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Questa è la regola negli affari: “Fatela agli altri, perché loro la farebbero a voi” Charles Dickens

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 30 GIUGNO 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Le intercettazioni, la rivolta dei Governatori, il caso Brancher: adesso si apre nel Pdl anche il fronte mediatico interno

Ora Bossi sta con le Regioni Maggioranza in tilt: anche Feltri schiera il Giornale contro Berlusconi Il Senatúr dice: «Ascoltiamo gli Enti locali e cambiamo la manovra economica». E il direttore “di famiglia”dopo aver linciato Fini, ora lo imita e va giù duro con il premier NEMESI

di Riccardo Paradisi

Controcanto numero due: la vendetta

ROMA. Dopo Gianfranco Fini, ora tocca a Vittorio Feltri e Umberto Bossi. E se anche il direttore di famiglia comincia ad attaccare il premier (come ha fatto ieri sul Giornale), allora vuol dire che i problemi di Berlusconi sono più gravi di quel che sembra. Il tira-emolla con le Regioni sulla finanziaria lo dimostra.

di Giancristiano Desiderio e anche Feltri e Bossi ne dicono quattro al Cavaliere vuol dire che le cose vanno peggio di come vanno. Perché Feltri è uomo di buon senso e anche quando difende l’indifendibile ha le sue buone ragioni per farlo. Allora, quando, come in questi giorni, si mette a criticare il Cavaliere vuol dire che le ragioni di buon senso per difenderlo si sono esaurite. Il presidente del Consiglio una volta disse che ogni mattina la sua prima lettura è l’articolo di Vittorio Feltri. Quiandi sicuramente avrà letto la letterina che a mezzo stampa gli ha spedito il suo giornalista preferito. segue a pagina 2

S

L’Appello gli riduce a sette la condanna

Dell’Utri “guadagna” due anni Il senatore accusa: «Una sentenza pilatesca, e comunque Mangano resta il mio eroe». Applausi Pdl: «Ma cosa festeggiate?», dice Granata

La tesi del premier è vera: ma al contrario

Presidente, la crisi è più grave di quel che raccontano i giornali L’economista francese Guy Sorman e Mario Arpino sconfessano l’ottimismo ostentato al G20 Guy Sorman e Mario Arpino • pagine 4 e 5

Chi dei nostri vincerà, Juan, Milito o Sneijder? In Sudafrica sta trionfando la globalizzazione delle passioni

Paola Binetti • pagina 11

Pur senza citare lo scandalo pedofilia, il Pontefice lancia una nuova strategia

Il Papa: «Il male è nella Chiesa»

di Franco Insardà

ROMA. La Corte d’appello di Palermo ha fatto uno sconto di due anni a Marcello Dell’Utri. Il senatore del Pdl è stato condannato a sette anni di reclusione per concorso esterno nella mafia. Ma la sentenza non fa accenno ai rapporti fra mafia e politica, di fatto azzerando la credibilità del pentito Spatuzza. Lo sconto non cancella l’accusa, ma il Pdl ha fatto ugualmente i salti di gioia per festeggiarlo, tanto da provocare il fastidio del finiano Granata («C’è poco da festeggiare»). Tuttavia, un’assoluzione piena era meglio. Lo ha detto Gianfranco Micciché plenipotenziario Pdl in Sicilia e addirittura Osvaldo Napoli, vicepresidente dei deputati del Pdl, ha voluto paragonare (in negativo, naturalmente) la condanna di Dell’Utri con l’assoluzione (per incapacità di intendere e volere) di Massimo tartaglia, l’uomo che a dicembre lanciò una statuetta contro Berlusconi. a pagina 6

a pagina 2

L’Italia ancora al Mondiale

«Non è colpa delle persecuzioni», l’autocritica di Ratzinger di Gualtiero Lami

Vittorio Possenti sul nuovo Dicastero

CITTÀ DEL VATICANO. Benedetto XVI prosegue la sua durissima battaglia per il rinnovamento della Chiesa. Ieri, infatti, ha spiegato che «Il pericolo più grave per la Chiesa oggi non viene dalle persecuzioni esterne ma dal male che la inquina dall’interno». È quanto ha affermato il Pontefice, non citando direttamente lo scandalo della pedofilia, durante l’omelia della messa celebrata nella basilica vaticana nella solennità dei santi Pietro e Paolo.

«Comincia la sfida all’Occidente»

seg1,00 ue a p(10,00 agina 9 CON EURO

di Gabriella Mecucci Secondo il filosofo Vittorio Possenti, nelle parole del Papa e nella sua decisione di dar vita a un Dicastero per la «rievangelizzazione dell’Occidente» c’è una grande afida all’ateismo scientista, quella nuova malattia che ha colpito l’Occidente dopo la caduta del comunismo. «Spero che il nuovo dicastero lavori alla ricerca di verità e senso, perché queste le due questioni centrali che coinvolgono tutte le altre». a pagina 8

a pagina 9 I QUADERNI)

• ANNO XV •

NUMERO

125•

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


pagina 2 • 30 giugno 2010

prima pagina

Ordine sparso. Non bastava l’ex leader di An, adesso anche Vittorio Feltri se la prende apertamente con il premier

Il Cavaliere tra le fronde

Regioni, Brancher, intercettazioni: Berlusconi ormai è in crisi. Come da giorni si capisce anche leggendo il “Giornale” di famiglia di Riccardo Paradisi ilvio Berlusconi e io mangiavamo il minestrone nella sua villa di Arcore. Noi due soli nella grande sala vuota. Lui era stanchissimo. Davanti a quel minestrone, cucchiaiata dopo cucchiaiata, diceva: “Sono teso, dormo pochissimo, quattro ore per notte. Mi attaccano da tutte le parti”. E io pensavo: “Ma guarda un pò, sono qui con l’uomo più potente d’Italia, il più acclamato, una cena che tutti m’invidieranno, e mi viene una gran tristezza. Quest’uomo mi sembra così solo!”. C’era come un senso di freddo e di buio attorno a noi. Non abbiamo rievocato nulla, non c’era allegria, i ricordi di quando Silvio veniva alle prove di Canale 5 e scherzava con tutti sono lontani e irripetibili».

«S

Era ancora il 2009 ed era di maggio quando Mike Bongiorno raccontava al settimanale Oggi l’ultima sua cena con il vecchio amico Silvio. Un affresco dolente quello del presentatore recentemente scomparso in cui c’è molto di quello che il berlusconismo è divenuto negli anni; della metamorfosi di un uomo che comunque lo si voglia giudicare ha segnato un cambio epocale di mentalità e di costume nel Paese. Che prima ancora di entrare in campo rompe il monopolio televisivo con le sue tv private, che durante tutta la sua ascesa da tycon mediatico e malgrado un evidente conflitto di interessi si accredita come editore liberale presso i suoi stessi dipendenti. Lo stesso uomo che dopo aver normalizzato le reti Mediaset – almeno stando alle esplicite denunce dell’ex direttore del Tg5 Enrico Mentana, l’irregolare che di Berlusconi testimoniava liberalità e rispetto per l’autonomia dei giornalisti – da presidente del Consiglio invita ora a uno sciopero contro i giornali: «Disinformano e i lettori dovrebbero scioperare per insegnare a chi scrive a non prenderli in giro». Il pretesto per la nuova intemerata sono i resoconti del G20: «l’esatto contrario delle riunioni – polemizza il Cavaliere – da molti mesi, vedo una disinformazione inconcepibile». Per la verità è ormai qualche anno che Berlusconi somatizza l’infor-

È ancora più duro il secondo controcanto alla strategia del presidente del Consiglio

Chi va contro Fini, impara a “fineggiare” di Giancristiano Desiderio segue dalla prima Sono poche righe ed è bene rileggerle perché sono il segno che anche per Feltri, che non è Fini, si è passato il segno e se non è entrato a far parte nel Pdl del “Fini Club” poco ci manca. Dunque, scrive il direttore de Il Giornale: «Caro presidente Berlusconi, leggo sulle agenzie che lei è favorevole ad uno sciopero degli italiani contro i giornali perché disinformano e prendono in giro i lettori. Sarebbe una buona idea se non presentasse un rischio: che gli italiani poi la applichino poi anche contro i politici. I quali nel nostro Paese sono i soli più bravi dei giornalisti a prendere in giro i cittadini, lettori ed elettori».

Voi che avete letto, che cosa avete pensato? Esatto. Figuratevi allora che cosa avrà pensato il capo del governo quando ha letto la letterina di Feltri, l’editoriale di Nicola Porro, il servizio interno sul Carroccio che «è in guerra per bande» e l’articolo di “spalla” di Mario Cervi sui sacrifici da farsi che era intitolato semplicemente così: «L’esempio prima venga dal Palazzo» (il che significa che non si può chiedere agli italiani di fare le formiche se i governanti fanno le cicale). Silvio Berlusconi avrà pensato: «Ma Feltri sta con me o contro di me?». Il punto è proprio questo: Feltri sta con Berlusconi, ma se anche Feltri comincia a dire al Cavaliere che la carrozza fa schifo significa che il Cavaliere deve fare uno sforzo e capire che se le cose non vanno bene non è

colpa dei giornalisti che scrivono che le cose non vanno bene, bensì dei governanti che nel migliore dei casi lavorano male, nel peggiore non sanno che pesci pigliare e nel peggio del peggio diventano ministri per non andare in tribunale.

Quando Fini si permise di alzare la voce, Feltri si fece prendere quasi per pazzo: e giù pagine e pagine sulla moglie, la suocera e perfino su Bocchino. Ma da quando Scajola si è messo a raccontare barzellette sul prezzo dell’acquisto a lui ignoto della sua casa, Feltri si è sentito in dovere non solo di essere ironico, ma di passare all’opposizione di se stesso. Infatti, poteva il giornalista dello scoop dello scandalo di Affittopoli tacere sulle case ministeriali pagate dalla cricca a beneficio della cricca senza che la cricca nulla sapesse ieri, oggi e domani? Si può dire che il “caso Scajola”sta a Feltri come il “caso veline e dintorni” sta a Fini: in entrambi i casi è la palla al balzo che è colta per cominciare a dire ciò che si sentiva di dover dire da tempo. Ma nel caso di Feltri - ci perdoni Fini, ma se ne farà una ragione - il fatto per il Cavaliere è ancora più serio. Infatti, Berlusconi vuole sapere cosa pensa Fini per fregarlo, invece vuole sapere cosa pensa Feltri per non farsi fregare. Insomma, Feltri è meglio dei sondaggi, è un termometro, un segnale, una cartina di tornasole e quando non torna il sole di Feltri vuol dire che i conti non tornano. Ormai è da settimane che Feltri glielo dice in tutti i modi al suo amico Cavaliere: sembri Marcello Lippi, non ne imbrocchi più una, né sulle intercettazioni, né sulla Protezione civile, né sui ministri, né su Brancher e ora ti incarti anche sulle tasse, i tagli, la manovra e ti fai trafiggere come un San Sebastiano dalle frecce delle Regioni. Questo vuol dire - ecco l’accusa grave e ancor più grave perché pronunciata dal termometro Feltri - prendere in giro gli italiani. Così Feltri è entrato nel “Fini Club”: vedrete, tra poco vi entrerà anche Berlusconi chiedendo di cambiarne il nome: “Berlusconi Club”. Una presa in giro, appunto.

mazione che non gli è amica, e usa sistemi ruvidi per contrastarla. A parte il cosiddetto editto bulgaro (primi anni duemila) ne sono testimonianza i recenti interventi a gamba tesa sull’authority delle comunicazioni attraverso Giancarlo Innocenzi o il caldeggiamento del regolamento della commissione di vigilanza che ha silenziato i talk show durante l’ultima campagna elettorale.

Episodi che messi assieme restituiscono l’immagine di un Berlusconi che ormai gioca in difesa sul terreno a lui più congeniale che è quello della comunicazione. Ora lo sciopero contro i giornali. Un’idea che persino Vittorio Feltri, il direttore del Giornale, definisce ”rischiosa”, in una lettera al presidente del Consiglio pubblicata ieri in prima pagina: «Caro presidente leggo sulle agenzia che lei è favorevole ad uno sciopero degli italiani contro i giornali perché disinformano e prendono in giro i lettori. Sarebbe una buona idea se non presentasse un rischio: che gli italiani poi la applichino anche contro i politici. I quali nel nostro Paese sono i soli più bravi

Lo smentisce anche il portavoce Paolo Bonaiuti dicendo che il governo ”rivedrà”, sì, ma solo le Regioni dei giornalisti a prendere in giro i cittadini, lettori ed elettori». Orgoglio di categoria, certo, ma non solo. C’è tra le righe della breve pubblica missiva anche un contenuto di polemica politica. Anche perché non si riferisce solo ai politici di sinistra. È da un pezzo che il Giornale non offre più al premier sponde ”a prescindere”, cementate sul credere, obbedire e combattere. “Giornata memorabile per il palazzo. In Consiglio dei ministri hanno realizzato un colpo degno della Banda Bassotti”: è un altro titolo del quotidiano di Feltri che in un editoriale di un paio di settimane fa si scaglia contro il governo Berlusconi per il mancato taglio dei costi della casta. Ma gli smarcamenti nei confronti di Berlusconi sono ormai un’abitudine al Giornale.Venerdì scorso, reiterando una polemica del suo vicedirettore Alessandro Sallusti, Feltri bacchetta il premier per il suo indulgere nell’incoraggiare correnti e fondazioni interne al partito. Il riferimento è ai promotori della libertà di Michela Vittoria Brambilla e all’associazione Liberamente di Maria Stella Gelmini e Franco Frattini. «La moda delle lotte intestine è stata inaugurata da Fini – dice Feltri – seguirla è un errore». Come è un errore questo affidarsi a consiglieri e consigliori: per Feltri il Principe ha una buona stella, deve seguirla senza deviare, come sempre


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Il governo analizza gli impatti finanziari della riforma

Bossi fa il federalista «Manovra da rivedere» Il Senatùr ferma Tremonti e chiede di «ascoltare le ragioni degli enti locali» di Francesco Pacifico

ROMA. Umberto Bossi rompe gli indugi e apre alle Regioni. E manda un chiarissimo messaggio a Giulio Tremonti: «La manovra si può modificare, vanno ascoltati gli enti». Parole che arrivano nel giorno in cui il ministro dell’Economia presenterà in Consiglio dei ministri la relazione sui costi del federalismo, provando a dimostrare i benefici portati dall’applicazione dei nuovi costi standard, seguendo le modalità d’acquisto degli enti più virtuosi. In estrema sintesi se tutte le Regioni comprassero la cancelleria o prescrivessero gli esami clinici con la stessa attenzione di Lombardia, EmiliaRomagna e Toscana, si risparmierebbe qualcosa come 2,5 miliardi soltanto per la sanità. Ma non tutti gli enti sono virtuosi. Quindi, l’obiettivo dei governatori è di far entrare nei costi standard anche i trend di spesa delle regioni con maggiori disavanzi e minori infrastrutture, pena l’istituzionalizzazione di un’Italia a due velocità. Mentre Tremonti renderà quanto più rigidi questi benchmark, da calcolare con uno strumento molto simile agli studi di settore. Seppure sotto traccia, su questi numeri si è accesa una battaglia molto più cruenta di quella in atto sulla manovra e sui 7,5 miliardi di euro in due anni che il Tesoro vuole recuperare dai trasferimenti alle materie (su tutte trasporti e assistenza) assegnate dalla Bassanini alla periferia dello Stato. Di conseguenza, chi tra le due parti in causa vincerà questo confronto, potrà avere la forza di dettare la linea quando si definirà la nuova architettura fiscale del Paese. Anche per questo il numero uno della Toscana, Enrico Rossi, ha mandato un chiaro messaggio ai colleghi di Lazio, Campania, Calabria, Abruzzo e Molise. Cioè a quelli che, sotto commissariamento per i deficit sanitari, avevano scritto a Tremonti per chiedere clemenza. «Sarebbe stato bene tenere il fronte unito, ma per farlo ci vuole un politica nazionale che mi pa-

re qualche volta manchi nel Paese». Alle Regioni non resta che sperare in Silvio Berlusconi. Avrà anche dichiarato di aver «messo il naso nelle spese delle Regioni e ho avuto profondi brividi alla schiena»; ma sa bene che senza un contrappeso reale Tremonti potrà gestire senza alcun freno la madre di tutte le riforme. Non a caso Roberto Formigoni – non un sodale del ministro – ha messo il coltello nella piaga: «Il dialogo con il presidente del Consiglio fa passi avanti, attendiamo soltanto che stabilisca la data per incontrarci». C’è chi dice che a questo vertice voglia esserci lo stesso Tremonti, chi teme invece una stretta sui Comuni per alleggerire le Regioni. Fatto sta che difficilmente il premier potrà modificare una manovra scritta a Bruxelles. Ma un segnale va dato, visto che la Finanziaria non alimenta i consensi (da luglio porterà aumenti autostradali fino al 5 per centro), mentre i mercati non lesinano pessimismo: ieri piazza Affari è calata del 4,44.

Il tesoro stima in 2,5 miliardi i tagli sulla sanità. Mentre i governatori provano a ritrovare l’unità e puntano sul premier per uno sconto

più spesso gli capita. Da qui l’invito: «Caro presidente non faccia come Lippi ma come il primo Berlusconi, l’unico che apprezziamo». E se c’è un primo Berlusconi esiste anche un altro Berlusconi, quello attuale che non accende gli entusiasmi del berlusconismo. Il giorno prima di questa polemica il Giornale titola ancora: «Il governo nel pallone. Siamo tornati ai tempi di Follini. Il governo paralizzato, costretto a trattative estenuanti per ogni iniziativa». Per non parlare delle staffilate riservate al neoministro Aldo Brancher, definito non proprio un genio. È addirittura il finiano Italo Bocchino che col Giornale ha avuto polemiche sanguinose a usare la sponda feltriana per invitare il neo-ministro a non utilizzare la legge che gli consentirebbe la sospensione del processo a suo carico per quattro mesi. «Sono d’accordo con Feltri: ho paura che il caso Brancher diventi un boomerang per Berlusconi che invece ha bisogno di essere difeso dalle aggressioni giudiziarie». A metà maggio il Giornale accusava Berlusconi anche di essere troppo timido nei tagli ai costi della politica mentre si scatena sull’affaire Scajola e sul suo sedicente mezzanino vista Colosseo chiedendone per primo le dimissioni. «Scajola chiarisca o si dimetta», titolava il quotidiano di via Negri il 4 maggio scorso quando ancora il premier non aveva scaricato ufficialmente il suo distratto ministro dello Sviluppo economico. «Nessuno – sostiene Feltri – può

credere che una casa vista Colosseo sia stata pagata appena 600mila euro».

Il quotidiano di Feltri non si esime dall’intervenire criticamente nemmeno sulla partita delle regioni e sulla condotta ondivaga del governo. «Berlusconi scrive il Giornale dice che incontrerà i presidenti delle regioni infuriati per i sacrifici imposti. Ma intervenire non sarà semplice né privo di rischi viste anche le difficoltà del governo». La considerazione del quotidiano diretto da Feltri è che «se c’è una cosa che il governo non si può più permettere di fare è procedere con un passo indietro e uno avanti». Insomma il timore è che la cosa finisca in farsa come la vicenda delle provincie.Tanto più che il leader leghista Umberto Bossi si pronuncia per una rivisitazione della manovra per ciò che riguarda le regioni. Feltri come Fini dunque? Non proprio; se non altro perchè mentre Fini vorrebbe che Berlusconi non fosse Berlusconi Feltri auspica che il Cavaliere torni il brillante decisore dei tempi belli. Una critica da destra quella di Feltri, ma pur sempre un’opposizione interna. E comunque non è solo l’ultraberlusconiano Feltri a eccepire, a uscire dai ranghi – gli stessi dove, meno di un anno fa, aveva chiesto che fosse ricondotto l’eretico Fini. Subito dopo che Berlusconi annuncia che il governo intende rivedere la manovra infatti il suo portavoce, il fedele Paolo Bonaiuti, mediando l’ira di Tremonti, lo smentisce, dicendo che il governo ”rivedrà”, sì, ma solo le Regioni. Quoque tu, Bonaiuti...

Senza dimenticare che la ripresa sarà rafforzata soltanto dall’export. E al riguardo non basterà l’estensione per un altro anno alla Tremonti Ter, prevista da un emendamento bipartisan. Perché nonostante le difficoltà le aziende italiane, soprattutto le medie, continuano a mietere successi all’estero. Come l’abruzzese Walter Tosto SpA, leader nei grandi impianti di caldareria per l’Oil&Gas che fabbricherà quattro camere di reazioni per la colombiana Ecopetrol, forte di una commessa da 17,4 milioni di dollari. Soltanto quando sarà terminato lo scontro tra centro e periferia si comprenderanno i veri confini della manovra. Intanto Antonio Azzollini, il presidente della commissione Bilancio, ha presentato i primi emendamenti della maggioranza su età pensionistica, assegni di invalidità e sicurezza. Ma ce ne saranno altri. Non a caso Tremonti oggi saggerà le intenzioni del Pdl in un vertice a Palazzo Madama, che si prevede teso.


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l’approfondimento

Dal celebre economista francese arriva una sconfessione dell’ottimismo ostentato in margine al G20

Il rovescio d’Europa

Al contrario di ciò che pensa il premier, i giornali razionalizzano una crisi che è più grave di quel che sembra. L’Ue è fondata sul mercato, ma protezionismo e welfare distruggono la libera iniziativa e fanno aumentare i costi di Guy Sorman a tragedia che sta vivendo l’Europa va molto oltre il caso della Grecia, ed è soltanto di facciata una questione esclusivamente finanziaria. Il problema, infatti, si annida più in fondo: si estende a tutte le nazioni che fanno parte dell’Unione, o si estenderà molto presto. Non basterà più mettere a posto in qualche modo i budget dei vari governi, per evitare la bancarotta della Grecia o per rassicurare i creditori di Spagna e Portogallo. Mettere una pezza alle situazioni finanziarie dei Paesi non interromperà un contagio comune a tutte le nazioni che fanno parte dell’Unione europea, dato che queste soffrono tutte della stessa malattia. Nonostante cerchino in ogni modo di minimizzarne la serietà. Il Fondo monetario internazionale, la Banca centrale europea e tutti i ministri insieme ci dicono che siamo davanti a un problema finanziario di natura tecnica. E aggiungono: «Sappiamo come procedere, questo problema passerà presto. Daremo qualche prestito e convinceremo i tedeschi a spendere qualche cosa in più. E alla fine, tutto sarà come prima». Che incredibile negazione della realtà. La verità è che le fondamenta dell’Unione europea sono incompatibili con il modo in cui i governi europei si governano. Cerchia-

L

mo di essere chiari: l’Unione è basata sul libero mercato. È stata concepita in questo modo, sia per quanto riguarda il campo della filosofia politica che per ciò che concerne i principi economici, e l’unico modo possibile per governarlo è soltanto in accordo con la libertà economica. Eppure tutti i governi nazionali, anche quelli governati da politici di destra, hanno nei fatti creato degli Stati caratterizzati da un gigantesco welfare, ispirati dall’ideologia socialista. Di fatto, alle origini dell’Europa, Jean Monnet – un industriale del Cognac con fortissi-

Konrad Adenauer, Alcide De Gasperi e Robert Schuman aborrivano l’idea statalista. Avevano ragione in pieno

mi legami in America – concluse che i governi europei non avrebbero mai avuto successo, e non sarebbero mai riusciti a trasformare l’Europa in una zona di pace e prosperità. All’epoca propose di rimpiazzare il motore diplomatico con un motore economico: libero commercio e spirito d’impresa, disse, avrebbero generato “delle concrete aree di solidarietà” che avrebbero a loro volta eliminato guerre e povertà. I tre cristiano-democratici che hanno fondato l’Unione europea – Konrad Adenauer, Alcide De Gasperi e Robert Schuman – ratificarono l’intuizione di Monnet riguardo al mercato. Quegli uomini condividevano una morale comune e una comprensione politica che li ha portati a compiere le stesse analisi economiche. Tutti e tre sospettavano dello statalismo, che allora veniva identificato – con buone ragioni storiche – con il totalitarismo.

La Commissione di Bruxelles, e più tardi la Banca centrale europea, erano determinate a mantenere vivo questo spirito libertario originale in opposizione alla costante pressione ai governi nazionali, tendenti a “socialistizzare” l’Europa. Il principio del libero commercio, che la Commissione riafferma costantemente, ha accresciuto lo spirito d’impre-

sa del Continente, che deve scontrarsi contro diversi tentativi di protezionismo e monopolio nazionalista. Che spesso viene percepito, quanto meno negli Stati Uniti, come un’altra emanazione della super-burocrazia europea, mentre la Commissione lotta per la de-regolamentazione e la competizione.

L’euro, inoltre, è stato creato per forzare gli Stati a bilanciare i propri budget, proprio come prescrive la teoria del libero mercato monetario. Sfortunatamente, i governi nazionali pensano che sia possibile unificare i benefici economici di un’Europa libera e le delizie elettorali del socialismo. Per “socialismo”, intendo la crescita illimitata del welfare statale e l’accumulo di diritti e posti di lavoro protetti dallo Stato. Questo socialismo de facto, questa sedimentazione delle promesse elettorali e dei diritti acquisiti, è cresciuto in Europa a un tasso molto più alto di quanto abbia fatto l’economia o la popolazione. L’unico modo possibile per finanziarlo era chiedere prestiti, che sembravano senza rischi fino a che l’euro è apparso “forte”. Questa forza della moneta continentale ha portato i suoi accumulatori a un limite estremo: sembrava possibile comprare tutto a credito. Il ri-


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Crollano le vecchie concezioni di Ue e Usa. Ma non si permette alle nuove di emergere

Il declino (volontario) della politica occidentale

L’indebolimento della nostra società nasce dai nostri stessi valori. Che ci costringono a difenderci dagli attacchi con una mano legata di Mario Arpino Occidente è ormai ridotto all’impotenza: non tanto perché è vecchio, quanto perché, a forza di buoni principi, da tempo sta lasciando la presa. Il suo lento suicidio è osservabile giorno dopo giorno. E’ un suicidio inconsapevole, idiota, che coinvolge felicemente in un solo destino un’Europa giuliva e un’America che sta perdendo coscienza di se stessa. Occorre una cura energica, che stimoli sopra tutto volontà e cervello, prima che un terzomondismo di maniera, ridicolo ma alla moda, politicamente corretto, ci porti a quel punto di non ritorno che è la rinuncia

L’

strisciante ai valori fondanti della nostra cultura. A questa soglia, probabilmente siamo molto più vicini di quanto ci si possa rendere conto. Purtroppo, gli “altri” se ne sono accorti prima di noi e, per usare un termine che in questi giorni va di moda, sono all’attacco e ci stanno pressando nel nostro mezzo campo. È stato sopra tutto un malinteso concetto di democrazia, che sta radicando da una quarantina d’anni, a incanalarci verso questa lenta e inesorabile deriva. Nessuno, intendiamoci, ha nostalgia dei tempi in cui l’Europa aveva colonizzato i cinque continenti, ma c’è modo e modo di scomparire. È vero che il “mondo piatto” della globalizzazione doveva per forza portare anche ad un livellamento dei valori, e quindi della speci-

I segnali sono tutti evidenti: dal calcio all’economia, non siamo più determinanti

ficità delle razze, delle culture, dei continenti e degli stati-nazione, che stanno ormai annegando nell’universalismo dell’ignoto. Ma c’è ancora chi non ci crede, perché è impossibile, dice, che tutto ciò possa accadere senza una visibile trasformazione dell’ordine mondiale. Ma se riflettiamo, ci accorgiamo che quest’ordine è già cambiato. I segnali di ciò sono ormai osservabili attorno a noi nei campi più disparati, che spaziano dall’ affogamento del G8 nell’inconcludente mare del G20 alla débàcle delle grandi squadre europee nei mondiali di calcio. Ciò che sta crollando, per insipienza, sono la vecchia Europa e la vecchia America, senza che la nuova Europa, quella del vento dell’est, e la nuova America, quella dell’utopistico efflato obamiano, siano in grado di sostituirvisi senza danni.

Oggi si scrive sui giornali che il G20 di Toronto è fallito perché non c’è stata nessuna decisione, eccetto che un improbabile dimezzamento del deficit dei bilanci entro il 2013. Anche su tutti gli altri argomenti in agenda, quelli che prevedevano qualcosa di concreto, l’accordo non c’è stato o è stato un mezzo accordo, che demanda agli Stati tempi e modalità. Quindi su crescita, occupazione, banche e transazione finanziaria, i quattro pilastri di riforma della finanza, i cambi flessibili per i Paesi emergenti e il protezionismo i grandi (sempre più piccoli) dell’Occidente non sono riusciti a pilotare l’incontro con un impegno comune decisivo. Cosa che comunque non avrebbero potuto fare, se già nel più “domestico” G8 non erano riusciti a trovare un accordo tra loro. Ma non sono certo la crescita della Cina, l’ascesa tecnologica dell’India o il velleitarismo di Lula e Chavez a rubarci la scena. Loro, in fondo, non ci vedono come nemici, ma come partner con cui scambiare affari, finanza e tecnologia. Nessuno di questi vuole dominare il mondo, modificare i nostri costumi, intaccare un modello di civiltà che forse ci invidiano. Il problema è che proprio l’indebolimento dell’Occidente, che in virtù dei principi in cui crede si difende con un braccio legato dietro la schiena, consente quell’allargamento a macchia d’olio degli estremismi di chi, come Ahmadinejad e i suoi protetti, davvero ci odia e si fa beffa di noi, fiducioso che il tempo stia lavorando a loro favore.Con un’Europa che bizantineggia sulla democrazia e un’America che sta volontariamente rinunciando al suo ruolo, verrebbe da pensare che, alla fine, a difendere un Occidente incapace resteranno solo l’orgoglio russo e la determinazione di Israele. Per ora, tuttavia, è ancora solo un cattivo pensiero…

sultato di questa falsa considerazione è stato quello di creare una biasimabile e omogenea area di debiti in tutte le nazioni europee, nell’ordine del 100 per cento del benessere nazionale. Di media, ovviamente, passando dal 91 per cento tedesco al 133 greco: una differenza nei fatti relativamente modesta, ma che riflette un comune slancio verso il socialismo. Germania, Grecia, Spagna e Francia si differenziano molto poco nei loro livelli di debito o nelle modalità di amministrazione, che nei fatti sono anzi simili fra loro: la differenza è nelle loro capacità di ripagare i debiti. Tutti gli Stati socialisti sono governati in maniera socialista, in contraddizione con i principi di libero mercato che dominano l’Unione europea. Alcuni saranno in grado di trattare i problemi meglio degli altri, ma tutti sono sullo stesso binario. Come potremmo spiegare questa fatale deriva? La causa vera risiede nell’ideologia. Il socialismo domina le menti dell’Europa, mentre il liberalismo – che nel Vecchio continente ha mantenuto il suo significato originario di libero mercato – viene attaccato nelle università, sui giornali e dal mondo intellettuale. Negli Stati Uniti sostenere il mercato contro lo Stato, chiedere a questo di comportarsi in maniera modesta, è preso come una perversione “americana”. E l’ideologia socialista è talmente incastonata che è quasi impossibile, per i politici che non vogliano suicidarsi, vincere un’elezione senza promettere una “solidarietà statale” ancora maggiore e sempre meno rischi individuali. Questi Stati del welfare, tramite i costi finanziari e l’erosione delle responsabilità etiche che promuovono, hanno colpito la crescita economica europea. Siamo il continente del declino, che promuove la solidarietà.

Ora è arrivato il momento di pagare il conto della Grecia, e non sarà l’ultimo. Cosa deve essere fatto? Noi potremmo tranquillamente rifiutare di pagarlo: dopo tutto, perché chi paga le tasse in Francia o Germania deve perdere denaro per salvare coloro che, in Grecia, le tasse le hanno evase? Ma le finanze europee sono interconnesse in maniera profonda: in realtà, l’euro che sta in tasca a un greco giace nelle banche tedesche e francesi. Quindi, correre o meno in salvataggio della Grecia non cambierà nulla, dato che il fallimento dell’Europa sarà collettivo. Pensiamo di essere cittadini di nazioni indipendenti, ma siamo debitori, tutti, per tutto il continente. Se gli europei non sistemano il conto della Grecia, arriveranno in rapida successione quelli di Portogallo, Spagna e Italia. Fino a che la bancarotta di Atene non metterà in ginocchio il continente intero. Come possiamo evitare una tragedia simile? Possiamo prendere tempo, negare la realtà, suicidarci. Oppure possiamo dire la verità. A questo punto della storia, è difficile dire quale di questi scenari prevarrà sugli altri. Alle origini dell’Europa, Jean Monnet disse la verità; e gli statisti spiegarono questa verità alle varie popolazioni del continente. Oggi non c’è alcun bisogno di spiegare la crisi della Grecia, ma si deve far capire qual è il sentiero che porta ad essa. L’imperativo a lungo termine non è quello di assorbire il debito greco o spagnolo, ma mettere un freno alla strategia europea di declino. Considerato tutto, dovremmo ringraziare la Grecia: ci ha svegliato, per quanto in maniera brusca, dalla nostra siesta europea.


diario

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Revisioni. La Corte di Appello di Palermo riduce a sette anni la condanna per concorso esterno in associazione mafiosa

Dell’Utri, due anni di sconto

Il senatore: «Una sentenza pilatesca e comunque Mangano resta il mio eroe» di Franco Insardà

ROMA. Condannato per i rapporti con la mafia perdente dei Bontade e dei Badalamenti, assolto per la stagione stragistica del ’92. Dopo sei giorni di camera di consiglio la Corte d’Appello di Palermo ha ridotto a sette anni la condanna per concorso esterno in associazione mafiosa per il senatore Marcello Dell’Utri, al quale in primo grado erano stati inflitti nove anni di reclusione, mentre il Procuratore generale Antonino Gatto aveva chiesto una condanna a undici anni. La corte, riformando la sentenza di primo grado, ha assolto Dell’Utri per le condotte contestate come commesse in epoca successiva al 1992 perché “il fatto non sussiste”. A Milano, nel corso di una conferenza stampa, Dell’Utri ha dichiarato: «È una sentenza pilatesca che ha dato un contentino all’accusa di Palermo e dall’altra ha dato grande soddisfazione all’imputato perché ha escluso i fatti dal 1992 che erano un’accusa assurda e demenziale». Dell’Utri si è detto «soddisfatto», ma allo stesso tempo «stupito, perché il collegio non è riuscito a chiudere fino in fondo una vicenda che ha cambiato la mia vita. Sapevo - ha aggiunto che non ci sarebbe stata l’assoluzione, ma nel caso non avevo in mente di festeggiare, perché la pena io l’ho già scontata in questi 15 anni di processo».

I legali di Dell’Utri hanno annunciato il ricorso in Cassazione e non escludono che ci sia anche una prescrizione nella sentenza: «Questo è un problema che dobbiamo verificare perché la pena che si applicava per l’associazione mafiosa nel ’92 era tale che potrebbe anche rientrare nella prescrizione». E a proposito della Cassazione il senatore ha aggiunto: «La aspetto con animo fiducioso. Sono convinto che un giudice normale non possa che dire: che avete fatto finora? Avete perso 15 anni». Uno dei passaggi della conferenza stampa di Dell’Utri che hanno sollevato maggiori polemiche è stato quello relativo a Vittorio Mangano: «Lo ribadirò sempre. È stato il mio eroe. Forse io non avrei resistito a quello che ha resistito lui. Era una persona che era in carcere malata, invita-

ta più volte a parlare di Berlusconi e di me, ma si è sempre rifiutato. Poteva inventarsi qualunque cosa, ma si è rifiutato piuttosto che accusare ingiustamente». Per il finiano Fabio Granata, vicepresidente della commissione Antimafia, c’è «poco da festeggiare». Granata ha sottolineato che «nel rispetto pieno della presunzione d’innocenza fino alla Cassazione non ci sono piaciute le dichiarazioni del senatore Dell’Utri su Mangano. Quest’ultimo infatti non è certamente un eroe, ma un mafioso conclamato. A Palermo in quegli anni ben altri sono stati gli eroi, ad iniziare da Paolo Borsellino e da chi ha dato la vita per una Italia libera dalle mafie. Nel prendere atto della condanna - ha continuato Granata - ribadiamo fiducia nella magistratura e confidiamo che le inchieste riescano ad accertare la verità su esecutori e mandanti delle stragi che hanno insanguinato l’Italia». Ma l’esponente finiano del Pdl ha voluto precisare che «è scontato ribadire che chiunque viene condannato per mafia non può continuare a svolgere ruolo politico». Anche per gli studenti del Pdl di Azione universitaria «men-

tre il senatore Dell’Utri continua a definire un eroe il mafioso Vittorio Mangano, noi affermiamo con orgoglio che gli eroi dei giovani siciliani sono persone come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino».

E Mauro La Mantia, segretario regionale di Giovane Italia, il movimento giovanile del Pdl, ha aggiunto: «Oggi più che mai sentiamo l’esigenza di avviare una profonda rifles-

via definitiva per corruzione e mafia». Questa presa di posizione dei giovani siciliani del Pdl ha scatenato la reazione immediata di Francesco Pasquali, coordinatore nazionale di Giovane Italia: «Esprimo la piena vicinanza al senatore Marcello Dell’Utri, figura di indiscutibile spessore politico e culturale. Tuttavia, spiace constatare che anche all’interno di Giovane Italia, seppur a livello periferico, si insinui in

Per il finiano Granata «c’è poco da festeggiare». E sul fondatore di Publitalia si dividono i giovani del Pdl siciliano e il coordinatore nazionale sione all’interno del partito dopo questa condanna che, seppur ridotta e non definitiva, rimane gravissima soprattutto per un uomo impegnato in politica. Non ci uniremo al solito coro di solidarietà già tristemente visto negli anni scorsi per i politici condannati. Riteniamo che il Pdl debba accogliere la proposta del ministro Giorgia Meloni sulla introduzione nello statuto del Pdl di una norma che preveda il no alla ricandidatura vita natural durante e l’espulsione per chi è stato condannato in

qualcuno il virus del giustizialismo più scontato. I pareri che seguono questa linea, per quanto legittimi, sono e rimangono posizioni personali per nulla ascrivibili a Giovane Italia e motivate soltanto dalla smania di apparire, tanto infantile quanto demagogica. Buonsenso vorrebbe che chi li esprime si astenesse, nel farlo, dall’appropriarsi del nome del movimento giovanile. Demagogia e giustizialismo, infatti, non appartengono al dna del Pdl». Soddisfazione è stata espressa dai difensori del se-

natore del Pdl. Secondo l’avvocato Antonino Mormino con questa sentenza i giudici «riconoscono che non c’è collusione tra la politica e la mafia, perché Dell’Utri è stato assolto per i reati commessi eventualmente dopo il 1992. Con questa sentenza è stata messa una pietra tombale sulla trattativa Stato-mafia». Secondo l’avvocato Mormino «rimane un processo di responsabilità comune e non politica». Proprio su questo aspetto i più autorevoli esponenti del Pdl hanno sottolineato come sia stato smontato un teorema. Per il vicecapogruppo al Senato, Gaetano Quagliariello va «rifiutata l’ipotesi di riscrivere la storia del Paese sotto forma di “romanzo criminale”». Fabrizio Cicchitto, capogruppo alla Camera del Pdl, punta l’indice contro il Procuratore generale di Palermo: «Questa sentenza smonta le tesi di Spatuzza sulla partecipazione di Dell’Utri alla trattativa e delude il procuratore generale Gatto che aveva puntato su un uso politico della giustizia sia per ciò che riguardava il passato, sia per ciò che riguarda il presente». Sulla stessa linea il commento di Maurizio Lupi. vicepresidente Pdl della Camera, secondo il quale «Sono garantista e quindi aspetto la sentenza della Cassazione che, sono certo, smonterà anche l’ultimo teorema di questa assurda vicenda. Di certo c’è che la Corte d’Appello ha spazzato via la teoria secondo cui Forza Italia sarebbe nata per assecondare la mafia».

Diversa, ovviamente, la posizione dell’opposizione, con i prevedibili eccessi dipietristi. Per Giuseppe Lumia del Pd, componente della commissione Antimafia, Dell’Utri è stato «condannato anche in secondo grado su fatti pesantissimi. Il suo partito e la politica tutta ne devono prendere atto e trarne le debite conseguenze. Sono sempre stato convinto che, al di là del giudizio penale, anche di fronte ad una assoluzione vi erano tutti gli elementi per espellerlodalla politica e dalle istituzioni. La vicenda delle stragi ’92/’93 rimane aperta, non solo per il giudizio penale, ma per le istituzioni perché si faccia piena luce e si accertino tutte le responsabilità, comprese quelle politiche».


diario

30 giugno 2010 • pagina 7

Processo lampo per l’uomo che aggredì il premier a Milano

È morto nella notte per le lesioni dovute all’incidente col paracadute

Subito assolto Tartaglia «Incapace di intendere»

Taricone non ce la fa. Addio al “guerriero”

MILANO. È iniziato e si è subito

ROMA. Alla fine non ce l’ha fatta ed è morto nella notte Pietro Taricone, l’attore divenuto famoso con la sua partecipazione alla prima edizione del Grande Fratello, rimasto vittima due giorni fa di un incidente con il paracadute all’aviosuperficie di Terni. Taricone era stato trasportato all’ospedale Santa Maria di Terni in gravissime condizioni ed era stato sottoposto a un lunghissimo intervento chirurgico, di oltre nove ore, per bloccare un’emorragia interna. «Il suo stato già gravissimo - ha spiegato all’agenzia di stampa AdnKronos, il direttore sanitario dell’ospedale Santa Maria di Terni, Leonardo Bartolucci - è progredito nei minuti immediatamente successivi

chiuso a Milano il processo, con rito abbreviato, a Massimo Tartaglia, il perito elettrotecnico che lo scorso 13 dicembre ferì al volto Silvio Berlusconi lanciandogli un pesante souvenir del Duomo meneghino. Essendo Tartaglia affetto da disturbi mentali, il procedimento si fondava sugli esiti della perizia disposta dal Gup Luisa Savoia. Il pm Armando Spataro, in aula, ha chiesto subito al Gup l’assoluzione e un anno di ricovero presso la stessa comunità terapeutica in cui attualmente l’imputato si trova agli arresti domiciliari. Poi la decisione del Gup, che ha stabilito che l’uomo della statuina contro il Cavaliere non è imputabile e ha disposto come misura di sicurezza che resti in libertà vigilata per un anno nella comunità di recupero dove si trova da mesi, agli arresti domiciliari. Tartaglia dovrà conformarsi alle indicazioni del direttore della comunità, potrà ottenere dei permessi per andare a visitare alla famiglia ma non potrà partecipare a manifestazioni pubbliche come quella del dicembre scorso in cui aggredì Berlusconi.

Soddisfazione è stata manifestata dai difensori di Tartaglia, gli avvocati Daniela Insalaco e Gian Marco Rubino, i quali hanno sostenuto di aver detto fin dall’inizio che il loro assistito andava curato. Al contrario, il rutilante portavoce del Pdl ha commentato: «Con tutto il rispetto per le valutazioni giuridiche,Tartaglia, nel dicembre scorso, è giunto a un passo dall’omicidio di Silvio Berlusconi. Oggi tutto finisce così. Non è un po’ poco?».

Un anno dopo, l’abbraccio a Viareggio E Napolitano dà la cittadinanza a Ibtissam Ayad di Alessandro D’Amato

ROMA. «Le drammatiche immagini di quel disastro rimangono impresse nella memoria dell’intero Paese, che ha partecipato con profonda commozione al dolore delle famiglie così duramente colpite». Con il messaggio che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, a un anno dal tragico incidente nella stazione ferroviaria di Viareggio, ha inviato al sindaco della cittadina toscana Luca Lunardini, il capo dello Stato ha rivolto il «suo commosso pensiero alle 32 vittime e a quanti sono stati segnati da quella terribile esplosione, e alla giovane Ibtissam Ayad, unica superstite della sua famiglia che, con il giuramento di oggi, acquisisce la cittadinanza italiana, concessa quale concreta manifestazione di solidarietà della Nazione».

È passato un anno da quella che rimarrà alla storia come la strage di Viareggio: il 29 giugno del 2009 un treno carico di gpl deragliò alla stazione della città; il gas contenuto in una cisterna fuoriuscì esplodendo e provocando 32 vittime. Il messaggio di Napolitano, letto dal sindaco ad inizio cerimonia, rende solenne un evento che oggi vuol dire speranza e rinascita: «Si avvera il sogno di mio padre che amava Viareggio. Questa cittadinanza è stata data a me, ma è come se l’avesse ricevuta tutta la mia famiglia», dice Ibtissam Ayad, che nella sede del Comune, ha giurato sulla Costituzione, ricevendo la cittadinanza italiana. «Spero che nel futuro la mia vita possa tornare ad essere serena», dice Ibi. Durante la cerimonia, il sindaco di Viareggio, Luca Lunardini, ha parlato di «momento di speranza comune. Ibi - ha continuato - è sempre stata una nostra concittadina nel cuore, oggi lo diventa davanti alla legge. Il dolore e il lutto che ha passato sono anche quelli di Viareggio». Non a caso, la cittadinanza ha fatto sapere che il responsabile delle infrastrutture, Altero Matteoli, sarebbe stato un ospite non gradito, e il ministro ha rinunciato a presenziare alla commemorazione. Veto anche per i

rappresentanti delle FS. «È una cerimonia che vuole essere intima, sobria, di riflessione. Così hanno chiesto i famigliari delle vittime», ha detto Lunardini. «Con Moretti ci siamo sentiti al telefono e ne abbiamo parlato a lungo - ha spiegato -. Matteoli si è dimostrato sensibilissimo. I famigliari avevano chiesto una cerimonia in cui le istituzioni ascoltassero il loro dolore. Io stesso, più che come primo cittadino, parlerò sintetizzando il pensiero e l’umore della città». Alla preghiera delle 20 allo Stadio dei Pini, presenti il segretario alla presidenza della Camera Renzo Lusetti, gli amministratori lucchesi e il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi. Il sindaco ha anche decretato il lutto cittadino: molti esercizi commerciali e stabilimenti balneari hanno esposto bandiere a lutto o a mezz’asta.

L’attivismo dei comitati si è dispiegato più sul piano istituzionale. A Viareggio è stata riconosciuta in tempi relativamente brevi una legge speciale, che ha stanziato già 10 milioni di euro per i risarcimenti. Così come associazioni, comitati, singoli cittadini rivendicano il fatto di «essere stati col fiato sul collo» della Procura di Lucca, del Parlamento e, naturalmente, di Trenitalia. La relazione stilata da Rete Ferroviaria Italiana, esattamente all’indomani della tragedia, con cui Trenitalia rimetteva ogni responsabilità alle società proprietarie del carro e delle cisterne, «sembra acqua passata», secondo l’associazione Il mondo che vorrei. Gli indagati infatti sono saliti a 25 e tra questi potrebbe esserci lo stesso Moretti, che ha detto di «aspettare serenamente un avviso di garanzia». Quanto al processo, i legali dei familiari delle vittime ritengono che «sarà una cosa molto lunga, complice il balletto di responsabilità tra le nove società coinvolte». Per il momento, questi dodici mesi si fermano alle 23:48 di ieri, ad un anno dal deragliamento e alle 23:54, quando è passato un anno dalla prima deflagrazione di Gpl: un lutto che rimarrà nel cuore di Viareggio per sempre.

Una sobria cerimonia in ricordo delle 32 vittime. Assente, su richieste delle famiglie, il ministro Matteoli

alla fine dell’intervento e, nonostante le manovre di rianimazione in sala di rianimazione, non ce l’ha fatta». Intanto, l’autorità giudiziaria di Terni ha dato il nulla osta per la restituzione ai famigliari del corpo. Sulla salma non è stata disposta l’autopsia. Già due giorni fa sono state ascoltate persone che erano sul posto al momento dell’incidente, che potrebbe essere stato causato, secondo le prime ricostruzioni, da una manovra errata.

Tra le ipotesi al vaglio degli inquirenti, quella secondo la quale Taricone avrebbe effettuato con il paracadute una virata in volo a quota troppo bassa. Di recente stava effettuando un corso vele per paracadutisti sulla sicurezza, di livello intermedio. A riferirlo è un suo amico paracadutista, Riccardo Paganelli. «L’esercizio consisteva nel fare l’ultima virata a 100 metri da terra e atterrare eseguendo il flare, la frenata finale che porta ad atterrare in piedi; non abbiamo capito perché anziché girare a 100 metri ha virato a 20-30 metri da terra».Taricone, frequentatore abituale dell’aviosupeficie di Terni, si è lanciato con un gruppo di 8 persone, tra cui anche la sua compagna, Kasia Smutniak.


società

pagina 8 • 30 giugno 2010

Speranze. Il Papa continua la sua politica di ritorno al Vangelo, alla ricerca delle radici comuni

Sfida all’Occidente La nuova lotta all’ateismo scientista secondo il filosofo Vittorio Possenti di Gabriella Mecucci

ROMA. Benedetto XVI ha dato l’annuncio ufficiale: verrà creato un nuovo dicastero per la «rievangelizzazione dell’Occidente», dove – parole del Papa – è in atto «un’eclisse del senso di Dio». Di questa decisione, delle ragioni che l’hanno provocata abbiamo parlato col filosofo cattolico Vittorio Possenti. Professore, è d’accordo con l’espressione drammatica usata dal Papa? Perché è diventato così difficile il rapporto fra Occidente e religione? Penso anch’io che noi stiamo entrando,anzi siamo già entrati in una fase nuova della storia dell’Occidente. A venti anni dal crollo del comunismo, che pure aveva ingenerato grandi e sincere speranze, la situazione è ritornata molto difficile. I segnali di una ripresa della ricerca spirituale, che pure ci furono, si sono dimostrati molto labili e ora siamo tornati al punto di partenza. O peggio. Che cosa è successo? Perché la sconfitta del comunismo, non ha consentito una ripresa religiosa in Occidente? Il crollo del comunismo ha segnato la fine di un’ideologia che sperava in una rivoluzione radicale attraverso la politica. A questa convinzione se n’è sostituita un’altra: il rivolgimento profondo della vita umana avverrà – questa l’illusione presente – attraverso la scienza. Il comunismo era espressamente ateo, questa nuova posizione non lo è. Dà luogo però ad un fenomeno che chiamerei di “irreligione”. Si tratta di qualcosa di diverso e di più dell’oblio di Dio o del piatto ateismo, è una lotta attiva affinché il problema di Dio scompaia. Dio in questa visione diventa inutile, superfluo. E viene vissuta come profondamente sbagliata, «una cosa storta», l’avvertire la mancanza di Dio come mancanza, come perdita. In questo senso le parole di Benedetto XVI sull’«eclisse del senso di Dio nella storia dell’Occidente» e – direi – nella storia universale sono del tutto condivisibili. La Chiesa deve avere una percezione altamente drammatica della novità, se addirittura modifica la propria struttura istituzionale per affrontarla. No, non mi sembra che siamo di fronte ad una modificazione così profonda dell’atteggiamento della Chiesa. Ci sono dei precisi antefatti che la collocano questa decisione

in continuità con altri atti. I segni di questa consapevolezza erano già presenti nel Concilio Vaticano secondo e nell’Evangelii nuntiandi di Paolo VI, che – come dice il titolo stesso – annuncia una nuova evangelizzazione. Non siamo di fronte quindi ad un rivolgimento. Si tratta di una progressiva presa di coscienza su cui può aver influito – come dicevo prima – la constatazione che il crollo del comunismo non ha portato ad un periodo di nuova vita spiritualità, ma ha riportato alla ribalta un diverso tipo di ateismo. Sulla decisione ha poi sicuramente pesato l’acuta sensibilità di questo Papa verso tali problemi. Non parlerei però di una svolta drammatica. Professore, può aver pesato su questa decisione il momento di crisi interna che la Chiesa cattolica sta vivendo? Vicende come quella dei preti pedofili? Il Papa ha usato una frase fortissima quando ha affermato: «Il male è nella Chiesa». Non è questa una constatazione nuova. Lo sappiamo da sempre che il male è dappertutto e quindi anche dentro la Chiesa. Già i Padri della Chiesa dicevano: Ecclesia semper reformanda. Certo le attuali difficoltà sono una cosa molto seria e possono aver anche influenzato in qualche misura la decisione papale. Ma la ragione vera non è questa. Sta, lo ripeto, nella nuova forma di ateismo che ha preso il posto di quello di stampo comunista. E ha radici ancora più profonde nel Vaticano II e nelle elaborazioni dei predecessori di Benedetto XVI. In quella volontà di riaprire un dialogo fra Chiesa e mondo senza venir meno all’impegno di annunciare il Vangelo. Ripartire dal Vangelo: questo è il significato delle parole e degli atti del Papa. Il Cristianesimo, attraverso la figura del verbo incarnato, è portatore di una speranza che è affidata ai “fragili vasi” che noi siamo. È nelle mani di noi credenti, che siamo pieni di difetti e di limiti, ma che non possiamo disertare l’impegno dell’evangelizzazione. Lei vede, dopo la sconfitta del comunismo, nello scientismo la nuova minaccia. Ma la scienza non è contro la religione.. Certo. Ne abbiamo una prova palpabile nel fatto che i fondatori della scienza moderna, da Copernico a Galilei, da Cartesio a Leibnitz, erano tutti credenti ed esercitava-

Credo che il tema della vita sia centrale, sebbene non sia l’unico. Resta fondamentale la ricerca di verità e di senso


società no la loro ricerca come atto di omaggio alla verità divina. E del resto il compito della scienza è la ricerca della verità, senza presumere che la scienza possa conoscere l’integralità del vero. Quando parlo di scientismo intendo un atteggiamento preciso, nato circa un secolo e mezzo fa e che ha avuto come alfiere August Comte. Si riferisce al positivismo... Esattamente. Già Comte aveva affermato con grande precisione il primo dogma dello scientismo contemporaneo. E cioè che solo la scienza può conoscere, mentre non servono a questo scopo né la filosofia né la teologia. Se posso dunque esprimere un auspicio sul lavoro che il nuovo dicastero dovrà svolgere, è che si punti con grande forza e coraggio sulle questioni della verità e del senso. Su questo piano occorre riprendere in mano il problema della conoscenza scientifica che non può presumere di esaurire la ricerca della verità. Non sarebbe male che il nuovo dicastero possa avvalersi anche di intelligenti polemisti, in grado di mettere bene a fuoco tutte le insufficienze della scienza. Sarà infine indispensabile tornare al metodo di San Paolo. In che senso? Non certamente nel senso che siamo di fronte ad una prima evangelizzazione come fece San Paolo. Il nuovo dicastero si troverà ad operare in un Occidente di antica cristianizzazione e di nuova scristianizzazione. Nonostante la realtà sia molto diversa, il metodo di San Paolo sarà di grande utilità. L’evangelizzatore per eccellenza si muoveva su due livelli: il primo riguardava la sfera civile, i contatti con i governatori, proconsoli, filosofi, basti pensare al suo rapporto con Seneca. Toccava insomma la parte “alta”, colta della società. C’era però anche un secondo livello, certo non meno importante: quello che prevedeva di rivolgersi a tutte le comunità cristiane disseminate sul territorio in modo che potessero prendere vita e fortificarsi i “focolari” del cristianesimo. Spero che il nuovo dicastero si muova lungo queste due direttrici. Perché c’è molto da fare per evangelizzare la cultura, ma ci sono anche tante piccole comunità che faticano a sopravvivere e a crescere in un Occidente così fortemente secolarizzato, che tende a scoraggiare la testimonianza cristiana. Professore, sui temi della vita, del concepimento, della nascita e della morte, la chiesa spesso sembra trovarsi dalla parte opposta rispetto al senso comune delle nostre società... Credo che il tema della vita sia centrale, sebbene non sia l’unico. Credo che sia giusto continuare a mettere bene in luce che non siamo i padroni della vita altrui. E che quindi le questioni dell’embrione, dell’aborto, della nascita sono centrali. È lì infatti che l’uomo e la donna si prestano a diventare dono l’uno per l’altro e non titolari di un diritto di vita o di morte sull’altro. Ma – come dicevo – non è solo questo il tema centrale. Mi dica gli altri... Mi scusi se mi ripeto, ma io metto avanti a tutto, come filosofo e come uomo, la verità e il senso perché queste due questioni coinvolgono tutte le altre. Se esiste la possibilità di raggiungere la verità, questa non può essere demandata esclusivamente alla scienza. L’uomo deve arrivare con la sua ragione, con la sua fede a comprendere il senso e il compito dell’esistenza. Aldilà della vita, c’è il senso della vita. Noi ci interroghiamo su dove andiamo e da dove veniamo. Se non riusciamo a risponderci, nasce in noi un sentimento di disperazione. Finiamo col disprezzare noi stessi. Evoluzionismo e scientismo, branditi ciecamente, possono quindi provocare gravi danni. Peggio: possono diventare un pericolo.

30 giugno 2010 • pagina 9

Clamorosa presa di posizione nell’omelia di San Pietro e Paolo

«Il male è nella Chiesa» L’autocritica di Ratzinger «Il vero pericolo non arriva dalle persecuzioni esterne»: il Papa rovescia la strategia vaticana di Gualtiero Lami

CITTÀ DEL VATICANO. Benedetto XVI prosegue la sua durissima battaglia per il rinnovamento della Chiesa. Ieri, infatti, ha spiegato che «Il pericolo più grave per la Chiesa oggi non viene dalle persecuzioni esterne ma dal male che la inquina dall’interno». È quanto ha affermato il Pontefice, non citando direttamente lo scandalo della pedofilia, durante l’omelia della messa celebrata nella basilica vaticana nella solennità dei santi Pietro e Paolo. Secondo il Papa, «il fatto che, ogni anno, i nuovi Metropoliti vengano a Roma a ricevere il Pallio dalle mani del Papa va compreso nel suo significato proprio, come gesto di comunione, e il tema della libertà della Chiesa ce ne offre una chiave di lettura particolarmente importante». «Questo - ha proseguito - appare evidente nel caso di Chiese segnate da persecuzioni, oppure sottoposte a ingerenze politiche o ad altre dure prove. Ma ciò non è meno rilevante nel caso di Comunità che patiscono l’influenza di dottrine fuorvianti, o di tendenze ideologiche e pratiche contrarie al Vangelo». Il Pallio dunque diventa, in questo senso, «un pegno di libertà, analogamente al giogo di Gesù, che Egli invita a prendere, ciascuno sulle proprie spalle». Secondo Ratzinger, «come il comandamento di Cristo - pur esigente - è “dolce e leggero” e, invece di pesare su chi lo porta, lo solleva, così il vincolo con la Sede Apostolica - pur impegnativo - sostiene il Pastore e la porzione di Chiesa affidata alle sue cure, rendendoli più liberi e più forti». Ma le innovazioni non finiscono qui. Lunedì scorso, il Papa aveva annunciato una vera e propria rivoluzione nell’organizzazione della Chiesa: l’istituzione di «un nuovo Organismo» della Curia romana, «nella forma di Pontificio Consiglio», con «il compito precipuo di promuovere una rinnovata evangelizzazione nei Paesi dove è già risuonato il primo annuncio della fede e sono presenti Chiese di antica fondazione, ma che stanno vivendo una progressiva secolarizzazione della società e una sorta di “eclissi del senso di Dio”». Con queste parole, Benedetto XVI nel corso dell’omelia pronunciata durante i Primi Vespri della solennità dei santi apostoli Pietro e Paolo aveva motivato la sua decisione. In pratica, il Pontefice ha accettato la sfida della secolarizzazione della cultura occidentale e ha deciso di rispondere con uno strumento nuovo: un Consiglio per la «evangelizzazione» dell’Occidente. Nel corso della cerimonia, il Papa aveva svolto una riflessione sulla «vocazione missionaria della Chiesa» e sulla sua «tensione all’universalità», una tensione ben rappresentata nei tempi recenti - prima da Paolo VI e poi da Giovanni Paolo II. Ebbene, proprio «raccogliendo questa eredità - aveva con-

tinuato il Papa -, ho potuto affermare, all’inizio del mio ministero petrino, che la Chiesa è giovane, aperta al futuro».

E ha continuato il Papa: «Lo ripeto oggi: la Chiesa è nel mondo un’immensa forza rinnovatrice. Le sfide dell’epoca attuale sono certamente al di sopra delle capacità umane: lo sono le sfide storiche e sociali, e a maggior ragione quelle spirituali e a volte sembra a noi Pastori della Chiesa di rivivere l’esperienza degli Apostoli, quando migliaia di persone bisognose seguivano Gesù, ed Egli domandava: che cosa possiamo fare per tutta questa gente? Essi allora sperimentavano la loro impotenza. Ma proprio Gesù aveva dimostrato loro che con la fede in Dio nulla è impossibile. Ma non c’era - e non c’è - solo la fame di cibo materiale: c’è una fame più profonda, che solo Dio può

Intanto si fa il nome di monsignor Fisichella come responsabile del Dicastero per i «Paesi dove è già risuonato il primo annuncio della fede» saziare. Anche l’uomo del terzo millennio desidera una vita autentica e piena, ha bisogno di verità, di libertà profonda, di amore gratuito. Anche nei deserti del mondo secolarizzato, l’anima dell’uomo ha sete di Dio, del Dio vivente, sia dove il Vangelo non è ancora giunto, sia dove ha messo da lungo tempo radici, dando luogo ad una vera tradizione cristiana, ma dove negli ultimi secoli - con dinamiche complesse - il processo di secolarizzazione ha prodotto una grave crisi del senso della fede cristiana e dell’appartenenza alla Chiesa». In pratica si tratta di temi teologici sovente affrontati da monsignor Rino Fisichella e forse proprio per questo si parla proprio di lui come del futuro responsabile di questo nuovo organismo.


pagina 10 • 30 giugno 2010

panorama

ragioni&torti di Giancristiano Desiderio

Povera Italia, innamorata del cemento Italia è il paese dei limoni e dei palazzi, della natura e della storia: il giardino d’Europa. L’Italia è la nazione con la più alta - altissima - concentrazione di “beni culturali”. L’Italia è l’Italia. Infatti, è il paese dei condoni, dei piani regolatori, degli assessorati ai lavori pubblici, del più alto tasso d’abusivismo europeo, è il paese dove ci sono più di tredicimila “stazioni appaltanti” (come rilevava Sergio Rizzo sul Corriere della Sera) che sono quei soggetti che hanno il potere di bandire gare per opere pubbliche (che sono nella maggioranza dei casi opere private). L’Italia è il Paese del cemento. Agli italiani piace il cemento (deve essere chiaro, infatti, che “il partito del cemento”è trasversale non solo agli schieramenti politici, ma alla stessa nazione e i primi amanti della cementificazione ovunque sia possibile e impossibile sono proprio loro: gli abitanti del Belpaese). L’Italia è il Paese della colata.

L’

Io scrivo da una regione - la Campania - nella quale negli ultimi dieci anni sono state realizzate sessantamila case abusive, alla media di seimila ogni anno e sedici al giorno. Gli abitanti di Ischia - isola bella ma con un rischio sismico elevatissimo - sono sessantamila, ma i vani abusivi sono oltre centoventimila. Il 67 per cento dei Comuni sciolti per infiltrazione mafiosa, dal 1991 ad oggi, ha tra le motivazioni proprio l’abusivismo edilizio. Solo negli uffici del comune di Napoli giacciono ancora inevase settantamila richieste di adesione al condono del 1985. A queste vanno aggiunte quelle dei due condoni successivi. Saranno mai esaminate? Scusate, faccio un po’ il qualunquista: una canzone degli anni Settanta di Celentano s’intitolava L’albero di trenta piani. Una strofa diceva «il cemento ti chiude anche il naso». Il problema non è il qualunquismo, ma il fatto che l’Italia sia comprensibile anche attraverso teorie qualunquiste.Viaggiare da Caserta a Napoli significa viaggiare nell’abusivismo legalizzato: non vani, casette, villette, ma quartieri, paesi, paesoni, milioni di abitanti. Il partito nazionale del cemento e della spesa pubblica ha modificato il paesaggio naturale e antropico del Belpaese. Il maggior danno fatto dalla Democrazia cristiana disse una volta Vittorio Sgarbi - è stato quello della speculazione edilizia. Ma è un giudizio ingiusto. Non è un danno fatto solo dai democristiani. È agli italiani che piace da impazzire il cemento. Il 20 per cento del patrimonio edilizio è fatto di seconde e terze case tirate su a spese della natura per restare vuote dieci-undici mesi l’anno.

I giornalisti Andrea Garibaldi, Antonio Massari, Marco Preve, Giuseppe Salvaggiulo, Ferruccio Sansa hanno scritto il libro La colata, edito da Chiarelettere. Si mostra con dati, cifre, storie, politiche, leggi come tutta l’Italia stia per essere cancellata dal cemento che «ti chiude anche il naso». Per salvare il Belpaese basterebbe questa osservazione: L’Italia non è stata costruito con il cemento e il cemento non è l’unico materiale da costruzione.

Renzi, il berluschino che indispettisce il Pd Malumori nel partito a Firenze per il via alla “cittadella viola” di Matteo Orsucci

ROMA. «O vinco o me ne vado a casa fischiettando». Lo ha detto Matteo Renzi nel 2009 quando, scaduto il mandato alla Provincia di Firenze, il Partito democratico gli chiese di ricandidarsi per la stessa carica e lui, per tutta risposta, disse che avrebbe voluto correre alle primarie del Pd per Palazzo Vecchio. O vinco o me ne vado fischiettando appunto. Il problema di questa storia nemmeno troppo sottosopra non è Matteo Renzi in sé bensì il Partito democratico che non esistendo mica può capirci qualcosa: lo hanno visto con la faccia un po’ così, sorniona e sbruffona, se lo sono già immaginati mani in tasca al completo gessato a fischiettare fuori dalla sezione, girare i tacchi e andarsene stracciato dalle consultazioni popolari, e invece ora se lo ritrovano a Ballarò con un Giovanni Floris assai generoso, ad Annozero con un conduttore che lo tiene in giusta considerazione fra Tremonti, tagli ed enti locali spremuti; se lo sono visti sulla stampa nazionale tra paginate e titoloni a sei, sette, otto, nove colonne, tra lo sconcerto di Dario Franceschini al quale Renzi, dopo la nomina a segretario nazionale, aveva appioppato l’epiteto di «vicedisastro». Lo stile tranchant, la lingua usata come un coltellino svizzero – anni di scoutismo sono serviti a qualcosa – e infine la carriera politica nelle file di un’ala moderata della sinistra fiorentina che alla fine ora si ritrova a governare la città dei guelfi e dei ghibellini.

a Firenze ma guarda altrove, ha chiamato una giovane promessa democratica come Giuliano da Empoli a fargli da assessore alla Cultura – girava una battuta splendida negli ambienti serpentini del Pd, che ovviamente il Pdl non ha ancora capito: «Ma per fa’ un assessore bisognava prende proprio da Empoli?» – e proprio il direttore editoriale di Marsilio ha voluto rilanciare l’idea di alto profilo per questa città: «Farò una notte bianca come a Parigi».

Renzi nello specifico ha poi incardinato una campagna elettorale contro Giovanni Galli, ex azzurro campione del mondo, parlando di espansione dell’aeroporto di Peretola, ma anche della cittadella Viola e delle magnifiche sorti e progressive della squadra gigliata… Un progetto che prevede metri cubi di cemento ovvero un discreto volume di affari, nulla di illegale intendiamoci, ma Renzi sa chi costruisce meglio degli altri. L’ala ex margheritina del suo partito non gli ha mai contestato nulla apertamente, eppure alle spalle si lamenta e non poco per certe decisioni borderline come questa, utili a essere compiacente con i più. Certo Renzi non ha in giunta una rappresentante dell’Italia dei valori in quota Pancho Pardi, come è capitato invece al neogovernatore Enrico Rossi, e questo senz’altro gli semplifica la vita. Firenze cresce, l’accordo per l’aeroporto di Peretola è stato trovato, la cittadella viola farà felici migliaia di tifosi, Della Valle in primis. I costruttori a pari merito. Renzi è quello scout di provincia cresciuto in sezione che ora amministra un volume di fuoco niente male, che dice che il libro di Veltroni è una boiata pazzesca e che resta sotto i quarant’anni con la faccia da ragazzino, che ha giocato alla Ruota della Fortuna e ha vinto, non si vergogna dell’accento, sfoggia una “fufata”, ovvero il ciuffo, molto anni Ottanta con non mesta tranquillità… Funziona così: piace al centrodestra addirittura perché tanto pure gli imprenditori che votano Pdl e Lega a livello nazionale sanno che in loco solo lui può garantire qualcosa. È ipertecnologico, ha due blackberry, non partecipa alle assemblee plenarie del Pd perché dice «devo lavorare», vince le elezioni su Facebook e Twitter, simpatico quando c’è da esserlo, un Berlusconi giovane fuori tempo massimo… Questo è Renzi punto e basta. E per la sinistra di Roma è un problema.

L’ala ex Margherita boccia il nuovo progetto urbanistico. E a Roma aumentano le perplessità per l’eccessivo protagonismo in tv

O più semplicemente si ritrova a governare la città dell’università e degli americani sbronzi in Piazza della Signoria, dacché resterà celebre l’ordinanza contro l’alcol figlia di questa amministrazione: in sostanza se ti beccano a fare un pic-nic in un parco pubblico sei, come si dice a Firenze, «del gatto», cioè te la vedi brutta. Eppoi cosa d’altro? Be’, Renzi è stato il colpo d’ala della dea bendata. Quando Corriere della Sera e Stampa davano la prima pagina alla tramvia, ai fiorentini sul piede di guerra, al farlo-non-farlo ’sto benedetto trenino, è arrivato lui, l’homo novus, il Kennedy di provincia che ha rotto con l’amministrazione precedente e ha pedonalizzato la piazza antistante il Battistero, impedendo così l’installazione delle rotaie. Facendo contenti molti, scontenti alcuni, fregandosene comunque, lui, del parere di questi ultimi. Renzi è uno fatto così. Ascolta, elabora, sa di essere


panorama

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Da Milito a Samuel, da Giulio Cesar a Juan: abbiamo ancora parecchi nuovi “italiani” per i quali tifare in Sudafrica

Resta in campo l’Italia globale La nostra nazionale è uscita dai Mondiali, ma molti “nostri” campioni sono ancora lì di Paola Binetti vero, la Nazionale è tornata a casa a testa bassa, fortunatamente senza fischi all’aeroporto, ignorata dai tifosi, un po’ alla spicciolata, come quei viaggiatori che vogliono passare inosservati, per poter scivolare veloci tra i diversi punti di controllo.Tutta l’aggressività si è scatenata sulle piazze virtuali del web, con accuse di ogni tipo e con un accanimento francamente eccessivo, perché volto a distruggere non solo la squadra ma ognuno dei suoi componenti, senza risparmiare nessuno. Dovrà passare molta acqua sotto i ponti prima che i tifosi italiani dimentichino l’insuccesso della Nazionale e perdonino quegli stessi giocatori che in altri momenti hanno esaltato. Sic transit gloria mundi, soprattutto quando l’errore individuale diventa colpa collettiva e una certa crudeltà da parte dell’opinione pubblica, sembra precludere una nuova possibilità di riscatto.

È

Ma in tempi di globalizzazione le cose non finiscono certo qui e la lezione che viene dal Sudafrica è molto più ricca e densa di valori e di prospettive e tutto sommato è più gratificante e rassicurante di quanto non sia sembrato in un primo momento. Il calcio italiano non si riduce alle performance della Nazionale: include tutte le squadre che giocano nel nostro campionato e include tutti i giocatori che giocano nelle nostre squadre. Quando la Roma, l’Inter, o la Juve entrano in campo tutti i giocatori sono italiani, o meglio ancora sono romani o milanesi o torinesi… appartengono alla squadra che li ha scelti e ai tifosi di quella squadra, che considerano ognuno di loro un alleato prezioso per la vittoria. Comportarsi diversamente sarebbe una sciocca ed ingiusta discriminazione, a volte perfino dal sapore sgradevolmente razzista. Sono i giocatori delle nostre squadre e per questo sono giocatori italiani, godono dei nostri diritti di cittadini italiani e hanno i nostri stessi doveri. In altri termini i giocatori italiani presenti in Sudafrica non sono solo quelli che nati in Italia rivendicano il diritto a giocare in Nazionale. Sono italiani tutti gli 80 giocatori partiti per il Sudafrica che quest’inverno hanno disputato il nostro campionato giocando nelle diverse squadre della serie A. Li conosciamo tutti per nome e li riconosciamo mentre corrono per il campo, ci aiuta leggere il loro nome sulle magliette multicolori, e gridiamo i loro nomi facendo il tifo per loro, più ancora che per la squadra in cui giocano in questi giorni. Degli ottanta calciatori partiti dall’Italia per il Sudafrica solo un terzo erano italiani, mentre almeno due terzi provenivano da tanti altri Paesi, dall’Argentina al Brasile, dalla Serbia alla Slovacchia e perfino dal Ghana. Il calcio italiano è un calcio globale a cui concorrono esperienze di tutti i continenti e proprio per questo è un calcio meravi-

glioso, non solo per le tecniche di gioco, ma per la grande capacità di mescolanza di culture e di stili, di lingue e di valori. Non è solo tolleranza nei confronti della diversità, è apprezzamento pieno e convinto proprio della diversità che si rivela ricca di talenti e di capacità con cui ci misuriamo giorno per giorno, sul campo e nella vita ordinaria. Sono a tutti gli effetti giocatori italiani, non solo perché giocano in Italia, perché sono allenati dai nostri allenatori, ma perché vivono in Italia, spesso da molti anni, respirano le nostre atmosfere, soffrono e godono delle stesse cose che fanno soffrire anche i loro compagni di squadra, spesso coetanei. Parlano un italiano forse un po’ buffo, ma sono sempre perfettamente capaci di farsi capire e di comunicare con i loro tifosi. Ogni domenica incontrano i tifosi italiani, che li amano e li criticano, li applaudono e li fischia-

In fondo, questi campionati di calcio stanno lì a dimostrare come la globalizzazione possa essere un forte strumento di conoscenza e di sviluppo per tutti i paesi no, senza far differenze tra italiani e non italiani, ma distinguendo ferocemente tra chi ha giocato bene e chi no, tra chi ha segnato e chi invece ha sprecato occasioni. I bambini italiani portano le loro magliette, ne fanno i loro idoli, senza mai chiedersi chi è italiano e chi no.

Molti di loro oggi sono ancora in Sudafrica a lottare per le squadra del loro Paese, quello in cui sono nati, ma non quello in cui attualmente giocano e in cui torneranno a giocare alla fine dei mondiali. È come se ognuno di loro avesse una doppia cittadinanza, sono contemporaneamente italiani e argentini, italiani e brasiliani, italiani e ghanesi… Ma oggi a noi piace pensare che sono soprattutto italiani, che sono i nostri giocatori prestati ad un mondiale che ci ha fatto soffrire molto, ma che loro possono ancora riscattare per noi. Quando Milito e Samuel sognano di fare dell’Argentina la squaA sinistra Sneijder a destra dall’alto Amsik, Juan, Burdisso, Isla e Julio Cesar, sono tutti giocatori che miliano in Italia e si sono fatti valere anche in Sudafrica con le rispettive nazionali

dra campione del mondo, sanno perfettamente che al loro ritorno in Italia troveranno ad accoglierli le grida festose dei loro tifosi italiani, che si riconosceranno in loro come nei campioni del mondo. E la stessa cosa accadrà se dovesse vincere il Brasile: Giulio Cesar –non saprei immaginare un nome più romano di questo!- sa bene che sarà accolto da campione, come se fosse italiano a tutti gli effetti. Qualche speranza in meno hanno Stankovic e Amsik, perché né la Serbia né la Slovacchia hanno molte possibilità di arrivare in finale. Ma finché saranno in campo dall’Italia facciamo il tifo per loro, sosteniamo loro, perché attraverso di loro continuiamo a sostenere le nostre squadre. E quando Appià scende in campo siamo tutti con il Ghana, perché ci sentiamo nello stesso tempo italiani e ghanesi…

Ecco perché il Mondiale ha ancora un fascino enorme per tutti noi, perché siamo rimasti in Sudafrica, a giocare e a fare il tifo con i giocatori “italiani”, perché sono i giocatori delle nostre squadre. Non è proprio quello che avremmo voluto! Loro sono i nostri amici, i nostri compagni delle partite domenicali del nostro campionato. E con loro in campo c’è pur sempre un pezzo del nostro modo di giocare, delle nostre tecniche e delle nostre strategie di gioco che impegnano di volta in volta avversari diversi in una competizione leale e coraggiosa, audace e determinata. Più che l’Italia c’è l’italianità, la sua cultura sportiva e la sua capacità di fare scuola, di contagiare entusiasmo e passione sportiva a giocatori dei più diversi paesi. Li abbiamo“adottati”in tempi non sospetti, abbiamo investito su di loro non solo risorse economiche, ma tutta la nostra capacità di inclusione affettiva ed effettiva. In fondo questi mondiali ci stanno mostrando al di là di ogni ragionevole dubbio come la globalizzazione investa tutto il mondo del calcio e mai come in questo campo vorremmo che il termine globalizzazione avesse la sua accezione più positiva e costruttiva, più inclusiva e capace di porsi come un fattore che contribuisce prepotentemente a costruire la pace nel mondo e a favorire lo sviluppo di tanti paesi. Ed è proprio questa mescolanza di paesi, di lingue, di razze e di colori, che ci riempie di speranza pensando al futuro. Diventa possibile immaginare il mondo come un grande campionato in cui ci si può confrontare alternando spirito di squadra e capacità di competizione, sempre attenti alle regole, ma attenti soprattutto alla qualità dei rapporti interpersonali, alla solidarietà che scaturisce quando i diversi fanno una sola squadra e per di più vincono!


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il paginone

Un saggio controcorrente del grande filosofo americano dedicato al delicato rapporto tra le aspettative

Elogio del pessimis di Roger Scruton a convinzione che l’umanità compia progressi morali dipende dalla consapevole ignoranza della storia. Dipende altresì dalla consapevole ignoranza di noi stessi – dal rifiuto di riconoscere in quale misura l’egoismo ed il freddo calcolo albergano al cuore anche delle nostre più generose emozioni, in attesa che il fato si compia. Coloro che ripongono le proprie speranze nel miglioramento morale del genere umano versano pertanto in una posizione precaria: in ogni momento il velo dell’illusione può essere spazzato via, rivelando la nuda verità dell’umana condizione. O ci si difende da tale eventualità con astuti stratagemmi intellettuali o, nel momento della verità, si origina un parossismo di delusione e misantropia. Entrambi questi atteggiamenti arrecano danno alla nostra natura. Il primo ci condanna ad una vita scandita dall’irrazionalità; il secondo ad un’esistenza dominata dal disprezzo. L’essere umano potrà non essere così buono come il vacuo ottimista sostiene; ma non è nemmeno tanto cattivo quanto i profeti ed i bisbetici l’hanno dipinto. Al fine di analizzare pertanto l’essere umano così come esso è, e di educarsi nell’arte di amarlo, è necessario profondere una dose di pessimismo a tutti i nostri piani ed aspirazioni. Non convengo con il pessimismo onnicomprensivo di Schopenhauer, o con la filosofia della rinuncia che egli elaborò da tale concezione. Non ho dubbio alcuno sul fatto che San Paolo ben facesse a raccomandare fede, speranza e amore (cioè

L

no nell’alveo delle proprie illusioni. Il pessimismo si rivela necessario, non allo scopo di neutralizzare la fiducia nell’unicità umana, ma al fine di tutelarla. Il disgustoso accantonamento dell’homo sapiens e di tutte le sue creazioni che ritroviamo enumerate da John Gray in Cani di paglia non rappresenta una forma di pessimismo. Bensì un tentativo di accantonare interamente l’umanità, come una sorta di piaga comparsa sulla faccia della terra. Questa sorta di nichilismo misantropico non ci è d’utilità alcuna. Esso rimuove il terreno su cui poggiano tutti i nostri valori, e lascia il nulla al loro posto. Nutre argomentazioni speciose atte a dimostrare che siamo“semplici”animali, che non si differenziano sotto nessun aspetto significativo dai topi o dai vermi, e senza il diritto di godere di quei privilegi che abbiamo tradizionalmente rivendicato, in quanto esseri morali che ricercano il bene.

Ritengo che noi siamo significativamente diversi dagli altri animali. Poiché noi siamo esseri razionali che si relazionano l’uno con l’altro, “Io” con “Io”. Libertà, individualità, responsabilità e vita morale derivano tutte da ciò. Esse costituiscono corollari della conoscenza in prima persona, del fatto che, come argomentava Kant, noi soltanto nel mondo diciamo “Io”. Non è perché siamo nonrazionali che siamo soggetti alle illusioni e alle false credenze. Al contrario, ciò avviene proprio perché siamo razionali. In ogni caso, con tutta una serie di espedienti rendiamo la vita nella ragione agevole per noi stessi, attraverso stratagemmi e fallaci credenze che alimenta-

È da rovesciare la filosofia della rinuncia che Schopenhauer elaborò a partire dalle sue teorie sulla negatività agape) in quanto virtù che ordinano la vita al bene superiore. Ma non nutro dubbio alcuno nemmeno sul fatto che la speranza, scissa dalla fede e non mitigata dall’evidenza della storia, costituisca una qualità pericolosa, che minaccia non solo coloro che l’abbracciano, ma quanti vivo-

no le nostre false speranze. In The Uses of Pessimism esploro questi stratagemmi e false credenze, e mostro l’effetto devastante che essi determinano sulle società moderne.Vi è ad esempio la fallacia insita nel concetto del “nato libero” che ha dominato il pensiero educativo a partire da Rousseau. Esso sostiene che la libertà umana rappresenta un dono naturale, che siamo nati per goderne, e che la per-

diamo attraverso le leggi, le regole e le gerarchie della vita sociale. Ciò, nella mia visione, costituisce l’antitesi della verità. La libertà umana è un artefatto. Le società hanno creato leggi, istituzioni e forme di disciplina collettive proprio affinché l’individuo possa vivere liberamente. Il credere di essere nati liberi rende più facile sopportare le nostre frustrazioni, incolpare altri per le nostre sventure, e per nobilitare le nostre inadegua-

eccezione. Nel mondo in cui ci apprestiamo a fare ingresso esiste una nuova eccezionale fonte di false speranze, nel “trans-umanesimo”di persone quali Ray Kurzweil, Max More e dei loro seguaci. I transumanisti sostengono che noi sostituiremo noi stessi con cyborg immortali, i quali emergeranno dal guscio in disfa-

Come argomentava Immanuel Kant, noi soltanto nel mondo, siamo in grado di dire “Io”. È questo che fa la differenza tezze con i colori di una ribellione giustificata. Ci consente di scardinare quella conoscenza difficile da acquisire, e di considerare l’ozio una virtù. E gli effetti di tali assunti sull’educazione si sono rivelati devastanti, in quanto hanno condotto in ogni dove alla perdita del senso di disciplina e della cultura.

Altrettanto devastante a mio parere si è rivelata l’errata convinzione della “somma zero”, il principio secondo cui ogni beneficio ricevuto da un individuo costituisca una perdita patita da un altro. Se John è ricco, Mary è povera. Se una parte del mondo prospera, ciò avviene perché in qualche altro luogo ci si è incamminati verso il declino. Secondo la fallacia della somma zero tutti gli accadimenti positivi debbono essere ripagati, e l’arte della società è far pagare tale costo a qualcun altro. Tale erronea convinzione sta alla base della teoria marxiana del valore; essa ha ispirato le rivoluzioni condotte nel nome di Marx, e ha conferito al risentimento delle sembianze scientifiche. Nei fatti, comunque, la cooperazione sociale non rappresenta un gioco a somma zero, e l’arte della società è scoprire le vie attraverso le quali il bene di un individuo possa equivalere al bene della collettività. Tali erronee credenze hanno portato a risultati disastrosi per via delle false speranze che queste hanno alimentato. Molte di queste si sono dissolte. Ma vi è verità nella visione secondo cui la speranza scaturisca eternamente dal cuore dell’uomo, e le false speranze non facciano

cimento dell’umanità come le anime benedette dalle tombe in qualche Giudizio Universale di epoca medievale. I transumanisti non si curano del Mondo Nuovo di Huxley: essi non credono in ogni caso che alle antiquate virtù ed emozioni lamentate da Huxley possa arridere il futuro. L’aspetto importante, ci dicono, è la promessa di un potere, di uno scopo, e di capacità crescenti per sconfiggere i nemici di lungo periodo dell’umanità, come le malattie, l’invecchiamento, l’inabilità e la morte.

Ma a chi indirizzano tali argomentazioni? Se rivolte a te o a me, perché dovremmo noi prenderle in considerazione? Perché dovremmo adoperarci per un futuro in cui le creature come noi non esisteranno, ed in cui la felicità umana come la conosciamo non sarà più perseguibile? E quelle manifestazioni uscite dal vaso di Pandora rappresentano veramente i nostri nemici – nemici più grandi, cioè, delle false speranze che combattono con loro? Noi esseri razionali dipendiamo per la nostra realizzazione dall’amore e dall’amicizia. La nostra felicità è un tutt’uno con la nostra libertà, e non può essere separata dalle limitazioni che rendono la libertà possibile – la libertà reale, concreta, in antitesi alla libertà astratta degli utopisti. Qualsiasi cosa di profondo in noi dipende dalla nostra condizione mortale, e mentre noi possiamo risolvere i nostri problemi e vivere in pace con i nostri vicini, possiamo


il paginone

personali e la società civile

Breve storia del conflitto da cui nascono le tesi di Scruton

Platone e Aristotele, così iniziò l’eterno duello sull’ottimismo

smo

di Giancristiano Desiderio uel grande cantiere che è la storia della filosofia può essere diviso in due grandi categorie: quella dei filosofi pessimisti e quella dei filosofi ottimisti. Si potrebbe procedere per coppie: mettendo provvisoriamente Socrate tra parentesi, ecco le due grandi anime dell’Antichità: Platone e Aristotele. Il primo fu ottimista fino all’utopia e il secondo un realista che conoscendo la mediocrità morale dell’uomo andava verso il pessimismo? Qui capovolgiamo la prospettiva: Platone, che considerava l’uomo né più né meno che un “cavernicolo”fu un inguaribile pessimista, mentre Aristotele, convinto sostenitore delle virtù dianoetiche dell’uomo, fu ottimista. Ad Agostino e Tommaso si farà ripetere la verità platonica al primo e la verità aristotelica al secondo, mentre con l’Umanesimo e la Rinascenza le cose cominciano e non di poco a mutare perché comincia a entrare in gioco la scienza sperimentale. Gli umanisti, pur socratici e consapevoli della mortalità invincibile dell’essere-uomo, sono ottimisti e Bacone con il suo motto - sapere è potere - riassume il senso di una“nuova filosofia” che avrà per sé l’avvenire. Spinoza, questo ateo ebbro di Dio, crede nella salvezza per mano della conoscenza e il suo “programma filosofico” sarà ripreso dagli illuministi che avranno un’idea finita della ragione, ma crederanno di attribuire valore esclusivamente alla ragione e sulla sua base rifare il mondo umano.

Q

Un particolare del celebre “Pensatore” di Rodin, un’opera che meglio di altre sembra condensare quel conflitto secolare tra ottimismo e pessimismo, tra vita riflessiva e vita attiva, che sta alla base dell’«elogio del pessimismo» tracciato da Roger Scruton

La libertà umana non è un dono naturale: è un bene da conquistare mettendo in equilibrio pulsioni contrastanti farlo solo attraverso il compromesso ed il sacrificio. Non siamo, e non possiamo essere, quel tipo di cyborg postumani che gioiscono della vita eterna, se essa può dirsi vita. Siamo guidati dall’amore, dall’amicizia e dal desiderio; dalla tenerezza per la vita che sboccia e dal rispetto per quella che appassisce. Viviamo, o dovremmo vivere, guidati dalla legge del

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perdono, in un mondo in cui i dolori sono riconosciuti e le colpe confessate. Il nostro modo di ragionare è preordinato da tali basilari condizioni, ed una delle più importanti funzioni del pessimismo è impedirci di distruggerle. L’ottimismo senz’anima dei transumanisti ci ricorda che dovremmo essere malinconici, dato che la nostra felicità dipende da ciò.

colo della fede nel progresso indefinito. La fiducia nella certezza del progresso nasceva dalla convinzione che progresso scientifico e progresso morale fossero strettamente connessi, che il progresso morale dipendesse dalla sempre maggiore diffusione del sapere, che l’avanzamento dei lumi e l’avanzamento dei costumi andassero di pari passo. Oggi non lo crede più nessuno».

Il gioco della divisione dei principali filosofi - e mi scuso per le assenze, a cominciare da Kant e Hegel - in pessimisti e ottimisti è servito unicamente per mostrare un paradosso: oggi che proviamo a guardare in faccia il Novecento - il secolo più cruento della storia secondo Bobbio, il più orrendo dell’umanità secondo Isaiah Berlin - sappiamo che il pessimismo è un ottimismo e l’ottimismo è un pessimismo. Spieghiamo subito: Roger Scruton è un pessimista ma il suo pessimismo altro non è che la consapevolezza di dover tutelare la condizione umana dai rischi reali di stravolgere la nostra esistenza in nome della ragione, della scienza, dei diritti. In nome del bene è possibile fare il male. «Ormai soltanto un Dio ci può salvare» dice Heidegger nella sua famosa intervista allo Spiegel. Ancora non siamo stati salvati da nessun Dio e può darsi che nessun Dio ci salverà. Ma se proviamo a “urbanizzare”Heidegger come fece Gadamer possiamo riformulare così la sua speranza o attesa: non c’è un sapere che ci dia una volta per tutte il senso della vita. Sapere è ancora potere ma Galileo e Newton hanno illuminato il potere non è sempre e comunque bene. mondo fisico e l’universo, non si può fare lo stesso con il mondo umano? Ecco Il mito della caverna di Platone è il sorgere il Positivismo e quel secolo, il de- simbolo dell’umanità che progredisce: cimonono, che è pervaso dalla fede nel dal buio verso la luce. Ma quel mito può Progresso: qualunque cosa esso sia, il avere numerose interpretazioni. Nella progresso della scienza o il progresso Repubblica Platone fa dire a Socrate della politica e dei popoli. La fede nel eccoci arrivati al maestro di color che progresso è in Comte e in Marx perché smascherano coloro che dicono di sapeentrambi credono che il rischiaramento re - queste parole: «Dopo tutto ciò, dissi, dei fatti e delle essenze per mano dei lu- paragona la nostra natura (hemetéran mi della ragione conduce al trionfo del- physin) a seconda che abbia ricevuto la verità e del bene realizzando la vera una compiuta formazione (paidéias) ovessenza della storia e della natura uma- vero che ne sia del tutto sprovvista, a na in cui si sciolgono tutti i contrasti e un’immagine come questa». L’immagitutte le contraddizioni. Certo, ci sono ne è appunto la caverna che è la nostra nell’Ottocento grandi pessimisti: Scho- natura. I filosofi ci hanno insegnato ad penhauer, Kierkegaard, Nietzsche, ma il amare la luce e la verità, ma non possialoro pensiero dovrà attendere una se- mo e non dobbiamo confondere l’amore conda nascita nel Novecento, il secolo con il possesso perché a nessuno è dato dei Titani e dei Totalitarismi. La fede nel liberarsi della cavernicola natura umaProgresso si inabisserà con il Titanic e si na. La nostra libertà dipende da una vidistruggerà con la Grande Guerra. L’ot- ta vista in chiaroscuro piuttosto che neltimismo del Positivismo, che è un po’ il la piena luce nella quale c’è solo l’acceriassunto del pensiero occidentale, si camento. Uscire o credere di uscire in fondava sull’equazione: ragione uguale modo definitivo dalla caverna (ottimibene. Con il Novecento l’equazione non smo) è un rimedio peggiore del male è più vera: non basta più dire che una (pessimismo) che cristianamente ci dobcosa è buona perché è figlia della ragio- biamo industriare a combattere quotine. Dice Norberto Bobbio nelle ultime dianamente. Abbiamo ancora bisogno pagine della sua Autobiografia: «Il seco- dell’umanesimo, ma ormai in una dilo XIX è stato chiamato a ragione il se- mensione tragica.


mondo

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Coree. Tensione alle stelle fra i due Paesi, ma nonostante le dichiarazioni Seul non auspica una riunificazione...

Lunga vita a Kim! Nessuno spinge per un rapido collasso del regime. La paura? Una crisi economica di Pietro Batacchi

SEUL. E se in realtà fosse tutta una commedia? Il sospetto, dopo una settimana passata in Corea del Sud per il 60° anniversario della Guerra di Corea, viene. Da queste parti, la parola riunificazione è citata poco, solo nei discorsi ufficiali, ma nelle conversazioni tutti, esponenti governativi e dell’accademia, ti dicono che la riunificazione va considerata come un esito di lungo periodo, possibilmente contestuale ad un processo di riforme interno alla Corea del Nord che possa se non altro renderla meno traumatica. Il Governo di Seul sta lavorando per questo. Ogni anno passa a Pyongyang, la capitale della Corea del Nord, più di un miliardo di dollari di aiuti: cibo, fertilizzanti, medicinali e altro. Aiuti sospesi e poi riattivati a seconda delle congiunture e dei momenti di tensione. Poi c’è il finanziamento del complesso industriale di Kaesong, la cittadina nordcoreana di confine, dove 42mila nordcoreani lavorano in più di 100 imprese sudcoreane nell’ambito di un progetto pilota teso a sviluppare l’area in questione e a migliorare i rapporti tra i due paesi. Nelle intenzioni, il progetto è destinato ad essere replicato anche in altri contesti. La ragione sbandierata è quella umanitaria, ma nella realtà l’obiettivo è tenere in vita il regime, e prevenirne così il rapido collasso, e se possibile acuirne quelle divisioni interne che da qualche anno si profilano. Da una parte c’è il leader Kim Jong-il, che guida il fronte vete-

rostalinista e i falchi, dall’altra ci sono le colombe del ministero dell’Economia, ed il vicepresidente della Commissione Nazionale Difesa, protagonisti della riforma economica del 2002 con la quale era stato legalizzato il mercato nero. Anche in un paese asfittico come la Corea del Nord, la riforma aveva portato alla creazione di una sorta di embrione di mercato ma, soprattutto, aveva favorito lo sviluppo di una serie di interessi diversi da quello del Partito. Una situazione per un po’ tollerata dallo stesso Kim, ma che ad un certo punto stava rischiando di mettere in discussione il monopolio politico della principale, ed unica, istituzione del paese. Per di più nel momento in cui si pone la questione della successione del Caro leader e non tutto l’establishment sembra convergere sul figlio Kim Jong-un.

ne. A Seul sono convinti che sia questo il clima in cui è maturato l’episodio del siluramento della corvetta sudcoreana lo scorso marzo. Il classico modo di spostare l’attenzione verso l’esterno, da parte di un regime alla prese con l’ennesimo fallimento interno. Resta adesso da capire quali saranno gli esiti

Ed ecco allora la mazzata dello scorso inverno, con l’improvvisa decisione del Governo, attuata dalla sera alla mattina, di mettere fine al sistema della conversione del Won ad un rapporto di 100:1. Una decisione che in breve si è rivelata insostenibile ed ha prodotto risultati opposti portando ad un impennata del prezzo del riso, aumentato di 50 volte. La Nord Corea è così sprofondata ancora di più nel baratro della fame. I falchi ne hanno allora approfittato per addossare tutte le responsabilità del nuovo disastro alle colombe e per riprendere il pieno controllo della situazio-

Ogni anno la Corea del Sud passa a Pyongyang più di un miliardo di dollari in cibo, fertilizzanti e medicinali. Aiuti sospesi e poi riattivati a seconda delle circostanze

del Nord che ha annunciato di voler rafforzare il proprio arsenale nucleare attraverso «un metodo nuovo» denunciando anche lo spostamento di armi pesanti da parte degli americani sulla linea demilitarizzata lungo il 38° parallelo.

della crisi. La commissione internazionale istituita per indagare dell’accaduto, di cui però non facevano parte rappresentanti di Russia e Cina, ha confermato che ad affondare la corvetta Cheonan sia stato un siluro norcdoreano. Da lì si è aperta ufficialmente la crisi. Dopo due settimane si silenzio, due giorni fa, la tensione è tornata nuovamente

a farsi altissima dopo che il presidente Obama ha detto durante la conferenza di Toronto dei paesi del G20 che la comunità internazionale deve essere unita nel sostegno alla Corea del Sud aggiungendo che il mondo non deve chiudere gli occhi davanti al comportamento di Pyongyang sul nucleare. A stretto giro di posta è arrivata la risposta della Corea

Sul fronte diplomatico la situazione resta però la stessa e nessuno sembra voler cedere dalle proprie posizioni. Il Governo sudcoreano non vuole nuove sanzioni, non avrebbero senso allo stato attuale, ma un impegno forte da parte di tutta la comunità internazionale avvertendo che qualora si dovesse ripetere un episodio del genere in futuro, non ci sarebbero alternative alla rappresaglia. Seul sin dal primo momento ha puntato pertanto ad una risoluzione di condanna da parte del Consiglio di Sicurezza. Risoluzione però osteggiata dalla Cina che teme un ulteriore aggravamento della situazione. È possibile allora alla fine che se ne esca con una qualche forma


mondo

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Eletto il figlio più giovane del dittatore

L’ascesa di Kim Jong-un Kim Jong-un, il terzogenito del Caro leader nordcoreano Kim Jong-il di cui è considerato anche il successore, ha fatto ieri il suo ingresso nella Suprema assemblea del popolo (il parlamento della Corea del Nord). A rivelarlo è il Chosun Ilbo, quotidiano sudcoreano, che ha citato una fonte anonima di Pyongyang. Kim Jong-un, che ha 27 anni, è risultato vincitore d’obbligo del collegio 216, un numero dal forte valore simbolico per il regime, (il 16 febbraio è il compleanno del Caro leader) che viene usato soltanto per persone di particolare lignaggio, come appunto nel caso del terzogenito. Secondo le organizzazioni dei rifugiati nordcoreani al Sud, il nome del primogenito Kim Jong-nam, inizialmente in pole position per la successione, era sparito dagli elenchi degli eletti a differenza di quanto avvenuto nel 1998 e 2003. Dal marzo dello scorso anno, invece, il regime ha cominciato a rimescolare le cariche di vertice, a partire dalla Commissione nazionale di Difesa presieduta da Kim Jong-il. Nessun media nordocreano fino allo scorso novembre, quando il leader si è ripreso dall’ictus che lo aveva colpito in estate, ha mai fatto menzione all’ipotesi di successione. Tuttavia nelle scuole elementari del Nord era (ed è ancora) possibile ascoltare la canzone ufficiale della propaganda in onore di Kim Jong-un. Un funzionario della sicurezza sudcoreana, continua il Chosun Ilbo, ha spiegato che il massiccio ricambio in atto nel Nord avrà il suo culmine a settembre, quando si riunirà l’ufficio politico del Partito dei Lavoratori del Nord, dal quale ci aspetta la formalizzazione a ruolo di successore di Kim Jong-un con l’assegnazione di un importante incarico.

di soluzione di compromesso che perpetui l’ambiguità di fondo che continua a regnare sul dossier coreano. Perché di ambiguità alla fine si tratta, anche se in contesti del genere basta poco, un semplice errore di calcolo, per passare dal teatro alla realtà di un conflitto. In generale, c’è una costellazione di interessi che va nella medesima direzione del mantenimento in vita del regime nordcoreano. Un’ingombrante eredità della Guerra Fredda, ma che si è adattata con straordinaria flessibilità ai nuovi scenari regionali. Per la Cina, infatti, il regime di Kim è un prezioso cuscinetto tra sé e gli americani. Lo status quo le garantisce stabilità, mettendola a riparo da scossoni nel pieno della sua straordinaria proiezione di sviluppo economico. Più o meno medesimo è l’interesse degli Usa, impegnati in tutt’altri dossier, mentre il Giappone vede come il fumo negli occhi una riunificazione della Penisola Coreana che in

A destra: Seul, capitale della Corea del Sud. A sinistra: una base missilistica. In apertura, il Caro Leader assieme ai suoi generali; nell’immagine piccola, parata di bambini per un compleanno di Kim Jong-il

una prospettiva di lungo periodo potrebbe significare l’indebolimento della propria leadership economica in Asia.

E poi c’è Seul. In Corea del Sud temono che un collasso del regime ed una riunificazione troppo affrettata metta a repentaglio l’economia del Paese, la quarta d’Asia e la tredicesima del mondo. E questo per i sudcoreani sarebbe inaccettabile e manderebbe in fumo anni e anni di sacrifici. Ai primi degli anni Sessanta il reddito pro-capite della Corea del Sud era di 79 dollari ed oggi è attestato sui 20.000 dollari, mentre il Pil oscilla tra i 900 ed i 1.000 miliardi dollari. Certo, si tratta sempre di uno sviluppo maturato grazie ad alcune circostanze irripetibili. L’enorme quantità di aiuti economici ricevuta dagli Usa dopo la Guerra di Corea e dal Giappone come risarcimento per i danni inflitti durante il periodo dell’occupazione coloniale. La sostanziale assenza di sindacalizzazione du-

rante gli anni dei regimi autoritari succedutisi fino al ritorno del paese alla democrazia nel 1987. Ma ciò non cambia la sostanza di quello che a tutti gli effetti è un miracolo di cui questo popolo fiero è straordinariamente orgoglioso. Nonostante la crisi, con la forte contrazione del Pil e del reddito pro-capite registrata tra il 2008 e il 2009, le previsioni par-

to livello di investimenti nel settore della ricerca e sviluppo che la stessa crisi non è riuscita a intaccare. Nel 2010, il Governo ha stanziato nel settore 11,6 miliardi dollari, con un incremento del 10,9% rispetto al 2009. In generale, nel quinquennio 20005-2010, il finanziamento pubblico alla ricerca e sviluppo è cresciuto in media dell’11,84%. Insieme, settore

Una delle chiavi della solidità sudcoreana è sicuramente l’alto livello di investimenti nel settore della ricerca e sviluppo (3,5% del Pil), che la caduta delle Borse non è riuscita a intaccare lano per quest’anno di una crescita tra il 4 e 5%, spinta dalle misure fiscali adottate dal Governo. In questo, la Corea ha mostrato di saper reagire più in fretta e meglio rispetto agli altri Paesi, favorita anche dall’esperienza accumulata già durante il crollo delle “Tigri” del 1998. Una delle chiavi della solidità sudcoreana è sicuramente l’al-

pubblico e privato, hanno investito in ricerca e sviluppo, nel biennio 2008-2009, una cifra pari al 3,5% del Pil tanto che la Corea è al quarto posto mondiale dopo Svezia, Finlandia e Giappone. Per avere un’idea, l’Italia spende poco più dell’1% ed è solo 26ª tra i Paesi Osce. Questa politica ha permesso al Paese di proiettarsi ai primi po-

sti mondiali nel campo dell’ICT (Information Communication Techoligies), delle nanotecnologie e della robotica con un lusinghiero quarto posto al mondo per deposito di brevetti. Il Paese esporta telefonini, secondo al mondo con la Samsung, semiconduttori, memorie per elettronica, ma detiene posizioni rilevanti anche in settori a media intensità tecnologica come le auto, quinto Paese al mondo con Hyundai, e nella cantieristica, essendo il primo produttore mondiale di navi mercantili.

Ecco allora che l’obiettivo di Seul è tirarla per le lunghe e attendere che certe condizioni maturino all’interno del regime nordcoreano. Il resto viene lasciato alla commedia ed alla liturgia. Lo si vede visitando la Joint Security Area. La JSA è un’area di 800 metri nel cuore della De Militarized Zone (DMZ) - il corridoio di interposizione profondo 4 km lungo la linea di demarcazione tra i due Paesi - dove i militari sudcoreani e nordcoreani sono a contatto. L’unico posto lungo il confine dove ciò accade. Si tratta di un’area sotto la supervisione dell’Onu, dove nel 1953 è stato firmato l’armistizio di Panmunjon che pose fine alla Guerra di Corea, e dove si riuniscono i rappresentanti della Commissione Armistiaziale e si tengono regolari riunione tra gli ufficiali di collegamento dei due Paesi. Nel mezzo della Jsa, passa la linea di demarcazione: da una parte i nordcoreani ed a qualche metro i sudcoreani che passano le giornate a guardarsi e controllarsi. In passato si sono registrati incidenti e sparatorie, ma adesso la situazione è tranquilla. Di fatto siamo in uno dei posti più fotografati del mondo. Le visite turistiche sono regolari – 100mila visitatori l’anno così come quelle delle delegazioni dei reduci della Guerra di Corea. Un business, peraltro in voga anche dall’altra parte, soprattutto per comitive cinesi. E qui, allora, la percezione di vivere una commedia dove tutti giocano la propria parte, secondo liturgie e ambiguità precise, è ancora più chiara.


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Asia. Firmato lo storico accordo di libero scambio tra Cina e Taiwan sempre più stretto il braccio di mare che separa le due Cine. Pechino e Taiwan hanno siglato un importante accordo commerciale, che segna il più grande balzo in avanti verso la riconciliazione dei due storici nemici. E c’è già chi teme una riunificazione prossima ventura, che possa mettere la parola fine all’esperimento della Cina nazionalista non-comunista. L’intesa, firmata nella città di Chongqing sul continente, rappresenta il culmine della politica di buon vicinato inaugurata dal presidente di Taiwan, Ma Yingjeou, subito dopo il suo insediamento nel 2008. La scelta del luogo non sembra casuale, visto che il centro fu l’ultima capitale del Kuomintang, prima della fuga nell’isola di Formosa. L’accordo di cooperazione economica (Economic cooperation framework agreement, Ecfa) che prevede la diminuzione radicale delle tariffe, segue 60 anni di antagonismo tra le due nazioni. Il patto, che è stato firmato ieri, dopo circa due anni di trattative, prevede un taglio delle tariffe per circa 800 prodotti (539 taiwanesi e 267 della Cina comunista). Mentre la prossima tornata di contrattazioni potrebbe iniziare a dicembre, quando Taiwan dovrebbe premere per abbassare le tariffe di altri prodotti, specialmente tecnologici e plastici. Pechino sembra comunque restia, più interessata a proteggere le proprie industrie.

È

Nel dare la notizia, China Daily definisce l’accordo «molto atteso» e la decisione «una pietra miliare di portata storica nei rapporto diretti fra le due sponde dello Stretto di Taiwan». La firma del trattato «è stata criticata da molti a Taiwan perché po-

E il commercio riunì Pechino e Taipei Per rilanciare le due economie, tagliate tariffe e accise su centinaia di prodotti di Pierre Chiartano

c’è stata da parte chi non è riuscito a far entrare le proprie merci nell’elenco del trattato. Un esempio sono i produttori di auto di Taiwan. Chi si frega le mani sono, ad esempio, gli istituti bancari e assicurativi, autorizzati per la prima volta a investire in Cina e a presentarsi sul mercato dei servizi. Anche il settore sanitario si è aperto alle

L’intesa rappresenta il culmine della politica di “buon vicinato” del presidente dell’isola, Ma Ying-jeou, inaugurata all’inizio del 2008 trebbe mettere a repentaglio la sovranità, l’autonomia economica e la situazione occupazionale» nell’ex Formosa si legge invece sul quotidiano Taipei News. L’accordo è sicuramente una vittoria politica per il presidente della Cina nazionalista, Ma Ying-jeou, da sempre fautore della normalizzazione dei rapporti tra i due Paesi. «L’Ecfa è una vitamina, non una panacea che cura ogni malattia», ha dichiarato dopo la firma il presidente nazionalista. Qualche protesta

attività dei cugini dell’isola “ribelle”. Nei prossimi sei mesi comunque saranno riprese quelle parti d’accordo non ancora definite, come quella sulle commodity.

Sul fronte politico c’è da sottolineare la contrarietà del Democratic progressive party (Dpp) che si è sempre opposto ai piani di Ma, presidente del secondo partito taiwanese il Kuomintang – quello fondato da Chiang Kai-shek – e in carica dal maggio 2008 come presiden-

Chi è il taiwanese che vuole tornare a “casa”

L’erede di Chiang Il Partito nazionalista di Taiwan (Kuomintang, Kmt) lo ha indicato nel 2007 come sfidante ufficiale dell’allora presidente Chen Shui-bian. E nel marzo del 2008, l’ex sindaco di Taipei Ma Ying-jeou ha mantenuto le promesse e ha vinto. L’uomo, che ha voluto come vice-presidente il chiacchierato ex preVincent mier Siew Van-chang, è di fatto l’artefice del patto di riunione commerciale con la Cina. Ma, 60 anni, ha studiato ad Harvard, dove si è laureato in Legge. Ha ricoperto le cariche di presidente del Kmt e quella di primo cittadino della capitale, che gli è però costata un’incriminazione per corruzione, ancora non risolta. Dipingendo una situazione finanziaria rosea, il nazionalista ha definito l’isola una delle più competiti-

ve nazioni asiatiche: «Ci aspettiamo di arrivare ad una crescita del 6 % sin dal 2008, ad un guadagno pro-capite di 20mila dollari entro il 2011 e la creazione di 100mila posti di lavoro. La disoccupazione scenderà al di sotto del 3 %». Per raggiungere questo scopo, Ma ha fatto di tutto per scendere a patti con Pechino, il nemico storico del suo predecessore Chiang Kai-shek. Il “Generalissicacciato mo”, dalla madrepatria dopo la presa di potere dei comunisti di Mao Zedong, oggi si starà rivoltando nella tomba. In nome del denaro, proprio uno dei suoi nazionalisti ha permesso alla Cina di mettere un piede a Taiwan. Aprendo di fatto la via a quella riunificazione che sull’isola, sembra, non vuoloe proprio nessuno.

te della repubblica. Il Ddp è il maggior partito dell’isola, è ha una tradizione culturale radicata nella difesa dei diritti umani. Rappresenta l’ala liberale della politica, come il Kuomintang quella nazionalista. La posizione di Washington è favorevole ad un abbassamento della tensione fra le due coste del canale di Formosa da sempre. E la precedente presidenza taiwanese, caratterizzata da una politica che puntava all’indipendenza, aveva destato non poche preoccupazione alla Casa Bianca. Gli americani sono comunque coinvolti nell’assicurare l’integrità territoriale di Taipei, per garantire gli equilibri strategici nel Pacifico. Uno degli obiettivi primari è quello di impedire che Pechino diventi una potenza navale e possa sfidare Washington sul mare. Ma allo stesso tempo gli Usa devono poter mantenere un engagement con la Cina comunista per poter gestire la politica globale con un partner quanto meno ”non ostile”.

Secondo alcuni economisti l’Ecfa potrebbe facilitare la creazione di 260mila posti di lavoro a Taiwan, la cui economia basata sulle esportazioni ha risentito fortemente della crisi finanziaria internazionale. È stato calcolato che i tagli alle tariffe saranno pari a 13,84 miliardi di dollari per Taiwan e a 2,86 miliardi per la Cina. L’ Ecfa è stato contestato dall’ opposizione taiwanese che, sabato scorso, ha organizzato una manifestazione di decine di migliaia di persone per chiedere che venga sottoposto a referendum. L’Ecfa è stato fortemente voluto dal presidente cinese Hu Jintao, che spera serva a convincere l’ opinione pubblica taiwanese dei vantaggi della «riunificazione» con la Repubblica popolare cinese. Naturalmente i rappresentanti delle associazioni per il dialogo tra le due Cine mostrano entusiasmo e sono convinti come, Chiang Pin kung, presidente della Taiwan’s Straits exchange foundation, che l’accordo sia un’iniziativa «a somma positiva». Il valore degli interscambi attraverso lo Stretto ammontano circa a un miliardo di dollari l’anno e da decenni i tycoon di Taipei sono tra i migliori investitori sul continente. Intanto gli indici delle due valute hanno dato un primo segnale positivo. Il dollaro di Taipei, lunedì, ha guadagnato lo 0,6 per cento sulla divisa americana, seguendo lo renmimbi che aveva rosicchiato il 0,4 per cento.


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L’animale porta fortuna: la giunta lo userà per le elezioni

L’ex dittatore alla sbarra a Parigi punta il dito contro Cia e Fbi

Birmania, “scoperto” un elefante albino

Noriega: «Contro di me, un processo politico»

RANGOON. Il popolo birmano è

PARIGI. L’ex dittatore pana-

estremamente superstizioso. Combinata a una sincera fede buddhista, la credenza popolare attribuisce molta importanza a simboli legati al ciclo della natura, da cui trae decisioni da applicare nella vita di tutti i giorni. E l’elefante bianco, rarissimo, è il non plus ultra del benessere sociale. Non è casuale che sia apparso proprio a ridosso delle prossime elezioni. Un raro esemplare di elefante bianco, considerato in Birmania simbolo di cambiamenti politici ma anche di ricchezza e fortuna, è stato catturato nella parte occidentale del Paese.

mense Manuel Noriega, processato a Parigi per riciclaggio del denaro (2,3 milioni di euro) dei narcotrafficanti del cartello di Medellin, punta il dito contro quella che definisce una «montatura bancaria e finanziaria immaginifica» orchestrata dagli Usa. È quanto ha detto lo stesso Noriega in occasione della sua prima dichiarazione nel secondo giorno di processo a Parigi. «Se esaminate i capi di accusa contro di me – ha detto l’ex dittatore – il riciclaggio di denaro non esiste, sono vittima di una cospirazione che gli Usa hanno costruito contro di me a Miami». L’ex alleato degli americani durante gli anni della Guerra Fredda, testa di ponte

Lo riporta il quotidiano New Light of Myanmar, precisando che il pachiderma è stato catturato sabato nella città costiera di Maungtaw, nello stato di Rakhine. È una femmina, ha 38 anni ed è alta oltre due metri. La spedizione per catturarla è stata ordinata mesi fa da Than Shwe, capo della giunta militare. Re e leader della Birmania, Paese a maggioranza buddhista, hanno sempre custodito come tesori i rari elefanti bianchi, considerati per la loro particolarità simbolo di imminenti cambiamenti politici. La giunta militare, al potere dal 1962, ha promesso che si terranno elezioni legislative prima della fi-

Con David Petraeus la guerra si fa più dura Il generale Usa prende in mano le redini afghane di Luisa Arezzo on un colpo al cerchio e uno alla botte, David Petraeus cerca di accontentare tutti alla sua prima audizione al Senato degli Stati Uniti. Da un lato, dando pieno sostegno alla exit strategy dalla guerra in Afghanistan del presidente Barack Obama, dall’altro annunciando che la guerra, nel breve periodo, si intensificherà. E per chi avesse dubbi promette maggior libertà di manovra dei soldati e di rivedere le regole di ingaggio delle truppe Usa (regole che McChrystal non aveva mai voluto rivedere per evitare un maggior numero di morti fra i civili...). Il generale è apparso ieri davanti alla commissione Difesa del Senato per ottenere la conferma della nomina a comandante delle truppe Usa e Nato in Afghanistan fatta da Obama la settimana scorsa dopo le dimissioni forzate del generale “ribelle” Stanley McChrystal (per il quale Petraeus ha speso parole di lode: «Senza il suo impegno eccezionale non sarebbe stato possibile né il surge in Iraq né tantomeno quello in Afghanistan»). Petraeus ha ricordato ai senatori che la decisione di riportare in patria gran parte delle truppe entro il luglio 2011 non rappresenta un’uscita affrettata. E dunque, anche se il generale non ha apertamente espresso il suo sostegno alla exit strategy come aveva fatto in passato, il senso delle sue parole è stato chiaro. Allo stesso tempo però Petraeus ha sottolineato il fatto che l’impegno delle truppe americane in Afghanistan è «duraturo» e che serviranno anni prima che le forze di sicurezza afghane possano prendere appieno il controllo della situazione. Un modo per dire che il ritiro delle truppe non è una fuga dal paese e che la missione in Afghanistan non verrà lasciata a metà.

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battaglione della polizia afghana. Un aumento di truppe che certamente, come liberal aveva già scritto, comporterà un ritardo nelle operazioni di offensiva su larga scala nella regione, secondo passo, dopo Marjah, nell’Helmand, della strategia americana di counterinsurgency varata da Barack Obama, un ritardo dovuto agli innegabili problemi riscontrati dalle forze americane a Marjah. Petraeus ha poi parlato di unità tra esercito statunitense e civili nella missione in Afghanistan. Il generale si è infatti impegnato a cooperare con tutte le forze e i leader civili in Afghanistan, come previsto dalla strategia della contro-insorgenza seguita dal suo predecessore McChrystal e di cui lo stesso Petraeus è un fautore fin dai tempi del suo impegno nella guerra in Iraq come comandante delle forze armate Usa. Che i combattimenti siano destinati ad aumentare si è capito anche ieri durante l’offensiva di Kunar, provincia orientale dell’Afghanistan. In un attacco sferrato da 700 soldati, ieri ha avuto luogo una delle battaglie più sanguinose degli ultimi anni. A terra oltre 150 militanti talebani contro le due perdite dell’esercito statunitense.Tra i miliziani uccisi, alcuni avrebbero fatto parte della rete di Al Qaeda, ma ancora non ci sono conferme ufficiali in tal senso.

Dopo 34 anni di servizio, McChrystal ha presentato una domanda ufficiale per lasciare definitivamente l’esercito

ne dell’anno. Sarebbero le prime dopo quelle del 1990, vinte dalla Lega nazionale per la democrazia di Aung San Suu Kyi e poi annullate con l’arresto della leader. Inoltre tradizione vuole che un pachiderma sia apparso alla madre di Siddharta per offrirle un fiore di loto. Nel 2001, la cattura di un elefante albino aveva portato fama e fortuna al generale Khin Nyunt, l’allora premier. Portato in trionfo a Rangoon, il povero animale aveva però seguito la sorte del suo «scopritore»: quattro anni di fasti finché Khin Nyunt era caduto in disgrazia. Da allora il pachiderma vive isolato in un monastero vicino alla ex capitale.

Anzi: a breve è decisamente previsto un attacco su tutta la linea a Kandhar. Attacco previsto e in parte già avviato da McChrystal, per il quale Petraeus ha deciso di dispiegare una brigata americana e una brigata afghana in più oltre che richiedere nella zona un altro

E mentre le dichiarazioni di Petraeus sancivano il suo arrivo al comando in Afghanistan, sempre ieri il suo predecessore Stanley McChrystal, “silurato” la settimana scorsa dopo l’intervista rilasciata a Rolling Stone, ha annunciato la sua intenzione di lasciare l’esercito dopo 34 anni di servizio. A darne notizia il colonnello Tom Collins, portavoce dell’esercito di terra, che ha confermato la consegna al comando di una richiesta ufficiale in tal senso. La procedura di abbandono dell’arma è però molto lunga nel caso di un generale a quattro stelle e si ignora quando, effettivamente, McChrystal darà il suo addio alle armi.

Usa nell’America Centrale poi deposto da George Bush padre, non gode di buona salute. Noriega ha 76 anni, risiede dallo scorso 26 aprile in una cella della prigione parigina della Santè dopo 20 anni passati nelle prigioni statunitensi, e secondo gli atti prodotti dai suoi medici soffre di semiparalisi e ipertensione. Ha invocato l’immunità da ex capo dello stato, ha chiesto di essere rimesso in libertà, ma per lui ci sono stati soltanto dei no, visto che – dicono i giudici francesi – sussistono «importanti rischi di fuga». Secondo i magistrati, le ingenti somme di denaro sarebbero state il compenso che il generale ricevette dai narcotrafficanti colombiani, ed in particolare da Pablo Escobar, per concedere il passaggio della droga attraverso il suo Paese.

Denaro che utilizzò per comprare tre appartamenti, circa 3 milioni di dollari. Si tratta di un giudizio per il quale la Francia già condannò Noriega in contumacia a 10 anni di reclusione, infliggendogli una multa di 14 milioni di dollari. L’ex alleato degli Stati Uniti si dichiara innocente affermando che le somme per le quali verrà giudicato sono il frutto di anni di collaborazione con la Cia.


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grandangolo Breve storia degli 007 “rossi”, conosciuti e non, dalla Seconda guerra mondiale fino ai giorni nostri

Quando le spie (russe) erano serie A guardare i dieci agenti segreti arrestati negli Stati Uniti, viene quasi da rimpiangere quelli sovietici “vecchio stile”, che dello spionaggio erano veri e propri maestri.A cominciare da Richard Sorge, finto corrispondente tedesco in Giappone (ma che non fu creduto quando avvertì dell’imminente attacco all’Urss)... di Maurizio Stefanini l ministero degli Esteri russo parla di «arresti infondati» e di «obiettivi biasimevoli» rievocanti le epoche della Guerra Fredda. Il Dipartimento alla Giustizia Usa spiega invece che i 10 russi su cui l’Fbi ha messo le mani erano vent’anni che conducevano negli States una vita insospettabile, allo scopo di «ricercare e sviluppare contatti in circoli politici americani».

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In particolare le strategie del governo sul dossier iraniano, i meccanismi della Cia e le mosse del Congresso: ma non sarebbero mancati pericolosissimi approcci con un ex funzionario di alto livello della sicurezza nazionale e un ricercatore impegnato sulla progettazione di armi nucleari. Vent’anni, che vuol dire esattamente dal momento in cui l’Urss si stava disintegrando, per dare vita alla nuova Russia post-sovietica, post-ideologica, ma non tanto post-certe esigenze di confrontarsi con la vecchia rivale del tempo della Guerra Fredda. E in effetti, gran parte di ciò che si è saputo dei 10 agenti sa di Guerra Fredda; e più ancora di film sulla Guerra Fredda. Le spie, in particolare, andavano in giro con borse arancioni. Così, tanto per non attirare l’attenzione... E poi avevano assunto identità posticce rubandole a cittadini deceduti: ma questo l’aveva fatto anche il padre di Ugly Betty nella serie tv, immigrato messica-

no irregolare. Gli israeliani nel recente colpo sul dirigente di Hamas a Dubai erano stati più creativi, clonando i passaporti di gente ancora in vita. Poi i magnifici 10 si scambiavano messaggi con sistemi di comunicazione cifrata, intingendo le penne nell’inchiostro invisibile. E qui siamo ancora ai tempi dello Scarabeo d’oro di Edgar Allan Poe, con il suo tesoro nascosto di Capitan Kidd. Naturalmente, un ventennio di rivoluzioni tecnologiche non può essere pas-

L’agente Ramón Mercader, infiltrato nell’entourage di Trotzky, in Messico, per ucciderlo a picconate in testa sato invano, e negli ultimi anni secondo il New York Times la gran parte del lavoro era finita sul web: messaggi nascosti in immagini postate su Internet e pc portabili con software protetto. Ma tra loro ci sono anche due ispanici, la giornalista peruviana Vicky Peláez e il suo

martito uruguayano Juan Lázaro, il cui figlio 17enne Juan adesso li definisce come particolarmente di coccio sul piano informatico. Forse lo fa per proteggerli. O forse è stata invece proprio questa loro insufficienza che ha portato a far intercettare il messaggo di Mosca a due agenti che ha portato a svelare l’intera rete. Certo, sembra un livello molto più terra terra rispetto a certi eroi dello spionaggio “rosso” dell’epoca sovietica.

A patire da Richard Sorge: “la spia eroe” che agiva con la copertura di un incarico da corrispondente tedesco in Giappone, e che non fu creduto quando avvertì dell’imminente attacco all’Urss. E tutto a causa della paranoia di Stalin, che delirava intorno alle manipolazioni degli occidentali per metterlo contro l’alleato Hitler. Insomma, il povero Sorge finì impiccato per la gloria. Poi sempre nelle Seconda Guerra Mondiale c’era Leopold Trepper: il capo dell’“Orchestra Rossa”, che poco prima di morire fu preso da scrupoli per aver collaborato al terrore staliniano. Nessuno pentimento ebbe mai invece Ramón Mercader, infiltrato nell’entourage di Trotzky in Messico per ucciderlo a picconate in testa. Pure accusato di essere uno sterminatore di trotzkysti fu Vittorio Vidali: il triestino agente del Comintern e morto da tranquillo notabile del Pci nel 1983, dopo essere stato l’amico della famosa fotogra-

fa Tina Modotti. Poi nella lista c’è Klaus Fuchs, che passò a Mosca il segreto atomico Usa, anche se poi finì critico del socialismo reale. Rudolf Abel, “la spia misteriosa”, fu l’uomo che allo scoppio della Guerra di Corea fu incaricato di predisporre eventuali azioni di sabotaggio contro gli Stati Uniti in caso di un conflitto di vaste dimensioni. Nel caso, anche servendosi di commandos comunisti in America Latina, pronti a infiltrarsi in territorio americano se convocati dai messaggi radio di Abel. Naturalmente una star fu Kim Philby, il più noto tra i membri del famoso “Cambridge Ring”. Fu lui in particolare che nel 1949 fece fallire un’insurrezione anticomunista in Albania che i servizi occidentali avevano accuratamente preparato. Ma Gordon Lonsdale alias Konon Trofimovich Molody, un “illegale” che riuscì a farsi passare per canadese, pur se dopo il ritorno dall’Occidente si pentì a tal punto di essere stato riprecipitato nel “paradoso sovietico” da darsi al bere e morire alcolizzato nel 1970 a soli 48 anni, è stato tuttavia celebrato da Eltsin nel 1997: «Un grande debito abbiamo verso i servizi segreti per aver aiutato questo Paese a sviluppare le proprie armi nucleari. Non si può negare il fatto che, creando un contrappeso atomico, noi abbiamo impedito una terza guerra mondiale». George Blake era invece l’agente doppio che profittò del suo incari-


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Nel mirino delle “barbe finte” ci sono le politiche militari. E i pettegolezzi

Ma 007 non cerca più la “bomba H” o i piani di dominio del mondo intero di Antonio Picasso capi di accusa emessi dal Dipartimento di Giustizia Usa per i dieci indiziati agenti dell’intelligence di Mosca, l’Svr, sono di spionaggio nei settori delle armi nucleari, delle nuove strategie che il Pentagono potrebbe adottare, nelle future mosse di Washington contro l’Iran e di tutto quel che accade all’ombra del Campidoglio. In sintesi: politica militare, estera e poi i rumor che aleggiano nei saloni della Casa Bianca, le future nomine al vertice della Cia, infine un punto di situazione dei due partiti Usa, Repubblicano e Democratico. Per certi aspetti sembra di essere tornati indietro di 25-30 anni, quando ai tempi della guerra fredda Usa e Urss si confrontavano grazie alle loro spie leggendarie. Sembra un flashback. Eppure dal 1989 a oggi sono cambiate molte cose. La strumentazione tecnologica attualmente a disposizione era impensabile vent’anni fa. Le intercettazioni telefoniche costituiscono un micro-settore delle possibilità di spionaggio. Pensiamo alle informazioni che navigano liberamente ogni ora su internet oppure a quelle conservate nei database, siano esse relative a uno Stato-nazione, oppure a un singolo individuo. Tutto questo è alla portata delle numerose agenzie di intelligence, il cui lavoro è entrare in possesso segretamente di tutte le informazioni di cui hanno bisogno. Inoltre, si è amplificato in modo esponenziale il bacino di indagine in cui possono operare le cosiddette spie. La loro attività peraltro non è più un monopolio dello Stato o di un governo. Nel recupero delle “fonti aperte”, le istituzioni di un Paese possono concedere questo comparto di ricerca in outsourcing ad agenzie private.Vanno ricordati anche i casi di spionaggio industriale, completamente disconnessi dalle tappe storiche della guerra fredda e legati alla concorrenza spietata – e in questo caso sleale – del mercato internazionale. Il caso delle spie russe, o presunte tali, si avvicina di più alle questione economiche rispetto a quelle dello spionaggio “classico”, operativo prevalentemente nel settore degli armamenti. Ammesso che le dieci persone arrestate fossero agenti dell’Svr, bisogna superare la soglia degli interessi strategico-militari per

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co nei Servizi inglesi per consegnare al nemico gli uomini alle sue dipendenze. Dopo aver provocato la morte di 42 persone, riparò a Mosca grazie ad “alcuni militanti pacifisti”. Ma, a Muro crollato, si dichiarò “pentito”. E si può ricordare che tra le trovate principali di Markus Wolf, il temuto capo della Stasi, ci fu anche la sponsorizzazione dal 1981 dei Generali per la pace: ex ufficiali della Nato passati a posizioni pacifiste, dei quali facevano parte tra l’altro l’italiano Nino Pasti e il tedesco Gert Bastian”. Più complesso è il ruolo dei coniugi Juluis e Ethel Rosenberg, finiti sulla sedia elettrica il 18 giugno del 1953. A lungo sono stati giudicati dalla maggior parte

L’immigrazione negli States di scienziati e professionisti oggi è molto più facile di quanto non fosse prima del 1991 degli storici come vittime innocenti della fobia maccartista, condannati solo per la loro fede comunista. Ma come si è infine appurato dopo la pubblicazione delle memorie di Kruscev, del libro scritto nel 1990 dal transfuga del Kgb Oleg Gordievskij e del dossier della Cia sulla decifrazione dei codici sovietici reso noto nel 1995, i due erano stati sul serio agenti dei servizi sovietici. Non solo: loro stessi erano convinti di aver fornito all’Urss il “segreto atomico”, attraverso schizzi e note raccolti da David Greenglass: un meccanico che nel ’44 ha lavorato al centro atomico di Los Alamos.

La realtà era però che per la scarsa cultura di Greenglass quel dossier era in effetti del tutto inutile. In realtà, il segre-

to atomico a Mosca lo aveva già passato Fuchs, ma da una parte i servizi sovietici non vollero mortificare quel loro agente tanto volenteroso, spiegandogli che aveva rischiato la vita per passare uno scartafaccio senza valore. Dall’altra, i servizi americani avevano finto di credere alla colpevolezza dei Rosenberg per dare un capro espiatorio a un’opinione pubblica sconcertata per il primo test nucleare sovietico, senza far capire ai sovietici che in realtà sapevano come lo cose erano realmente andate grazie a Venona, un cifrario dell’Armata Rossa che i finlandesi avevano passato a Washington dopo averlo catturato nel 1944; e grazie anche a Igor Guzenko, addetto ai cifrari dell’ambasciata sovietica a Ottawa che aveva “scelto la libertà”nel settembre 1945. Dall’altra ancora, anche Stalin preferì per ragioni propagandistiche trasformarli in martiri, piuttosto che salvarli con un semplicissmo scambio di agenti. Altri tempi. Oggi, di americani comunisti pronti a farsi ammazzare per Mosca in nome dell’Idea non se ne trovano più. Ma la gran parte degli agenti infiltrati verso la fine della Guerra Fredda sono restati operativi, e nel 1996 un ex-agente passato ai britannici ne parlò come di “molte centinaia”. E in effetti l’ex-analista della Cia Aldrich Ames è stato scoperto nel 1994; l’ex-ufficiale della Cia Harold James Nicholson e l’agente dell’Fbi Earls Edwin Pitts nel 1996; l’altro agente dell’Fbi Robert Philip Hanssen e l’ufficiale dell’Intelligence dell’Esercito George Trofimoff nel 2001. D’altra parte, oggi l’immigrazione negli Usa di scienziati e professionisti russi è molto più facile di quanto non fosse prima del 1991. E poi, come ha spiegato l’ex-agente del Kgb Yuri Shvets: «Ai tempi dell’Urss il numero delle spie era limitato perché queste dovevano essere appoggiate al ministero degli Esteri, alla missione commerciale o alle agenzie di notizie come la Tass. Mentre ora, invece, pressoché ogni società privata di successo in Russia può essere usata come copertura per operazioni russe di intelligence».

cui Mosca avrebbe organizzato la missione. La Russia è una potenza economica dotata però di un solo efficace strumento di pressione: la sua disponibilità energetica. Non si può escludere quindi la presenza di spie straniere su territorio Usa per il recupero di informazioni nell’ambito dell’industria chimico-petrolifera e della raffinazione; settori in cui Mosca è palesemente debole. Osservato da questa prospettiva, di conseguenza, il caso assume i toni dello spionaggio industriale. Plausibile anche l’ipotesi che l’Svr abbia inviato i suoi uomini per verificare gli effettivi danni che la marea nera nel Golfo del Messico sta causando all’economica locale. Oppure, sempre procedendo per supposizione, il Cremlino potrebbe essere interessato alle ricerche nel campo dell’energia nucleare condotte nei laboratori della Silicon Valley o del Massachusetts Institute of Technology (Mit). Un esempio nella fattispecie è legato al progetto di fusione nucleare “Ignitor”, sviluppato, ancora negli anni Settanta, da un’idea dell’italiano Bruno Coppi, docente del Mit. Dopo una lunga fase di limbo l’“Ignitor” è stato rivalutato positivamente da Vladimir Putin, il quale nel 2003 quando era Presidente della Federazione russa, l’ha definito un’idea avveniristica perl’intero settore dell’energia atomica. Non si può escludere che il Governo russo sia curioso di sapere se anche a Washington siano ripresi i lavori sul progetto italiano. Spesso, quando si parla di intelligence, si tende a dire che tutti spiano e tutti sono spiati. In pratica verrebbero meno le categorie canoniche di un conflitto: “buoni e cattivi”. Nell’ambito dello spionaggio i due strumenti tatticamente essenziali sono la diffidenza e la disinformazione. Il mestiere della spia è scovare ciò che un’altra persona, o un Paese, custodisce segretamente. Poi, in un secondo momento, farne tesoro, oppure renderlo di dominio pubblico affinché l’immagine o le attività concrete dell’avversario vengano compromesse. Visto così non sembra essere una nobile professione. La sola e unica attenuante però è la Ragion di Stato.


cultura

pagina 20 • 30 giugno 2010

è una rivoluzione in atto nel mondo dell’università, ma non si tratta della riforma che il ministro Gelmini sta proponendo agli atenei italiani. Il ddl sull’università è ancora in discussione alle Camere ed è stato accolto da (sostanziali) consensi politici bipartisan, con qualche recente malumore, e da forti critiche come quelle avanzate dai ricercatori. In realtà, i tecnici del ministero dell’Università (Miur) sono al lavoro da tempo su alcune disposizioni, alcune già in vigore, che stanno modificando il modo di lavorare degli accademici italiani. È una vera e propria riforma sottotraccia che si sta compiendo lontano dai riflettori. In che cosa consiste? La posta è senza dubbio alta. In gioco c’è la valutazione del lavoro scientifico prodotto dalle università italiane e pertanto una parte consistente della determinazione del loro operato. Un punto decisivo anche per la nuova legge in discussione in Parlamento in quanto i finanziamenti agli atenei dipenderanno sempre più dal grado di valutazione che questi conseguiranno. La “piccola” riforma che qui descriviamo sta cambiando le regole con le quali vengono valutati saggi, articoli, contributi per i congressi.

C’

Uno sguardo indietro. In Italia si è cominciato a riflettere sui meccanismi di valutazione della ricerca scientifica solo da alcuni anni. Tra il 1999 e il 2000 vengono istituiti prima l’Osservatorio per la valutazione del sistema universitario e poi il Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario (Cnvsu) e il Comitato di indirizzo per la valutazione della ricerca (Civr). Il ministero in quegli anni elabora le linee guida per la valutazione della ricerca e avvia la prima sistematica rilevazione dello stato della ricerca in Italia. La novità consiste nell’adozione di inediti criteri di valutazione. Per le pubblicazioni scientifiche, ad esempio, è introdotto il ricorso a metodi di tipo qualitativo come la peer review, un sistema di controllo della qualità affidato a esperti della materia, e di tipo quantitativo come l’impact factor o l’analisi delle citazioni (tecniche bibliometriche). Nel 2006 viene istituita l’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (Anvur) con il compito di sostituire i precedenti enti che però sono ancora operativi. Il 2009 è una anno ricco di iniziative. In gennaio viene approvata una legge sul diritto allo studio che prevede tra le altre cose la creazione di un’anagrafe nazionale dei professori e

A fianco, un’immagine della statua della Minerva all’interno dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. In basso, il ministro dell’Istruzione e della Ricerca, Mariastella Gelmini

L’analisi. Una è già in atto, l’altra è in Parlamento. Ma dovrebbero viaggiare insieme...

Riforma universitaria a doppia velocità di Andrea Capaccioni dei ricercatori “contenente per ciascun soggetto l’elenco delle pubblicazioni scientifiche prodotte” e che servirà alla valutazione delle attività di ricerca delle università e del singolo docente. La disposizione stabilisce poi che in un apposito decreto il Miur dovrà indicare i criteri “identificanti il carattere scientifico delle pubblicazioni”. L’atto non è ancora pronto ma probabilmente recepirà il recente (2010) parere che il Con-

siglio universitario nazionale (Cun), organo di rappresentanza del sistema universitario che formula pareri e proposte al ministero, ha espresso sull’argomento. Un altro passo viene compiuto con un decreto ministeriale (luglio) dedicato alla “valutazione dei titoli e delle pubblicazioni scientifiche” in cui sono contenute indicazioni sui criteri di valutazione che dovranno essere adottati dalla università per valutare le pub-

nato a sostenere una discriminazione tra pubblicazioni cartacee e digitali ma a indicare i requisiti che queste devono possedere per essere considerate scientifiche prescindendo dal supporto sulle quali sono registrate. Una via già imboccata con la legge sul deposito legale (2004), strettamente legata alle procedure di assunzione dei nuovi docenti universitari, che ha incluso tra le pubblicazioni da valutare quelle diffuse “su

Sull’Agenzia per la valutazione il ministro punta molto, ma attualmente sembra esserci una discreta confusione sul vero ruolo che essa avrà e soprattutto quando sarà operativa blicazioni. Oltre all’analisi delle citazioni e all’impact factor si fa riferimento per la prima volta a metodi più adatti alla valutazioni di pubblicazioni digitali e online, come l’indice di Hirsch. C’è però una novità più importante. Dalle recenti disposizioni ministeriali emerge che articoli e i libri in forma digitale e diffusi tramite la rete sono equiparati alla produzione tradizionale su carta. Anche il recente parere appena citato dedicato ai “criteri identificanti il carattere scientifici delle pubblicazioni”del Cun si muove verso questa direzione. Il legislatore, in altri termini, non sembra intenzio-

supporto informatico”e “tramite rete informatica”.

Arriviamo così a oggi, con una delle disposizioni forse più importanti di questa riforma con la “r” minuscola: le linee guida per la valutazione quinquennale della ricerca 20042008. Per ricordare l’importanza di questa norma basti dire che in base ai criteri in essa contenuti sarà stilata la graduatoria degli atenei italiani più virtuosi e assegnate le risorse. Le linee guida riaffermano l’importanza delle tecniche bibliometriche per la valutazione delle pubblicazioni scientifiche. Fin qui le buone notizie che potremmo riassumere così: la ri-

cerca scientifica prodotta dalle università italiane è ora sottoposta a una valutazione basata su criteri oggettivi ispirati a buone pratiche internazionali. Rimangono però delle zone d’ombra. Le “due” riforme del mondo accademico italiano, quella in atto che abbiamo descritto e quella in discussione in Parlamento, non dovrebbero avanzare in modo separato. Per un semplice motivo: la valutazione della ricerca scientifica è considerata un obiettivo fondamentale della proposta di legge del ministro Gelmini. Due sono gli aspetti sui i quali si dovrebbe intervenire in fretta: il definitivo varo dell’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (Anvur) e una forte attenzione sulle proposte che sono state fatte, in particolare dal Cun, sui criteri di valutazione della ricerca per quanto riguarda l’area umanistica. Sull’Agenzia per la valutazione il ministro punta molto, ma attualmente sembra esserci una discreta confusione sul vero ruolo che essa avrà e soprattutto quando effettivamente sarà operativa e sostituirà gli altri istituti, da tempo dichiarati decaduti. Urge un chiarimento. Sulla valutazione in area umanistica va invece segnalato un passo indietro del Cun. Se da una parte, come abbiamo visto, il Consiglio universitario nazionale ha mostrato di essere sensibile alla situazione internazionale nelle bozze di pareri elaborati da alcune sue commissioni sembra invece, inspiegabilmente, rivolgersi al passato. Alcuni criteri proposti per valutare le riviste e le pubblicazioni periodiche, ad esempio, non tengono conto delle potenzialità offerte dalle nuove vie della comunicazione scientifica. C’è però tempo e modo per rimediare, magari coinvolgendo esperti italiani e stranieri sulla materia.


cultura

30 giugno 2010 • pagina 21

Tra gli scaffali. Dai tipi di Newton Compton arriva in libreria il romanzo mozzafiato di Roberto Genovesi “La legione occulta”

L’impero romano in formato fantasy di Andrea Mancia

a legione occulta, di Roberto Genovesi, parte con il ritmo e l’atmosfera di un qualsiasi, ottimo, romanzo storico ambientato negli anni di passaggio tra la Repubblica e l’Impero romano. Ma basta una cinquantina scarsa di pagine per rivelarne i prodromi del lato più oscuro e intrigante, quello sfacciatamente fantasy. Una cerimonia druidica di evocazione degli spiriti nel bel mezzo di una foresta gallica; un bambino (salvato da un centurione dopo lo sterminio della famiglia) che dimostra di possedere poteri “speciali”; un’impari battaglia tra legionari romani e forze sovrannaturali. È così che, all’improvviso, il lettore viene catapultato in una trama fantastica - ma saldamente ancorata a precisi riferimenti storici - destinata a tenerlo in stato d’allerta fino al capitolo conclusivo.

L

La “legione occulta” che dà il titolo al romanzo è una sorta di “commando speciale” voluto prima da Giulio Cesare e poi alle dipendenze di Augusto, che ha il compito di leggere, interpretare e addirittura influenzare i segni degli dèi, intervenendo quando la forza bruta delle legioni non è sufficiente per raggiungere l’obiettivo prefissato. Al suo comando c’è Madron (lo stesso bambino “speciale”che appare all’inizio della storia) che è ormai diventato Victor Julius Felix, prefetto dell’Impero: «La corazza anatomica di lino rigido (…) sotto a un giustacuore di bronzo pareva emettere luce propria nel buio. Un lungo e liso mantello di lana grigio azzurra gli scendeva dalle spalle per andarsi ad adagiare sulla groppa della sua cavalcatura. Il tessuto era rinfor-

zato da una fodera di pelo di volpe. Le insolite brache di fattura gallica che gli coprivano le gambe terminavano all’interno di due stivali di pelliccia ed erano rinforzate alla coscia da robusti femoralia». Felix-Madron, che non parla ma si esprime con «un alfabeto della gestualità fatto di codici esoterici e arcani», ha avuto il compito di selezionare queste truppe scelte. E i suoi “uomini migliori” sono personaggi pennellati con maestria, che danno solidità e spessore al plot del romanzo.

C’è il negromante cieco Jago: «Una sagoma longilinea, avvolta in un sagum nero fino ai piedi. La pelliccia di lupo rovesciata ne copriva la testa come un gigantesco copricapo egizio. (…) All’altezza del collo brillava una fascia di bronzo che regolava l’apertura del cappuccio. E sopra, disegnata dai bordi del copricapo, una oscura voragine all’interno della quale si intravedevano a stento due fessure dal taglio felino e dai riflessi giallo ocra, molto più si-

Roberto Genovesi; il libro “La legione occulta”; un disegno di Michelangelo Pace

mili a lame di coltello che a occhi. Nella mano libera un bastone dal corpo nodoso che terminava in un’estremità arcuata». E poi Sibiam, il manipolatore di metalli, che indossa «una lunga veste fatta di scarti di pelliccia di diversa provenienza, cuciti tra loro sopra a

di scena costruito con una sapienza davvero rara nel panorama della narrativa italiana. Nei suoi “ringraziamenti”, l’autore Roberto Genovesi - che è anche giornalista, sceneggiato-

Il lettore viene catapultato in una trama fantastica, ma ben ancorata a precisi riferimenti storici, capace di tenerlo in sospeso fino al capitolo conclusivo un paio di brache di lana spessa nelle quali avrebbero potuto trovare spazio le natiche di almeno due uomini di media stazza ma che riuscivano a malapena a contenere i suoi muscoli contratti»; e i cui «lineamenti schiacciati del viso» tradiscono le origini africane. Infine Dryantilla, la veggente, con la sua «sagoma filiforme» e la postura innaturale, con «il taglio delle spalle che pendeva lievemente sulla sinistra, come se un peso ne condizionasse l’equilibrio». Al motto Vigiles in tenebris, i veggenti, gli auguri, i negromanti e gli aurispici della legione occulta si muovono come spettri sui campi da battaglia, indossando «armature bianche come la neve e tuniche nere come la notte».

Ma i loro nemici sono anche nascosti tra le pieghe della burocrazia, come il collegio sacerdotale che li giudica un pericolo per Roma e complotta contro di loro, in un crescendo di colpi

re e game designer, come lui stesso sottolinea nel sito personale (robertogenovesi.it) - spiega che il romanzo nasce «da una serie di suggestioni artistiche, letterarie, ma anche videoludiche e fumettistiche, accumulate inconsciamente nel corso di una vita», accennando perfino a una breve “discografia” che lo ha accompagnato durante la stesura dell’opera (vengono citati i Dead Can Dance, i Linkin Park e i Kasabian). Si tratta, rispettivamente, di un gruppo darkwave (filone gotico), di uno “cross-over” e di uno indie-rock (britannico). Sarà un caso, ma si tratta di tre “atmosfere”che - in parti diverse - potrebbero costituire un perfetto tappeto sonoro per la lettura del libro, come sicuramente lo sono state per la sua scrittura. Come non è certamente un caso che le “suggestioni” di fumetti e videogiochi che hanno ispirato Genovesi

rendano La legione occulta un perfetto esempio, almeno potenziale, di prodotto cross-mediale. Non è troppo difficile, infatti, immaginare una trasposizione fumettistica o videoludica del romanzo, magari un real time strategy o un sano, vecchio, gioco di ruolo semi-fantasy con un party agguerrito e di tutto rispetto (mago, chierico, negromante e quasi-guerriero).

A supportare queste potenzialità cross-mediali è sicuramente il linguaggio utilizzato dall’autore per il suo romanzo: moderno senza mai essere sciatto; “giovane” senza mai scadere nel banale. Appiattirsi sui “classici”, in questo caso, sarebbe stato un errore fatale. Provate a leggere, oggi, le prime cinquanta pagine della straordinaria saga che ha “creato” il genere fantasy, quella del Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien. Si riesce a sopravvivere soltanto perché già sappiamo quali meraviglie ci aspettino nei tre libri che hanno cambiato la storia del genere fantastico (e non solo). Ma siamo pronti a scommettere che nessuno dei teenager che si è avvicinato a The Lord of the Rings dopo l’ottima trasposizione cinematografica di Peter Jackson sia riuscito a rimanere sveglio durante quelle interminabili, minuziose, splendide e noiosissime cinquanta pagine. La legione occulta, con il suo linguaggio veloce e aggressivo, inchioda il lettore - anche quello più giovane o meno avvezzo al genere fantasy - alla storia e ai personaggi che le danno vita. Senza mai annoiare e senza mai deludere le aspettative. Un libro, insomma, assolutamente da leggere. E, speriamo presto, anche da vedere e da giocare.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE

Il federalismo di PinocchioBerlusconi e la dieta di Gelmini Federalista a parole, centralista nei fatti: ecco il governo contro il quale sono scesi in piazza perfino i sindaci del centrodestra, perché con la manovra Tremonti i comuni dovranno spiegare alle famiglie che avranno meno servizi, meno aiuti e meno opportunità. Piuttosto che tagliare drasticamente le risorse agli enti locali, il Partito democratico chiede di risparmiare sugli elefantiaci apparati ministeriali. Cominciamo con lo snellire la macchina della burocrazia centralista, trasferendo da subito le competenze degli uffici scolastici regionali del ministero dell’Istruzione alle regioni. Una bella cura dimagrante per il ministero della Gelmini che darebbe la possibilità ai comuni di continuare a garantire posti sufficienti negli asili nido e nelle scuole comunali dell’infanzia, contributi per mense e trasporto scolastico, interventi per il diritto allo studio, sostegno ai bambini diversamente abili. Infine, se il governo vuole davvero aiutare gli oltre ottomila comuni italiani, dovrebbe escludere dal “patto di stabilità” le spese per l’edilizia scolastica. Consentendo ai comuni di aprire migliaia di piccoli cantieri per mettere a norma e rinnovare le strutture scolastiche, si darebbe vita a un circolo virtuoso per l’economia del nostro Paese con la creazione di nuovi posti di lavoro in ogni regione.

Francesca Puglisi

BENE GDF SU MAXISEQUESTRO FALSO MURANO MADE IN CHINA Un paluso alla Guardia di finanza di Venezia, che ha sequestrato undici milioni di articoli “made in China” spacciati per oggetti di Murano. Sono operazioni importanti, che aiutano l’economia buona e quegli imprenditori onesti che lavorano rispettando le regole. In questo modo si può disinnescare un sistema fraudolento che sfrutta la manodopera a basso costo di Paesi come la Cina e pratica un’evidente concorrenza sleale. Gli oggetti venivano acquistati da tre aziende – due a Murano e una a Jesolo – e poi rivenduti con il marchio “Murano Glass”a prezzi decisamente inferiori rispetto a quelli di mercato. Abbiamo il dovere di sostenere le aziende in regola e l’intero tessuto economico della regione, fatto di produzioni di eccellenza come gli oggetti di

Murano, simbolo di un made in Italy e di un made in Veneto di qualità. Le Fiamme Gialle devono continuare con l’impegno di sempre nelle loro attività a tutela dei cittadini e degli imprenditori onesti.

Gabriella Tonon

AIUTIAMO LE FAMIGLIE SEMPRE PIÙ POVERE E NUMEROSE È stato riconosciuto da tutti il ruolo di ammortizzatore sociale svolto dalla famiglia in questa lunga e difficile crisi economica e finanziaria, perché ha sostenuto l’emergenza aiutando il proprio componente senza lavoro e i giovani che attendono di avere un’occupazione. La manovra del governo per ridurre il debito non aiuta la crescita, e quindi non crea sviluppo e occupazione per i giovani che restano nella famiglia, non aiuta il ritorno al lavoro di chi

A pelo d’acqua Queste biciclette sembrano poter galleggiare sulla superficie del fiume. L’originale installazione è stata creata per il passaggio del Giro d’Italia a Schalkwijk (Paesi Bassi). Alle bici galleggianti aveva già pensato qualcuno nel 2009: Li Weiguo, un signore cinese, ha inventato un kit per rendere inaffondabile anche una comune bicicletta

l’ha perso aggravando i bilanci familiari, non permette politiche di sostegno alla famiglia in quanto tale con i tagli a regioni e comuni. Le famiglie, così, sono costrette ad intaccare i risparmi per campare e chi non ha riserve ricorre sempre più alle mense sociali. La manovra non è equa perché il governo taglia agli altri, lasciando invariato il proprio livello di spesa cresciuto del 50% negli ultimi 15 anni. Non ci si prenda in giro con il taglio del 10% dell’indennità dei parlamentari che significa 400 euro in meno nelle tasche di deputati

L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

e senatori e un risparmio di 1 milione al mese o poco più. Diminuisca piuttosto il numero di parlamentari sempre annunciato e mai fatto o le province, le unioni dei comuni, le migliaia di enti e istituzioni nazionali, regionali e locali, dove allocano centinaia di migliaia di amici. Tassi le fondazioni, le rendite finanziarie e tutte le attività speculative, accogliendo l’emendamento Udc dell’on. Rocco Buttiglione alla finanziaria, provvedimento che permetterebbe di introitare 8 mld di euro.

Luca Marconi

da ”The Moscow Times” del 29/06/10

Guarda, un ceceno su internet nche i leader ceceni vogliono apparire sul web. La blogosfera sta attirando un po’ tutti anche personaggio con una scarsa dimestichezza con i linguaggi della rete. E l’esempio è arrivato dall’alto, dalle stanze del Cremlino, come segno di modernità. Appropriarsi dei nuovi linguaggi come quelli della rete per apparire meno distanti dal popolo. Il presidente della repubblica cecena Ramzan Kadyrov ha aperto un blog. Ma l’effetto non sembra essere stato quello voluto. Sì, perché la blogosfera russa ha subito messo in ridicolo la figura del politico e la sua iniziativa.

A

Kadyrov ha confermato dal suo sito ufficiale Ramzan-Kadyrov.ru, che «Ya Kadyrov», cioè «Io sono Kadyrov» è il suo blog ufficiale. Non è uno dei tanti casi di furto d’identità così comuni nella rete. Falsi siti di politici russi, come dello stesso presidente ceceno, ne esistono numerosi. Nell’unico post pubblicato venerdì scorso sul blog, il leader politico ha invitato i lettori a condividere le loro idee con lui. Una cortese offerta visto che il politico si considera una persona «veramente a modo». Il blog è aperto ai commenti, ma fino a lunedì ne erano stati scritti solo un paio: delle congratulazioni di circostanza in lingua cecena. Deferenza telecomandata. Però sul sito del presidente si può leggere che «il blog sta diventando sempre più popolare» e che «già poteva contare 4mila visite». Si sa che è necessario caricare un po’ i messaggi promozionali nel periodo di lancio sul web, ma forse in questo caso si è esagerato un po’. Un esercito di bloggers ha subito avviato una campagna, che in gergo si chiama di «trolling», cioè saturando il sito con

di Greta Mavica

messaggi d’insulti e dileggio, diretti al politico poco avvezzo alle critiche dirette. Una specie di boicottaggio “democratico”.

E qualcun altro, domenica, ha avuto la bella idea di aprire un blog «Nyet,Ya Kayrov», tanto per restare nell’ambito della garbata ironia. Si tratta

di una copia di quello originale, anche con le stesse foto. «Ramzan, chi ti scrive i testi?» si legge in un messaggio lasciato da un blogger scettico. Ma qualche ragione deve averla avuta, il nostro internauta. Infatti nel sito originale si possono leggere dei testi scritti in terza persona. Insomma, deferenza da ghost writer caucasico. In pratica il gestore esterno del blog avrebbe fatto qualche marchiano errore di comunicazione. Naturalmente certe cose nella blogosfera non sfuggono a degli attenti frequentatori e si paga pegno. La caustica ironia, lo sbeffeggiamento, il giudizio senza filtri possono essere il prezzo da scontare per la volontà di esporsi a un giudizio non guidato e relativamente libero.

Sia Timur Aliyev, assistente speciale di Kadyrov che l’ufficio stampa presidenziale, lunedì, non hanno saputo specificare se il blog Ya-Kadyrov.livejournal.com fosse gestito direttamente dal leader ceceno, oppure dai suoi assistenti. Un vero dilemma per il popolo del web che si esprime con l’alfabeto cirillico. Il presidente russo Dmitry Medvedev, che ha già un suo blog personale, ha incoraggiato tutti i leader regionali ad aprirne uno, entrando in contatto con i propri concittadini. I governatori russi di Perm, Astrakhan e Kirov sono tra quelli che hanno seguito il consiglio presidenziale. Ma l’inquilino del Cremlino è andato anche oltre, perché gestisce anche un video-blog e durante il viaggio negli Stati Uniti, la settimana scorsa, ha aperto anche un account di micro-blogging su Twitter. Il ”virus” informatico, l’amore per la comunicazione sulla rete, dunque sembra che sia partito dall’alto. Tutti pazzi per internet allora.


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog

dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Proprio tu mi accusi di violazione... Franco, chi ti ha dato il permesso di pubblicare i miei ritratti e la lettera inedita di Dino? Codesta lettera doveva evidentemente essere fra le tante carte che tu hai sottratto dal mio armadio prima di lasciare la soffitta. E come mai tu, letterato, interpreti l’ultima frase di tale lettera come una disposizione testamentaria*, mentre è semplicemente il singhiozzo di un poeta. E tu, proprio, tu, mi accusi di violazione! Io diedi il consenso, l’anno scorso, della pubblicazione al caro nobilissimo Niccolò Gallo dopo due anni di insistenza, ma feci precedere la nota (che pochi hanno rilevata, e neppure tu quanto sembra), nella quale avvertivo di non volere in alcun modo partecipare ad un eventuale guadagno per la pubblicazione. Mentre tu ora un certo guadagno avrai tratto da questo articolo che non ti onora povero Franco! È proprio destino, anche dopo un decennio, che tu debba darmi prova della tua insensibilità morale. E ancora una volta, verso la fine della mia dura vita, io debbo constatare l’enormità del mio errore a tuo riguardo Sibilla Aleramo a Franco Matacotta

LE VERITÀ NASCOSTE

Da Singapore parte l’islam “glamour” SINGAPORE. Se le avventure delle quattro iper-occidentali di Sex & the City sono approdate negli Emirati arabi, è giusto che il mondo musulmano esprima il proprio concetto di glamour. E a fare da apripista ci ha pensato Singapore, che ha lanciato Aquila Asia magazine, una nuova rivista patinata femminile lanciata a Singapore. E indirizzata alle donne musulmane.Tutti articoli in inglese nei quali, accanto alla promozione di costose borsette o di auto di lusso, viene affrontato il tema della verginità o della ricostruzione dell’imene. E dove le modelle appaiono rigorosamente velate secondo i precetti dell’islam, ma anche i dettami della moda. A fondare la rivista bimensile è stata Liana Rosnita, musulmana originaria di Singapore e sposata con uno svizzero. Diretta alle “donne musulmane cosmopolite” nel sud est asiatico, il magazine ha gli uffici centrali a Singapore e quelli editoriali a Jakarta (capitale dell’Indonesia, Paese musulmano più popoloso al mondo). «Non lavoriamo in base alla tradizionale scuola di pensiero - ha detto Liana - e sbagliano le persone che pensano che i musulmani oggi siano arretrati, o tradizionalisti, o non abbiano una vita sessuale, o non siano interessati a fare carriera. Non è proprio il nostro caso». Definendo la rivista “Aquila” (che in arabo significa intelligenza) come «un ibrido tra l’americana Cosmopolitan e Tatler», Liana dice che le altre riviste musulmane in Asia si concentrano maggiormente sulla religione che sugli stili di vita dei lettori. «In Indonesia, per esempio, abbiamo quattro diverse riviste per il mercato musulmano. Ma tutte e quattro sono molto sbilanciate sulla religione. Non vedi nessuna modella». Ingrediente che invece risulta fondamentale, se vuoi lanciare il tuo Islam & the City.

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

A PROPOSITO DELLA RIFORMA DELLE PROFESSIONI-ASSOCIAZIONI Le commissioni Giustizia e Attività Produttive hanno dato il via libera alla riforma delle professioni ordinistiche da quella che riguarda le associazioni. È stata così condivisa l’esigenza di pervenire a due leggi diverse e separate, che disciplinino le professioni intellettuali ordinistiche (con una legge “ad hoc”di riforma), e quelle non riconosciute (costituite in associazioni), ancora da disciplinare, con due iter diversi, autonomi ed indipendenti. Un passo importante del Parlamento, finalizzato a dare nuove regole e trasparenza alle professioni, nell’ambito dell’applicazione dell’art.33 della carta Costituzionale. In questo modo si pone fine alla confusione che si è creata negli anni passati in materia, in particolare sotto il precedente governo, come conseguenza di una erronea impostazione data dall’ex ministro Bersani, che ha sempre confuso l’attività professionale con l’impresa. Dal punto di vista formale la proposta prevede il disabbinamento di alcune delle proposte di legge abbinate e la successiva riassegnazione delle stesse alle singole commissioni Giustizia e Attività produttive, secondo le rispettive competenze. Questo risultato politico rappresenta una tappa importante della riforma, che persegue la giusta logica di esaminare le proposte di legge nelle commissioni parlamentari di competenza: quella degli ordini e collegi nella commissione Giustizia (ricadendo, questi ultimi, sotto il controllo del ministero della Giustizia) e quella delle associazioni nella commissione Attività Produttive (competente in materia).

Maria Grazia Siliquini

Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Robert Kagan, Filippo La Porta,

Direttore da Washington Michael Novak

Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,

Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)

Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Collaboratori

Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,

Maria Pia Ammirati, Mario Arpino,

Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,

Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi,

Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,

Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,

Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,

VERSO IL PARTITO DELLA NAZIONE: UN’ALTRA ITALIA È POSSIBILE (II PARTE) Urge un’opera di riforma fondata su una visione di società più giusta e più equa, in cui la persona rappresenti il centro di ogni dinamica. Una riforma della giustizia che riduca il tempo dei processi penali e civili. La giustizia deve tornare ad essere, oltre che potere, anche pubblico servizio a tutela dei cittadini. Così non ci sarebbero più alibi per chi compie degli illeciti. Una riforma della pubblica amministrazione all’insegna dell’efficienza e della legalità. Ponendo attenzione all’efficienza gestionale dei servizi e prevedendo forme di responsabilità per gli amministratori e i dirigenti che sbagliano, non solo in caso di dolo, ma anche di evidenti casi di cattiva amministrazione e sperpero di denaro pubblico. Il federalismo non è un tabù. Può rappresentare la realizzazione del principio di sussidiarietà. Orizzontale, avvicinando ai cittadini i centri decisionali e gli strumenti di controllo, e verticale, per fare si che sì che non si replichino a livello di enti locali fenomeni di centralismo, coinvolgendo nella erogazione dei servizi (educazione, sanità, servizi sociali, ambiente) tutta una serie di soggetti privati, reti di volontariato, associazioni no profit. Bisogna ridare l’Italia agli italiani, impiegando le forze migliori della società civile. Bisogna rivoluzionare la formazione all’insegna del merito. Si può, ad esempio, ripensare su scala nazionale l’esperienza del buono scuola sperimentata in Lombardia, affinché l’intervento privato diventi uno stimolo per tutti. Compito dello Stato è quello di garantire la qualità della formazione e di indicare dei percorsi di crescita degli studenti fondati sul merito. Lo studio e l’impegno devono tornare a rappresentare nel sentire comune il giusto viatico per la realizzazione personale. Invertendo la tendenza che vuole molti giovani alla ricerca del facile guadagno e dell’arricchimento senza fatica. Bisogna affrontare il tema del lavoro, restituendo dignità ai lavoratori e alle loro famiglie. Ma la questione del lavoro non è rappresentata solo dal lavoro dipendente. Bisogna pensare anche ai tanti piccoli commercianti, artigiani, microimprenditori, che rappresentano la spina dorsale del sistema economico italiano, e che oggi si sentono vessati dalla burocrazia e dal peso di una fiscalità spesso sproporzionata rispetto alla qualità dei servizi che ricevono in cambio. Una società più equa è possibile, ma è necessario il contributo di tutte le forze responsabili della politica e della società civile. Mario Angiolillo P R E S I D E N T E NA Z I O N A L E LI B E R A L GI O V A N I

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ULTIMAPAGINA Eccellenze. “Viaggio” a Città del Capo, Constantia e Stellembosch, dove i calici si riempiono di storia e qualità

E il Sudafrica vinse i Mondiali di Livia Belardelli on c’è più molto da brindare, è vero. Non festeggeremo i Mondiali con un buon calice di vino italiano ed è assai probabile che non li avremmo festeggiati con un vino sudafricano. Anche perché chi li conosce i vini sudafricani? Magari adesso siamo tutti involontariamente eruditi - ahi noi - sulla trombetta tradizionale, la minacciosa e fastidiosissima vuvuzela, ma sull’enografia della zona più estrema dell’Africa permane ancora un velo di impenetrabile ignoranza. Alzi la mano chi conosce il taglio del Capo? E chi ha mai bevuto un Pinotage? Eppure la tradizione vitivinicola sudafricana vanta 350 anni di storia. E forse, per un brindisi a una finale mondiale che non ci vedrà protagonisti, per chi ha scelto il Sudafrica come meta di un viaggio estivo o per chi, semplicemente, magari attratto in primis dalla competizione calcistica, ha deciso di approfondire usi e costumi locali, vale la pena di saperne qualcosa di più. E se non per questo, semplicemente perché questi vini hanno un eccezionale rapporto qualità-prezzo. La zona di elezione del vino sudafricano è quella dove l’Italia ha giocato la sua prima partita contro il Paraguay, l’area di Città del Capo, Constantia e Stellembosch.

N

Tutto ebbe inizio in queste zone quando la Compagnia Olandese delle Indie Orientali si insediò qui per procurare cibo e bevande ai mercanti in rotta verso Oriente. I primi tentativi da parte degli olandesi - si sa che di vino non sono propriamente degli intenditori - non ebbero grandi risultati anche se a loro si deve la prima bottiglia di vino africano, prodotta nel 1659. Saranno gli Ugonotti francesi, scampati alle persecuzioni religiose, a dare una sterzata positiva alla produzione, grazie alle innovative tecniche di vinificazione introdotte nel paese e alle approfondite conoscenze in materia - quelle stesse conoscenze che danno filo da torcere anche a noi italiani che non possiamo vantare quei 300 anni di storia vinicola che (in Francia!) fanno la differenza. Per i patrioti più pervicaci - quelli che anche di fronte alla paralisi calcistica del Belpaese mantengono schiena dritta e sguardo fiero senza tradire accenni di vergogna - possiamo immaginare un bel match ItaliaFrancia che ci vedrebbe vincitori per 1-0 sul campo dei vini di fascia media. In quel settore i“cugini”hanno un po’tirato il freno a mano ma sui grandi vini, beh, non possiamo aspettarci nemmeno un pareggio. Chiusa la parentesi francese, torniamo al Sudafrica. La Penisola del Capo, dicevo, è certamente la zona più vocata. È qui che i latifondisti bianchi producevano il vino, incontrastati, fino al 1994 con la fine dell’apartheid che ha sdoganato il vino sudafricano portando le esportazioni dai 50 milioni di litri di un quindicennio fa ai 407 milioni attuali. In Italia, nonostante il boom del-

del VINO La zona di elezione è quella dove l’Italia ha giocato la sua prima partita contro il Paraguay. Tra le aziende che importano bottiglie pregiate, la Idiom (che produce ottimi bordeaux style blend) e la Belbon Hills (che propone il Gewürztraminer) le esportazioni, è ancora difficile trovare questi vini. Così, se non volete andare alla montagna anche se le zone vinicole sudafricane offrono, specie vicino a Città del Capo, diverse strade del vino di grande fascino sia per il palato che per la vista di panorami mozzafiato - a portare la montagna a Maometto ci pensa Afri Wines, azienda di importazione e distribuzione che, tra le poche in Italia, ha creduto in questo business, forse anche in vista dell’occasione Mondiale. Così, parlando con Roberto Coggiatti che, insieme a Fabio Albani, importa in Italia questi vini, ho scoperto qualcosa in più su cosa si può degustare. Tra le aziende spicca tra tutte Idiom che, con sole 8.000 bottiglie annue, produce vini di grande qualità, tra cui un bordeaux style blend (taglio bordolese“esportato”dai francesi in mezzo mondo) ma anche un Cape style blend che al Cabernet Franc del taglio bordolese sostituisce il Pinotage, l’autoctono sudafricano per eccellenza, intrigante in unione con altri vitigni ma non troppo convincente se vinificato in purezza (c’è chi lo chiama il fratello scemo del Pinot noir). In purezza, sempre di Idiom, è invece notevole il Viognier, vitigno che, al contrario, in Italia è usato per la sua struttura come spalla di autoctoni siciliani come Insolia, Grillo e Catarratto. Tra le altre aziende importate, pregevole è Belbon Hills. Nata nel 1934, possiede 100 ettari

di vigneti e produce, tra gli altri, un piacevole Gewürztraminer (particolarmente piacevole per il prezzo), di impronta francese (più dolce dei nostri, simile ai Gewürztraminer alsaziani) adatto per aperitivi estivi. Infine c’è la cantina Linthon Park - i suoi vini sono i più venduti - che deve il successo a una curiosa trovata: devolvere parte dei guadagni per ogni bottiglia alla salvaguardia del rinoceronte sudafricano.

Tra le curiosità raccontate da Coggiatti colpisce un’accortezza a noi dedicata: il tappo di sughero per il mercato italiano. Se per quello sudafricano e anche per quello inglese il tappo di molti vini è a vite (come per le nostre bottiglie d’olio per intenderci), per il mercato italiano è d’obbligo il tappo in sughero. «È una questione psicologica e culturale» ci spiega, «in Italia il tappo a vite è associato a scarsa qualità, a vini sottocosto. Così, nonostante siamo convinti che per alcuni vini di pronta beva questo tappo conservi meglio aromi e profumi, per il mercato italiano preferiamo utilizzare il tappo di sughero». Ma in fondo, adesso che il primato calcistico è andato a farsi benedire, che almeno ci lascino giocare con il nostro apribottiglie. Magari, per non fare quelli con la puzza sotto il naso - che tra l’altro ci impedirebbe di apprezzare odori e aromi - con quel cavatappi ci apriremo una bottiglia di taglio del Capo. Non sempre. Ma adesso sì, magari davanti alla finale di Coppa del Mondo che si terrà a Johannesburg, zona decisamente meno vocata della punta meridionale del continente africano.


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