza sulla Strage di Ustica è l’assenza di risposte su cosa sia realmente successo la notte del 27 giugno 1980: «Le consulenze tecniche - dice Pellegrino - diedero risultati deludenti. In questa situazione, l’inchiesta giudiziaria a lungo languì e quando ad anni di distanza si risvegliò in realtà era tardi per fare luce sull’accaduto. Resta un mistero e io invidio chi davanti a un quadro così confuso si fa depositario di certezze». Ustica resta dunque un mistero. Un mistero intorno a cui ruotano ancora solo ipotesi. La più consolatoria e la più improbabile è

quella dell’incidente. Secondo questa tesi il Dc 9 Itavia in volo da Bologna a Palermo alle 20,59 del 27 giugno sarebbe precipitato in mare in seguito a un cedimento strutturale. È la stessa tesi che pochi giorni dopo la tragedia il ministro della difesa Lelio Lagorio riferisce al senato fornendo semplicemente la versione ufficiale delle autorità aeronautiche. Il 3 luglio viene presentata una mozione sottoscritta da tutti i gruppi parlamentari, (con la sola esclusione del Msi) in cui si chiede la revoca delle concessioni alla società aerea. La tesi del cedimento strutturale resta in piedi tre anni fino a quando non perde di rilevanza di fronte a quella ben più credibile di un’e-

splosione. Solo che senza l’esame e la perizia del relitto non è possibile chiarire le vere cause del disastro. Le operazioni di recupero del Dc9 cominciano nel giugno del 1987.Viene recuperato il 70% del velivolo i cui resti, ricostruiti, vengono concentrati in un hangar di Capodichino Nel marzo dell’89 i periti della Commissione Blasi che hanno analizzato i resti dell’aereo seppelliscono definitivamente l’ipotesi già screditata del cedimento strutturale, e concludono che il Dc9 è stato abbattuto da un missile.

Nel maggio del 1990 però due dei componenti la Commissione propongono l’ipotesi della bom-

Parla il giudice Rosario Priore che per la prima volta traccia il quadro geopolitico di quel periodo

Le verità «indicibili» della strage di Pierre Chiartano l giudice Rosario Priore è colui che ha istruito una parte del processo per la strage di Ustica. Più di tanti ha letto e valutato carte, documenti e testimonianze. È forse l’unico magistrato in Italia che si sia messo a studiare la geopolitica della guerra fredda. Non riusciva a capire i frammenti di verità che emergevano in un aula processuale, se non inquadrati in una realtà più ampia, quella degli equilibri internazionali. Non sempre così chiari e distinguibili. Una realtà sempre negata per interessi ideologici e di contingenze politiche. Uno scenario che la politica italiana ha sempre voluto tenere celato per

I

ignavia, insipienza e tornaconto. «La strage di Ustica è un caso coperto dall’omertà internazionale», aveva affermato pochi giorni fa durante la presentazione del libro intervista, scritto con Giovanni Fasanella, Intrigo Internazionale. A far

deral aviation administration (Faa) e del National trasportation safety board (Ntsb) avevano collaborato con Priore per leggere con esattezza i tracciati radar. È il famoso scenario da guerra aerea in quella disgraziata estate del 1980. Chi aveva interesse ha sempre soffiato sulle teorie del «doppio Stato», la realtà invece era spesso celata dal concetto di «doppia lealtà». Poi una male intesa cultura della fedeltà ha fatto in modo che lealtà internazionali e lealtà di bottega si mischiassero, per creare quella melassa che è la materia di ogni operazione di mascheramento della verità. Nella società della comunicazione è difficile tenere un

Il magistrato italiano che istruì il processo: «L’eccidio di quella notte è un caso coperto dall’omertà internazionale, per celare questioni scomode» esplodere l’aereo non fu né un cedimento strutturale, né una bomba. L’esplosione del Dc – 9 fu provocato da una causa esterna, molto «probabilmente fu colpito da un missile».Tecnici americani della Fe-


mondo

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Nella foto grande il relitto del Dc-9 Itavia Qui a sinistra il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini, l’ex segretario del Pd Walter Veltroni e il presidente della Commissione antimafia Beppe Pisanu. Sotto il giudice Rosario Priore

Luigi Cipriani, deputato di Dp componente la commissione stragi all’epoca dei fatti – i servizi d’oltralpe dovevano cancellare l’idea che a colpire il Dc9 Itavia fosse stato un missile lanciato dalle portaerei francesi Foch e Clemenceau che stavano facendo esercitazioni con un aereo bersaglio. Tesi che pochi giorni dopo la strage accreditava anche il quotidiano inglese Evening Standard: un missile lanciato dalla portaerei sarebbe entrato in sintonia col segnale emesso dal Dc9 e l’avrebbe abbattuto. I francesi però smentiscono tutto e sostengono che la portaerei ba. Una certezza – e resterà l’unica – almeno adesso esiste: il Dc9 non è venuto giù da solo, lo ha abbattuto un missile o l’esplosione in volo di un ordigno piazzato a bordo. Ma è solo l’inizio di una nuova e più insidiosa girandola di ipotesi, allusioni, depistaggi, ricostruzioni letterarie o cinematografiche. Già all’indomani della tragedia del resto, alle 15,00 del 28 giugno 1980, era giunta alla redazione romana del Corriere della Sera una telefonata di sedicenti elementi dei Nar che spiegava la strage di Ustica come un incidente capitato a Marco Affatigato – un esponente dell’organizzazione terroristica neofascista – rimasto vittima dell’esplosione di una bomba

che portava con sé e che avrebbe dovuto utilizzare per un attentato da mettere a segno a Palermo. La telefonata si rivelò immediatamente come un falso, anche perché Affatigato si affrettò a rassicurare i parenti di essere vivo e vegeto e di non essere mai stato imbarcato, ovviamente, su quell’aereo. Latitante in Francia e confidente del servizio segreto francese oltre che bersaglio mobile dei suoi ex camerati che lo considerano un infame, Affatigato secondo certi ambienti sarebbe stato la testa di turco dei servizi francesi interessati ad accreditare l’ipotesi della bomba a bordo. Motivo? Secondo i sostenitori della “pista francese”– tra cui, il più accanito

segreto: il trucco è nasconderlo in mezzo a mille ”mezze verità”o a falsità palesi. Le tracce radar «dimostrano che l’aereo non viaggiava solo» afferma il magistrato. E quella notte, nei cieli del Mediterraneo era in corso una guerra. Chi colpì il Dc-9 dell’Itavia lo fece per errore. L’obiettivo era colpire gli altri aerei che viaggiavano in quel momento sulla scia del Dc – 9 per nascondersi ai radar. E qui ritornano le dichiarazioni fatte dal leader Gheddafi, pur con le cautele del caso: «volevano uccidere me quella volta». Utile per capire bene questa storia è spiegare che «il golpe di Gheddafi per rovesciare re Idris fu pianificato in Italia in un albergo d’Abano Terme con l’aiuto dei nostri servizi segreti» aggiunge Fasanella a liberal. Un “colpo” che cambiò profondamente gli equilibri geopolitica di quell’area. Chi perse molto furono francesi e inglesi che, dai tempi di F. D. Roosevelt, Washington voleva buttare fuori del Medioriente in qualità di Stati colonialisti. Il missile fu lanciato da caccia che viaggiavano lungo una traiettoria parallela al Dc -9. «Ma in sede giudiziaria –

in Europa. Questa versione si rivelerà presto un depistaggio ma si puntella col fatto che sui monti della Sila, nel luglio, 1980 viene ritrovato un Mig libico con il cadavere del pilota. Il problema però è che il Mig – per avvalorare questa tesi – dovrebbe essere precipitato la sera del 27 giugno, insieme al Dc9 dell’Itavia. A complicare tutto sono i periti medici che eseguono l’autopsia sul cadavere del pilota. Questi, in un primo tempo, dichiarano che la morte dell’aviatore risale a pochi giorni prima – metà luglio – il ritrovamento del Mig, versione che corri-

«Io invidio molto – sostiene l’ex presidente della Commissione terrorismo e stragi Giovanni Pellegrino – chi davanti a un quadro così confuso si fa depositario di certezze assolute» Clemenceau era rientrata in porto la mattina del 27 giugno. Nell’ottobre del 1986 Dany Aperio Bella sul Messaggero rilancia questa ipotesi salvo poi ritrattarla alcuni giorni dopo sullo stesso giornale. Dove stavolta accredita la tesi secondo cui a buttare giù per errore il Dc9 sarebbe stato in realtà un caccia dell’aviazione di Gheddafi che stava inseguendo un Mig libico pilotato da un pilota traditore che tentava di riparare

spiega Priore – non abbiamo mai potuto accertare di che nazionalità fossero». Ma che a Parigi sappiano più di quanto abbiano fino ad oggi ammesso, trapela da alcune indiscrezioni. Il Dc – 9 partì da Bologna. Sorvolò gli Appennini trovando «un cimitero di radioassistenze» come si deduce dalle registrazioni del voice recorder del volo Itavia. Passò sopra il Mar Tirreno sotto il controllo del radar militare di Poggio Ballone (Trota), una sottostazione del 12mo Centro radar aeronautica (Puma). In prossimità della Toscana, i radar segnalarono due caccia militari, che però sparirono quasi subito. Non erano i caccia attaccanti, ma erano quelli

sponde a quella dell’Aeronautica e dei carabinieri. Poi invece, in un secondo momento, dicono di avere avuto un ripensamento e che la morte del pilota libico poteva certamente risalire al 27 giugno, la sera della strage di Ustica. Un quadro che si complica sempre di più e che rende a ogni passo più intricato il ginepraio che nasconde la verità su Ustica. Da parte sua anche il colonnello Gheddafi contribuisce a confondere le acque, di-

che dovevano prendere la scia del Dc-9 per sfuggire alla difesa aerea. Il radar – specialmente allora – non era così preciso da “discriminare” due tracce molto vicine. Un fattore ben conosciuto dai piloti militari. Proprio il radar di Marsala è uno dei punti cardine per capire bene i movimenti degli aerei in scia al volo civile e quelli che avanzavano parallelamente ad esso. Il processo su questo punto non ha prodotto «sufficienti elementi di prova» spiega Priore. Uno di questi ad un certo punto virò e si mise frontalmente all’aereo, in posizione d’attacco secondo le tesi del magistrato. Poco dopo il Dc- 9 esplose. Ci sono ancora 81 vittime, senza una verità.

chiarando che l’obiettivo da colpire la sera del 27 giugno non era il Dc9 ma lui stesso.

Nel marzo del ‘93 intanto, dopo che i periti della commissione Blasi si sono divisi sulla versione del missile e quella della bomba, al meccano mostruoso di teorie e teoremi su Ustica se ne aggiunge un altro. Un elemento che dentro il partito del missile va a confortare la tesi di chi sostiene siano stati gli americani a colpire per errore il Dc9 Itavia. Alexj Pavlov, un ex colonnello del Kgb, rivela addirittura al Tg1 che il Dc9 è stato abbattuto da missili americani e che i sovietici avrebbero visto tutto da una base militare supersegreta nascosta nei pressi di Tripoli. I dubbi su questa versione però sono immediati, anche perché è difficile credere a un super-radar che da Tripoli inquadra un missile a 800 kilometri di distanza. Da parte loro gli americani dichiarano una totale estraneità ai fatti: la Saratoga dicono – la portaerei Usa in stanza nel Tirreno – il 27 giugno del 1980 era in rada nel golfo di Napoli. Nessun aereo militare da combattimento americano era in volo quella notte. Nessun aereo americano ha abbattuto il Dc9. Accanto a quella del missile corre parallela una pista assai meno battuta. È la pista della bomba piazzata nella coda del Dc-9. Nel gennaio del 1994 però – dopo che 4 anni prima, nel maggio del 1990, altri periti si erano espressi nello stesso senso – in una riunione a porte chiuse nell’hangar di Pratica di Mare, dove è stato sistemato il relitto del Dc-9, i periti, tra cui Charles Taylor che ha svolto le indagini su Lockerbie inchiodando i libici, sostengono la tesi della bomba. Quanto alla connessione con la strage di Bologna Taylor aggiunge che «due bombe in poche settimane l’una dall’altra sono sospette». Bombe che potrebbero condurre nel cuore della strategia terroristica araba. In quel 1980 arrivano all’Italia minacce molto concrete di attentati dopo che con la svolta Cossiga la penisola smette di essere un porto franco per i traffici d’armi delle organizzazioni mediorientali. Oggi dalla Francia è già arrivata una disponibilità alla collaborazione. Segnali positivi sono arrivati anche dagli Stati Uniti. Non altrettanto ha fatto la Libia.


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pagina 28 • 26 giugno 2010

Islam. Cambio di strategia nel mondo del fondamentalismo musulmano a lunga deposizione resa da Faisal Shahzad, il presunto attentatore di Times Square, mina da sola tutti i tentativi dell’amministrazione Obama di ignorare i pericoli dell’islamismo e del jihad sia dentro casa che su scala globale. Le dichiarazioni di Shahzad spiccano perché i jihadisti, per controbattere le accuse, in genere salvano la pelle dichiarandosi innocenti o patteggiando. Prendiamo in esame alcuni esempi: • Naveed Haq, che ha sferrato un attacco contro l’edificio che ospita la Jewish Federation a Seattle, ha protestato la propria innocenza a causa della sua infermità mentale; • Lee Malvo, uno dei cecchini del mondo politico americano ha spiegato che «uno dei motivi per sparare era che la gente bianca aveva cercato di far del male a Louis Farrakhan». Il suo socio John Allen Muhammed si è detto innocente fino alla camera della morte; • Hasan Akbar ha ucciso due soldati americani mentre dormivano in una zona militare, per poi dire alla corte: «Vorrei scusarmi per l’attacco. Mi sembrava che la mia vita fosse in pericolo, e di non avere altra scelta. Vorrei anche chiedervi perdono»; • Mohammed Taheri-azar, che ha cercato di uccidere alcuni studenti della University of North Carolina investendoli con un’automobile e ha pronunciato una serie di farneticamenti jihadisti contro gli Stati Uniti, in seguito ha avuto un ripensamento, dicendosi «assai pentito» dei crimini commessi, e ha chiesto di essere rilasciato in modo da poter «ristabilirmi (in California, ndr) da bravo, altruista e produttivo membro della comunità»; Questi sforzi si inseriscono in uno schema più ampio di mendacità islamista; rara-

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Il terrorismo spiegato agli Usa. Da Shahzad La deposizione dell’attentatore di Times Square è un manuale sul jihad di Daniel Pipes

newyorkese il 21 giugno scorso. Le risposte alle innumerevoli domande inquisitorie date al giudice Miriam Goldman Cedarbaum (del tipo «E dov’era la bomba?», «Che ne ha fatto della pistola?») hanno offerto uno sconcertante mix di deferenza e disprezzo. Da un lato, egli ha risposto educatamente, con calma, con pazienza e

«Sono un mujaheddin, un soldato musulmano. Faccio parte di una comunità. E proverei altre cento volte ad attaccare gli Stati Uniti» mente un jihadista è fermo nelle proprie convinzioni. Zacarias Moussaoui, il presunto ventesimo dirottatore dell’11 settembre è arrivato vicino: i dibattimenti giudiziari che lo riguardavano sono iniziati con il suo rifiuto di ammettere la propria colpevolezza (che il giudice ha tradotto in “non colpevole”) per poi un bel giorno dichiararsi colpevole di tutte le accuse. Il trentenne Shahzad ha agito in modo insolito durante la sua apparizione davanti a una corte federale

in modo esauriente alle domande sulla sua condotta. Dall’altro lato, Shahzad con lo stesso tono di voce ha giustificato il suo tentativo di strage a sangue freddo. Il giudice, verificato che l’imputato era pronto a dichiararsi colpevole per tutti i 10 capi di imputazione, ha chiesto all’uomo: «Perché vuole ammettere la sua colpa?». Il che è una ragionevole domanda vista l’alta probabilità che le sue ammissioni lo terranno per parecchi anni in galera. Shahzad ha repli-

Chi è l’uomo che voleva colpire New York

Faisal, che odia l’Ovest Faisal Shahzad è un pakistano-americano di religione musulmana, al momento sotto accusa dopo aver confessato di essere l’autore del fallito attentato del primo maggio a Times Square. Apparso davanti alla Corte di New York non ha proferito parola e non ha chiesto la grazia: è destinato dunque, se ritenuto colpevole, al massimo della pena. Shahzad è stato naturalizzato cittadino americano, ma è nato nel Kashmir. È il più giovane di quattro fratelli, e si dichiara orgoglioso della sua appartenenza etnica pashtun. Viene da una famiglia facoltosa e ben educata: il padre, Baharul Haq, vive in un sobborgo residenziale di Peshawar. Era un ufficiale maggiore dell’aeronautica militare, andato in pensione con il grado di gene-

rale con due stelle. Il figlio ha studiato in Arabia Saudita e poi in Pakistan, dove si è diplomato in composizione inglese e micro-economia. In una mail inviata prima del fallito attentato, nel 2006, Shahzad scriveva: «So che l’islam proibisce l’uccisione di innocenti, ma voglio chiedere a chi pratica la protesta pacifica: come si salvano gli oppressi? Come si possono ignorare i missili inviati contro di noi, che spargono sangue musulmano e innocente? Sappiamo tutti che le nazioni islamiche non fanno altro che inchinarsi alle pressioni delle nazioni occidentali. Tutti conoscono le innumerevoli umiliazioni che stiamo affrontando intorno al pianeta». Proprio contro l’umiliazione, scrive, «ho preparato un piano».

cato esplicitamente: «Desidero ammettere la mia colpa e lo farei cento volte ancora perché – fino a quando gli Stati Uniti non ritireranno le proprie truppe dall’Iraq e dall’Afghanistan, non fermeranno i drone strikes in Somalia, in Yemen e in Pakistan, non porranno fine all’occupazione delle terre musulmane, non smetteranno di uccidere i musulmani e finché seguiteranno a fare rapporto contro i musulmani al loro governo – noi attaccheremo (gli Usa, ndt) e io mi confesso reo di ciò».

Shahzad ha continuato a descriversi come uno che ribatte alle azioni militari americane dicendo: «Faccio parte della risposta agli Usa che terrorizzano le nazioni musulmane e il popolo musulmano. Io vendico i loro attacchi»; e ha poi aggiunto: «Noi musulmani siamo una comunità». E non è tutto: l’uomo non ha esitato ad asserire che il suo obiettivo era quello di danneggiare gli edifici e di «recare danni fisici alle persone o di ucciderle» perché «devono capire da dove vengo, perché (…) mi considero un mujaheddin, un soldato musulmano». Quando il giudice Cedarbaum ha sottolineato che i pedoni presenti a Times Square in quel tardo pomeriggio del primo maggio non stavano attaccando i musulmani, Shahzad ha così replicato: «Beh, il popolo (americano, ndt.) elegge i proprio il governo. Li consideriamo tutti alla stessa stregua». Il suo commento evidenzia non solo che i cittadini Usa sono responsabili del loro governo eletto democraticamente, ma anche della visione islamista che gli infedeli, per definizione, non possono essere innocenti. Per quanto aberrante, questa filippica ha il merito di essere veritiera. La disponibilità mostrata da Shahzad a rivelare i suoi propositi islamisti ed a trascorrere parecchi anni dietro le sbarre in nome di questi propositi, va contro i tentativi dell’amministrazione Obama di non dire apertamente che l’islamismo è un nemico, preferendo zoppe formulazioni come “operazioni d’emergenza all’estero”e“disastri causati dall’uomo”. Gli americani come pure gli occidentali in genere, tutti i non-musulmani e i musulmani non-islamisti dovrebbero prestare ascolto all’esplicita dichiarazione di Faisal Shahzad e accettare la dolorosa verità che la rabbia islamista e le aspirazioni motivano davvero i loro nemici terroristi. Non tenere conto di questa verità non la farà certo sparire.


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26 giugno 2010 • pagina 29

Rimossa nella notte dalla città natale del dittatore sovietico

Hanno riattraversato il confine che li divide dall’Uzbekistan

E la Georgia sfrattò pure la statua di Stalin

Kirghizistan, oltre 70mila profughi tornano a casa

TBLISI. Le autorità comunali l’hanno rimossa a sorpresa, di notte, per evitare proteste popolari: è sparita così, protetta dalla polizia e nascosta dentro un grosso camion, l’enorme statua in bronzo di Stalin che troneggiava dal 1952 nella piazza principale di Gori, proprio di fronte al municipio della città natale del dittatore sovietico. Era uno dei pochi monumenti sopravvissuti del “padre di tutti i popoli”, sicuramente il piu’ grande e il piú simbolico. Finirà nel cortile del museo cittadino che finora ha continuato a glorificare il tiranno, esibendone documenti, suppellettili, oggetti personali, tra cui gli stivali e la sua inseparabile pipa. Al suo posto, invece, verrà eretto un monumento ai caduti georgiani della guerra lampo dell’agosto 2008 per l’Ossezia del sud contro i russi “invasori”.

TASHKENT. Migliaia di profughi tornano alle loro case, dopo essere fuggiti in Uzbekistan per le violenze esplose dal 10 giugno nel sud del Kirghizistan. Intanto il governo provvisorio conferma che domenica si voterà il referendum per la nuova Costituzione. Fonti delle Nazioni Unite parlano di circa 70mila profughi che hanno riattraversato il confine con l’Uzbekistan. Ma altre centinaia di migliaia preferiscono restare nei campi-profughi uzbeki, mentre non è possibile fornire dati sugli ancor più numerosi sfollati che erano rimasti in Kirghizistan, che nei giorni scorsi sempre l’Onu aveva indicato essere altre centinaia di migliaia. Molti spiegano che

Un conflitto che colpì duramente Gori, piccola cittadina 80 km a ovest della capitale, dove le bombe russe sfiorarono anche la statua di Baffone. Il ministero georgiano della cultura ha già annunciato un concorso per la realizzazione del memorial, ennesimo schiaffo a Mosca, che considera responsabile di quella guerra Tbilisi. Il movimento giovanile filoputiniano Nashi e’ stato il primo a

I due presidenti in lotta per l’Iran Il capo del Parlamento all’attacco di Ahmadinejad di Antonio Picasso n Iran continua lo scontro al vertice fra il Presidente della Repubblica, Mahmoud Ahmadinejad, e lo Speaker del Parlamento (la Majlis), Ali Larijani. Il campo di battaglia questa volta è l’istruzione universitaria, particolarmente cara al regime. In un Paese in cui l’età media della popolazione (67 milioni di abitanti) è inferiore ai 30 anni, l’establishment è particolarmente attento alla preparazione professionale dei giovani. Con una micro-riforma Ahmadinejad ha cercato di mettere mano all’università di Azad, la più importante del Paese, composta da 357 corsi di laurea, ai quali sono iscritti 1,3 milioni di studenti. Questo fiore all’occhiello della cultura irano-persiana è stato fondato nel 1982 con sovvenzioni private. Una grossa devoluzione è giunta dall’ex Presidente e Grande Ayatollah Akbar Rafsanjani. In cambio il rettorato si è sempre schierato dalla parte di questo influente e ricco oppositore di Ahmadinejad. Adesso quest’ultimo ha cercato di inserire nel board dell’ateneo alcuni suoi uomini di fiducia, affinché ne controllassero la linea politica, l’impostazione didattica e anche il bilancio. Il Capo dello Stato iraniano avrebbe così tentato di chiudere un importante bacino di propaganda per Rafsanjani, ma soprattutto avrebbe avviato la procedura di statalizzazione dell’ateneo, assumendosene il controllo gestionale.Tuttavia la sua mossa è stata bloccata dal Majlis, che ha bocciato la proposta di riforma. Il Parlamento di Teheran si è messo di traverso non tanto per appoggiare Rafsanjani, bensì perché pressato da Larijani. La giustificazione è stata che Ahmadinejad avrebbe utilizzato già in passato parte dei fondi destinati all’istruzione per finanziare la propria campagna elettorale. La decisione ha suscitato malumori presso le istituzioni e manifestazioni in favore del Presidente. A un anno dalle discusse elezioni presidenziali e dopo il fallimento della rivoluzionaria “Onda verde”, in Iran è in corso una faida personalistica fra i leader del regime. Confermato Presidente, Ahmadinejad

I

sembra non aver dato soddisfazione a chi lo aveva aiutato nel suo precedente mandato. Larijani in primis. L’anno scorso la sua posizione di visibilità internazionale e di potere come ministro degli Esteri non è stata confermata. Uomo di punta del clan che porta il suo nome, Larijani si è dovuto “accontentare”di presiedere il Parlamento. Promuovendolo a livello istituzionale ma sottraendogli una grossa percentuale di potere esecutivo, Ahmadinejad si era illuso di aver emarginato un avversario che non ha mai nascosto l’ambizione di sostituirlo. Larijani peraltro non si è mai scontrato con nessuno del Consiglio dei Guardiani.

Cosa che, invece, è successa ad Ahmadinejad. Anzi, negli ultimi dodici mesi è emerso più volte il dubbio che la stessa Guida Suprema, Ali Khamenei, si fosse improvvisamente stancato dell’attuale presidente. Al di là delle supposizioni, Teheran sta vivendo uno stillicidio che ha portato temporaneamente all’emarginazione di Mir Hossein Mousavi e Mehdi Karroubi. La bocciatura di Ahmadinejad alla Majlis, tuttavia, offre lo spunto per chiedersi se la stabilità del regime sia oggi reale. È difficile che Larijani sia riuscito a bloccare il governo senza aver preso accordi con altri oppositori silenziosi. Magari con gli stessi Mousavi e Karroubi. È vero, sono stati esclusi da tutte le cariche pubbliche, ma la loro libertà personale non è stata violata. Possibile quindi che Larijani si stia avvicinando ai riformisti? La rivoluzione troverebbe nuovo ossigeno. C’è poi una seconda opzione. Teheran in questo momento ha due obiettivi: il nucleare e l’uscita dalle secche delle sanzioni Onu. Produrre energia nucleare per fini civili e rallentare momentaneamente i progetti militari potrebbe essere un valido compromesso. Tuttavia gli ayatollah devono saper anche offrire un capro espiatorio per ottenere nuova credibilità a livello internazionale. Chi meglio di Ahmadinejad, in nome dell’intero regime, potrebbe giocare questo ruolo?

Teheran oggi ha due obiettivi: il nucleare e l’uscita dalle secche delle sanzioni Onu. E Mahmoud è divenuto sacrificabile…

reagire: «Una strumentalizzazione della realtà». Ma anche a Gori e in tutta la Georgia sono già scoppiate le prime polemiche. Il partito comunista è rimasto scioccato: «Il prestigio della nazione può cadere agli occhi del mondo intero, come si è potuto fare una cosa del genere con l’uomo che ha salvato il pianeta?», si è chiesto il segretario del partito Soò Gagoshvili. Molti i nostalgici pronti a scendere in piazza, in gran parte anziani e veterani: «Stalin fa parte della nostra storia, perché decidono di toglierlo ora?», sbotta Vladimir Kalakashvikli, 74 anni. Dissente il giovane Vaia Begashvili, 33 anni: «È una buona decisione».

tornano a casa per paura più che per speranza: per riunirsi ai familiari rimasti a difendere le loro poche cose, per cercare persone da cui sono rimasti divisi nei primi drammatici giorni. A Osh e nelle città vicine permane l’incertezza: fonti locali dicono che ancora ci sono aggressioni alla comunità uzbeka. Nei primi giorni di questa settimana esercito e polizia hanno rastrellato le abitazioni degli etnici uzbeki nella zona di Osh, hanno sequestrato armi e portato via chi si opponeva.

Sin dall’inizio gli etnici uzbeki hanno accusato le forze dell’ordine di avere fatto poco per impedire le aggressioni perpetrate da etnici kirghisi. L’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa nei giorni scorsi ha chiesto l’invio di una forza di sicurezza internazionale nel Kirghizistan meridionale, ma il Consiglio di Sicurezza dell’Onu non ha adottato alcuna iniziativa, nonostante ammetta sia elevato pericolo di nuove violenze diffuse. Soprattutto la Russia appare contraria all’invio di forze Onu in un territorio già dell’Unione Sovietica e con il quale mantiene un rapporto privilegiato. Il governo vuole tenere il referendum del 27 giugno.


pagina 30 • 20 marzo 2010

il personaggio della settimana Il suo rapporto diretto con Calderoli serve anche a riequilibrare l’asse Bossi-Tremonti

L’insostenibile leggerezza del prete-ministro Dopo giorni di polemiche, interviene il Quirinale: «Essendo senza portafoglio, non ha diritto al legittimo impedimento». Ritratto dell’uomo sul quale si sta creando un incidente istituzionale di Francesco Pacifico

iulio Napolitano gli ha intimato di presentarsi in tribunale. Domenica scorsa a Pontida il suo nome era quasi impronunciabile. Ma ogni padano che si rispetta avrà sempre nel cuore Aldo Brancher. E terrà bene a mente le parole che Silvio Berlusconi pronunciò ad Assago alla fine del 2000. Il Cavaliere fece sorridere e intenerire la scalmanata platea di militanti ricordando che qualche anno prima era ad Arcore con mamma Rosa, quando arrivò tutto trafelato Brancher, per avvertirlo che si stava recando dal Senatùr. «E io con l’Umberto non ci parlavo da due anni. Poi intervenne la madre e si rivolse ad Aldo: ”Porta un bacio al Bossi e digli che è da parte della mamma del Berlusconi...».

G

Riconoscimento non da poco a uno che a 20 era prete e studiava sociologia, a 30 piazzava la pubblicità per Famiglia Cristiana, a 40 faceva il lobbista per la Fininvest e a quasi 70 è ministro. Infatti quello era il congresso della Lega che cancellò in un weekend anni di insulti e bassissime insinuazioni seguiti al ribaltone del 1994. Che annunciava al mondo che di lì a pochi mesi il Polo delle Libertà e la Lega, di nuovo assieme, avrebbero rioccupato Palazzo Chigi. Che nasceva l’asse del Nord, del quale Brancher è uno dei guardiani. E volete che a un personaggio che faceva e fa da staffetta tra i due principali condottieri del Nord del secondo millennio, che raccoglieva la prece di mamma Rosa, volete che a uno simile si neghi un ministero per respingere la pressione delle solite toghe rosse? Una nota del Quirinale ha fatto sapere che il neoministro per l’Attuazione del Federalismo «non ha bisogno di ricorrere al legittimo impedimento per evitare di presentarsi in tribunale, in quanto un dicastero senza portafoglio non ha alcun bisogno di essere organizzato». Perché è da qui che bisogna partire

per capire perché Silvio Berlusconi ha messo in fibrillazione il patto di sindacato del governo, l’asse del Nord. E soltanto per permettere a uno sconosciuto sottosegretario di usufruire del legittimo impedimento per saltare il processo AntonVeneta. La procura di Milano l’ha fatto rinviato a giudizio nel processo a Giampiero Fiorani. L’ex numero uno della Popolare di Lodi ha dichiarato: «Pagai anche Aldo Brancher. Al sottosegretario veronese ho dato dei soldi. Per lui e per la Lega avevo quantificato una somma in parte versata sul conto della moglie di Brancher e in parte consegnatagli nell’ufficio di Lodi alla presenza del funzionario della Bpl Spinelli dentro una busta gialla contenente 200 mila euro». Per la cronaca, l’ex banchiere che ha segnato la fine di Antonio Fazio non ha escluso che Brancher avesse diviso la cifra, con l’amico ministro Roberto Calderoli, ma alla cosa i magistrati non hanno dato seguito. Il nome del neoministro lo ha fatto anche il faccendiere Gennaro Mockbel. Il quale, sulla candidatura del senatore Nicola Di Girolamo nelle liste del Pdl, fa sapere che «è una richiesta fatta da Brancher e Brancher è il braccio destro di Berlusconi e Tremonti, praticamente l’uomo operativo che screma qualsiasi iniziativa e poi la porta avanti». Ma è Tangentopoli la macchia più indelebile sul curriculum del nostro. Alla fine della Prima Repubblica questo ex prete che ha imparato i segreti della comunicazione dagli Editori Paolini viene assoldato nella divisione guidata da Gianni Letta, la Fininvest comunicazione. Per la precisione è alle dirette dipendenza di Fedele Confalonieri, proprio perché è centrale nella struttura creata da Berlusconi per fare lobbying sui politici. Per salvaguardare le frequenze e aumentare il livello delle inserzioni è alle segreterie di ministeri e direzioni dei partiti che si deve bussare.

Nel 1993 è arrestato con l’accusa di aver pagato 300 milioni a Francesco De Lorenzo per far conquistare alle reti di Berlusconi più spazi di una campagna pubblicitaria contro l’Aids. Ai magistrati che sospettano un pagamento per favorire il Biscione, il futuro ministro replica che è una sua iniziativa e si fa tre mesi in carcere. Tanto che segue fattura di una sua società, la Promo Golden. Il segretario dell’ex ministro della Sanità, Giovanni Marone, invece lo smentisce. La Promo Golden opera soprattutto acquistando spazi pubblicitari sui giornali e cartelloni durante le feste di tutti i partiti. Per i magistrati c’è la sua mano anche nei finanziamenti illeciti al Psi tramite L’Avanti!. Secondo qualcuno è proprio nella veste di lobbista che ha i primi rapporti con la Lega. Fatto sta che, ha sintetizzato Sandro Amurri dalla colonne del Fatto, sarà «condannato in primo e secondo grado per falso in bilancio – reato depenalizzato – e per finanziamento illecito – reato caduto in prescrizione grazie proprio al governo di B». È difficile che nel centrodestra qualcuno parli con scioltezza di Aldo Brancher. E non perché gli vogliono male. Più che altro si legge l’imbarazzo tipico dei casi nei quali il mediatore che lavora nelle retrovie senza tornaconto è costretto suo malgrado a esporsi. È non è mai utile a nessuno che la cosa accada.

Tutti concordano che l’uomo è silenzioso, educato, prudente, al limite del grigiore. Se per riservatezza viene definito il Primo Greganti del centrodestra, per il ruolo di civil servant che svolgeva per Silvio Berlusconi si sprecano i paragoni con l’opera che Gilberto Bernabei garantiva ad Andreotti, Franco Salvi a Moro o Gennaro Acquaviva a Craxi. Il tutto condito da una conoscenza approfondita dei rapporti tra lo Stato e la periferia che in pochi, come il fine giurista e ministro Tommaso Morli-


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no, ebbero. A dirla, tutta quando ha provato a dare sfogo alle sue velleità politiche i risultati non sono stati dei migliori. A inizio degli anni 2000, e con i migliori cervelli del partito come Tremonti e Frattini, prova a creare una corrente delle correnti dentro Forza Italia. Ma è un fallimento.

minato assessore, quindi Flavio Tosi lo “premia” per aver portato nel Pdl un ex assessore dell’Udc scegliendo come vicesindaco scaligero un galaniano di ferro come Vito Giacino. Ma sono bazzecole rispetto al sospetto che un sottosegretario diventi ministro soltanto perché è indagato. Soprattutto

Silenzioso, mediatore indispensabile per il Cavaliere fa la sua fortuna facendo il lobbista per il Biscione e addossandosi tutte le responsabilità in un caso di corruzione che sfiora la Fininvest Bilancio negative anche per le sue mire in Veneto. Complice la vicinanza con il Cavaliere e le origini veronesi, Brancher sogna di scalzare Giancarlo Galan ras incontrastato dell’area. Prima timidi attacchi, poi liti sulle candidature e su alcuni provvedimenti di giunta fino al defenestramento dell’ex manager di Pubblitalia. Ma quando con la vittoria di Zaia si dovrebbe passare all’incasso, prima il suo pupillo Davide Bendinelli non viene no-

se l’indagato in questione si è fatto in passato tre mesi di carcere preventivo per un’inchiesta che lambiva l’ex datore di lavoro e che oggi è il suo leader politico.

A breve ci sarà da far passare una manovra, con l’esecutivo che dovrà aumentare le tasse se vuole inserire misure per lo sviluppo. «Anche perché di strutturale c’è poco», notava il presidente Mario Baldassari durante l’ulti-

mo incontro del “Cenacolo” di Marco Antonellis. Eppoi il bavaglio alle intercettazione, il nuovo lodo Alfano che Berlusconi vuole estendere anche ad altre cariche istituzionali. Ieri mattina i suoi nuovi colleghi avranno anche applaudito Brancher quando ha ha fatto il suo ingresso in Consiglio dei ministri, ma nel centrodestra sono in molti a chiedere se il gioco vale la candela. Non a caso ne hanno subito approfittato i finiani con Italo Bocchino che ha detto: «È inelegante che un ministro appena nominato e ancora senza delega cominci invocando il legittimo impedimento che era stato pensato per impedire le aggressioni dei magistrati ai ministri, non per nominare ministri che erano già sotto processo».

Saputo della promozione a responsabile dell’Attuazione del Federalismo, Giuseppe D’Avanzo ha scritto di un «ministro senza incarico, senza missione, senza alcuna utilità per il Paese. Un ministro talmente superfluo che gli cambiano anche la delega dopo la nomina». Ma forse il giudizio è stato ingeneroso. Per tratteggiare un personaggio sempre più centrale in questo governo che guarda sempre più al Nord ma prende i voti al Sud, è utile parlare con Francesco D’Onofrio. Non fosse altro perché i due erano insieme nei giorni di Lorenzago. E se il primo era il saggio in quota Udc che per il centrodestra – la Casa delle Libertà non ancora schiacciata su Bossi – provò con la Devolution a riscrivere i rapporti tra Stato e Regioni, l’altro per facilitare il lavoro della compagnia si mese anche ai fornelli. «Non lo vedo», dice l’ex ministro della Pubblica istruzione, «da quando è nato il Pdl. Avrei voluto complimentarmi per il ministero, ma non l’ho fatto per non infastidirlo. È un tipo silenzioso, non appariscente, che non sembra invaghito di sé. Ha sempre lavorato come tramite per l’unità, e mai come concorrente degli altri sherpa, tra Berlusconi e Bossi». Eppure questo silenzioso pon-

Dai voti al ministero Aldo Brancher nasce a Trichiana il 30 maggio del 1943. La carriera politica inizia nel 1999 dopo una collaborazione come dirigente del gruppo Fininvest a partire dal 1982. Viene eletto alla Camera nel maggio 2001. Durante la XIV Legislatura, sotto entrambi i governi Berlusconi, è sottosegretario di Stato nel Dipartimento per le riforme istituzionali e la devoluzione. Rieletto alla Camera nell’aprile 2006, è vicepresidente del gruppo Forza Italia alla Camera durante la XV Legislatura. Nel 2008 è rieletto nelle liste del Pdl. Nel giugno 2010 è nominato Ministro con delega all’Attuazione del Federalismo Amministrativo e Fiscale, delega che però nei giorni successivi, a causa delle polemiche di gran parte della scena politica, è stata mutata in Sussidiarietà e Decentramento. Prima di intraprendere la carriera politica è stato sacerdote paolino e braccio destro di don Emilio Mammana, che ha aperto il primo ufficio pubblicità di Famiglia Cristiana, e ha portato il settimanale dalle parrocchie a essere uno dei periodici più venduti.

tiere diventa imbarazzante per lo stesso Cavaliere. «Il problema che si pone oggi», sottolinea D’Onofrio casomai è se la sua ultima nomina possa ancora essere letta nelle difficoltà di far convergere il federalismo spinto della Lega, il rigore dei conti che l’Europa sembra imporre a un consenziente Tremonti e il personalismo di Berlusconi». Se tutto questo salta resta soltanto il capitolo giudiziario – ancor di più dopo che ieri Napolitano ha detto che il nostro deve presentarsi in tribunale – e l’interruzione di un decisivo canale all’interno della dialettica Palazzo Grazioli-Lega. Chi dice di conoscere bene le cose, spiega che se Tremonti si è conquistato un rapporto privilegiato con Bossi sul quale il Cavaliere non può prescindere, Brancher ha risposto con un’amicizia sincera verso Calderoli caldeggiata dallo stesso premier.

E l’intesa tra l’ex dentista bergamasco e l’ex prete veronese finisce sia per alleggerire il peso del ministro dell’Economia sia per fare da filtro quando c’è da frenare le uscite del Carroccio. Con il primo che ha ammesso di aver avallato la nomina, provando poi a dare la colpa agli uffici che non hanno chiarito nella dicitura della delega si sarebbe dovuto parlare di decentramento e non di federalismo. Chissà se in questi giorni Brancher ripensa mai alla sua prima vita quando giovane prete – alto, biondo e con gli occhi azzurri – faceva girare la testa a tutte le segreterie delle aziende dove provava a piazzare la pubblicità per Famiglia Cristiana. Pare che una volta anche lui cedette al fascino di una bionda dalle gambe chilometriche, così come stavoltà non ha saputo resistere alle velleità di sentirsi chiamare ministro.



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