di e h c a n cro
00629
Rivoltatela come vi pare, prima viene lo stomaco, poi viene la morale Bertolt Brecht
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MARTEDÌ 29 GIUGNO 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
La Commissione indipendente di Bruxelles si dimette. Mentre gli Usa dànno il via libera ai processi civili ai preti
Se fossero entrati in un giornale Sarebbe esploso uno scandalo con proteste più rumorose delle vuvuzelas. Invece, contro i metodi usati dalla magistratura belga la Chiesa è stata lasciata da sola. Perché? LE NUOVE QUESTIONI MORALI
INCHIESTE SPETTACOLARI
Belgio, Brancher, bene comune: tentiamo un discorso serio
Due pesi e due misure di Marco Respinti C’è del marcio in Belgio. Immaginiamoci se ciò che è successo la settimana scorsa fosse capitato invece che nella sede dell’Arcivescovado, nella redazione di un giornale o in un partito. Si sarebbe aperto il cielo!
di Savino Pezzotta e vicende che in questi giorni attraversano la politica e gli attacchi alla Chiesa Cattolica mi pongono profondi interrogativi e alimentano forti inquietudini. Cominciamo dalla politica dove il caso Brancher dimostra che si sono superati i limiti. Ma tutto questo non genera reazioni, anzi sembra che ormai si sia realizzato un adeguamento morale che inibisce ogni indignazione. Al massimo si arriva a chiedere una sfiducia personale che non avrebbe altro risultato che unificare la maggioranza e confermare il neoministro. A fronte di questo declino della politica, si pongono non pochi problemi. Soprattutto per i cattolici. a pagina 4
L
Dopo il flop del G20 in Canada
La tassa sulle banche? Ora la faccia l’Europa
a pagina 2
UN CASO EUROPEO
Il falso mito del laicismo
Un conflitto che mina l’identità dell’Occidente
Quest’Europa senza memoria
di Luigi Accattoli Due scontri aperti, anzi plateali, in poco più di un anno: i rapporti tra Santa Sede e Regno del Belgio sono ormai fuori controllo. Il Belgio, già cattolicissimo, si pone ad alfiere continentale del pregiudizio laicista e anticattolico.
Francesco Paolo Casavola e Marcello Pera ci spiegano perché il nuovo materialismo rischia di trasformare la nostra storia
a pagina 5
Errico Novi • pagina 2
Continua la politica dell’ambiguità di Teheran che ora ironizza sulle sanzioni
L’Iran e il balletto delle trattative Ahmadinejad: «Tra due mesi potremo discutere di nucleare»
Colpire le speculazioni bancarie è un modo per recuperare i valori etici del capitalismo. Ma anche una grande opportunità per rilanciare lo sviluppo dell’Occidente di Rocco Buttiglione
di Luisa Arezzo
Prosegue la lotta dell’Onda Verde
Iran è pronto a tornare al tavolo delle trattative sul nucleare, ma vuole ritardare i negoziati di alcune settimane per dare una punizione ai Paesi occidentali che gli hanno imposto nuove sanzioni. La tragicomica commedia del regime è andata in onda nuovamente ieri, con il presidente Mahmud Ahmadinejad dettosi pronto a ritardare di due mesi i colloqui. Un tira-e-molla a cui ormai non crede più nessuno.
li apologeti del regime iraniano hanno messo in circolazione una serie di informazioni “false e tendenziose”che è giunto il momento di smascherare. Prendiamone due: «La Repubblica islamica non ha mai invaso nessuno» e «Il regime è saldo in sella mentre l’opposizione è morta». La prima affermazione è pensata per frenare i moderati. La seconda serve a screditare l’Onda Verde.
risultati del G20 non sono entusiasmanti. L’invito a diminuire i deficit degli stati dopo la esplosione della spesa pubblica provocata dalle misure straordinarie per fronteggiare la crisi era scontato. C’è da domandarsi se valeva la pena di indicare un termine così prossimo (il 2013) ed una misura così impegnativa (dimezzare il deficit) in un momento in cui la ripresa è (almeno in Europa) ancora fragile ed incerta. Probabilmente è vero che un rientro accelerato dal deficit non ci riporterà dentro la crisi ma è certo che esso non darà sollievo al vero problema del presente, che è una crescita debole e senza creazione di posti di lavoro.
a pagina 15
a pagina 14
a pagina 8
«Vi racconto tutte le crepe del regime»
L’
seg1,00 ue a p(10,00 agina 9 CON EURO
di Michael Ledeen
G
I QUADERNI)
• ANNO XV •
NUMERO
124•
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
I
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
prima pagina
pagina 2 • 29 giugno 2010
Radici. È sempre più clamoroso il conflitto tra culture in Belgio. Mentre gli Usa danno il via libera ai processi civili contro i preti
Un’amnesia europea
Casavola e Pera giudicano la guerra tra magistratura e vescovi: dietro c’è il grande tema della perdita di una memoria condivisa di Errico Novi
ROMA. Bisogna saper distinguere i piani. Bisogna evitare per esempio di cadere subito in una tentazione: leggere il mancato pronunciamento della Corte Suprema degli Usa sul processo intentato contro il Vaticano per i casi di pedofilia come se fosse una traccia del complotto. Meglio non caderci se non altro perché è facile veder capovolto il sospetto in accuse di paranoico vittimismo. O peggio, di sentirsi rispondere che se la Chiesa e i cattolici gridano al complotto anche nei confronti della Corte Suprema americana, lo fanno per celare ancora una volta gli abusi dei preti sui minori. Ma nemmeno si può dare del matto a chi come il presidente emerito della Consulta Francesco Paolo Casavola parla di un «tentativo delle oligarchie politiche ed economico-finanziarie di sottrarre ai cittadini la libertà di coscienza proprio facendo ricorso agli attacchi contro la Chiesa». Non si può dare del visionario a Casavola, né si può farlo con Marcello Pera che vede dietro l’ultimo assalto alla Chiesa del Belgio «la perdita della memoria, della identità, e il rischio di smarrire con esse i valori sui quali si fondano le nostre democrazie». L’allarme attraversa gli editoriali dei commentatori cattolici disposti a scandalizzarsi per le tombe dei cardinali sepolti di nell’Arcivescovado Bruxelles prese a colpi di martello pneumatico. Ma quell’allarme non sconvolge l’opinione pubblica europea. Cosa sarebbe successo se una simile aggressività fosse stata rivolta alla redazione di un grande giornale? Ci sarebbe stato maggiore sconcerto per la profanazione di un tempio laico della democrazia come l’ufficio di un quotidiano? Se è così, perché quasi certamente sarebbe andata così, vuol dire che tutto è ormai sacro tranne ciò che dovrebbe esserlo. Casavola però preferisce partire dal perimetro dei diritti viola-
Che cosa si nasconde nelle pieghe del pregiudizio anticattolico che serpeggia in Occidente
La forza della Chiesa e quella della calunnia di Marco Respinti è del marcio in Belgio. Immaginiamoci se ciò che è successo settimana scorsa fosse capitato nella redazione di un quotidiano nazionale, negli uffici di una grande azienda, nella sede di un partito. Si sarebbe aperto il cielo. Ma se accade alla Chiesa Cattolica va bene. Se lo merita.Tanto sappiamo tutti che è solo una congrega di manigoldi e di farabutti! L’azione senza precedenti compiuta nei giorni scorsi contro le autorità episcopali in Belgio, rasentante sin il ridicolo se non fosse stata tanto grave, rivela una realtà assolutamente pericolosa: nel cosiddetto “mondo libero”la magistratura (o parte di essa, ma parte tanto rilevante da oscurare il resto) è eterodiretta, deviata, schiava del potere politico invece che strumento della giustizia.
C’
Da un po’, il Belgio, anzi la sua politica, ama poco la Chiesa Cattolica, quella “cosa” che si ostina a esistere, parlare, insegnare. Facile immaginare che alla prima occasione non si sia perso tempo per assestarle un colpo ferale, togliendosi pure qualche fastidioso sassolino dalle scarpe attraverso una sceneggiata degna di miglior palcoscenico. Perché, come si usa dire, calunnia calunnia qualcosa poi, anche dopo che l’innocenza degli accusati è stabilita, resta sempre. Certo, fa specie che la magistratura di un Paese non delle banane agisca così contro un soggetto come la Chiesa. Di solito, il lavoro sporco lo si lascia fare alle Ma comparse. evidentemente lassù fan sul serio. Ci si ricorda ancora, del resto, del 2 aprile 2009, quando, con 95 voti a favore, 18 contrari e 7 astensioni, il Parlamento di Bruxelles approvò una mozione in cui si sollecitava «l’esecutivo a condannare l’inaccettabile presa di posizione del Papa» relativa all’uso del preserva-
tivo nella lotta contro l’Aids che ai manovratori belgi proprio non piace. Da allora non si è dunque escluso alcun colpo per abbatterla. Non è un caso, infatti, che azioni clamorose come quella di pochi giorni fa all’arcivescovado avvengano a fronte di sospetti relativi a questioni particolarmente raccapriccianti. Se c’è di mezzo il bimbo abusato dal prete barbalù, chiunque strepita, è naturale, quasi logico.
Il sociologo delle religioni Massimo Introvigne ha appena pubblicato un libretto puntuale che fa al caso nostro, Preti pedofili. La vergogna, il dolore e la verità sull’attacco a Benedetto XVI (San Paolo). Dice bene, il sociologo, che i preti pedofili esistono, purtroppo, ma che essi sono molto meno di quanto si dica e si pensi; che non esistono più preti purtroppo pedofili di quante persone pedofile esistano purtroppo in altre categorie umane, anzi semmai meno; che la Chiesa Cattolica non ha mai nascosti i pedofili onde sottrarli alla giustizia secolare, anzi che essa ha inasprito le proprie pene; e che oggi macina vittime nel mondo un’alacre ed efficacissima macchina della ipercostruzione sociale del panico morale. Ovvero casi enormi incentrati su problemi socialmente costruiti i quali sono caratterizzati da un’amplificazione sistematica di dati reali, sia nella rappresentazione mediatica sia nella discussione politica, che altera la percezione comune delle cose sostituendo al vero delle verità di comodo praticamente senza che il pubblico se ne renda conto. Casi, dunque, che poi autoalimentano la propaganda di se stessi finendo per divenire “convincenti”persino per certi addetti ai lavori, tale per cui la strumentalizzazione politica e ideologica che ne deriva diviene persino inavvertitamente volontaria. Da cui certe “verità giudiziarie”generate ad uso politico e assai diverse dalle verità storiche, sociali e sociologiche. Chi si ricorda di Marc Dutroux e della “marcia bianca”dei 350mila di Bruxelles dell’ottobre del 1996? C’era gente allora che giurava e spergiurava che gli stessi palazzi del potere belga, tutti, nessuno escluso, fossero antri della bestia pedofilia configurando un complotto spregevole di dimensioni apocalittiche. Tutto dimenticato ora, ma davvero a quel tempo bastava la vox populi per far oracolare il “dio” dei “secondo me”e riscrivere le statistiche a uso militante? C’è del marcio in Belgio, decisamente. Probabilmente, però, e purtroppo, non solo lassù. www.marcorespinti.org
ti con l’assalto alla Chiesa di Bruxelles, descritto con precisione in un editoriale pubblicato ieri sul Messaggero. «E non si tratta di stabilire se i patti tra Stato e Chiesa locale consentivano quel tipo di perquisizione, ma appunto di rendersi conto che il vero obiettivo è sottrarre ai cittadini la libertà di coscienza». Perché ci si arriva? Perché, dice il presidente emerito della Corte costituzionale, «le oligarchie politiche retrostanti all’attacco contro la Chiesa si accorgono che sta rinascendo un diffuso bisogno di riconoscersi in Dio. Attaccano la religione, attraverso i suoi simboli, nel tentativo di comprimere la religiosità».
Si tratta di colpire le capacità di difesa dell’individuo e della so-
L’ex presidente del Senato: «Cosa sarebbe successo se la polizia fosse entrata così in un ateneo?» cietà. «È così. Cercano di far cadere la Chiesa, nel senso che mirano a indebolirne l’immagine pubblica, perché vedono in essa l’ultimo baluardo a difesa della libertà dei cittadini. La Chiesa è una forza capace di creare coesione sociale, quindi capacità di difesa degli individui anche da un semplice spot pubblicitario». È in funzione di questa lettura della campagna contro il Vaticano e i preti in generale che Casavola indica nelle «oligarchie politiche» ma anche nelle «burocrazie amministrative» e nei «management economico finanziari» i registi dell’offensiva. «Certo che se fossero andati in un giornale a fare quel tipo di perquisizioni ci sarebbe stata tutt’altra reazione: perché si ritiene che la Chiesa sia il maggiore ostacolo alla compressione di quelle libertà, ma è anche quello meno capace di difendersi».
Figuratevi, suggerisce un ex presidente del Senato come Marcello Pera, che di questo Pontefice ha condiviso una parte del suo percorso intellettuale, «se fossero intervenuti in quel modo in un’università: sarebbe stato peggio ancora». Cosa succede allora? Che siamo tutti «belgizzati», dice con amaro sconforto il senatore, «e chissà a cos’altro dovremo assistere, magari all’ingresso in forze in Vaticano». È chiaro o no che in gioco c’è l’identità, che è contro la propria stessa identità che l’Occi-
prima pagina
29 giugno 2010 • pagina 3
Il Papa solidale con il primate di Bruxelles dopo le perquisizioni
La Commissione lascia: «Usati come un’esca» Il portavoce dell’episcopato: «Capiamo gli uomini di Adriaenssens. A rimetterci saranno le vittime» di Vincenzo Faccioli Pintozzi apiamo i membri della Commissione Adriaenssens. Era molto difficile continuare in quelle condizioni». Non poteva che esprimersi altrimenti Eric De Beukelaer, portavoce della Conferenza episcopale del Belgio e del primate monsignor André-Joseph Léonard, commentando la decisione presa ieri dalla Commissione d’inchiesta della Chiesa belga sugli abusi sessuali compiuti da religiosi. Molto semplicemente, il gruppo di esperti nominati alcuni mesi fa dalla Chiesa locale ha deciso di dimettersi in toto in seguito alle perquisizioni e al sequestro dei dossier da parte della magistratura belga. «È un affare molto spiacevole per la Chiesa ma anche e soprattutto per le vittime», ha affermato il portavoce, in quanto «la Commissione stava realizzando qualcosa di buono». Infatti, secondo De Beukelaer, uno dei ruoli chiave che aveva la Adriaenssens era nel caso di fatti ormai prescritti: «Visto che le vittime non possono più intentare causa davanti alla giustizia, la Commissione era molto importante per loro», ha affermato il portavoce della Conferenza episcopale. È però ancora “troppo presto”, secondo il portavoce del primate, per esprimersi a proposito di quello che sarà dell’avvenire della Commissione e delle vittime. Spetta infatti ai vescovi belgi prendere una decisione in merito alla Adriaenssens. La Commissione ha deciso di lasciare dopo che, in mattinata, si era espresso in tal senso il presidente, lo psichiatra Peter Adriaenssens. Parlando alla stampa fiamminga, l’uomo ha detto che la commissione «è stata usata come un’esca», aggiungendo di essere “molto deluso”. Secondo lo psichiatra, le perquisizioni e il sequestro decise dai giudici dimostrano la diffidenza da parte della giustizia sull’operato della sua commissione d’inchiesta: «Non potevano agire che con il sentimento che anche noi compissimo frodi o tentassimo di soffocare l’affare, quando io ne avevo fatto per me una questione d’onore lavorare in totale trasparenza», ha affermato Adriaenssens.
«C
La polizia aspetta fuori dall’arcidiocesi di Mechelen prima di effettuare il raid all’interno della basilica. Durante l’operazione sono state violate le tombe dei cardinali Jozef-Ernest Van Roey e Suenens A destra, la chiesa sede dell’arcivescovado nella capitale belga. Nella pagina a fianco l’arcivescovo di Bruxelles, mons. André Leonard dente si rivolta? «Siamo ormai nell’oblio della storia, e corriamo un rischio legato a quest’oblio: la perdita dei principio su cui si fondano le nostre democrazie, che da quei valori dipendono. Tutte le costituzioni europee si fondano sull’identità cristiana». E quindi le stiamo demolendo con spietata ferocia: è un giudizio analogo a quello che Casavola dà a proposito della libertà di coscienza compressa attraverso l’attacco alla Chiesa. «Adesso in Europa abbiamo lo Stato sociale, il benessere, ma così facendo perdiamo la nostra identità. Si sarebbero tutti scandalizzati se un attacco come quello rivolto contro la Chiesa belga si fosse visto contro un’istituzione laica o anche contro una qualsiasi altra religione». Riaffiora il fantasma dell’etnomasochismo riscoperto dalla pubblicistica occidentale dopo l’attacco alle Torri gemelle e poi rapidamente passato di moda.
Non per il presidente Marcello Pera, che trova «equilibrata e forte» la reazione di Benedetto XVI, «ma accolta nel gelo dall’opinione pubblica europea. D’altra parte il Parlamento belga è stato il
primo ad approvare una mozione contro il Papa, che è anche un capo di Stato: non a caso oggi il Belgio non è più un Paese unito, capace di avventarsi sul cattolicesimo che ne era stato l’elemento unificante». Ma se questi attacchi rivolti alla Chiesa fossero un calvario utile a farci riscoprire la religione? «È la provvidenza a custodire il segreto, io dico che dopo la fine può esserci un nuovo inizio ma anche la barbarie: già l’Europa nella sua storia ha rigettato la fede cristiana per il paganesimo e si è ritrovata al nazismo. Abbiamo conosciuto la negazione della religione con il comunismo. Ma tutto questo non basta evidentemente a sollecitare la memoria. Vi abbiamo dedicato dei giorni dell’anno, ma a che serve se il giorno dopo la memoria è persa di nuovo?», si chiede in una terribile vertigine retrospettiva Marcello Pera. «Questa è la generazione che ha in tasca i diritti sociali e il diritto alla mensa, ma non sa come gli sono capitati. Il sacro oggi è altro, è il campionato di calcio, la playstation». Al limite un’università violata dalla polizia. Non una tomba scoperchiata a colpi di martello pneumatico.
solidarietà a Lei, caro Fratello nell’Episcopato, e a tutti i Vescovi della Chiesa in Belgio, per le sorprendenti e deplorevoli modalità con cui sono state condotte le perquisizioni nella Cattedrale di Malines e nella Sede dove era riunito l’Episcopato belga in una Sessione plenaria che, tra l’altro, avrebbe dovuto trattare anche aspetti legati all’abuso di minori da parte di Membri del Clero. Più volte io stesso ho ribadito che tali gravi fatti vanno trattati dall’ordinamento civile e da quello canonico, nel rispetto della reciproca specificità e autonomia. In tal senso, auspico che la giustizia faccia il suo corso, a garanzia dei diritti fondamentali delle persone e delle istituzioni, nel rispetto delle vittime, nel riconoscimento senza pregiudiziali di quanti si impegnano a collaborare con essa e nel rifiuto di tutto quanto oscura i nobili compiti ad essa assegnati. Nell’assicurare che accompagno quotidianamente con la preghiera il cammino di codesta Chiesa, ben volentieri invio la mia affettuosa Benedizione Apostolica». In ogni caso, la questione delle perquisizioni sembra ben lontana dall’essere risolta. Anzi, voci all’interno del clero locale parlano di una prossima mossa da parte della magistratura, che starebbe cercando di mettere in piedi un’altra operazione simile per finire l’opera.
Istituita dopo il primo scandalo pedofilia dalla Chiesa, la struttura permette alle vittime di chiedere risarcimenti anche se il reato cade in prescrizione per i giudici
E sullo stesso registro anche il messaggio che Benedetto XVI ha inviato al primate belga. «In questo triste momento, desidero esprimere la mia particolare vicinanza e
Nel frattempo, sono al lavoro le due diplomazie quella belga e quella vaticana - per cercare di ricucire il possibile. Ma dopo l’intemerata di ieri del cardinale Tarcisio Bertone - Segretario di Stato d’Oltretevere e quindi capo della diplomazia papale - che ha definito il blitz “peggiore di quelli dei regimi”, il compito sembra estremamente arduo. Quello che è certo è che, all’interno delle tombe profanate, i giudici di Bruxelles devono aver trovato qualcosa; altrimenti, la furia dei cattolici sarà difficilmente contenibile. Per quanto riguarda Roma, comunque, Benedetto XVI ha richiamato all’ordine il cardinale Schenborn, arcivescovo di Vienna, per i suoi commenti “irriguardosi” su Angelo Sodano. Ma non è escluso che la nota con cui la Santa Sede avoca a sè il diritto di criticare i porporati, levandolo di fatto a tutti gli altri, non sia un modo per ricordare al mondo che la Chiesa è ancora una monarchia. E che forse solo il pontefice può salvarla.
pagina 4 • 29 giugno 2010
l’approfondimento
Alle radici dell’indebolimento generale dei temi cristiani nelle formazioni e nelle strategie sociali
Il fattore B
Belgio, Brancher, bene comune: proviamo a fare un discorso serio. Che riguarda il ruolo dei cattolici in politica e l’etica pubblica in Italia. E che chiama in causa la necessità di una nuova classe dirigente di Savino Pezzotta e vicende che in questi giorni attraversano la politica e gli attacchi alla Chiesa Cattolica mi pongono profondi interrogativi e alimentano forti inquietudini.
L
La politica. Il caso Brancher dimostra che si sono superati i limiti. Ma tutto questo non genera reazioni, anzi sembra che ormai si sia realizzato un adeguamento morale che inibisce ogni indignazione. Al massimo si arriva a chiedere una sfiducia personale che non avrebbe altro risultato che unificare la maggioranza e confermare il neoministro. A fronte di questo declino della politica, si pongono non pochi problemi considerato che allo stato attuale non ci sono le forze e le volontà sufficienti a generare una vera svolta. Sono convinto che allo stato attuale delle cose non basta mettere in campo una alleanza per l’alternanza. Vi è la necessità di scavare nel profondo della società italiana e indagare le ragioni che hanno
determinato questa situazione di crisi, che, tra le altre cose, ha consentito e tollerato il riformarsi del fenomeno della corruzione e del malaffare.
A generare questi cambiamenti ha sicuramente contribuito il processo di mondanizzazione e il diffondersi di un materialismo edonostico che accompagnati dal costate indebolimento del senso religioso e l’affermarsi di forme di relativismo etico ha provocato il declinare delle stesse virtù civili e repubblicane e sulla dimensione etico-ideale della nostra società. La conseguenza più immediata di questa situazione è stata la crescita della disaffezione massiva verso la dimensione pubblica e l’emersione di un sentire fortemente segnato dal ”particulare”. Siamo stati inseriti in un profondo mutamento culturale che ha consentito che la gestione della cosa pubblica sia vista come un fatto privato e personale, riservato di un’oligarchia, che riproduce se
stessa attraverso un meccanismo elettorale che ha elevato la cooptazione a sistema, generando forme di dipendenza inspiegabili in una democrazia matura. Inoltre siamo di fronte ad allo stratificarsi di una visione demagogico-autoritario della democrazia che a ogni pie’ sospinto tende mutare le regole del gioco, e a manipolare l’opinione pubblica attraverso i mezzi di comunicazione di massa e l’uso strumentale dei sondaggi. Non c’è alcun dubbio che l’Italia si presenta come un’anomalia rispetto alle grandi democrazie occidentali. Questo scenario dovrebbe porre domande a tutti i cittadini italiani , ma ancor più interroga in termini ineludibili la coscienza dei credenti.
La causa cattolica. Oggi troviamo cattolici in tutte le formazioni politiche, ma avverto che la loro incidenza s’indebolisce sempre più, quasi a rasentare l’insignificanza. Non basta dare prova di pre-
senza solo nelle circostanze in cui entrano in campo le questioni bioetiche, anche se su queste non sono mancate debolezze e un esercizio sostanzialmente difensivo più che propositivo. Questa situazione non è oggi più sostenibile, i fatti che in questi giorni si sono verificati in Belgio dovrebbero essere per noi cattolici un campanello d’allarme. Il problema della pedofilia ha sollevato in tanti molti interrogativi, ma nel mentre la Chiesa Cattolica e il Papa hanno deciso di affrontare pubblicamente il problema, di affidarsi alla autorità civili dando prova di un forte senso di laicità e di un reale e concreto superamento di ogni residuo di clericalismo, si è scatenato un attacco alla Chiesa inaudito e incomprensibile.
Mi sono chiesto se quanto è successo ai vescovi belgi si fosse verificato nei confronti di un partito, di una redazione giornalistica o di un consiglio di amministrazuione di una
banca , si sarebbe rimasti passivi e indifferenti? Sicuramente si sarebbero fatte grandi manifestazioni in piazza Navona. Come si vede ci sono pesi e misure diverse che mostrano una latente intolleranza nei confronti della Chiesa Cattolica. La violazione delle tombe dei cardinali Suenens e Van Roey che senso hanno se non quello di scalfire figure carismatiche, alimentando sospetti. Ogni giorno che passa diventa sempre più chiaro che il doloroso tema della pedofilia è stato e viene usato per mettere sotto accusa la Chiesa. Perché tale astiosità non avviene nei confronti di altre aggregazioni religiose? Sono convinto che avendo la Chiesa Cattolica posto in campo alcune questioni e posto con chiarezza il tema dei principi non negoziabile, il rispetto della vita e della natura sociale dell’umano, il valore umano del lavoro e delle radici cristiane dell’Europa, abbia suscitato la forte reazione di tutti coloro che propugnano il trionfo di
29 giugno 2010 • pagina 5
Di sicuro Ratzinger programmerà a breve un viaggio nelle «terre del disamore»
Il Papa andrà nella tana dei leoni contro il falso mito del laicismo In poco più di un anno, una serie di scontri con il Vaticano hanno fatto del Belgio l’avanguardia del rancore anticattolico in Europa di Luigi Accattoli ue scontri aperti, anzi plateali, in poco più di un anno: i rapporti tra Santa Sede e Regno del Belgio – dove regnò fino al 1993 il “santo” Re Baldovino – sono ormai fuori controllo. Il Belgio, già cattolicissimo e a tutt’oggi con un governo dimissionario retto da un democristiano, si pone ad alfiere continentale del laicismo anticlericale o addirittura anticattolico. L’ambasciatore del Belgio in Vaticano, un tempo tra i più graditi, è oggi latore di messaggi imbarazzanti. Nell’aprile dell’anno scorso il Parlamento belga approvò una mozione di “condanna” per le “dichiarazioni inaccettabili” del Papa sul preservativo: l’ambasciatore la portò in Segreteria di Stato il giorno 15 e il 17 partì la protesta vaticana con al centro la parola “deplorazione”. Un fatto unico in Europa. In quest’ultimo fine settimana abbiamo avuto lo scontro sulle perquisizioni di ambienti della Chiesa a motivo della pedofilia del clero ed è stato un altro fatto senza precedenti.Venerdì l’ambasciatore belga Charles Ghislain è stato “convocato” e le parole che hanno dato voce alla protesta vaticana sono state “sdegno e sgomento”: assai più che “deplorazione”, un qualcosa che segnala una situazione di rottura pur senza affermarla.
D
E non è bastato, ma domenica è intervenuto il Papa che invece l’anno scorso non era entrato nella questione. Nel messaggio al nuovo primate del Belgio, l’arcivescovo Léonard, Benedetto ha parlato di “triste momento”e di “sorprendenti e deplorevoli modalità” delle perquisizioni. Le modalità, non le perquisizioni: qui è la chiave per l’intera vicenda. Il Vaticano e i vescovi del Belgio – bloccati per nove ore dov’erano riuniti e trattati come una cupola mafiosa, mentre la polizia perquisiva uffici, computer e tombe – non intendono affatto “sottrarre” alla magistratura dossier compromettenti. C’era un accordo tra la Procura generale del Regno e la Conferenza episcopale perché fosse una Commissione “informale” a condurre una prima istruttoria sulle denunce di abusi presentate da chi sceglieva di rivolgersi alla Chiesa. Una fase preliminare di indagine in vista – se possibile e necessario – di una successiva trasmissione della documenta-
zione alla magistratura del Regno. Ma il giudice istruttore che ha ordinato la perquisizione non era vincolato da quell’accordo e ha fatto sequestrare i 475 dossier che la commissione aveva raccolto fino a oggi.
Ieri Peter Adriaenssens, il presidente della Commissione, docente di psichiatria a Lovanio, si è dimesso dall’incarico al quale era stato chiamato dai vescovi, dopo aver dichiarato che il magistrato
Già nel 1985 Karol Wojtyla fu vivacemente contestato nei quattro giorni che passò nel Paese «ha agito in questo modo perché pensava che potessimo tenere nascosta la verità, mentre la nostra intenzione era di lavorare in piena trasparenza». Non vi erano stati “rifiuti”che giustificassero l’iniziativa: «Nessuno ci ha chiesto niente prima», ha detto ancora il presidente dimissionario. La costituzione di commissioni “indipendenti” o “informali” come quella belga – generalmente non presiedute da ecclesiastici e con un qualche allacciamento al governo e alla magistratura – rappresentano un passo importante compiuto dagli episcopati di diversi paesi per realizzare una procedura trasparente ed efficace in risposta alle denunce. Ce ne sono in Austria, in Germania, in Irlanda, in Olanda, in Svizzera e in nessun Paese è avvenuto nulla di simile alla “perquisizione” belga. In Italia non abbiamo un tale organo – personalmente ritengo che i nostri vescovi farebbero bene a crearlo – e
dunque non è possibile un paragone stringente. Ma per fare un raffronto generico, avremmo qualcosa di simile al caso belga se domani un magistrato che si trovi a indagare su un prete romano accusato di abusi facesse perquisire il Vicariato, sequestrando i computer degli uffici e portando via interi archivi.
Com’è arrivato il Belgio a questo livello di sospetto anticattolico e a porsi come il Paese più avverso – forse – al cristianesimo che vi sia oggi in Europa? Non sono sorpreso di questo primato in negativo. Sono stato lassù come inviato del Corriere della Sera per le visite di Giovanni Paolo II nel maggio del1985 e nel giugno del 1995, ho visto la progressione rapidissima dell’uragano secolarizzante e non mi è difficile immaginare a che punto possiamo essere della notte, quindici anni dopo l’ultima di quelle trasferte papali. Già nel 1985 Papa Wojtyla fu vivacemente contestato nei quattro giorni che passò in Belgio. E ci fu anche una ragazza – Véronique Oruba – che a un raduno di giovani pose a Giovanni Paolo le questioni della sessualità, della donna e della democrazia nella Chiesa. In occasione della seconda visita papale i media andarono a cercare quella donna, che ora aveva 32 anni, era sposata e mamma e diceva che non sarebbe andata a “vedere”il Papa: «Sono sempre cattolica ma non cerco più il dialogo con la gerarchia». In dieci anni chi poneva domande era diventato indifferente, chi contestava era passato allo sberleffo. Forse il Belgio sta vivendo il contrappasso di una Chiesa che in passato fu davvero totalizzante, più di quanto noi italiani – che abbiamo avuto grandiosi conflitti Stato-Chiesa già a metà dell’Ottocento – possiamo immaginare. Sta di fatto che oggi una visita papale parrebbe impossibile. Eppure una strategia apostolica come quello di Benedetto XVI, che presta la massima attenzione all’Europa secolarizzata, non può non porsi il problema di parlare a chi più direttamente la contesta. Il Papa teologo ha già affrontato la sua Germania, l’Austria e la Francia, in settembre andrà in Gran Bretagna e in novembre tornerà nella Spagna di Zapatero: non rifugge dunque il confronto con l’Europa secolare. A conclusione di questo ampio giro, non resteranno che l’Olanda e il Belgio come ultima frontiera per chi si è ripromesso di non «fuggire davanti ai lupi». Possiamo scommettere che «l’ultimo Papa europeo» – come Benedetto XVI è stato qualificato con frettolosa profezia – proverà a visitare anche i popoli del disamore nei confronti del cristianesimo. www.luigiaccattoli.it
un modello libertario relativista e individualista di società.
A fronte di tutto questo si pone la questione della «causa cattolica» e pertanto l’esigenza di affermare laicamente il valore dell’esperienza e della proposta cristiana, del comunitarismo personalista, del limite di fronte alla dignità dell’umano della decisione e della prassi politica. È necessario che la libertà dei cristiani si dispieghi con ragionevolezza e con forza, non per imporre le nostre idee ma per proporle senza alcuna pretesa di convertire alcuno, poiché siamo convinti che la conversione riguardi in primo luogo noi stessi. I cattolici devono non solo difendere la loro Chiesa da attacchi ingiustificati sconsiderati, ma anche mettere in campo un’azione politica che sia in grado di inscrivere dentro l’orizzonte del “qui e ora” la forza propositiva della speranza cristiana, oltre la quale non resta che il disincanto. Il pluralismo dell’impegno politico dei cristiani non può diventare, nella migliore delle ipotesi, un agire che miri unicamente alla correzione delle storture più intollerabili o a fare opera di pura e semplice resistenza. Non servono crociate integraliste o tradizionaliste che sarebbero fuori tempo, ma recuperare alle nostre società il senso del religioso, dell’eticità personale e ripristinare la dimensione virtuosa della politica. Compito che possiamo esercitare anche con un serio rapporto con il mondo laico e i non credenti. In questi di grande confusione è necessario produrre una cesura profetica con una politica che ogni giorno di più diventa appannaggio dei faccendieri e dei poteri forti interessati a rafforzare e puntellare il sistema del guadagno del privilegio. Bisogna attrezzarci per attraversare questo deserto, dove la fanno da padroni coloro che sono bravi nel solleticare e assecondare le pulsioni istintuali di chi vede messi in discussione dalla crisi complessiva (culturale, economica, sociale, demografica, ambientale ) che investe l’Europa. I tempi richiedono un nuovo impegno dei cattolici su tutti i piani non per separarsi dagli altri, ma nella convinzione che oggi di fronte a quanto sta succedendo non basta più restare sulla soglia, fare attività sociale e caritativa, azione che deve continuare e rafforzarsi, ma sapere che c’è bisogno di esercitare quell’alta forma di carità che è la politica. C’è un urgente bisogno di un impegno politico che proponga un supplemento di presenza profetica e di elaborazione progettuale, nella convinzione che l’impegno per una buona politica e la costruzione di un mondo più giusto è già in sé opera salvifica e liberante.
diario
pagina 6 • 29 giugno 2010
Manovre. Domani incontro con Tremonti, mentre Berlusconi ribadisce: «L’obiettivo è quello di bloccare gli sprechi»
Regioni, la Lega contro tutti
Fronte comune dei governatori, ma Zaia insiste: premiare i “virtuosi” di Franco Insardà
ROMA. La spada di Damocle dei tagli alle Regioni è sospesa pericolosamente sulla testa di Tremonti, ma soprattutto su quella di Berlusconi. Basterebbe un nonnulla per mettere in crisi una maggioranza, forte nei numeri, ma sempre più indebolita da crisi interne e da attacchi esterni. L’agenda è molto fitta sia per quanto riguarda il lavoro parlamentare sia per quello dell’Esecutivo. Oggi Antonio Azzollini, presidente della commissione Bilancio del Senato e relatore del decreto, potrebbe presentare alcune modifiche concordate con il governo su scuola, pensioni di invalidità, difesa e sicurezza. L’inizio della discussione in Aula è prevista per lunedì 6 e per quella data la maggioranza spera di aver risolto tutte le questioni.
Per domani alle 17,30 è convocato il Consiglio dei ministri con, all’ordine del giorno, la
relazione del ministro dell’Economia Giulio Tremonti (da trasmettere alle Camere) sul quadro generale di finanziamento degli enti territoriali e ipotesi di definizione dei rapporti finanziari tra Stato, regioni, province autonome, enti locali, così come previsto dalla legge delega sul federalismo. Secondo i dati del ministero la riforma produrrebbe un risparmio di almeno dieci miliardi, con spese ridotte sulla sanità, i Comuni e le Province. Sicuramente nella riunione a Palazzo Chigi arriveranno le pressioni delle Regioni che, come ieri ha precisato il governatore della Lombardia Roberto Formigoni, hanno una «posizione unanime. Chiediamo di cambiare la manovra in un’ottica di responsabilità. La posizione delle Regioni è unitaria, è inutile che qualcuno faccia il furbo e cerchi di vedere distanze che non ci sono». Formigoni ha così smentito le notizie secondo le quali il fronte dei presidenti delle regioni contrari alla manovra si starebbe incrinando, dopo la lettera che i presidenti di Lazio, Campania, Abruzzo, Molise e Calabria hanno inviato a Tremonti per invitarlo a «riaprire il confronto».
Per Vasco Errani, governatore dell’Emilia Romagna e presidente della Conferenza Stato-Regioni, l’apertura al governo dei cinque governatori «non è affatto una spaccatura. Ho parlato - ha detto Errani - con il presidente Iorio e con il presidente Polverini e l’unità della Conferenza è pienamente confermata. L’iniziativa riguarderebbe una questione specifica in relazione al piano di rientro sulla sanità». Posizione confermata dal vice presidente della Conferenza delle Regioni, Michele Iorio. «Il dialogo costruttivo col governo invocato dai governatori di cinque Regioni non è assolutamente da intendersi come una qualsiasi forma di rottura del fronte unico di tutte le Regioni sulla manovra finanziaria in corso». Renata Polverini ha annunciato che è in programma un incontro con Tremonti e, ai microfoni del Tg2, ha detto: «Il ministro mi ha confermato che appena rientra a Roma ci vedrà. Riesporremo quelle che sono, secondo noi, le questioni
più critiche della manovra. Credo che un po’ di buon senso sicuramente riporterà una serena discussione».
Dal Veneto il governatore Luca Zaia fa sentire la sua voce dissonante: «Tagliare indiscriminatamente significa penalizzare i virtuosi e lasciare chi ha sprecato libero di continuare a farlo. Chiediamo che la manovra cambi e alle Regioni sia riconosciuta autonomia impositiva. I margini per risparmiare altrove ci sono certamente. E ce ne sono anche per immaginare un contri-
ni e il governo hanno il dovere di valutare con grande attenzione l’appello dei presidenti di cinque regioni, che con i numeri dei loro conti rischiano il fallimento, alcuni senza alcuna responsabilità di gestione. Parlare di regioni virtuose è un errore, perché, come ha detto il presidente Caldoro, esistono comportamenti virtuosi da valutare considerando le condizioni di partenza e non regioni di serie A e di serie B».
I governatori, almeno quelli di centrodestra, non si sono scomposti neanche alle parole
Roberto Formigoni: «La posizione delle Regioni è unitaria». Renata Polverini: «Credo che un po’ di buon senso riporterà una serena discussione» buto alla manovra diversificato da Regione a Regione». A dare man forte alla posizione ci ha pensato Marco Reguzzoni, capogruppo del Carroccio alla Camera: «La Lega comprende le esigenze delle regioni del Nord e ne sostiene le ragioni. Nei prossimi giorni sottoporremo al ministro Tremonti una serie di proposte utili sia a mantenere invariati i risparmi necessari, sia a premiare le regioni “virtuose». Sull’argomento il finiano Italo Bocchino ha, invece, chiarito che «sulla manovra, Berlusco-
di Silvio Berlusconi che, da Toronto, ha ribadito che l’obiettivo è «quello di bloccare gli “sprechi”». Secondo la Polverini il premier ha «sicuramente ragione. Stiamo lavorando tutti in quella direzione. Come Regione Lazio abbiamo ridotto stipendi, poltrone e stiamo riducendo le società. Ciò non toglie che la manovra ci crea ulteriori problemi e in particolare alle Regioni del centrosud che già sono sottoposte a piani di rientro molto penalizzanti». Per Formigoni le dichiarazioni di Berlusconi non vanno
intese come “porta chiusa”: «Conosco Berlusconi e so che con lui non c’è nessuna porta chiusa, la porta è spalancata».
Ma Gian Luca Galletti dell’Udc, vicepresidente della commissione Bilancio della Camera, avverte: «Capiamo la protesta dei presidenti delle Regioni e dei sindaci. I tagli imposti dal governo sono insopportabili per i loro bilanci. Ma non possiamo permettere che i servizi sociali indispensabili per le famiglie vengano usati come arma di ricatto nello scontro istituzionale.Tagliate gli sprechi ognuno per la propria parte, ma lasciate in pace le famiglie italiane. Loro hanno già dato». Intanto i dati Istat sulla pressione fiscale fanno registrare il quinto posto dell’Italia nella classifica europea dimostrano, secondo il segretario dell’Udc Lorenzo Cesa, che «questo è il governo delle tasse, alle quali peraltro non viene fatta corrispondere nessuna riforma utile ai cittadini. Se a ciò aggiungiamo una manovra correttiva fatta di soli tagli che costringerà le Regioni a nuove imposte e un federalismo fiscale che, per come concepito dalla Lega, moltiplicherà i centri di spesa per i cittadini, l’Italia rischia in breve tempo di finire in testa a questa triste e impopolare classifica».
diario
29 giugno 2010 • pagina 7
Una nota sulla gestione del patrimonio immobiliare
Al processo per «concorso esterno» alla mafia
Il Vaticano: «Propaganda Fide potrebbe aver sbagliato»
A Palermo il Pm chiede dieci anni per Cuffaro
CITTÀ
DEL VATICANO. È possibile che vi siano stati anche degli errori di gestione nel patrimonio di Propaganda Fide, e tuttavia la Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli svolge un ruolo importante e vitale per l’attività della Santa Sede nel mondo. È quanto si legge in una nota della Sala stampa in merito alla Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli. «La valorizzazione di tale patrimonio - si dice nel testo con riferimento a Propaganda Fide - è naturalmente un compito impegnativo e complesso, che si deve avvalere della consulenza di persone esperte sotto diversi profili professionali e che, come tutte le operazioni finanziarie, può essere esposto anche ad errori di valutazione e alle fluttuazioni del mercato internazionale». «Cionondimeno - si legge ancora nel comunicato - a testimonianza dello sforzo per una corretta gestione amministrativa e della crescente generosità dei cattolici, tale patrimonio ha continuato ad incrementarsi. «Al tempo stesso - prosegue il testo - nel corso degli ultimi anni, si è progressivamente fatta strada la consapevolezza della necessità di migliorarne la redditività e, a tale fine, sono state istituite strutture e procedure tese a garantirne una gestione professionale e in linea con gli standard più avanzati».
Nella nota, il Vaticano spiega la storia, la missione e la gestione patrimoniale e finanziaria della congregazione vaticana responsabile delle missioni, al centro delle indagini degli inquirenti relative ai grandi appalti, in particolare per quanto riguarda il ruolo svolto dall’ex prefetto Crescenzio Sepe. Propaganda Fide è finita nell’inchiesta sulla «cricca degli appalti», in relazione alla gestione avvenuta sotto la guida del cardinale Crescenzio Sepe, dal 2001 al 2006, attualmente indagato (nell’inchiesta anche l’ex ministro Lunardi) per «corruzione» dai magistrati di Perugia.
PALERMO. Al termine della sua
L’addio di Cardia: regole per il mercato «Al mio successore in Consob spetta un duro compito»
requisitoria, il pm Antonino Di Matteo ha chiesto la condanna a dieci anni per l’ex presidente della Regione Siciliana, Salvatore Cuffaro, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. «Questa pena così alta - ha detto il magistrato rivolgendosi al gup Vittorio Anania - è giustificata dal fatto che Cuffaro ha svolto un ruolo importante nella vita pubblica e politica, ha perfino partecipato a dei Consigli dei ministri». «Abbiamo dimostrato - ha aggiunto il pm - che il sistema di controinformazioni messo in piedi da Salvatore Cuffaro assieme a Antonio Borzacchelli, Giorgio Riolo, Giuseppe Ciuro, era puntato a scoprire indagini sui rapporti tra la mafia e espo-
di Alessandro D’Amato
ROMA. «Al mio successore spetta un compito arduo». Non si può certo dire che nell’occasione del suo addio alla Consob, Lamberto Cardia abbia difettato di sincerità. Un addio sentito, dopo i sette anni da presidente e i sei da commissario, tanto sentito da meritarsi una lettera di saluto del presidente Silvio Berlusconi, e la presenza di un parterre d’eccezione: Il ministro dell’economia Giulio Tremonti e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta, come ospiti d’onore, insieme al ministro della Difesa Ignazio La Russa, oltre al gotha economico e finanziario italiano. Il cui applauso al termine della relazione è stato salutato da Cardia come «il miglior premio alle mie fatiche».
Seduto in platea anche Francesco Greco, per un certo periodo indicato come suo successore con la sponsorizzazione autorevole di Tremonti. La voce è tramontata, e se ne comprende perfettamente il perché: il magistrato che ha fatto scoppiare alcuni fra i maggiori scandali finanziari nostrani sarebbe stata una scelta di rottura troppo forte rispetto al settennato di Cardia. La sua Consob nelle relazioni annuali fornisce sempre numeri ragguardevoli sull’attività ispettiva ma poi, sul campo, non arriva mai sul luogo del delitto prima, ma soltanto dopo che sono già presenti i fotografi, la stampa e i magistrati. È accaduto con tutti i casi più gravi ed eclatanti, a cominciare da Parlamat: una società che per anni e anni ha falsificato i bilanci senza che alla Consob ne sapessero nulla. Per finire al caso più recente, quello di Mariella Burani, su cui ha aperto un’indagine la magistratura. Con il premio di consolazione della vicenda Antonveneta-Bnl, dove Cardia ha superato in solerzia la Bankitalia di Fazio, ma è comunque arrivato dopo la procura di Greco. Laureato in giurisprudenza, Presidente di Sezione della Corte dei Conti, sottosegretario di Stato e segretario del Consiglio dei ministri tra il gennaio 1995 e il maggio 1996) con deleghe ai Servizi di Sicurezza e allo Sport, Cardia è stato anche capo di gabinetto presso la presidenza del
Consiglio dei ministri nel 1987. L’approdo al vertice della Consob è arrivato nel 2003, con il secondo governo Berlusconi in carica, ed è rimasto in proroga fino a ieri, grazie all’aumento ex lege dei termini del mandato nel 2008 (da cinque a sette) e a un’interpretazione a suo favore del calcolo dei limiti temporali, che gli ha consentito di non sommare il periodo trascorso come semplice commissario a quello da presidente.
Con un momento di grande tensione scoppiato un anno fa, quando ha presentato le proprie dimissioni. In aprile la Consob, recependo la direttiva europea Transparency, aveva deciso di abolire l’obbligo per le società quotate di pubblicare sui quotidiani gli annunci di avvenuto deposito del bilancio sociale, preferendo invece Internet per questa funzione. Le Commissioni Finanze della Camera e del Senato avevano invece invitato il Governo a reintrodurre gli obblighi, ma gli altri quattro commissari della Consob non avevano ritenuto necessario tornare sui propri passi. Così Cardia, in evidente polemica con la propria Commissione, ha prima dato le dimissioni e poi, su invito del governo, le ha ritirate. Inutile ricordare che la pubblicità per le società quotate come obbligo di legge costituiva una fonte di finanziamento indiretto non indifferente per i maggiori quotidiani, finanziari e non, italiani, che infatti si erano sollevati contro la decisione della Ue. Il gesto era quindi sembrato ai più spettacolare ma inutile, visto che, come poi puntualmente è avvenuto, doveva essere il parlamento a superare con una legge la direttiva. L’economista Alessandro Penati su Repubblica notava qualche tempo fa che «per Cardia è importante difendere gli interessi del governo, della nazione, degli azionisti di controllo, della proprietà delle banche. Ma la Consob dovrebbe invece difendere la trasparenza e gli interessi di chi non è tutelato, ovvero gli azionisti di minoranza e i risparmiatori». Adesso trasloca alle Ferrovie. Dalla lentezza delle indagini a quella dei treni: il passo non gli sembrerà troppo lungo.
C’è ancora molta incertezza sul futuro dell’autorità borsistica: l’ex presidente trasloca al vertice delle Ferrovie
nenti politici o a lui collegati. È proprio la natura delle informazioni che ci fa capire la portata di questo sistema e di come si possa configurare l’accusa di concorso in associazione mafiosa». Le testimonianze di pentiti e di soggetti vicini all’imputato hanno dato, secondo i pm, ulteriore conferma alle accuse. «Fin dal 1991 i contatti con Angelo Siino - ha detto Del Bene - dimostrano l’esistenza del patto politico-mafioso stretto da Cuffaro con esponenti di Cosa Nostra». Antonio Di Matto, in precedenza, aveva ripercorso il legame tra la Regione e le cliniche di Aiello, indicato dal pentito Nino Giuffrè come anello di collegamento tra l’imprenditoria dal volto pulito e Bernardo Provenzano. «Fra i due gli interessi comuni erano moltissimi - ha aggiunto Di Matteo - e, a ulteriore riprova, c’è anche il fatto che la moglie di Cuffaro, Giacoma Chiarelli, è stata protagonista di un trasferimento di quote che per pochi minuti ne ha fatto una socia dell’imprenditore».
Cuffaro, dopo la richiesta di pena è uscito dall’aula in silenzio accompagnato dai suoi legali. Alla prossima udienza, prevista per il 30 settembre, toccherà alla difesa di Cuffaro con le arringhe difensive.
mondo
pagina 8 • 29 giugno 2010
Polemiche. Il vertice canadese non è stato entusiasmante: forse sarebbe il caso che l’Europa (attraverso il Ppe) si facesse promotrice di nuove regole di mercato
Il capitalismo timido Non approvando la tassa sulle speculazioni bancarie, il G20 ha mostrato molti limiti sull’etica dell’economia di Rocco Buttiglione risultati del G20 non sono entusiasmanti. L’invito a diminuire i deficit degli stati dopo la esplosione della spesa pubblica provocata dalle misure straordinarie per fronteggiare la crisi era scontato. C’è da domandarsi se valeva la pena di indicare un termine così prossimo (il 2013) ed una misura così impegnativa (dimezzare il deficit) in un momento in cui la ripresa è (almeno in Europa) ancora fragile ed incerta. Probabilmente è vero che un rientro accelerato dal deficit non ci riporterà dentro la crisi ma è certo che esso non darà sollievo al vero problema del presente, che è una crescita debole e senza creazione di posti di lavoro.
I
Sul tema della tassazione delle operazioni speculative non si è riusciti a trovare l’accordo, e questa è la delusione più grande. L’idea era buona e su essa converrà insistere. Una tassa piccolissima (0,01 o 0,02%) su tutte le transazioni bancarie non viene sentita affatto dai normali clienti ma ha un effetto potente sugli speculatori che effettuano migliaia di transazioni quotidianamente e lo fanno con un leverage (rapporto fra capitale proprio e capitale preso in prestito) altissimo. Se il leverage è di 1 a 1000 una tassa dello 0,01% equivale ad una tassa del 10% sul capitale proprio impiegato. E se oggi allo speculatore basta provocare una piccolissima variazione di prezzo per ottenere enormi guadagni con l’introduzione di questa tassa la variazione di prezzo che consente un guadagno diventa molto più consistente e le probabilità di finire in perdita molto più alte. Non si interferirebbe
con le operazioni che hanno cause reali ma si renderebbero assai più difficili operazioni meramente speculative. E il gettito sarebbe considerevole. Per l’Unione Europea è stato calcolato che con un tasso dello 0,01% si potrebbe avere un gettito di 38 miliardi di euro.
Alcuni economisti sono preoccupati del fatto che la tassa potrebbe essere trasferi-
Con i fondi messi a disposizione dal tributo, la Ue potrebbe realizzare infrastrutture materiali e immateriali (università di qualità e ricerca) capaci di rilanciare nel mondo la competitività del sistema ta sulla clientela. Sembra difficile che questo possa avvenire perché in realtà non si tratta di una tassa sulle banche ma di una tassa sulla clientela (su di un certo tipo di clientela, quella speculativa). Con 38 miliardi di euro (o più, se l’aliquota fosse più alta) l’Unione Europea potrebbe fare molte cose. Per esempio potrebbe finanziare un debito pubblico comune mobilitando fra 7 e 800 miliardi di euro di risorse con i quali dar vita ad un gigantesco programma di costruzione di infrastrutture. Potremmo realizzare infrastrutture materiali (porti, aeroporti, stra-
de, centrali di energia, ferrovie, etc…) e immateriali (università di qualità, ricerca scientifica, formazione professionale di alto livello) capaci di rilanciare nel mondo la competitività del sistema Europa. Potremmo fare queste cose facendone pagare i costi agli speculatori che, fino ad ora, non partecipano in alcun modo ai sacrifici per riparare ai danni che essi, con i loro comportamenti, hanno provocato. Purtroppo gli speculatori esercitano un influsso potente sulle grandi istituzio-
ni internazionali e, almeno per il momento, non si è riusciti a costruire un consenso su questo tema.
Forse un consenso si può costruire in Europa e, se l’Unione Europea inizia a muoversi in questa direzione, è probabile che seguano anche gli Stati Uniti. Il tema è già stato affrontato positivamente nell’ultimo Consiglio Europeo. Certo, idealmente la tassa sulle transazioni bancarie richiede una applicazione universale. Esiste altrimenti il rischio che le operazioni speculative si spostino semplicemente verso le piazze finanziarie che non adottano questa legislazione. È difficile però che questo possa avvenire se un’area economica così ampia come l’Unione Europea dovesse decidere di applicare questa nuova regola. Senza il bilanciamento di un programma straordinario per lo sviluppo e
l’occupazione il semplice dimezzamento dei deficit entro il 2013 rischia di avere effetti deflazionistici. Dietro l’angolo c’è l’idea tedesca di una rilettura rigorista del trattato di Maastricht che vincoli gli stati membri al pareggio di bilancio. In Germania il principio del pareggio di bilancio è stato introdotto con legge costituzionale e fissato al 2016. Sarebbe una medicina troppo forte per molti paesi dell’Unione, se non controbilanciata da misure comuni per lo sviluppo.
Oggi il livello di disoccupazione nell’Unione si aggira intorno al 10%. Siamo rassegnati a convivere con un livello di disoccupazione così elevato per una generazione? Dato che la disoccupazione si concentra soprattutto fra i giovani questo significa accettare che un numero molto grande di giovani saranno confinati nel ghetto di una adolescenza prolungata, non avranno un lavoro stabile fino agli anni della maturità, formeranno la loro famiglia tardi o mai, vivranno tutta la vita in una condizione di preca-
In queste pagine, alcune immagini del vertice G20 che si è chiuso ieri in Canada. Qui sopra, Markel e Cameron guardano la partita Inghilterra-Germania
rietà e di alienazione. Quelli che non hanno una famiglia che li sostiene saranno affidati all’assistenza pubblica o soffriranno la fame. Se non vogliamo questo dobbiamo allora preoccuparci sì della stabilità ma anche dello sviluppo. Questo tema deve interpellare in modo particolare il Partito Popolare Europeo. La dottrina sociale cristiana dice che non è eticamente difendibile un sistema che non generi una “ragionevole abbondanza di posti di lavoro”, in modo che tutti quelli che vogliono lavorare lo possano anche fare. Alla luce di questo criterio è ancora difendibile il nostro sistema? Non abbiamo bisogno di riforme incisive e profonde?
La dottrina sociale cristiana riconosce i benefici ed anche il valore etico del mercato e perfino (in un certo senso) del capitalismo. Distingue però chiaramente fra un valore positivo del mercato, quando esso è al servizio della persona umana, ed uno negativo quando la persona è messa sotto i piedi e lacerata per servire le esigenze del sistema. Il compito della politica è quello di difendere la persona ed orientare l’economia verso il bene comune. Stiamo facendo davvero tutto il possibile per corrispondere alle ragioni etiche del fare politica? Il messaggio che arriva da questo G 20 ( come ha detto anche il cardinal Bertone) non è entusiasmante.
mondo
29 giugno 2010 • pagina 9
Baluardi. A Toronto hanno evitato l’imposta voluta dalla Merkel, in futuro potrebbero rallentare l’applicazione delle regole di Basilea 3
La grande rivincita delle banche ROMA. Prima i titoli bancari hanno tenuto su un’Europa apatica. Quindi hanno limitato le perdite in un’America preoccupata per consumi troppo bassi e disoccupazione ancora alta. E il giudizio dato ieri dalle Borse la dice lunga su chi è il vero vincitore dell’ultimo G20. G20 di Toronto che (al netto delle violenze tra forze dell’ordine e manifestanti) a questo punto difficilmente passerà alla storia per l’impegno di dimezzare i deficit da parte dei Paesi che posseggono l’85 per cento del Pil mondiale.
Mario Draghi, con l’autorevolezza che lo contraddistingue, ha fatto sapere che le regole di Basilea III e il loro conseguente rafforzamento patrimoniale saranno applicate senza sconti già da novembre. Ma sui mercati sono in pochi a crederci, visto che il mondo bancario è riuscito a fare le giuste pressioni per fare saltare la proposta tedesca di un balzello che, sulla carta, sarebbe servito a recuperare munizioni contro le future crisi. Soprattutto il tonfo sembra più fragoroso se si pensa che il G20 poteva finalizzare questa tassa alla creazione di un fondo ad hoc contro la povertà. E che Barack Obama venerdì sera, all’apertura del vertice, aveva anche mostrato un approccio più morbido sul tema, spiegando che «quella del controllo sul capitale bancario è la questione chiave nell’impegno per rafforzare il sistema finanziario globale». Invece non è successo nulla. Il mondo creditizio è riuscito a far passare l’idea che un balzello avrebbe ridotto l’accesso al credito per le aziende, in una fase dove la ripresa è ancora un venticello troppo flebile. Senza contare che le future regole di patrimonializzazione rendono il sistema più vulnerabile, soprattutto se si tiene conto della necessità di salvaguar-
di Francesco Pacifico dare le prossime emissioni obbligazionarie degli Stati. Dopo Toronto hanno le armi spuntate Angela Merkel, Nicolas Sarkozy e David Cameron, che nonostante la sconfitta hanno confermato l’introduzione di una tassa nei rispettivi Paesi. Se il presidente francese sottolinea che «il G20 ha riconosciuto che una tassa sulle banche è legittima, e l’Europa farà da apripista», c’è il rischio che il mondo finanziario del Vecchio continente possa fare i conti con un dumping di natura fiscale da parte dei propri concorrenti in America e in Asia. Ma la mancata introduzione della tasse sulle banche finisce per trasformarsi in un campanello d’allarme su temi molto più centrali nella nuova economia che il mondo sta co-
dizzare il livello di rischio sistemico dovranno trovare spazio in tutti gli aspetti della vigilanza. E questo non può avvenire senza politiche macroprudenziali e quelle macroeconomiche si completino per evitare bolle. Ma i governi di America e Europa sono troppo lontani su questo versante.
C’è il rischio che Berlino e Parigi, con i loro istituti ancora lontani dai requisiti di Basilea 3, possano nel tempo ottenere delle deroghe come risarcimento per il mancato via libera alla tassazione sul credito. E non a caso, per ora, ottengono che le nuove regole saranno introdotte più gradualmente, allontanando anche l’imperativo a recuperare in casa – attra-
I colossi del credito minacciano di limitare la liquidità necessaria a rafforzare una ripresa ancora debole. Intanto il Vecchio Continente e gli Usa si scoprono distanti sulla riforma finanziaria così come sulle ricette per incentivare lo sviluppo struendo dopo aver subito la più grande crisi dell’età mondiale. Intanto finisce per minare gli sforzi del Comitato di Basilea e del Financial Stability Board per provare a riformare la regolamentazione finanziaria. E parliamo di principi – gli stessi che al prossimo G20 di Seoul dovrebbero trasformarsi in norme – attraverso i quali nascerà una speciale e più attenta vigilanza, si applicheranno requisiti di capitale e di liquidità aggiuntivi, saranno formalizzate procedure comuni di fallimento dei gruppi multinazionali – quelli“too big to fail”, si tenterà di ampliare il livello di concorrenza. Per quanto possibile, l’obiettivo è quello di standar-
verso maggiore patrimonializzazione – le munizioni contro la crisi, e non più bussando agli Stati d’appartenenza per ottenere sostegno pubblico. Eppoi la distanze sul futuro delle banche finiscono per acuire le distanze tra l’amministrazione Usa e i grandi Paesi europei sulle ricette per rafforzare la ripresa. L’impegno a dimezzare il deficit entro il 2013 non è accompagnato da misure concrete. Sugli incentivi alla crescita, poi, Oltreoceano si guarda a strumenti tipicamente europei, come l’uso massiccio di pacchetti di stimoli per l’economia, aiuti alla domanda, nella speranza di creare posti di lavoro e forse di un mercato interno. Oba-
ma, infatti, l’ha già chiarito ai partner del G20 che la sua America non terrà in piedi come in passato la produzione della Cina o del Giappone. Nel Vecchio continente invece la Germania – l’unica che riesce a esportare verso i mercati dinamici – ha imposto una ricetta diametralmente opposta: rigore di bilancio da realizzare con tagli alla spesa pubblica, recupero di munizioni da tramutare in aiuti per la ricerca per i propri campioni nazionali dell’industria pesante, i quali in questo modo possono produrre con costi del lavoro più bassi. Gli americani vivono una fase autarchica, i tedeschi puntano sulla concorrenza. E proprio per rafforzare questo nuovo equilibrio che Obama ha dovuto rilanciare sul progetto del G2 con Hu Jintao, che fino a qualche mese sembrava avere i piedi di argilla. Nella due giorni di Toronto l’Europa invece ha finito per chiudersi, sancito quasi un approccio unilaterale ai nuovi scenari mondiali. E di riflesso ha abdicato a un ruolo d’indirizzo nella governance planetaria, al quale pure avrebbe dovuto ambire con la rivincita dell’industria pesante sulla finanza. Soprattutto ha fatto un passo indietro la Germania, che ha imposto ai suoi vicini di parlare con la sola voce del rigore. Peccato che però a Bruxelles – come dimostrano gli accordi sull’acquisto dei bond spazzatura dalla Bce o dal nuovo veicolo sulla stabilità – alla fine i vincoli tedeschi finiscano sempre per essere affievoliti dalle necessità delle economie meno mercatiste.Va da sé che è il caos. Ed è difficile dare torto al direttore del Fondo monetario internazionale, Dominique Strauss Kahn, quando si chiede che senso ha «tagliare alla cieca se ogni Paese non si crea le giuste strategie economiche per sostenere la crescita».
panorama
pagina 10 • 29 giugno 2010
ragioni&torti di Giancristiano Desiderio
Così Pennacchi vincerà il Premio Strega to leggendo il romanzo che giovedì prossimo vincerà il Premio Strega: Canale Mussolini di Antonio Pennacchi (Mondadori). Ora speriamo che la previsione sarà rispettata: quest’anno infatti c’è battaglia tra gli editori e se Canale Mussolini non dovesse vincere, Pennacchi - se lo conosco almeno un poco - mi maledirebbe simpaticamente per avergli portato sfortuna. Ora qui io, però, non voglio parlare del romanzo. Sto ancora leggendo e non posso riportare in poche righe la storia dei Peruzzi, che poi sono i nonni e gli zii del Pennacchi venuti giù dal Nord ai tempi del fascismo per realizzare la Bonifica delle Paludi Pontine. Ma se non voglio e non posso scrivere della storia principale del romanzo allora di cosa mai potrò parlare dopo aver detto che al romanzo è giusto riconoscere lo Strega? Di due cose: la narrazione e la lingua.
S
Prima dell’inizio della storia della sua famiglia - che si porta dietro la storia della nostra storia nazionale - Pennacchi si rivolge direttamente al lettore per dirgli che «bello o brutto che sia, questo è il libro per cui sono venuto al mondo». Lasciamo stare «il bello e il brutto» e soffermiamoci su «questo è il libro per cui sono venuto al mondo». Che vuol dire? Più o meno una cosa come questa: che non è Pennacchi ad aver inventato la storia, ma, al contrario, è stata la storia che ha inventato o scelto il Pennacchi. Secondo l’autore, infatti, esistono almeno due categorie di scrittori: quelli che inventano le loro storie, che si siedono a tavolino e stilano una scaletta del lavoro, che programmano la storia e che cosa diranno i personaggi e quando lo diranno; e poi ci sono gli altri scrittori, quelli che non programmano un bel niente, che non buttano giù una scaletta e che scrivono perché sono stati “chiamati”proprio per fermare quelle storie sulla carta. Pennacchi rientra in questa seconda categoria e la storia che narra, anzi le tante storie che narra in Canale Mussolini, non sono una particolare invenzione letteraria della sua mente, ma giravano nell’aria e lui si è “limitato”a fermarle prima che svanissero definitivamente. Per farla breve, Pennacchi non è un romanziere, è invece un autentico narratore ossia uno che racconta le cose umane, storie che possono essere accadute o meno, ma che risultano comunque “vere”.
La seconda cosa è la lingua. Antonio Pennacchi è uno scrittore, ma non ha sempre fatto lo scrittore. In passato per campare faceva l’operaio, anche se già sapeva di essere scrittore. Oggi che fa lo scrittore non dimentica di essere stato un operaio: Pennacchi scrive con la lingua con la quale parlava con i suoi compagni in fabbrica e con la lingua con la quale parla oggi ai suoi amici al bar del paese (Latina). Proprio perché è un narratore, la sua lingua è popolare, ma proprio perché è popolare è potente. Dopo di che se non gli danno lo Strega non hanno capito niente: Pennacchi ha già vinto.
E se la verità su Ustica fosse una bomba? Si riparla del missile, ma in piedi c’è anche la pista dell’ordigno di Riccardo Paradisi ’è un ipotesi diversa sulla strage di Ustica accanto alla pista del missile sparato da un aereo francese che viaggiava sotto il Dc9 e che avrebbe dovuto colpire un areo libico con a bordo Gheddafi. Un ipotesi ribadita anche ieri in un’intervista al Corriere della Sera da Rino Formica – il socialista che trent’anni fa precisi era ministro dei Trasporti nel governo Cossiga.
C
È l’ipotesi della bomba, dell’ordigno esplosivo piazzato nella coda del Dc-9 inabissatosi nel tratto di mare tra Ustica e Ponza alle 20,59 del 27 giugno del 1980. Nel gennaio del 1994 – dopo che 4 anni prima, nel maggio del 1990, altri periti si erano espressi nello stesso senso – in una riunione a porte chiuse nell’hangar di Pratica di Mare, dove è stato sistemato il relitto del Dc-9, i periti dichiarano che è stata una bomba a tirar giù il Dc-9Itavia. Una tesi che nel 1993 il perito britannico Frank Taylor – il tecnico che ha avuto un ruolo fondamentale nel disvelamento dell’attentato aereo di Lockerbie – aveva già scritto in una lettera allo stesso giudice istruttore Rosario Priore, dove la tesi della bomba viene esplicitamente dichiarata l’unica percorribile nelle indagini. Una perizia minuziosa quella di Taylor di cui vale la pena riportare alcuni stralci: «I danni alla paratia posteriore e al rivestimento dietro di essa indicano che sotto, nella toilette posteriore dell’aereo, si sviluppò una forza esplosiva...La deformazione verso l’esterno e in avanti dell’ordinato di fusoliera, la frattura dei montanti anteriori del motore, il piegamento verso l’alto del telaio di rivestimento del soffitto, indicano tutti una sovrapressione esplosiva». Secondo la perizia di Taylor i fatti parlerebbero chiaro e sarebbero «tutti concordanti in direzione dell’esplosione interna». L’ipotesi dell’attentato sarebbe peraltro anche coerente con il quadro precedente e successivo a quel 27 giugno. Dall’inizio del 1980, da ambienti arabi e mediorientali, arrivano all’Italia una serie di minacce e ultimatum che scadono proprio alla vigilia delle stragi di Ustica e di Bologna. A innescarle, nel 1979, il fermo ad Ortona di alcuni esponenti dell’Autonomia italiana che assieme con militanti del Fronte per la liberazione della Palestina stavano trasportando una partita di missili Sam 7 Strela diretti in Libano. Tra loro c’è anche Abu Anzeh Saleh, braccio destro del terrorista Carlos. Sembra che fino ad allo-
ra – fino all’insediamento del governo Cossiga – quel genere di traffici sul territorio italiano fosse pienamente tollerato in virtù di un patto tacito tra governi italiani e segmenti del mondo politico militare mediorientale volto a evitare che anche la Penisola fosse teatro di attacchi terroristici. Il 15 maggio 1980, dopo l’episodio di Ortona che rompe concretamente quella tregua, gli arabi pongono le loro condizioni: la principale è il pagamento di 60mila dollari per la partita di missili sequestrati a Ortona e il rilascio di alcuni elementi strategici coinvolti nell’operazione. In caso di rifiuto il territorio italiano sarebbe diventato un obiettivo sensibile per gli arabi. In quel terribile 1980 si dispiega anche la campagna di eliminazioni degli oppositori al regime libico rifugiati in Europa e nel nostro Paese. Il 20 maggio a Roma è trovato ucciso in un albergo di Via Nazionale Mohamed Fouad Bouhjar e in pochi giorni nove libici vengono assassinati a Bonn, Londra, Atene e Beirut.
Secondo alcune ipotesi la strage potrebbe essere collegata con la bomba di Bologna e col terrorismo arabo
Uno degli appartenenti allo squadrone della morte rivela che i gruppi di assassini che agiscono per conto della Libia sono stati arruolati e addestrati a Tripoli dal terrorista Carlos. Il 2 agosto del 1980, un mese dopo Ustica, un’altra bomba uccide altre 80 persone sul suolo italiano. Stavolta alla stazione di Bologna. La stessa città dalla quale era partito il Dc9 Itavia. E lo stesso giorno in cui il sottosegretario agli Esteri Giuseppe Zamberletti era a Malta per mettere a punto gli ultimi dettagli dell’accordo che avrebbe sancito la neutralità dell’isola. Accordi che provocavano un danno notevole agli interessi strategici sovietici e libici nel Mediterraneo. Il 24 agosto, dopo che a Tripoli fallisce un golpe contro Gheddafi, un sottomarino e una nave da guerra libici intimano alla nave italiana Saipem 2 di interrompere le ricerche petrolifere sui banchi di Medina iniziate per rispettare le clausole dell’accordo italia-Malta. Il 27 agosto il personale militare libico è espulso dall’isola. Nell’estate del 1980 esistevano dunque i presupposti per azioni di guerra non convenzionale o terroristica nel bacino del Mediterraneo. La bomba non è un ipotesi peregrina. E purtroppo ha ragione l’ex presidente della Comissione stragi Giovanni Pellegrino quando dice che su Ustica nulla può essere escluso. Purtroppo, perchè questo vuol dire che a trent’anni di distanza su Ustica è ancora buio.
panorama
29 giugno 2010 • pagina 11
Probabilmente sconterà in Italia l’ergastolo a cui è stato condannato per i quattro omicidi compiuti negli anni Settanta
Battisti verso l’estradizione? Berlusconi oggi in visita da Lula. E già trapelano le prime indiscrezioni sul terrorista di Francesco Capozza i erano lasciati a Washington, poco più di due mesi fa. La prima tappa della missione di Berlusconi negli Usa, motivata dal summit sulla sicurezza nucleare voluto da Obama, era stata dedicata all’incontro bilaterale tra Italia e Brasile. Poco dopo essere atterrato negli Stati Uniti, infatti, il premier aveva incontrato presso l’ambasciata brasiliana il presidente brasiliano Lula. Al centro del faccia a faccia, la firma del piano di azione per il partenariato strategico fra i due Paesi. Secondo quanto si era appreso, tuttavia, Berlusconi avrebbe anche accennato alla questione dell’estradizione di Cesare Battisti, sul quale pesa ancora la decisione della Corte suprema brasiliana, che ne ha autorizzato l’estradizione. Ma l’ultima parola spetta al presidente brasiliano. Proprio Lula, nel corso dell’incontro, avrebbe sottolineato la propria posizione di attesa del completamento dell’iter giudiziario: mancano infatti le motivazioni della Corte suprema. Dal canto suo, Berlusconi aveva ribadito il totale appoggio e il rispetto nei confronti dell’autorità brasiliana per l’espletamento delle procedure di estradizione e il completamento del lavoro dei giudici brasiliani. Per quanto riguarda questo punto, dunque, l’incontro era stato definito “interlocutorio”. Oggi, dopo due mesi, Lula e Berlusconi tornano a incontrarsi. Il premier, proveniente dal G20 in Canada, è infatti at-
S
terrato a San Paolo, motivo ufficiale della visita: alcuni incontri con imprenditori italiani in Brasile e con alcune associazioni di categoria. La visita al presidente Lula, fissata per oggi alle ore 11 locali, è quindi una formalità prevista dai rispettivi protocolli. Ma qualcosa dell’incontro è già trapelato. E la notizia sembrerebbe esserci: è molto probabile, si dice, che Battisti sconterà in Italia l’ergastolo cui è stato condannato per i 4 omicidi compiuti negli anni Set-
tanta. Ma ad estradarlo, a meno di clamorosi colpi di scena, potrebbe non essere Lula, che nelle prossime ore accoglierà Berlusconi a San Paolo per una visita che ha il sapore di una vera e propria missione di sistema per le imprese italiane, con 60 imprenditori al seguito ed affari in ballo per oltre 10 miliardi di euro. Il caso Battisti ha sfiorato nei mesi scorsi lo scontro diplomatico fra Roma e Brasilia: da una parte il governo italiano che ne chiedeva l’estradizione dal carcere di Bapuda (dove attualmente si trova l’ex terrorista dei proletari armati per il Comunismo); dall’altra il governo Lula, con le mani legate dalla decisione dell’ex ministro della Giustizia, Tarso Genro, di concedere a Battisti un controverso asilo politico.
Turismo, infrastrutture e investimenti al centro della visita in Brasile del presidente del Consiglio
Ora che la Corte Suprema ha ribaltato la decisione di Genro, dando in sostanza il via libera all’estradizione dell’ex militante dei Pac verso l’Italia, l’ultima parola spetterebbe a Lula. Che però, in scadenza di mandato (il 3 ottobre si vota), potrebbe anche non pronunciarsi. A decidere - sembra essere questo ormai l’accordo - dovrebbe essere dunque il successore. I sondaggi danno come sicura vincente Dilma Rousseff, sempre del Partido Dos Trabalhadores (Pt) di Lula, contro il rivale socialdemocratico Josè Serra. Un pas-
sato da guerrigliera, la Rousseff, fino a qualche giorno fa del caso Battisti non aveva fatto parola. Giovedì scorso invece, a sorpresa, in un’intervista radiofonica ha fatto sapere che se Lula non dovesse pronunciarsi sull’estradizione entro la fine del suo mandato «si dovrà applicare la decisione del Supremo Tribunal». Che tradotto significa: Battisti sarà estradato. In questo modo Lula non perderebbe la faccia sconfessando una decisione del suo, pur ex, ministro della Giustizia, e Dilma Rousseff conserverebbe le simpatie dei tantissimi italiani in Brasile, che soprattutto nel sud del Paese, dove è massiccia la loro presenza, hanno un influente peso elettorale. Dopo mesi di silenzio sulla vicenda, «Italia e Brasile hanno ricominciato a parlare di Battisti e c’è un buon flusso», confermano infatti fonti autorevoli a Brasilia. Querelle Battisti a parte, Berlusconi, nel suo incontro di oggi, avrà modo di confrontarsi con il presidente di un Paese che ormai da tempo ha unito all’impetuoso sviluppo economico un ruolo di “gigante”politico, come dimostra la posizione assunta da Brasilia sul dossier nucleare iraniano. I core business della missione restano comunque gli affari che si aprono per le imprese italiane, dalle infrastrutture all’industria navale, dalle telecomunicazioni al turismo fino naturalmente al petrolio.
Primati. La pressione fiscale sale ancora: ora siamo al quinto posto in Europa tra i più tartassati
Italia 2009: è record delle tasse di Alessandro D’Amato
ROMA. L’Italia scala la classifica europea per la pressione fiscale: nel 2009 il peso del fisco sul prodotto interno lordo è stato del 43,2%, in aumento rispetto al 2008. Con questa performance il nostro paese si colloca così al quinto posto, insieme alla Francia, in Europa per pressione fiscale nell’Ue a 27. Soltanto due anni fa era al settimo. Il poco onorevole sorpasso risulta dai dati sui conti pubblici nel 2009 diffusi dall’Istat. Per tornare ad una pressione fiscale più alta in Italia, bisogna tornare indietro al 1997, l’anno dell’Eurotassa (ma nel 2007 la pressione del fisco era stata comunque pari al 43,1%). Nel computo totale a pesare non è l’aumento delle tasse, ma una diminuzione del Pil percentualmente maggiore rispetto alla diminuzione delle entrate. «La dinamica negativa (-2,3%) del gettito fiscale e parafiscale - spiega un comunicato dell’Istat - è stata attenuata da quella, in forte aumento, delle imposte di carattere straordinario (imposte in conto capitale), cresciute in valore assoluto di quasi 12 miliardi di euro». Fra le imposte
straordinarie sono classificati anche i prelievi operati in base al cosiddetto «scudo fiscale», per un importo che ammonta a circa 5 miliardi di euro.
È importante anche sottolineare che nel 2009, nel nostro paese, la maggior parte degli introiti provenienti dalle voci del pre-
tito dell’Iva (-6,7%) e dell’Irap (13%). L’andamento dei contributi sociali effettivi riflette la tenuta delle retribuzioni lorde, dovuta alla lieve crescita dell’importo medio pro-capite, che ha parzialmente compensato la flessione dell’occupazione. Nella classifica europea l’Italia del 2009 raggiunge la Francia, dopo Danimarca (49%), Svezia (47,8%), Belgio (45,3%), Austria (43,8%). Nel 2008, oltre a questi Paesi, ad avere una pressione fiscale più alta dell’Italia c’erano anche la Finlandia e la stessa Francia. Il primato dei paesi scandinavi non deve sorprendere, visto che «i più evoluti sistemi di welfare - sottolinea l’istituto di statistica - hanno storicamente richiesto un maggiore ricorso alla fiscalità generale».
Ormai se ne va in tributi il 43,2% del Pil: due anni fa eravamo al settimo posto della classifica dei 27. Ora solo gli scandinavi ci superano lievo fiscale sono risultati in calo: le imposte indirette del 4,2% (dopo essere diminuite già del 4,9 nel 2008), le imposte dirette del 7,1% e i contributi sociali effettivi dello 0,5%. La flessione delle imposte dirette è dovuta essenzialmente al calo del gettito Ires (-23,1%) rispetto al 2008, mentre quella delle imposte indirette ha risentito delle significative diminuzioni del get-
il paginone
pagina 12 • 29 giugno 2010
L’esame di maturità ha riportato l’attenzione sul pensiero di Socrate la cui ricerca costante di consapevolezza è alla base della nostra società politica di Giancristiano Desiderio a scuola, o meglio gli esami di maturità, hanno riacceso le luci su Socrate, fino a farlo diventare quasi uno dei personaggi della settimana passata. Così dicendo faccio uso di quella sana ironia che il grande ateniese ci invita a esercitare come pratica di vita (e di morte) da duemilacinquecento anni. Grosso modo sono gli anni della nostra civiltà. Perché Socrate è, insieme con Gesù, il personaggio chiave della nostra cultura occidentale che è profondamente radicata nella cura dell’anima. Mi piace ricordare che qualche anno fa Ferdinando Adornato nel libro La nuova strada (Mondadori) indicò proprio nella due figure centrali di Socrate e Gesù - Atene e Gerusalemme la “retta via” che è andata smarrita nella tracotante modernità. La nuova strada è la strada antica della cultura umanistica che mette al centro della storia non semplicemente il logos, ma il logos che si è fatto carne: l’uomo libero, gli uomini. L’altro giorno i liceali per la seconda prova d’esame hanno tradotto un passo dell’Apologia di Platone. Fu Leo Strauss a dire che tutti i dialoghi di Platone sono delle Apologie di Socrate. C’è una grande verità in questo giudizio. Ma allora l’Apologia sarà l’apologia delle apologie: perché non è solo un testo di filosofia, ma la stessa vita filosofica di Socrate che, giocata fino alla fine, ci ha consegnato delle cose come queste: il concetto, lo Stato, l’anima e la libertà.
L
Karl Popper direbbe più o meno così: non sappiamo nulla, dobbiamo essere umili, non dobbiamo bluffare dicendo di sapere ciò che non sappiamo Conviene iniziare con la domanda che Cherefonte rivolse all’oracolo di Delfi: «Esiste uomo più sapiente di Socrate?». Il paradosso della figura socratica è evidente da subito: sapienza e non-sapienza coincidono. Nell’Apologia Socrate, prima di difendersi dalle accuse di Anito, Meleto e Licone, si difende da altri terribili accusatori che considera più insidiosi perché hanno persuaso gli Ateniesi che Socrate è un «uomo sapiente» e fa indagini sulle «cose celesti» e ricerche su tutte le «cose che stanno sotto terra» e, inoltre, «rende più forte il ragionamento più debole». La strana accusa da cui Socrate avverte il bisogno di difendersi è quella di essere un naturalista e un sofista e di possedere, dunque, una conoscenza certa (come Parmenide, Eraclito, Pitagora, Empedocle) sulle cose prime e ultime, e un sapere oratorio (come Protagora, Gorgia e gli altri
sofisti) da trasmettere a chi ne fa richiesta e paga. Socrate dice espressamente di non avere queste conoscenze perché ritiene che vadano al di là delle umane possibilità. Ammette, invece, di essere versato nella sapienza umana: «Infatti, di questa può darsi veramente che io sia sapiente». Qual è questa sapienza?
Per dare una risposta a questa domanda, Socrate parla del responso dell’oracolo di Delfi. La Pizia ha detto che nessuno è più sapiente di Socrate. Per il filosofo, come per chi lo ascolta, le divine parole della sacerdotessa suonano enigmatiche dal momento che Socrate ha appena finito di dire di non essere sapiente. Così, per capirci qualcosa, racconta di essersi recato dai sapienti del tempo o che tali erano ritenuti o che tali si consideravano: politici, poeti, artigiani. Il risultato dell’incontro tra Socrate e i sapienti è che gli uomini che credono di sapere tutto non sanno nulla: non sanno render conto di ciò che dicono di sapere.Viceversa, Socrate è indicato dall’oracolo come il più sapiente perché sapendo di non sapere non s’illude di sapere, né inganna sé e gli altri con un sapere che non ha. La condizione di Socrate è universale: gli uomini in quanto sono mortali non sono sapienti e la sapienza alla quale possono aspirare è quella che parte dalla consapevolezza della loro non-sapienza. Karl Popper direbbe più o meno così: non sappiamo nulla, dobbiamo essere umili, non dobbiamo bluffare dicendo di sapere ciò che non sappiamo. Dal non-sapere socratico dipende, si vedrà, la nostra libertà. La rivoluzione cognitiva di Socrate non è fine a se stessa e ha importanti conseguenze etiche e politiche che sono a loro volta una rivoluzione spirituale. Nell’Apologia, subito dopo aver interpretato l’enigma di Apollo, Socrate aggiunge: «Io ricerco e indago, in base a ciò che ha detto il dio, se io possa giudicare sapiente qualcuno dei cittadini e degli stranieri. E, dal momento che non mi sembra che sia tale, venendo in soccorso al dio, dimostro che non esiste un sapiente». Non ci vuole molto a capire dove si va a parare: c’è in gioco la politica, il potere, lo Stato, la Città. Socrate è imitato. Non è solo lui a mostrare come chi dice di sapere in realtà non sa: anche i giovani fanno altrettanto. Il sapere è sottoposto a pubblica critica. Il potere è sottoposto a pubblica critica. E il sapere-potere reagisce: «Di conseguenza, quelli che vengono sottoposti ad esame da loro, si adirano contro di me e non già con se medesimi, e affermano che Socrate è in sommo grado abominevole e che corrompe i giovani». È un’accusa classica: è un filosofo, è uno
Nelle riflessioni e nella vita del grande filosofo, cos
Cercasi libe strano tipo, è un corruttore. Proprio quando Socrate mostra che la sapienza umana non è né certa né divina né infallibile, il potere, tracotante, lo accusa di tracotanza. Il potere - sia oligarchico, sia democratico - reagisce perché si sente minacciato dalle ricerche socratiche, cioè da un discorso pubblico che prova a giustificare nel confronto del dialogo i saperi e le azioni degli uomini.
Il sapere di Socrate è un sapere sui generis: il sapere morale. Socrate si chiede: “Cosa devo fare?”, “Come devo agire?”,“Come devo vivere?”,“Come devo pensare?” o, se si vuole,“Cos’è il Bello?”, “Cos’è la Giustizia?”, “Cos’è il Bene?”. Sono domande per le quali non abbiamo a disposizione delle risposte pronte, come se potessimo aprire un libro, un codice o una cassetta degli attrezzi che ci dà uno strumento pronto per l’uso. Il sapere di cui Socrate va alla ricerca o, meglio, il sapere che Socrate mette in questione con la sua ironia e con il suo metodo dialettico della domanda e della risposta non è un oggetto né un calcolo. È un sapere che riguarda la vita dell’individuo e ogni uomo deve rispondere a queste domande con la vita. Da questo punto di vista, Socrate è
il paginone
29 giugno 2010 • pagina 13
sonore, non la morte. Bisogna aver paura dell’ingiustizia, non della fine della vita. Una vita che rifiuta di migliorarsi per paura della morte non vale la pena di essere vissuta. Ma cosa significa essere migliori? Esaminare me stesso, mettermi alla prova. La filosofia di Socrate non mira a trasmettere un sapere (come se il sapere fosse un oggetto spostabile da qui a lì, da questa a quella testa), ma a mettere in discussione una vita affinché dal sapere si possa passare al saper-si. Socrate con la sua ironia spinge i suoi interlocutori a un sapere virtuoso che non riguarda ciò che l’uomo sa, ma ciò che l’uomo è. Cosa può mai sapere l’uomo che è un povero mortale? Il suo sapere non potrà che essere mortale, incerto, sarà un non-sapere. Chi è cosciente del non-sapere, dice il Simposio, è filosofo. Ma a questo punto chi si riconosce nella fragile condizione umana può migliorarsi e aspirare a essere altro: più giusto, più vero, più bello, più buono.
Il suo monito fu: sfuggire alla malvagità è molto più difficile che vincere l’incubo della morte. «La malvagità è più veloce della morte»
sì come le ha poi descritte Platone, c’è l’eterno conflitto tra potere e cultura
ertà a Occidente assolutamente sincero quando dice di non sapere. Non può sapere cosa devono fare gli altri, né può sapere cosa deve fare lui in assoluto: cioè sempre e comunque. Ciò che sa con certezza è che non deve commettere ingiustizia. A cosa serve allora, questo strano sapere socratico. Suo scopo è quello di far emergere la persona e la sua libertà di scelta. Nessuno si può sostituire a nessuno.Volgarmente noi diciamo: «Nessuno mi può dire quello che devo fare». Significa: il potere non mi può imporre il sapere perché il potere non è onnisciente. Così interpretato, il non sapere socratico è il padre della nostra libertà e di sua sorella la responsabilità. Perché allora Socrate non disobbedì alle leggi? Perché non fece prevalere la legge non scritta su quella scritta? Quella giusta su quella ingiusta? Perché fece decidere il suo destino alle leggi, cioè allo Stato, quando persino i suoi giudici gli riconoscevano una via di fuga. Proprio perché
gli fu offerta più di una possibilità di salvare la pelle, non scelse lui consapevolmente di morire? Socrate non aveva paura di morire. Questo è il punto capitale, insieme al non-sapere, della sua filosofia, ossia del suo modo di vivere. Nei Dialoghi si contano a decine e decine i passi in cui Socrate spiega perché non ha paura di morire, mentre teme di commettere ingiustizia. L’Apologia, cioè la difesa della vita filosofica di Socrate, è tutta impostata su questo tema: «Ma badate bene, o cittadini, che non sia questa la cosa più difficile, ossia sfuggire alla morte, ma che molto più difficile sia sfuggire alla malvagità. Infatti, la malvagità corre molto più veloce della morte». È la paura della morte a fare la differenza.
Chi accusa Socrate ha un obiettivo: farlo tacere. Socrate non può tacere perché lo scopo della vita filosofica è migliorarsi attraverso il dialogo. Socrate
In alto, Socrate intento a dialogare con i suoi discepoli nella celeberrima «Scuola di Atene» di Raffaello. Il mito del filosofo che guida gli allievi, è uno dei più significativi dell’intera storia del pensiero d’Occidente
avrebbe potuto salvare se stesso rinunciando alla filosofia. Ma se lo avesse fatto avrebbe negato il valore della sua vita che consiste proprio nel salvare l’individuo dalla violenza del potere. La filosofia di Socrate è opposta alla filosofia politica moderna, da Hobbes in poi, che assume la paura della morte come origine della politica. La violenza è la vera pietra che fonda la politica e lo Stato. La violenza non è un errore o un difetto ma la regola e l’origine della volontà politica. Su tutti regna la paura della morte. La scelta di Socrate va in senso opposto: non introduce la paura della morte nella politica, ma la caccia via. Non fonda la politica sulla paura degli altri, ma sul coraggio di governare se stessi. Non sul piacere, ma sul bene e, tuttavia, con la consapevolezza che al bene non corrisponde un sapere certo e infallibile, bensì una faticosa ricerca che ha come fine la scelta giusta del singolo uomo. Lo scopo della filosofia di Socrate è far risaltare la libertà del singolo uomo salvandolo dalla sua stessa paura della violenza di un potere esercitato in nome di un presunto sapere assoluto. Bisogna temere il di-
Il sapere socratico è, dunque, un saper vivere, un saper agire, è un sapere-ciòche-si-deve-prediligere, dice Pierre Hadot nel suo Che cos’è la filosofia antica? Ciò che si deve prediligere è il Bene che non è un oggetto, che non è un sapere, che non è un potere ma un’azione, una scelta di vita, un far prevalere il bene sul male. Socrate non dà mai una definizione del Bene perché non è oggetto di un sapere ma un rivolgimento interiore che fa cambiare la vita di chi sceglie di vivere bene, di agire bene, di pensare bene. La domanda sul Bene è la più importante ma è anche la domanda che deve necessariamente restare senza risposta perché dalla sua apertura dipende la libertà dei mortali e, quindi, la possibilità di scegliere come vivere. Socrate non rispose alla domanda è i suoi discepoli diedero risposte diverse, cioè vissero in modo diverso: Antistene il Cinico disse che il Bene è l’autarchia; Aristippo di Cirene che è il piacere; Euclide di Megara riteneva che fosse l’Uno eleatico; Fedone di Elide vedeva il Bene nel ragionamento. Al di là del contenuto, ciò che conta è la pluralità delle risposte, quindi la possibilità di poter scegliere. Senza la possibilità di scelta non c’è bene che tenga. Non c’è bene senza vita, come non c’è filosofia senza vita o vita filosofica. La filosofia richiede che si metta la vita in gioco, che si provi a vivere. Così ora possiamo capire che se non si può dire cosa è il bene, si può però dire cosa è il male: la tracotanza. Socrate aveva capito che nessun tipo di potere umano può essere assoluto o illimitato perché tutti i poteri hanno radici nella vita e sono di per sé ignoranti: dunque, non possono che essere legittimi in modo limitato. Il potere politico, il potere di fare la guerra, il potere religioso, il potere tecnico, il potere poetico, il potere filosofico, ogni potere ha il suo limite oltre il quale diventa tracotante, violento. La filosofia socratica è a tutti gli effetti una critica dei poteri perché ne smaschera la presunta infallibilità e propone un modello educativo diverso basato sulla cura dell’anima, cioè sul governo di se stessi.
mondo
pagina 14 • 29 giugno 2010
Iran. La Repubblica islamica mostra delle crepe ma cerca di nasconderle. Ce le racconta uno dei principali avversari di Ahmadinejad
La rivoluzione silenziosa L’Onda Verde non si vede ma lotta senza tregua. E ha incrinato il regime di Michael Ledeen li apologeti del regime iraniano hanno messo in circolazione una serie di informazioni “false e tendenziose”che è giunto il momento di smascherare. Prendiamone due: «La Repubblica islamica non ha mai invaso nessuno» e «Il regime è saldo in sella mentre l’opposizione è morta». La prima affermazione è pensata apposta per frenare chiunque voglia intraprendere un’azione contro il regime, fosse anche di tipo politico. La seconda è utile a screditare chiunque continui a chiedere al proprio governo di intervenire con urgenza a sostegno dell’Onda Verde. In merito alla prima: l’Iran è uno dei principali aggressori del pianeta. Da un lato ha scatenato la sua mano armata - penso alle Guardie Rivoluzionarie ma anche ad Hamas, Hezbollah e Al Qaeda - attraverso tutto il Medioriente, l’Africa e il Sud America. Gli americani sono stati le prime vittime di questa guerra per procura, dal bombardamento della caserma dei Marine in Libano nel 1983 all’attuale campagna contro i militari e i diplomatici in Afghanistan e Iraq. I sauditi possono testimoniare la longa mano iraniana in più di un’occasione, così come gli argenitini. Ma l’Iran non si limita a far fare il lavoro sporco solo agli altri. Bensì se ne occupa anche in prima persona. Sta passando praticamente sotto silenzio la guerra aperta contro l’Iraq. Ad essere precisi contro i
G
curdi nel kurdistan iracheno. La campagna iraniana coinvolge sia truppe di terra che assalti aerei ed ha tutta l’aria di essere portata avanti con il favore e l’aiuto dei suoi nuovi alleati turchi. Come ben hanno riportato due differenti report della United Press e di Le Monde, nei quali viene dato conto del sempre più frequente arresto di curdi (sia in Iraq che in Turchia) e del loro immediato trasferi-
mondo. Riguardo invece alla presunta morte dell’opposizione e al felice stato dell’arte della Repubblica, ci sono molti appunti da fare. Chiunque guardi al comportamento del regime non può che restare sgomento dall’incredibile spaccatura che esiste in seno alla sua leadership. Qualche esempio per tutti: il dibattito feroce sull’abbigliamento delle donne. Siamo abituati a credere, dalle voci che
Dal dibattito sull’abbigliamento delle donne alla battaglia sul futuro dell’Università di Azad, l’opposizione sta dando battaglia agli Ayatollah. Guadagnando il consenso di molti religiosi mento (con relativa consegna al regime di Teheran) al confine. Durante gli anni della presidenza Clinton, io dissi che gli americani sembravano rifarsi a un principio: abbandonare almeno una volta ogni dieci anni il popolo curdo al loro destino.
Ma questa volta è peggio: perché non solo stiamo lasciando i curdi nelle mani dei due più importanti attori dell’islamismo internazionale, ma stiamo anche permettendo di violare l’integrità territoriale dell’Iraq, che forse è addirittura peggio. Ecco dunque che è completamente errata la notizia che l’Iran non abbia lanciato attacchi fuori dal suo Paese. La Repubblica islamica ha condotto e conduce operazioni militari mirate e letali in tutto il
arrivano dal paese, che qualisiasi femmina mostri una ciocca di capelli o un centimetro di caviglia venga condotta in galera. Beh, non è esattamente così. Perché la questione è talmente delicata che lo stesso Ahmadinejad ha dovuto spendere delle parole a favore di una maggiore flessibilità nel vestiario femminile. Un’affermazione che la dice lunga su quanto il problema stia sfuggendo di mano al regime e si stia trasformando in una potenziale mina. E che dire del rabbioso dibattito sul futuro della Free University, che ha prodotto la scorsa settimana il fantastico sequestro del Parlamento da parte di fanatici basiji? Gli stessi che a un certo punto hanno chiesto di provare i loro cannoni sui deputati re-
calcitranti. E qual era la causa di questo affascinante scontro?
Ebbene, epicentro di questa guerra fra bande c’è l’università di Azad: la sua leadership, il suo Consiglio direttivo, l’1,4 milioni di studenti e le decine di miliardi di dollari di investimenti. Da una parte ci sono i “falchi” dell’establishment iraniano, il cui vertice è il presidente Mahmoud Ahmadinejad, che sembra pronto a punire l’università di Azad per il suo presunto sostegno ai candidati dell’opposizione durante le elezioni presidenziali del 2009. A sostegno di Ahmadinejad c’è il Consiglio supremo della Rivoluzione culturale, il cui presidente ha da poco approvato l’impegno a cambiare la carta costitutiva dell’Azad, rimpiazzare l’attuale rettore e cambiare il Consiglio direttivo. Dall’altra parte ci sono i conservatori dello stesso establishment, guidati dall’ex presidente Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, che ha co-fondato l’ateneo nel 1982
e che oggi guida il Collegio degli amministratori fiduciari dell’università. A sostegno di questa fazione c’è anche il presidente del Parlamento, Ali Larijani, e Abdollah Jasbi, l’attuale rettore: stretto alleato di Rafsanjani, è vicino alla sostituzione. Permettetemi di rendervi la questione in maniera più chiara. Parliamo principalmente di una questione di denaro, con uomini potenti come Larijani e Rafsanjani che cercano di evitare che le mani di Ahamadinejad vi si posino sopra. Il titolo è perfetto: “La battaglia per l’università di Azad rende più profonde le divisioni iraniane”.
Queste divisioni sono interne, non fanno parte della battaglia per la vita o la morte in corso fra il regime e il movimento verde. Sul fronte più recente si sono verificati diversi assalti fisici contro dei luoghi collegati ad ayatollah dissidenti (moschee comprese), e in particolare contro i simboli del defunto Grande ayatollah A lato profughi curdi in fuga dall’Iran. Da settimane si parla con sempre maggiore insistenza del loro rimpatrio forzato alle frontiere con la Repubblica Islamica, dove verrebbero giustiziati. In apertura, il presidente Ahmadinejad e a destra, uno dei leader dell’Onda Verde, Mousavi
mondo
29 giugno 2010 • pagina 15
Slittano (per l’ennesima volta) gli incontri sul nucleare con l’Aiea
Il balletto del presidente per “punire” l’Occidente Con l’accusa di aver varato «sanzioni immorali» Mahmud rinvia alla fine di agosto ogni trattativa di Luisa Arezzo Iran è pronto a tornare al tavolo delle trattative sul suo programma nucleare, ma vuole ritardare i negoziati di alcune settimane per dare una punizione ai Paesi occidentali che gli hanno imposto nuove sanzioni. La tragicomica commedia del regime è andata in onda nuovamente ieri, con il presidente Mahmud Ahmadinejad dettosi pronto a ritardare di due mesi i colloqui. Sotto accusa sarebbe «l’immorale» decisione delle grandi potenze di approvare sanzioni economiche più rigide contro la Repubblica islamica. «Li puniremo - ha dichiarato il presidente per insegnar loro l’usanza di parlare alla nostra nazione». E come se non bastasse, ha poi proposto di indire «liberi referendum» in quei Paesi europei - Italia inclusa - «dove sono ammassate le bombe atomiche» degli Usa. Il rilancio è avvenuto dopo le dichiarazioni del capo della Cia, Leon Panetta, secondo il quale Teheran è in possesso di una sufficiente quantità di uranio arricchito per costruire due bombe atomiche. Dicharazione definita «inquietante» dal presidente russo Medvedev e «semplice propaganda anti iraniana» dal portavoce del ministero degli Esteri iraniano, Ramin Mehmanparast. «L’intelligence americana sa meglio di chiunque altro che l’Iran non ha programmi nucleari a scopi bellici e che lavora unicamente nell’ambito del Trattato di non proliferazione - ha aggiunto il portavoce - gli Stati Uniti stanno conducendo una guerra strisciante contro l’Iran privandoci dei diritti legittimi, però nessuna presta attenzione a queste accuse infondate, a parte gli Stati Uniti e la lobby sionista». Le cose evidentemente non stanno così. Secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (Aiea), l’Iran avrebbe già accumulato una quantità di uranio arricchito superiore di un terzo a quella prevista, accrescendo ulteriormente le preoccupazioni su una possibile dimensione militare del programma. Ma il presidente iraniano, come è ormai sua prassi, continua a rilanciare. Questa volta anche dicendo che i paesi occidentali «devono dichiarare la posizione in merito alle armi nucleari del regime sionista, poi de-
L’
Montazeri e del suo erede spirituale, l’ayatollah Sane’i. Questi attacchi si sono guadagnati la condanna dei rappresentanti iraniani del Grande ayatollah iracheno Sistani; si tratta di un evento di considerevole importanza, dato che Sistani è al momento la figura religiosa più autorevole del mondo sciita. E coloro che pensano che i “verdi”non hanno sostegno religioso dovrebbero tenere conto di questo. Ma le cose non sono più favorevoli per il regime sul fronte “secolare”.
Nella città di Rasht, lo scorso giovedì, i poliziotti “morali” hanno cercato di arrestare una madre e sua figlia; ma la madre li ha sfidati. Come era prevedibile i poliziotti hanno iniziato a colpirla con dei bastoni, ma la gente è scesa in strada in difesa della donna, scandendo “Dittatore, dittatore” (lo slogan dei “verdi” indirizzato contro Khamenei) e ha messo in fuga i poliziotti. Banafsheh ha il video della scena, insieme a un altro che riprende il disastroso incendio ancora in corso nei giacimenti petroliferi di NaftShahr. L’incendio è iniziato un mese fa, dopo un’esplosione, e sta ancora bruciando a forte intensità. Posso assicurarvi che
l’esplosione non è stata scatenata da un incidente. Infine, i “verdi” stanno diventando più sfacciati sul futuro del Paese e sul fato dei loro oppressori. Mousavi ha incarnato questa nuova sfacciataggine a metà di giugno: «L’Onda verde sostiene la libertà per tutti i prigionieri politici, così come l’abolizione di ogni restrizione illegale. Si oppone inoltre all’approccio incentrato sulla sicurezza che viene applicato nei confronti delle attività di partiti politici, gruppi sociali e movimenti come quello delle donne, degli studenti, dei sindacati e simili. Alla fine di tutto questo, dovrebbero essere seguite diligentemente le seguenti strategie: assicurare un processo giusto per coloro che hanno autorizzato le frodi elettorali e l’uccisione e la tortura dei manifestanti, così come lo stesso processo dovrebbe essere assicurato a coloro che hanno beneficiato di tutto questo. Si deve inoltre denunciare coloro che hanno teorizzato e difeso la violenza ai suoi vari livelli nella gerarchia del potere». Questa è una voce che nutre fiducia, e che viene ascoltata anche nei palazzi del potere. Un giorno, ricorderanno queste parole. Il giorno in cui saranno chiamati a rispondere dei loro crimini. Non crediate che l’opposizione abbia mollato soltanto perché hanno scelto di non scendere in strada contro dei bulli armati: esistono molte forme di rivoluzione democratica. E alcune di queste sono più brevi di altre.
vono chiarire se sono disposti a impegnarsi con le norme del trattato Tnp e infine se vogliono arrivare a un risultato di amicizia o inimicizia con questo dialogo». Ahmadinejad ha anche criticato le grandi potenze per avere varato le sanzioni sebbene l’Iran, con Turchia e Brasile, avesse firmato alcune settimane prima una dichiarazione in cui si impegnava ad accettare uno scambio di uranio arricchito con l’estero. «Hanno voluto alzare un bastone per minacciarci - ha detto il presidente - e questo è stato un atto immorale. Ecco perchè, pur essendo pronti a tornare al tavolo delle trattative con i 5+1, ritarderemo il loro inizio fino alla seconda metà del sacro mese di Ramadan».Vale a dire la fine di agosto.
Il gruppo dei 5+1 è composto dai cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza: Usa, Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna, più la Germania. Ma Ahmadinejad chiede che a questi si aggiungano Brasile e Turchia. In modo da poter riformare quell’asse Teheran-Brasilia-Ankara che così bene sta lavorando grazie al grumo di interessi legato ai due Paesi, Turchia e Brasile, che hanno votato No alle sanzioni. La dichiarazione firmata il 17 maggio scorso dai rispettivi ministri degli Esteri dei tre paesi sopra citati, prospettava il trasferimento di 1.200 kg di uranio iraniano debolmente arricchito, al 3,5%, in Turchia, in cambio di 120 kg di uranio arricchito al 20%. Comprensibile la profonda irritazione americana, espressa dal Segretario di Stato Hilary Clinton, che ha bollato come del tutto insufficiente l’accordo turco-iraniano con la mediazione brasiliana. Nei giorni scorsi sono comunque arrivate delle conferme sulla linea seguita dal blocco iraniano-turcobrasiliano. Secondo l’agenzia d’informazione iraniana Irna, ci sarebbe già un accordo per un nuovo vertice trilaterale, fissato nel corso di un colloquio telefonico tra il capo della diplomazia iraniana Mottaki e il suo omologo brasiliano Celso Amorim. Della partita dovrebbe essere anche il ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu.
Il 9 giugno scorso il Consiglio di Sicurezza dell’Onu aveva approvato nuove misure restrittive contro il Paese islamico, rifiutatosi di sospendere l’arricchimento dell’uranio
quadrante
pagina 16 • 29 giugno 2010
Urne. I nomi in lizza sono quelli di Wulff (Cdu), Gauck (Csu) e Jochimsen (Linke) omani sapremo il nome del nuovo presidente della Repubblica Federale Tedesca, il decimo della storia della Germania. Dopo le inusuali dimissioni di Horst Köhler è, infatti, convocata la cosiddetta Bundesversammlung, l’assemblea composta dai parlamentari e dai delegati regionali che si riunisce esclusivamente per eleggere il Presidente della Repubblica. Se le funzioni e le modalità di elezione del Presidente della Repubblica in Germania ed in Italia sono molto simili, diversa è la scelta dei candidati. In Italia si cerca di mantenere un certo riserbo sui nomi per evitare di “bruciarli”, in Germania i partiti e le coalizioni dichiarano esplicitamente il loro candidato di riferimento circa un mese prima del giorno della votazione. Dopodichè, considerato che l’appartenenza partitica non condiziona necessariamente il voto (che, tra l’altro, è anche segreto), inizia una vera e propria intensa campagna elettorale per conquistarsi i voti dell’assemblea. Sono tre i candidati alla Presidenza: Christian Wulff per i cristiano democratici ed i liberali, Joachim Gauck per il centrosinistra, ovvero socialdemocratici e verdi, e Lukrezia Jochimsen per l’estrema sinistra.
D
Tre nomi che al lettore italiano non diranno forse nulla, ma che in Germania sono molto noti per storie personali molto diverse tra loro. Se Christian Wulff, cinquantuno anni, è dei tre candidati quello con il profilo politico più definito e sicuramente riconducibile all’Unione Cristiano- Democratica (CDU) per la quale fa politica da sempre ed è stato ultimamente Presidente della Regione della Bassa Sassonia, Joachim Gauck e Lukrezia Jochimsen, nonostante abbiano ricoperto e ricoprano (la seconda) ruoli ed incarichi politici, sono sicuramente candidati con caratteristiche da società civile. Joachim Gauck, settant’anni, è un pastore protestante dell’ex Germania dell’Est, una delle figure di opposizione al regime comunista e dal 1989, anno della caduta del muro, difende e promuove l’importanza ed il valore della libertà e dello stato di diritto attraverso numerose attività sociali, culturali e politiche. Lukrezia Jochimsen, settantaquattro anni, è parlamentare dell’estrema sinistra, ma è conosciuta anche, o forse soprattutto, come giornalista che ha lavorato a lungo per la principale rete nazionale tedesca ed è stata caporedattore per la Radio
La Germania al voto sceglie il Presidente Gli schieramenti puntano su candidati scelti tra società civile e politica attiva di Ubaldo Villani-Lubelli
Il centro-sinistra ha scelto un uomo che spiazza: in lui si riconoscono gli elettori dei cristiano democratici e quelli dei liberali dell’assemblea I candidati alla presidenza tedesca: sopra, Wulff e Gauck, a fianco Lukrezia Jochimsen
della Regione dell’Assia. La candidatura di Christian Wulff (preferito all’ultimo momento all’attuale Ministro del Lavoro Ursula von der Leyen, sempre della CDU) è stata in parte criticata proprio per la sua storia da uomo di partito e dunque poco adatto a ricoprire un ruolo istituzionale come quello di Presidente della Repubblica. Anche per questo e per evitare ulteriori polemiche si è dimesso da Presidente della Bassa Sassonia, sebbene non né fosse in alcun modo obbligato né fosse consuetudine farlo: un gesto molto apprezzato e che ha sicuramente dato spessore alla sua candidatura. Christian Wulff è poi un candidato fortemente sponsorizzato dalla Cancelliera Angela Merkel, che in una lunga intervista alla Faz ha difeso Wulff come la persona giusta che più di chiunque altro può dare alla Germania ciò di cui il P,aese, in un momento di crisi e di radicale cambiamento, ha bisogno: la fiducia. Christian Wulff
è in questo senso un candidato nel quale si riconoscono gli elettori dei cristiano-democratici e dei liberali dell’assemblea, anche se alcuni di questi hanno già annunciato il loro voto per Joachim Gauck. E qui veniamo al vero significato di questa candidatura e di ciò che essa comporta. Si è trattato, infatti, di una scelta a sorpresa da parte del centro-sinistra e che ha spiazzato l’intera classe politica. Joachim Gauck, un conservatore liberale di sinistra, come ama definirsi, prenderà probabilmente più voti di quelli che socialdemocratici e verdi possono garantire nell’assemblea, in quanto è una figura molto popolare, amata, stimata da destra a sinistra (anche dalla Merkel stessa che ha addirittura tenuto la Laudatio in occasione del suo settantesimo compleanno) ed è considerato una sorta di coscienza critica nazionale per la sua storia di oppositore nell’ex Germania dell’Est. Tra l’altro proprio per questo motivo, la sinistra estrema, che ha la gran parte dei suoi voti nei nostalgici dell’ex Germania comunista, ha considerato tale candidatura una provocazione ed ha proposto Lukrezia Jo-
chimsen come proprio candidato anche se le possibilità che venga eletta sono praticamente nulle. Ma la candidatura di Gauck fa parte soprattutto di una chiara strategia politica del centro-sinistra tedesco per indebolire se non proprio dividere l’alleanza tra cristiano-democratici e liberali che sin dalla vittoria delle elezioni dello scorso settembre vive una sorta di costante crisi interna e che ha forse raggiunto l’apice con le insolite dimissioni di Horst Köhler, il presidente fortemente voluto da Angela Merkel e dal suo vice al governo e leader dei liberali Guido Westewelle.
Domani, dunque, non si eleggerà soltanto il decimo presidente della Repubblica Tedesca, ma si capirà anche il futuro dell’attuale coalizione di governo e quali saranno i rapporti di forza tra maggioranza ed opposizione. Del resto l’elezione del Presidente della Repubblica in Germania ha da sempre rappresentato un tassello importante della strategia politica delle coalizioni ed ha spesso preannunciato la nascita di nuove maggioranze in parlamento e nel paese. Così è, infatti, stato nel 2004 quando l’allora opposizione di centrodestra riuscì a far eleggere il proprio candidato, ovvero Horst Köhler, ma non riuscì poi a vincere le elezioni l’anno successivo quando si dovette formare la famosa Grosse Koalition. Nel 2009 il centrodestra confermò Horst Köhler alla presidenza della repubblica e pochi mesi dopo ottenne anche la maggioranza dagli elettori e da allora cristiano democratici e liberali governo finalmente insieme. Difficile prevedere quali scenari si apriranno dopo l’elezione del Presidente della Repubblica: in ogni caso si tratterà di un nuovo inizio di una legislatura che fino ad ora, tra crisi internazionali, guerra in Afghanistan, crisi greca, elezioni regionali e divisioni interne alla maggioranza, non ha lasciato un attimo di tregua ad Angela Merkel. Una vittoria di Christian Wulff, data al momento per probabile, rappresenterebbe una boccata d’ossigeno per la Cancelliera e rafforzerebbe sicuramente il suo governo e l’alleanza tra liberali e cristiano-democratici ed, inoltre, garantirebbe forse la durata dell’attuale governo fino alla fine della legislatura. Una vittoria di Joachim Gauck darebbe, al contrario, una altro duro colpo all’esecutivo. Dopo la cattiva gestione del governo tedesco degli aiuti ad Atene, dopo la sconfitta alla ultime elezioni regionali nel Nord Reno Westfalia, dopo la discussa finanziaria di qualche settimana fa e dopo le dimissioni di Horst Köhler, un presidente della Repubblica diverso da quello indicato dalla maggioranza di governo segnerebbe probabilmente la fine della stessa.
quadrante
29 giugno 2010 • pagina 17
Il regime risponde subito alle dichiarazioni di Obama
Il 90,8 per cento dei votanti si è espresso a favore del testo
Pyongyang all’attacco: «Siamo pronti per la bomba»
Kyrgyzstan, approvata la nuova Costituzione
PYONGYANG. La Corea del Nord «rafforzerà il proprio arsenale nucleare, come deterrente contro le minacce militari di nazioni ostili». Lo ha riferito ieri l’agenzia ufficiale del regime stalinista, la Korean central news agency, in un dispaccio che suona come una risposta al presidente Usa Barack Obama. Questi, dalla riunione del G20 di Toronto, ha detto di avere discusso “in modo molto franco” col presidente cinese Hu Jintao sul “comportamento bellicoso” di Pyongyang, che ha definito “inaccettabile per la comunità internazionale”. L’annuncio sull’ulteriore rafforzamento dell’arsenale nucleare – che avverrà con un “metodo nuovo”, non meglio specificato – ha lo scopo di contrastare quella che Pyongyang definisce “la politica ostile degli Stati Uniti e le minacce militari verso la nostra nazione”. Un portavoce del ministero degli Esteri nordcoreano ha spiegato in una nota che alcuni documenti “declassificati di recente” dimostrano che gli Stati Uniti “avevano tramato attacchi nucleari contro il Nord”.
BISHKEK. Il referendum per la
«I dati storici – spiega inoltre la nota – dimostrano che la Corea del Nord aveva ragione quando ha deciso di reagire alle armi nucleari con un deterrente nucleare. I recenti e in-
I dubbi di Panetta sul piano pakistano Il direttore della Cia non si fida, per Obama è «prematuro» di Pierre Chiartano ia la Casa Bianca che Leon Panetta, il direttore della Cia, hanno risposto con scetticismo domenica alla proposta pachistana di una mediazione sull’Afghanistan, a quanto riferisce il New York Times. Continua così il periodo di Quaresima per il presidente Obama in Asia centrale, dopo le critiche del generale McChrystall che hanno portato alle dimissioni del militare. Islamabad avrebbe proposto un piano di pace offrendosi come intermediario tra il governo di Kabul e alcune delle principali fazioni talebane. Mentre la posizione di Obama non parte da una chiusura totale al progetto, perché vede la necessità di trovare una soluzione «politica» al conflitto, quella del direttore della Central intelligence agency è una posizione dove i dubbi sono stati espressi con maggior forza. La Casa Bianca è convinta che in qualche maniera gli «insorgenti» dovranno partecipare al processo di pacificazione del Paese. Panetta, invece, è convinto che «non ci sono prove che siano seriamente coinvolti in un processo di riconciliazione. Se veravogliano mente riconsegnare le armi. Se vogliano denunciare i membri di al Qaeda e diventare parte costruttiva della comunità afgana» come ha spiegato durante un’intervista al canale tv Abc. Le operazione militari cominciate con la conquista di Marjah, caposaldo talebani nella provincia di Helmand, stanno incontrando delle inaspettate difficoltà. Inoltre il direttore di Langley è convinto che gli insorgenti talebani e i loro alleati non abbiano alcun vantaggio nel condividere il potere con l’attuale leadership afgana. In buona sostanza il capo dell’intelligence Usa crede che a meno che non siano convinti «della vittoria americana e di una loro sconfitta difficilmente i talebani si metteranno seduti al tavolo del negoziato». Obama, durante un suo intervento al G20 di Toronto, ha ricordato come il decennale della guerra in Afghanistan si stia avvicinando. E come questa sia diventato il più lungo conflitto combattuto all’estero nella
S
storia americana. E sul ruolo dei pachistani come possibili mediatori Obama ha aggiunto: «credo che sia troppo presto per giudicare. Dobbiamo essere ottimisti, ma anche guardinghi. I talebani sono un insieme di convinti ideologhi, capi tribali, ragazzi che si uniscono a loro perché non c’è un miglior lavoro da fare. Non tutti tra loro la pensano allo stesso modo riguardo ad un futuro governo afghano e al futuro dell’Afghanistan. Quindi dovremo trovare i modi, i tempi e le persone adatte per far sì che colloqui possano aver luogo». Come per l’Iraq anche per il Paese centrasiatico la soluzione «sarà politica».
«Non ho la sfera di cristallo» ha poi risposto il presidente Usa, alla conferenza stampa conclusiva del G20, lasciando trapelare così tutto il nervosismo e la frustrazione accumulata nei giorni di passione sull’Afghanistan. Soprattutto per l’intervista al vetriolo del generale Stanley McChrystal sulla rivista Rolling Stone che si è conclusa con il suo licenziamento. La domanda, sui tempi e modi del ritiro promesso a partire dal luglio 2011, appare sempre più scomoda per la Casa Bianca. «È una vera ossessione», quella del ritiro, ha rincarato la dose il presidente, sottolineando il fastidio di dover continuare a rispondere a questa domanda, mentre tutta la sua attenzione ora è rivolta a fare in modo che la missione abbia successo. «A partire dal prossimo anno inizieremo una transizione» ha poi aggiunto. «Credo che in questo momento il dibattito sull’Afghanistan venga presentato tra due estremi: che ci si alzi e andando via immediatamente, perché non esiste possibilità di successo, oppure che si stia in modo praticamente indefinito, facendo tutto il possibile per tutto il tempo necessario» ha continuato Obama. Il presidente è tornato a difendere la sua strategia che si pone nel mezzo, fissando una data del ritiro, ma rafforzando al massimo la presenza militare, che dovrebbe raggiungere le 98mila unità.
Per i servizi segreti «non ci sono prove che i talebani siano seriamente coinvolti in un vero processo di riconciliazione»
quietanti sviluppi nella penisola coreana sottolineano la necessità che la Corea del Nord sostenga il suo deterrente nucleare con un nuovo metodo di sviluppo contro la persistente politica americana ostile e la sua minaccia militare verso la Corea del Nord». Pyongyang ha un programma nucleare di armamenti, basato su plutonio e uranio, ma il regime ha affermato a maggio di essere in grado di produrre una reazione di fusione nucleare capace di essere utilizzati per una bomba a idrogeno. Tuttavia, gli esperti hanno definito l’annuncio come “un bluff”, osservando che la «la tecnologia nucleare coreana richiede ancora anni».
nuova Costituzione ispirata alla democrazia parlamentare tenutosi in Kyrgyzstan ha visto il 90,84 di voti favorevoli e il 7,84 per cento di contrari, secondo un comunicato ufficiale della Commissione elettorale centrale. Il Kyrgyzstan si appresta dunque a diventare la prima democrazia parlamentare dell’Asia centrale, con una Costituzione che limiterà i poteri del presidente - al quale sarà consentito un solo mandato - e rafforzerà quelli del Parlamento. Il Kyrgyzstan è reduce da due rivoluzioni in cinque anni, compresa quella che in aprile ha portato alla destituzione del presidente Kurmanbek Bakiev e all’insediamento di un Gover-
no provvisorio, e i recenti scontri nel sud tra kyrgyizi e uzbeki con almeno 283 vittime (duemila secondo il Governo). La giornata elettorale ha fortunatamente rivelato infondate le preoccupazioni della vigilia, e non ci sono state nuove violenze.
L’affluenza è stata di circa il 70 per cento dei due milioni e mezzo di elettori, su una popolazione di circa cinque milioni e trecentomila abitanti. Nonostante che non fosse previsto un quorum, il dato è rilevante per il significato di legittimazione della nuova Costituzione. L’aspetto più sorprendente è stata la massiccia partecipazione al voto nel sud, dove si temeva un boicottaggio in massa, dopo i recenti scontri, in quella regione, tra kyrgyizi e uzbeki con almeno 283 vittime (duemila secondo il Governo). «Il Paese ha imboccato il cammino verso una vera democrazia popolare» ha commentato il premier ad interim Rosa Otunbaieva, che si è recata a votare proprio a Osh, epicentro delle violenze. «Siamo fieri del nostro popolo e del nostro Paese che ha fatto questa scelta in un momento difficile». Per l’Ocse, il referendum costituzionale è da ritenersi valido.
cultura
pagina 18 • 29 giugno 2010
Mostre. A Palazzo Strozzi, alcune tra le più illustri opere del suo periodo metafisico, oltre a dipinti di Carrà e Morandi e capolavori di René Magritte, Max Ernst e Balthus
L’ispiratore del Novecento Il XX secolo attraverso gli occhi dell’ultimo “Mago” Firenze celebra il grande Giorgio De Chirico di Rita Pacifici on uomini ma simulacri, statue, manichini, figure senza volto, occhi ostinatamente chiusi, bendati, personaggi che ci danno le spalle chiusi una lontananza inconoscibile. E poi il privilegio accordato alle cose, il predominio di oggetti sospinti in primo piano, protagonisti senza storia né memoria: la pittura che apre il Novecento è pittura dell’inanimato e di un silenzio profondo, che non celebra l’idillio dell’uomo con la natura né la supremazia della ragione, che ha perso la leggerezza dell’impressione visiva e che si fa strumento di indagine, cercando diversi codici espressivi, perché come scrive René Magritte «il mondo è un mistero e la realtà senza mistero non è completa». L’arte figurativa affina dunque la vista e le armi, si fa penetrante, dura, inquietante. Per interrogare l’esistenza sovverte il linguaggio, saccheggia le profondità dell’inconscio appena scoperto, come Max Ernst e i surrealisti, o all’opposto si concentra su realtà banali forzandone la superficie, come Giorgio Morandi.
N
In ogni caso è arte che traffica con una dimensione altra, enigmatica eppure materica, immanente, è uno sguardo gettato sull’invisibile, come enuncia la suggestiva mostra allestita a Palazzo Strozzi di Firenze, che raccoglie circa cento capolavori di maestri del Novecento, tra i quali De Chirico, Ernst, Magritte, Balthus, realizzati tra il 1911 il 1954, che abbracciano dunque quasi mezzo secolo. Tutte opere di grande incanto, icone del nuovo corso inaugurato da Giorgio De Chirico al quale la mostra fiorentina dedica ben tre sezioni, sottolineandone la forza eversiva, la funzione di rottura con il cubismo, efficace espressione dello spirito della modernità ma ormai fermo in un gioco esaurito, in un’operazione di scomposizione
dell’ordine visivo delle cose che lascia intatto il mistero del mondo e non offre spiragli su quell’oltre eletto a meta di ogni processo artistico.
La metafisica del Pictor Optimus è invece invenzione carica di futuro, che apre orizzonti completamente nuovi alla comunicazione visiva e che si annuncia proprio qui a Firenze nel 1909, in Piazza Santa Croce quando De Chirico sperimenta per la prima volta quell’esperienza intuitiva che chiamerà “rivelazione”, la percezione di una realtà trasfigurata, colta
laume Apollinaire accoglie come «interiore e cerebrale», capace di esprimere «sensazioni di tipo modernissimo», dove dominano spazi assurdi fatti di piani inclinati, architetture deserte, figure mutanti e dove il tempo sprofonda in una dimensione senza svolgimento. Vedere il mondo comune in modo non comune, è l’esito di meditazioni filosofiche profondamente interiorizzate. Nietzsche, Schopenhauer, Eraclito, l’armonia del mondo greco, la ricchezza tematica e simbolica dei suoi miti, la capacità di definizione, la forza espressiva
Insieme a questi quadri, vengono presentate creazioni estremamente significative di artisti come Niklaus Stocklin, Arturo Nathan, Pierre Roy e Alberto Savinio nel suo aspetto interiore e nell’ampio spettro dei suoi significati. Una visione che giunge all’improvviso poi fissata nell’opera Enigma di un pomeriggio d’autunno, qui proposta nella copia realizzata nel 1924 da Max Ernst, la prima di una lunga serie di Piazze d’Italia, che sono più concetti che ricordi di un vissuto. Ed enigma è parola chiave di quest’arte che Guil-
la mostra
della pittura rinascimentale. De Chirico, come è ben evidente in questa esposizione fiorentina, è genio multiforme, che esibisce un repertorio vastissimo di segni, capace di tenere magicamente congiunte modernità e tradizione.
I suoi manichini, con quei bizzarri segni al posto degli occhi, che qui sono presenti in
A Palazzo Strozzi di Firenze, la mostra “De Chirico Max Ernst Magritte Balthus - Uno sguardo nell’invisibile”, aperta fino al 18 luglio. Attraverso 100 opere provenienti da raccolte private e dai più importanti musei del mondo, la rassegna ripercorre la rivoluzione copernicana o l’effetto di sasso nello stagno che De Chirico impresse all’arte del XX secolo. Con il suo modo di dipingere, aprì la strada a tutti quei movimenti che costituiscono la parte più interessante e vitale dell’esperienza artistica europea tra le due guerre, dal Dadaismo al Surrealismo, dal Realismo Magico al Neo-Romanticismo dando un taglio netto alle prospettive di ricerca ormai esaurite del cubismo e delle avanguardie formali. La mostra riunisce alcune tra le più celebri opere del periodo metafisico di De Chirico oltre a dipinti di Carrà e Morandi, capolavori di Renè Magritte, Max Ernst e Balthus; insieme a questi quadri sono presentate opere di artisti come Stocklin, Nathan, Roy e Savinio.
due momenti diversi, quelli del ‘14 e quelli del ‘20, più antropomorfici dei loro predecessori, sono gli alfieri di un cambiamento epocale, dove l’artista, torna a rivendicare per sè l’esercizio di una seconda vista, propria dei poeti, dei veggenti. Dopo l’austerità del cubismo, l’aggressiva individualità degli espressionisti, l’artista torna al “canto”, sia pure geometrico e angoscioso, a quel dire enigmatico che ricorda arcaici ed oscuri vaticini.
Non una ma due, doppia come i dioscuri così spesso rappresentati da De Chirico , sarà poi la metafisica, due linee che avranno esiti diversi e si addentreranno in pieno Novecento. Infatti al maestro si affiancheranno presto come seguaci Carlo Carrà e Giorgio Morandi, interpreti della rivoluzione metafisica in una chiave più attenta ai valori del classicismo, dello stile pittorico italiano. In particolare a Carrà si può riconoscere un modo personale di accedere al mistero del reale, che rifiuta il nichilismo proprio della poetica dell’amico e non dimentica il lato spirituale della materia. «Alla metafisica del nulla», scrisse il critico Maurizo Calvesi, «si affianca così quella del tutto», una metafisica riformata , «schiarita», con connotati maggiormente fisici dove l’enigma cede ad atmosfere più nostalgiche e sognanti. Giorgio Morandi poi, uomo schivo, «consapevole di non poter mai toccare l’essenza delle cose», riformula le novità del maestro portandole verso esiti più severi. Distilla ciò che per la sua visione appare essenziale, come i volumi, la geometria, il vuoto, toccando una specie di grado zero della pittura, testimoniato qui da un lavoro del 1919 risolto in pochi, scarni elementi ma di rara grazia e intensità. Una ricerca che porterà avanti per tutta la vita, un lavorio incessante su forme di oggetti qualunque, che sono insieme l’ultima barriera del visibile e timido barlume dell’invisibile. Questa tendenza artistica, che caparbiamente esclude storie, personaggi, narrazioni per ascoltare la vita segreta delle cose, avrà poi un importante
capitolo europeo con i movimenti della Nuova Oggettività e del Realismo Magico, che la mostra documenta con un’ampia scelta delle opere di Pierre Roy e di Niklaus Stoecklin, autori di sorprendenti nature morte, serrate costruzioni dai colori lucidi, smaglianti dove il repertorio di oggetti, di vegetali, di animali è infinito, a richiamare quasi la vitalità e lo sfarzo che questo genere conobbe nel passato.
In sostanza l’eredità della metafisica è di enorme ampiezza, agisce sugli artisti contemporanei in modo diretto ed indiretto, propagandosi mano a mano che la poetica dechirichiana si precisa e si arricchisce di intrecci figurativi. Pittore non di paesaggi ma di “spaesamenti “ definirà Jean Cocteau questa maniera strana e straniante, propria anche della pittura di Alberto Savinio, che negli anni Venti viene estesa a situazioni completamente nuove: Savinio dipinge fantastici giocattoli vo-
cultura
29 giugno 2010 • pagina 19
In queste pagine, alcune delle opere del Novecento esposte, fino al prossimo 18 luglio, a Palazzo Strozzi di Firenze nell’ambito della mostra “De Chirico, Max Ernst, Magritte, Balthus - Uno sguardo nell’invisibile”
lanti nello spazio, De Chirico sposta paesaggi e templi nelle stanze e trasferisce mobili all’aperto. È un’iconografia debordante, invasiva che intercetta traiettorie artistiche affini, con fecondazioni profonde. Max Ernst, ricorderà così l’incontro nel 1919 con i disegni metafisici di De Chirico: «Avevo l’impressione di riconoscere qualcosa che mi era da tempo familiare, come quando un fenomeno già visto ci rivela tutto un territorio del nostro mondo onirico che rifiutavamo». Come se gli enigmi, gli spostamenti visivi, gli spazi deformati da una folle prospettiva, destassero assonanze, attivassero le fantasie oniriche di un’intera generazione, come se rivelassero il senso nascosto di quella realtà storica che aveva appena conosciuto un conflitto mondiale.
Ernst fu tra i primi ad attingere alla lezione di De Chirico, creando potenti enigmi come Oedipus Rex, dove uno spazio angosciante racchiude tutti gli elementi del mito classico ma irriconoscibili e restituiti sotto forma di un incubo, o riproponendo coppie di manichini ingentiliti: quasi un estremo omaggio alle soglie della rottura con il maestro, perché, presto, dopo il 1925, i surrealisti negheranno a De Chirico il ruolo di ispiratore del movimento. C’è infatti tutta una nuova geografia, un nuovo alfabeto dell’immaginario che si spalanca grazie a questo movimento artistico. Alle architetture spiazzanti della metafisica
Ernst risponde con l’automatismo dell’inconscio che materializza forme sconosciute, residui organici, escrescenze fossili, segni di un altrove astratto, come La mer risolto solo in fasce di colori puri, che non conservano alcuna connotazione del reale. Sono sguardi aperti su abissi lontani dal mondo fisico, che non coincidono più con l’invisibile, ancora vicino e rassicurante, in fondo, della metafisica. Anche per René Magritte l’incontro con De Chirico rappresenta un momento fondamentale della propria formazione. Si racconta che quando nel 1923 vide per la prima volta un suo quadro ne fu così profondamente impressionato che pianse. L’artista belga individuò sempre nell’autore delle Piazze uno dei suoi più importanti predecessori e meditò, in particolare, sul valore assoluto che riveste il tema della solitudine nelle scene metafisiche, che sono come «una nuova vi-
dition humaine, Le pont d’Heraclite, Le sens de la nuit, La vie secrète, creazioni oniriche dove paesaggi veri e dipinti slittano l’uno nell’altro, dove si dischiudono mondi capovolti, e sempre la realtà e la sua rappresentazione si confondono per restituirci la divaricazione tra l’esperienza del vedere e quella dell’immaginare.
E soprattutto, Magritte, artista che ha saputo trasformare gli incubi personali (come il ricordo del drammatico suicidio della madre, tante volte evocato in quei volti nascosti da veli bianchi) in simboli e immagini tra le più belle e misterio-
Tutti gli artisti in mostra, sulla strada aperta da De Chirico, si mossero in un ambito in bilico tra Metafisica, Realismo Magico, Surrealismo e Neo-romanticismo sione nella quale lo spettatore ritrova il suo isolamento ed intende il silenzio del mondo».
È, del resto, lo stesso universo silente che si ritrova in celebri opere magrittiane, La con-
se del Novecento, ammira e ritrova nel maestro della metafisica quella capacità di «dipingere il pensiero» che è anche il cuore della propria poetica. «La pittura come arte di pensare» è in fondo il dato che ac-
comuna questi percorsi dagli esiti multiformi.Tutti gli artisti rappresentati in mostra sono uomini che “appartengono alla razza di coloro che cercano”», come è stato osservato per Morandi. È sufficiente scrutare nelle loro biografie per comprendere l’orizzonte che li definisce e da quali dimensioni provengano questi lucidi enigmi. Il triestino Arturo Nathan, ad esempio, è amico di Umberto Saba, di Italo Svevo, con i quali condivide l’esperienza dell’analisi con Edoardo Weiss, discepolo di Freud. Nathan scomparirà nei lager nazisti ma prima ci consegnerà, con le opere degli anni Trenta, una metafisica che è figlia diretta di quella di De Chirico. Statue, frammenti archeologici, marine visionarie dal cromatismo cupo, una creazione sofferta che non riesce a tenere lontano l’inquietudine della storia.
Quella storia che sembra di nuovo ritrarsi nelle atmosfere rarefatte delle opere di Balthus. Anche questo sofisticato pittore, nato nel 1908 a Parigi, di origine polacca, sembra raccogliere l’eco estrema delle invenzioni dechirichiane. Balthus sonda però non l’aspetto inverosimile ma quello quotidiano del
vissuto, che restituisce con una figurazione carica di sensualità e dal fascino singolare. Nel grande olio Le passage du Commerce-Saint-André del 1952 siamo lontani dalla complesse associazioni della metafisica e del surrealismo, l’enigma è di nuovo in superficie, nelle strutture architettoniche bloccate, nella sospensione dei gesti e della vita, nelle forme di chiara memoria rinascimentale dove è evidente la lezione di Piero della Francesca, che a sua volta del mistero fu amico e maestro.
Il conte Balthasar Klossowski de Rola, vive a stretto contatto con uno dei maggiori poeti di lingua tedesca e della contemporaneità, Rainer Maria Rilke. Da lui riceve il nome d’arte, Balthus, con cui si afferma tra i protagonisti indiscussi del panorama europeo. Il pittore nasce consacrato dal poeta: un dettaglio, un indizio della via maestra che questa pittura novecentesca, proseguendo il percorso avviato da De Chirico, mai abbandona, ritagliandosi il compito da sempre proprio della poesia: rendere visibile l’invisibile, reale l’irreale, perché, come spiega lucidamente Carrà, solo «la volontà dei profeti può sciogliere gli oscuri enigmi».
cultura
pagina 20 • 29 giugno 2010
crivendo Bambini bonsai, appena uscito da Ponte alle Grazie, Paolo Zanotti ha saputo “dimenticare”le sue conoscenze di raffinato studioso della letteratura di genere, per ritrovarsele poi perfettamente lievitate e distillate in punta di penna come capita agli interpreti virtuosi. Il suo romanzo poggia su due caratteri fondanti: una lingua calvinianamente precisa quanto immaginosa, e lo stratagemma di un’ambientazione del tutto fantastica, che serve a meraviglia per raccontare un mondo purtroppo quasi del tutto reale. A descrivercelo è Pepe, cresciuto in un suburbio genovese e in un futuro in cui si condensa gran parte degli incubi apocalittici dai quali è scossa la nostra società: l’estinzione degli animali (sostituiti da asettici «programmi-natura»), la catastrofe climatica (fronteggiata con ingannevoli città-serre dalla volta celeste artificiale), l’alleanza perversa tra una tecnologia ridotta ad apriori biologico e le menzogne del potere.
S
Zanotti disegna un cosmo dove l’architettura s’è fusa con la geologia in un’unica mostruosa formazione neoplastica, e dove il progresso umano s’è rovesciato in barbarie zoologica. In questo universo kitsch, di cui il fondo marino resta l’inconscio bituminoso e ancestrale, si sovrappongono piante finte e detriti giganteschi, goffi mutanti e laidi simulacri; ma soprattutto tornano a galla i sacrifici tribali, le prefiche, l’identificazione rituale con la natura. Qui i bimbi poveri vengono allevati a bagnomaria nei secchi come girini, e i bimbi ricchi coltivati in un museo delle cere senza luce. Pepe appartiene alla prima categoria. Abita nella favela di Staglieno, dove i loculi cimiteriali son diventati case per le masse escluse dalle poche oasi di privilegio e assediate da un sole cocente. La sua infanzia trascorre nel vano tentativo di allacciare il sulfureo Dopostoria in cui gli tocca vivere con quelle tracce della vecchia Terra che testimoniano di un passato ormai simile a una leggenda edenica. «Io sapevo che il grande mutamento era avvenuto prima della mia nascita, quasi certamente prima della nascita di mio padre», ci informa subito Pepe, «ma c’era anche chi diceva secoli, millenni, per non parlare di quelli che, giurando al cielo e sputando in terra, ti assicuravano che i programmi-natura erano solo frottole, finzioni, passatempi, perché suvvia, come si faceva a credere che il paradiso in terra fosse esistito veramente? Come si faceva a credere che là, dove i panni stesi s’incendiavano e nell’acqua salata allungavano le loro radici le mangrovie,
Libri. Da Ponte alle Grazie arriva “Bambini bonsai”, il romanzo di Paolo Zanotti
Una «fiaba nera» quasi del tutto reale di Matteo Marchesini avesse danzato un tempo un intero corpo di ballo di viti e di garofani?». Il protagonista può provare a ricostruire l’antica natura soltanto con l’aiuto di una fantasia straordinariamente reattiva e di una disperata erudizione, che ha sostituito giocoforza l’autentica conoscenza sensoriale. Non a caso, per lui l’in-sé degli animali resta simile a quello delle statue. E non a caso, quasi tutti i preziosi paragoni di cui è intessuta la scrittura di Bambini bonsai ci riportano a un minuzioso catalogo zoologico. La gola della zia Incarnazione, che fa da tramite col mondo scomparso, si arrossa «come quella dello zigolo». I
A destra, Paolo Zanotti. Sopra, la copertina del suo libro “Bambini bonsai”. In alto, un disegno di Michelangelo Pace
genitori che traslocano sotto il solleone somigliano a «meduse sulla spiaggia». La madre ha una treccia «notturna e ben pasciuta come una murena», il padre sbuffa «come un capodoglio». Come nei ménages familiari del Calvino allegorico, anche qui la donna è elegante e sfuggente, straniera e imperiosa, e ha una metaforica «coda di pavone»; mentre l’uomo, comico e vulnerabile, nutre «l’albatros delle sue illusioni». La precoce Primavera, compagna d’avventure di Pepe, scatta «come uno stormo di fenicotteri»; mentre la nobile e diabolica signorina Petronella ha «occhi sporgenti e azzurri e chiari quanto le lucertole dei faraglioni», e pelle bianca come il mughetto o l’ermellino. E il nostro elenco potrebbe continuare a lungo. Come ci avvisa Pepe col “suo” stile icastico e succoso, nell’universo di Bambini bonsai gli animali si sono trasformati in fantasmi linguistici, in «immagini residuali che ora continuano a intrecciare i loro nidi e a scavare le loro tane nel fitto dei nostri discorsi».
La prima parte del romanzo, che dipinge una sorta di deriva entropica e grottesca del nostro mondo, fa pensare qua e là alla Formica argentina, o a una versione meno picaresca e più drammatica della Cirenaica di Cavazzoni. Ma più avanti, quando scoppia il temporale, il nuovo scenario di chiese e cu-
L’autore racconta un mondo devastato dall’estinzione degli animali, dalla catastrofe climatica e dalle menzogne del potere nicoli, di attese millenaristiche e di quasi-zombies, di sottoboschi cittadini e d’improbabili rifugi aristocratici, prende una tinta cupa e sanguigna che a tratti ricorda perfino il Parise del Ragazzo morto o della Grande vacanza. Qui la pioggia, evento raro e sconvolgente, corrisponde al terrorizzato letargo degli adulti e al rito d’iniziazione per eccellenza dei bambini, che mentre il cosmo si oscura fondano una provvisoria repubblica autonoma di traffici e di bande. In questo contesto anarchico avviene
l’incontro dei miserabili Pepe e Primavera con la ricca Petronella e col suo seguito, che riveleranno al protagonista l’identità della «bambina d’albicocca» la cui effigie, scoperta sulla scatola di un giocattolo, ha accompagnato come un sogno tutta la sua infanzia. Questa bambina non è poi altri che la Sofia alla quale fin dall’incipit, in una finzione mortuaria e stilnovista, Pepe narra nostalgicamente la sua storia; e davanti a lui, «fiore di campo», è anche il più perfetto e mostruoso «fiore di serra». Perché i genitori di Sofia, molti decenni o forse secoli prima, hanno trovato il mezzo per bloccarla in un’esistenza vegetativa da cui i discendenti la risvegliano soltanto per brevissimi intervalli di tempo, in modo da farla rimanere sempre la stessa meravigliosa bambina: e questi intervalli coincidono di solito con le pose sui set di qualche pubblicità. Sofia, «star convalescente e incantevole ritardata», emblematizza quindi la massima perversione di un mondo in cui l’attaccamento spasmodico all’immagine e il conseguente desiderio di fermare il tempo non sono altro che il rovescio dello sfacelo: dato che in entrambi i casi il genere umano si ritrova a galleggiare in un presente assoluto senza progetti né memoria. Ecco: la memoria. Alla fine, sarà solo grazie a un dente magico capace di conservare i ricordi – impasti inscindibili di fantasia e realtà, cioè autentiche esperienze – che Pepe potrà attingere qualche dettaglio “vero” della Terra scomparsa, mischiando i suoi sensi con quelli della fanciulla adorata.
Come si vede, con Bambini bonsai Zanotti ci racconta una pregnante fiaba nera. E lo fa inventando uno spazio fantastico in cui l’immaginario che gli è caro può espandersi a piacere, ingegneristico e lussureggiante, senza smettere mai di coincidere con un’analisi puntuale e spietata del mondo che ci circonda. Un mondo in cui è ormai quasi impossibile anche soltanto sognare altro dall’ubiquo Presente - se non partendo appunto dal presente della pubblicità; un mondo in cui l’utopia viene schiacciata dal culto del fatto compiuto, e l’esperienza è sostituita da inarrestabili «effetti di realtà»; un mondo scisso tra l’attualità del prossimo minuto e un passato ridotto a pura erudizione; un mondo, infine, da cui non ci preserverà nessuna arca - forse al massimo una stagnante serra. Saper scrivere un romanzo capace di dirci tutto questo senza perdere un grammo di concretezza è dote rara: specie oggi che la nuova narrativa oscilla tra biechi sociologismi e alibi postmodernisti. Quindi, chapeau.
cultura
29 giugno 2010 • pagina 21
Tra gli scaffali. Il diario di Josefa Slànskà, moglie dell’ex segretario (ebreo) del Partito comunista cecoslovacco accusato di complotto
Processo al sionismo di Pier Mario Fasanotti
ettiamo da parte parole come orrore, scandalo e indignazione. La storia dei regimi totalitari ci ha ormai abituati a sommesse aggettivazioni. Piuttosto ci deve incoraggiare a conoscere come sono davvero andate le cose. Non tutte sono state spiegate, non tutte sono conosciute. Cecoslovacchia 1952: Rudolf Slànskij, ex segretario del Partito comunista viene sbrigativamente processato e impiccato. Accusa: complotto con gli imperialisti dell’Occidente per sottrarre il paese alla “guida” di Mosca e congiura assieme ad ambienti ebraici. Slànskij fu arrestato (23 novembre 1951) con l’inganno, ovviamente, dopo un pranzo con il primo ministro Antonin Zapotocky. Sua moglie Josefa si è rifiutata per undici anni di leggere il fascicolo accusatorio contro Rudolf. Internata, oltraggiata nel corpo e nella psiche, poi esiliata nel suo stesso Paese e costretta, come operaia, a subire angherie di ogni specie (anche sui suoi figli), ben sapeva che la piramide di imputazioni non corrispondeva a verità. Parlando, e a volte discutendo con coraggio, dinanzi ai suoi aguzzini, Josefa ottenne un giorno questa risposta: «Ma la finisca con la sua verità! Ha capito che a noi della sua verità non frega niente?!». Aveva capito, e alla svelta.
Rudolf Slànskij con sua moglie Josefa; la copertina dei “diari” della donna; Sergio Romano, che firma la prefazione al volume
M
Con maggior lentezza emotiva dovette fare i conti con il proprio passato di ex partigiana e di comunista tutta d’un pezzo, convinta da anni che il Partito avesse sempre ragione. Il diario di Josefa Slànskà viene riproposto dalle Edizioni Ares con il titolo Slànskij, 1952 - Processo e impiccagione di un gerarca comunista (160 pagine, 15 euro). Lo storico Sergio Romano, nella prefazione, ci spiega che «il processo non fu soltanto una “purga” comunista, nel senso che la parola aveva assunto durante i grandi lavacri moscoviti della seconda metà degli anni Trenta. Fu anche, nella strategia di Stalin, un processo al sionismo. Raik (Rudolf) era ebreo, ed ebrei erano molti dei dirigenti che furono arrestati e processati nei tribunali degli stati satelliti. Fra i 14 imputati del processo Slànskij, in particolare, undici, fra cui il protagonista, erano ebrei. Nei giorni del processo il quotidiano Rude Pravo definì il sionismo “nemico numero uno della classe operaia». La storia ha risvolti che sorprendono. Fu proprio l’Urss il primo Paese a inviare in Israele, poco dopo il giorno della sua fondazione (1948), un ambasciatore. Fu la Cecoslovacchia a fornire armi al nuovo stato mediorientale contro i nemici arabi (considerati filo-nazisti). Poi la retromarcia di Stalin, soprattutto dopo la visita a Mosca del premier di Gerusalem-
me, Golda Meyer: applaudita e accolta con una cordialità che sfiorava l’affetto, successivamente venne dichiarata “persona non grata”. Come scrisse l’ex pre-
paravento per eliminare uomini sgraditi o troppo forti che venivano indicati quali agenti del nemico, responsabili di insuccessi ed errori». Insomma, se il Par-
Si legge nel volume: «La parola libertà è un suono senza senso. Che libertà può esserci per la puttana, la cagna, la prostituta, la commediante, la trotzkista, la spia, nell’istituzione socialista?» sidente degli scrittori cecoslovacchi (in carica sino al 1968), «la stampa e la letteratura ebraiche furono proibite; il teatro ebraico fu chiuso e i dirigenti incarcerati. L’antisemitismo funzionò come ottimo
tito comunista falliva nell’economia, si doveva trovare un capro espiatorio. Secondo un millenario manuale. Non bisogna tuttavia dimenticare, e lo scrive Romano, la riluttanza «dell’opinione pubblica di sinistra, in Italia, ad affrontare un argomento che concerneva, sia pure indirettamente, il Pci». Stalin doveva dimostrare al mondo di essere sempre dalla parte giusta. Con la “caccia al responsabile” di molti fallimenti. E quindi inviò in ogni capitale dell’Est europeo molti “missi dominici”, sprezzanti, spietati, professionisti in bugie e complotti. Risultato: processi (per modo di dire, se si guarda al diritto), torture, pressioni fisiche e psicologiche, rappresaglie sulle famiglie dei “traditori”e alla fine la pretesa di una circostanziata autoaccusa. Slànskij fu drogato a lungo. Il medico che lo spinse alla resa psichica si tolse la vita più tardi. Rudolf Slànskij era un uomo di potere. La vedova ovviamente non lo dice, ma fu lui, figlio di un ricco commerciante ed ex feudatario del Paese, ad essere l’autore del colpo di stato nel 1948, fu lui il responsabile di numerose condanne a morte e della carcerazione di
circa 25 mila persone. Fu lui, inoltre, a essere convinto della necessità di processi-farsa anche a Praga. Si può ben dire che Slànskij fu vittima del sistema cui aveva aderito. Stalin nel luglio del 1951, dichiarò che Slànskij aveva commesso troppi errori e ordinò all’allora presidente della Repubblica cecoslovacca, Klement Gottwald, di rimuoverlo dalla carica di segretario del partito. Quando venne arrestato era vice-presidente del Consiglio, secondo l’ipocrita liturgia del declino. Quel che patì Josefa Slànskà, sua moglie, testimonia la crudeltà del totalitarismo comunista,“raffinata” per certi aspetti, rozza per altri.
Lasciamo integro il suo racconto: «Parecchie volte ho pensato che peggio di così non si poteva stare, ma la vita - e soprattutto il nostro Partito e il Governo - mi convincevano continuamente del contrario... bisognava dimenticare in quale secolo si viveva, se si era uomini o bestie, e ricordarsi solo che i cavernicoli, come noi, non avevano a disposizione nulla per il proprio conforto... non puoi pettinarti, a che servono le dita? Ti dicono... ti abitui alla fine a bagnare dieci, venti volte la pezzuola che hai come unica dotazione, a strofinarti con il piccolo asciugamano che serve anche per bendarti gli occhi quando ti conducono all’interrogatorio. Si riesce a sopravvivere anche senza rispettare i più elementari principi igienici, a soddisfarsi del cibo che ti viene dato quale esso sia, si riesce a credere di essere analfabeti perché lì non puoi leggere né scrivere, si smette di avere principi e aspirazioni e solo ci si riduce a fissare, fissare quella fessura, quell’occhio di militare che non si distrae mai, inesorabile. La parola libertà è un suono senza senso. Che libertà può esserci per la puttana, la cagna, la commediante, la prostituta, la trotzkista, la spia, nell’istituzione socialista, quell’istituzione che conosco così bene e per la quale ho lavorato fin dall’adolescenza?».
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE
Gabbani: 12 anni dopo, non solo un caso di malasanità ma uno scandalo Reso invalido al 100% alla nascita per responsabilità accertate, Daniele Gabbani e la sua famiglia sono da anni in attesa che l’azienda ospedaliera San Giovanni estingua l’indennizzo determinato con sentenza definitiva dal tribunale civile di Roma. Daniele viene al mondo il 21 giugno 1998 presso l’ospedale San Giovanni Addolorata, sino al ricovero tutti gli esami ne confermavano il sano sviluppo e nessuna sofferenza, ma la mancata presenza del ginecologo di turno non permette di rilevare una sofferenza fetale, determinandone una grave ipossia cerebrale, tanto da causare gravissimi problemi neurologici concretizzatisi in un grave ritardo psicomotorio. Il minore è, pertanto, invalido al 100%. Daniele è ridotto così, di fatto, ad un vegetale. Dopo anni di battaglie legali una sentenza del 2006 condanna il San Giovanni Addolorata ad un risarcimento di 2.449.000 euro ma, ad eccezione della quota coperta dall’assicurazione, per la famiglia diviene impossibile recuperare la parte del credito eccedente il massimale assicurativo a carico dell’azienda ospedaliera. La continua condizione di passività dei conti bancari rende impossibile pignorare il credito. Sarebbe lecito chiedersi come potrebbe connotarsi “il caso” di Daniele Gabbani.
Giuseppe Schiavello
RISPETTARE LE PROMESSE PER COMBATTERE IL CAPORALATO La Provincia di Roma e le associazioni di categoria rispettino gli impegni presi con i lavoratori immigrati di Rosarno inserendoli nelle nostre aziende agricole. È paradossale che a fronte di un accordo ufficiale, siglato ad inizio aprile, che prevedeva l’assunzione di un centinaio di braccianti africani, e a fronte di una nuova richiesta di 1300 unità nelle aziende agricole della provincia romana, nulla si muova.
Fabio Nobile
GARANTIRE QUALITÀ DEI SERVIZI ALL’AEROPORTO DI FIUMICINO Quali azioni il governo può intraprendere nei confronti della società concessionaria dell’aeroporto Leonardo Da Vinci, per garantire una qualità dei ser-
vizi e una manutenzione degli spazi più adeguata al ruolo di maggiore hub italiano? L’aeroporto intende caratterizzarsi come il punto d’ingresso e di presentazione primario di chi intende recarsi nel nostro Paese. Chi giunge allo scalo di Fiumicino, tuttavia, si trova davanti a uno scenario di degrado, malfunzionamenti e sporcizia, in un quadro di generale noncuranza da parte del personale che rappresenta i servizi dell’aeroporto. I disagi cronici che si registrano nelle partenze da Roma-Fiumicino sommati al caos dei bagagli, hanno garantito lo scorso anno allo scalo “la maglia nera”per qualità di servizio. Sono inoltre turbato perché il nostro Paese ha deciso di presentarsi all’appuntamento dell’Expo 2015 con un aeroporto, quello di Malpensa, “retrocesso” in serie
Le cavigliere dell’amore Queste sono le cavigliere di una donna Ndebele, in Sudafrica. Dalle sue parti, i bracciali di bronzo e rame simboleggiano la fedeltà al marito, e indicano la situazione sentimentale: le donne sposate indossano abiti e gioielli preziosi. Le single si accontentano di girocolli di fili d’erba arrotolati e intessuti con perline
B. Continuando di questo passo, presto, Fiumicino sarà declassato alla serie C.
Jonny Crosio
SOSTENERE E PROMUOVERE LE COMUNITÀ GIOVANILI Per la sopravvivenza dell’agricoltura in Italia, bisogna promuovere la nascita di nuove comunità giovanili e a consolidare quelle esistenti, prevedendo misure e interventi specifici a sostegno di esse. Bisogna individuare inoltre ulteriori finalità delle comunità giovanili nell’organizzazione della vita associativa, come espe-
L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
rienza comunitaria per favorire la maturazione della personalità nel rispetto di sé e degli altri, nell’educazione alla legalità e all’impegno sociale; nell’informazione e promozione delle iniziative nazionali comunitarie e internazionali. Alle comunità giovanili viene attribuito il compito di collaborare con il dipartimento della gioventù della presidenza del Consiglio dei ministri nella promozione di iniziative e programmi nelle materie di competenza del dipartimento, sentite le Regioni e le Province autonome.
Sarah Ostinelli
da ”le Figaro” del 28/06/10
Un po’ Montecristo e un po’ Mandela ikhail Khodorkovsky, l’ex magnate della Yukos caduto in disgrazia e finito nelle carceri di zar Putin, potrebbe tornare presto libero. In particolare dopo due testimonianze, si sarebbe riaperta la speranza per colui che nel 2004 era l’uomo più ricco di Russia e al sedicesimo posto nella classifica dei paperoni mondiali. L’azienda che guidava era la società petrolifera russa leader nello sfruttamento dei più importanti giacimenti di greggio della Russia. Non accettò la proposta che Putin, una volta al potere fece a molti degli oligarchi nati all’ombra di Eltsin. Specialmente di quelli con troppe simpatie in Occidente. «Restituite» – le vostre ricchezze – e non vi sarà dato… qualche anno di galera o peggio. Dopo anni di confino dietro le sbarre per «frode», sembra che gli addebiti all’ex tycoon stiano diminuendo, udienza dopo udienza, nei processi che lo vedono ancora protagonista. A Mosca circola da tempo una voce che lo vedrebbe a piede libero già nel 2011. La settimana scorsa due ex ministri hanno testimoniato facendo vacillare una delle accuse principali contro Khodorkovsky: la vendita illegale di petrolio per 350 milioni di dollari e l’appropriazione indebita della cifra. Il capo d’imputazione includeva anche il suo ex socio Platon Lebedev. Se fosse dimostrata vera questa tesi accusatoria, l’imprenditore russo rischierebbe vent’anni di galera oltre i sei già scontati. «Non ho mai sentito parlare di un furto» ha testimoniato Viktor Khristenko, allora responsabile
M
di Pierre Avril
vice-premier per le questioni energetiche. Il suo collega, ex responsabile dell’Economia, Gref, ha rilasciato dichiarazioni simili. Il fatto che personaggi di questo calibro si siano semplicemente presentati come teste a discarico, per la difesa è un successo. Ricordiamo che il processo è considerato da molti osservatori come tipicamente «politico». Una maniera con cui Putin ha eliminato dalla scena molti possibili avversari. Rispondendo alle lusinghe o alle minacce, molti ex oligarchi avevano capito l’antifona, togliendo il disturbo. Non è stato lo stesso per il patron della Yukos. Khristenko è ancora nella squadra di governo del premier Putin al dicastero del Commercio, mentre Graf dirige la Sberbank, una delle più grandi banche del Paese. Nel frattem-
po un altro tribunale moscovita ha chiuso il processo nei confronti dell’ex vicepresidente del gruppo petrolifero, Vasily Aleksanian, ora ammalato di aids. Nella semiotica del potere russo questi episodi indicano un cambiamento di atteggiamento nei confronti del detenuto più famoso. «Putin e Medvedev hanno capito che Khodorkovsky non è solo una questione politica interna» ha affermato J. Konstantyn Remtchoukov, editore di Nezavisimaya Gazeta. Molti osservatori sostengono che la prigionia di Khodorkovsky abbia danneggiato l’immagine russa all’estero e negli ultimi mesi Putin stia mostrando segni di apertura sulla vicenda. Se le accuse dovessero crollare come un castello di carte, il giudice potrebbe dare d’assoluzione. È probabile che in cambio il Cremlino voglia l’assicurazione che l’ex magnate non entri in politica e si tolga dai piedi in fretta, ma sono solo illazioni. L’ex patron della Yukos sta per finire di scontare la prima condanna per frode. Potrebbe uscire nell’ottobre del 2011, sei mesi prima della campagna elettorale per le presidenziali. Un periodo assolutamente delicato per il tandem Medvedev-Putin. E alcuni diplomatici a Mosca accreditano uno scenario di accordo tra il potere e Kohodorkovsky. Ma una sua liberazione metterebbe a rischio altri interessi come quelli di Igor Sechin, attuale vicepremier con delega per l’energia. Khodorkosky per il Cremlino rischia di diventare una miscela tra Montecristo e Nelson Mandela, da maneggiare con cura.
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog osservatorio del lavoro
LETTERA DALLA STORIA
Saper accettare la morte è il vero scopo della vita
di Vincenzo Bacarani
Carissimo padre, ho appena ricevuto una notizia che mi ha profondamente scosso: Lei sarebbe molto malato. Quanto vorrei ricevere da Lei notizie consolatorie non ho bisogno di dirglielo. Ed è quello che mi auguro, sebbene non abbia perso l’abitudine di aspettarmi sempre il peggio. Perché saper accettare la morte è il vero scopo della nostra vita. Così da un paio di anni questa grande amica dell’umanità mi è diventata così familiare che il suo volto non mi fa più paura, anzi mi rasserena e mi consola. E io ringrazio il mio Dio per avermi concesso la felicità di procurarmi, Lei mi capisce, l’occasione di conoscere la morte come la chiave per la nostra vera beatitudine. Io non mi corico mai la sera senza pensare che forse, per quanto sia giovane, non vedrò il nuovo giorno. Ma nessuno di quelli che mi conoscono può dire che io sia scontroso o triste. E per questa beatitudine ringrazio ogni giorno il mio creatore e la auguro di cuore ad ognuno dei miei simili. Wolfgang Amadeus Mozart al padre
LE VERITÀ NASCOSTE
Taiwan, un esercito tutto di cioccolata TAIPEI. L’imperatore Qin Shi Huang, nel fondo della montagna che ospita i suoi resti mortali, non sarà felice. Dopo aver lottato per un decennio contro i signori dei Quattro Regni e aver unificato l’enorme territorio cinese, vede la sua opera più maestosa divenire un’attrazione.Tra l’altro culinaria.Tra l’altro riguardante il cioccolato, elemento quanto di più distante dalla cultura cinese. Una singolare mostra di miniature di cioccolato, che replicano perfettamente i guerrieri cinesi in terracotta sepolti nei pressi di Xi’an, sarà inaugurata infatti questa settimana a Taipei, in Cina. Lo hanno reso noto i responsabili della Artsource Corp, una delle società che fornirà la maggior parte delle opere esposte. La “World Chocolate Wonderland” di Taipei segue una precedente manifestazione di sculture di cioccolato a Pechino, a cui hanno preso parte oltre 400mila visitatori. Il fulcro della mostra, che resterà aperta fino a settembre, saranno i 400 guerrieri di terracotta, della misura di 35 millimetri, posti sulla tomba del primo imperatore cinese. «Coloro che visiteranno la nostra mostra comprenderanno che il cioccolato non è solo un alimento, ma anche qualcosa con cui si può fare dell’arte», ha detto un portavoce della società. Tra le altre sculture, saranno esposte le riproduzioni di uno dei più alti grattacieli di Taipei, il Taipei 101, e della Grande Muraglia cinese. Per evitare il rischio che le sculture possano sciogliersi, l’esposizione sarà allestita in una stanza a temperatura controllata. Rimane da chiedersi se l’imponente esercito di terracotta, che il primo imperatore volle seppellire con sè, sia contento di vedersi ridotto in una leccornia per turisti danarosi.
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
VESUVIOPOLI. VEDI NAPOLI E POI MUORI La stupefacente bellezza del Vesuvio, inconfondibile icona di Napoli e del Golfo in tutto il mondo, sta subendo uno degli attacchi più duri. La lunga mano della protezione civile, cancellando ogni vincolo di legge riguardante la tutela del Parco Nazionale del Vesuvio, classificato come area d’interesse comunitario, zona di protezione speciale, riserva di biosfera perfino dall’Unesco, e unica bellezza paesaggistica italiana presente nella finale del concorso atto a designare le sette meraviglie naturali del mondo; sullo stimolo dell’ultima emergenza rifiuti 2008 ha proceduto in deroga, attivando l’ex discarica Sari di Terzigno, chiusa nel 1994 perché tutte le leggi e direttive italiane ed europee vietano l’apertura di discariche all’interno delle aree protette dei parchi Nazionali. Lo scempio in atto è sotto gli occhi di tutti i cittadini di Terzigno, Boscoreale, Boscotrecase, e dell’intero comprensorio vesuviano. Tutti sono alla mercè di questa discarica intoccabile, presidiata da militari armati fino ai denti, che non la rendono avvicinabile, accessibile e ispezionabile. La discarica è un enorme mostro che esala un fetore pestinenziale che si diffonde nei paesi limitrofi dal tardo pomeriggio alla mattinata inoltrata. I cittadini sono costretti a vivere tappati in casa tenendo le finestre ben chiuse, perché diversamente la forte puzza rende l’aria irrespirabile, fa salire il vomito e bruciare gli occhi. Di sera da 100 a 150 camion giungono da Napoli e provincia a sversare i pestilenti carichi che, a seguito di rilievi dell’Arpac sono stati dichiarati fuori legge.
Lettera firmata
Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Robert Kagan, Filippo La Porta,
Direttore da Washington Michael Novak
Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,
Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)
Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Collaboratori
Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,
Maria Pia Ammirati, Mario Arpino,
Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,
Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi,
Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,
Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,
Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,
UMBRIA, LATO DEBOLE DEL LAVORO REGOLARE Il problema dell’occupazione sommersa contrapposta a quella regolare, è un problema che si perpetua da decenni nel nostro Paese. I dati sono allarmanti e parlano di un 12,6 per cento di lavoratori irregolari. Da questo è anche emerso che una regione piccola come l’Umbria (circa 900mila abitanti) ha la “maglia nera” nel Centro Italia. Se ne è parlato venerdì a Spoleto nel corso dell’incontro-dibattito “I Due Mondi del Lavoro” organizzato sotto l’ègida dell’Udc e della fondazione Liberal. Con oltre il 12 per cento (che rispecchia la media nazionale), l’Umbria supera Toscana (8,6) e Marche (10). L’incontro ha visto la partecipazione dell’assessore al Lavoro del Comune di Spoleto, Maria Margherita Lezi che ha annunciato una serie di iniziative per contrastare il fenomeno in ambito locale come «un budget a disposizione delle imprese che intendono assumere persone a tempo indeterminato o con contratto di almeno 5 anni e questo in collaborazione con la Banca Popolare di Spoleto. Inoltre, organizzeremo un osservatorio del lavoro per monitorare la situazione». Iniziative concrete che comunque devono fare i conti con quello che Francesca Fiorucci dell’Uilta-Uil definisce «fenomeno pervasivo». Per Mario Bravi, Cgil Umbria, «il riferimento essenziale rimane il contratto. Certamente la crisi attuale tende purtroppo ad allargare il fenomeno».
Ma è davvero così? Davvero il contratto di per sé rappresenta un ombrello protettivo? Per Guido Perosino, direttore Confapi Umbria, non proprio perché «le imprese sono soffocate dalla burocrazia e dalla disorganizzazione». Alberto Arata di Confindustria ha spiegato che le grandi aziende non sono molto interessate dal fenomeno in quanto «hanno necessità di trasparenza». E il capogruppo alla Provincia di Perugia dell’Udc, Maurizio Ronconi, ha sottolineato come sia «indispensabile, per affrontare e limitare il problema, coinvolgere la scuola e l’università». In merito all’incontro-dibattito è intervenuta, con una nota, anche l’onorevole Paola Binetti, commissario dell’Udc per l’Umbria. Binetti ha sottolineato come la recente vicenda di Pomigliano sia una sorta di paradigma della situazione attuale. «Non si possono mai contrapporre i diritti dei lavoratori - ha spiegato - alle logiche aziendali e tanto meno lo si può fare in tempi di crisi, quando oltre il 60 per cento delle persone rappresenta la piena consapevolezza che l’unico lusso che non può permettersi è quello del non-lavoro». «Pomigliano ha proseguito l’onorevole Binetti - ci ha ricordato come occorra sempre e comunque individuare una terza via nel confronto democratico». Una terza via che si chiami fuori da una dialettica che troppo spesso sfocia in polemica aggressiva e quindi non costruttiva. «Questa terza via», ha concluso l’esponente dell’Udc, «è uno dei cardini della riflessione che nell’Udc si sta facendo mentre a passi spediti si va verso il nuovo grande partito della nazione. L’iniziativa di Spoleto rientra in una serie di seminari che su questo tema specifico stiamo promuovendo in tutto il Paese».
Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma
Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1
Amministratore Unico Ferdinando Adornato
Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118
Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato,Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747
John R. Bolton, Mauro Canali,
Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli,
Franco Cardini, Carlo G. Cereti,
Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana,
Enrico Cisnetto, Claudia Conforti,
Roselina Salemi, Katrin Schirner,
Angelo Crespi, Renato Cristin,
Emilio Spedicato, Davide Urso,
Tipografia: edizioni teletrasmesse New Poligraf Rome s.r.l. Stabilimento via della Mole Saracena 00065 Fiano Romano
Francesco D’Agostino, Reginald Dale
Marco Vallora, Sergio Valzania
Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.”
Abbonamenti
06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro - Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro
Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc
e di cronach
via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 0 6 . 6 9 9 2 4 0 8 8 - 0 6 . 6 9 9 0 0 8 3 Fax. 0 6 . 6 9 92 1 9 3 8 email: redazione@liberal.it - Web: www.liberal.it
Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30
ULTIMAPAGINA Il caso. Il ct tuona, polemizza e nega ogni responsabilità nel «crollo» della sua nazionale: un vero arcitaliano
Mr Capello stavolta non fa Fabio Capello è al centro di furiose polemiche dopo l’eliminazione della «sua» nazionale inglese dai Mondiali in Sudafrica. Lui ha dato tutta la colpa all’arbitro che ha annullato un goal regolare (nelle foto sotto, la sequenza)
di Gabriella Mecucci abio Capello, ovvero l’arcitaliano. Sbarcato nelle nebbie d’Oltremanica, il numero uno dei nostri allenatori aveva cercato di darsi un glamour britannico. Da commissario della Nazionale non poteva farne a meno. Arrivate le batoste mondiali, è subito rientrato nei ranghi rifugiandosi nell’italian style. Agli inglesi, che vorrebbero toglierselo dai piedi, ha risposto che lui resta e, se lo vogliono cacciare, si accomodino pure, ma costa caro. Il contratto che ha in tasca lo garantisce totalmente: proprio prima di partire per il Sudafrica, infatti, il coach aveva fatto togliere tutte le clausole rescissorie. La Federazione inglese è legata mani e piedi e ha preso tempo prima di decidere: un paio di settimane. Se insiste a sostituirlo, deve sborsare 15 milioni di euro, che non sono bruscolini: lo stipendio di due anni. Capello tuona, imputa alle malefatte arbitrali l’esclusione dai mondiali e di dimettersi non ne vuol sentir parlare. Somiglia stranamente a Brancher: entrambi incollati alla poltrona, entrambi inclini a scaricare sugli altri guai e contraddizioni. Flaiano direbbe: «La situazione è grave ma non è seria».
F
I giornali inglesi sono scatenati come quelli italiani contro Lippi. Ma il viareggino, al contrario del friulano con simpatie leghiste, aveva gettato la spugna addirittura prima del Mondiale. Anche se vinceva, sarebbe tornato ai suoi ozi marittimi. Mister Fabio – strillano oltre Manica – è il principale responsabile del fallimento. Il Sun spara a tutta pagina: «Togliti di mezzo e portati dietro i tuoi giocatori». E il Daily Mail, alludendo alla Geconda guerra mondiale, scrive: «Se i nostri si fossero difesi così male, oggi parleremmo tedesco». Il Guardian invece fa un po’ di dietrologia. Racconta che dietro le quinte Capello avrebbe dichiarato la propria disponibilità a lasciare, ma solo se gli venisse concessa una cospicua buonuscita: i bene informati parlano di 12 milioni di euro. Sia come sia, più si scende nei particolari, meno Capello fa l’inglese. Il più italiota dei suoi comportamenti è l’attacco all’arbitro di Inghilterra-Germania. Non c’è dubbio che questi ha preso un granchio colossale annullando un goal regolarissimo a Lampard, ma è anche vero che Albione ha perso per 4-1, un risultato che non lascia spazio a dubbi su chi fosse il più forte. E se non bastasse, allora avanti a riguardarsi le tre precedenti partite: gli uomini di Capello non hanno fatto altro che imbarcare figuracce, anche quando hanno vinto con un golletto di scarto. Come si
LA SEQUENZA DEL GOL “FANTASMA”
l’INGLESE Tutti i giornali londinesi ne hanno chiesto le dimissioni e lui: «Ho un contratto, licenziarmi vi costerebbe troppo». In effetti, c’è chi già parla di una possibile buonuscita da 12 milioni di euro. Insomma: stavolta non si sta comportando da Lord fa a far finta di nulla? Gli azzurri hanno esibito una prestazione inqualificabile, ma Rooney e compagni non se la sono cavata molto meglio: erano agili come vecchie lady minate dall’artrosi. E il coach, uno degli allenatori più titolati del mondo (scudetti in Italia e Spagna, champions a profusione), ha perso più volte il controllo di sè. In qualche partita si è avvicinato alla ridicolaggine del vecchio Trap quando si presentava in campo – erano sempre campionati mondiali – con l’ampollina dell’acqua santa. Ne abbiamo viste di tutti i colori.
Massimo Gramellini ha legato l’eliminazione azzurra di quest’anno al fatto che l’Italia è un paese in crisi nera. Il nesso non regge: dovremmo dire che quattro anni fa il paese era tutto rose e fiori. Se scrivesse su un tabloid londinese potrebbe sostenere che la debacle britannica dipende da una monarchia che non funziona più. Il principe Carlo non ne azzecca
una: l’ultima della serie è che lui e Camilla vivono da separati in casa. E qualche giorno addietro si è beccato persino una polemica reprimenda dalla magistratura. Per non dire della figuraccia che ha fatto quale difensore di quella bufala che si è dimostrata il global warming. Nasce un sospetto: non è che il famoso aplomb britannico sta scolorando in un più prosaico italian style?
Del resto, gli inglesi non avevano certo mostrato la leggendaria e ironica compostezza nell’attaccare il povero – si fa per dire – Marcello Lippi. Gliene hanno e ce ne hanno dette di ogni tipo. Che la squadra era a pezzi, che ci dovevamo vergognare. Tutto vero, ma il pulpito da cui veniva la predica non era fra i più autorevoli. Il nume del pallone si è vendicato e – ironia della sorte – è toccato proprio ad un italiano trascinarli nel baratro di un’eliminazione senza scuse. Ed è ancora un italiano che li tiene sotto scacco. Loro strillano, imprecano, implorano che se ne vada. E lui nemmeno li sente. Li tiene in pugno con un contratto che solo dei babbei potevano firmare, e promette: se fate i buoni, ci accorderemo. Un interrogativo troneggia sopra questa gag: chi ne esce peggio?