Gli infelici, non avendo nient’altro, solitamente si attaccano alla morale
he di cronac
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Marcel Proust 9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 8 LUGLIO 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Cinquemila in corteo a Roma, assediato Palazzo Grazioli. Scontri con le forze dell’ordine: due feriti
Il tradimento dell’Aquila
Terremotati in piazza: «Siamo abbandonati e carichi di tasse». Il governo Il Colle al “Fatto” e al “Giornale”: che all’inizio si era mosso bene ora ha dimenticato l’Abruzzo «Provocazioni IL VOLTAFACCIA
e calunnie»
PARLA CIALENTE
Tutte quelle Il sindaco: promesse «Non c’è più non mantenute un euro»
Dura nota di Napolitano in risposta a quanto riportato ieri dai due quotidiani: «Rigorosamente estraneo alla discussione» Giancristiano Desiderio • pagina 7
di Marco Palombi
di Franco Insardà
La gente ha cominciato a togliersi la sveglia dal collo il 6 aprile, ad un anno esatto dalla notte che ha cambiato la storia dell’Aquila. Alla seduta straordinaria del Consiglio comunale convocata per commemorare le vittime del sisma arrivò un messaggio di Berlusconi elogiativo dell’operato del governo. I cittadini cominciarono a fischiare.
«È la seconda volta che vado in Senato, speriamo che sia quella buona». Massimo Cialente lascia la testa del corteo in via delle Botteghe Oscure e con il senatore Enzo Lombardi del Pdl ed ex sindaco de L’Aquila, si avvia trafelato verso Palazzo Madama. Durante il tragitto continua a ribadire le richieste che gli aquilani fanno da mesi.
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Rissa in Aula tra Pdl e Idv: Barbato finisce in ospedale
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L’esecutivo chiederà la fiducia a Camera e Senato: «I saldi della manovra restano intangibili»
Regioni, prima vittoria
Tensioni durante la disussione sul ddl Meloni sulle comunità giovanili. Il dipietrista è stato colpito con un pugno al volto
Governatori, sindaci e presidenti delle Province costringono Berlusconi a trattare. L’incontro con il premier e Tremonti fissato per venerdì ANCHE COMUNI E PROVINCE
I DOLORI DEL MINISTRO
Sta scoppiando L’assedio la rivolta contro delle periferie Giulio-Custer
seg1,00 ue a p(10,00 agina 9 CON EURO
I QUADERNI)
di Francesco Pacifico
di Gianfranco Polillo
Formigoni non si affida a giri di parole: «Con i tagli della manovra che colpiscono i trasferimenti alle materie devolute dalla Bassanini, e che dovevano essere trasformati in tributi, che senso ha parlare di costi standard o di imposte. Il federalismo fiscale è morto». E tanto basta per capire che più che sulla Finanziaria lo scontro sarà lungo.
C’è chi invoca il 2004. Altri che temono le conseguenze delle eventuali dimissioni di Tremonti. Allora il superministro scivolò su una tabella che riassumeva i termini della manovra appena pensata. Un errore della Ragioneria generale, guidata da Grilli, come si disse. Il pretesto per porre fine ad un braccio di ferro, che durava da tempo.
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• ANNO XV •
NUMERO
131 •
Riccardo Paradisi • pagina 6
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
«Un bavaglio che penalizza anche i piccoli» Come la maggior parte dei quotidiani, domani liberal non sarà in edicola perché aderisce allo sciopero nazionale dell’informazione Alessandro D’Amato • pagina 10 19.30
prima pagina
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Proteste. In piazza anche Di Pietro, Pannella e Bersani, contestato dalla folla, che si sono detti d’accordo con la tassa di scopo
Terremotati e bastonati
Tensione e tafferugli con le forze dell’ordine nelle strade del centro di Roma. Due manifestanti feriti. E dal governo arriva qualche segnale di Francesco De Felice
ROMA. Questa volta i palazzi romani si sono accorti di loro. Ma soltanto perché cinquemila aquilani hanno invaso e paralizzato il centro della città. Da piazza Venezia a via del Corso e poi a piazza Navona, la Capitale è apparsa a metà mattinata un lungo serpentone tra bandiere verde e nero e striscioni per esprimere la rabbia e la frustrazione dopo mesi di promesse non mantenute. Alla testa del corteo c’erano 53 sindaci con tanto di gonfaloni e fasce tricolore su un totale di 57 del cratere. Sia a inizio mattinata sia nel primo pomeriggio i manifestanti hanno rivolto la loro protesta verso palazzo
Grazioli, anche con un tentativo di forzare il cordone di forze dell’ordine, subito rientrato per la mediazione del sindaco Cialente. Berlusconi erano impegnato in corso vertici serrati su tutte le vicende più complicate che tengono sulle spine il governo: dal ddl intercettazioni alle richieste degli enti locali per la manovra al lodo Alfano.
E ieri è arrivata sul tavolo di Berlusconi anche la vicenda della ricostruzione aquilana. Un capitolo che ha visto il premier impegnato nella prima fase e che gli ha dato una grande popolarita, ma che oggi rischia di creargli ulteriori problemi.
In un clima così non poteva mancare dei tafferugli per una serie di incomprensioni che hanno surriscaldato gli animi, complice anche il caldo torrido. Da piazza Venezia gli aquilani si sono diretti verso Montecitorio, ma la piazza era già occupata dalle associazioni dei disabili che contestavano l’aumento dei tetti di invalidità. E almeno loro hanno ottenuto il risultato di far saltare l’articolo della manovra. I comitati aquilani, organizzatori della manifestazione, dopo un iniziale disorientamento, hanno deciso di fermarsi a pochi metri da Palazzo Chigi per far sentire la loro voce al gover-
no. Lo hanno fatto con uno speaker’s corner, organizzato con un furgone sul quale erano stati montati degli altoparlanti, al quale si sono alternati, tra le contestazioni, il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, il leader dei radicali, Marco Pannella e tanti aquilani.
Bersani ha concordato con i manifestanti che «la cortina mediatica che è stata messa davanti a voi è stata messa anche davanti a noi. Per l’Aquila servono soldi subito. Serve una legge chiara con certezze finanziarie come per tutti gli altri terremotati e le risorse devono essere trovate anche con
tasse straordinarie. Per noi l’Aquila è ora la priorità numero uno». Bersani, nel pomeriggio di ieri, ha rivendicato la scelta di andare in piazza tra i terremotati, nonostante le contestazioni subite: «Io vado dove sono i problemi. Un governo che non ci va e che non riceve chi protesta non è un governo degno di questo nome». Sulla tassa di scopo si è detto d’accordo anche Antonio Di Pietro, sceso anche lui in piazza, che ha aggiunto: «L’abbiamo inserita nei nostri emendamenti alla manovra finanzia-
prima pagina ria». Mentre Marco Pannella ha detto: «Prendo atto delle dichiarazioni di Bersani sulla tassa di scopo che tra noi abbiamo auspicato nel nostro meeting dello scorso fine settimana tenutosi a L’Aquila». In piazza Colonna c’era anche un altro abruzzese di peso come l’ex presidente del Senato Franco Marini che non ha nascosto a liberal la sua soddisfazione per essere riuscito a «far approvare un emendamento bipartisan in commissione Bilancio del Senato, accolto dal relatore di maggioranza, che istituisce la zona franca per 45 più 45 milioni per i prossimi due anni. Un buon risultato, ma gli aquilani hanno mille ragioni per continuare a protestare».
Del terremoto si è, ovviamente, discusso anche in Aula e Pier Ferdinando Casini è intervenuto per invitare tutti i
Appello di Casini: «Non dividiamoci sull’Aquila, tolta dalla quotidianità dei tg, ma drammaticamente sempre presente» parlamentari a prendere a cuore la situazione dell’Aquila «tolta dalla quotidianità dei tg, ma sempre drammaticamente presente. Togliere dalle tende migliaia di persone e costruire delle case come ha fatto questo governo, è un fatto molto positivo. Ma proprio perché riconosciamo al governo quanto fatto, allo stesso modo dobbiamo capire che nella disperazione dei cittadini aquilani non c’è strumentalità, non c’è faziosità, ma la consapevolezza di avere davanti a se una città morta». Casini si è rivolto a tutti i parlamentari, in particolare agli abruzzesi, anche nella maggioranza, invitando tutti a «non abbandonare’ L’Aquila». Il leader dell’Udc ha preso la parola dopo Giovanni Lolli, deputato aquilano del Pd, uno dei più attivi nelle manifestazioni aquilane, che ieri al fianco del sindaco Cialente si è trovato al cento degli scontri e propri su questo episodio ha detto: «Ho preso anche io
qualche manganellata, ma non sentirete mai da me una parola di critica su poliziotti e carabinieri che erano lì a fare il proprio dovere. Apprezziamo la tempestività del ministro Maroni che ha indetto una riunione al Viminale per capire come siano andate le cose durante la manifestazione. Noi non avremo mai parole di critica nei confronti delle forze dell’ordine che stavano in piazza: per noi resta aperto e grave il tema della responsabilità politica di questo governo che ha rifiutato di incontrare una delegazioni di manifestanti». E ha voluto chiudere l’episodio con una battuta: «Mi hanno telefonato da L’Aquila dicendomi che si era diffusa la notizia che io e Cialente eravamo stati picchiati e io ho detto che qualche concittadino avrà certamente commentato: hanno fatto bene».
I comitati aquilani hanno ribadito la loro posizione: «Non vogliamo solo palliativi, ma serve innanzitutto una legge organica per la ricostruzione, con fondi e tempi certi. Qui la situazione va affrontata una volta per tutte e non di sei mesi in sei mesi. Così non si fa neanche la lista della spesa, figuriamoci una ricostruzione. Siamo pronti alla lotta, ma non vogliamo tornare qui fra sei mesi a manifestare di nuovo». Secondo i manifestanti i politici «devono rendersi conto delle difficoltà indicibili nelle quali viviamo e non è possibile che scoprano e si meraviglino di fronte ai nostri racconti, come è’ accaduto oggi con diversi parlamentari ai quali la delegazione aquilana ha illustrato la situazione. Questi politici farebbero bene ad informarsi costantemente, ma per una informazione veritiera certamente non devono guardare i Tg che non informano». Le proteste degli aquilani, i “fischietti”che Frattini ha detto di sentire durante il vertice a Palazzo Grazioli forse sono riusciti a smuovere qualcosa, al punto che lo stesso ministro degli Esteri, alla fine dell’incontro del Pd ha detto: «Tremonti deve parlare con la Finocchiaro per vedere di capire se si può accogliere questa richiesta sulle tasse». Alcuni momenti della giornata particolare che i terremotati aquilani hanno vissuto ieri a Roma: tra scontri, cortei e incontri con esponenti politici Un Sos lanciato per la sospensione delle tasse, l’occupazione e il sostegno all’economia
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Una giornata particolare per Massimo Cialente tra la piazza e i Palazzi
«Siamo esasperati, ci hanno dimenticato»
«Speriamo che si riesca a introdurre in zona Cesarini l’emendamento per la riduzione e la dilazione delle tasse» di Franco Insardà
ROMA. «È la seconda volta che vado in Senato, speriamo che sia quella buona». Massimo Cialente lascia la testa del corteo in via delle Botteghe Oscure e con il senatore Enzo Lombardi del Pdl ed ex sindaco de L’Aquila, si avvia trafelato verso Palazzo Madama. Durante il tragitto continua a ribadire le richieste che gli aquilani fanno da mesi e spera che «in zona Cesarini la commissione Bilancio del Senato possa inserire un emendamento che consenta la restituzione solo del 40 per cento delle tasse sospese nei mesi scorsi,c on una copertura pari a 250 milioni l’anno. Si tratta sicuramente di un passo avanti anche se non soddisfa tutte le nostre richieste». Spintoni e urla a piazza Venezia, incontri in Senato e di nuovo alla testa dei suoi concittadini in piazza Navona. La giornata romana di Massimo Cialente è stata molto movimentata, ma lui non si ferma. ha guidato il corteo, con tanto di fascia tricolore, che nel primo pomeriggio da piazza Colonna si è diretto a piazza Navona. Sindaco, oggi indossa la fascia? Soltanto per guidare il corteo, poi la toglierò, come al solito. Questa mia forma di protesta continuerà fino a quando la situazione de L’Aquila non cambierà. Alla testa dei suoi cittadini come in mattinata a piazza Venezia, quando si parlava di scontri violenti nei quali lei era rimasto ferito, invece? Si è trattato solo di qualche spintone di troppo, purtroppo ci è scappata anche la manganellata che ha ferito due ragazzi. Ho avuto un pestone e per questo sono un po’ claudicante. Mi sono trovato in mezzo e ho cercato di sedare gli animi. Oggi è andato in scena il dolore e il terrore di una città e quello che è accaduto, ovvero caricare gente tranquilla che vuole solo manifestare non è stato uno spettacolo edificante Da questo a far passare gli aquilani per gente violenta ce ne vuole. Non è bastato il terremoto, ora anche le botte. Non mi aspettavo gli scontri, siamo gente tranquilla anche se disperata. Più che violenta, esasperata... Questo sì.Trovarsi dopo quindici mesi in questa situazione fa perdere la calma a chiunque. Eppure è passato solo un anno dai giorni del G8 e da quando, nel momento della commozione collettiva, tutti i rappresentanti politici e di governo venivano all’Aquila a incontrami. È dovuto intervenire anche per calmare
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gli animi di quelli che hanno assediato Palazzo Grazioli. Un episodio minore che denota, però, che la situazione è grave e potrebbe degenerare, Facciamo il punto della situazione. Ci sono ancora trentaduemila sfollati, molti hanno perso il lavoro e quasi in ogni famiglia c’è un cassaintegrato. Se a questo aggiungiamo che il commercio e l’artigianato è in via d’estinzione il quadro è completo. In mattinata ha incontrato il presidente del Senato Schifani, com’è andata? Ha compreso le ragioni della nostra protesta e dell’impossibilità che abbiamo a restituire il 100 per cento delle tasse in cinque anni. A conti fatti su uno stipendio di mille ci sarebbe una trattenuta di 240 euro per i prossimi cinque anni. Un dato che ha impressionato lo stesso presidente del Senato, al quale abbiamo poi illustrato il problema della mancanza assoluta di liquidità e l’emergenza ricostruzione con la necessità di stabilire un programma ben preciso e con fondi certi. Avete incontrato altri senatori? Con me c’erano molti parlamentari abruzzesi e abbiamo illustrato le nostre richieste ai capigruppo al Senato del Pd, Anna Finocchiaro, dell’Udc Gianpiero D’Alia e dell’Idv Belisario. Tante proteste, ma finora non avete ottenuto nulla? Solo la dilazione delle tasse in cinque anni. E martedì in commissione Bilancio del Senato è stato approvato un emendamento bipartisan proposto dall’ex presidente Franco Marini per l’istituzione della zona franca finanziata per i prossimi quattro anni. Un buon risultato. Sì, ma gli aquilani sono stanchi di venire periodicamente a Roma con il cappello in mano a chiedere l’elemosina. Lo diciamo da tempo: vogliamo una legge che stabilisca le regole e i fondi per la ricostruzione. L’Aquila così non ha futuro. A fine giornata Cialente sembra meno ottimista e conclude: «Risultati concreti pochi. Ho parlato con il sottosegretario Letta e mi ha detto che Berlusconi è possibilista sul fatto che gli aquilani inizino a pagare le tasse dal primo gennaio 2011 restituendo solo il 40 per cento e in dieci anni. Ora la parola spetta a Tremonti. Se ci sarà un suo via libera questa ipotesi diventerà realtà»
Trovarsi dopo quindici mesi in questa situazione fa perdere la calma a chiunque. C’è la mancanza assoluta di liquidità e l’emergenza ricostruzione senza un programma preciso e con fondi certi
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l’approfondimento
A poco più di un anno dalla tragedia, L’Aquila non riparte. Intanto aumentano pedaggi stradali, mutui e bollette
La città morta
Dai tempi di consegna delle nuove abitazioni alla ristrutturazione di quelle lesionate dal terremoto, passando per la sospensione delle tasse agli sfollati: tutte le promesse mai mantenute dal governo di Marco Palombi a gente ha cominciato a togliersi la sveglia dal collo il 6 aprile, ad un anno esatto dalla notte che ha cambiato la storia dell’Aquila. Alla seduta straordinaria del Consiglio comunale convocata per commemorare le vittime del terremoto arrivò un messaggio di Silvio Berlusconi assai elogiativo dell’operato del governo. I cittadini presenti cominciarono a fischiare già durante la lettura, interrotta più volte dagli schiamazzi: «Bugia», «Non è vero». Alla fine si alzò uno striscione: «16.000 nelle C.a.s.e., gli altri D.o.v.e.?» (un amaro gioco di parole sul nome del progetto delle “casette” d’emergenza, ndr).
L
L’umore nei comuni del cratere, da allora, è decisamente peggiorato. Ormai tutta la strategia messa in campo da esecutivo e Protezione civile è nel mirino della cittadinanza. Le promesse del Cavaliere - tranquillizzanti nella forma, quanto confuse nel contenuto - sono
una moneta che non ha più corso in regione, l’uomo che ha portato il G8 tra le macerie, osannato nelle manifestazioni pubbliche per mesi è ora un politico in fuga, che può presentarsi in strada in Abruzzo solo dopo una accurata preparazione mediatica dell’evento. Ora tutto è in discussione, persino la parte principale della leggenda post-terremoto elaborata da palazzo Chigi: abbiamo dato un tetto a tutti in tempi record. Gli sfollati avranno le loro
Ormai tutta la strategia messa in campo è nel mirino della cittadinanza
case o quelle nuove «prima dell’inverno» (disse la Protezione civile ad aprile 2009), «entro fine ottobre» (Berlusconi il 5 maggio), «tutte entro i primi di dicembre» (sempre lui il 7 maggio), «entro l’anno» (ancora il Cavaliere il 13 maggio), «le abitazioni del progetto C.a.s.e. saranno consegnate dal 15 settembre alla fine di novembre» (a luglio). Com’è noto s’è arrivati ai primi mesi del 2010, ma gli aquilani hanno cominciato a farsi due conti: C.a.s.e. e M.a.p. (moduli abitativi provvisori) ospitano circa 16mila persone, mentre il doppio (32mila) sono ancora sfollate - tradotto: senza casa - e alloggiano in gran parte in hotel della zona o sul litorale. Costo: tra i 15 e i 20 milioni al mese, ovviamente a carico dello Stato. Meno ovvio, però, è che tutti questi soldi negli scorsi mesi non siano stati pagati dalla Protezione civile agli albergatori, tanto è vero che commissario e vicecommissario alla ricostruzione (il governatore Chiodi e il sindaco Cia-
lente) hanno dovuto provvedere da poco con 400 milioni di euro dei primi denari (in tutto 800 milioni) che hanno visto da quando hanno occupato il loro posto. L’altra metà se n’è andata per ridare soldi a cittadini che li avevano anticipati e pagare le ditte che hanno lavorato alla messa in sicurezza. «Altro che ricostruzione, mon ci sono neanche i soldi per l’emergenza», spiegava sconsolato qualche giorno fa il primo cittadino: tanto è vero che mille appartamenti di edilizia pubblica recuperabili «sono fermi lì per mancanza di fondi». Invece «i fondi per la ricostruzione ci sono, sono stati stanziati, ho controllato personalmente», assicurava Bertolaso a giugno incolpando dei ritardi le burocrazie parallele di enti locali e stato centrale, magari accarezzando con la mente i poteri tribunizi conferitigli subito dopo il sisma. Evidentemente il “capo”non considera un problema che i suoi appalti secretati abbiano aperto le porte dell’Aqui-
la agli uomini della “cricca”, a quelli che ridevano pensando al terremoto. D’altronde neanche il presidente del Consiglio se ne fa un problema: «Per quello che ho visto nei contratti degli appalti non c’è stata nessuna cricca», ha dichiarato proprio mentre i nomi del sistema gelatinoso si rincorrevano nelle inchieste di Procura e Direzione antimafia aquilana.
Un altro capitolo del cahier de doleance aquilano è quello che riguarda il contributo per la sistemazione delle case distrutte o lesionate dal sisma, circa il 55% del totale secondo i tecnici. Anche qui, una ridda di dichiarazioni fuorvianti quando non completamente false: il 18 aprile 2009 Berlusconi riesce a sostenere nella stessa giornata che le casse pubbliche sosterranno il 33% del costo di ricostruzione delle case distrutte e poco dopo che «il 100% sarà ricostruito dallo Stato». Cinque giorni dopo il ministro Tremonti spiega che nel “dl Abruzzo”
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In Campania il bilancio più grave: 280mila gli sfollati, 8848 i feriti e 2914 i morti
Dopo il dramma del sisma, l’odissea della ricostruzione
L’efficienza di Friuli e Umbria e le speculazioni dell’Irpinia: come il Belpaese ha reagito ai disastri naturali che lo hanno colpito di Sabrina de Feudis rano le 21:06 del 6 maggio del 1976. Una scossa di magnitudo 6.4 della scala Richter interrompe quella che sembrava una calda serata di primavera. Il terremoto che colpì la regione del Friuli Venezia Giulia fu una scossa devastante per tutto il nord Italia. Furono oltre 77 i comuni coinvolti, 989 le vittime e 45mila le persone rimaste senza tetto. L’incubo continuò con le due scosse successive dell’11 e del 15 settembre, tutto ciò che rimase in piedi dopo il 6 maggio, crollò definitivamente. La situazione d’emergenza si manifestò in tutta la sua brutalità. La Commissione Bilancio del Senato stanziò 400 miliardi da erogare in 20 anni. Nonostante le scosse di assestamento successive, la ricostruzione fu rapida e completa. La catastrofe del Friuli rappresentò un alto esempio di efficienza per i lavori del post-terremoto.
E
Forte l’impatto sull’opinione pubblica, il terremoto venne trasmetto in diretta televisiva. Le immagini del dolore e della distruzione entrarono prepotentemente in tutte le case italiane. L’8 maggio arrivò sui luoghi della sciagura il presidente del Consiglio l’on. Aldo Mo-
la regione, più di 15 mila persone persero il lavoro. Questo disastro diede un importante impulso alla formazione della Protezione Civile.
Domenica 23 novembre 1980 ore 19:34, la terra trema. 90 secondi di terrore devastano l’Irpinia. Una scossa di magnitudo 6.9 sulla scala Richter rade al suolo le province di Avellino, Salerno e Potenza, molte lesioni e crolli avvennero anche a Napoli. I numeri parlano chiaro della sciagura: oltre 280 mila gli sfollati, 8848 i feriti e 2914 i morti. L’entità drammatica del sisma non venne valutata subito, solo la mattina seguente si compresero le reali dimensioni del disastro. I soccorsi arrivarono 5 giorni dopo, i motivi principali dei ritardi furono due: la difficoltà dell’accesso dei mezzi di soccorso nelle zone dell’entroterra, dovuta al cattivo stato della maggior parte delle infrastrutture, e la mancanza di un organizzazione come la Protezione Civile che fosse capace di coordinare risorse e mezzi in maniera tempestiva e ottimale. Il primo a far presente questa situazione fu l’allora Presidente della Repubblica, Sandro Pertini. Risuonano ancora come macigni le sue
e camorristiche lievitando nel corso degli anni. Alle aree colpite, infatti, venivano destinati numerosi contributi pubblici (stime del 2000 parlano di 58.640 miliardi nel corso degli anni). La ricostruzione, nonostante l’ingente quantità di denaro pubblico versato, è stata per decenni incompleta. Il 26 settembre del 1997, alle 2:33, un terremoto, pari a 5,8 gradi della scala Richter, con epicentro a Cesi provocò 11 vittime. Nello stesso giorno, alle 11:42, una scossa, sconvolse ancora moltissimi paesi tra l’Umbria e le Marche. Il 14 ottobre alle 17:25, un’altra scossa colpì nuovamente le zone terremotate, aggravando la già pessima situazione delle abitazioni. Dopo un periodo di continue scosse minori, il 26 marzo 1998 fu registrata una scossa con epicentro questa volta a Gualdo Tadino, con un’intensità pari a 5,4 gradi Richter. Solo per il restauro della volta della basilica di Assisi, occorsero circa 35 milioni di euro. Per i circa 33.000 interventi di soccorso furono previsti approssimativamente 8 miliardi di euro di spesa. Tuttora, molti abitanti delle zone terremotate (Sellano, Foligno, Serravalle di Chienti) vivono ancora nelle case in legno strutturale.
A sinistra, due scatti post-terremoti in Friuli (1976) e in Irpinia (1980); a destra, un’immagine scattata dopo il sisma dell’Umbria (1997). Nella pagina a fianco, Silvio Berlusconi interviene da Onna dopo il terremoto del 6 aprile 2009 ro insieme al Commissario straordinario del governo incaricato del coordinamento dei soccorsi, Giuseppe Zamberletti. Gli fu concessa carta bianca, salvo approvazione e consuntivo, che regolarmente il Parlamento approvò. I fondi statali destinati alla ricostruzione furono gestiti direttamente da Zamberletti assieme al governo regionale del Friuli Venezia Giulia. La macchina dei soccorsi non si fermò un attimo, la solidarietà giunse da tutto il mondo: il vicepresidente degli stati Uniti, Nelson Rockeffeller donò dopo la sua visita 21 miliardi per la ricostruzione. Dal settembre al dicembre del 1976 i terremotati furono sistemati in prefabbricati per riuscire ad affrontare il freddo invernale. La dignità del popolo friulano non ebbe precedenti. Uniti per la ricostruzione e legati dalla voglia di andare avanti. Il terremoto distrusse anche l’economia del-
parole: «Non vi sono stati i soccorsi immediati che avrebbero dovuto esserci, ancora dalle macerie si levano gemiti, grida di disperazione dei sepolti vivi». A Laviano, paese in cui i morti per il sisma furono un quinto della popolazione, le prime case in legno (una ventina) con servizi compresi arrivarono nel febbraio 1981. La ricostruzione fu, però, anche uno dei peggiori esempi di speculazione su di una tragedia. Durante gli anni si sono inseriti interessi loschi che hanno dirottato i fondi verso aree che non ne avevano diritto, moltiplicando il numero dei comuni colpiti: 36 paesi in un primo momento, che diventano 280 in seguito a un decreto dell’allora presidente del Consiglio Arnaldo Forlani nel maggio 1981, fino a raggiungere la cifra finale di 687. Il numero dei comuni colpiti, però, è stato alterato per losche manovre politiche
Queste case hanno sostituito gli iniziali container in lamiera forniti dalla Protezione Civile. Il 93% della popolazione è rientrata nelle case lesionate dal sisma, con una spesa di 4.4 miliardi di Euro.
Il 31 ottobre del 2002 alle 11:34, una scossa di terremoto fa crollare la scuola elementare di San Giuliano di Puglia, nel Molise. 27 bambini, un’insegnante e due bidelli le vittime della tragedia. In tutta Italia, a seguito di interventi legislativi rapidamente varati dopo questa tragedia che ha indignato tutto il Paese, si è proceduto a ridisegnare le mappe del rischio sismico e a definire quali edifici pubblici debbano essere sottoposti ad interventi di adeguamento alle norme di sicurezza antisismiche. Ma il 6 aprile del 2009 alle 3:32 la terra ha tremato all’Aquila. 308 le vittime e la storia si ripete.
verranno indicati i massimali di risarcimento: 150mila euro per una casa distrutta e 80mila per una gravemente danneggiata. Il 28 aprile viene emanato il decreto e dentro non ci sono né il criterio del 100%, né quello dei massimali: al contrario vi si parla di “finanziamenti agevolati”, il che significa che la ricostruzione non sarà completamente a carico dello Stato, mentre ancora più fumosa è la situazione per le seconde case (una gran parte, peraltro, del mercato immobiliare dell’Aquila). Nonostante tutto il 1 maggio il Cavaliere torna a sostenere la faccenda dei 150 e 80mila euro. È appena il caso di ricordare che per il terremoto in Umbria e nelle Marche, l’erario si sobbarcò il 100% delle prime case e una sostanziosa percentuale delle seconde: in soldi, fa 5 miliardi di euro di stanziamenti per l’edilizia privata contro i 3,1 dell’Abruzzo. Non bastasse c’è, in particolare a L’Aquila, una situazione economica e occupazionale davvero drammatica: 15mila risultano i disoccupati o cassintegrati (questi ultimi aumenti dell’800 per cento), 1.500 aziende hanno chiuso i battenti e mille attività commerciali del centro non sono riuscite ancora a ripartire, mentre il prezzo dei locali per negozi è arrivato alle stelle come pure le procedure per insolvenza.
La città insomma non è ripartita, ma tutto il resto sì: sono aumentati ad esempio i pedaggi autostradali per quei cittadini abruzzesi che sono sfollati sulla costa e tornano ogni giorno in autostrada nel loro paese, così come le richieste di pagare i mutui (esiste un protocollo per la sospensione firmato dall’Abi, ma non è vincolante per le singole banche) o le bollette. Una signora ha recentemente raccontato che Sky pretendeva il dovuto nonostante tv, decoder e parabola giacciano sotto le macerie da oltre un anno. E poi c’è la faccenda delle tasse, la goccia che ha fatto traboccare il vaso della protesta verso Roma: dal 1 luglio anche chi abita nel cosiddetto “cratere del sisma” (la zona più colpita) deve ricominciare a pagarle. Di più, da gennaio dovranno anche cominciare a versare i tributi sospesi dal giorno del terremoto ad oggi, ovvero 14 mensilità al 100% in sessanta rate: «Vuol dire che per ogni 1000 euro ce ne sono 200 di tasse aggiuntive», spiega Cialente. L’abruzzese Gianni Letta aveva prima rassicurato tutti, poi detto che si sarebbe deciso entro metà giugno, ora ha strappato a Berlusconi la promessa di tentare di convincere Tremonti a prorogare la sospensione. Per avere un paragone basti ricordare che i soliti terremotati di Umbria e Marche restituirono solo il 40% dei tributi sospesi e molto tempo dopo. Poi dice che uno si butta a sinistra.
diario
pagina 6 • 8 luglio 2010
Rissa a Montecitorio. Esponenti del Pdl vengono alle mani con un deputato dipietrista per la legge sulle comunità giovanili
Opposti estremismi in Aula
Resta alta anche la tensione tra berlusconiani e finiani. Bandite le correnti di Riccardo Paradisi na giornata ad alta tensione quella di ieri. Tafferugli tra manifestanti aquilani e polizia a due passi da palazzo Grazioli, agitazioni studentesche e sindacali, infine la gazzarra alla Camera dei deputati sfociata in una rissa tra l’esponente dell’Italia dei Valori Franco Barbato e alcuni deputati del Pdl provenienti da An e molto vicini al ministro della gioventù Giorgia Meloni. Barbato colpito da un pugno al volto viene accompagnato dal capogruppo Idv Massimo Donadi in infermeria a Montecitorio, e da qui portato in ospedale.
U
Un episodio grave, scoppiato nel corso della discussione sul disegno di legge Meloni sulle comunità giovanili dopo la richiesta di rinvio del testo in commissione da parte del Pdl. Nel suo intervento Barbato ha accusato il ministro della Gioventù di «essere vecchia perché ricorre a una logica di vecchia politica che fa rabbrividire anche Pomicino e Mastella». L’accusa del dipietrista è che con questo ddl la Meloni vuole finanziare la sua corrente, quella di Alemanno e del suo assessore regionale Lollobrigida che gestirà questi finanziamenti» per le comunità giovanili. A questo punto Barbara Saltamartini, alemanniana del Pdl, si scaglia insieme ad altri colleghi contro Barbato. Tra loro secondo la ricostruzione di Alessandra Mussolini gli ex An Fabio Rampelli e Marco Marsilio. Non è ancora chiaro chi abbia colpito Barbato che dall’ospedale Gemelli dove viene ricoverato in attesa di fare una tac ricostruisce lo scenario della rissa: «Sono stato colpito alle spalle, non so chi sia stato perché davanti a me c’erano parlamentari che mi aggredivano e gli assistenti d’Aula che provavano a bloccarli. Nessuno però ha fatto in tempo a fermare chi mi ha dato il pugno». Nella bagarre scoppiata alla Camera è coinvolta a suo modo anche Alessandra Mussolini. È lei stessa a raccontare che dopo il rinvio in commissione del provvedimento del ministro della Gioventù, «i deputati del Pdl, Marsilio e Rampelli, due che fanno capo alla Meloni, mi sono venuti incon-
tro in aula e mi hanno detto di “stare attenta”. Mi hanno insultato e minacciata. Hanno detto che la colpa del rinvio è mia e di Barbato che poveraccio è finito in ospedale solo perché ha detto la verità». Una verità, aggiunge, «che io stessa ho sostenuto sia in aula sia in commissione, perché mancano i fondi per i minori mentre si danno finanziamenti ai finti-giovani di 30 anni. Così si buttano via milioni quando ne basterebbero molto meno». Ma perché questa violenza contro la Mussolini? «Forse – dice lei - perché hanno la coda di paglia? Se così non fosse non avrebbero reagito a quel modo. La realtà è che regaliamo milioni di euro alla Meloni che guida un ministero senza portafoglio e non si sa per quale motivo».
to si risponde con intelligenza politica». Resta alta la tensione anche all’interno del Pdl anche se nel corso del vertice del partito a palazzo Grazioli il nodo finiano non è stato affrontato. Si è parlato invece di manovra, intercettazioni e università. Comunque mentre nel fronte berlusconiano ormai si registra una chiara volontà di farla finita con la minoranza interna che si riconosce intorno al presidente della Camera nel campo finiano si oscilla tra separazioni consensuali che dovrebbero lasciare gli ex An nel centrodestra tramite una con-
Ora la Mussolini che ha raccontato tutto a Gianfranco Fini si aspetta che «si prendano delle misure anche nei confronti di chi l’ha minacciata». Il capogruppo alla Camera del Pdl Fabrizio Cicchitto si è comunque schernito per il contegno di alcuni suoi deputati: «Chiedo scusa per alcuni colleghi che hanno reagito in aula. Alle provocazioni di Barba-
federazione e più vaghe tentazioni da terzo polo. Tentazioni che a dare retta agli editoriali di ieri dei finiani Alessandro Campi e Sofia Ventura, rispettivamente sul Riformista e sul Secolo d’Italia sarebbero dannose e soprattutto lontane dal sentire del presidente della Camera. Per Campi infatti una rinnovata intesa tra Berlusconi e Fini è difficile, ma non è
impossibile: «Soprattutto è nell’ordine politico delle cose e nel reciproco interesse. Se si vuole salvare il Pdl, assicurare un futuro al governo e dare continuità alla loro comune avventura politica». Convivenza possibile anche per Sofia Ventura, magari in una soluzione di alleanza federata, per salvare il bipolarismo. Anche perché Fini – secondo la ricercatrice vicina a Farefuturo – non ha «intenzione né convenienza ad annegare la propria capacità di leadership in un’operazione neocentrista, fondata su accordi tra pezzi di establish-
Il presidente della Camera sarebbe pronto all’evenienza della scissione. Generazione Italia ricalca già la struttura di un partito ment politico e che porterebbe molta delusione tra quella parte di opinione pubblica che guarda a lui come potenziale innovatore». Del resto, ammesso che Berlusconi voglia davvero liberarsi di Fini non si capisce bene come potrebbe farlo. Deferendolo ai probiviri? E con quali “imputazioni”? Sarebbe necessario un congresso straor-
dinario? E si può espellere chi - come Fini - al Pdl non è iscritto essendo presidente della Camera?
Eppure nell’arcipelago finiano c’è anche chi, come Carmelo Briguglio, spinge per una separazione consensuale: «Casini lo ha capito per primo che le differenze fra i vari partiti del centrodestra permanevano. Berlusconiani e finiani sono due categorie politiche e culturali, forse anche storiche e spirituali». Sicché secondo il finiano Briguglio è ora di «Prendere atto che siamo due ”Stati”, due popoli, con due leadership», una consapevolezza che «ci può aiutare a dismettere un’identità forzata. E ricercare e forse trovare, laicamente e con grandi sforzi, le ragioni di una più realistica e duratura alleanza, se non una nuova e diversa unità». Intanto, dopo il vertice di ieri a Palazzo Grazioli, la linea è quella di bandire le correnti e di “coordinare” il lavoro delle fondazioni, per fare in modo che le loro iniziative “culturali ed editoriali” non si pestino i piedi. L’iniziativa, naturalmente, non è stata affatto gradita dai finiani.
diario
8 luglio 2010 • pagina 7
Era a Palma di Maiorca. La sua foto era pubblicata su tutti i giornali tedeschi
Dura nota del fratello della ragazza: «Giaceva come uno straccio»
Hannover, si costituisce l’omicida dei due italiani
Famiglia Claps: «Una squallida alcova quel sottotetto»
ROMA. Si è costituito ieri a Pal-
ROMA. «Quel sottotetto era diventato poco più di una squallida alcova mentre Elisa giaceva buttata come uno straccio nell’angolo più oscuro, abbandonata da tutti meno da chi le voleva bene e disperatamente la cercava». Lo afferma in un comunicato il fratello di Elisa Claps, Gildo, dopo la notizia del ritrovamento di tracce biologiche di due uomini nel sottotetto della chiesa della Trinità. Si tratta di liquido seminale di due diversi individui. Nel sottotetto c’era anche un materasso su cui alcuni giovani della parrocchia si appartavano. «In quella chiesa - sostiene ancora il fratello - evidentemente tutto poteva accadere senza che nessuno ne facesse parola. Dal
ma di Maiorca il giovane tedesco responsabile nei giorni scorsi dell’assassinio di due italiani in un bar di Hannover. Poche ore prima che l’uomo si costituisse, un portavoce della polizia di Hannover aveva dichiarato: «L’assassino è sottoposto ad un’enorme pressione, perché sappiamo chi è». Resta ancora ignoto come abbia fatto l’uomo a lasciare la Germania e andarsene tranquillamente a Maiorca. La sua foto era stata distribuita a tutti i giornali tedeschi, diffusissimi anche a Maiorca, una delle principali mete turistiche dei tedeschi. L’uomo è accusato dalla procura di Hannover di aver «voluto vedere morire le sue vittime», provandone «piacere». Un testimone ha inoltre riferito che una delle due in ginocchio lo aveva supplicato di risparmiarlo, invano. Uno dei due italiani di 47 anni, è morto subito, il secondo, di 49, poco dopo un intervento d’emergenza.
Il drammatico litigio, stando alle rocostruzioni basate su alcune testimonianze di gente sul posto, sarebbe iniziata quando i due hanno discusso con l’assassino, dopo un’abbondante bevuta, su quanti Mondiali avesse vinto l’Italia. Lo sconosciuto sarebbe uscito dal locale con la
La reazione del Colle: «Provocazioni e calunnie» Il Quirinale dopo le insinuazioni di “Fatto” e “Giornale” di Giancristiano Desiderio l Fatto prima e il Giornale poi si sono occupati, con toni molto simili, di Giorgio Napolitano. La cosa non stupisce più di tanto perché da che mondo è mondo gli estremi sono più vicini di quanto non si immagini. Il giornale di sinistra l’altro ieri ha rivelato che un emendamento del Pd al “lodo Alfano”- ora ritirato - proponeva una immunità totale per la presidenza della Repubblica.
I
Il giornale di destra ieri ha ripreso il giornale di sinistra e ha messo una grande foto di Napolitano in primo piano in prima pagina sotto questo grande titolo: «Ma che ha combinato Napolitano?» Occhiello: “Vogliono sottrarlo alla legge”. A seguire l’articolo di Alessandro Sallusti, condirettore di Feltri. Quando il presidente della Repubblica ha visto l’ultima combinata da Feltri per aumentare le vendite del suo prodotto si è prima chiesto effettivamente se avesse combinato qualcosa e poi, non avendo combinato nulla di grave e inconfessabile - come peraltro scrive lo stesso Sallusti -, ha preso carta e penna e ha steso una nota di risposta che merita di essere letta e diffusa. Eccola: «Il Giornale (dopo che già martedì Il Fatto Quotidiano era intervenuto ambiguamente sull’argomento) ha tratto spunto dalla presentazione di un emendamento al lodo Alfano per un sensazionalistico titolo e articolo di prima pagina, destituiti di qualsiasi fondamento, la cui natura ridicolmente ma provocatoriamente calunniosa nei confronti del Presidente della Repubblica non può essere dissimulata da qualche accorgimento ipocrita: la Presidenza non può non rilevarne la gravità». «La Presidenza della Repubblica”, continua la nota del Quirinale,“resta sempre rigorosamente estranea alla discussione, nell’una o nell’altra Camera, di proposte di legge d’iniziativa parlamentare, la cui presentazione non deve essere neppure autorizzata dal Capo dello Stato». Il comunicato della presidenza della Repubblica è risentito, ma è senz’altro giusto e rigoroso. Del resto, non si può pensare di sbattere in prima pagina il capo dello Stato e non im-
maginare una reazione dura dell’interessato.Tuttavia, qui da discutere non è la nota del Quirinale, bensì l’idea di poter coinvolgere nel pieno della lotta politica più aspra anche l’istituzione della presidenza della repubblica. A chi mai può giovare una simile scelta? A nessuno. Neanche a Berlusconi che si è trovato in poco tempo più di una volta in netto contrasto con Napolitano.
Soprattutto non giova agli italiani e all’Italia che hanno bisogno di sapere che c’è almeno un’istituzione politica autorevole e ben salda capace di svolgere, quando le cose volgono al peggio, una funzione di armonizzazione morale ed equilibrio istituzionale, insomma in grado di conservare un senso ragionevole delle cose. Giorgio Napolitano ha dimostrato con i fatti e le parole di essere un buon presidente. Quando fu eletto, c’erano sulla sua persona dei pregiudizi: la sua storia personale e politica era pur sempre una storia fortemente marcata a sinistra e si credeva che l’ex“migliorista”non sarebbe riuscito a spogliarsi in modo significativo non del passato, ma della mentalità di partito. Invece, il buon migliorista si è ulteriormente migliorato e nei momenti di scontro politico ha assicurato alla vita pubblica sempre la garanzia del suo ruolo istituzionale che, come si usa dire con una formula retorica, sarebbe al di sopra delle parti, mentre Napolitano riesce anche con stile a limitare le parti in lotta. La virtù etico-politica che il presidente Napolitano ha messo in luce in questi anni è la ragionevolezza. Il suo riferimento è sempre la Costituzione e tuttavia anche in questo caso conserva il valore della buona valutazione e del buon giudizio che gli consente di non irrigidirsi e così più volte proprio da lui è venuto il richiamo alla necessità delle riforme istituzionali. Come sempre accade in questi casi, tutti hanno speso parole di apprezzamento e condivisione per poi tornare nella pratica politica a viaggiare sul treno dei desideri che all’incontrario va. Motivo questo, e non ultimo, della necessità di difendere Napolitano: perché la politica non ne combina una buona.
È proprio necessario gettare fango su una delle poche istituzioni in cui i cittadini ancora hanno fiducia?
scusa di ritirare soldi a un bancomat. Dopo poco più di un’ora invece, scrive ancora il giornale di Hannover, sarebbe ritornato e avrebbe chiesto all’italiano di 49 anni di proseguire la “discussione” a pugni fuori dal locale. Quando l’altro si è alzato, lo sconosciuto assassino avrebbe a quel punto estratto un’arma da fuoco e gli avrebbe sparato a bruciapelo. Subito dopo avrebbe colpito anche l’altro italiano, il quarantasettenne morto ieri mattina. Dopodiché è fuggito. La polizia lo sta ancora cercando. A pochi metri dal bar, il giorno dopo la tragica sparatoria, è stata comunque ritrovata una pistola, forse proprio l’arma del duplice omicidio.
barbaro omicidio agli atti sessuali consumati a pochi metri dai poveri resti di Elisa. Ma quello che ci indigna sopra ogni altra cosa è la costante ed ipocrita difesa della propria immagine, da quella della Chiesa a quella del centro Newman». Gildo Claps è polemico anche sulle modalità del ritrovamento. «Don Wagno (vice parroco, ndr) ha mentito sul particolare degli occhiali - afferma Gildo Claps - la perizia lo dimostra inequivocabilmente».
Ma ce n’è anche per il vescovo, Agostino Superbo, che dichiarò di non aver capito quando il vice parroco cercò di avvisarlo del ritrovamento del cadavere. ’«Riteniamo offensivo per noi e per la memoria di Elisa - sostiene ancora il fratello di Elisa - l’equivoco tra cranio ed Ucraino che è stato causa, a dire del vescovo, dell’incomprensione rispetto ai tempi del ritrovamento». «La famiglia - conclude Gildo Claps - fa appello alla città intera, oggi più che mai, affinché ci stiano accanto per raggiungere la verità e spazzare via l’ipocrisia e l’omertà che avvolgono questa vicenda. Lo dobbiamo ad Elisa e a ciascuno di noi per non vergognarci di appartenere a questa comunità».
economia
pagina 8 • 8 luglio 2010
Equilibri. Lo scontro si sposta sui prossimi decreti per il federalismo fiscale: cresceranno i trasferimenti se i governatori accetteranno costi standard molto rigidi
La rivolta della periferia Il blocco formato da Regioni, Comuni e Province costringe il premier a convocare gli enti per trattare sulla manovra di Francesco Pacifico
ROMA. Roberto Formigoni non si affida a giri di parole: «Con i tagli della manovra che colpiscono i trasferimenti alle materie devolute dalla Bassanini, e che dovevano essere trasformati in tributi, che senso ha parlare di costi standard o di imposte.Tanto Il federalismo fiscale è morto». E tanto basta per capire che più che sulla Finanziaria lo scontro tra il governo e le Regioni rischia di trasformarsi in una lunga querelle a base di veti e ricorsi giurisprudenziali su tutto quello che per il Titolo V della Costituzione deve avere il placet sia del centro sia della periferia dello Stato. Si rischia l’immobilismo. Per non parlare delle ripercussioni che potrebbe avere il Popolo delle Libertà a livello locale, visto che azzurre sono le bandiere che svettano su 11 Regioni. «Appena provi a tagliare», nota il neopresidente calabrese Giuseppe Scopelliti, «cosa non facile tra l’altro, arriva subito qualcuno che ci accusa di voler affamare il Sud».
Con la manovra che con estrema lentezza viene rattoppata al Senato, ieri il fronte dei governatori ha ottenuto una prima e piccolissima vittoria: il governo li vedrà domani, quando il testo dovrebbe essere già stato depositato a Palazzo Madama con annessa fiducia. Ma per ottenere questa convocazione i governatori – e con loro i sindaci e i presidenti di Provincia – hanno dovuto minacciare uno strappo senza precedenti. «I tre quarti delle istituzioni italiane», per usare la formula coniata da Formigoni, avevano deciso che oggi non avrebbero participeranno alla Conferenza unificata, nella quale gli enti locali dovrebbero dare il loro parere sulla manovra, senza un invito ufficiale a Palazzo Chigi per discutere di saldi e tagli. All’ora di pranzo aveva tuonato il leader dei governatori, Vasco Errani: «Parteciperemo soltanto se avremo la garanzia della presenza del premier. Oppure se prima il premier ci ascolterà e ci dirà come intende affrontare i problemi che abbiamo posto, altrimenti non partecipere-
I numeri non sbagliano: possono essere manipolati, ma il momento della verità prima o poi arriva
Tremonti come Custer Ormai tutti lo assediano di Gianfranco Polillo è chi invoca il 2004. Altri che temono le conseguenze delle eventuali dimissioni di Giulio Tremonti. Allora il super ministro dell’economia scivolò su una tabella che riassumeva i termini della manovra appena pensata. Un errore della Ragioneria generale, guidata da Grilli, come si disse. Il pretesto per porre fine ad un braccio di ferro, che durava da tempo. Fini, allora vice-presidente del Consiglio, scosse l’albero, ma poi non ebbe il coraggio di raccogliere i frutti. Si accontentò – si fa per dire – della Farnesina, la sciando a Siniscalco, il delfino di Tremonti, il compito di occupare quella che fu la sedia di Quintino Sella.
C’
Oggi la storia, seppure in forme e modalità diverse, rischia di ripetersi. Perché mai, come adesso, Giulio Tremonti sembra seguire le orme del vecchio generale Custer. L’assedio è imponente. Protestano i portatori di handicap: quelli veri, mentre quelli finti si nascondono dietro lo schermo dell’umana pietà. Non siamo solo un paese di santi e navigatori. Siamo soprattutto un paese di infelici, segnati dalla mano di Dio. Ma per ridurre queste sacche di indecente furbizia, non servano nuove leggi, ma solo più controlli ed una punizione esemplare per coloro che avallano forme di vere e proprie accattonaggio pubblico. Che poi le condizioni, specie nel Mezzogiorno, siano quelle che sono è un fatto. Ma ad esse si può far fronte con un minimo di trasparenza: ammortizzatori sociali distinti dall’aiuto che deve essere dato a chi è stato duramente colpito dalla vita. Protestano ancor di più le Regioni e gli altri enti locali, dimentichi della disinvoltura con cui hanno amministrato in tutti questi anni. Soldi sperperati in operazioni clientelari o all’insegna dell’irresponsabilità fiscale. Tanto c’era il bancomat – vale a dire i trasferimenti a carico del bilancio centrale dello Stato – cui era possibile fare ricorso. Protestano altresì le forze dell’ordine e i pubblici dipendenti. Nei confronti di questi ultimi, la cui dinamica salariale è stata ben più favorevole a quella del comparto privato, si bloccano gli scatti futuri. Misura dolorosa, ma giusta visti i differenziali. Meglio se il blocco non fosse uniforme, lascando spazio alla possibilità di premiare il merito e punire i comportamenti devianti. Meno giusto il taglio degli stipendi. Scelte simbolica, dal profilo finanziario irrilevante, ma capace di colpire uno dei cardini dell’ordinamento giuridico. Pacta sunt servanda: di-
cevano i romani. Principio poco noto in quel di Padania. Nonostante tutto ciò, continuiamo a dire che il soldato Giulio deve essere salvato. A condizione che lo stesso non renda impossibile l’azione meritoria. Siamo, infatti, di fronte ad un personaggio complesso. La sua intelligenza è fuori discussione. Meno il suo carattere e la sua coerenza. Aveva intuito per tempo che gli anni delle vacche grasse stavano finendo. Ma cosa ha fatto da allora: provvedimenti d’emergenza, tagli lineari dei capitoli di bilancio, manovre fiscali straordinarie – e non alludiamo solo allo scudo - raschiando un barile sempre meno imbrattato dal grasso superfluo. Quando, invece, ne doveva cambiare la forma. Certo, il federalismo, può essere un passo giusto in questa direzione. Ma del problema si discute fin dalla passata legislatura. Anzi la prima legge sul federalismo fiscale fu elaborata da Piero Giarda, allora sottosegretario al Tesoro, del Governo D’Alema. Dieci anni: tanto è passato e chissà quant’acqua dovrà ancora scorrere, prima di dare forma compiuta a quel disegno. L’Italia è la patria dei giuristi. E Tremonti non fa eccezione. Rivendica anzi questa sua sapienza che contrappone a quella degli economisti: vil razza dannata. Ma in questo sbaglia.
Per ridurre le sacche di furbizia, non servono nuove leggi, ma solo più controlli e più punizioni esemplari
Attento cultore dei classici, dovrebbe ricordare ciò che diceva Carlo Marx a proposito del rapporto struttura-sovrastruttura. Analisi forse datate e profondamente rimeditate nel corso di quasi duecento anni di storia: ma ancora dotate di una forza intrinseca, che trova conferma nei grandi processi che stanno sconvolgendo il mondo contemporaneo. Cos’è la Cina? Un mostro giuridico, ma anche un Paese che ha saputo manovrare le leve dell’economia, fondando su di esse la sua rilegittimazione internazionale. Il fatto è che i numeri – a differenza delle leggi – in genere non sbagliano. Possono essere manipolati, ma il momento della verità – come insegna il caso della Grecia – prima o poi ne ristabilisce l’equilibrio naturale. Ed allora il naso degli apprendisti stregoni si allunga come quello di Pinocchio. È il caso di tanti amministratori locali nostrani. Piangono sui loro bilanci. Costruiscono teoremi su una contabilità domestica che nessun organo di revisione esterna avallerebbe. Ma anche, qui: perché si è aspettato tanto? Dieci anni di permanenza quasi ininterrotta al secondo piano di Via XX Settembre era forse un tempo insufficiente?
mo perché non avremo nulla da dire». Poi all’ora del thé finalmente la convocazione. Ma c’è poco da stare allegri, perché sono molto stretti gli spazi per trattare sul salatissimo conto presentato alle Regioni: 8,5 miliardi di euro in due anni ai trasferimenti su trasporto pubblico locale, incentivi alle imprese e assistenza, che dovrebbero arrivare a 10,5 se si considera la nuova stretta sul patto di stabilità. Così non resta che sperare in una dilazione, perché nessuno crede al meccanismo studiato da Tremonti – e trasferito in un apposito emendamento del relatore Azzolini – per alleggerire il salasso agli enti virtuosi. Non ci credono neppure i governatori leghisti – il piemontese Roberto Cota e il veneto Luca Zaia – che pure ieri mattina «avevano detto di «guardare con interesse» a queste modifiche. «Perché il governo», spiega l’assessore lombardo alle Finanze, Romano Colozzi, «chiede alle Regioni di decidere come tagliare un fondo, quello per la Bassanini, che di fatto viene cancellato. Quindi che andiamo a rimodulare?». Va da sé che con questo schema rischiano di pagare di più le Regioni più ricche, Piemonte e Veneto in primis. Almeno questa è stata l’impressione generale dopo le aperture fatte da Tremonti ai governatori del Sud (Polverini, Caldoro e Scopelliti), che hanno partecipato al vertice di Palazzo Grazioli sulla giustizia. A loro che guidono enti con i capo il 90 per cento del deficit della sanità italiana, il ministro avrebbe garantito di sbloccare i Fas per ripianare il rosso, dietro la presentazione di piani di contenimento più stringenti. Per il resto l’inquilino di via XX settembre ieri è sembrato affaccendato su nodi non meno importanti come i fondi alla sicurezza o la moratoria fiscale per i cittadini dell’Aquila. Scel-
economia
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L’opinione della deputata dell’Alleanza per l’Italia
«Manca un approccio davvero federalista»
Linda Lanzillotta: «Troppa economia e finanza e poca attenzione al tipo di spesa da tagliare» di Vincenzo Bacarani
L’accusa di Nichi Vendola: mai visto uno stallo simile
«Silvio ostaggio del ministro» Presidente Nichi Vendola, confidate ancora in un intervento di Berlusconi? Se il presidente del Consiglio non intende incontrare in via ufficiale le Regioni e le autonomie locali, allora vuol dire che è prigioniero politico del suo ministro dell’Economia. Addirittura. Non tutti si sono accorti che siamo a un punto di svolta istituzionale di cui al momento non sono state valutate tutte le possibili conseguenze. Da un lato Tremonti impone la sua linea al Paese, dall’altro c’è il presidente del Consiglio che non ha il coraggio di incontrare le Regioni... È la prima volta che vedo gestire così una manovra, senza spirito di mediazione, sottraendosi ai basilari obblighi di comunicazione verso le istituzioni e tutti i suoi cittadini. Lei ha lamentano tagli per 400 milioni di euro. Con le riduzioni ai trasferimenti causati dalla manovra dei trasferimenti farò fatica ad assicurare il trasporto pubblico locale, a garantire gli aiuti alle piccole e medie imprese, le politiche ambientali e l’assistenza agli anziani. E io, virtuosa o meno che possa essere stata la mia amministrazione, sono nella stessa condizione di Renata Polverini nel Lazio o di Stefano Caldoro in Campania. Sembra di rivedere l’asse del Sud Bassolino-Fitto che nel 2001 bloccò il federalismo. Temo ripercussioni su questa partita, ma prima di allora credo che abbia ragione chi come Roberto Formigoni ha messo in guardia sul fatto che a fine anno potrebbero concludersi in un nulla di fatto gli incontri relativi al rifinanziamento degli ammortizzatori sociali. Farete pesare il vostro potere di veto sul rifinanziamento della cassa integrazione? Veto? Non porremo alcun veto. Semplicemente non avremo i soldi. Nel 2011 rischio di ritrovarmi tanti soldi in cassa che ho risparmiato, ma che il patto di stabilità non mi consente di spendere. Quindi per l’anno prossimo devo scegliere a quale corda impiccarmi: ai vincoli di bilancio o al più (f.p.) totale immobilismo.
te che l’hanno spinto a dare il via libera ad Azzolini per presentare una stangata sulle assicurazioni, con l’aumento dell’Ires che dovrebbe garantire circa 234 milioni di euro ogni anno all’erario. Di conseguenza si lavora già nell’ottica temporale del vertice che si terrà domani mattina a Palazzo Chigi. Raccontano dalla Conferenza delle Regioni: «I contatti con Berlusconi non si sono mai interrotti, ma il premier ha fatto molta fatica a imporre a Tremonti quel tavolo necessario per ribaltare i numeri presentati dal Tesoro». Se il ministro non perde occasione di dire che l’80 per cento dei fondi europei al Sud non vengono spese da «amministrazioni cialtrone», i governatori, e forti delle cifre della Ragioneria generale dello Stato, sono pronti a dimostrare che l’unico vero sforamento rispetto agli obiettivi del Patto di Stabilità si è avuto nel 2009. Ma soltanto perché la Campania, una singola regione, ha visto impennare la sua spesa di un miliardo per le inefficienze sulla gestione dei rifiuti.
Eppure il governo è pronto a trattare con le Regioni. I margini, a dirla tutta, sono stretti. In una nota firmata dal premier e dal suo ministro, si legge che «i saldi della manovra erano, sono e saranno intangibili». Detto questo, però, si può sfruttare «l’opportunità rappresentata dal federalismo fiscale. Già nella manovra c’è una specifica normativa sui costi standard. Il decreto applicativo può essere presentato, discusso ed approvato entro l’anno e dunque prima dell’entrata in vigore della manovra». Come dire, che se su questo punto i governatori si mostreranno flessibili, allora già dall’anno prossimo i tagli previsti da questa Finanziaria potrebbero essere recuperati con tassa da raccogliere e gestire in proprio sul territorio.
ROMA. Scontro istituzionale sulla manovra: governatori delle Regioni e sindaci delle principali città minacciano di rimettere le deleghe. I tagli previsti che coinvolgono gli enti locali rischiano di diventare per il governo un nodo insormontabile. Il futuro, se la manovra passerà così com’è, è facilissimo da prevedere: più tasse per tutti, e anche pesanti. Il tormentone “non metteremo le mani nelle tasche degli italiani” sta diventando grottesco. Non c’è infatti settore sociale che non sia convolto in una riduzione consistente di tutto. Siamo perciò davvero di fronte a uno scontro istituzionale tra governo centrale ed enti locali? Si poteva evitare questa situazione di grave tensione sociale? Secondo Linda Lanzillotta, deputato del gruppo dell’Api e componente della Commissione Affari costituzionali e della bicamerale sul federalismo, la situazione poteva e doveva essere ben diversa. Lei che è molto attenta alle questioni locali si aspettava una situazione di rapporti incandescente come quella attuale tra governo, Regioni e Comuni? Sì perché c’è stato, e c’è tutt’ora, un problema di metodo. È mancato un vero approccio federalista al problema. Dato un obbiettivo di manovra poi, come in tutti i Paesi federali, si ripartiscono le riduzioni di spesa, si stabiliscono delle priorità che possono essere trasporti, asili nido, difesa. Questo anche per quanto riguarda il settore degli investimenti. Noi abbiamo proposto, ad esempio sulla banda larga, di non lasciar fuori ancora una volta il Mezzogiorno. Una questione di metodo... Sì, questo metodo è assolutamente antifederalista. È vero che le Regioni possono dimostrare più efficienza, ma prima occorre ragionare su cosa togliere. Non si può partire solo dalle finanze. Perché allora non raddoppiamo l’aliquota per i capitali rientrati grazie allo scudo fiscale? Potremmo incamerare altri 5 miliardi. Il nodo principale è che non sono stati affrontati i nodi strutturali delle spese. Troppa economia e finanza nella manora e poca attenzione al tipo di spesa da tagliare? È sotto gli occhi di tutti: il ministro Brunetta ogni volta che alza la testa gliela tagliano, il titolare della Cultura Bondi è stato tenuto da parte, il ministero dell’Ambiente non ha dialogo con nessuno. Mi sembra che il ministro Tremonti tenga trop-
po i cordoni della borsa. Ha solo stretto un asse con la Lega e basta, e si sa che il federalismo, in un periodo di recessione come questo, può dare solo tagli e tasse. Troppo potere dunque al ministro dell’Economia? I tagli devono nascere da un confronto con i vari settori. Cosa che non è stata fatta. Sono stati esautorati gli altri ministri che si sono trovati tagli che non si aspettavano. Ripeto: è stato tutto visto come un problema di finanze e basta, senza che si sia tenuto conto di dove e come intervenire.
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Tremonti tiene troppo i cordoni della borsa. Ha solo stretto un asse con la Lega e basta
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Allora fanno bene, secondo lei, i governatori delle Regioni e i sindaci dei Comuni a rimettere le deleghe come minacciano? Le deleghe non sono rimettibili perché gli enti locali sono parti della Repubblica. Governatori e sindaci devono invece battere i pugni e rimboccarsi le maniche. Sulla sanità, ad esempio, le Regioni possono dimostrare senz’altro maggiore efficienza. Eppure Renata Polverini, governatrice della regione Lazio, si è lasciata andare e ha detto che così non riesce più a governare... Noi a Renata Polverini gliel’avevamo detto che per la grave situazione del Lazio occorreva una maggioranza di emergenza. Ma lei ha scelto invece di tenere una campagna elettorale demagogica. È causa del suo male: doveva fare il leader di uno schieramento più ampio e non lo ha fatto.
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panorama
ragioni&torti di Giancristiano Desiderio
La “Potenza” del maggior scrittore italiano n questa rubrica abbiamo parlato qualche altra volta di Gaetano Cappelli, ma conviene riprendere il filo del discorso. Chi cavolo è Gaetano Cappelli? Lo so che lo so e lo so che lo sapete, ma me lo chiedo lo stesso perché vorrei proprio conoscerlo per verificare se è quel gran paraculo che deve per forza essere uno che scrive le cose che scrive lui. Marsilio ha appena mandato in libreria l’ultimo libro dello scrittore di Potenza. In verità, non è l’ultimo libro perché Canzoni della giovinezza perduta è una raccolta di racconti già pubblicati qua e là. La Marsilio sta facendo un’opera meritevole: pubblica un po’ tutto di Cappelli, di modo che il lettore che si appassiona alla materia può avere a portata di libreria l’opera omnia o quasi, da Il primo a Storia controversa dell’inarrestabile fortuna del vino Aglianico nel mondo a Parenti lontani fino a Volare basso passando per La vedova, il Santo e il segreto del Pacchero estremo. Il libro reca una fascetta firmata da Antonio D’Orrico.
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Dice: «Chi non ha letto il bellissimo racconto Toccàti si è perso in assoluto una delle cose migliori, più alte e divertenti della letteratura italiana di fine secolo». D’Orrico è fatto così: non ci potete fare niente, prendere o lasciare. Se ci dovessimo affidare ai suoi giudizi ci dovremmo rassegnare al fatto che ogni mese riesce a scovare il miglior scrittore italiano contemporaneo. Ora Cappelli è un signor scrittore e il racconto Toccàti, in cui si parla di Rocco che è una promessa del rock all’italiana e una realtà della rappresentanza delle pentole Continental, è davvero bello, ma quanto alla definizione di miglior scrittore italiano contemporaneo - che, peraltro, D’Orrico non ha fornito, ma per il passato qualcosa mi sembra di ricordare - non gli si addice. Ma ciò che più conta è che a Cappelli non gliene frega un cavolo di non essere il migliore perché Cappelli ha in testa tutt’altro e se dovesse mettersi a scrivere con l’idea di diventare il più grande per essere poi definito così da D’Orrico non si siederebbe neanche dietro al tavolino del bravo scrittore. Ma allora perché cavolo scrive Cappelli? Per due motivi. Il primo perché probabilmente si diverte. Gli piace scrivere e gli piacerà scrivere quelle cose comiche, ironiche, umoristiche, surreali, grottesche, esilaranti, a tratti irresistibili in cui il lettore si ritrova con il libro in mano e ride che è uno spasso. Cappelli ha una passione per le situazioni comiche, non c’è dubbio (ora dovrei indicare quel personaggio e quella situazione, ma lo spazio che mi resta è poco e vi dovete arrangiare e credermi sulla parola). Il secondo motivo è che Potenza e la Basilicata non sono solo Potenza e la Basilicata ma il mondo che si è rovesciato a Potenza e in Basilicata. Se leggete Cappelli vi piacerà perché vi sembrerà di guardare la commedia del nostro tempo in uno specchio. Una commedia che fa un po’ ridere e un po’ immalinconire. In questo senso ha ragione D’Orrico a dire che Cappelli è il maggior scrittore italiano contemporaneo.
«Una legge-bavaglio che penalizza i piccoli» Parla Enzo Ghionni, alla vigilia dello sciopero dell’informazione di Alessandro D’Amato
ROMA. «Il nostro è un giudizio estremamente negativo, sia per i contenuti del provvedimento che per le modalità con cui viene preso: imponendo i tempi strettissimi, il governo dimostra di non aver alcuna voglia di discutere di quello che sta facendo, ma soltanto di essere animato da una volontà punitiva. Il brutto è che ci rendiamo perfettamente conto che è giusto tutelare taluni interessi come il diritto alla privacy: non è possibile che ci siano magistrati che intercettano per trovare i reati, invece che per cercare le prove dei reati, così come è sbagliato che le procure consegnino ai giornalisti materiale irrilevante ai fini dell’indagine, che dovrebbe essere distrutto. Ma quello che sta facendo oggi il governo è comunque sbagliato, anzi: suggerisce persino l’idea che si stia lavorando in tutta fretta perché c’è qualche intercettazione scottante che non deve uscire. Invece è giusto dire che Berlusconi ha ragione: siamo tutti intercettati e questo abuso deve finire». Enzo Ghionni, presidente della Federazione Italiana dei Liberi Editori, che riunisce 85 piccole e medie imprese dell’editoria e del giornalismo in Italia e all’estero, è molto critico nei confronti della legge sulle intercettazioni in discussione alla Camera, sulla quale si è scatenata una battaglia politica senza precedenti.
odierna? Le ricordo ad esempio la pubblicazione di sms privati che riguardavano un imprenditore immobiliare e la sua fidanzata di allora... «No, credo di no. Giornalisti ed editori di mestiere fanno quello, pubblicare le notizie. È successo che siano state pubblicate informazioni che non erano attinenti alle indagini, ma è vero anche che esistono i giornali di gossip e che hanno un loro pubblico. Io semmai me la prenderei con i magistrati che hanno intercettato e messo nei verbali quelle informazioni, non con i giornalisti che le hanno pubblicate. Sinceramente, non esiste che i giornali siano frenati dal raccontare episodi di corruzione e criminalità, Tocqueville stesso ricordava che la democrazia americana si è sviluppata proprio grazie alla funzione svolta dall’editoria nella formazione dell’opinione pubblica».
Per il presidente della Federazione Italiana Liberi Editori, è assurdo che quotidiani minori e maggiori paghino la stessa multa
«Una battaglia che si fa sulla pelle dei giornali. Soprattutto dei piccoli, visto che tra le altre assurdità che questa legge contiene c’è anche la sanzione unica a prescindere: chi trasgredisce, dovrà pagare la stessa cifra, sia un grande quotidiano con centinaia di dipendenti e grande fatturato, sia che si tratti di un piccolo quotidiano locale. Un’assurdità anche giuridica, visto che persino per la diffamazione si prevedono pene e multe differenti a seconda che a compiere il reato sia una piccola o una grande testata. L’ennesimo colpo alla piccola editoria che arriva da parte di questo governo, dopo il taglio “a pioggia”dei fondi e le continue promesse di riforma del sistema di assegnazione degli emolumenti, che alla fine si sono rivelate soltanto una serie di chiacchiere». Ma non crede che anche da parte della stampa ci siano state esagerazioni che hanno portato alla situazione
Ma la File aderirà allo sciopero di giovedì? «No, la Federazione non aderirà perché alcuni dei nostri associati preferiscono uscire lo stesso nel giorno dello sciopero, visto che pensano che ci sia bisogno di maggiore informazione, non di minore informazione. Ciò non toglie che alla legge siamo contrari, a questo abuso nei confronti della libera stampa, mentre riteniamo che sia corretto pensare a una riforma del sistema delle intercettazioni in generale, per gli abusi commessi in passato dalla magistratura. Ma se c’è un colpevole di questi abusi, questo non va ricercato tra quelli che fanno il loro mestiere, che è pubblicare le notizie». Secondo lei è ancora possibile pensare a una mediazione tra le istanze del governo e quelle di editori e giornalisti? Magari innalzando alcuni paletti per quanto riguarda la pubblicazione di materiale proveniente da fonti giudiziarie? «Guardi, se la mediazione consiste nell’impedire anche solo in minima parte al giornalista di fare il proprio mestiere, allora no, non ci siamo proprio. Nessuna limitazione alla libertà di stampa è possibile a posteriori, mentre è giusto che si intervenga a priori su chi ordina e fa le intercettazioni. Il problema è che così la legge non avrebbe avuto quel carattere punitivo che invece evidentemente il governo voleva che avesse. Purtroppo».
panorama
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Colloquio con la deputata centrista, da anni impegnata al fianco di chi ha bisogno di particolari assistenze sanitarie
«I bambini non si tagliano» Paola Binetti contro la sforbiciata al numero di letti in Terapia intensiva neonatale di Francesco Capozza
ROMA. Paola Binetti, medico e parlamentare Udc, era ieri in piazza Montecitorio («sono arrivati oltre 60 pullman da tutta Italia») per sostenere le migliaia di portatori e portatrici di handicap giunti a Roma per manifestare contro i tagli alla Sanità e per chiedere al governo e alle istituzioni di non dimenticarli. Il tema porta velocemente a riallacciarsi all’importante battaglia che la deputata centrista sta conducendo da mesi al fianco delle famiglie dei bambini che ogni giorno nascono in situazioni di handicap o prematuramente e che comunque hanno bisogno di assistenza specializzata nelle cosiddette Tip (Terapie intensive neonatali).
straordinario per la sanità nel Lazio, segnaliamo una volta di più questa situazione». Ma Paola Binetti, che è anche componente della Commissione Affari Sociali della Camera, è fiduciosa: «Proprio ieri ho parlato con Luciano Ciocchetti, esponente dell’Udc e neo vicepresidente della regione Lazio, che mi ha assicurato la sua assoluta comprensione umana e politica per la questione. C’è lo spazio per arrivare all’accoglimento delle nostre richieste
per il bene di tutti quei bambini che ogni giorno hanno bisogno di un aiuto ma in casi come questo ci vuole la volontà politica». La Binetti era anche intervenuta, la scorsa settimana, alla quinta edizione del Convegno delle Unità di Terapia Intensiva Neonatale (Tin) del Lazio e in quella sede aveva sottolineato le parole del direttore dell’unità del Policlinico Umberto I, Mario de Curtis: «Mancano almeno venti posti, serve una riorganizzazione dell’assistenza. Sono anni che tutti i neonatologi italiani che si occupano di Tin denunciano la cronica mancanza di posti letto per neonati che necessitano di terapia intensiva neonatale». «Vale la pena ricordare - ricorda oggi la parlamentare Udc - che spesso si tratta di bambini gravemente immaturi (il 40 per cento ha meno di 32 settimane) o gravemente sottopeso (il 35 per cento ha un peso inferiore ai 1500 grammi). Per questi bambini il ricovero in terapia intensiva diventa condizione essenziale per la sopravvivenza. Sono bambini che se trasferiti da un ospedale all’altro in cerca di un letto di Tin hanno una percentuale raddoppiata di morire. Il 45,4 per cento dei bambini è stato trasferito per mancanza di posti letto». «Eppure - ha osservato Binetti - davanti alla denuncia di questo problema, il ministro della Salute ha accolto ripetutamente ordini
Un neonato a rischio, se non è ben trattato fin dal primo momento, corre seri rischi di morte o invalidità
«Basta lasciar morire bambini che potrebbero tranquillamente sopravvivere: tra i tanti tagli che sono in programma, questi andrebbero depennati. Forse in alcuni casi questi letti potrebbero essere semplicemente riconvertiti e destinati ad un uso che non può più essere ignorato». «Il numero di posti in una Terapia intensiva neonatale - precisa a liberal la parlamentare centrista - è un fattore di civiltà di un Paese, dal momento che uno degli indicatori più importanti per descrivere il suo livello di qualità complessiva è rappresentato proprio dall’indice di mortalità infantile. Al ministro Fazio e alla presidente Polverini, commissario
del giorno, mozioni e interrogazioni parlamentari, dicendosi sempre più che disponibile a trovare la soluzione a un problema, che invece è rimasto drammaticamente insoluto».
Quindi per la parlamentare «al ministro Fazio e ora anche alla Presidente Polverini, commissario straordinario per la sanità nel Lazio, segnaliamo una volta di più questa situazione. Il numero di posti in una Tin è un fattore di civiltà in un Paese, dal momento che uno degli indicatori più importanti per descrivere il suo livello di qualità complessiva è rappresentato proprio dall’indice di mortalità infantile. Le Tin non possono essere considerate in una logica puramente economico-finanziaria. Non ci sono margini di risparmio possibile, perché non c’è alcuno spreco di risorse, non ci sono falsi invalidi. Ma un neonato a rischio, se non è ben trattato fin dal primo momento, corre seri rischi di morire o di diventare un invalido vero con costi molto più alti per la nostra sanità, senza dimenticare il costo personale altissimo di chi sarà sempre un disabile». Infine la parlamentare, da sempre attenta alle questioni mediche e sociali, sottolinea la necessità di «un turn over di personale tecnico specializzato e alla conversione di altri posti letto a favore di quelli dedicati alle terapie intensive neonatali».
Parità. Bisogna soprattutto guardare ai bisogni delle neomamme. Per esempio allungando il periodo di maternità
Più sostegno ai “manager”della famiglia di Viviana Dabusti on la manovra in discussione al Senato dovrebbe essere finalmente parificata l’età di ritiro tra uomini e donne del pubblico impiego. E accanto alla soglia dei 65 anni ci sono anche importanti risparmi con i quali generare benefici sociali ed economici alla parte più debole dei lavoratori italiani. E le idee, come i soldi recuperati, non sono poche, soprattutto se si ricorda che una donna che lavora è quasi sempre anche il “manager” della propria famiglia. In questa chiave bisogna guardare innanzitutto ai bisogni delle neomamme. Per le quali si potrebbe definire un periodo di maternità retribuito al 100 per cento molto più lungo dei 5 mesi attualmente previsti.
C
Dopo questo tempo le donne sono costrette a decidere se tornare a lavorare affidando il proprio bambino ai nonni o all’asilo nido, oppure rinunciare al 70 per cento della propria retribuzione per restare a casa. E gli impatti di questa scelta vanno ben oltre l’aspetto economico: se da un lato c’è da ga-
rantire la stabilità economica della propria famiglia, dall’altro ci sono i rimpianti di una mamma che non è mai tranquilla e serena nel tornare a lavorare sapendo che è proprio dal terzo mese in poi che la convivenza con il proprio bambino inizia a dare i primi frutti. Che è in questa fase che il piccolo inizia a interagire con il mondo. Certi momenti non
permetterle di accompagnare e riprendere i suoi figli negli orari stabiliti dal datore di lavoro.
Eppure i finanziamenti per la creazione di queste strutture – anche in ambito aziendale – sono in continuo calo, mentre continua a essere vista come un’eresia l’uso di permessi retribuiti (e quindi validi ai fini previdenziali) per permettere alle famiglie di gestire al meglio i propri figli. Questo stato di cose impedisce alle donne di avere continuità nella propria carriera professionale, ben sapendo che ogni scelta finisce per avere ripercussioni su tutta la famiglia. Ben venga l’equiparazione pensionistica tra i sessi, ma senza un rafforzamento dei servizi che sono stati implementati all’estero, difficilmente ci sarà una vera parificazione.
Ben venga l’equiparazione pensionistica tra i sessi, ma è necessario un rafforzamento dei servizi che sono stati implementati all’estero andrebbero mai persi. Ma non sempre una donna può occuparsi contemporaneamente delle mansioni familiari e di quelle lavorative. Ed è per questo che in Italia si sente di più l’assenza di quel contorno di servizi che dovrebbero essere basilari. La mamma che lavora spesso fa fatica a trovare un asilo o una scuola materna a prezzi accettabili e vicina al proprio ufficio a prezzi, in grado di
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Creato nel 2005 a Hong Kong, “aNobii” ha prodotto una rete di utenti che condividono libri, li rec i avevamo lasciati incerti, un po’ timidi e un po’ diffidenti: qualche sortita solitaria sulla rete, qualche tentativo sperimentale di scrittura, ma soprattutto un’identità ancora tutta da definire. In poco meno di due anni, la situazione è radicalmente cambiata. Ormai da tempo, il lettore digitale (era questo il titolo di una nostra inchiesta pubblicata a fine aprile del 2008) si è fatto più maturo, ha smesso i denti da latte e, insieme ad essi, la tipica diffidenza nutrita nei confronti del web. Social network, siti, community, blog e soprattutto appuntamenti virtuali. Si snoda sotto queste cinque direttrici l’imperativo culturale della rete. Con un diktat (la condivisione) e con un dogma (la democrazia e la parità dei ruoli) che quasi sempre sono un’opportunità, ma che spesso possono trasformarsi in una trappola insidiosa.
L
Partiamo dai primi. A guidare la pole è sicuramente “aNobii”, il social network dei libri per antonomasia. Creato nel 2005 ad Hong Kong, ha impiegato qualche mese per radicarsi in Italia, ma adesso è davvero il dominus del settore. Il suo etimo ha un’origine curiosa: proviene dall’Anobium punctatum, ovvero il tarlo della carta. Paradossale che si sia deciso di puntare su quello per una comunità che investe ogni risorsa sulle opportunità del web e che dunque di cartaceo ha poco o punto. L’idea è semplice, ma azzeccata: creare una rete di utenti (lettori forti, ma anche improvvisati) che condividono i libri letti, li giudicano (da uno a cinque stelle), li recensiscono (ma non è obbligatorio) e, se del caso, li comprano. Il successo del social network è stato così massiccio – e la sua incisività così radicale – che ne è nato addirittura un saggio, edito da Rizzoli e a cura di Barbara Sgarzi, che ha raccolto il meglio dei libri letti e recensiti dalla rete. L’entusiasmo per “aNobii” ha finito con il contagiare anche gli scrittori. Sul Fatto Nicola Lagioia lo ha paragonato addirittura a una sorta di Cafè de Procope del web 2.0. Per il narratore barese, la chiave del successo sta tutta nell’identikit degli utenti: «Sono lettori accaniti e disinteressati – scrive - e mostrano di avere attraversato l’intera esperienza di un libro: hanno speso soldi per acquistarlo, e tempo per leggerlo, lo hanno davvero amato o detestato, e spesso con competenza e senza inutili puzze sotto al naso restituiscono una passione e un’intelligenza che risultano contagiose». Tutto il contrario dei critici di professione e dei recensori, in grado di «accostarsi a un libro come a un topo morto». Viva “aNobii”, dunque? No, almeno non sempre. L’entusiasmo, infatti, non è per niente trasversale. La giornalista Loredana Lipperini, che ormai da anni si occupa di questi temi, tenendo anche un vivace blog (Lipperatura), è ad esempio convinta che il social network sia da prendere con le dovute cautele: «Molte recensioni – ha detto di recente - sono all’insegna della
Il virus della sc di Filippo Maria Battaglia frecciata velenosa anziché dell’approfondimento». Il perché, secondo la narratrice, è probabilmente da imputare all’«esigenza di urlare più forte per ricevere il raggio di luce del riflettore».
ANobii non è però il solo protagonista nel vivace mondo dei social network. C’è il microblog “Twitter”(provate a clic-
care la parola «gruppo di lettura» e vedrete quanti risultati!), ma soprattutto c’è l’inossidabile “Facebook”, fondato nel 2004 da Mark Zuckerberg. In questo caso, sono centinaia i club dedicati alla scrittura, ai libri e ai narratori. Con sorprese che sfiorano l’incredibile: la pagina dedicata alla poetessa Alda Merini, ad esempio, sfiora i cinquantamila iscritti, superando quelle dell’asso del Palermo calcio Fabrizio Miccoli o di una cantautrice come Fiorella Mannoia. Sul gruppo, i suoi lettori si tengono aggiornati sulle novità editoriali e le ristampe, citano e discutono le sue poesie, interagiscono con il sito messo a punto di recente dalle figlie.
Puntano invece tutto sulla condivisione gruppi quali «10 righe dai libri» e «Le frasi più belle dei libri». L’intento è quello di «valorizzare i passi più o meno noti della narrativa e della letteratura», ma c’è anche chi ne approfitta e prova a promuovere il proprio inedito, citandolo e invitando presunti editori a «pubblicarlo: ne vale la pena». Dominano, come ovvio, autori come Fabio Volo, Carlos Ruiz Zàfon, Stephen Meyer, James Patterson
ma si possono trovare anche autentiche rarità quali gli estratti di America amara del critico Emilio Cecchi. Nel frastagliato mondo del 2.0 può pure capitare però che la condivisione si trasformi in missione o, persino, in un apostolato laico. È il caso di “118libri.it”, nato dalla convinzione che «non esistono persone a cui non piace leggere, ma solo persone che non hanno mai trovato il libro giusto». Il risultato è un aggiornato servizio di consulenza con l’obiettivo di trovare per «ogni lettore un libro adatto». L’esperienza più insolita legata ai social network è però certamente quella dei cosiddetti «fenomeni virtuali», in grado di trasformarsi in iniziative in carne ed ossa. La più clamorosa è senz’altro “Leggere, leggere, leggere”: lo scorso 26 marzo più di una decina di migliaia di lettori hanno «preso un libro e lo hanno regalato a uno sconosciuto». È quello che è stato da tempo definito bookcrossing, un tentativo (stavolta virale) di condivisione «dal basso», le cui esperienze dovrebbero finire adesso in un saggio. Ma c’è anche chi ha obiettivi decisamente più ambiziosi. In cerca di lei è un gruppo nato con lo scopo di «raccogliere appunti, materiali e idee per la costruzione di un nuovo immaginario riguardante le donne». La finalità è duplice: fuggire dalla «doppia trappola della veli-
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censiscono e (qualche volta) li comprano. E poi ci sono centinaia di gruppi su Twitter e Facebook...
Social network, community, blog: continua a diffondersi online la mania della letteratura fai-da-te. Un’opportunità o una trappola?
crittura digitale neria televisiva», ma anche dalla solita «condanna della medesima».
Tutti i materiali sono accetti: dalla poesia di Alda Merini all’icona cartoon di Marge Simpson, dall’intervista al premio Nobel Josè Saramago a un estratto di film cult come La morte ti fa bella fino allo scandaloso (allora) Inizio del mondo di Gustave Courbet. E gli editori? Di fronte al fenomeno non sono certo rimasti a guardare. Così, se fino a due anni fa i più intraprendenti facevano raccontare agli autori del loro catalogo i libri in brevi videointerviste, adesso offrono molto di più. Capitolo audiolibro ed e-book a parte (su cui, peraltro, in queste pagine si è già a lungo scritto), sono soprattutto i blog e i marchi più piccoli a cercare visibilità con nuove iniziative sulla rete. Come ha raccontato la Lipperini, l’inglese “Bugged”, ad esempio, ha invitato i propri lettori a inviare entro il 15 agosto testi - di qualunque tipo, purché brevi – nati dall’ascolto di conversazioni dei vicini al bar, al pub o in metropolitana. I migliori finiranno sulla rete e, se vale davvero la pena, saranno raccolti in un’antologia. Simili iniziative non riguardano però solo la perfida Albione. Già da tempo, gli editori nostrani si sono mossi di conseguenza. Due esempi su tutti. Il primo si è concluso qualche settimana fa e ha
visto protagonista una casa editrice viareggina, “Giovane Holden edizioni” (il nome deriva ovviamente dal capolavoro di Salinger, altro libro in odore di culto dagli amanti della rete), che ha indetto un concorso sul web dedicato alle opere prime con protagonisti streghe e vampiri, con tre premi dedicati rispettivamente al romanzo, al racconto e alla poesia. Inutile aggiungere che il premio è la pubblicazione del testo che, complice l’attesa del risultato, avrà certamente raggiunto in questi giorni una notevole visibilità, quantomeno tra gli aspiranti romanzieri. Più raffinata, la tecnica usata da un’altra piccola casa editrice. Per selezionare i libri da pubblicare, tempo fa Intermezzi ha deciso di scegliere cinquanta lettori forti, chiedendogli di leggere manoscritti. Gli «appassionati divoratori», sono stati vagliati in base alla loro personale libreria di “aNobii”e sono diventati lettori per un giorno degli editori. Una conferma, questa, dell’insospettabile interesse che i social network continuano a riscuotere tra gli addetti ai lavori. Addetti ai lavori che – è ormai capita piuttosto spesso – alle volte ci prendono gusto e decidono di sfruttare la blogosfera quale un curioso sfogatoio della loro professione, in modo rigorosamente anonimo.
La vera editoria è solo uno degli esempi più vivaci: nato nell’aprile 2010, il blog è stato fondato da un «editor scazzato che dice quello che pensa e pensa quello che dice». Punto. Sul suo conto non si sa più nulla, solo il fatto che – considerata la mole delle visite e dei commenti - gli internauti sembrano apprezzare. L’aspetto più curioso (e più cattivo) del web arriva però dai blog letterari. O meglio dai commenti che i lettori disseminano in rete. Qualche esempio, fra migliaia possibili. L’ultimo libro di Fabio Volo? Per Laura è «un misto di luoghi comuni e banalità che hanno impoverito il racconto». L’ombra del vento di Carlos Ruiz Zàfon? «Inutilmente verboso». La biblioteca dei morti di Glenn Cooper? «Un libro noioso e piatto nella parte descrittiva e di caratterizzazione dei personaggi». E via proseguendo, senza peraltro risparmiare nessuno. Nemmeno i classici: nel tritacarne è finito così anche un capolavoro quale La fattoria degli animali di George Orwell. Su Internetbookshop.it, uno dei tanti siti dove, oltre ad acquistare i libri, è possibile anche commentarli e recensirli, uno degli utenti sentenzia: «noioso». E un altro dice: «ho letto senz’altro di meglio». La ricchezza e la contraddittorietà del web sta tutta qui: commenti acuti, consigli inaspettati, palati finissimi, da un lato; e, per converso, risposte sommarie, pressapochismo generalizzato, conformismo dilagante, dall’altro. A questo punto, la domanda sorge spontanea: in questo bailamme, il critico letterario che cosa fa? Per ora, nella stragrande maggioranza dei casi, resta più che altro a guardare. Eppure, dopo anni di auto-imbavagliamento potrebbe finalmente approfittarne, rinnovando la sua funzione di mediatore culturale, dismettendo la solita sofisticatezza e profittando del continuo feedback che la rete è in grado di offrirgli. Una sfida possibile o la solita utopia? Vedremo.
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Polemiche. L’accordo prevede ospitalità in cambio di lavoro socialmente utile. Ma, spenti i riflettori, tutto tornerà uguale
2010, fuga da Tripoli I rifugiati eritrei possono rimanere in Libia Ma solo dopo le enormi pressioni del mondo di Osvaldo Baldacci e la sono vista tra loro, tra africani, tra disperati rifugiati dall’Africa nera sub sahariana e potente arabi-africani delle coste del petrolio e del miraggio. Si è (forse) conclusa ieri la drammatica vicenda di 250 rifugiati eritrei finiti in balia delle vendette libiche, vicenda chiusa in un modo accettabile ma che non può far dimenticare tutte le questioni dolorose che si sono aperte in questi giorni. Se a portare a più miti consigli il regime libico sia stato il lavoro sotterraneo di qualche governo europeo, compreso il nostro, lo possiamo solo sperare ma non è affatto detto che sia così. E comunque troppo poco, troppo tardi, e troppe incertezze sul futuro di quei rifugiati e soprattutto di tutti gli altri in balia di un regime che li strumentalizza come massa di pressione sui Paesi europei. Perché l’impressione che è stata data in questi giorni da questa sponda del Mediterraneo non è quella di una mediazione sotterranea, di
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Per parlare di immigrazione non si deve cadere nella retorica
Un problema vero, non strumentale di Mario Arpino eri nel primo pomeriggio, all’ospedale militare del Celio dove era ricoverato in cardiologia, ho avuto modo di conversare brevemente sul problema dei rifugiati dell’ex Africa Orientale Italiana con il prof. Aleme Eshete, studioso di problemi africani, etiope in Italia dal 1986, quando il Derg (una sorta di consiglio dei ministri etiopico), lo ha obbligato a lasciare il Paese per motivi politici. Conosce bene la dura situazione degli etiopi e degli eritrei (che egli considera un solo popolo) nei campi libici, ma si sente altrettanto frustrato per la situazione - certo non paragonabile con quella della Libia - dei rifugiati politici in Italia. Che, secondo lui, è sempre stata umiliante a prescindere dal fatto che i governi in carica fossero di destra o di sinistra. L’accoglienza, secondo la sua esperienza, è fatta di misure di polizia e di firme di libri-presenza presso le Questure, come i delinquenti in libertà provvisoria o i sospettati di alQaeda. L’assistenza, invece, sarebbe scaricata dallo Stato sulle spalle delle varie Ong, le confraternite caritatevoli e la Caritas. Interessante, la conversazione con il professore. Mi sono però reso conto che la materia dei rifugiati politici si presta molto ad essere trattata come questione di parte e, in particolare, come questione di parte “sinistra”. È una questione importante, delicata, che richiede soprattutto calma ed oggettività, oltre ad un esame completo
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della situazione e del contesto. Altrimenti si rischia di cadere nella trappola di chi della questione si è temporaneamente appropriato sopra tutto per finalità politiche, piuttosto che umanitarie. Lasciamo questo atteggiamento a chi lo utilizza per mestiere da sempre, evitando per quanto possibile di unirci a cori il cui livello di approfondimento e di oggettività spesso non si discosta di molto da quello che emerge dagli slogan dei così detti centri sociali. Ciò detto, va anche riconosciuto che se il problema dell’immigrazione clandestina, che era per unanime parere di destra e sinistra una delle nostre priorità, appare ora drasticamente ridimensionato, è possibile che per ottenere questo risultato sia stato necessario assorbire temporaneamente qualche “danno collaterale”. Va ancora detto che solo una minima parte dei 250 eritrei deportati da Misurata verso i campi di Sheba dopo una sommossa, proveniva da “respingimenti” in mare effettuati dalle nostre autorità. Ancora, bisogna dire che anche per i libici, come già accadeva alla nostra polizia di frontiera a Lampedusa, è assai difficile concedere il “diritto dello stato di rifugiato”a chi non vuole lasciarsi identificare. Ciò che sta accadendo è comunque increscioso, e il nostro Governo pare stia esercitando con la dovuta discrezione - altre volte ha avuto successo - i suoi buoni uffici. Che la Libia non sia una perla di democrazia lo si sapeva. Anche quando l’Onu l’ha inserita nella commissione per la tutela dei diritti umani, della quale, se non erro, ha avuto per un certo tempo anche la presidenza. E non ricordo di aver udito, in quella circostanza, l’accorato appello dei nostri sinistri coristi.
pressioni diplomatiche tanto più efficaci perché silenziose, ma piuttosto un bel “chissenefrega degli africani”. Eppure il dramma di alcune centinai di migranti eritrei in Libia ci riguarda da vicino, visto che l’Europa è la meta finale agognata da questi disperati in fuga da un regime crudele.
E che lungo la strada sono finiti in bocca a un regime altrettanto spietato che fa il lavoro sporco sul quale gli europei chiudono gli occhi. E anche l’I-
Non immigrati clandestini, si badi bene, ma profughi in fuga dalle persecuzioni del regime di Asmara, e come tali aventi legalmente diritto alla protezione internazionale. Protezione che la Libia nega loro per il fatto che non aderisce alle convenzioni internazionali, e che anche l’Italia nega a loro o a chi come loro quando respinge indiscriminatamente e senza verifica chiunque si avvicini alle coste, senza distinguere tra il legittimo respingimento di immigrati clandestini e l’illegittimo
Il vero nodo è lo scaricabarile: l’Italia pretende un maggior coinvolgimento dell’Unione europea, ma Bruxelles risponde citando l’amicizia fra Berlusconi e il leader Muhammar Gheddafi talia. Che probabilmente ha qualche responsabilità in più. Non solo per i legami e le responsabilità storiche che ci legano all’Eritrea. Non solo per i legami antichi e recentissimi che ci legano alla Libia e ci darebbero la possibilità di esercitare una influenza umanitaria. Ma perché i respingimenti indiscriminati operati in mare per ordine del governo potrebbero aver impedito la fuga anche ad alcuni di quei migranti eritrei il cui destino è ora appeso a un filo. Anche se ieri il ministro Maroni e il sottosegretario Stefania Craxi, tirando un respiro di sollievo perché la soluzione del caso ha tolto loro parecchie castagne dal fuoco, si sono affannati a sottolineare e ripetere che non c’è alcuna prova che quegli eritrei siano gli stessi che l’Italia aveva respinto nei mesi scorsi senza alcuna verifica.
rifiuto opposto a chi ha i titoli per essere considerato un rifugiato internazionale. E mentre l’Italia firma accordi faraonici con la Libia di Gheddafi senza tenere in alcuna considerazione il diritto umanitario internazionale, l’Europa sostanzialmente tace e non assume alcuna iniziativa. Quasi come se Roma, Bruxelles e le altre capitali volessero far capire a Gheddafi che se ci pensa lui a bloccare il flusso migratorio, non riceverà rimproveri ma semmai gratitudine. E la possibilità di continuare a fare lucrosi affari petroliferi. Chissà se poi l’attenzione mediatica non abbia giovato a questi eritrei, magari a discapito ad esempio delle centinaia di nigerini espulsi nel silenzio pochi giorni fa. Il 30 giugno 245 rifugiati eritrei ma anche somali sono stati trasferiti a forza nel centro di Sebha, nel mezzo del
mondo
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Le Ong denunciano regolarmente le violazioni ai diritti umani nel Paese
Ma il flusso di profughi non si fermerà presto
Migliaia di persone in marcia da Ciad, Niger e Nigeria per raggiungere l’Europa senza passare dal Sahara di Giovanni Radini resce lo sconcerto per la nuova politica anti-immigrazione adottata dalla Libia. Amnesty International ha rivolto un appello all’Agenzia Onu per i rifugiati, l’Unhcr, affinché intervenga per far cessare lo stillicidio operato da Tripoli contro le interminabili carovane di profughi, fuggiaschi e sfollati che attraversano il suo deserto e tentano di arrivare in Europa. Secondo le stime delle Nazioni Unite si tratta di qualche migliaio di disperati che provengono dai Paesi a Sud della Libia, in prevalenza Ciad, Niger e Nigeria. Ma bisogna anche aggiungere il Sudan e altre aree ancora più meridionali. Tuttavia esattamente un mese fa il Governo libico ha espulso gli osservatori Onu dal Paese. Ciò significa che i dati a disposizione restano limitati e insufficienti. Secondo quanto trapelato si sta compiendo un vero e proprio massacro silenzioso, lontano dagli obiettivi dei fotografi e dalle testimonianza degli occidentali. I report che giungono dal Nord Africa sono firmati dai quei pochi e intrepidi operatori umanitari delle Ong che, stando in Libia, rischiano il carcere e la stessa vita. Il caso di Max Göldi è esemplare. Questo imprenditore svizzero, legato proprio ad Amnesty International, è stato bloccato in Libia dal 2008 e ha passato gli ultimi quattro mesi in un carcere tripolino perché accusato di violazione delle leggi sull’immigrazione. In situazioni come queste, le ambasciate straniere nella capitale libica si trovano con le mani legate, impotenti ma coscienti di un dramma che si sta consumando sotto i loro occhi. Intere colonne di profughi vengono abbandonate a loro stesse lungo le piste del Sahara, in modo che sia quest’ultimo a disperderne le tracce. Le autorità di sicurezza libiche se ne disinteressano volutamente, onde evitare lo sforzo di contenerle lungo le coste nazionali. Coloro che invece cadono nelle mani della polizia diventano facili vittime di arresti e processi sommari.
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deserto del Sahara, dove le temperature sono intorno ai 50 gradi. La misura sarebbe stata una punizione per una sollevazione e un tentativo di fuga che i migranti avrebbero messo in atto il giorno prima nel centro di detenzione per immigrati dove si trovavano, a Misurata, dove avevano avuto sentore che sarebbero stati estradati in Eritrea. La situazione è precipitata dopo che nella città costiera 210 chilometri a est di Tripoli è stato chiuso l’ufficio dell’UNHCR, che fino a pochi giorni fa aveva vigilato su di loro. È stato il governo libico l’8 giugno a decretare l’espulsione dell’agenzia Onu, spiegando poi che l’Unhcr svolgeva “attività illecite”.
I 250, spiegano connazionali in contatto con loro,“temono il rimpatrio e hanno lanciato un appello alla comunità internazionale affinché non li abbandoni”. Per reazione il governo di Tripoli ha disposto il loro trasferimento organizzando un viaggio di dodici ore verso il sud chiusi all’interno di un container di metallo. Secondo testimonianze dirette raccolte dal Consiglio Italiano Rifugiati, i 245 sono stati sottoposti a forti maltrattamenti e sono tenuti in estrema scarsità di acqua e di cibo. Alle persone che presentano ferite e gravi condizioni di salute non sono fornite cure mediche. Ieri infine è stato il governo libico ad annunciare che è stato raggiunto l’“accordo di liberazione e residenza in cambio di lavoro”. Il ministro della Pubblica Sicurezza Libico, Gen.Younis Al Obeidi, secondo quanto riferiscono fonti locali dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni
(Iom), ha detto che tale accordo, firmato con il Ministero del Lavoro libico, consentirà agli eritrei rinchiusi a Brak di uscire in cambio di “lavoro socialmente utile in diverse shabie (comuni) della Libia”.
Questa soluzione non può far dimenticare i problemi che la vicenda pone. Il silenzio dell’Europa, con l’Unione europea che non è intervenuta e alcune istituzioni che si sono limitate a sollecitare un intervento dell’Italia che ha la possibilità di essere più ascoltata dalle orecchie di Tripoli. Un bello scaricabarile: l’Italia che (giustamente) pretende un maggior coinvolgimento dell’Unione europea, la Ue che dice all’Italia “sei tu che sei amica di Gheddafi”. E questo è vero, visto il faraonico Trattato di amicizia tra Italia e Libia. Patto che ha totalmente trascurato la questione dei rifugiati. Quando infatti il governo italiano aveva il coltello dalla parte del manico, con miliardi di investimenti, ha preferito ignorare che la Libia non ha sottoscritto la Convenzione del 1951 sulla tutela del rifugiati, né ha intenzione di aderirvi o comunque garantire i diritti dei profughi. Ben sapendo che il problema migrazioni vede nella Libia il punto di arrivo di lunghe carovane della disperazione e della morte, e il punto di partenza verso la sponda nord del Mediterraneo, l’Italia ha preferito lusingare Gheddafi per fargli chiudere i rubinetti piuttosto che costringerlo alle sue responsabilità. Di qui i respingimenti in mare, senza verifiche e senza preoccupazione per la sorte finale dei fuggiaschi. Non una politica di cui essere fieri.
di nigeriani che prima di entrare in Libia hanno attraversato il Niger e poi sarebbero state vittime di espulsioni collettive.
Un centinaio di questi sarebbero stati evacuati lo scorso lunedì. Un ostacolo ulteriore contro questi profughi è dato dalle incomprensioni linguistiche. I poliziotti di frontiera libici si rivolgono in arabo agli immigrati. Ma questi il più delle volte conoscono solo l’idioma dialettale della loro terra di origine.Tripoli anche in questo caso starebbe prendendo la palla al balzo per lasciare fuori dalla sua giurisdizione coloro che non riescono a farsi comprendere. Le leggi sull’immigrazione volute da Gheddafi si stanno dimostrando estremamente severe e vengono attuate con il tacito accordo dell’Occidente. Il governo di
Secondo quel poco che trapela, si sta compiendo un vero e proprio massacro silenzioso degli esuli, lontano dagli obiettivi dei fotografi e dalle testimonianze degli occidentali
Spesso le colpe inflitte sono sproporzionate rispetto alle accuse. È di ieri la testimonianza di un operatore di Amnesty International, Diana Eltahawy, relativamente a 19 nigeriani entrati clandestinamente in Libia, messi agli arresti per furto e poi condannati a morte. «Scioccante è anche il fatto che la Libia faccia parte del Consiglio Onu per i diritti umani. Una posizione, questa, che dovrebbe indurla ad assumere una politica meno repressiva», ha sottolineato la Eltahawy. Si stanno verificando inoltre casi di intere carovane sempre
Gheddafi non riconosce lo status giuridico di rifugiato politico sul proprio territorio, se non in casi eccezionali. I profughi che attraversano il Sahara risultato nella loro interezza clandestini. La loro espulsione diventa immediata non appena sono intercettati dalla Polizia. L’Unione Europea aveva chiesto che Tripoli facesse da filtro alla massa di profughi che ogni anno in questo periodo si raggruppano sulle coste nordafricane e tentano di raggiungere l’Italia, oppure il sud della Francia e la Spagna. Gheddafi ha pensato che fosse opportuno accantonare la sua linea politica filo-africana e di apertura verso i suoi partner continentali, al fine di assecondare l’Occidente con l’obiettivo di riceverne vantaggi economici, specie in ambito petrolifero e di investimenti.
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Usa. Introdotta con troppo ritardo la verifica della solvibilità del debitore a Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti ha approvato, mercoledì scorso, il progetto di legge di riforma della regolazione finanziaria che porta la firma congiunta dei due esponenti Democratici alla Camera ed al Senato, Barney Frank e Chris Dodd. Il via libera del Senato, con ulteriori modifiche, dovrebbe arrivare entro metà luglio. Nel complesso, la nuova regolazione finanziaria rappresenta un tentativo di sistematizzare il corpus di norme che presiedono al funzionamento dei mercati e degli intermediari finanziari, e nasce dopo il trauma epocale rappresentato dalla crisi scoppiata nell’ormai lontano 2007, ma che è ancora con noi, e che è destinata a restarvi a lungo. Non stupiscono quindi i toni solenni utilizzati dai notabili Democratici: Nancy Pelosi, la speaker della Camera, ha parlato di una legge che servirà “per far si che tutto ciò non accada mai più”, dando prova di qualcosa che si situa a metà tra l’ottimismo e la scarsa conoscenza del funzionamento dei mercati. Ma per i Democratici, all’approssimarsi delle elezioni di midterm del prossimo novembre, è vitale contenere l’ondata di sconcerto frammisto a disgusto che l’opinione pubblica esprime di fronte ad una crisi che ha ormai intaccato la tradizionale mitologia americana della capacità di rigenerarsi più forti dopo ogni crisi e di contenere le degenerazioni oligarchiche del proprio sistema economico. Il progetto di legge prevede, tra le altre cose, una regolazione più stretta sulle imprese finanziarie, oltre alla istituzione di una agenzia per la protezione dei consumatori di sapore piuttosto europeo, in linea con altre riforme di questa presidenza. Prevista anche la riduzione delle attività più rischiose di trading ed investimento, e la creazione di un processo per governare la liquidazione delle banche e delle entità finanziarie in dissesto. Ma i dubbi sul provvedimento restano. A partire dalla mancata gestione del “caso” di Fannie Mae e Freddie Mac, i due giganti dei mutui da sempre centauri al confine tra pubblico e privato, dopo la crisi divenuti garanti pressoché unici di tutta l’attività di erogazione di mutui negli Stati Uniti, con il ruolo di assorbire le insolvenze dei debitori. Attività che, da settembre 2008 ad oggi, è costata 145 miliardi di denaro dei contribuenti, ed ancora non si vede la fine del tunnel. Un esempio di provvedimento di riforma della regolazione finanziaria su cui si sono formate forti attese, poi
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Obama, Wall Street e il Gattopardo La riforma finanziaria promette novità epocali per le Borse. Ma non le applica di Mario Seminerio
L’innovazione, nel bene e nel male, è sempre più “liquida”, cioè tende ad aggirare senza sforzi eccessivi le regolazioni più puntuali invariabilmente frustrate, intorno alla cosiddetta “regola Volcker”, dal nome dell’ex governatore della Fed, l’uomo che a inizio anni Ottanta stroncò l’inflazione con una politica monetaria aggressivamente restrittiva. Mesi addietro Volcker, che fa parte dei consulenti di Obama, aveva proposto di separare drasticamente la funzione di banca commerciale da quella di banca d’investimento, eliminando il trading proprietario e di fatto reintroducendo una separazione come quella prevista dal
Glass Steagall Act, abolito nel 1999. L’idea di Volcker è però stata progressivamente diluita e snaturata, e nella versione finale del testo di legge è stata sostituita dalla possibilità per le banche di investire un massimo del 3 per cento del proprio patrimonio in fondi hedge o di private equity, e fino ad un massimo del 3 per cento del patrimonio di quest’ultimi. Limiti comunque ampi, e che permetteranno alle banche di continuare le operazioni proprietarie senza problemi di sorta. Nel complesso, il prov-
vedimento appare più di facciata che realmente risolutivo. In esso, ad esempio, non viene trattata la questione centrale del sistema finanziario americano, quello delle banche too big to fail, che dopo questa crisi ed i relativi salvataggi lo sono ancora di più, con effetti pesantemente distorsivi sul
mercato dei depositi. Inoltre, la nuova legislazione neppure accenna alla necessità di ridurre l’eccesso di leva finanziaria presente nel sistema. Ancora, la creazione del Financial Stability Council è un passo avanti rispetto alla balcanizzazione dei regolatori finanziari presente oggi, e che spesso consentiva agli intermediari di “scegliersi” il proprio guardiano, con effetti che sono sotto gli occhi del mondo. Ma la nuova struttura, coinvolgendo la precedente pluralità di supervisori e regolatori, reca con sé evidenti problemi di coordinamento. Nulla è poi previsto per rompere la struttura oligopolistica delle agenzie di rating, anche se è istituita un’entità para-governativa di gestione dei conflitti d’interesse di quest’ultime. Nell’ambito della governance societaria la riforma non dà all’assemblea degli azionisti sufficienti poteri di controllo, preventivo e successivo, sull’operato dei manager, non prevedendo neppure clausole di revocatoria dei bonus. Un aspetto moderatamente positivo è l’aumento della protezione federale sui depositi, portata a 250.000 dollari, finanziata con aumento dei premi assicurativi a carico delle banche. Si dimentica tuttavia il punto più importante: l’innovazione finanziaria, nel bene e nel male, è sempre più “liquida”, cioè tende ad aggirare senza sforzi eccessivi le regolazioni più puntuali, in un circolo vizioso di regolazione puntuale che genera comportamenti elusivi che chiamano nuove regolazioni. Ma soprattutto, in questa riforma c’è un aspetto ironico e surreale. È la solenne certificazione di quello che dovrebbe essere il fondamento dell’attività creditizia: la verifica preventiva della solvibilità del potenziale debitore. Ecco quindi che sarà vietato erogare credito a chi non ha i mezzi per rimborsarlo. Viene da sorridere amaro pensando che, se questo precetto di buonsenso fosse stato rispettato negli anni passati, forse ci saremmo evitati gli aspetti peggiori della crisi. Ma fa anche riflettere che, per la benevola negligenza ideologicamente finto-liberista del controllore (la Fed di Alan Greenspan), ora ci si trovi con una legge che moltiplica le sovrastrutture burocratiche sull’economia. Il Gattopardo di Wall Street ha colpito ancora.
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Ancora ignote le motivazioni alla base del delitto in Mongolia
Le indagini hanno individuato un prelievo da 50mila euro
Wuhai, uccisi a coltellate due religiosi “sotterranei”
Tangenti a Sarkozy, la polizia trova le tracce
WUHAI. Padre Joseph Zhang
PARIGI. La polizia francese ha ritrovato le tracce di un prelievo in contanti di 50.000 euro all’agenzia BNP dove c’era il conto di Liliane Bettencourt, effettuato il 26 marzo 2007. La circostanza sembra confermare le dichiarazioni di Claire Thibout, la ex contabile della Bettencourt, che ha parlato del prelievo da lei fatto per contribuire a una tangente di 150.000 euro destinata nel 2007 alla campagna elettorale di Nicolas Sarkozy. Il presidente francese, spinto anche dalla sua maggioranza a prendere la parola pubblicamente per difendersi, si esprimerà il 13 luglio, in occasione della presentazione in Consiglio dei ministri della riforma delle pensioni. Lo ha
Shulai, vicario generale della diocesi sotterranea di Ningxia (Mongolia interna) e suor Maria Wei Yanhui sono stati accoltellati e uccisi la scorsa notte nel distretto di Wuda a Wuhai, capitale della Mongolia interna. I due religiosi lavoravano in una casa per anziani ospitata nel complesso della chiesa locale. Fonti locali affermano che questa mattina il personale dell’ospizio, non vedendoli comparire alla messa quotidiana delle 6,30, si è recato nelle loro stanze trovando i corpi di p. Joseph e sr. Maria in un lago di sangue, apparentemente uccisi a coltellate. L’omicidio è stato denunciato intorno alle 7 alla polizia, che ha isolato l’area intorno al complesso ecclesiastico e messo sotto controllo le comunicazioni telefoniche. Al momento resta ignota la ragione dell’omicidio e l’identità dell’assassino.
I cattolici della zona affermano ad AsiaNews che il corpo di Padre Zhang presenta 7 ferite profonde ed evidenti segni di lotta. Suor Wei è stata invece uccisa da una coltellata al petto. Suor Wei, nativa della Mongolia Interna, era la direttrice della casa di riposo dove risidedono circa 60 anziani. La suora di 32 anni aveva preso i
Mubarak e il cancro, una storia infinita Le notizie sulla salute del Faraone allertano il Cairo di Antonio Picasso ubarak ha il cancro? Ieri mattina l’indiscrezione è stata fatta circolare dal quotidiano israeliano Haaretz. L’unico che abbia poi ripreso la notizia è stato il giornale londinese edito in lingua araba, al-Quds al-Arabi. Il resto del mondo ha preferito attendere notizie certe dal Cairo. Il presidente egiziano è giunto lunedì a Parigi per un vertice triangolare insieme al suo omologo francese, Nicolas Sarkozy, e al Primo ministro libanese, Saad Hariri. Presentandosi ai fotografi nel cortile dell’Eliseo, Hosni Mubarak non ha dato alcuna impressione di una salute malferma. Tuttavia i rumors ad essa relativi circolano ormai da oltre un anno. Nello stesso periodo del 2009, il leader egiziano era stato ricoverato a Parigi, per sottoporsi a esami clinici mai specificati. A marzo di quest’anno è stato operato in Germania alla cistifellea. La sua assenza si è prolungata per circa tre settimane. Un periodo troppo lungo, durante il quale sono emersi sospetti che le condizioni fisiche del rais fossero peggiori di quanto si volesse far credere. Effettivamente, al suo rientro a Sharm el-Sheikh, Mubarak era stato ripreso dalla televisione nazionale egiziana, che ne aveva mostrato la spossatezza. Il fatto peraltro che il presidente fosse rientrato su Sharm e non al Cairo era indice della sua condizione di convalescenza. I medici tedeschi gli avevano prescritto un periodo di riposo, lontano dagli impegni istituzionali e in una località meno inquinata rispetto alla capitale egiziana. Il problema della salute di Mubarak – 82enne, al potere dal 1981 – a questo punto sta accelerando i tempi della sua successione. Finora se ne è parlato in previsione delle elezioni di novembre 2011. Inizialmente era stato ipotizzato un ritiro del rais e un passaggio di consegne al generale Omar Suleyman, capo dei servizi di intelligence egiziani e noto per il suo impegno nel processo di pace mediorientale. Il progetto prevedeva un interregno di Suleyman, in previsione della piena assunzione del potere da parte del figlio
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di Mubarak, Gamal (classe 1963). A gennaio però questo intermezzo era stato depennato. Mubarak figlio aveva preso la guida della Segreteria politica del Partito Nazional Democratico (Pnd), avvicendandosi al padre.
La mossa era stata interpretata come un implicito via libera affinché Gamal potesse cominciare a preparare la sua campagna elettorale. Nel corso dei mesi successivi, quando Mubarak era ricoverato in Germania, trapelò la voce che Gamal fosse riuscito ad acquisire anche il sostegno delle Forze Armate, o meglio del loro Stato Maggiore. La potente lobby in uniforme costituisce un centro di potere senza il cui appoggio nessun Presidente potrebbe governare in Egitto. Così è stato per Nasser e Sadat. Ora si vuole che la tradizione venga mantenuta anche in seno al clan Mubarak. Negli ultimi mesi tuttavia nuove ombre si sono addensate su quella che appariva una facile successione al trono. Con l’approssimarsi delle elezioni, sono aumentate le voci di protesta affinché le istituzioni cairote ingranino una marcia superiore per quanto riguarda le riforme da adottare in senso democratico. La trasmissione dello scettro fra Hosni e Gamal è in schietta controtendenza a queste prospettive. E non sarebbe sufficiente il voto del prossimo anno per suggellarne la trasparenza. Nel frattempo da una parte è aumentato il sostegno a favore della Fratellanza musulmana. Dall’altra la candidatura alle presidenziali dell’ex Segretario generale dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), Mohammed el-Baradei, ha rinvigorito l’opposizione laica al regime. Baradei è stato identificato come un gattopardo capace di sostituire Mubarak, preservando l’identità secolare della Repubblica Araba d’Egitto e contenendo i Fratelli musulmani. Da qui il crollo del sostegno per Gamal, anche in seno alle istituzioni. Ma l’improvviso tracollo fisico di Mubarak infatti potrebbe sparigliare l’intero sistema.
La successione al rais, sul trono dal 1981, è ancora aperta: in ballo ci sono il figlio Gamal, l’ex Aiea el Baradei e gli islamici
voti nel 2001. La sua stanza era al piano superiore dell’ospizio. Padre Zhang di 55 anni era invece originario della diocesi di Xianxian (Hebei) e sacerdote dal 1985. Egli aveva iniziato il suo servizio nella Mongolia interna circa 20 anni fa. La sua stanza era situata al piano terra dell’edificio. La Chiesa sotterranea di Wuda è guidata da monsignor Giuseppe Ma Zhongmu, vescovo di Ningxia. Questi è l’unico prelato di etnia mongola in Cina e vive nella città di Chengchuan, Mongolia Interna. La Chiesa ufficiale di Wuhai è invece sotto la diocesi di Bameng, sempre nella remota provincia settentrionale della Mongolia Interna.
fatto sapere l’Eliseo, senza precisare se in quell’occasione il capo dello Stato entrerà in merito al caso Bettencourt. Sarkozy, secondo quanto si apprende, non parlerà - come tradizione - il 14 luglio, giorno della festa nazionale, ma alla vigilia: «La forma - dicono al palazzo presidenziale - non è stata ancora decisa». Nel frattempo, Sarkozy avrebbe rivolto al governo un appello a «mantenere il sangue freddo».
Intanto i magistrati inquirenti francesi hanno aperto un’inchiesta sulle vicenda.In particolare, la Procura di Nanterre ha avviato un’indagine preliminare sulle accuse mosse dall’ex contabile dell’ereditiera L’Oréal, Liliane Bettencourt, contro l’attuale ministro del Lavoro Eric Woerth. Secondo le accuse, il ministro, in qualità di tesoriere dell’Ump, avrebbe ricevuto 150.000 euro in contanti per la campagna presidenziale di Sarkozy nella primavera del 2007. Il 25 giugno scorso, il procuratore di Nanterre aveva dichiarato di aver messo a disposizione delle autorità fiscali, il 9 gennaio 2009, un dossier su possibili frodi fiscali da parte di Bettencourt, nell’ambito dell’inchiesta avviata sull’amico della donna, il fotografo Banier.
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Tra gli scaffali. Il volume non è solamente il ricordo di un uomo straordinario, ma anche un vero e proprio viaggio nella cultura e nell’arte più raffinata del Novecento italiano e internazionale
C’era una volta un genio Adelphi manda in stampa “Scritto di notte”, la delicata autobiografia del grande maestro di architettura e design Ettore Sottsass di Gabriella Mecucci un libro tenero e ironico, serio e beffardo. Soprattutto sorprendente con quell’aria di raccontare un secolo, in cui chi scrive ha avuto un ruolo importante nell’arte, senza prendersi però troppo sul serio. E così tutto diventa scarno, senza orpelli, eppure drammatico: perché il Novecento è stato drammatico. Ettore Sottsass, il genio del design, l’architetto che non amava i grattacieli ma le casette, che ha inventato oggetti leggeri ed eleganti - dalle macchine da scrivere per Olivetti alle poltrone, dalle ceramiche realizzate a Montelupo ai vetri, sino ai mobili Memphis - parla della sua lunga vita (dal 1917 al 2007), così, semplicemente, in Scritto di notte, Adelphi. Straordinario Sottsass, col suo understatement contemplativo: diceva che solo il bello può salvarci e che sperava che le sue creazioni prima di tutto emozionassero perché è «più importante l’emozione che la funzione». Questo esteta della vita e dell’architettura è vissuto novant’anni fra Torino, gli States, Milano, Genova, Barcellona, il Giappone. Un’autobiografia la sua che somiglia ad un romanzo moderno ed è raccontata senza concedere nulla alla retorica: gli amori, primo fra tutti quello con la moglie, Fernanda Pivano, la rivoluzione degli Allen Ginsberg e di tutti gli amici americani, la Cuba di Hamingway e della sua corte di intellettuali, attori, pescatori, ma anche la famiglia, la guerra, il dolore, il rapporto con Gianni Agnelli e con suo fratello, il bellissimo e folle Giorgio.
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Prima di iniziare la sua narrazione, Sottsass - in una breve introduzione - dice che chi tiene fra le mani questo libro «tiene fra le mani (forse) un uomo nudo». È davvero nudo? Alla fine della lettura la risposta è sì. Quello che diventerà uno dei più grandi design del mondo vive i suoi primi anni in Au-
stria (dove è nato da padre architetto) e poi approda a Torino. Da giovane la vita è di quelle comuni: l’università, i Guf (organizzazione universitaria fascista), le donne: «A quel tempo l’amore penetrava
L’artista racconta l’amore con la Pivano, la Cuba di Hamingway, ma anche la guerra, il dolore, il rapporto con Agnelli e con suo fratello
adagio, molto adagio nell’esistenza di un bravo ragazzo qualunque come ero io. Il sesso a quei tempi non aveva figura, non si vedeva, non era descritto». Non c’erano mini gonne, veline, e non c’era Playboy. Non si leggeva il Kamasutra e i sexy shop non esistevano. Si andava al casino, ma il giovane Ettore non gradiva quei luoghi. Quando gli amici ormai brilli si avviavano verso le case di piacere, lui andava a casa sua a leggere o a dormire. Più tardi cominciò ad incontrarsi al Valentino con Fernanda Pivano: chiacchieravano, lei gli raccontava del suo lavoro di traduzione degli scrittori americani, di Ginsburg e di Pavese. Parlavano “adagio”, poi si salutavano e si allontanavano con l’animo rasserenato. Nemmeno un ba-
cio, solo qualche tenerezza. A vent’anni, nel 1937, c’era stato il primo viaggio a Parigi di Sottsass: un colpo di fulmine. È un’esperienza che incide nel profondo. C’è l’incontro con i colori e le luci di Lautrec, di Van Gogh, di Gaugin, di Braque, di Matisse. E soprattutto con Picasso e con Guernica: «Quando sono arrivato davanti a quel quadro lungo sette metri e ottanta centimetri e alto tre metri e cinquantun centimetri, con tre colori, bianco, nero e poco grigio, sono rimasto paralizzato. Sono esploso, polverizzato da uno spazio ambiguo la cui natura sino all’invisibile orizzonte non era altro che malessere, vergogna, paura, umiliazione, lacrime, urla, braccia alzate a difendersi da tutto. Avevo vent’anni. Era quella l’umanità che mi aspettava? Senza neanche la ferocia pulita degli animali?». Un interrogativo questo che attraversa tutto il libro e che incontra una prima risposta da lì a qualche anno dalla follia della guerra. Sottsass rac-
conta come per ben due volte, il caso, quella che lui chiama Fortuna con la effe maiuscola, gli salva la vita. Una volta una malattia, che gli impedisce di andare in Grecia, la seconda volta un banale fraintendimento, che gli evita la Russia. Dalla Grecia tornarono pochi alpini e dalla Russia pochissimi.
Poi l’incontro con la Resistenza, l’abbandono del proprio reggimento, la paura di essere catturato e alla fine la pace. Sottsass la racconta così: «Quanti massacri, quanto alta, quanto spessa, quanto vasta, quanto nera la nuvola delle sofferenze, l’onda dell’orrore, quante città rase al suolo, quante le amate tazze di caffè latte, quanti piatti di minestra, quante le brocche del vino, quanti i libri, quante le lettere d’amore, quante le statuette, quanti i quadretti dei santi, quante le foto del matrimonio, quanti nomi scomparsi, quanti i nomi degli scomparsi, quanto della mia, della sua, della loro vita era sparita con un urlo sotto montagne immense di macerie, nell’incendio, nella polvere, per avere quello che ci piace chiamare: la pace?». Era il ’45 e Ettore, ormai ventottenne, reincontra Fernanda
A fianco, in basso e a destra, alcune delle più significative, innovative e raffinate opere del grande architetto e designer Ettore Sottsass. A sinistra, un’immagine dell’artista mentre è al lavoro. In alto a destra, la copertina della sua autobiografia “Scritto di notte”, appena pubblicato da Adelphi
Pivano: Pavese aveva già pubblicato la sua traduzione di Spoon River per l’Einaudi e quella ragazza dolce e coltissima si era già messa a lavorare: insegnava qua e là per la provincia: Vercelli, Busto Arsizio, Novara. Fra i due è amore. Sottsass è pieno di progetti. Ma realizza poco. Il suo design non sfonda: lui ragiona di Bauhaus, Costruttivismo e Le Corbousier, ma in Italia tutti questi “pensieri europei” non trovano ancora spazio. Conosce Vladi Orengo, aristocratico, intelligente e «non completamente disinteressato alla cultura» e a lui chiede i finanziamenti per fare una rivista. Il contenuto è presto detto: «Informazione sulla cosiddetta arte contemporanea e dintorni nel mondo». I dintorni erano l’architettura, il disegno per l’industria, l’arte popolare, l’artigianato, la letteratura. Il titolo: 1/2 secolo.Vladi s’impegna: «Per i soldi però andiamo da Gianni». L’incontro con l’Avvocato è surreale. Il progetto di rivista viene subito accantonato, ma il giovane industriale chiede a Sottsass due cose: di disegnare un progetto per la palestra della sua villa e di tenere compagnia a suo fratello Giorgio, tornato da poco dall’America, dove si è laurea-
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foreste oscure, ma anche le splendenti metropoli percorse da torrenti gialli di taxi, i cimiteri vasti come regioni, i fiumi neri delle fabbriche, la rete dei nastri di cemento delle autostrade. E poi i grattacieli, i nuovi materiali per costruire mobili e arredi, le linee minimaliste, il tentativo riuscito di costruire un’arte americana che non dipenda dall’Europa. Insomma, un altro mondo rispetto all’Italia, ancora chiusa alle grandi novità del pensiero e della creatività. La giovane coppia vi si immerge, Fernanda comincia a diventare amica di alcuni scrittori che segneranno gli anni successivi: da Allen Ginsberg a George Keruac. Negli States c’è un aria di rivoluzione che i due respirano, assorbono, che li modificherà profondamente.
Ettore Sottsass si limita a raccontare questa scossa intellettuale con un tono leggero e anti-retorico, ma non c’è parola del suo libro che non gli renda omaggio. Da avventura ad avventura. Fernanda deve andare nei Caraibi a conoscere alcuni grandi scrittori. Ettore la accompagna e la prima tappa è Cuba dove incontrano Ernest Hemingway. Arrivano mentre si sta girando il film tratto da Il vecchio e il mare. Nella casa
to. La palestra non si farà mai: il progetto comunque viene pagato ed Ettore si ritrova un po’ di soldi in tasca. Quanto a Giorgio, i due diventano amici: scorrazzano per l’autostrada a tutta velocità, sistemano e arredano un appartamento a Milano, fanno discorsi stravaganti. Il fratello più giovane di Gianni dice cose sempre più folli. Poi si ammala gravemente: schizofrenico? Probabilmente sì, e poi c’è anche la droga. Ettore lo va a trovare nella clinica per malattie nervose dove è ricoverato, dopo pochi mesi Giorgio muore. C’è chi dice che si sia suicidato. Gli Agnelli mandano da Sottsass un loro amministratore che gli stacca un ricco assegno e poi scompaiono. Pagano - come hanno fatto altre volte - perché dei problemi della loro famiglia non si parli. Sull’intera vicenda cala un silenzio plumbeo.
Un po’ scioccato dalla famiglia Fiat, Ettore continua a darsi da fare per sbarcare il lunario, comincia a lavorare in Triennale e nel 1949 sposa Fernanda Pivano. Lei ha inseguito a lungo l’obiettivo del matrimonio. Lui è scappato: ama la libertà e l’idea di vivere per tutta la vita con la stessa donna lo
spaventa. Alla fine però arriva al grande passo. I due vanno a vivere a Milano in un appartamento sistemato da lui: pareti blu e luci rosse. «Somigliava ad un postribolo», ironizza Ettore. Fernanda è tutta immersa nella «sua rivoluzione culturale», il marito guadagna poco o niente: disegna stand per le fiere e fa qualche lavoretto per l’Ina casa. I due vanno a Parigi: vita da squattrinati, ma incontri emozionanti: Le Corbousier, Brancusi, Paco Rabanne, Kenzo. Tornano a Milano: casa più bella e più grande e acquisto di una Topolino. Ancora debiti. Ma alla fine Fernanda riesce a far fronte: va in giro ad insegnare nei licei di mezza Italia e “tappa i buchi” del bilancio famigliare parecchio in rosso. Siamo a ridosso della grande avventura negli States. Sottsass conosce a Milano George Nelson, uno dei grandi del design d’Oltreoceano che lo aveva notato per via dei suoi articoli su Domus. Fernanda “conquista” una borsa di studio del governo americano, e i due partono per la nuova
meta. Lei gira senza posa da una città all’altra per incontrare persone o posti o memorie degli autori che aveva tradotto. Lui si ferma a New York e lavora nello studio Nelson. L’esperienza americana - racconta Sottsass - è stata “violenta”: la natura selvaggia, i fiumi esagerati, gli interminabili deserti, le
dello scrittore sono ospiti anche Spencer Tracy e Katharine Hephurn. E tutti insieme fanno grandi giri per Cuba, dove ancora non ha vinto Castro, lunghe passeggiate, eterne sedute di pesca ed epiche sbornie a base di daiquiri. Il giro caraibico continua con tappe ad Haiti, a Portorico, a Santo Domingo,
tutti paesi con dittature durissime: poliziotti alle calcagna dei turisti e una forte presenza degli Stati Uniti. L’America della rivoluzione diventa una cosa opposta: dalla passione americana si passa ad un acculturato antiamericanismo. Al ritorno a Milano, il capoluogo meneghino sembra un villaggio. Dopo quello che hanno visto e vissuto, Ettore e Fernanda vivono l’Italia come un lembo estremo della provincia. Ed è così. Lei guadagna e mantiene entrambi. Ma ormai anche per lui è vicino il riscatto dei favolosi anni Sessanta: disegna secchielli di ghiaccio per Irving Richards e poi piatti di ceramica di tutti i tipi che si fanno a Montelupo. Alla fine arrivano anche le commesse dalla Richard Ginori. Sotto il segno delle minigonne di Mary Quant, Ettore comincia a vivere nuovi amori: la bellissima Cleide, che lo accusa di «vivere con una moglie con ama», la passione per Barbara con la quale fa lunghi viaggi in Spagna, in Giappone, in India, naturalmente in America, e passa le vacanze in Costa Azzurra. Nel 1981, a Milano, un gruppo di designer giapponesi, spagnoli, francesi, americani e inglesi fanno una memorabile mostra di mobili: si chiama Memphis e resterà scolpita nella mente come una pietra miliare. Il successo di pubblico è straordinario: gli architetti progettatori hanno fatto davvero una cosa nuova.
Scrive Sottsass, che fa parte del gruppo di innovatori: «Ormai la cultura figurativa contemporanea non insegue l’eternità, la monumentalità perenne, ma l’attualità, le necessità momentanee, cioè quello che la gente con un po’ di disprezzo chiama moda, che per me è il massimo». La gente apprezza, ma l’establishment professionale e culturale milanese è «rabbioso e scandalizzato»: Sta per iniziare l’epoca della “Milano da bere”. Il racconto di una vita straordinaria volge al termine con un paio di concetti da tenere bene a mente. Il primo: «Io sono amico della gente incerta, perplessa, modesta che cerca di capire e che sempre è nello stato di uno che non ha capito. Sono molto amico della gente che ha paura». Il secondo: «C’è sempre una perfezione che viene perduta. C’è sempre un incantesimo che non si trova più... Il problema, forse, è di cercare di inventare nuove perfezioni, pensare che ogni momento è una perfezione che comunque si può perfezionare - voglio dire il problema permanente è costruirsi nuove perfezioni di cui continuare ad avere per sempre nostalgia». E fra perfezione e nostalgia, Sottsass ha passato i suoi magnifici novant’anni.
cultura
pagina 20 • 8 luglio 2010
Alcuni degli scatti di Lorenzo Capellini a Goffredo Parise, in mostra dall’11 luglio al 19 settembre alla Casa delle Regole di Cortina d’Ampezzo, nell’ambito della rassegna “Veneto barbaro di muschi e nebbie” oco so per esperienza diretta dei luoghi di quel Veneto barbaro di muschi e nebbie che Goffredo Parise aveva eletto a sua vera Patria, e che ha evocato nei suoi libri. Le immagini me le offre in questa mostra Lorenzo Capellini che di Parise fu amico affettuoso e quei luoghi insieme con lui ha percorso in lungo e in largo. Devo aggiungere che questo Veneto barbaro è prevalentemente campagnolo, montano, boschivo, e io dopotutto sono uomo di mare e per di più amo la bella giornata mediterranea, e dunque sono poco propenso ai muschi e nebbie. Ma sono ben disposto a subire il fascino di chi mi sa comunicare con le parole un’emozione. Questa emozione con parole proprio a me dirette Parise me l’ha comunicata attraverso le lettere che mi scriveva.
P
«...Vorrei ora portarti con me in botte (parto ora, sette di sera, vado in laguna, domani sarà bel tempo ma freddo, forse ghiacciato)... Sono incatenato a questo posto, amo tutto, la legna che butto nel fuoco, la brina nella boscaglia del Piave, e quel mistero, quella magia di cui mi sento onorato e riconosciuto (da te) non è mia ma mi viene trapassata da tutto questo. Che bella lettera mi hai scritto, che onore mi fai. Quelli che mi vogliono bene pensino a me come a una persona morta ma che però è viva e felicissima, tra i giorni che passano come il vento, che ha cambiato vita e non sa né come né perché. Ora parto Duddù, vieni con me, copriti bene. Aurora porta un vento gelato dalle montagne serene e rosee coperte di neve, che increspa la laguna e muta maree. A quell’ora passano alti, fuori tiro, i primi germani a stormo perfetto, aerei dalle ali fischianti. Vieni Duddù, vieni che ti porto via». E certo mi portava via, m’incantava, e la mia immaginazione si accompagnava alle
Ritratti. Un ricordo dello scrittore e del suo legame con le proprie radici
Il piccolo mondo antico di Parise di Raffaele La Capria
I luoghi da lui amati sono raccontati attraverso le foto di Lorenzo Capellini, nella rassegna “Veneto barbaro di muschi e nebbie”
sue parole e io vedevo i luoghi, la casa sul Piave, la laguna, sentivo il vento arrivare, crepitare il fuoco nel camino, vedevo gli stormi dei magnifici uccelli che volavano alti sulla sua testa, e avvertivo il suo amore per tutto questo, il suo desiderio di farmi partecipare a tutto questo, capivo la sua felicità e la sua solitudine, il suo bisogno di amicizia
Il buen retiro di Goffredo & Co. CORTINA D’AMPEZZO. Suggestive evocazioni letterarie e inediti viaggi nella memoria sono al centro delle due mostre fotografiche che Cortina d’Ampezzo ospita alla Casa delle Regole dall’11 luglio al 19 settembre: Veneto barbaro di muschi e nebbie di Goffredo Parise e Lorenzo Capellini e Il sogno fotografico di Franco Angeli. Diversissime tra loro, hanno un filo conduttore comune, messo in evidenza dal loro stesso allestimento nello spazio storico della Casa delle Regole, curato dall’architetto Paolo Portoghesi. Goffredo Parise, Lorenzo Capellini, Franco Angeli, Marina Ripa di Meana, sua figlia Lucrezia Lante della Rovere: sono loro i protagonisti delle due esposizioni che, tra gli anni Sessanta e Settanta, hanno scelto la Regina delle Dolomiti a loro buen retiro. Indimenticabili stagioni che hanno visto artisti, pittori, scultori, registi, mecenati, collezionisti, giornalisti e attori trascorrere anche lunghi periodi all’ombra delle Tofane. Veneto barbaro di muschi e nebbie (catalogo Minerva Edizioni) è un reportage che nasce dall’amicizia tra Goffredo Parise e il fotografo Lorenzo Capellini, dalla loro frequentazione e dal loro affiatamento, dalle loro escursioni attraverso i luoghi della memoria della “patria Veneto”. Assemblato a quattro mani rappresenta un’equilibrata fusione di immagini e letteratura, di scatti carpiti durante i vagabondaggi per le valli e le illustrazioni letterarie composte in presa diretta dallo scrittore vicentino.
e qualcosa ancora che mi turbava e mi commuoveva, il presentimento, la consapevolezza che la sua vita se ne stava andando e che gli stava offrendo per le ultime volte, e ancora per poco, questo spettacolo che lo esaltava: la struggente bellezza del mondo. In un’altra lettera mi dice: «Ho scritto ieri questa frase che sarebbe un bellissimo inizio di romanzo: Noi ci dimentichiamo sempre che la vita è breve ma ci comportiamo e viviamo come se fosse lunga. La gioventù è definitivamente andata, lo vedo nei volti delle persone care, e anche nel mio naturalmente: sento che non è più possibile far ruggire leoni,
ognuno sta nel suo guscio e lentissimamente si prepara. Perciò invidio il sangue di Ilaria e tua figlia, insomma la tua famiglia. Mentre ti scrivo c’è un po’ di vento e l’albero molto cavo, a
tre metri dalla mia finestra scricchiola come il Benito Cereno. L’erba è falciata, guardo l’immenso prato e il bosco che chiude il prato (canta il cuculo) oltre il quale c’è il Piave. Non ho nessun programma per oggi, ma scrivere almeno queste due righe a un amico mio mi consola un po’».
Ecco, ora guardando le fotografie di Lorenzo Capellini pensavo che mentre prima attraverso la lettera di Goffredo le parole creavano immagini adesso le immagini mi portano alle sue parole. Le parole della neve, «la neve della mia Patria, l’elemento primo della mia vita... L’ho baciata, mangiata, leccata». Le parole dei ghiaioni del Piave, quelle della sua casa aperta ai venti, quelle degli alberi e delle rocce. Mi ricordano le parole delle città, «Vicenza dalle colonne sproporzionate», le parole dei canali della laguna di Venezia che non puzzano ma emanano un odore, un odore come quello del corpo umano. Silvio Perrella in un suo saggio dice che la scrittura di Parise è fatta di ricordi che rimandano ai ponti di Venezia, si verifica insomma uno «slittamento dei luoghi sulla scrittura». Secondo Perrella ci si può spingere anche più in là e dire che «Venezia agisce su Parise come correlativo sintattico, come un modo di disporre le frasi sulla pagina». Le fotografie belle ed evocative di Lorenzo Capellini rendono evidente questo rapporto assoluto, e direi sensuale, di totale identificazione di Parise con i luoghi da lui amati. Tratto dal catalogo della mostra “Veneto barbaro di muschi e nebbie” (Minerva Edizioni)
spettacoli
8 luglio 2010 • pagina 21
Festival. Debutto di John Malkovich in un’opera barocca, con l’orchestra della Wiener Akademie, nel fantastico scenario della costiera
Commedia infernale a Ravello di Pierre Chiartano
l’Infernal Comedy dell’eclettico John Malkovich ad aver inaugurato, qualche giorno fa, il Festival di Ravello. Una manifestazione che ogni volta si caratterizza con un tema, quest’anno dedicato alla «follia». Si tratta delle confessioni di un serial killer, una commedia in musica per orchestra barocca. Due soprani ed un attore per dare forma ad arie, recitativi e un un misto di canto e movimento, messo in scena da Malkovich, sul palco mozzafiato a strapiombo sulla costiera amalfitana. Il testo di Michael Sturminger utilizza, come soggetto, la vera storia dell’omicida seriale Jack Untwerger che, riconosciuto colpevole di undici omicidi, morirà suicida in un carcere austriaco. Jack, accusato di aver ucciso donne in Europa e negli Usa, sarà osannato come poeta, autore e giornalista.
È
Una storia contemporanea inserita nell’intreccio barocco del canto, che materializza le donne che Jack ha «amato-odiato-sacrificato», donne interpretate dalle due soprano. «Abbiamo voluto rendere contemporanea una struttura antica come quella della musica barocca, come del resto avrebbero fatto gli autori dell’epoca» spiega durante la conferenza stampa a Villa Rufolo, Martin Haselbock, direttore dell’opera con l’orchestra della Wiener Akademie. «Il modello è quello dell’Opera seria del Settecento – ha aggiunto Haselbock – perché le donne di Unterweger sono mosse dalle stesse passioni, solo che invece degli avvelenamenti o delle trame di corte abbiamo preso fatti di cronaca e il ruolo drammatico viene lasciato agli attori piuttosto che ai cantanti». Ma è ancora un personaggio negativo ad aver conquistato la recitazione di Malkovich. Come mai? «Io non mi sento rappresentato dai questi personaggi. La domanda corretta sarebbe questa: perché al pubblico piacciono tanto queste figure tragiche?» la risposta dell’attore americano. E la diversità del personaggio si legge fin dalle prime battute dello spettacolo. «La musica classica mi rende nervoso» afferma Untwerger sottolineando un percorso inverso, dove l’arte vorrebbe sopire gli istinti peggiori dell’uomo. Ma Jack è ormai impermeabile ai sentimenti ed ha costruito un suo percorso di crescita e di perversa maturità: «l’omicidio mi ha reso una persona». Splendido lo scenario, con una luna incappucciata dalle nuvole, che a metà spettacolo e comparsa a completare una scenografia da favola. Nonostante la forte umidità e qualche battuta dello stesso Malkovich che forse avrebbe voluto debuttare nel nuovo auditorium progettato da Oscar Niemeyer, rimasto inspiegabilmente chiuso all’arte. In un posto come Ravello, vo-
di Villa Cimbrone. «Quattro anni fa ero in vacanza a Ravello, ed affacciandomi dai giardini di Villa Rufolo, ho visto il palco del Festival… ho subito chiamato la mia agente a Milano, dicendole che volevo a tutti i costi fare un concerto qui!» spiega Haselbock che ha volutamente sottolineato il forte legame che
daco Paolo Imperato, il 23 aprile, durante un movimentato consiglio comunale ha, di fatto, reso indisponibile l’auditorium al Festival. L’istituto MontePaschi ha già fatto sapere che potrebbe mollare gli ormeggi dall’iniziativa, togliendo i finanziamenti al Festival. E l’eco delle polemiche è salito anche sulla scena
Resta inspiegabilmente chiuso all’arte il nuovo auditorium dell’architetto Oscar Niemeyer. La prima è avvenuta in una notte umida che ha messo a rischio le voci delle soprano
della Commedia Infernale, quando un Malkovich un po’alterato ha descritto le difficoltà di recitare su di un palco bagnato: «dovremmo avere le pinne come i pesci». Show must go on e così è stato anche per l’opera barocca a Villa Rufolo, nell’alternanza di arie e recitazione.
tato al turismo di qualità e culturale. E la commedia dal palco scende nel quotidiano, si secolarizza nelle beghe di una poltica locale che ancora non comprende bene il tesoro che possiede. La fondazione Ravello costituita da Fondazione Monte dei Paschi di Siena e il Comune, la Provincia e la Regione era il pre-
supposto per rendere il festival l’elemento forte per promuovere il turismo culturale. Il nuovo auditorium costruito grazie anche al progetto regalato dall’architetto Niemeyer alla Fondazione era lo strumento per destagionalizzare ulteriormente le presenze turistiche. Domenico De Masi presidente della Fondazione, un maestro delle cerimonie e motore delle iniziative artistiche, è il mentore e il timoniere di una rinascita di Ravello. Perché da quelle parti la crisi si è sentita. Prima quella dei rifiuti tarsfomatasi in un disastro per gli albergatori locali raccolti nel consorzio Ravello Sense. Poi quella economica mondiale che ha visto ridurre le presenze dei ricchi turisti d’oltre oceano. E a Ravello non c’è stato solo Wagner o Greta Garbo in ritiro nella fantastica struttura
unisce in maniera spontanea il turismo di qualità, Ravello e il Festival che da otto anni porta i maggiori esponenti della cultura nella «città della musica». Il sin-
In alto, John Malkovich a Ravello. Qui sopra, il palcoscenico di Villa Rufolo. A sinistra, l’auditorium
«Abbiamo scelto tra i motivi più conosciuti e le arie più belle, pertinenti con la storia tragica messa in scena – ha spiegato il direttore d’orchestra – spesso nelle opere originali devi soffrire per ore, prima di ascoltare la melodia che ti prende. Qui le abbiamo scelte e concentrate per i novanta minuti di spettacolo». Tra queste L’Enfer da Don Juan e Ballo Grazioso dall’Orfeo di Gluck; La Casa del Diavolo di Boccherini; Vorrei spiegarvi oh Dio di Mozart; Ah Perfido op.65 di Beethoven. Una volta scritto il soggetto «è stato solo un piacere poterlo dirigere», la chiosa del regista, Michael Sturminger nella conferenza stampa. «Era strutturato per dare spazio alla grande capacità d’improvvisazione di Malkovich».
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE
L’efficienza della produttività pubblica è modesta e talvolta scarsa Nel settore pubblico l’utente è sbrigato, talvolta con indifferenza o ritardo; mentre nel comparto privato il cliente – che “ha sempre ragione”– è servito rapidamente, spesso col sorriso. L’efficienza della pubblica amministrazione è modesta o scarsa, per più cause. Lo Stato e gli enti locali sono enti perpetui, che, in caso di scarso rendimento, non falliscono, diversamente dall’impresa privata. La normale illicenziabilità del personale pubblico disincentiva l’operosità: l’assenteismo è relativamente elevato. La pubblica amministrazione risente sfavorevolmente dello stretto legame con la partitocrazia. I governi centrali e le giunte municipali sono composti da politici, pronti a sperperare il denaro pubblico e ad attuare politiche antieconomiche, per ragioni elettorali o comunque di parte. L’assunzione e la carriera del personale pubblico sono influenzate dalla politica. È diffuso il voto di scambio. Sovente si assumono clientele e si creano uffici non necessari, con duplicazioni e intralci. Nel settore pubblico tendono a prevalere il conservatorismo, il tradizionalismo e l’avversione per il nuovo. L’eccesso di formalismo e scartoffie genera inefficienza. I controlli e le incentivazioni (con premi al merito e sanzioni al demerito) risultano scarsi o inefficaci.
Gianfranco Nìbale
I DISASTRI NATURALI NON VANNO IN VACANZA «I terremoti non si possono prevedere!», la verità della Scienza in un documento inequivocabile firmato da 4mila ricercatori e scienziati, scesi letteralmente in campo da 100 Paesi di cinque continenti per far capire alla gente come stanno davvero le cose. La Natura consiglia di non prendere lucciole per lanterne sismiche. I disastri naturali non vanno in vacanza! A 15 mesi dal terremoto dell’Aquila, in tutto l’arco appenninico ci sono zone in cui si registrano nuove attivazioni del suolo. Anche nel Mar Adriatico. E che dire della proliferazione caotica dei segnali elettromagnetici artificiali in cui siamo immersi quotidianamente nel brodo elettromagnetico naturale? Se l’opinione
pubblica è davvero spaccata sulla “previsione dei terremoti”, se in questo Bel Paese non si entra più nel merito delle questioni, ma ci si schiera come tifosi o talvolta come “hooligans” contro le persone, favorendo il caos più totale senza risolvere i problemi della gente in fatto di abitazioni a prova di terremoto, ognuno si assuma le proprie responsabilità prima della prossima tragedia.
Nicola Facciolini
REI TUTELATI, VITTIME INDIFESE Massimo Tartaglia, reo di lesioni pluriaggravate a danno del presidente del Consiglio, è stato assolto: non imputabile, per “incapacità d’intendere e volere”. Ciò può apparire “giustizia ingiusta”al comune cittadino. L’aggressore ha premeditato e lanciato la statuetta del Duomo di
Il Re dei pinguini Un coloratissimo maschio adulto di pinguino reale svetta tra una folla di femmine nell’isola di South Georgia, a sud-ovest dell’Argentina. Il pinguino reale (Aptenodytes patagonicus), alto circa 90 cm, è il più grande fra tutti i pinguini e frequenta le coste del continente antartico
Milano con lucidità, determinazione, forza e mira accurata. L’atto è un grave vulnus alla democrazia. Un’elevazione superiore del lancio avrebbe colpito il cervello di Berlusconi, con rischio di decesso. Il giudizio di “incapacità” è opinabile, non oggettivo. Il pietismo e l’ipertutela dei rei non sono accompagnati da pari difesa delle vittime. Perfino l’omicida può evitare la condanna, se considerato incapace: ma il reato permane. Caino non viene toccato; mentre Abele resta indifeso e indirettamente punito.
Franco Padova
L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
POVERA CHIESA E POVERA RELIGIONE Se per trovare un aiuto e una difesa dai concentrici, premeditati, infami e vili attacchi che oggi sembrano concentrarsi e convergere contro di lei con una violenza e una spregiudicatezza senza precedenti, nostra Santa Madre Chiesa Cattolica dovesse contare sull’apporto delle asettiche, “serene” e sagge parolette di Errico Novi, allora povera Chiesa, povera religione e poveri noi tutti! Invece che a quello della dottrina cristiana, tutt’al più assisteremmo al trionfo di quella... democristiana.
Carlo Signore
da ”Le Monde” del 07/07/10
Lo chef di al Qaeda consiglia l Qaeda cambia strategia di comunicazione. Ha lanciato la prima rivista di propaganda online in lingua inglese. Si chiama Inspire ed è già uscito il numero zero, ma dovrebbe partire nei prossimi giorni o settimane. L’organizzazione terroristica che comprende bene le tecniche di comunicazione, è già riuscita a creare un certo clamore sul debutto di questa demenziale pubblicazione. Lo si capisce anche leggendo i pdf del numero di lancio messo in rete la scorsa settimana. «Lo chef di al Qaida», cioé come preparare una bomba nella cucina di tua madre, è uno degli articoli di copertina del magazine degli amici di bin Laden. La maggior parte delle 67 pagine che formano la rivista in pdf sono crittografate. L’idea nasce dalla costola di al Qaida nella Penisola Arabica. Il titolo è uno di quelli che acchiappa subito l’interesse anche di un lettore distratto. «The al Qaida Chef: Make a bomb in the kitchen of your Mom» evoca giovani aspiranti terroristi un po’ mammoni che pasticciano con fertilizzanti e cosmetici ai fornelli della madre in burqa. Sembra quasi una presa in giro, una goliardata, ma non è così. Hanno infatti fatto ricorso a ordigni fatti in casa, sia gli attentatori di Londra del 2005 che Faizal Shahzad, l’uomo di Times Square, ma anche Najibullah Zazi, l’afghano-americano che con due compagni di scuola voleva colpire New York e aveva comprato gli ingredienti della sua «torta esplosiva» in un negozio di prodotti per parrucchiere. Spesso questi aspiranti stragisti attingono le loro
A
di Soren Seelow
ricette dal web. Ad oggi solo in pochi sono riusciti ad avere accesso al documento integrale attraverso dei forum jihadisti “sicuri”. Tra questi l’esperto Mathieu Guidère (autore di un libro Nouveaux Terroristes, ndr) che considerano l’iniziativa un vero punto di svolta nella strategia di comunicazione e reclutamento della holding del terrore. «Dal 2009, l’organizzazione si trova ad affrontare una carenza di militanti, reclutati col vecchio metodo nelle moschee, nei sobborghi o su Internet. Ormai sono ormai luoghi soggetti al forte controllo da parte dei servizi di sicurezza» sottolinea il ricercatore. Ora il messaggio sarebbe rivolto a singoli individui, capaci di commettere attentati in maniera autonoma. La rivista si rivolge quindi a tutti gli americani che non parlano l’arabo, ma sono interessati, in un modo o nell’altro, al jihad. Si punta dunque a creare un «terrorista solitario», fra questi ricordiamo la co-
siddetta «Jihad Jane», una cittadina americana, arrestata nell’ottobre del 2009 per aver ordito un complotto per assassinare un vignettista svedese, reo di aver sbeffeggiato il Corano e il suo profeta.
L’imam radicale yemenita Anwar al-Aulaqi, nato negli Stati Uniti, è un fondatore di al-Qaeda nella penisola araba ed è responsabile del reclutamento dei terroristi americani. Ha affermato che il kamikaze mancato di Natale era stato il suo «discepolo». È stato l’imam ad «americanizzare la comunicazione» dell’organizzazione e ha creato la rivista Inspire, spiega ancora Guidère. Una visione condivisa da Bruce Riedel, un ex esperto della Cia oggi alla Brookings Institution. «Si tratta chiaramente di attirare jihadisti residenti negli Stati Uniti per farli diventare il prossimo jihadista di Fort Hood o attentatore suicida di Times Squame (…) da un anno e mezzo, c’è una tendenza al calo del terrorismo globale e del sviluppo del terrorismo interno alle comunità musulmane». Circa un terzo della rivista Inspire è dedicata alla tesi politiche e teologiche. La crisi del liberalismo offre la possibilità di dichiarare il «fallimento» dell’Occidente, e in particolare degli Stati Uniti. «È questo che il modello che desideri per il tuo paese?» sichiede al lettore. L’obiettivo è ovviamente quello di mettersi contro il sistema di valori legato alla tradizione liberale. Ma la tesi più usata nell’indottrinamento dei futuri jihadisti sarebbe la «bancarotta morale dell’America».
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog
dai circoli liberal
LE VERITÀ NASCOSTE
Un’eclissi totale all’ombra dei moai RAPA NUI. Se volete trovarvi nell’oscurità totale in pieno giorno, è il caso di spostarsi in mezzo al Pacifico. Perché domenica prossima un’eclissi totale di sole attraverserà l’isola di Pasqua, nota anche come Rapa Nui: la terra dei “moai”, i giganteschi monoliti dalle misteriose sembianze umane. La notte calerà sull’isoletta vulcanica dell’Oceano a partire dalle 13.30.54 (locali), per cinque minuti e 20 secondi: cinque lunghi minuti di “sole nero”sui 160 km quadrati di Rapa Nui, distante 3.600 chilometri dalle coste del Cile e 4.000 da Tahiti. L’appuntamento ha mobilitato non solo “i cacciatori d’eclissi”e gli scienziati, ma anche le agenzie di viaggi, visto che in tanti, e da tutto il mondo,
intendono trascorrere quei cinque minuti di penombra in compagnia degli enigmatici moai: quando cioè - affermano nella propria lingua i circa 4.900 abitanti - la “mahina”(luna) s’interporrà tra la terra e il “ra’a” (sole). Al fine di limitare l’invasione dei turisti, le autorità dell’isola - che ha dieci alberghi e 1.800 posti letto - hanno fatto sapere ormai molte settimane fa che non avrebbero consentito un’invasione senza controlli. I fortunati che domenica assisteranno all’eclisse non saranno più di 4.000, precisano le autorità locali, che hanno d’altra parte predisposto il rafforzamento sia delle guardie dei siti ar-
ACCADDE OGGI
UNIONI DI FATTO: IL COMUNE DI TORINO DEVE IMPEGNARSI L’iniziativa del comune di Torino di istituire un registro delle unioni civili lascia interdette le associazioni del Forum che in tutta Italia riuniscono oltre due milioni di famiglie. In un momento in cui la famiglia è sottoposta a un tiro incrociato dalle difficoltà economiche di una crisi che si fa di giorno in giorno più aspra, e dai tentativi di svuotarne il significato di cellula fondamentale della società, di tutto si sentiva il bisogno tranne del riconoscimento di un “matrimonio leggero”.Torino non è il primo comune a prendere questa iniziativa, ma è la prima tra le città di grande importanza a tentare una fuga in avanti rispetto al Parlamento al quale, solo, compete la definizione legislativa di istituzioni para-matrimoniali, che risponderebbero alle richieste di una esigua minoranza di cittadini rispetto a quanti scelgono l’impegno pubblico e sociale dell’unione matrimoniale definita dalla Costituzione. L’iniziativa torinese, così come quelle che l’hanno preceduta in talune realtà italiane, non aggiunge nulla alle libertà individuali e non dà alcune risposta ai reali bisogni delle unioni di fatto, ivi comprese alle coppie omosessuali. Il Forum ritiene che l’urgenza reale sia quella di sostenere la famiglia, quella vera, quella che“tira avanti la carretta”e che può incidere sul futuro del Paese anche e soprattutto in tempi di crisi. Allora da amministrazioni locali importanti ci si attenderebbe un ruolo di stimolo verso il governo nazionale perché si impegni con misure di sostegno alla famiglia più che in inutili atti dimostrativi di promozione delle libertà individuali.
Associazioni familiari
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
8 luglio 1904 Italia: la legge Orlando estende l’obbligo scolastico da 9 a 12 anni, ma avrà scarso successo a causa delle poche scuole presenti nei comuni d’Italia 1907 A Pisogne, la Società nazionale ferrovie e tramvie fa entrare in esercizio la linea ferroviaria per Iseo, secondo tratto della ferrovia Brescia Iseo Edolo 1919 In Italia nasce l’Associazione nazionale alpini. È infatti proprio l’8 luglio che un gruppo di reduci della Grande Guerra ne approva lo statuto sociale, decretandone quindi ufficialmente la costituzione 1956 Viene scalato per la prima volta il Gasherbrum II, la tredicesima montagna più alta della Terra 1972 In un attentato a Beirut perde la vita lo scrittore palestinese, portavoce del Fronte popolare di liberazione della Palestina, Ghassan Kanafani 1973 Inizia il periodo del 31esimo governo italiano di Mariano Rumor: quadripartito formato da Dc, Psi, Psdi e Pri
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
cheologici sia dei controlli antidroga all’aeroporto locale. Quello di domenica sarà, in altre parole, una sorta di combinazione perfetta tra un fenomeno astronomico sempre suggestivo e una terra dalla cultura ancestrale e del tutto particolare. Gli astri hanno infatti influito nella cultura “rapa nui”: ne sono esempio proprio i noti ed enigmatici “moai”, posati su pietre che ricordano gli astri.
BALZELLO PER PENDOLARI INIQUO E DANNOSO Un record il governo Berlusconi potrà vantarlo prestissimo perché almeno per il carico fiscale, con il nuovo balzello sui pedaggi autostradali imposto agli automobilisti delle grandi città, presto saremo i primi in Europa. Le centinaia di migliaia di pendolari che quotidianamente sono costretti a usare l’auto per lavoro vista la scarsità dei mezzi pubblici, si troveranno a pagare due euro in più per ogni giorno lavorativo, cioè non meno di cinquecento euro l’anno. Un balzello iniquo che peserà molto sui redditi più bassi e che produrrà anche un danno all’ambiente perché, per risparmiare, crescerà il traffico sulle strade secondarie, dove si va più piano e si inquina di più.
Riccardo
AUTOBLU O AUTOSTOP: IL NUOVO TRASPORTO PUBBLICO LOCALE I contorni della manovra finanziaria evidenziano sempre più che a pagare sono come al solito i più deboli: tra tutti, i pendolari, chiamati a fronteggiare contemporaneamente i tagli alle regioni del fondo per il trasposrto pubblico locale e i rincari autostradali. Raggiungere il posto di lavoro, dunque, sarà più difficile con meno treni e meno autobus e più caro con auto e moto. Al ministro Brunetta potremmo proporre di mettere a disposizione le 90mila autoblu per farne taxi collettivi al servizio dei pendolari: diversamente per molti resterà come sola alternativa l’autostop, come nei migliori paesi centroamericani, a cui l’Italia berlusconiana tende ad assomigliare ogni giorno un po’ di più.
Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci,
Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,
Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)
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APPUNTAMENTI LUGLIO VENERDÌ 16 - ORE 11 - ROMA PALAZZO FERRAJOLI
Consiglio Nazionale Circoli liberal “Liberal… verso il Partito della Nazione”
Marco Di Lello
Robert Kagan, Filippo La Porta, Direttore da Washington Michael Novak
DAL LOCALE AL NAZIONALE (I PARTE) Credo che i temi che la politica deve affrontare oggi siano molti, e che necessitino di un approccio diverso. La contingenza economico-sociale ripropone problemi che si erano già posti in altri periodi storici, ma la situazione è molto diversa. Non solo in termini congiunturali, ma anche perché lo scenario storico è più complesso. Sicuramente molti items posti dalla Lega sotto i riflettori sono realistici. È il modo di trovare la soluzione che necessita di un maggior approfondimento teorico. Mai come oggi è difficile il dibattito poiché alcune forze politiche e sindacali sono orientate a un’analisi affetta da un pensiero che fa ancora riferimento a principi assoluti. Mai come oggi, invece, il dibattito approfondito sarebbe necessario. Ciascuno dei concetti pubblicamente e vigorosamente espressi, infatti, può essere ritenuto valido in termini assoluti, ma la realtà è ormai talmente complessa che non ci si può esimere dalla declinazione articolata dei concetti in parola. Per anni si è parlato di pluralismo giuridico, pluralismo politico senza forse accorgersi che ciò avrebbe voluto dire pluralismo di potere. Ora che ciascun centro di potere ha perso parte del proprio campo, occorre riaprire il dibattito per stabilire delle gerarchie di priorità, ma all’interno di un’analisi complessiva dell’evoluzione storica irreversibile. In un recente articolo di Giulio Sapelli si evidenzia come lo Stato Nazione si sia sfaldato giuridicamente, sovrastato da un lato dalla normativa sovranazionale e sbriciolato dall’altra dalla normativa interna di decostruzione dello Stato unitario. In quest’ottica i problemi, dice, vanno risolti a livello locale e auspica che siano le istituzioni funzionali , come le Camere di Commercio, a tirarne le fila. Io continuo, invece, a nutrire un timore reverenziale e a riconoscere un ruolo anche alle istituzioni politiche, che dovrebbero però essere condotte da uomini e donne capaci di effettuare la sintesi. Sono consapevole dell’analisi del Tocqueville o altri sui pericoli della democrazia e mi rendo conto che la scarsa partecipazione politica di oggi faciliti percorsi quali quelli paventati dai critici, penso però che il voto resti un diritto fondamentale e l’unico modo per poter governare un Paese. Marina Rossi P R E S I D E N T E CI R C O L I LI B E R A L CI T T À D I MI L A N O
Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,
Maria Pia Ammirati, Mario Arpino,
Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,
Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi,
Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,
Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,
Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,
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ULTIMAPAGINA
Spettacoli. La Catalogna studia il bando al popolare rito spagnolo, nel mirino di ambientalisti e animalisti
E il toro prese per le corna la di Sabrina De Feudis a Catalogna non vuole più la corrida. E così la Spagna rischia di perdere la sua attrazione principale. Il prossimo 28 luglio il parlamento catalano deciderà sul destino dell’arte taurina. Il movimento contro la corrida “Plataforma Antitaurina Prou!”, (Basta! In catalano), ha raccolto 180mila firme e ha presentato una proposta di legge al Parlamento. Dal 2006 infatti in Catalogna sono sufficienti 60 mila firme per presentare una proposta di legge alle camere e così, anche se i partiti principali finora non se ne erano voluti occupare, l’iniziativa popolare costringerà a pronunciarsi sullo storico verdetto prima della pausa estiva. Per anni la corrida è stata un aspetto così fondante della cultura spagnola da non ammettere nessuna discussione. Fino a qualche anno fa parlare male della corrida in un bar significava quasi sicuramente essere sbattuti fuori dalla porta. Oggi i sondaggi mostrano una nuova realtà. L’81 per cento dei minori di 24 anni dimostra disinteresse per la tauromachia: identica percentuale per i trentenni. Stupisce il dato raccolto fra gli ultrasessantenni: solo il 41 per cento si dichiara interessato alle corride. All’urlo di “Tortura, ni arte ni cultura” i movimenti di protesta invadono quasi tutti i fine settimana le arene spagnole. L’organizzazione dei movimenti di protesta nasce da Internet e si diffonde per le strade. Come veri toreri sfidano la sorte per raggiungere il loro obiettivo. La protesta è più forte nel nord-est della Spagna, dove la cultura della corrida è da sempre più rarefatta. Di tutte le comunità autonome spagnole, la Catalogna ora è diventata il centro della protesta antitaurina. Eppure la corrida in questa regione è ancora molto popolare. Soprattutto da quando la Plaza de Toros Monumental di Barcellona è stata l’arena che ha incoronato Josè Tomàs Romàn Martìn come il migliore torero spagnolo
L
dai tempi di Juan Belmonte e Manolete. La sua postura elegante è ammirata quanto il suo coraggio; tra ritiri e ritorni, il mito di Josè ha toccato l’apice nel giugno del 2007, quando proprio da quell’arena decise di ritornare a sfidare la sorte. Questa scelta fu molto significativa: per anni quell’arena aveva avuto grosse difficoltà economiche e la cultura taurina catalana sembrava ormai in declino. Ma L’arrivo di Josè Tomàs fu un’iniezione di adrenalina. I bagarini arrivarono a chiedere tre mila euro per un biglietto e i giornali, tra cui anche El Pais, quotidiano tradizionalmente di sinistra, parlò di
gli Interni nel 2009 si sono svolte in Spagna 891 feste taurine di prima categoria, ben 354 in meno rispetto all’anno precedente: ovvero, in termini di allevamento, un’eccedenza di circa 2mila tori che potrebbero non vedere mai l’arena dato che per regolamento vengono utilizzati animali di età compresa fra i quattro e i sei anni. Il disinteresse degli spagnoli per questa specifica arte sembrerebbe evidente, ma una buona fetta della popolazione non vuole rinunciare alla corrida. La polemica resta alta e i toni non si placano, le contraddizioni rimangono salde. “Taurini” e abolizionisti sono impegnati
CORRIDA L’81% dei minori di 24 anni dimostra un totale disinteresse per la tauromachia, così come i trentenni. Stupiscono gli spagnoli con più di 60 anni: solo il 41% a favore apoteosi e totale comunione con gli spettatori. Una vera e propria arte silenziosa, un mistero ermetico da brividi. Alla fine di quella corrida fu portato in trionfo sulle spalle del pubblico. Mentre parte della Spagna acclamava il suo eroe, 5mila persone marciarono dalle Ramblas alla Plaza de Toros Monumental, per la più grande protesta di tutti i tempi. Da quel fatidico giorno iniziò la campagna per la raccolta delle 180 mila firme che ora probabilmente porteranno all’abolizione della corrida a partire dal 31 dicembre del 2011.
Il prossimo 28 luglio, dunque, il parlamento catalano deciderà sul destino delle corride. E per il 18, Josè Tomàs ha annunciato il suo ritorno all’arena monumentale di Barcellona. Secondo le cifre fornite dal Ministero de-
in una intensa attività di lobbying, convinti che la decisione dei 135 deputati catalani per il prossimo 28 luglio potrà giocarsi per una manciata di voti. In gioco ci sarà non ancora la legge di abolizione, ma un emendamento globale che punta a dire “no”subito, prima di discuterne, all’iniziativa popolare abolizionista firmata da oltre 180mila persone. Se passerà l’emendamento, tutto si fermerà e di abolizione non si parlerà per un pezzo. Se sarà battuto, vorrà dire che in Parlamento c’è una maggioranza abolizionista. La proposta di iniziativa popolare diventerà disegno di legge che tornerà alla plenaria in primavera, con la certezza di passare. I due partiti più importanti della Catalogna, i socialisti del Psc (37) e i nazionalisti moderati di Ciu (48), divisi, hanno dato libertà di voto ai loro deputati. Da loro dipenderà il risultato, e la suspense resta alta fino all’ultimo. La Spagna resta divisa. Chi sostiene la corrida e la ritiene una “fiesta” di colori, tradizione, bellezza e un’espressione appassionata di cultura. Un’altra parte della popolazione la considera una vera e propria mattanza, un’ingiustizia per uno spettacolo impari tra l’uomo e il toro. Ora la parola passa alla politica che cercherà di dirimere la questione mettendo un punto fermo sul destino della corrida.