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È difficile non lagnarsi della

povertà, mentre è facile non andare orgogliosi della ricchezza Confucio

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • SABATO 10 LUGLIO 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Fallisce tra le polemiche l’incontro sulla manovra. Lega in imbarazzo. Positivo invece l’accordo con i Comuni sull’autonomia fiscale

Il governo smonta le Regioni Mentre Berlusconi tace,Tremonti pilota il vertice con i governatori, affossando ogni loro richiesta. Dura replica dei presidenti: «Il federalismo è morto, tenetevi le deleghe». E si appellano a Napolitano di Francesco Pacifico

Oltre la crisi del sistema

Ma quale “terzo polo”, qui bisogna fare il primo! di Enrico Cisnetto bastata l’ennesima “crisi di governo virtuale” che nella Seconda Repubblica è l’unica modalità possibile per i default della politica - cioè quella che stiamo vivendo per il dilaniarsi della maggioranza intorno alla manovra finanziaria e alla legge sulle intercettazioni, per rilanciare l’idea di un “terzo polo” capace di sparigliare le carte del bipolarismo ormai fallito. Recenti sondaggi ipotizzano una forza addirittura superiore al 20%.

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Il vero scontro nel Pdl

La democrazia ha bisogno dei partiti? di Francesco D’Onofrio egli ultimi tempi si è sviluppato un dibattito sul concetto di “corrente di partito”, sia per affermarne una indispensabilità, sia per negarne quasi lo stesso diritto ad esistere. Da almeno due secoli in Europa, infatti, il dibattito sul partito politico, sulle sue eventuali correnti, sul rapporto dei partiti con il Parlamento e con il Governo si è andato sviluppando in riferimento a due questioni: identità ideale e radicamento territoriale e/o sociale.

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CHI HA RAGIONE SUI CONTI?

ROMA. «Se questo è l’atteggiamento, allora si azzera anche tutto il lavoro sul federalismo fiscale. Semplicemente non si fa». Di fronte a un Tremonti può restio del solito a sganciare un euro, ieri il governatore Vasco Errani questa minaccia l’ha ripetuta più e più volte. E davanti a lui c’erano anche il premier Silvio Berlusconi e il ministro competente in materia, Umberto Bossi. Ma nessuno ha avuto il coraggio di ribattere. Perché più dei dieci miliardi di euro che la manovra taglierà alle Regioni nel prossimo biennio, più della minaccia di rinunciare alle deleghe concesse dalla Bassanini, lo scontro si è trasferito su quella che l’asse Bossi Tremonti definisce la madre di tutte le riforme: il federalismo fiscale. E così diventa credibile il rischio che a fine luglio, quando l’esecutivo presenterà i decreti sul passaggio ai costi standard e sull’autonomia fiscale, i governatori porranno il loro veto.

La “chiavetta” di Giulio e il “foglietto” di Vasco di Riccardo Paradisi «I conti veri stanno in questa chiavetta, gliela dò se vuole vederseli e studiarseli», dice il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, tra il professorale e il sarcastico, porgendo la chiavetta del computer a Errani. «Non ho la chiavetta ma ho i conti veri che sono questi qui» replica il presidente della Conferenza delle Regioni, agitando un documento scritto. Controreplica di Tremonti: «Questi sono i dati dell’Istat, in Europa fanno fede i dati nostri». L’incomunicabilità tra governo e regioni sta tutta in questo siparietto nervoso tra il ministro dell’Economia e il presidente della Regione Emilia Romagna, Vasco Errani.

Cinquant’anni fa i moti di piazza

Genova, il mistero dello “stupido” Michelini Enzo Carra • a pagina 24

La sfida Olanda-Spagna

Istruzioni per capire chi vincerà di Paola Binetti ifficile fare previsioni per finale e finalina. Avevamo scommesso sull’Olanda e siamo stati buoni profeti, ma avevamo scommesso sulla Germania e abbiamo perso. In termini calcistici diremmo che c’è stato un pareggio 1 a 1. Risultato modesto, come si addice al Mondiale italiano, che complessivamente non ha certamente brillato per tattica e strategia. E come si addice a un cronista improvvisato come sono io stessa...

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Una scena d’altri tempi mette fine al caso che ha imbarazzato Mosca e Washington

Le spie che vennero dal semifreddo Gli 007 russi e americani “scambiati” all’aeroporto di Vienna di Antonio Picasso on lo scambio avvenuto ieri a Vienna, tra i presunti agenti russi e le altrettanto non comprovate spie americane, sembra essersi concluso questo cameo di Guerra fredda di cui siamo stati testimoni negli ultimi giorni. Per poco, forse con un po’ di nostalgia, le due superpotenze sono tornate a rivaleggiare come hanno fatto dal 1945 al 1989. L’orso post-sovietico si è nascosto dietro lo sguardo glaciale della bella Anya Kushenko, nome di battaglia Anna Chapman. Alla fine però gli investigatori dell’Fbi lo hanno stanato. Mosca, per aver indietro la sua spia e i suoi colleghi, ha liberato quattro fisici nucleari che avrebbero negli ultimi anni informato Washington su vari sviluppi atomici del Cremlino.

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Anna Chapman, una spia russa, e quella americana Igor Sutyagin

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I QUADERNI)

• ANNO XV •

NUMERO

132 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Scontro. Il vertice tra Esecutivo ed enti locali lascia immutata la manovra e i governatori sono pronti a restituire le deleghe

Il governo del centralismo Il leader delle Regioni: «Così salta il federalismo» e Tremonti replica: «Dopo il voto sulla Finanziaria andremo avanti con la riforma» di Francesco Pacifico

ROMA. «Se questo è l’atteggiamento, allora si azzera anche tutto il lavoro sul federalismo fiscale. Semplicemente non si fa». Di fronte a un Tremonti può restio del solito a sganciare soldi, ieri il governatore Vasco Errani questa minaccia l’ha ripetuta più volte. E davanti a lui c’erano anche il premier Silvio Berlusconi e il ministro competente, Umberto Bossi. Ma nessuno ha avuto il coraggio di ribattere.

Umberto Bossi (molto imbarazzato). I quali hanno preferito lasciare spazio al soliloquio di Tremonti. Eppure sarebbe stato interessate discutere dei saldi della manovra attraverso la spesa del centro e della periferia dello Stato. Con il governo che giovedì ha detto che la Finanziaria incide soltanto sul 3 per cento di una spesa regionale che è pario a 170 miliardi e gli enti che hanno replicato invece l’impatto per i ministeri è soltanto dello 0,44 per cento. Invece non si è parlato di nulla di tutto ciò. Tremonti ha ricordato ai presenti «che questi sacrifici ce li ha chiesti l’Europa. E a tutti gli altri Paesi, compresa la Francia, è andata peggio». Al suo rifiuto di inserire nel maxiemendamento alla manovra una ripartizione diversa dei tagli, Roberto Formigoni è sbottato: «Allora ai treni, e il costo del trasporto pubblico per i pendolari, ve lo prendete in carico voi». Parole, queste, che non hanno intenerito il ministro: «Tranquilli, a

Perché più dei dieci miliardi di euro che la manovra taglierà alle Regioni nel prossimo biennio, più della minaccia di rinunciare alle deleghe concesse dalla Bassanini, è il futuro di quello l’asse Bossi Tremonti definisce la madre di tutte le riforme, il federalismo fiscale, a diventare centrale. C’è il rischio che a fine luglio, quando l’esecutivo presenterà i decreti sul passaggio ai costi standard e sull’autonomia fiscale, i governatori porranno il loro veto. Come fecero nel 2001 Bassolino e Fitto, che con l’avallo di Fini mandarono al macero il decreto 56/2000. Ieri il governo ha chiarito una volta IL BOTÙN per tutte che non inDI BOSSI tende scontare o ri«Silvio, schiscia modulare un euro il botùn dei 10 miliardi di tache da qui gli decisi per le Renon si sente gioni per il prossinulla». mo biennio. E che le E il Cavaliere promesse di Silvio traduce: Berlusconi non «Mi ha chiesto avrebbero portato i di accendere risultati sperati, i il microfono» presenti l’hanno compreso quando Giulio Tremonti si è alzato dal suo scranno e ha conse- settembre faremo un tavolo con gnato nelle mani di Errani una Trenitalia per risolvere il problechiavetta usb «con i dati della Ra- ma. Voi intanto potreste iniziare a gioneria dello Stato, che dimostra- tagliare sulla sanità per aiutare le no che è cresciuta la spesa degli imprese». Ma questa volta a perenti locali, non quella dell’ammini- dere la pazienza è stato il governatore Errani: «Giulio, sai bene che i strazione centrale». A stretto giro il governatore emi- saldi della salute non si possono liano ha replicato con un sarcasti- toccare. Quando una Regione ha co «scusa, non ho una chiavetta, provato a rimodulare i risparmi, ma semplici fogli. E sono le stime gli avete mandato un warning per dell’Istat che dimostrano il contra- farle cambiare idea!». rio». «Mi spiace Vasco, ma in Europa sono le cifre della Ragioneria Soprattutto non si è entrati nel che contano», la controreplica in merito delle proposte che i governaun siparietto che la dice lunga su tori avevano portato al tavolo con il quello che è stato il vertice di ieri: governo: accanto alla spalmatura non si è entrati nel merito dei nu- dei tagli su diversi livelli di governo meri, ci si è soffermati soltanto su una verifica per capire quali enti abdiscorsi di principio e non si è nep- biano incrementato la spesa e un tapure parlato di politica, come di- volo tra esecutivo e autonomie per mostrano i silenzi di Silvio Berlu- individuare gli sprechi». sconi (a dir poco imbestialito) e di Dirà Errani in una conferenza

molto tesa e dal forte impatto scenico (accanto a lui tutti i colleghi): «Per noi l’esito è stato molto negativo. L’unica apertura è sulla commissione sugli sprechi, con il premier che ha chiesto a me e a Tremonti di organizzarla». ROMA. Roberto Cota e Luca Zaia hanno disertaMa per i governatori discutere to la conferenza stampa finale con tutti gli altri sulle cifre era fondamentale, visto presidenti di Regione. «Ma soltanto perché avevache contestano «numeri relativi al no l’aereo in partenza», li ha giustificati Vasco Ercontributo al debito, ai consumi rani. L’unica volta che ieri, nel vertice-match gointermedi. I dati verno contro governatori, UmIstat, ministero berto Bossi ha preso la parola, dell’Economia e è stato per rimbrottare il CavaCorte dei Conti liere. «Silvio, schiscia il dimostrano in botùn», gli ha gridato. Con il maniera inequipresidente del Consiglio che di vocabile qual è rimando ha fatto ridere i prel’andamento del senti con un: «traduco per chi contributo al denon l’avesse capito: il ministro Umberto Bossi mi ha chiesto bito e della spedi accendere il microfono». sa pubblica dei diversi comparMa l’imbarazzo leghista per ti. E si dimostra in modo evidencome Tremonti sta gestendo il te che l’amminicapitolo Regioni, si è materiastrazione centralizzato a un quarto d’ora dalla le ha un increfine del vertice tra governo e mento significagovernatori: il Senatùr si è altivamente supezato, ha fatto un mezzo saluto LA COMMISSIONE riore a quello a Berlusconi ed è andato via. DI BERLUSCONI delle amminiIn un silenzio spettrale tutta «Buona idea quella della strazioni regiola delegazione in camicia commissione sugli sprechi. nali». verde (i governatori Cota e Giulio e Vasco, mettetevi La prossima setZaia, ma anche i ministri Mad’accordo per organizzarla» timana la Conferoni e Calderoli, il sottosegrerenza Stato Retario Davico) ha abbandonagioni presenterà to la sala a testa bassa. richiesta formale al governo per I militanti del Carroccio si sentono vittime restituire i poteri ottenuti dalla del rigore di Tremonti. «Perché colpisce gli Bassanini su trasporto pubblico, enti virtuosi», lamenta un dirigente da via servizi sociali e aiuti alle imprese. Bellerio, «e si continuano a dare soldi a Roma oppure si permette al Lazio o alla CamMinaccia che però ha bisogno di pania di dilazionare il rientro dal deficit saun’apposita legge per essere mesnitario». Oggi, dalle colonne di Europa Dasa in pratica. niele Marantelli, Ma la cosa non parlamentare vaspaventa Giulio resino e ambaTremonti: «I gosciatore del Pd vernatori hanno nell’Irpinia del Nord, chiesto la restitusottolineerà che il prozione delle deleblema della Lega «è di ghe? Intanto lo ordine strategico, se può hanno fatto, poi continuare o meno a vivediamo. Se invacchiare». E intanto nel tanto le regioni ci movimento c’è chi pone ridanno la delega il tema dell’autonomia per i controlli da Berlusconi, mentre sulle pensioni accanto all’atavico scond’invalidità, siatro tra Calderoli e Maromo assolutamenni si intravedono le amte d’accordo...». bizioni di veneti e pieErrani ha sottolimontesi per conquistarsi neato che «quei gradi di colonnello. ste competenza I PENDOLARI comportano ri«La svolta», dicono sempre da via Bellerio, «può arrivare soltanto dalle di Tremonti ai DI FORMIGONI sorse per 3,1 mi«I treni dei Comuni. Per ora sono promesse. Ma se dal liardi di euro». pendolari ve li primo gennaio prossimo la tassa dei servizi Mentre i tagli e il trasferimento del catasto ai Comuni di- pagate voi. Meglio previsti in manoche vi riprendiate venteranno realtà, ogni malumore sarà vra, e che finiscotutte le deleghe!» (f.p.) spazzato via». no per colpire le risorse destinate

L’imbarazzo del Carroccio e la voglia di nuove strategie


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Chi ha ragione, la chiavetta o il foglietto? Duro scontro a colpi di dati tra il ministro e il presidente delle Regioni sui conti della manovra di Riccardo Paradisi conti veri stanno in questa chiavetta, gliela dò se vuole vederseli e studiarseli», dice Giulio Tremonti tra il professorale e il sarcastico, porgendo la chiavetta del computer a Errani. «Non ho la chiavetta ma ho i conti veri che sono questi qui» replica il presidente della Conferenza delle Regioni, agitando un documento scritto. Controreplica di Tremonti: «Questi sono i dati dell’Istat, in Europa fanno fede i dati nostri».

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L’incomunicabilità tra governo e regioni sta tutta in questo siparietto nervoso tra il ministro dell’Economia e il presidente della Regione Emilia Romagna. Scatenato da una querelle: il governo sostiene che la parte statale su cui calcolare la percentuale dei tagli è di 84 miliardi al netto di spesa per personale e interessi dei trasferimenti ai governi locali. Non è vero – dicono le Regioni: «la spesa statale non consolidata vale 459 miliardi di euro. Ma sottraendo alla spesa statale quella relativa agli interessi e al personale, anche al netto dei trasferimenti ai Governo locali, non si arriva a 84 miliardi ma a 195 miliardi di euro». Se non fossero numeri si potrebbe parlare di opinioni. Il problema, come dice a liberal Gilberto Muraro, ordinario di Scienza delle finanze nell’Università di Padova, è che noi abbiamo dei parametri di contabilità ancora a queste materia, «ammontano a 4 miliardi». Senza contare che nel recente passato il governo aveva promesso agli enti di fiscalizzare questi fondi. Al riguardo spiega il lombardo Roberto Formigoni: «Non possiamo che restituire tutte le deleghe della Bassanini. Abbiamo spiegato una volta di più al governo che questa manovra è insostenibile perché si ripercuote sui cittadini impedendoci di dare i servizi essenziali». Difficilmente il governo approverà una legge per annullare gli effetti della Bassanini.

troppo confusi per ragionare su numeri incontrovertibili, non soggetti dunque ad essere stirati dalle parti in gioco. «La relazione sul federalismo approvato dal Consiglio dei ministri il 30 giugno – dice Muraro – porta in allegato un lavoro della commissione Antonini che denuncia che c’è sempre stato un quadro anarcoide nella contabilità locale, schemi non omogenei. I conti della Calabria, per fare un solo esempio, sono stati chiusi con dichiarazioni autocertificate dai dirigenti sanitari». Insomma confusione in periferia ma il problema è anche al centro: «Il governo usa il machete per intervenire sui tagli degli enti locali invece del più opportuno bisturi. Tremonti ha le sue ragioni quando dice che le periferie sono state risparmiate della finanziaria del 2009 ma sbaglia applicando a tutte le regioni un metodo draconiano, non distinguendo quelle virtuose da quelle che hanno contabilità negative e colpevoli. La conferenza Stato-regioni sarebbe dovuta servire per ragionare su un piano di tagli e di ristrutturazione contabile centrato su metodi più raffinati, capaci di distinguere, di intervenire caso per caso. Non s’è fatto e si è arrivati a ridosso di questa manovra giugulatoria con l’acqua alla gola do-

po che per mesi peraltro si diceva che le cose andavano meglio, che era il caso di essere ottimisti. È chiaro che la fretta ha portato cattivo consiglio come sempre: è la logica dell’emergenza ad aver portato al bagno di sangue». Il risultato del disastroso incontro di ieri è per ora la richiesta di mettere all’ordine del giorno della conferenza Stato-Regioni l’intesa per la competenza delle deleghe: «Siamo preoccupati – dice Errani – per noi non esiste un ragionamento di schieramento. Noi non rinunceremo a lavorare perchè il nostro compito non è a fare propaganda ma spiegare al governo che chi vuole andare verso il federalismo fiscale non può entrare nel più pieno centralismo. Informeremo il presidente della Repubblica sulle conseguenze di questa situazione».

Il governo «usa il machete per fare tagli» secondo Muraro. Ma per Forte «il grasso è ancora molto»

Di conseguenza si aprono due scenari. Nel primo gli enti puntano a un’intesa con l’esecutivo che riconosca la mancanza di risorse necessarie per questi servizi. Atto sufficiente quanto meno a dilazionare con i fornitori i pagamenti per le prestazioni. Ma il vero terreno di scontro rischia di diventare l’approvazione del federalismo fiscale. Se davanti al governo Errani ha detto che «il federalismo salta», davanti alla stampa ha usato termini più diplomatici: «Vedo un percorso a zig zag, eppoi come si fa

Spezza una lancia per il governo invece l’economista Sandro Forte: «Se il taglio deve essere di 5 miliardi, è inutile stare a dimostrare qual è la percentuale dei tagli. Chi contesta questa cifra, come fa Errani, deve spiegare come si copre una modifica ad essa. Ma le regioni, anche quelle cosiddette virtuose, come la Lombardia, che ha la sua sede al Pirellone, nel pieno centro di Milano, devono anche dire che c’è

Nella foto in alto: Giulio Tremonti. Nella pagina a fianco, da sinistra in senso orario: Umberto Bossi, Silvio Berlusconi e Roberto Formigoni

un documento uscito la scorsa settimana che dimostra che la burocrazia regionale è maggiore di quella statale. Che cosa hanno fatto e che cosa intendono fare le regioni per dimagrirla?».

Forte si fa due conti, che non corrispondono a quelli forniti dalle Regioni: «I trasferimenti alle Regioni sono pari a 170 miliardi, di cui 106 per la sanità che non verranno toccati. E dunque il taglio di 4, 5 miliardi per il 2011 calcolato sui 64 miliardi di trasferimenti alle Regioni, al netto di quelli sanitari è il 7% e non il 60% “calcolato” da Errani. E sul totale della spesa delle Regioni, questo taglio di 4,5 miliardi è solo il 2,64%. Una percentuale molto modesta, considerando che nel passato le Regioni hanno avuto dallo stato una massa enorme di denaro che non ha subito riduzioni e hanno una enorme macchina burocratica». Errani replicherebbe che «in realtà si si tratta di tagli alle risorse per trasporti, manutenzione delle strade, fondo delle attività produttive, agricoltura, ambiente, edilizia residenziale, servizi». Una dichiarazione impregnata di regionalismo dirigista secondo Forte: «Le Regioni fruiranno delle maggiori entrate derivanti dalla lotta all’evasione e la manovra genera nuove entrate anche nelle tariffe autostradali. Le Regioni gestiscono un certo numero di autostrade possono fare cassa anche lì». Anche i numeri, in politica, sono opinabili.

a parlare di costi standard, se il ministro Tremonti non ci comunica neppure i nuovi Lea (livelli essenziali di assistenza, ndr) per la sanità?» Ma guai a paventare passi indietro con il ministro.«Come si fa a dire», nota, «che il federalismo è morto, anzi è morta perfino la Bassanini, e poi chiedere la contemporaneità dei decreti attuativi del federalismo?. Noi siamo convinti che il federalismo fiscale sia la formula di soluzione dei problemi anche per le regioni. Eppoi voglio tranquillizzare i cit-

tadini: i pendolari non staranno per strada....». A questo punto si attendono le prossime mosse, in un calderone che comprende aperture da parte del governo agli enti con la sanità in rosso, un aumento dei contenziosi tra centro e periferie e la promessa di ridare qualcosa ai governatori quando si farà il bilancio dello Stato. Il titolare di via XX settembre però è fiducioso: «Votata la manovra e passata questa fase, ci ritroveremo tutti attorno a un tavolo. Anche con le Regioni».


il protagonista

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Consigliere comunale a 28 anni, poi consigliere regionale. Da un decennio è il presidente della Regione

Vasco il rosso, leader bipartisan

Pragmatico, efficiente, figlio della più pura tradizione comunista emiliana, è riuscito a farsi apprezzare anche dai governatori del centrodestra. Il ritratto del principale antagonista di Tremonti di Maurizio Stefanini ome Vasco, provenienza Emilia-Romagna, e per un personaggio più giovane verrebbe spontaneo pensare a genitori fan del cantante modenese. Poiché però Vasco Rossi è nato il 7 febbraio del 1952 e Vasco Errani il 17 maggio del 1955, ogni influenza diretta va esclusa. Piuttosto, bisognerebbe parlare di Vasco il Rosso. L’attuale Presidente della Regione Emilia-Romagna è nato infatti a Massa Lombarda, che malgrado in nome si trova invece in provincia di Ravenna. Insomma, il cuore di quella Romagna profonda che l’avversione risorgimentale per il potere papalino rese nell’800 una roccaforte repubblicana, e l’ideale mazziniano del capitale e lavoro nelle stesse mani rese poi una roccaforte del movimento cooperativo: poi imitata nella vicina Emilia dai socialisti. Due movimenti cooperativi, quello socialista emiliano e quello repubblicano romagnolo, che dopo il 1945 caddero rapidamente nelle mani del Pci, ma dandogli appunto quel retroterra economicista e affarista poi ribattezzato “modello emiliano”.

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Là dove già ai tempi di Stalin i comunisti non si occupavano di rivoluzione e lotte sociali, bensì di governo e fatturati. E suo padre Ezio dirigeva infatti la Cor di Mezzano, una grossa cooperativa agricola, oltre a essere presidente della commissiona morale della sezione del Pci di Massa Lombarda. Insomma, un figlio d’arte. Anzi, una famiglia d’arte. Il primogenito Giovanni, classe 1946, ha infatti seguito il percorso del padre sul fronte cooperativo, dal momento che è dventato presidente di una cooperativa Terremerse aderente alla Legacoop e che ha sede nella longanesiana Bagnacavallo. Il secondogenito Vasco lo ha seguito invece su quello politico, seguendo il percorso Pci-Pds-Ds-Pd: consigliere comunale di Ravenna a 28 anni, dopo il liceo scientifico a Lugo di Romagna e l’iscrizione a Lettere e Filosofia, mantiene l’incarico dal 1983 al 1995. È anche assessore alle Attività Economiche, dal

1992 al 1993. Diviene poi consigliere regionale dal 1995; consigliere alla Presidenza dal 1995 al 1996; assessore regionale al Turismo nel 1997; Presidente della Giunta Regionale dal 1999; Presidente della Regione dal 2000. Non “Governatore”: lui rifiuta infatti il titolo all’americana in effetti non presente formalmente nel Diritto italiano, ma ormai invalso nell’uso da quando i Presidenti di Regione hanno iniziato a essere eletti a suffragio popolare diretto.

Per questo, l’hanno anche chiamato il “Non Governatore”. Il che non gli ha impedito di essere confermato per una seconda volta nel 2005 e per una terza nel 2010. Dopo i quattro mandati di Formigoni in Lombardia, eletto nel 1995, è lui il capo di un governo regionale da più lungo al potere. Per la verità, la legge n. 165 del 2004 vieterebbe tre mandati di fila ai presidenti di Regione scelti direttamente dal corpo elettorale, e quindi si potrebbe arguire che entrambi sono fuori legge. Attenzione, però. L’elezione diretta dei governatori fu infatti introdotta nel 1999, la prima applicazione fu nel 2000, ma il divieto arrivò appunto nel 2004. Formigoni e Errani hanno dunque entrambi concluso che, poiché una legge non può essere reatroattiva, il doppio mandato si applicherebbe solo dal 2005. Dunque, i due sarebbero a posto fino al 2015. Fu appunto l’argomento che adottò in Venezuela Hugo Chávez per essere rieletto nel 2007: il mandato del 19992001 era stato in base alla Costituzione precedente (che peraltro vietava non la terza rielezione, ma addirittuira la seconda). Dopo di che Chávez fece indire un referendum per togliere il divieto, ma fu sconfitto. La Costituzione prevedeva che se ne potesse fare più di uno, ma poiché la revisione costituzionale poteva farsi su tre tipi di iniziativa diversa interpretò nel senso che il limite valesse solo per ognuna delle tre procedure, indisse dunque un secondo referendum su iniziativa del Congresso, e spiegò che se non fosse passato neanche questo ci avrebbe provato una terza volta, su raccolta di firme degli elettori. E stavolta la riforma passò. Sarà interessante vedere quel che Formigoni e Errani faranno nel 2015. Alle ultime elezioni, il Pd ha fatto ricorso contro la ricandidatura di Formigoni, il Pdl contro quella di Errani e i ra-

dicali contro tutti e due. E anche dai blog democratici sono arrivati mugugni. «Errani ha sicuramente lavorato bene ma in Emilia Romagna dobbiamo dare un segno di rinnovamento con tutti i giovani quadri in giro». «Penso che dovremmo avere il coraggio di cambiare anche se Errani è stato un buon amministratore ma dobbiamo dare una sterzata e dare un esempio per non avere poi il fianco scoperto in certe situazioni». «Direi che si dovrebbe, una volta tanto, oppure finalmente, applicare lo statuto e codice etico. Può benissimo mettere a disposizione la sua esperienza affiancando un volto nuovo ma competente”. E via di questo passo.

Va rilevato che proprio in questo momento la questione sta approdando in Tribunale. La saga familiare non è peraltro conclusa, dal momento che la figlia di Giovanni Linda è oggi sindaco di Massa Marittima. Inoltre Giovanni è stato oggetto di una polemica giornalistica: per la storia di un finanziamento di un milione di euro con cui la Regione a guida Vasco avrebbe salvato la Cooperativa a guida Giovanni, malgrado varie irregolarità nell’espletamento della procedura. Va detto che Vasco non si è limitato a definire la vicenda «un’aggressione cattiva e ingiusta» come «obiettivo politico da demolire», ma è anche ricorso «presso la Magistratura competente perché sia comprovata la piena trasparenza e legittimità di tutti gli atti adottati». Pure una polemica giornalistica ci fu nel maggio del 2006, quando Errani fu fotografato assieme all’allora leader dei Verdi Pecoraro Scanio che sghignazzava ai funerali dei soldati italiani caduti a Nassiriya. Errani si disse «profondamente offeso e diffamato dalla campagna», e aggiunse che «negare l’onestà dei miei sentimenti e della mia partecipazione a Santa Maria degli Angeli come sa bene chi mi conosce, è una vergogna e una forma di imbarbarimento del confronto che io rifiuterò sempre». E una terza polemica giornalistica è sorta sulla figura di Luciano Arlati: un figlio illegittimo che papà Ezio aveva avuto nel 1945 da una donna sposata, che solo nel 1966 avrebbe conosciuto il padre, e solo nel 2010, ormai pensionato, ha avuto il riconoscimento di quella paternità sull’atto di nascita. Il dato curioso è che


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Tremonti promuove il federalismo municipale di Franco Insardà

ROMA. Se mai vedrà la luce, sarà un federalismo municipale quello che dovrebbe riscrivere l’architettura istituzionale italiana. Subito dopo avere gelato le velleità delle Regioni, ieri Giulio Tremonti ha chiarito chi saranno i suoi compagni di viaggio in questo percorso: i sindaci. A loro il ministro ha concesso quegli alleggerimenti nella manovra che sono stati negati ai governatori. E dietro questa scelta ci sono due motivazioni, una politica e l’altra amministrativa. L’obiettivo politico del ministro è quello di rompere il fronte degli enti locali che sulla manovra ha dimostrato una compattezza senza precedenti. L’altro riguarda la lotta all’evasione nella quale, secondo Tremonti, i comuni possono essere determinanti per aiutare l’Agenzia delle entrate a “incrociare”i dati degli italiani. E così se per le Regioni è buio pesto per i comuni si intravede qualche spiraglio di luce. Ieri nell’incontro con il governo l’Anci si è vista acccettare le richieste di modifica alla manovra che sta portando avanti da settimane. Autonomia impositiva a partire dal 31 luglio, verifica per lo sblocco di parte dei residui passivi in autunno e la modifica del Patto di stabilità, con la rimodulazione dei tagli ai trasferimenti statali. Nell’accordo sottoscritto dal governo, alla presenza del presidente del Consiglio Berlusconi, è previsto anche il trasferimento dell’amministrazione del Catasto e la massima autonomia nella gestione delle risorse umane. Secondo Sergio Chiamparino, presidente dell’Anci, la manovra «avrebbe dovuto essere distribuita in modo diverso, ferme restando la necessità l’urgenza e l’ammontare complessivo dei saldi. Prendendo atto dell’impossibilità di modificare questa impostazione abbiamo avanzato alcune proposte che non solo non modificano l’ammontare complessivo della manovra, ma non ne intaccano

neanche i principi di distribuzione». Soddisfatto, invece, il sindaco di Roma Gianni Alemanno e presidente del Consiglio nazionale dell’Anci, secondo il quale l’incontro ha rappresentato «un grande risultato per i comuni: si è ritrovato il filo del dialogo con l’Esecutivo in un momento molto difficile. E tutto questo è stato possibile grazie alla flessibilità dimostrata dall’Anci, più che mai necessaria in un momento del genere. Ora – ha aggiunto Alemanno – continueremo a trattare con l’obiettivo di rendere sopportabile il peso della manovra e fare in modo che questo non si scarichi sui cittadini». Dal fronte del Nord, spiega un amministratore, si registrano delle «perplessità, Chiamparino non ha portato a casa nulla, c’è stato l’impegno a rivedere i tagli, ma nulla di concreto. Queste misure dovevano già essere approvate con i decreti attuativi del federalismo fiscale entro la fine di giugno».

La modifica del Patto di stabilità era una delle principali richieste dell’Anci e a questo proposito Chiamparino ha annunciato che «verrà istituito un tavolo di verifica che entro ottobre stabilisca la possibilità di sbloccare parte dei residui passivi in capo ai bilanci dei comuni, un provvedimento grazie al quale l’anno scorso metà delle amministrazioni italiane hanno potuto rispettare il Patto di stabilità». Il governo si è impegnato a prevedere il trasferimento dell’amministrazione del Catasto ai comuni e sempre entro ottobre verrà presa in considerazione anche la proposta dell’Anci di trasferire al 2012 parte dei tagli previsti nel 2011 (circa 700 milioni). L’incontro con il governo ha sancito inoltre la nascita di una Commissione governo-autonomie locali, per verificare l’ammontare delle spese e studiare manovre di alleggerimento e risparmio sui costi complessivi del sistema.

il fratellastro ora pensionato, e che ha avuto un figlio prete, è stato a sua volta impegnato sul piano sindacale, diventando segretario Cisl.

Insomma, proprio una questione di cromosomi. Cromosomi o scuola del Pci emiliano-romagnolo che sia, comunque, con tutte le polemiche giornalistiche che gli si possono fare sopra, Vasco Errani resta un tipo di politico come non ve ne sono più molti: appunto, forse col solo parallelo di Formigoni o di alcuni leader di scuola leghista, ma molto più giovani. È infatti un professionista della cosa pubblica modello Prima Repubblica, che alla politica come professione ha dedicato la sua vita, e che ha per di più trascorso tutta la sua carriera a livello locale e al contatto diretto con la gente. Nel suo sito Internet non è indicata alcuna esperienza lavorativa a parte quella politica, e gli unici “interessi extralavorativi” citati sono indicati “cinema e lettaratura: cioò, a parte fare il politico ogni tanto Vasco Errani vede qualche film e legge qualche libro. In più, il modello cooperativistico della Lega Cooperativa allo stesso modo dell’analogo fenomeno della Compagnia delle Opere rispetto a Formigoni rappresentano un sostanzioso retroterra produttivo che magari si presta a più di un sospetto su conflitti di interesse e appoggio della politica agli affari. Però da anche ai due governatori lombardo e emiliano un peso che ormai altri politici fanno fatica ad avere, in tempi di liste bloccate e candidati selezionati con metodi da concorsi di bellezza. Loro, a differenza della quasi totalità dei deputati e senatori e anche di molti eletti locali, possono effettivamente puntare i piedi e dire di no. E per questo sono diventati entrambi leader del nuovo fronte di regioni che in rivolta contro un governo che si riempie la bocca di slogan federalisti, e poi taglia le gambe finanziarie propri agli enti concreti su cui questo federalismo dovrebbe camminare. O, per lo meno, è questa l’impressione che lascia. «Nessuno può pensare di fare il federalismo fiscale in modo avverso alle Regioni e agli enti territoriali» è stato lo slogan lanciato da Errani. Vicepresidente della Conferenza dei Presidenti delle Regioni nel 2000, è stato promosso Presidente

nel 2005. E ciò non suscita troppi problemi, dal momento che all’epoca la maggior parte delle Regioni era amministrata dal centro-sinistra. Ma dalle ultime regionali il centro-destra governa ormai 11 amministrazioni regionali su 20. Eppure, Errani è stato confermato, malgrado qualche brontolio nel Pdl: mentre Formigoni e Zaia esprimevano infatti soddisfazione, il finiano Enzo Raisi scriveva a Berlusconi: «Sono sorpreso e amareggiato dalla conferma di Errani, che ha rappresentato la vera opposizione al governo da Lei guidato». È vero che poi quando Errani ha iniziato a remare contro la manovra alcune amministrazioni regionali di centro-destra hanno iniziato a prendere le distanze. Ma altre lo hanno invece seguito, e in questo momento l’opposizione del fronte regionale a Tremonti sembra relativamente compatto. «L’unità della Conferenza delle Regioni è pienamente confermata», ha ribattuto Errani dopo che i presidenti Pdl di Lazio, Campania, Calabria, Abruzzo e Molise erano sembrati distanziarsi da lui con un’autonoma lettera a Tremonti. «L’unità della Conferenza è pienamente confermata. Tutti quei presidenti hanno posto una questione specifica, non relativa alla posizione della Conferenza sulla manovra, che confermano, quanto una posizione in relazione ai piani di rientro perchè sono le Regioni che hanno piani di rientro sulla sanità». E Formigoni lo ha appoggiato in pieno. «È sbagliata l’interpretazione ridicola di chi tenta di dividerci il fronte dei governatori è unito e compatto nel chiedere un cambiamento sostanziale della manovra. Questi cinque governatori del sud, in unità con noi, segnalano problemi ulteriori avendo a che fare con una situazione dissestata delle loro Regioni, situazione che hanno ereditato». È possibile che Formigoni e Errani stiano in qualche modo preparandosi a entrare con un ruolo di primo piano nella politica nazionale? Certo, l’invecchiamento di Berlusconi è sempre più evidente, Bersani non è che brilli come leadership, il gioco di Fini è complicato, Veltroni e D’Alema sono stati giubilati, e fuori della Lega altri leader locali con altrettanto carisma di successi non è che ve ne siano. E nel 2015, vada come vada l’attuale ricorso in Tribunale, la loro ricandidatura in Regione sarebbe comunque impossibile.


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l’approfondimento

Il bipolarismo non può più contare né sul centrosinistra, morto da tempo, né sul centrodestra, sempre più in crisi esistenziale

Terzo polo? No, primo

Si fa un gran parlare di una nuova area che da Casini a Fini a Rutelli potrebbe ridisegnare l’intero sistema politico italiano. Sarebbe necessario: ma l’ambizione non può certo essere quella di una terza forza... di Enrico Cisnetto bastata l’ennesima “crisi di governo virtuale” – che nella Seconda Repubblica è l’unica modalità possibile per i default della politica – cioè quella che stiamo penosamente vivendo per il dilaniarsi della maggioranza intorno alla manovra finanziaria e alla legge sulle intercettazioni, per rilanciare l’idea di un “terzo polo” capace di sparigliare le carte del bipolarismo ormai fallito. Ne parlano in tanti, con o senza titolo, e recenti sondaggi ipotizzano una forza addirittura superiore al 20% a quella nebulosa che metterebbe insieme dall’Udc ai finiani passando per Rutelli e Montezemolo (?) oltre che altre realtà minori. Ma è un’ipotesi praticabile? E nel caso che lo fosse, sarebbe davvero utile?

È

Penso che chi, come il sottoscritto, ha fondato un movimento d’opinione (Società Aperta) in tempi non sospetti (12 anni fa) per denunciare le contraddizioni del bipolarismo all’italiana e predicare la ne-

cessità di passare al più presto alla Terza Repubblica, abbia le credenziali giuste per rispondere a queste domande. E la mia risposta – non ci si meravigli – è assolutamente negativa. Non perché non ci sia la necessità di costruire una nuova forza politica – che semmai è drammaticamente in ritardo – ma perché oggi non ha più senso pensarla come “terza”.

Terza di che? Se la sinistra è morta da tempo e per ridarsi una prospettiva ha bisogno di una trasfigurazione totale, una rinascita che presuppone la preventiva certificazione del trapasso di quella esistente, e se il centrodestra è nel pieno di una crisi esistenziale nonostante sia elettoralmente padrone del campo – o forse proprio per questo, non avere sufficiente opposizione comporta inevitabilmente l’esplosione delle opposizioni interne – insomma, se il bipolarismo ha perso entrambe i poli su cui si regge, non ha nessun significato immaginare la creazione

di una “terza forza”. Essa serviva quando il sottoscritto e pochi altri volonterosi – tra i tanti mi piace ricordare l’amico Savino Pezzotta, con il quale nel 2005, lui ancora segretario della Cisl, cercammo (senza fortuna) di coinvolgere Montezemolo per prendere un’iniziativa in vista delle “elezioni pareggio” del 2006 – cercavano di anticipare la fine della Seconda Repubblica, sulla base di un’analisi, risultata purtroppo più che fondata, che considerava certo il fallimento del bipolarismo e nefasto il suo protrarsi nel tempo.

Dopo l’esordio fallimentare di Berlusconi nel 1994 e dopo la scarsa riuscita del centrosinistra nella legislatura 19962001 (quattro governi con tre presidenti del Consiglio), e considerati i vizi che avevano guastato fin dalla nascita il Dna stesso del regime politico succeduto alla Prima Repubblica, non era difficile 10-12 anni fa o anche prima pronosticare il futuro infelice della Secon-

da Repubblica, immaginare i danni che avrebbe provocato al Paese e agire di conseguenza. Ma allora, e per diversi anni a seguire, questa consapevolezza non era affatto diffusa – un po’per ignoranza, un po’per convenienza – e dunque le due gambe del bipolarismo avevano effettivamente bisogno di un terzo polo che, fungendo da reagente chimico nello stagno della politica bloccata dalla contrapposizione armata, facesse in modo da accelerare la scomposizione e ricomposizione delle alleanze politiche. Siccome, però, quella terza forza non è mai nata – né per scissioni interne al sistema, né per ingressi dall’esterno – altro non è rimasto che attendere la decomposizione del sistema per auto-implosione. Cosa che è regolarmente successa, prima a sinistra e ora a destra, ma con un ritardo che andato tutto a scapito del Paese, che nel frattempo ha visto aumentare inesorabilmente il suo declino, e non solo politico-economico, ma anche civile e morale. Cer-

to, il “morto” – la Seconda Repubblica – non è ancora seppellito, ma nessuno ormai, neppure tra i suoi protagonisti, è disposto a scommettere sulla possibilità di un miracoloso risveglio. Per questo la terza forza, intesa nell’accezione di cui sopra – e unica versione possibile – non serve più.

Adesso serve costruire una “prima forza”, sostitutiva dell’esistente, ancora “vivo” solo formalmente. Quello che nel linguaggio giornalistico e politico ormai corrente – e questo la dice lunga a proposito della fine di un’epoca – viene chiamato il “dopo Berlusconi” altro non è se non la necessità di individuare uomini, risorse e strategie per fare al più presto ciò che lo stesso Cavaliere fece nel 1994: raccogliere, senza continuità alcuna, l’eredità di chi aveva avuto il consenso fino a quel momento. Allora la catarsi fu Tangentopoli, oggi l’implosione del sistema berlusconiano. Ma la


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Come scongiurare l’assolutismo partitocratico da una parte e l’assolutismo elettorale dall’altro

La democrazia senza i partiti: il vero nodo che divide il Pdl

Si discute della legittimità delle correnti ma in realtà il problema di fondo riguarda il giudizio sull’intera storia della Seconda repubblica di Francesco D’Onofrio el corso degli ultimi tempi si è sviluppato un dibattito molto interessante sul concetto stesso di “corrente di partito”, sia per affermarne una qualche indispensabilità, sia per negarne ancora una volta quasi lo stesso diritto ad esistere. Si tratta di un dibattito centrale per l’idea stessa di democrazia che si intende condividere e promuovere. Da almeno due secoli a questa parte in Europa, infatti, il dibattito sul partito politico, sulle sue eventuali correnti, sul rapporto dei partiti medesimi con il Parlamento e con il Governo, si è andato sviluppando comunque in riferimento a due questioni almeno: identità ideale e radicamento territoriale e/o sociale. Nel corso degli ultimi secoli abbiamo infatti assistito al progressivo emergere di partiti politici radicati socialmente, nel senso delle classi sociali di riferimento: si tratta – come tutti sappiamo – della vicenda in particolare concernente il partito socialista – comunque denominato – nei diversi Stati nazionali europei.

N

Nello stesso arco di tempo, e con una accentuazione negli ultimi decenni, si è invece andata diffondendo l’opinione che il raccordo fondamentale del Governo dovesse essere ricercato negli elettori e non più in quei partiti politici che avessero deciso di formare una maggioranza parlamentare, capace di sostenere un governo.Vi è stato di conseguenza un continuo affermarsi della essenzialità dei partiti politici – sia territorialmente sia socialmente caratterizzati – perché si potesse parlare di una democrazia pluralistica; vi è stato, al contrario, chi ha ritenuto che la democrazia imponesse un fondamento elettoralistico dei governi, quasi a ritenere marginali o addirittura irrilevanti i partiti politici medesimi e, di conseguenza, i parlamenti nei quali questi si fossero sostanzialmente insediati. Non si tratta della contrapposizione tra sistema parlamentare da un lato e sistema presidenziale dall’altro, come pure si è affermato qualche volta a

dispetto del fatto che in nessuna democrazia vigente vi sono sistemi integralmente parlamentari o integralmente presidenziali. Si tratta infatti di una ben più profonda bipartizione: partiti politici da un lato, ed elettori dall’altro.

Coloro che ritengono l’essenzialità dei partiti politici perché si possa parlare di una esperienza democratica e pluralistica, sono normalmente portati a ritenere del tutto compatibile la presenza di correnti organizzate all’interno dai diversi partiti politici; laddove coloro che ritengono essenziale il radicamento elettorale del governo, tendono a ritenere illegittima in sé l’idea stessa di corrente. In questo caso, infatti, non si potrebbe neanche

immaginare una organizzazione correntizia degli elettori. Sia i sostenitori della essenzialità dei partiti politici per l’idea stessa di democrazia politica, sia i sostenitori della trasformazione della democrazia in senso elettorale sono esposti al rischio che entrambe queste idee della democrazia portano con sé: i primi devono constatare che il fondamento stesso della democrazia di partito rischia di dar vita ad una vera e propria partitocrazia, tendenzialmente quindi verso una sorta di assolutismo partitocratico; i secondi devono a loro volta rilevare che l’affermazione del primato degli elettori nella formazione del governo tende ad escludere condizionamenti per il governo stesso diversi dal voto elettorale, con una conseguente caduta assolutistica della democrazia elettorale medesima. Il rischio assolutistico è pertanto presente sia nella ipotesi della essenzialità dei partiti sia nella ipotesi della essenzialità degli elettori. Coloro che sostengono la necessità di un equilibrio costituzionale e politico devono pertanto rilevare la necessità di condizionamenti o territoriali o sociali tali da poter parlare seriamente di un modello democratico a base partitica e pluralistico allo stesso tempo. Analogo discorso deve essere fatto per coloro che affermano il sostanziale passaggio del potere costituzionale di decisione dai partiti agli elettori.

La questione delle componenti va affrontata assieme all’identità e al radicamento territoriale

Se si vuole operare nel senso di contrastare il rischio assolutistico insito nell’affermazione stessa di una democrazia elettorale, occorre combinare pertanto il primato degli elettori nella formazione del governo con l’esistenza di limiti costituzionali al potere medesimo del governo, che non hanno nel voto elettorale la propria legittimazione democratica. L’alternativa dunque di fronte alla quale anche oggi si trovano i sistemi politici, che pretendono di essere democratici e pluralisti allo stesso tempo, è quella che concerne la legittimazione a condizionare l’esercizio della funzione di governo. È in questo contesto che va inquadrato anche il tema delle correnti: del tutto accettabili le correnti medesime se nascono per integrare la funzione stessa dei partiti politici, o per limitare sostanzialmente la tentazione assolutistica alla quale è sempre esposta l’affermazione della essenzialità degli elettori per la democraticità stessa del governo.

condizione è la stessa. E come allora a Berlusconi non venne l’idea di fare una “terza forza”, necessariamente subordinata per quanto consistente, così oggi il tema è quello di una forza primaria che sappia ricostruire un nuovo sistema politico. Perché così come allora si passava da un regime politico basato sul sistema parlamentare e il proporzionale puro a qualcosa d’altro (nella fattispecie, purtroppo, un becero bipolarismo all’italiana), così oggi si deve passare da un maggioritario senza precedenti e senza uguali in Europa (chi prende un voto di più ha la maggioranza assoluta dei seggi), ad un sistema possibilmente più maturo. Ecco, qui sta il primo dei due nodi su cui si deve ragionare per costruire la nuova “prima forza”o il nuovo “primo polo”: definire preventivamente il sistema politico più adatto a fare della Terza Repubblica una svolta positiva nella vita del Paese. Visto da dove si viene, considerati gli errori che si sono commessi, la cosa più logica è adottare il sistema tedesco, e non solo per la legge elettorale ma anche per gli assetti istituzionali e le regole di funzionamento della democrazia. Altri potranno preferire l’esperienza francese, ma una cosa è certa: occorre che chi intende creare il nuovo polo di attrazione della politica italiana scelga. E scelga in fretta e senza confusi compromessi.

Il secondo nodo da sciogliere, che rende diversa la situazione di oggi da quella di 16 anni fa, è il totale azzeramento del quadro politico. Allora la sinistra era forte, anche se poi la gioiosa macchina da guerra di Occhetto perse con l’outsider della tivù commerciale. Oggi è morta prima ancora della destra. Questo comporta che il quadro politico va ricostruito interamente, e il nuovo polo nascente dovrà decidere dove collocarsi rispetto all’elettorato: ereditare il voto moderato o quello progressista? Se le cose stessero solo così, la risposta sarebbe semplice: siccome il primo è sempre stato maggioranza e il secondo minoranza, cominciamo dall’area moderata. Ma dato che in una prima fase la Terza Repubblica dovrebbe essere consegnata ad una “grande coalizione” che unisca le forze per affrontare le grandi riforme strutturali che non si sono mai fatte, ecco che la faccenda si fa più complessa. Il che potrebbe indurci a immaginare un’operazione a più fasi e stadi. Ma di questo varrà la pena parlare non appena saranno più chiari i tempi e i modi delle esequie della Seconda Repubblica, e non appena sarà sgombrato il campo da questo inutile dibattito sul polo “terzo”. (www.enricocisnetto.it)


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grandangolo Ieri in Austria lo scambio di agenti segreti tra Mosca e Washington, che riporta l’orologio indietro di 30 anni

La Guerra Fredda? È viva e spia insieme a noi

Nella romantica Vienna, palcoscenico del “Terzo uomo” di Orson Welles, sono atterrati gli aerei di linea civili che trasportavano gli uomini catturati dal controspionaggio di Usa e Russia. E mentre gli americani ripensano lo Start, i russi cercano di potenziare il reparto meno appariscente dell’esercito di Antonio Picasso on lo scambio avvenuto ieri a Vienna, tra i presunti agenti russi e le altrettanto non comprovate spie americane, sembra essersi concluso questo cammeo di guerra fredda di cui siamo stati testimoni negli ultimi giorni. Per poco, forse con un po’ di nostalgia, le due superpotenze sono tornate a rivaleggiare come hanno fatto dal 1945 al 1989. L’orso post-sovietico si è nascosto dietro lo sguardo glaciale della bella Anya Kushenko, nome di battaglia Anna Chapman. Alla fine però gli investigatori dell’Fbi lo hanno stanato. Mosca, per aver indietro la sua spia e i suoi colleghi, ha liberato quattro fisici nucleari che avrebbero negli ultimi anni informato Washington in merito alle recenti ricerche nel settore, portate avanti negli sperduti centri di sperimentazione nucleare della Siberia. Anche gli Usa – se l’accaduto è vero – avrebbero adottato le stesse tattiche della guerra fredda. Alle suadenti moscovite, Washington ha contrapposto l’arma della dissidenza, messa nelle mani di alcuni tecnici e intellettuali di Mosca, oppositori silenziosi della “Nuova Russia”.

C

Lo scambio di agenti è avvenuto in quella Vienna che, per quarant’anni, ha fatto da romantico palcoscenico alla guerra di spie tra Urss e Usa. All’aeroporto della capitale austriaca prima è atterrato un jet della Vision Airlines, proveniente da NewYork, con a bordo le dieci persone arrestate dall’Fbi negli Stati Uniti. A questo si è poi affiancato

un aereo partito da Mosca, che trasportava gli informatori americani. Il baratto è avvenuto nel modo più veloce e discreto possibile. Gli occhi e le orecchie dei media di tutto il mondo però erano puntati su questo amarcord spionistico. È stato impossibile quindi che telecamere e macchine fotografiche non riprendessero la scena. Già nel 1949, il regista americano Carol Reed scelse una Vienna ancora ferita dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, per ambientarvi un capolavoro dei film di spionaggio: Il terzo uomo, con Orson Welles nei panni di Harry Lime. Il do ut des avvenuto ieri all’aeroporto viennese non poteva che spolverare le storie, in parte leggendarie, dello spionaggio d’altri tempi. «In realtà non è cambiato nulla dopo la guerra fredda», ha commentato Siegfried Beer, presidente dell’Austrian Center for Intelligence, Propaganda and Security Studies (Acipss).

«La nuova Mosca è fatta di vecchi spioni», ha aggiunto. Scontato il riferimento al Primo ministro russo,Vladimir Putin, anch’egli ex agente del Kgb. Anzi, secondo l’Acipss, Vienna sarebbe attualmente “visitata” ogni anno da circa due-tremila informatori e agenti di vario tipo e nazionalità. Prima, all’epoca dei due blocchi, la sua posizione geografica era ottimale nello scambio EstOvest. Oggi, crollato il bipolarismo internazionale, l’Austria ha saputo preservare il suo status di neutralità. Si è limitata ad aderire all’Unione europea e

all’Euro, è vero, ma unicamente per ragioni economiche. In campo geopolitico e strategico al contrario, il Paese resta quello che era durante la guerra fredda: una sorta di terra di nessuno. Una condizione fondamentale, questa, affinché la sua capitale mantenga quella identità di ring per l’intelligence di tutto il mondo. La presenza dei quartier generali di importanti organizzazioni internazionali facilita il via-vai di barbe finte.Vienna infatti è sede dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in

Per gli austriaci, storici negoziatori di “barbe finte”, il conflitto di nervi fra le due potenze non è mai finito. E non finirà mai Europa (Osce), ma soprattutto dell’Opec e dell’Aiea. Tutto questo lascia presupporre un flusso continuo di informazioni, indagini e analisi, in materia di terrorismo, mondo arabo, Iran e risorse energetiche (idrocarburi e nucleare). Per chi fa la spia, Vienna resta il Paese del bengodi e appunto il centro di scambio per gli agenti che sono stati scoperti.

Ora torniamo ai nostri giorni. Il baratto è stato di dieci agenti consegnati dagli Usa, contro i quattro giunti dalla Russia. Numericamente il risultato appare in favore di quest’ultima. Nella partita che si è appena conclusa però, non è stato soltanto il differenziale matematico a pesare in favore di Mosca. Peraltro non è detto che il match sia definitivamente chiuso. È possibile che sia stato giocato solo un tempo. Gli agenti dell’Fbi sostengono che le spie russe, per quanto presenti da più anni su territorio americano, non sarebbero riuscite a trasmettere nessun dato sensibile alla loro casa madre. Difficile credere a simili dichiarazioni, tenuto conto che le indagini stavano andando avanti da tempo.

Lo spionaggio, si sa, non si limita alle questioni militari, ma sfocia nell’ambito industriale e in quello politico. Mosca è stata da sempre interessata a sapere ogni cosa dei Paesi che le sono partner oppure avversari. Si può immaginare che il Cremlino volesse e desideri ancora avere informazioni in merito all’indice di gradimento in favore del Presidente Obama, oppure al suo futuro competitor repubblicano per le presidenziali del 2012, o per quanto riguarda le ricerche sull’energia nucleare. Questi restano sono alcuni esempi però. D’altro canto, si dice spesso che una spia scoperta è una spia “bruciata”. È allora plausibile pensare che per il Cremlino gli agenti catturati dagli americani non fossero più necessari. Da qui il dub-


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Tutti scienziati, negano di aver mai fatto parte della Central intelligence agency

Chi sono i quattro ricercatori russi che hanno preferito l’Occidente libero di Osvaldo Baldacci entre i russi negli Stati Uniti ammettevano di essere spie per poter essere espulsi via Vienna, quattro russi che da tempo languivano nelle prigioni exsovietiche si ritrovavano all’improvviso liberi e la prima cosa che hanno fatto è stata quella di dichiararsi innocenti dalle accuse di spionaggio, benché in passato siano stati costretti ad ammetterlo per ottenere migliori condizioni. I quattro personaggi che sono rientrati in questo scambio di prigionieri stile anni della Guerra Fredda sono Alexander Zaporozhsky, Gennady Vasilenko, Sergei Skripal e Igor Sutyagin, scienziati e agenti che lavoravano per strutture militari o di intelligence della Russia e prima dell’Unione Sovietica finché non sono stati arrestati, accusati di spionaggio e collaborazione con potenze straniere, e condannate al carcere. Per Washington non è neanche detto che i quattro si rechino negli Stati Uniti, bensì potranno scegliere il Paese che preferiscono.Tra loro il personaggio più noto è lo scienziato Igor Sutyagin, esperto in armamenti, condannato a 15 anni di prigione con l’accusa di aver rivelato alla Cia importanti segreti sulle armi nucleari russe. Da Mosca, l’avvocatessa dello scienziato che Sutyagin avrebbe già raggiunto Vienna, ha riferito che il suo difeso si è dovuto dichiarare colpevole nonostante sia innocente: «Lo ha fatto per la moglie e i bambini». Sutyagin fu arrestato nel ’99 e condannato nel 2004 a 15 anni di carcere, da passare in Siberia.Anceh il portavoce del Dipartimento di Stato Usa Mark Toner ha di nuovo negato che Sutyagin fosse stato una spia. Nato il 17 gennaio 1965 a Obnuinsk vicino Mosca, Sutyagin, sposato con due figlie, dal 1989 ha lavorato nell’Istituto russo per e relazioni con Stati Uniti e Canada, dove dal 1998 è diventato responsabile della sottodivisione per le politiche tecnico-militari ed economico-militari. Essendo comunque un ricercatore civile non aveva accesso a file segreti. Ciononostante nell’ottobre 1999 l’FSB, erede del KGB, con l’accusa di spionaggio, e in particolare di aver passato informazioni segrete sui sottomarini nucleari a un’associazione basata a Londra. Cosa che lui non negò, dicendo però che si trattava so-

M

La porta di Brandeburgo, dove avvenne uno degli ultimi scambi di spie fra Mosca e Washington. A destra Igor Sutyagin, uno degli agenti americani in Russia.Nella pagina a fianco, i presidenti Obama e Medvedev firmano l’accordo Start. Sotto, Orson Welles nel film “Il Terzo Uomo” bio che quello dell’Fbi sia stato davvero un successo. Secondo alcune indiscrezioni trapelate dalla sede della Agenzia, si starebbe creando un clima di malcontento diffuso per quanto accaduto.

Motivazione: l’Fbi sarebbe stato forzato dalla classe dirigente politica a chiudere frettolosamente un file di valore sulle attività di intelligence di Mosca. Quest’ultima ora saprà come ricalibrare i propri agenti in missione. Mentre i re-

Gli “inviati speciali” non si concentrano più solo sulle armi. Il loro campo d’azione tocca spesso anche finanza e politica

sponsabili della sicurezza a Washington si domandano quanto ci vorrà affinché venga scoperta una nuova pista. I termini geopolitici le ripercussioni rischiano di essere pesanti per entrambi in Governi. Non si potrà più parlare di rapporti idilliaci fra Medvedev e Obama. Sembra che lo scambio di ieri – così celere e senza un vademecum della magistratura Usa – sia stato voluto espressamente dalla Casa Bianca, affinché la frattura con il Cremlino possa rimarginarsi il più in fretta possibile. Ma questa speranza di Washington è già stata disillusa dagli oppositori di Obama. Martedì il Governatore dello Stato del Massachusetts, Mitt Romney, possibile candidato repubblicano alle presidenziali del 2012, ha fatto appello al Senato Usa affinché si rifiuti di ratificare il nuovo trattato sul disarmo nucleare.

«Lo Start è il più grave errore della politica estera di Obama», ha dichiarato. C’è allora il pericolo che fra le due superpotenze cali di nuovo una cortina di ferro? I presupposti per uno scenario simile non sussistono. Se la Russia e gli Stati Uniti tornassero ai rapporti di freddezza degli anni Settanta, tutti gli altri attori del sistema internazionale – dalla Cina all’India, ma forse anche il Brasile e l’Europa – non rimarrebbero testimoni passivi. Come avvenne allora. Anzi, cercherebbero di approfittarne per accrescere le loro rispettive forze a discapito sia di Mosca sia di Washington.

lo di articoli basati su fonti del tutto pubbliche. Condannato nel 2004, nel dicembre 2005 fu trasferito in una colonia penale vicino Arkhangelsk. Il suo caso è osservato da Human Rights Watch e Amnesty International come quello di un detenuto politico. Alexander Zaporozhsky è stato un colonnello del SVR, il servizio d’intelligence russo per l’estero. È stato accusato di spionaggio nel 2003 e condannato a 18 anni di detenzione. In quell’epoca i media russi inseguirono la voce che Zaporozhsky potesse essere dietro la clamorosa scoperta di un’altra rete di agenti russi negli Stati Uniti, il caso eclatante dell’ex-agente dell’FBI Robert Hanssen e dell’ex funzionario della CIA Aldrich Ames. Nel 1997 Zaporozhsky andò in pensione e scelse di ritirarsi negli Stati Uniti, ma secondo i russi passò a Washington informazioni riservate sugli agenti che agivano sotto copertura negli Stati Uniti e sulle fonti americani che passavano notizie all’intelligence russa, e così fu arrestato dopo il suo ritorno in Russia dopo il 2001. Sergei Skripal è un colonnello dell’Esercito che ha lavorato nell’intelligence militare, ed è stato arrestato nel 2004 e condannato a 13 anni di prigione nel 2006 con l’accusa di aver passato segreti di stato ai britannici, in particolare, secondo le indiscrezioni, di aver reso noto il nome di molte decine di agenti russi attivi in Europa e specialmente nell’MI6. Sebbene i suoi compiti nell’intelligence militare non siano mai stati chiariti, e si dicesse che collaborava con l’FSB, Skripal secondo le accuse sarebbe entrato in contatto con gli inglesi fin dalla fine degli anni novanta, quando era ancora nelle forze di terra: secondo i russi avrebbe tradito per denaro. Gennady Vasilenko invece è un ex maggiore del KGB che poi si è occupato della sicurezza della televisione russa NTV. Arrestato nel 2005, nel 2006 è stato condannato a tre anni di prigione formalmente per possesso illegale di armi e resistenza alle autorità. Non è chiaro il motivo del suo coinvolgimento nello scambio, perché non sarebbe mai diventato un vero agente, ma al massimo avrebbe fornito pettegolezzi dagli uffici.


società

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Sfide. Quella tra Olanda e Spagna è anche la metafora di due Paesi che faranno il possibile per battere la crisi e assicurarsi un futuro

Arancia meccanica o Furie rosse? Istruzioni per capire chi vincerà la finale dei Mondiali in Sudafrica di Paola Binetti segue dalla prima

Fare previsioni non è però uno sport inutile, perché obbliga a fare i conti con la propria capacità di individuare i descrittori giusti, dando valore a quegli indicatori che comunque sono già contenuti nella storia e nella cronaca di queste ultime settimane e che ci appariranno chiarissimi a risultato ottenuto. Allora si può provare a scegliere degli indicatori e poi fare delle previsioni.

Primo parametro: risultati complessivi ottenuti nelle diverse prove di selezione. L’Uruguay viene da un girone a forte impatto emotivo, proprio per la presenza dei padroni di casa che ha sconfitto pesantemente. E dopo aver battuto il Sudafrica ha infranto anche le speranze del Ghana nei quarti di finale. Alla Celeste il ruolo di liquidatore del continente africano prima di essere battuta dall’Olanda in semifinale. In definitiva quattro vittorie, un pareggio e una sconfitta. La Germania dal canto suo ha sconfitto negli ottavi e nei quarti Inghilterra e Argentina giocando in modo superbo e segnando ogni volta 4 goal, per cui la sconfitta con la Spagna è arrivata davvero inattesa. Ha totalizzato quattro vittorie e due sconfitte. Analogo l’iter seguito dalla Spagna, sconfitta dalla Svizzera, sconfigge Honduras e Cile nel primo girone e poi batte il Portogallo negli ottavi e nei quarti il Paraguay. Il suo capolavoro resta però la sconfitta della Germania nelle semifinali. Quest’ultima vittoria ha rilanciato il suo orgoglio atavico, la stampa spagnola ha inneggiato a questa vittoria come se si trattasse del ritorno dell’Armada invencible... Cinque vittorie e una sola sconfitta: niente male per una squadra mai arrivata in finale a un Mondiale. L’Olanda però è l’unica squadra di questo campionato ad aver vinto tutte le partite: sei partite, sei vittorie nette e indiscusse. Il secondo parametro è la tenuta alla fatica di una squadra come frutto del suo allenamento; la fluidità delle comunicazioni interne nella squadra; l’agilità nelle diverse azioni di gioco, come segno di una co-

stante e continua interazione in campo. Ma anche l’umiltà di chi crede che il gioco di squadra vada costruito in una quotidianità senza smalto e riflettori. La competenza di allenatori forse meno mediatici ma certamente tecnicamente più preparati e più motivanti. L’Olanda spicca sul campo per l’agilità con cui si muove senza agitarsi; e senza impigrirsi in un attendismo sterile. I giocatori sanno coordinarsi nel gioco di squadra senza rinunciare allo spirito di iniziativa individuale. La Germania ha mostrato qualità diverse e forse proprio questo è mancato alla squadra

mercoledì sera, costretta a inseguire gli spagnoli nelle loro iniziative, senza ribaltare una dinamica che li ha costretti a un gioco in difesa. La Spagna dal canto suo ha mantenuto un controllo della situazione in chiave creativa, più individuale e meno prevedibile. Alla potenza dei tedeschi ha risposto con leggerezza latina, alla forza tesa e compatta della Germania ha contrapposto un dominio del campo spumeggiante, che ha obbligato i tedeschi a correre dietro di loro per contenerne la tendenza ubiquitaria. Sembravano tutti degli attaccanti. E non mi riferisco solo a Villa, capocannoniere di questo mondiale, o a Puyol, il capitano della squadra che ha segnato il goal della vittoria. Penso a quei passi di danza che la Spagna di Xavi e Iniesta ha mostrato in tutto il primo tempo, scivolando tra le gambe dell’avversario, che appariva più legnoso e meno duttile, giocando con eleganza, come fa il gatto con il topo, nell’attesa della mossa decisiva, quella che ha dato vita al goal della vittoria. E di questo domani dovrà tener conto l’Olanda: la Spagna non opporrà i duri catenacci di una difesa inespugnabile, né la foga di una corsa di resistenza capace di sfiancare gli avversari. Gio-

cherà nel senso letterale del termine, con la leggerezza delle sue danze popolari, l’armonia di una sinfonia che scorre veloce senza fratture di senso e perdite di ritmo.

Un terzo parametro è come sempre il giusto mix tra aggressività degli attaccanti misurata dai goal fatti, e prontezza dei riflessi dei portieri misurata dai goal subiti. Non c’è dubbio che mercoledì la Spagna abbia messo a dura prova il portiere tedesco. E come ha ben dimostrato proprio Puyol non è solo questione di gambe, c’entra soprattutto la testa. 13 i goal segnati dall’Uruguay, 7 i goal subiti. Anche la Germania ha segnato 13 goal ma ne ha subiti solo 3. La Spagna dal canto suo ha segnato 7 goal e ne ha subiti 2. L’Olanda infine ne ha segnati 12 e ne ha subiti 4. Anche in questo caso appare evidente come la difesa dell’Uruguay sia più debole e permetta

dei Mondiali. Se la Germania avesse vinto questo torneo, l’Italia avrebbe perso anche il suo secondo posto nella classifica generale dei Mondiali, per cui c’è qualcuno che si rallegra che almeno questo pezzetto d’orgoglio resti agli azzurri... D’altra parte anche la memoria che l’Olanda conserva delle sue sfide con la Germania non è delle più felici, basta pensare a quanto accade nel ’90 a Roma, dove gli Orange erano campioni d’Europa, ma furono eliminati già agli ottavi dalla Germania. L’Olanda invece ha più volte sfiorato la soglia del piazzamento finale, nel ’74 contro la Germania e nel ’78 contro l’Argentina, ai tempi in cui Cruijff era davvero l’emblema del calcio globale. Un gioco a tutto campo in cui a ogni giocatore si chiedeva di farsi carico della partita nella sua globalità, superando gli steccati di un ruolo rigido e ingessato. Un modo di giocare che generò campioni come Gullit, van Basten Frank Rijkaard, il famoso trio olandese di un Milan glorioso. La Spagna invece con le sue Furie

Il calcio di domani può regalarci un momento di speranza per affrontare il domani. A entrambe le squadre l’augurio forte che vinca il migliore agli avversari di insinuarsi fin troppo facilmente tra le sue maglie, mentre la Spagna mostra uno stile di attaccanti più attratto dal bel gioco, dal palleggio elegante, che non dalla determinazione di andare in rete. Se si tiene conto che dei 7 goal spagnoli 5 li ha segnati Villa, si vede come tutto il suo gioco giri intorno a pochissimi elementi chiave che l’Olanda deve tenere rigorosamente sott’occhio.

Un quarto indicatore potrebbe scaturire dalla storia stessa dei Mondiali e dai suoi vincitori. A oggi è il Brasile la nazionale che ha vinto il trofeo per il maggior numero di volte: 5; seguito dall’Italia con 4 vittorie, e dalla Germania con 3; mentre Argentina e Uruguay ne hanno collezionato 2, e la Francia e l’Inghilterra 1 sola. Da questo punto di vista Olanda e Spagna sono entrambe alla ricerca di quella vittoria che permetterà loro di entrare nell’albo d’oro

Rosse non è mai andata oltre i quarti di finale nei 13 mondiali a cui ha preso parte e nel gioco con la Germania deve aver pesato anche la pessima figura fatta durante i mondiali dell’82, quando la Germania schiacciò i padroni di casa in mondovisione. Olanda e Spagna possono farcela per ragioni diverse. Speriamo che ci regalino davvero una partita bella, perché ben giocata anche sotto il profilo della correttezza e del rispetto reciproco. In mondovisione ci saranno persone che attraverso il loro gioco vorranno credere che si vince ancora per merito e che non si perde di vista che si

tratta pur sempre di un gioco. Non cambieranno le sorti del mondo per questa partita, anche se gran parte del mondo si fermerà per vederla. Non si risolverà la crisi che appesantisce la maggior parte del mondo, ma sembrerà possibile (almeno per un po’!) accantonare il cupo pessimismo che alcuni recenti episodi della vita politica ci hanno trasmesso nella singolare visione di un Parlamento come il nostro assediato all’interno da una rissa tra alcuni parlamentari della maggioranza e altri dell’opposizione, e all’esterno impegnato in piazza Montecitorio in un difficilissimo dialogo con il mondo della disabilità, sceso in piazza a chiedere giustizia prima ancora che solidarietà, e dall’altra parte, in piazza del Parlamento occupato dalle vittime del terremoto dell’Aquila, venute a chiedere una solidarietà operativa e non parole in libertà.

Il calcio di domani potrebbe regalarci un momento di speranza per affrontare la prossima settimana, che si profila tutt’altro che facile per tutti gli italiani, a cominciare dalla morsa del caldo. Sono cose che in modo simbolico chiediamo anche a questi Mondiali, che hanno fatto del calcio la metafora della vita di un Paese. Vecchie esperienze e nuove prospettive possono definire un momento di crisi o un’eventualità per uscirne alla grande. La Spagna politica, economica, sociale di oggi è in una condizione di crisi pesante, a cui non sono estranee molte scelte francamente discutibili e contraddittorie rispetto alla sua identità, ma qualcosa di analogo, anche se in modo meno vistoso sta accadendo anche all’Olanda. Oggi offrono entrambi l’immagine di Paesi in cui nella popolazione si percepisce un disorientamento che crea disagi e spaccature. E forse entrambi a modo loro hanno bisogno di vincere per ritrovare un po’ di quell’antica sicurezza che li ha portati in giro per il mondo come ambasciatori della civiltà europea quando ancora l’idea di Europa stentava a essere riconoscibile. A entrambi l’augurio forte e convinto perché vinca il migliore...


mobydick

INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

di Filippo Maria Battaglia no su due potrebbe sembrare un caso, due su cinque una combinazione. Ma nove su dodici, no: indica senz’altro qualcosa di più significativo ed è una proporzione che forse invita a qualche riflessione. Prendiamo la dozzina di romanzi selezionati per il premio Strega, dai quali lo scorso giugno è stata scelta la cinquina che ha visto vincere qualche giorno fa al Ninfeo di Villa Giulia a Roma Antonio Pennacchi con Canale Mussolini. Ebbene, se si escludono Hanno tutti ragione di Paolo Sorrentino (Feltrinelli) e Bambini nel bosco di Beatrice Masini (Fanucci), tutti, ma proprio tutti, ruotano attorno al tema della famiglia. Non vi dedicano uno scorcio, una descrizione corriva, un accenno smozzicato: padre, madre, figli (e, a volte, affini) sono l’elemento centrale della narrazione, un perno irrinunciabile e molto spesso ultimativo. Non importa se la storia sia ambientata nei grigi casermoni di via Stalingrado a Piombino, in una Milano ricca e annoiata o in una Torino illuminata dai riflessi della Mole Antonelliana. Perché stavolta il contesto storico può anche apparire un ingrediente rilevante (come nel caso di Lorenzo Pavolini e del suo Accanto alla tigre, pubblicato da Fandango), eppure la triangolazione - o il duetto - della narrazione si svolge sempre dentro le mura di casa o lungo il filo della memoria che fa da trait d’union tra una o più generazioni. In Tutta mio padre, pubblicato da Bompiani e ingiustamente escluso dalla cinquina dello Strega, Rosa Matteucci racconta «la storia di una famiglia felice come tante e di una famiglia come una sola, l’unica famiglia che conosca: la mia». La scrittrice nata a Orvieto, certamente la più talentuosa narratrice italiana della sua generazione, aveva già affrontato il tema, spinoso, della figliazione in Cuore di mamma, ma stavolta il crinale è ancora più scosceso, complesso e autobiografico.

U

INTERNI DI FAMIGLIA La nouvelle vague della narrativa italiana

Il suo modello tradizionale sarà forse naufragato, ma certo è che nove dei dodici romanzi candidati alla cinquina dello Strega (vinto nei giorni scorsi da Pennacchi) ruotano intorno a temi legati alla più antica comunità del mondo...

Parola chiave Babele di Maurizio Ciampa Kate Nash atto secondo di Stefano Bianchi

NELLA PAGINA DI POESIA

La “guida in versi” di Rocco Scotellaro di Francesco Napoli

Ronis in marcia verso l’armonia di Diego Mormorio

Ironie pacifiste su Osama bin Laden di Pietro Salvatori

Terra e incantesimi, due scultori a Pienza di Leone Piccioni


interni di

pagina 12 • 10 luglio 2010

La «storia vera di blasone nobiliare, uno scudo con nove palle e una corona» finisce così col trasformarsi in un destino se non comune, di certo condivisibile. E nonostante lo stile si faccia alle volte beffardo, apparendo spesso irriguardoso nei confronti del capofamiglia (che poi tanto capofamiglia, in fin dei conti non è), il romanzo della Matteucci pagina dopo pagina si traduce in un laico e appassionato Te Deum alla figura paterna. Un approccio decisamente diverso da quello di Matteo Nucci in Sono comuni le cose degli amici, edito da Ponte alle Grazie. La vicenda è quella di Lorenzo, di suo padre Leonardo e di un’elaborazione di un lutto più complessa e sofferta del previsto; i toni, stavolta, virano però nell’esistenziale e frenano una narrazione che a tratti può sembrare prigioniera di una descrizione troppo lirica.

Se la perfezione nasconde la tragedia di Pier Mario Fasanotti l titolo originale è Un homme tragique. Quello proposto dall’editore Jacobelli è Una famiglia perfetta. In questo aggettivo c’è un carico insopportabile di dolore e di ironia: la «perfezione», inseguita come paravento esistenziale, diventa «tragedia»: per se stessi e per i familiari. L’uomo in questione è il padre dell’autrice, Silvia Ricci Lempen, romana di nascita, ma ormai svizzera di adozione e narratrice in lingua francese. Il suo è uno dei tanti testi importanti, e a volte dimenticati, del Novecento che l’editore laziale recupera e ripropone al pubblico, in quanto chiavi di lettura di una certa realtà sociale e familiare. Un romanzo dalle marcate e sincere tinte autobiografiche, che tuttavia si eleva dalla singolarità quotidiana per diventare arazzo rappresentante epoche che si succedono, a partire dalla prima guerra mondiale fino al disordinato ed esaltante periodo della contestazione giovanile. L’autrice ripercorre le tappe, tutte dolorose, della sua esistenza (e non solo la sua) per approdare a quel che c’è di meglio nelle battaglie femministe: il recupero del sé, la libertà come gioia responsabile, il coraggio sereno dell’autonomia. L’homme tragique è una persona che ha una tale ossessione della razionalità da arrivare a essere dittatore con se stesso e con i familiari. I guasti causati nella psiche dei figli sono inimmaginabili. Silvia Ricci Lempen cammina a ritroso nella storia e ricorda la figura del nonno materno, costretto a indossare la divisa fascista e ad assistere a tutte le barbarie inflitte sugli individui, colpevoli proprio perché individui. Famiglia e nazione procedono a braccetto: il declino fisico del padre coincide con quello dell’Italia, un paese che danza sulla deriva, «giullare grottesco dell’Europa».

I

Non soffre di simili problemi Un anno fa domani di Sebastiano Mondadori, un romanzo in cui - come ha scritto Cesare Segre - «chiacchiere da bar e immortalità dell’anima sono accostate con noncuranza (ed eleganza)». Al centro della storia, Vittorio, dietologo milanese di origini pugliesi che fa la spola tra Milano e Roma fino a quando deve vedersela con la morte tragica della moglie. Di lì in avanti, è un tourbillon di sensi di colpa e di trilli di telefoni inopportuni, di lacerazioni e di battute sconvenienti, di considerazioni sull’aldilà e di Negroni scolati al bar, in un frullato narrativo imprevedibile, dominato dall’ossessione di affrontare un tema delicato come la vedovanza nel solito cliché affogato di retorica. la figlia «dal balcone, dopo pranzo, quando Il rapporto padre-figlia può non era di turno alla Lucchini» e che la seavere mille declinazioni, scigue e la studia «attraverso le lenti del binovolare nell’imbarazzo o, colo da pesca», mentre la moglie, a trentapeggio, nell’indicibile. La tré anni, pensa alle sue coetanee in disconarrativa contemporanea teca e nel frattempo la sua bellezza di rase ne fa carico, come peralgazza meridionale finisce «in mezzo ai detro era già capitato in pastersivi» è un’immagine che non richiede sato, ma stavolta in modo commenti, note o chiuse convincenti. più garbato e scarno dei Convince invece decisamente meno Prenpiù recenti tentativi. Succede in Non ti voglio viciditi cura di me di Francesco Recami, che no di Barbara Garlaschelli, partiva da un’idea e una storia convincenti: il rapporto pubblicato da Frassinelli e tra una madre vecchia, malaambientato nel secondo dota e sospettosa e un figlio poguerra, e succede con ininerte, frustrato e aggrappato sospettabile delicatezza nel all’ultimo, miserabile scopo della romanzo dell’esordiente sua vita: agguantare il gruzzoletSilvia Avallone, Acciaio, to materno nella vana speranza su cui la Rizzoli ha puntadi svoltare. Il carico delle aspetto molto. In questo caso, tative del lettore si infrange prele novità sono due: la sto in una tenuta fragile dell’im(giovanissima) età della pianto narrativo, soccorsa però autrice e la maturità inda qualche scorcio introspettivo trospettiva che dimodi rara efficacia. Efficacia narratistra nell’affrontare teva che trova una sua conferma mi così insidiosi, speanche in Canale Mussolini (Moncie se la si paragona a gran parte della dadori) di Antonio Pennacchi, al narrativa contemponetto del fortissimo impianto ideologico della ranea, incapace storia che la innerva. La saga dei Peruzzi e quasi sempre di sudella bonifica dell’Agro pontino sembra Antonio perare una visione storicizzare una comunità e, insieme a esPennacchi ombelicale e autosa, un fittissimo legame di rapporti che, e la copertina referenziale dei se rapportato con gli altri romanzi pubdel suo libro, propri problemi. blicati in questi mesi, fa risaltare un paravincitore Il padre che spia del Premio Strega gone stridente e discorde sia nei toni che nelle reanno III - numero 27 - pagina II

famiglia

Un episodio, apparentemente marginale, illumina il carattere del padre che da vittima della storia (tornò dalla campagna d’Albania coi nervi e il fisico a pezzi) diventa carnefice. Un giorno scompare il cane. Dopo attese e affanni, un contadino lo riporta a casa. E lui non ha alcuna reazione. È come se avessero per sbaglio suonato alla porta. Assenza di emozioni, o meglio paura di farle affiorare, di sondarle, di convivere con esse. Il risultato è la dittatura di stampo niciano sui familiari. Non a caso l’autrice cita spesso il filosofo nichilista: «In realtà, amici miei, io mi aggiro in mezzo agli uomini, come in mezzo a frammenti e membra degli uomini! E questo è spaventoso ai miei occhi: trovare l’uomo in frantumi e sparpagliato come su un campo di battaglia e di macello». Ma il padre di Silvia pare non accorgersi di camminare su un’umanità in frantumi, semmai vuole ricomporre in ogni istante i brandelli di un massacro per far ordine in un casellario che è soltanto immaginario - quindi dispotico - e imposto dalla paura di deragliare, di sbandare, di saggiare altri percorsi. Ovviamente il Sessantotto è, per lui, in primis sbandamento, ceffone criminale al volto dell’ordine costituito. L’autrice si confronta con Nietzsche negli anni universitari, contraddice il docente, si sofferma su un passo di Volontà di potenza, laddove si afferma che è normale che l’uomo, di tutti gli animali, sia il solo a saper ridere, perché è il solo che soffre abbastanza da aver dovuto inventare l’allegria.

lazioni. Ma qual è il risultato di questo ritratto di un interno familiare abbozzato dalla più recente narrativa contemporanea? Di conclusioni unanimi e condivise, non vi è neppure l’ombra. È comunque evidente, come ha ricordato su queste colonne qualche tempo lo stesso Sergio Belardinelli (in «Parola chiave», Mobydick del 12 giugno, ndr), che il modello tradizionale sembra ormai naufragato. Così come appare indubitabile che l’oleografia della famiglia del dopoguerra abbia mostrato i suoi limiti e la sua precarietà. Eppure, dietro le tante venature - alcune delle quali messe pietosamente in mostra dalle ultime opere dei narratori contemporanei - l’impianto centrale della più antica comunità del mondo sembra restare inattaccabile e solo parzialmente contestato.

È un risultato paradossale, ma che trova conferma anche nella narrativa. Così, nella Casa di Angela Bubba, un’altra giovanissima esordiente che col romanzo pubblicato da Elliot è stata una dei dodici scrittori in lizza per entrare nella cinquina del premio Strega. Nel racconto delle alterne vicende di una famiglia calabrese è il linguaggio a diventare definitorio e a ridefinire tutto, daccapo, quasi fosse in rivolta con tutto ciò che lo circonda e lo circoscrive. Eppure, al netto delle sinestesie e dei giochi retorici, La casa resta sempre lì, con le sue complicità e con i suoi rancori, anche quando diventa «tenda d’Oriente». Insieme alla famiglia calabrese che ne anima la storia e a una comunità che, al di là del grimaldello postmoderno, può essere criticata ma non abbattuta.


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parola chiave

rocede veloce il narratore del Libro della Genesi: la sua misura del tempo non è la nostra. Procede veloce e in un’incalzante successione di vertigini. Soltanto sette capitoli separano l’incipit della creazione («In principio Dio creò il cielo e la terra») dal rovinoso manifestarsi della distruzione («Sterminerò dalla terra l’uomo che ho creato»). Come se la creazione si ripiegasse su se stessa. Come se il suo spazio si dissolvesse in quell’apocalisse liquida che è il diluvio. E questo accade in sette brevi capitoli, soltanto poche pagine, certamente fitte, della Bibbia. In quell’arco tutto muta, mutano le parole e i gesti. La soddisfazione del sesto giorno che scivola nella benedizione del settimo precipita poi nel colpo d’occhio dolente sul paesaggio di corruzione offerto dall’umanità intera. Non qualche suo sporadico rappresentante, ma «ogni uomo» e, appresso a lui , per contaminazione, ogni vivente: «sono pentito d’averli fatti!», dice il Signore, prima appagato tanto da concedersi il riposo, ora pentito. E addolorato. Pentito e addolorato a tal punto da volersi correggere. E lo farà. Non manca di sintesi il nostro narratore, il suo sguardo abbraccia il mondo, la sua origine, la sua controversa evoluzione. In quei sette brevi capitoli stipa l’inizio e la fine, la creazione e la distruzione, il bene che esalta il creato e il male che lo insidia e lo deturpa. Si capisce ben presto che la storia umana proietta la sua parabola come fossero gli effetti di una caduta. Si capisce, ad esempio, con l’episodio di Caino e Abele, che fra il male e l’uomo c’è una stretta fatale, una mortale intesa. Non solo si frequentano, ma, in definitiva, si piacciono. Dunque nulla di nuovo. Nulla di nuovo se non l’estensione: «la malvagità degli uomini era grande sulla terra… e ogni disegno concepito dal loro cuore non era altro che male». Se il male è l’infezione che ha intaccato l’intera «pianta umana», non c’è altro rimedio se non la chirurgia radicale, l’annientamento di «ogni carne, in cui è alito di vita». Attraverso il dilagare delle acque, il diluvio, Dio cancellerà la sua creazione. Resteranno i nomi dei viventi, precarie colonne dell’essere, ma resteranno come vuoti simulacri.

P

Con il defluire delle acque, la vita tornerà a fermentare, ma anche il male riprenderà la sua strada tornando a incrociare il cammino degli umani. Accadrà a Babele, attorno alla sua mitica torre. Dopo il diluvio, Babele. L’episodio occupa pochissime righe (Genesi 11, 1-9), quasi una parentesi nel mezzo del racconto su come la popolazione della terra si distribuisce dopo il diluvio. Vale la pena rileggere le righe se non altro per capire il lungo percorso fatto nei meandri dell’immaginazione umana, almeno apparentemente, senza grandi variazioni nel tempo. Babele è il luogo della dispersione e della confusione delle lingue, il nuovo scenario della protervia umana e del suo azzardo, dove la molteplicità delle forme non

10 luglio 2010 • pagina 13

BABELE La cultura del ’900 è disseminata di Torri come quella biblica. Gesti di ribellione, protervie intellettuali erose dalla rovina e finite in polvere come in quell’antica vicenda. Dal Libro della Genesi a Ground Zero...

L’azzardo e la misura di Maurizio Ciampa

Victor Hugo, Roger Caillois, Franz Kafka, Jorge Luis Borges e Paul Auster. La parabola della città dove le lingue si confondono e si disperdono dando origine all’incomunicabilità, si è incuneata nella letteratura del secolo scorso. Solo Zumthor ne ha riscattato la radice oscura esplorando il nostro desiderio di essere e dire è più governata. E tale resterà. Da sempre, o da allora, la torre spezzata di Babele è lì per segnalare il limite superato, la misura trasgredita, l’eccesso intrapreso dall’umano, cui fa seguito un nuovo impeto distruttivo nonostante l’impegno che il Signore si era assunto dopo la devastazione del diluvio: «Non maledirò più il suolo a causa dell’uomo… né colpirò più ogni essere vivente come ho fatto». Maledirà invece e nuovamente colpirà, anche se su un’area più circoscritta. «Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Emigrando dall’Oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono.

Si dissero l’un l’altro: “Venite facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco”… Poi dissero:“Venite costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome per non disperderci su tutta la terra”. Ma il signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: “Ecco essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro”. Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si

chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra». Questa è la Babele tratteggiata nel Libro della Genesi, dopotutto non troppo lontana dall’immagine che si è andata stratificando nel tempo fino a oggi. Quando nell’immediato dopoguerra (1946), Roger Caillois, uno degli esponenti di spicco del movimento surrealista da cui poi si distaccò, mette mano al suo Babele, è poi questo che immediatamente estrae dal coacervo delle immagini accumulate: l’azzardo, la sfida, il progetto al limite del pensabile. Insomma l’assalto al cielo, il gesto di ribellione che sovverte le regole della geometria e le leggi della fisica. E perché mai un surrealista si prende tanto a cuore le articolazioni della razionalità costruttiva? Forse Roger Caillois non è più un surrealista! La guerra (Caillois si era impegnato nella liberazione della Francia dall’oppressione nazista) ha mutato le prospettive. Quante torri sono crollate! Quanti umani progetti hanno rivelato il loro cuore vuoto! L’Europa è un ammasso di rovine. Si tratta allora di guardare diversamente alle tante torri di Babele disseminate nella cultura del Novecento, ai gesti di ribellione, agli azzardi intellettuali erosi dalla rovina e finiti in polvere come quell’antica torre. L’intelligenza delle cose che si è andata temprando in quel drammatico passaggio storico è chiamata a una profonda revisione. L’azzardo ora è questo. Ora l’azzardo è la misura. Babele di Caillois segna questo nuovo corso denunciando lo smarrimento dell’intellettuale nella confusione di lingue che si sono andate disgregando e svuotando.

«Questo libro è il resto spaventoso di Babele, è la lugubre Torre delle cose, l’edificio del bene, del male, delle lacrime… È l’epopea umana, aspra, immensa, crollata», dice Victor Hugo nella Legende des siècles alla metà dell’Ottocento. E nel primo ventennio del secolo Franz Kafka, che a lungo si è andato accompagnando all’immagine della Torre, quasi fosse un’ombra, un suo personale fantasma, Franz Kafka parla della «fossa di Babele». La Torre non c’è più e non ci sono più neppure le sue rovine, ma c’è il segno tangibile del fallimento, il punto circoscritto del crollo ormai avvenuto, un immane Ground Zero che va a occupare tutto lo spazio del secolo. Termina qui la parabola di Babele? Essa s’incunea nella letteratura del Novecento, ne invade l’immaginazione e procede anche oltre, tra Borges e l’americano Paul Auster. Forse c’è una sola straordinaria eccezione, quella della Babele di Paul Zumthor, grande studioso di letteratura medievale, che a Babele ha dedicato la sua intera vita (il libro è uscito, postumo, nel 1997 e tradotto in italiano da Il Mulino). Perché eccezione? Perché Zumthor riscatta le tenebre di Babele, la sua radice oscura, che diventa piuttosto esplorazione dell’incompletezza e della frammentarietà, la parte viva del nostro desiderio d’essere e di dire.


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Pop

pagina 14 • 10 luglio 2010

ne’s A Victim, mentre la Fiction Records dà alle stampe Foundations che raggiunge il secondo posto della Top Ten inglese. Confusa e felice, la ragazza è finalmente pronta con l’album, Made Of Bricks:

di Stefano Bianchi fodera una voce rabbiosamente timida (o timidamente rabbiosa?) come quelle di Sinéad O’Connor e Dolores O’Riordan. Talvolta, ascoltando i suoi pezzi, verrebbe da dirle vola più basso, non strafare. Ma lei è fatta così: timida e rabbiosa come My Best Friend Is You, il suo secondo disco. Londinese, ventitre anni, incapace d’accettare consigli come gran parte delle novelle (e un tantino spocchiose) cantautrici, Kate Nash è capitata nella musica più o meno per caso. D’accordo, da piccola prende sporadiche lezioni di pianoforte ma la sua ambizione è recitare. Tant’è che da teenager si presenta all’Old Vic Theatre School di Bristol per un’audizione, ma floppa. Smaltita la delusione, il destino le fa lo sgambetto facendola cadere dalle scale. Il piede, fratturato, la costringe all’immobilità ma non alla noia, esorcizzata dalla chitarra elettrica che mamma le regala. Kate strimpella, abbozza canzoni e una volta guarita decide di proporle ai frequentatori di un pub. Debutto incoraggiante, dopodiché il mini repertorio va in rete, su MySpace, apprezzato e cliccato dalla community. Nel 2007, tra febbraio e giugno, l’etichetta indipendente Moshi Moshi le pubblica in mille copie e solo su vinile il singolo Caroli-

S

musica

basso, sintetizzatore) ed Elliott Andrews (batteria), la Nash alle prese con pianoforte e chitarra passa con scioltezza dal disimpegno all’impegno. Se Paris è svolazzante e impaziente, I Just Love You More è rumorista e lunaticamente rock come certe cose di PJ Harvey. Se Kiss That Grrrl è danzerina come le canzoni da

Con rabbia e timidezza: Kate Nash atto secondo

Jazz

primo in Gran Bretagna, ottavo in Irlanda, trentaseiesimo in America. E un brano del disco, Merry Happy, non solo fa da colonna sonora a un episodio tivù di Grey’s Anatomy ma trova spazio nella fiction italiana Amiche mie. La consacrazione, infine, arriva a febbraio 2008: nel giro di un paio di settimane Kate Nash si porta a casa un Brit Award come miglior artista femminile e un Nme Shock Award come miglior solista. Date le incoraggianti premesse, ci voleva un nuovo album che «spaccasse», come si suol dire. Kate, allora, ha scelto di farsi produrre My Best Friend Is You da Bernard Butler (ex chitarrista degli Suede) e ha sviluppato brani eclettici, qua e là sperimentali, che imboccano rabbiosamente e timidamente parecchie direzioni. Accompagnata da Brett Alaimo (chitarra), Jay Malholtra (chitarra,

festa scolastica anni Cinquanta ed Early Christmas Present ha il guizzo di un’ariosa filastrocca, I’ve Got A Secret svela un’identità mistica e psichedelica. E via così, fra trascinanti sfumature folk (Don’t You Want To Share The Guilt?) e parole incazzate che dialogano col ritmo tribale (Mansion Song); spensieratezze anni Sessanta che fanno rima con un’altra cantautrice, Duffy (Do-Wah-Doo) e l’apparentemente folk (perché punk nella sostanza) di Take Me To A Higher Plane. Posso permettermi, talentuosa Kate, un consiglio? Dai un seguito, in futuro, alle veraci emozioni di Later On; all’intimismo di Pickpocket che ti fa somigliare come una goccia d’acqua a Suzanne Vega; alla disarmante dolcezza per voce e chitarra acustica di You Were So Far Away. La rabbia, se puoi, lasciala perdere. Nel tuo caso, suona un po’ stonata. Fai vincere la timidezza, piuttosto. Ne varrà la pena.

Kate Nash, My Best Friend Is You, Polydor, 15,90 euro

zapping

La fenomenologia DI GEMMADELSUD di Bruno Giurato

ei per la condivisione del sapere? Sei per l’abbattimento delle gerarchie? Sei contro le mediazioni che impongono scelte una volta almeno egemoniche ora sordidamente mercantili, e invece hai un climax etico quando pensi alla libertà peer to peer e alla Rete, luogo della Libertà? Allora beccati Gemmadelsud, l’idolo di youTube. Fai una ricerca, troverai i suoi video dove canta le canzoni di Anna Tatangelo, Lady Gaga, ma c’è anche una preziosa versione di Unni mi chiovi mi sciddica. Ogni video di Gemmadelsud scatena fiumi di commenti, anzi a essere precisi di insulti che post-modernamente potrebbero valere come elogi. Perché la nostra Gemma è davvero fuori dal comune. Canta sdraiata sul letto, balla rotolandovisi in modo che qualche angolo della scollatura parta per traiettorie inverosimili, stona come se avesse appena respirato il gas del palloncino più ammoniaca. Gemma si chiama Francesca, è minorenne, ha un fidanzato geloso che le cancella i video postati. Tempo fa su Yahoo answers ha chiesto come incastrarlo con una gravidanza indesiderata. Ma questa sarebbe cronaca, mentre a noialtri interessa la simbolica. Cioè il fatto che il «paese senza» che diceva Arbasino, cioè lo spiccio mix tra pratiche e stili di vita diversi, l’Italia come culla del postmoderno ante litteram, nel postmoderno ricade. Perché tanta gente si prende la briga di guardare Gemmadelsud? Perché alla fine gode della propria superiorità. Un po’ il meccanismo di cui parlava Umberto Eco a proposito di Mike Bongiorno, ma potenziato grazie alla Rete, ai commenti, all’interattività. Immersi nell’euforia del relativo guardiamo l’orrendo. Perché nel fondo petto di ognuno c’è una Gemma che urlacchia.

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Ottanta memorabili minuti con Jo Jones & Co. cco un disco ripubblicato di recente che non ci stancheremo mai di consigliare a tutti, appassionati e musicisti. Sono incisioni che risalgono a oltre cinquant’anni fa, ma che conservano tutta la freschezza e la straordinaria vitalità che possedevano quando le case discografiche Vanguard ed Everest le misero sul mercato a nome del batterista Jo Jones. Originalmente pubblicate in due diversi dischi a 33 giri, ora sono state raggruppate in un unico cd della durata di quasi ottanta minuti. Nelle due occasioni l’illustre batterista Jo Jones - che aveva trascorso la sua vita nell’orchestra di Count Basie - si circondò di alcuni fra i migliori solisti dell’epoca, le trombe Emmett Berry e Harry Edison, i suoi colleghi di sempre, il contrabbassista Walter Page e il chitarrista Freddie Green, ma anche musicisti giovani e di stili più avanzati come il trombonista Benny Green, il pianista Tommy

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di Adriano Mazzoletti Flannagan, il contrabbassista Tommy Potter e il sassofonista tenore Thompson, Lucky grande personalità del jazz la cui influenza su John Coltrane è stata determinante. Il cd dal titolo Jo Jones Special Septet è pubblicato da una nuova etichetta che si presenta sul mercato con il nome di Poll Winners Records. Iniziativa assai lodevole in quanto le incisioni vengono scelte solo sulla base dell’eccellenza desunta dal giudizio che avevano ottenuto al momento della loro uscita. Infatti i due long playing furono recensi-

ti dalla rivista americana Down Beat, con la qualifica di «eccellente». La presenza di Lucky Thompson - il cui stile originale lo ha reso uno dei più interessanti sassofonisti tenori di ogni tempo rende le incisioni inserite nel cd preziose per lo studio di questo musicista la cui difficile vita si è conclusa tragicamente il 30 luglio 2005 in un ospedale di Seattle, nello Stato di Washington, dove era stato ricoverato a causa dell’Alzheimer che lo aveva colpito anni prima, riducendosi alla miseria, vagabondo senza casa

né lavoro. Già nel 1975, però, dopo un periodo felice passato in Europa (Francia, Svizzera, Italia dove aveva partecipato a diverse trasmissioni tv), tornato negli Stati Uniti si era ritirato, a soli cinquant’anni, dall’attività musicale, disgustato dall’atteggiamento che riteneva discriminante nei suoi confronti da parte del mondo del jazz che in quel periodo aveva subito un grande cambiamento. Ma Lucky era uno dei musicisti che più di ogni altro aveva contribuito a modificare lo stile del jazz, collaborando prima con Charlie Parker e Dizzy Gillespie, in seguito con Miles Davis, ed era altamente apprezzato. La depressione che lo colpì in un momento importante della sua carriera musicale, forse era dovuta alla malattia che stava iniziando il suo inesorabile percorso.

Jo Jones Special Septet, Poll Winners Records, Distribuzione Egea


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arti Mostre

i è inaugurata a Pienza la mostra di due artisti locali di grande personalità: Emo Formichi e Piero Sbarluzzi. La mostra resterà aperta tutta l’estate presso la Galleria d’arte «Terrecotte artistiche pientine». Più noto e con risonanza nazionale, con opere distribuite in tante città, chiese, musei anche fuori d’Italia, lo Sbarluzzi. Scultore forte e vigoroso con un piglio plastico che si può far risalire sia nell’antico tempo toscano che in certe opere contemporanee come quelle di Giacomo Manzù. Suoi i grandi pannelli sui lavori agricoli, i suoi nudi, i suoi ritratti in presenza, quando vuole, anche di un sottile sentimento di liricità (si vedano certi ritratti di bambini) e comunque di grande partecipazione umana. Sul terreno della ispirazione religiosa è anche Maestro. Memorabili i suoi «Cavalli e cavalieri» che si incontrano frontalmente, e il suo «Cavallino», che fa come da insegna alla sua mostra permanente nella sua bottega di splendide ceramiche. Graziella Magherini, che presenta la mostra, scrive per Sbarluzzi della sua «pienezza di figure e un’armonia di forme, in stasi e movimento di carettere narrativo di grande impatto visivo ed emotivo». Nel catalogo della mostra, assai bello, edito da Nicomp a cura di Alfiero Petreni e Roberto Vigevani, scrivono di lui tra gli altri Antonio Paolucci, Enzo Carli,Vittorio Sgarbi, Mario Guidotti e altri. Tempo fa anch’io ho scritto dell’opera dello Sbarluzzi dicendo di un suo «percorso raro ed esemplare, con una linea ininterrotta che va dal lavoro artigianale a quello artistico generando linfa che da un lato all’altro si diffonde e si arricchisce generosamente». Secondo Vittorio Sgarbi per questo scultore bisogna fare riferimento alla Toscana: «Troppi, e troppo stretti sono i legami di Sbarluzzi con la sua terra - scrive Sgarbi - culturali e materiali. Sbarluzzi ha concepito il suo mestiere come avrebbe fatto un artista rinascimentale toscano in un senso innanzi tutto

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Moda

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La terra e gli incantesimi, due scultori a Pienza di Leone Piccioni artigianale, facendo pratica fin dalla giovane età nella fornace paterna a Pienza, e poi nella Scuola Sociale di Chiusi allestita da Don Coltellini».Tutt’altra la presenza di Emo Formichi. Da molti anni lavora con umili e consueti oggetti come forchette, coltelli, zappe, vecchi tubi di scappamento, cucchiai, marmitte di vecchie auto e altri materiali ancora, sia di piccola che di grande dimensione. Nessun uso, dunque,

del normale materiale per la scultura. I risultati sono di una sorprendente felicità. Il Formichi quando guarda pare che passi sempre attraverso un incantesimo. Il suo sguardo è penetrante non meno forte dell’immaginazione. E per incantesimo ecco i suoi uccelli, le ballerine, i Pinocchi, i cavalli, le macchine un po’ reali e un po’ inventate fino a una vera e propria descrizione della battaglia partigiana di Monticchiel-

lo. Tutto questo risulta da una sua innata eleganza. Ha scritto di lui molto bene Piero Torriti, ma molti e importanti sono i critici che si sono interessati alla sua opera, tra questi anche Mario Luzi. «Emo Formichi scrive il Torriti - già ottimo artigiano restauratore e creatore di mobili d’epoca giunge da un suo personalissimo modo di fare Arte a un linguaggio e quindi a forme che ti si aprono all’improvviso come un incanto». E si citano sia Calder che Picasso. «Da questi sforzi l’artista sembra torni alle origini della natura che attraverso millenni dominò il Caos primigenio sino a giungere a immagini liriche come il mattino di primavera o il tramonto d’autunno».

Un uomo al passato rivisitato con spudoratezza

a giacca di Marlon Brando nel film Il Selvaggio e, per i più colti, quella di Bruce Chatwin con la tasca dove infilare una moleskine (l’ha fatta Henry Cotton’s), la maglia a righe di Picasso, il Mountain Parka di Robert de Niro nel Cacciatore, i pantaloni militari con lacci, tasche e zip di Tom Hanks in Salvate il soldato Ryan, la felpa di Sylvester Stallone-Rocky. Dal Pitti alle sfilate uomo di Milano, passando per le presentazioni e le vetrine, è tutto un incrocio di ammiccamenti e citazioni cinematografiche che trasformano l’influenza del vintage in novità. Dal giaccone di John Wayne (però in cotone gommato) alla Google Jacket di C.P. Company, riedizione di quella creata per la grandiosa Mille Miglia del 1869, si celebra il ritorno al passato, data l’incertezza del futuro. E mentre da un lato si schierano uomini veri con rudi tenute sportive, rubate ai biker, ai velisti, ai golfisti, rivisitate nei mate-

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Dalla collezione Scervino

di Roselina Salemi riali e nelle forme, rese più glam e pensate per contenere gli indispensabili iPhone e iPad, dall’altro torna il foulard annodato al collo, molto anni Settanta (Gucci, Zegna) , torna la seta stampata, torna il taffettà e sbucano colori, come un acceso turchese (Calvin Klein, Jil Sander), che non si vedevano da un pezzo. Il lato positivo è che quest’uomo disorientato potrà scegliere tra il minimalismo di Prada (blusa con le maniche corte, taglio camice da chirurgo, pantaloni e giacche blu, forte citazione della tuta da operaio con il marsupio che sembra un sacchetto porta attrezzi da agganciare alla cintura) e la svolta «cattiva» di Emporio Armani: pelle tagliata al laser e lavorata a squame, bermuda da portare con i leggins neri - novità per la moda maschile - e catene alla vita. Tra le belle giacche di Ermanno Scervino, da osare a torso nudo, e i pantaloni a vita alta di DSquared2 (l’ispirazione cinematografica è American Gigolo) , i quadrettini Vichy di D&G e le camicie di Etro in georgette, tutto ultraleggero. Il lato negativo è che per vestirsi così ci vuole il fisico, l’età e un’indispensabile spudoratezza, tanto è vero che si comincia già a discutere sul limite anagrafico consentito ai bermuda in città.

La moda deve esorcizzare la noia. Perciò ogni stilista, anche nel classico-vendibile ha messo un pizzico di stranezza. Nelle corte giacche di Giorgio Armani, i bottoni tirano sul petto (servono a mettere in evidenza, si spera, un invidiabile torace ), la cravattina di Ballantyne è incorporata nel colletto e si estrae all’occorrenza, una finta fodera scende dalla gamba dei bermuda di Iceberg (che esagera con l’effetto vissuto, strappicchiato, mangiucchiato: topi?) e i giubbotti di maglia Moncler Gamme hanno il tascone portavivande sulla schiena. Questo, e molto altro, come i sandali francescani (un po’di penitenza ci toccherà), le babbucce di pelle stampata, il doppiopetto che sembra denim ma è cachemire e seta, e i pantaloni genere pigiama a righe (Ferragamo) portati con disinvoltura sotto una giacca formale, aspetta gli uomini alla prova guardaroba dell’estate 2011. Hanno un anno di tempo per prepararsi.

Dalla collezione Armani


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il paginone

Geometrie del cuore: questo sono le fotografie di uno dei più grandi cacciatori di immagini del Novecento a cui Parigi dedica in questi giorni un’importante retrospettiva. L’ordinarietà della vita colta con garbo e partecipazione ma anche con gentile distacco, nell’attimo in cui tutte le cose sembrano trovare un perfetto equilibrio di Diego Mormorio

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uando esco con la mia macchina fotografica non vado alla ricerca del Graal», diceva Willy Ronis. Ma a guardare le sue fotografie risulta chiaro che il Graal è sotto i nostri occhi. È evidente che egli lo ha trovato e ce lo porge con un candore che risulta straordinario nella famosissima fotografia della chiatta. Un’immagine per nulla eclatante. Anzi, di una semplicità disarmante. Si vede l’acqua della Senna scorrere verso la Manica, una chiatta scivolare su di essa e due bambini che, senza pensare alla vastità degli oceani o ai traffici degli uomini, sono soltanto presi dai pensieri che accompagnano il loro gioco. Ecco, il Graal è qui, una coppa in cui è contenuto tutto il mondo e dove ogni cosa sembra andare per conto

proprio, mentre in realtà va verso lo stesso luogo, quello della coppa che lo contiene, dove ognuno - senza sbagliare - sa di essere il centro. Nelle fotografie di Ronis (cui la Monnaie di Parigi dedica una grande mostra, ideata dallo stesso fotografo nelle settimane precedenti la sua morte, avvenuta l’11 settembre 2009) non succede niente di straordinario. La vita si presenta nella sua meravigliosa ordinarietà. Non c’è sangue né morti ammazzati. Tutto è detto con delicatezza, con garbo, con partecipazione e, al tempo stesso, con gentile distacco. Nel suo Sur le fil du hazard, uscito da Contrejour nel 1980 e pubblicato lo stesso anno in Italia da Jaca Book, Ronis diceva: «Le mie fotografie non sono una forma di rivincita contro la morte e non mi intendo di angoscia esi-

La marcia di Ro verso l’armonia

Morto due anni fa, appassionato di musica ma costretto agli studi di giurisprudenza, approdò al mestiere di fotografo nel negozio del padre ritrattista. Ma a 26 anni, nel 1936, gli preferì la strada stenziale. Non so nemmeno dove vado, so solo che cammino incontro - più o meno fortuitamente - a cose o a persone che amo, che mi interessano, mi disturbano o mi aggrediscono».

In realtà, più che verso ciò che lo disturba, Ronis va verso ciò che lo attrae, o più semplicemente lo incuriosisce. Soprattutto, egli è in marcia verso l’armonia. Nel disordine della realtà quotidiana, egli non cerca fatti eclatanti, ma, nel consumarsi del divenire, cerca degli attimi in cui tutte le cose sembrano trovare un perfetto equilibrio. «Trasformare il disordine in armonia, questa è la ricerca costante del cacciatore di anno III - numero 27 - pagina VIII

immagini», diceva Ronis. E aggiungeva: «Una foto significativa è una foto funzionale, nel senso più bello del termine. La funzione di una foto consiste nella sua capacità immediata di sintetizzare la propria intenzione. Il fotografo non passeggia, naturalmente, con la griglia della sezione aurea nel mirino, egli l’applica generalmente per intuito, con l’inevitabile e felice flessione nata dalla sua particolare sensibilità. La bella immagine è una geometria modulata dal cuore». Ed è questa una frase perfettamente rispondente alla celeberrima espressione di Henri Cartier-Bresson di qualche anno prima (1976): «Fotografare è mettere sulla stessa linea di mira la testa, l’occhio, il cuore». Riprendere fotografie, nell’accezione di Ronis, come del suo amico Cartier-Bresson, è essere consapevolmente dentro il divenire, oltrepassandolo. Per-

ché, per dirla ancora con le parole di Cartier-Bresson: «La fotografia è l’impulso spontaneo di un’attenzione visiva perpetua che capta l’istante e l’eternità». Per i fotografi come Willy Ronis, fotografare è cercare nell’attimo tutto il tempo passato e l’infinità del futuro; è vedere l’universo intero rispecchiarsi in una pozzanghera o negli occhi di un essere qualunque. E tutto ciò senza voler essere filosofi, con disarmante naturalezza. Questa, infatti, è l’arma dei grandi fotografi. In ogni punto del mondo, essi sentono di essere al centro, al principio e affacciati sull’interminabile. La fotografia vissuta con la loro intensità va oltre ogni limite, così come ogni arte. È, insieme, sperimentazione della finitezza e.dell’infinità. È un salto nella pozzanghera, appunto, un volo. Qualcosa che il grande pubblico deve ancora imparare a leggere.

L’arte non ha orario, si sa. Un artista è tale anche quando dorme. In ogni dove. Un fotografo resta tale sempre, anche quando non sta facendo alcun lavoro su commissione o nessuna ricerca particolare. Prima ancora che per necessità mate-

riale, egli fotografa per bisogno interiore. Fotografa perché, soltanto fotografando, vive l’esistenza del mondo. Per Willy Ronis le fotografie fatte sotto il tetto di casa non sono per nulla diverse da quelle fatte lungo la Senna, sotto il ponte di Austerlitz, in un circo o a Marsiglia. Due delle sue più belle immagini, direi fra le più indimenticabili, raffigurano fatti strettamente privati. Si tratta del Nudo provenzale e di Vincent (il figlio di Nudo provenzale), riguardanti la moglie e il figlio Vincent. La prima, una fotografia di un candore straordinario, fu ripresa a Gordes, in Valchiusa (che il fotografo ebbe cara forse non meno di Petrarca), durante le vacanze dell’estate 1949. Mostra la giovane moglie Marie-Anne nuda di spalle, mentre si sciacqua il volto in una bacinella. Ronis ricordava così la nascita di questa immagine: «L’estate del 1949 fu particolarmente torrida. Stavo facendo piccoli lavori nel granaio. Vincent, nove anni, dormiva nella sua camera. Per cercare un utensile che mi mancava scendo la scala di pietra che passa per la nostra camera. Marie-Anne, che


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Due ritratti di Willy Ronis a cui è dedicata fino al 22 agosto alla Monnaie di Parigi una grande mostra. Sotto il titolo, “Nudo Provenzale” e “Vincent (il figlio di Nudo Provenzale)”. A destra (dall’alto in basso): “Ballo all’aperto”, “Bruges”, “La chiatta dei bambini”, “Luna Park”, “Pioggia a Place Vendôme” e “Venezia”

Ronis ia

emerge dalla siesta, si rinfresca con l’acqua della catinella, giacché l’acqua corrente si trova solo nel lavatoio. Le dico: resta come sei e, prendendo l’apparecchio dalla cassapanca, risalgo di qualche passo e scatto tre volte; poi me ne dimentico perché c’erano molte foto da fare durante queste vacanze appena iniziate. Fu una bella sorpresa, una volta rientrati a Parigi, quando feci lo sviluppo, ma il destino di questa foto mi sorprende ancora».

L’altra immagine riguarda Vincent («il figlio di Nudo provenzale»), vale a dire di MarieAnne, ripresa nella stessa casa tre anni dopo. Stando all’interno della casa, il ragazzo ormai dodicenne, viene ripreso del padre, mentre gioca con un modellino di aereo in giardino. Si tratta, ripetiamo, di due immagini bellissime. E quello che Ronis dice a proposito del Nudo provenzale risulta particolarmente interessante. Veniamo a sapere con certezza che non si tratta né di una foto posata né di un’immagine colta al volo, ma di queste due cose insieme. Se non sapessimo che Ronis ha chiesto alla moglie di rimanere nella posizione in cui lui l’aveva sorpresa, potremmo pensare che Nudo provenzale sia un’immagine colta al volo. Allo stesso modo, se non sapessimo questo fatto e guardassimo con attenzione la luce e la sistemazione dei pochi oggetti che sono presenti nella stanza, potremmo pensare che si tratta di una foto posata: di un soggetto in una location. Normalmente, o il più delle volte, le fotografie appartengono all’una o all’altra specie, e molti sono convinti che il fotografo reporter debba portare a casa soltanto immagini prese al volo, e cioè nell’attimo in cui le ha viste, à la sauvette. Si è altresì convinti che solo queste ultime immagini dicano la verità. Così da diversi anni c’è un’accesa discussione intorno a una celebre fotografia di Robert Capa (anch’egli amico di Ronis): Il miliziano colpito a morte, ripresa durante la guerra di Spagna. Sembra accertato che il miliziano repubblicano non sia morto, cosicché alcuni sostengo che si tratta di un inganno. Caso ancora più significativo è stato quello di Eugene Smith (fotografo che anche Ronis considerava fra i maggiori del Novecento). Alcune delle sue fotografie non sono state riprese à la sauvette come si era supposto, ma sono frutto di una manipolazione costata all’autore molto lavoro. Il celebre ritratto del dottor Albert Schweitzer con l’uomo nero alle spalle è stato ottenuto sovrap-

ponendo due negativi (e aggiungendo gli elementi della sega e della mano in basso a destra); gli occhi delle donne della celeberrima veglia funebre del villaggio spagnolo sono stati ritoccati col ferrocianuro in modo che fossero rivolti nella direzione voluta dal fotografo; dalla fotografia del pazzo sono state cancellate le altre persone che erano presenti; sugli occhiali dell’operaio di Pittsburg sono stati inseriti i bagliori di una fornace; così come il bagno della piccola Tomolo di Minamata è stato illuminato da due flash elettronici. Dopo aver saputo ciò, alcuni hanno creduto che il valore di Smith dovesse considerarsi diminuito. In realtà ciò non toglie niente alla sua grandezza, perché ciò che conta non è come un autore sia giunto a certi risultati, ma semplicemente che ci sia giunto. Queste fotografie, infatti, continuano a dire la verità che Smith voleva dire, a suggerirci i sentimenti che voleva suggerirci. Allo stesso modo Il miliziano colpito a morte di Capa continua a sintetizzare il dramma della guerra di Spagna. La fotografia non è, come molti continuano a credere, una sorta di certificazione tribunalizia. È, come tutte le arti, un cammino

Dal loro matrimonio nel 1910 nacque Willy Ronis, precedendo di otto anni il fratello, dopo la cui nascita la madre abbandonò la professione di musicista, per dedicarsi interamente ai figli. Il fotografo crebbe, dunque, in mezzo alle discussioni musicali, suonando il violino e con una grande passione per l’arte, che lo portava quasi tutti i giovedì ad andare al Louvre, mentre la domenica, per il concerto dell’Orchestre Colonne, faceva la coda per prendere un posto nel loggione. Dopo il liceo dichiarò di voler diventare compositore. I genitori, che speravano per lui un futuro di funzionario, si allarmarono. Per rassicurarli Ronis affiancò alla musica gli studi di giurisprudenza, ma fu subito chiaro che il diritto non era nelle sue corde. Per pagarsi le lezioni di armonia faceva il «secondo violino» in un ristorante dei Champs Elysées. Dopo i disastrosi risultati universitari, parte per il servizio militare e, al ritorno, nel 1932, è costretto ad andare a lavorare nel negozio del padre, gravemente malato.

A quel punto - considerata anche la «furia distruttrice» con la quale la madre aveva giudicato le su composizioni -

Diceva di non andare alla ricerca del Graal. Ma le sue opere sono una coppa in cui è contenuto tutto il mondo. Guardare “La chiatta dei bambini” per credere... Tutto iniziò con una Kodak 6,5x11 verso la verità e verso la bellezza. Indipendentemente dalla via. Questo Willy Ronis lo sapeva perfettamente, perché lo sperimentava quotidianamente. Così, con autentico candore, ha raccontato come è nato Nudo provenzale. Egli è stato fotografo dell’antiretorica per eccellenza e uomo di una schiettezza veramente rara, come mostra di essere nel ricordo della morte del padre, avvenuta nel 1936, quando lui aveva ventisei anni. «I problemi immediati della sopravvivenza mi aiutarono a superare il mio lutto. Il padre che avevo perduto era la mia vera madre e io conservo ancora per questo essere di una intelligenza assai mediocre, di una cultura assente, ma di un’allegria costante e di una infinità generosità, un culto di cui il peso degli anni non ha mai attenuato il fervore». Il padre di Ronis era un ebreo di Odessa, arrivato a Parigi nel 1901, all’età di ventinove anni, che grazie alle sue buone qualità professionali trovò lavoro come fotografo-ritoccatore nello studio di un fotografo ritrattista con una buona clientela nell’alta borghesia. Appassionato di «bel canto», due anni dopo, in un circolo musicale, incontrò una ragazza di origini lituane.

abbandona il proposito di fare il compositore. Aveva così davanti a sé la strada della fotografia, sulla quale, negozio a parte, si era incamminato sei anni prima, quando per il suo sedicesimo compleanno aveva chiesto al padre in regalo una Kodak 6,5x11, con la quale aveva ripreso le sue prime immagini, e ci aveva «preso gusto». «Ero cresciuto - dice Ronis -, ero maturato, e quello che solo molto confusamente avvertivo nei primi anni della mia giovinezza, scoppiò improvvisamente con violenza. Adoravo mio padre, ma detestavo la produzione dello studio. Papà era un santo. Lavorava da solo per sfamare quattro bocche, pagare gli studi dei suoi figli, i capricci di sua moglie e le nostre lunghe vacanze. Ma appunto i suoi sacrifici mi avevano formato un altro gusto, diverso dal suo, e quest’embrione di cultura aveva sviluppato in me un sentimento di rigetto per tutto quello che onestamente e ingenuamente lui considerava bello». A ventisei anni, nel 1936, alla morte del padre, Willy Ronis abbandonò il negozio e si mise sulla strada per diventare uno dei migliori fotografi del Novecento.


Narrativa

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pagina 18 • 10 luglio 2010

a più parti, soprattutto in Germania e in particolare dopo che l’anno scorso le è stato riconosciuto il Premio Nobel, Herta Müller viene accusata di riscrivere sempre le stesse storie. Tuttavia, non si può non riconoscere il lavoro di cronista della quotidianità in regime di dittatura svolto dalla Müller, la scrittrice appartenente alla minoranza germanofona rumena e oggi residente a Berlino, dove giunse nel 1987 dopo essere fuggita dal proprio paese. Nata nel 1953 e cresciuta nella regione del Banat, dove fu presente una robusta enclave di lingua tedesca, la scrittrice ha vissuto la propria infanzia in Romania sotto il regime di Ceausescu come «scuola di paura», come lei stessa l’ha definita, e quell’esperienza ha finito col diventare il contenuto di gran parte delle sue opere. Dopo aver studiato all’università di Timisoara e aver lavorato per alcuni anni come traduttrice, una volta rifiutato il ruolo di collaboratrice della Securitate, la polizia politica del regime comunista rumeno, finì con l’essere licenziata: era il 1979. Costretta a vivere facendo uso della sua conoscenza del tedesco, nel 1982 le riuscì di vedere pubblicato il suo primo libro, Niederungen (Depressioni), ma solo perché parzialmente censurato. Dal momento della fuga nella Repubblica Federale Tedesca, Herta Müller ha dato voce alla propria memoria, raccontando al ritmo di un libro all’anno la quotidianità della dittatura rumena, in particolare nel romanzo Der Fuchs war damals schon der Jäger (La volpe allora era già il cacciatore), del 1992, come pure la complicata esistenza della minoranza tedesca del Banat e la difficile, spesso disperata condizione delle donne rumene. In realtà, oltre che per i vibranti contenuti, la Müller in Germania è tra le scrittrici più apprezzate grazie alla cifra stilistica della sua scrittura, tanto da essere ammessa fin dal 1995 nell’Accademia per la Lingua e la Poesia di Darmstadt, l’istituzione che assegna il Büchner-Preis, il più prestigioso premio letterario di lingua tedesca. Questo che è l’ultimo romanzo di Herta Müller, L’altalena del respiro (trad. di Margherita Carbonaro), è l’autobiografia fittizia di Leopold Auberg, deportato il 15 gennaio 1945, all’età di diciassette anni, nel campo di concentramento sovietico di Nowo-Gorlowka. La narrazione, come ricorda la stessa autrice nella postfazione, è fondata principalmente sui racconti dello scrittore Oskar Pastior, esso stesso deportato e morto nel 2006. Con Pastior, secondo un piano elaborato di persona dallo stesso Stalin, furono circa 80 mila i tedesco-rumeni a subire quel destino: «Nessuno di noi era stato in guerra - si legge nelle pagine iniziali del romanzo - ma in quanto tedeschi per i russi eravamo colpevoli dei crimini di Hitler».

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Riletture

libri

Herta Müller L’ALTALENA DEL RESPIRO Feltrinelli, 255 pagine, 18,00 euro

L’angelo della fame nel racconto di Herta

Müller

Un’autobiografia fittizia dal gulag di Nowo-Gorlowka fondata sui ricordi reali dello scrittore Oskar Pastior di Vito Punzi

La summa dell’esperienza d’estraniazione, d’assenza di una patria e di lesioni dopo cinque anni di prigionia viene formulata dallo stesso Leo: «È il mio grande fiasco interiore, il fatto che io, ora che sono libero, sia irreparabilmente solo e mi scopra cattivo testimone a me stesso». Tuttavia, grazie alla lingua, dalla memoria di quel «cattivo testimone» il passato deborda, fino a diventare, attraverso la narrazione, intenso e plausibile presente. Per sessant’anni, dal momento del ritorno a casa, gli oggetti del lager hanno abitato le notti di Leo, con un dubbio terribile: «Da sessant’anni non so se non riesco a dormire perché voglio ricordarmi di quegli oggetti o se è il contrario». Così, i materiali di lavoro (carbone, cemento e sabbia) e le stesse, forzate azioni degli internati vengono descritti, anche negli effetti che producono sui corpi, con incredibile precisione, in un misto di acribia documentaristica e fantasmagoria indotta dalla fame. Le istruzioni date per spalare il carbone, che raggiungono il culmine nel confronto analogico con il tango, con il tirare di scherma e con il valzer, attraverso l’entusiasmo tragico con cui vengono descritte ricordano la necessità, per il prigioniero affamato, di economizzare ogni minimo movimento: «1 colpo di pala = 1 grammo di pane». È la fame, poi, a creare proiezioni allucinatorie: «Ogni oggetto, nella sua lunghezza, nella sua larghezza, nella sua altezza e nel suo colore assomiglia alla vastità della mia fame». Tanto più che questa non è condivisibile con gli altri, perché «è per ognuno una potenza estranea». «Angelo della fame» è il nome che lo stesso Pastior aveva dato nei suoi diari a quella potenza e nel riproporlo la Müller lo accosta ad altre metafore, utili per oggettivare processi interiori e esteriori, senza concessione a un qualsivoglia ludico gioco linguistico. L’intero romanzo va letto non come documentazione e tanto meno come un romanzo storico, piuttosto ha il valore di una «poesia esistenziale», come l’ha acutamente definita Michael Lentz. In questo senso lo si può considerare uno dei più importanti testi della letteratura tedesca contemporanea.

Il “di più” che ci fa uomini: la storia di Interlandi e Paroli lo guardò come un entomologo può scrutare un raro esemplare d’insetto. Con curiosità, ma anche con una sorta d’inconfessato desiderio, quasi un’avidità dell’intelletto, di poter scorgere in quello una qualche particolarità che ne facesse un insetto assolutamente unico, diverso dalla specie d’appartenenza e degno perciò d’essere annoverato fra gli scherzi della natura e d’esser tenuto in assoluta considerazione. Può esistere, insomma, un fascista che non sia una carogna?». È il momento in cui il socialista Enzo Paroli, avvocato liberale, entra nella cella dove è recluso il fascista Telesio Interlandi, direttore della rivista La difesa della razza. L’avvocato ha un compito: difendere l’indifendibile. Ma gli toccherà in sorte fare molto «di più»: nascondere per molto tempo nella cantina della sua abitazione Interlandi, la moglie Mariù e il figlio Cesare, accomunando così la propria vita al loro destino di morte e in ultimo, mostrando il coraggio - coraggio che nasce dalla pietà verso l’altro e verso se stessi -

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di Giancristiano Desiderio ,di salvare Interlandi e la sua famiglia dai «partigiani che credono d’aver vinto e invece hanno solo raccolto le ceneri d’un regime che si è suicidato e vogliono farsi giustizieri di tutti e di ciascuno…». Che cos’è questa storia? È una storia morale, che raccoglie la vita di una nazione intera e la interroga, e una storia che Leonardo Sciascia avrebbe potuto scrivere, ma giunto alla fine dei suoi giorni non poté farlo e quasi la consegnò, a mo’ di testimone, a Vincenzo Vitale che la fermò su carta e la pubblicò nel 1999 per Sellerio con il racconto civile In questa notte del tempo. Sono ottantaquattro paginette di grande intensità che si leggono in un’ora. Sono ottantaquattro paginette che in un’ora ti restano dentro attaccate all’anima. L’autore, Vincenzo Vitale, è avvocato e docente, ma soprattutto è uomo in cui il senso della giustizia s’incontra con il senso delle umane cose. La storia esemplare dell’incontro di Interlandi e Paroli, che è l’in-

Il rapporto tra il direttore della rivista “La difesa della razza” e l’avvocato socialista che doveva difenderlo

contro di due Italie e due coscienze che inevitabilmente si devono guardare in faccia e devono trovare un modo di convivere, meglio se muovendo da quell’umanità che ci accomuna nella vita e nella morte, è narrata da Vitale come da chi sa che la vita e la storia non si lasciano dividere in modo netto in due categorie: quella del bene e quella del male. Ma in queste pagine ce n’è una in particolare - oltre alla conclusione - che mi sento di indicarvi ed è la numero 56. Scrive l’autore facendo parlare la riflessione della coscienza di Paroli sull’intelligenza di Interlandi che «difende la razza» dalla «minaccia» degli ebrei: «Non bastava possedere un lucido intelletto per non inclinare al male e alla perversione, occorrendo qualcosa d’altro; qualcosa che bisognava trovare altrove, presso qualcuno che invece lo possedesse questo “supplemento d’anima”, perché altrimenti non avrebbe saputo come chiamarlo». L’intelligenza non basta a darci il bene umano. La civiltà non è fondata unicamente sull’intelletto. Perché ci sia umanità serve un «di più» soppresso il quale sprofondiamo nella perdita del dolore e dell’amore, nella notte del tempo.


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poesia

10 luglio 2010 • pagina 19

La “guida in versi” di Rocco Scotellaro di Francesco Napoli occo Scotellaro (Tricarico, Matera, 1923 - Portici, Napoli, 1953) ha vissuto poco ma quanto basta per affrontare due questioni così prossime ai costumi culturali e politici di questi giorni. Il sindaco-poeta, come è stato etichettato in seguito alla sua elezione alla massima carica cittadina nel 1946 con una lista frontista avente a simbolo l’aratro, non vide la sua massima raccolta (È fatto giorno) in libreria per Mondadori e nel 1950 si dimise in seguito a un’accusa di peculato dimostratasi falsa. Insomma: un giovane scrittore che non riesce a farsi notare dalla grande editoria e un caso di malagiustizia.

R

La vicenda che portò alla pubblicazione postuma del suo libro merita qualche dettaglio. Nel 1949 uno speranzoso Rocco Scotellaro si reca da Carlo Muscetta alla sede Einaudi di Roma al fine di proporre «un manoscritto quasi pronto per la stampa, che non solo nel titolo, ma anche nell’architettura, corrispondeva alla prima parte del libro uscito da Mondadori», ricorda lo stesso Muscetta a posteriori. Promesso che l’avrebbe sottoposto all’attenzione del famoso Comitato di Lettura presieduto da Giulio Einaudi, Muscetta dapprima mostrò a Scotellaro grande entusiasmo e certezza nella possibilità di portare a termine la stampa del volumetto, ma poi dovette arrendersi anche di fronte all’ostilità di Cesare Pavese, poco convinto che la casa editrice in rinascita dalla ceneri del conflitto mondiale si dovesse impegnare nella pubblicazione di titoli di poesia e tantomeno per il «Tricarico», come soleva chiamare Scotellaro nelle segrete stanze di via Biancamano. Passò un anno, Scotellaro ebbe perfino un anticipo di 35 mila lire. Ma nulla, da Torino non si mosse più foglia. E dire che non si sentiva l’ultimo arrivato se Carlo Levi da un lato e poi, sul fronte Mondadori, per lui si mossero prima

il club di calliope

LUCANIA M’accompagna lo zirlio dei grilli e il suono del campano al collo d’un’inquieta capretta. Il vento mi fascia di sottilissimi nastri d’argento e là, nell’ombra delle nubi sperduto, giace in frantumi un paesetto lucano.

Remo Cantoni e poi perfino Eugenio Montale, adeguatamente corteggiato per tramite della moglie. «Caro Scotellaro, (…) ho fatto leggere la sua lettera a mio marito - scriveva la Mosca (Drusilla Tanzi) di Montale - il quale farà di tutto per incoraggiare Mondadori a pubblicare i suoi versi». Arriva infine l’agognato sì, la firma sul contratto, ma per Rocco Scotellaro il tutto avviene venti giorni prima di morire. Sarà il mentore e «fratellastro» Carlo Levi a firmare nel 1954 una prefazione affermando che «il senso universale della vita riempie i suoi versi arricchiti di amorosa intelligenza; dove pure, in quella pienezza, è il presentimento della morte, e la grandezza di un destino breve».

Liquidato frettolosamente a sinistra, «è un poeta, abbastanza vivo, di una tradizione e di un passato ormai chiusi, non è certo il poeta dell’avvenire» (Salinari), Rocco Scotellaro ha avuto nel tempo significative rivalutazioni critiche, da Marco Forti a Silvio Ramat fino a una recente rilettura di Maurizio Cucchi che rileva l’importanza del sindacopoeta di Tricarico capace di «sostanziare la sua poesia, senza retorica e senza impacci volontaristici, di una materia tratta dal suo pieno coinvolgimento nel reale» che era, secondo il poeta milanese, quanto necessitava agli inizi degli anni Cinquanta. Ci sono dunque oggi tutti i termini per andare oltre gli schematismi e le pregiudiziali di allora: un giovane intellettuale trascinato nel vivo della lotta politica fra gli anni Quaranta e Cinquanta, sperimenta nel Mezzogiorno d’Italia forme di democrazia partecipata e oltre i miti burocratici orienta le sue scelte in chiave libertaria e antidogmatica. Rocco Scotellaro si svela nell’esemplarità di un’esperienza che, passata come una meteora, ha però

Rocco Scotellaro (da È fatto giorno)

lasciato segni visibili nel mondo letterario, «un centinaio di liriche che rimangono certo tra le più significative del nostro tempo» secondo Eugenio Montale, lettore non sospetto. È fatto giorno nella sua architettura complessiva sembra voler ambire a una forma poematica fondata su una continuità seppur scandita per momenti differenziati: una sorta di «guida in versi», come l’ha definita Franco Vitelli, il più autorevole studioso di Scotellaro, per chi volesse mettersi in viaggio nella complessa realtà del mondo contadino. Certo, l’autobiografismo è forte e penetrante, perché l’autore è parte e sostanza a un tempo di quel mondo, fine conoscitore della cultura e dei segmenti quotidiani di quella condizione. Arioso e surreale nel ritratto paesaggistico («Passeggiano i cieli sulla terra/ e le nostre curve ombre/ una nube lontano ci trascina», Campagna), quasi tutta la sua poesia sembra accompagnata, tra «nenie» e «tarantelle», da zampogne e tamburi, mirabile contrappunto musicale. La tematica politico-sociale è solo un momento della creazione di Scotellaro, a dispetto dell’eccessiva attenzione critica puntata su questo tema, dove l’aspirazione al possesso della terra veniva registrata nella sua componente dimidiata tra attesa e realizzazione («Sono i quotisti affamati/ nella processione notturna,/ ricercano con gli occhi tutto il piano/ ma si hanno ognuno un ennesimo lotto», Capostorno).

Ma è forse nel contrasto vissuto in prima persona tra città e campagna il massimo esito di Scotellaro, quando mimetizza nelle mitiche figure genitoriali un grido di rabbia trattenuto tra dolore e sconforto all’amara scoperta del peso di una civiltà millenaria da infrangere: «Come hai potuto, mia madre, durare/ gli anni alla cenere del focolare» (Casa) e quei versi ancora più emblematici di Al padre: «Io sento la pena del tuo ritorno/ del tuo carcere che durò nella bottega».

DIALOGHI CON LA MADRE CELESTE in libreria

RITORNA LA MIA LUNA

di Loretto Rafanelli

Con le mani mi rinasci il corpo restituisci al mondo la mia forma mi reintegri ai confini conosciuti e allontani quelli subdoli e sfaldati Quando manchi mi svanisco quando torni io ritrovo il modo di pensarmi tutta intera, di sapermi ancora vera... Di trovare luogo. Sei la parola che si è fatta storia, deposito della mia memoria, sei la presenza che si riconferma, il mio futuro e la mia traiettoria... Giovanna Rosadini

lessandra Conte, giovane poetessa (1978), è all’esordio con una raccolta forte, intensa e dolorosa, quasi una litania. Breviario di novembre (Raffaelli Editore,12,00 euro), è un colloquio con il sacro, o almeno un tentativo di dialogo con la Madre suprema, la Madonna ovviamente, depositaria del bene e del segreto estremo, la «madre celeste/ dei frutti acerbi portati via». Ella, la depositaria di tutte le parole interdette, viene incalzata incessantemente, vorticosamente, dalla poetessa, che a lei si aggrappa, per conoscere la propria via, la propria identità. È però il suo un canto laico, dove la Madonna, madre delle madri, «acqua lacrimata», diviene sorella («sorella delle parole/ di latte») e donna fra le donne, riportata agli affanni quotidiani e intenta a ricercare «la pietà e l’integrità/ del viso per sorriderci». La Conte si aggira pure nell’invocazione dell’origine, proprio quella dei luoghi che l’hanno aperta al mondo, ma soprattutto c’è la richiesta al Signore di un perdono, di una gioia, di una speranza.

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pagina 20 • 10 luglio 2010

di Enrica Rosso no dei pochissimi appuntamenti che non sono stati penalizzati dai tagli alla Cultura è quello che riguarda la stagione del Silvano Toti Globe Theatre.Voluto dalla Fondazione Toti che lo ha donato alla città di Roma intendendo così festeggiare nel 2003 i cent’anni di Villa Borghese, nell’ambito di un più ampio progetto di impegno culturale sostenuto in onore del capostipite e mecenate, l’imprenditore Silvano. La sua realizzazione ispirata al celeberrimo Globe Theatre di Londra, il teatro (bombardato e ricostruito) in cui agiva la compagnia di William Shakespeare, è avvenuta in poco più di tre mesi a opera della società di famiglia. Situato nel cuore verde della Capitale il Silvano Toti Globe Theatre si sviluppa a pianta circolare con tre ordini di palchi per un’altezza massima di 10 metri, ed è interamente realizzato in legno massello di rovere francese. All’interno della sua circonferenza di 100 metri possono essere accolti più di 1.200 spettatori. La direzione artistica è affidata anche quest’anno a Gigi Proietti che auspica in un futuro non troppo lontano una compagnia stabile per questo spazio che unisce al fascino della struttura dell’unico teatro elisabettiano in Italia una location di soave bellezza. Cinque le produzioni proposte per una tenuta di quasi tre mesi. L’apertura avvenuta l’altro ieri ha visto il debutto di I due gentiluomini di Verona per la regia di Francesco Sala. L’allestimento gode della traduzione di Vincenzo Cerami che ha modernizzato e reso vivo un linguaggio antico con ritocchi e inven-

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Televisione

Teatro

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spettacoli DVD

Shakespeare sotto le stelle

zioni per non far perdere la comicità dei giochi di parole del testo. Le musiche sono composte dal grande Nicola Piovani. La compagnia vede nei ruoli del titolo due figli d’arte: Gianluca Guidi e Giampiero Ingrassia. Dal 23 luglio al 1° agosto arriva a Roma, dopo il debutto al Teatro Romano di Verona, la seconda novità della stagione. Tradotta da Agostino Lombardo, La Tempesta per la regia di Daniele Salvo. Alessan-

dro Chiti firma la scena in cui si muove Prospero-Giorgio Albertazzi con la sua corte in balia delle onde. Seguono tre riprese di spettacoli particolarmente amati da un pubblico che sembra affezionato a questo spazio tanto da essere passato dalle 22 mila presenze del 2005 alle 36 mila del 2009. Dal 4 al 22 agosto (con una pausa per Ferragosto) ritorna per la terza stagione consecutiva Molto rumore per nulla. Loredana Scaramella ne ha curato la traduzione e l’adattamento insieme a Mauro Santopietro e ne firma la regia. Lo spettacolo vola sulle ali della pizzica salentina suonata dal vivo dall’italianissimo Trio William Kemp. Un altro atteso ritorno dal 25 agosto al 5 settembre è La bisbetica domata nella traduzione di Masolino D’Amico. Il regista Marco Carniti con la complicità dell’architetto Nicolas Hunerwadel ingabbia e dirige la Bisbetica Sandra Collodel e il Petruccio di Maurizio Donadoni in una sorta di palestra del pensiero in cui affrontare il match della vita, in questa commedia sulla manipolazione. Per finire un’altra messa in scena che ha già collezionato 25.500 spettatori nell’arco delle 34 repliche proposte al Globe dal 2007. Con debutto l’8 settembre torna il Sogno di una notte di mezza estate che chiuderà la stagione. Un altro capolavoro nella traduzione di Simonetta Traversetti e la regia di Riccardo Cavallo che trova in questo magico sito sotto le stelle un contenitore ottimale per il mondo onirico scatenato dalla scrittura. La stagione del Silvano Toti Globe Theatre di Roma, dall’8 luglio al 19 settembre, Info. 06 060608 - www.globetheatreroma.com

TRE MILIARDI DI ANNI PER FARE L’EUROPA aludi tropicali, glaciazioni, catastrofi, grandi civiltà estinte e altre nate sulle ceneri di quelle scomparse. Ci sono voluti milioni di anni, perché l’Europa assumesse i tratti geografici che ormai da secoli la caratterizzano. E La grande storia d’Europa ripercorre la genesi del Vecchio continente spingendosi fino a tre miliardi di anni fa. Un incredibile viaggio nel tempo, che le piacevoli animazioni in computer grafica scandiscono attraverso schermate di indubbio effetto, con un occhio di riguardo ai grandi fenomeni naturali che ne hanno scolpito la storia.

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TENDENZE

CANTA ANCHE TU SULL’AUTOSTRADA DEL SOLE essuna sorpresa se fermi al casello, doveste imbattervi in festosi cantori per nulla illividiti dall’afa e dai clacson. L’ultima frontiera degli amanti della vita on the road è la guida in modalità karaoke. Di buon auspicio per quest’estate di raccordi rincarati, il nome della frizzante novità è SingRing Happy Roads,, iniziativa che nasce da una partnership tra Digital Magics e Virgilio. Sul sito Fiat500.com saranno a disposizione di tutte le ugole improvvisate alcune playlist di canzoni classificate per genere e «umore» da scaricare sul proprio player. Gli automobilisti più temerari potranno anche registrare le proprie esibizioni e sottoporle al giudizio del pubblico. Astenersi perditempo.

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di Francesco Lo Dico

La scienza è gaia con l’anguria sul piattino

ivo nella mia propria casa/ Mai ho imitato qualcuno/ E derido qualsiasi maestro/ Che non si derida da sé»: questa frase compare come esergo nel libro La gaia scienza di Friedrich Nietzsche (scritto nel 1882). Ma ormai se si va a controllare su internet il titolo dell’opera filosofica del pensatore tedesco, in primo piano c’è il riferimento all’omonima frase che fa da titolo al programma condotto, in prima serata su La 7, dal professor Mario Tozzi, geologo di formazione, autore di saggi, divulgatore scientifico e dalla fine degli anni Novanta approdato in televisione come esperto brillante e autorevole. L’abbiamo visto in Gaia, il pianeta che vive, Geo&Geo, Che tempo che fa. È bravo a spiegare. Al suo fianco i comici del «trio Medusa», il cui compito è quello di alleggerire l’esame di certe tematiche. L’obiettivo di Gaia scienza è quello di attirare la slabbrata attenzione del telespettatore estivo su argomenti che sono seri, anzi serissimi,

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di Pier Mario Fasanotti ma che possono trovare applicazione divertente se coniugati con i comportamenti umani. Una delle puntate apre con il docente che, con l’ausilio di numeri ufficiali, spiega la drammatica stupidità umana: 1473 miliardi di dollari spesi ogni anno per gli armamenti (251 a persona), solo 27 miliardi impiegati per la pace (quattro a persona), otto miliardi spesi negli Usa per consumi voluttuari e solo sei per l’educazione. Basterebbero nove miliardi per risolvere i problemi sanitari e di acqua dei paesi più poveri. Curiosità: spendiamo ogni anno 17 miliardi di dollari per gli animali da appartamento. Una delle sette colossali portaerei a combustione atomica costa 6,3 miliardi di dollari: cifra che sarebbe sufficiente per fornire d’acqua l’Africa. Il pubblico applau-

de, con facce pensose. Poi si si rilassa con i comici che introducono - e qui si scivola sempre nello stesso terreno, manco fossimo un popolo di maniaci o di maliziosi ignorantissimi - il sesso. C’è un rapporto tra altezza dell’uomo e misura del suo organo riproduttivo? Smentiti tutti i miti, spazzate via le leggende

più amene. La gente (intervistati compresi) ride di cuore: è cosa assimilabile all’ilarità che suscita nei bambini il parlare di escrementi. Il «curioso ma vero» e la divulgazione scientifica si alternano. Tocca al professor Tozzi spiegare il pericolo delVesuvio. L’ultima sua eruzione (leggera) risale al 1944. E la prossima? Chi dice tra 20-30 anni, chi tra secoli. Sta di fatto che se quella bomba magmatica dovesse esplodere, carbonizzerebbe circa 800 mila persone che vivono in zone ad altissimo rischio. C’è un piano per l’evacuazione, ma poche sono state le esercitazioni, e scarsa è la sensibilità di fronte a un’immane minaccia. Le tragedie di Pompei ed Ercolano, se evocate, dicono che portano male. Gaia scienza: divertente e leggero, così come si vuole che sia un programma da seguire con l’anguria sul piattino.


Cinema

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10 luglio 2010 • pagina 21

di Pietro Salvatori

cChrystal, comandante in capo delle truppe Nato in Afghanistan, si è dimesso. La causa? Un’improvvida intervista rilasciata al mensile statunitense Rolling Stone, nel quale il generale ha definito Obama uno sprovveduto e Biden, il vice-presidente, un signor nessuno. «È la stampa bellezza, e tu non ci puoi fare niente», diceva Humphrey Bogart a Ed Hutchinson nell’ormai dimenticato L’ultima minaccia, film del 1952 diretto da Richard Brooks, che a discapito delle ben 5 nominations all’Oscar come miglior regista viene ancora oggi confuso con il più celebre omonimo Mel, prolifico autore di parodie cinematografiche. Non è la stampa, ma di certo ambisce a esserlo, invece, Morgan Spurlock, quarantenne regista della Virginia Occidentale.Visetto scanzonato, ciuffo biondo sulla fronte alta, baffoni a manubrio, Spurlock è uno strano animale del mondo cinematografico statunitense. Batte infatti un territorio a cavallo tra il cinema di finzione e il documentario, pur non scendendo mai sul terreno del mockumentary, genere che definisce i finti documentari che, in realtà, narrano una storia frutto dell’invenzione dello sceneggiatore. L’ambizione di Spurlock è ben altra. Vuole raccontare delle storie concretissime facendo divertire il proprio spettatore tramite inserti che smorzino la tensione seriosa del racconto documentaristico. Le storie, poi, non sono mai realmente tali. Funziona così: il regista ha un’idea, si arma di cinepresa e va in giro, con molta abilità e spirito d’osservazione, a vedere se quel che pensa corrisponde al reale. Dopo anni di gavetta, il botto con Supersize me. La tesi? Il junk food, il cibo servito nei fast food come McDonald’s, fa male, tanto male all’organismo. Detto fatto. Telecamera in spalla e via di corsa a mangiare Big Mac per trenta giorni, pranzo e cena, documentando gli effetti disastrosi che aveva sul suo corpo. Miglior regia al Sundance Film Festival, nomination all’Oscar tra i documentari. Due anni, e Spurlock si getta su un nuovo filone d’indagine. La tesi, questa volta più audace: senza Osama bin Laden il mondo sarebbe più vivibile? Quale modo migliore per scoprirlo se non quello di farsi un giretto in Medio Oriente alla ricerca del nemico pubblico n° 1? Il regista prende lo spunto dalla notizia delle notizie: «Caro, sono incinta», gli confessa la moglie. Impossibile crescere il pargolo in un mondo minacciato da bin Laden. Un adeguato corso di sopravvivenza, esercizio fisico, rudimenti di lingua araba, e il nostro eroe è pronto a partire. Unico dubbio è sui biondissimi baffi che scendono fin sopra il mento. «Non darò troppo nell’occhio così?».

M

La sfida tra Spurlock e il leader di Al Qaeda inizia dai titoli di testa. Uno straordinario videogioco ci mostra paradigmaticamente lo scontro tra i due come se fosse un combattimento di Street Fighter, con tanto di barra per l’energia in sovraimpressione. Ma quando Osama sta per soccombere, eccolo prendere il volo, in direzione di una remota caverna al di là dell’oceano. Ed effettivamente Spurlock è partito, microfono in mano, durante i primi mesi della gravidanza della moglie per Marocco, Siria, Egitto, Afghanistan e Pakistan, a domandare: «Hey, mi dite do-

Spurlock sulle tracce di Osama bin Laden

ve posso trovare bin Laden? Vorrei levarlo di mezzo, sapete, ho il mio primo bimbo che arriva e vorrei crescesse in un mondo più sicuro». Ovviamente l’atteggiamento scanzonato del regista tiene fino a un certo punto. E non si sa bene se questa sia una fortuna o una disgrazia per lo spettatore, che con il procedere della pellicola inizia a essere avvolto dal refrain dell’islamico moderato, del siamo tutti fratelli, del terrorismo non esiste e se esiste è colpa degli americani invasori, del vedete, ecco che bei visini hanno quelli che tanto odiamo, e via discorrendo. Sarà un caso, ma l’unico momento che il film ci mostra nel quale la presenza di Spurlock a girogavare non è stata gradita è avvenuto nella parte ebraica di Gerusalemme. In ogni altro posto, tra i commercianti siriani, tra i pastori afghani e i soldati pakistani, l’arrivo del regista è stato accolto come una benedizione. Vista la tesi iniziale, visto lo svolgimento, quale la sintesi del film? Beh, facile: eliminare Osama non vuol dire togliere di mezzo le idee estremiste che ha seminato. L’attecchire e il diffondersi di queste idee? Colpa degli americani ovviamente. Se tutti ci volessimo più bene, capissimo che siamo tutti fratelli, mettessimo dei fiori nei nostri cannoni, il mondo sarebbe un sacco più bello. A noi l’unico dubbio che è rimasto è il seguente: come pensano gli americani di vincere in Afghanistan se perdono tempo a scarrozzare per i villaggi di talebani gli Spurlock di turno? Al netto della facile morale pacifista, priva di problematiche e densa di soluzioni manichee, il vero problema di Che fine ha fat-

to Osama bin Laden? non è tanto quello di offrire a domande banali risposte ancora più banali, quanto quello di non divertire, non coinvolgere. Sarebbe bastato vedersi la scena videoludica iniziale, per poi andarsi a gustare magari un buon documentario della Bbc sul tema. Ne avremmo sicuramente guadagnato.

Facile morale pacifista nel film-documentario del regista americano che dopo aver raggiunto la notorietà grazie agli effetti devastanti del fast food, si dedica ora al leader di al Qaeda: sarebbe davvero più vivibile il mondo senza di lui? Un insolito Michael Keaton nella commedia adolescenziale “Laureata... e adesso?”

Se il disimpegno di Spurlock è solo apparente, quello di Laureata... e adesso? è sbandierato ai quattro venti. Una commedia adolescenziale classica: Ryden, la protagonista interpretata da Alexis Bledel, diventata celebre per essere stata protagonista della fortunata serie televisiva Una mamma per amica, dopo il college è costretta a tornare a casa, dove la attende un’eccentrica famiglia.Tra i soliti equivoci e le consuete incomprensioni tipiche della commedia di genere, Ryden è in attesa di una svolta nella vita: lavoro, amore, famiglia e tutto quello che si aspetta normalmente una giovane che sta per diventare donna. Dalla sua la commedia ha un paio di frecce: il marchio Fox Searchlight, solitamente sinonimo di qualità, e un insolito Michael Keaton, che ritroviamo a divertirsi in una commedia dopo essersi preso bonariamente in giro doppiando il Ken di Toy Story 3. Di contro, il totale flop negli Usa: costato 15 milioni di dollari, il film ne ha incassati poco più di 6. Colpa di una storia scialba, che poco aggiunge alle mille trame simili già viste sul grande schermo. Menzione d’onore ai titolisti italiani. In originale il titolo è Post Grad, vale a dire Laureata. Punto. Ma evidentemente confondere le acque nella locandina potrebbe essere efficace. Magari lo spettatore distratto potrebbe comprare il biglietto convinto di assistere a un bel documentario sul precariato italiano. Avremmo voluto parlarvi anche di My Son, My Son, What Have Ye Done, l’ultima pellicola firmata dal maestro Werner Herzog e prodotta da David Lynch, che sarebbe dovuta uscire ieri nelle sale. Ma non lo possiamo fare. One Movie, il distributore italiano, ha procrastinato l’uscita, speriamo per destinarlo a un periodo dell’anno nel quale l’affluenza in sala è più consistente che non in luglio. Fatto sta che per vedere il film, presentato ormai quasi un anno fa a Venezia, dovremmo aspettare ancora.


Fantasy

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siste un fantastico «italiano»? Vale a dire un fantastico che affonda le radici nella nostra storia, nella nostra cultura, nelle nostre leggende, miti, folklore? Questo problema lo sollevavo - scusate la autocitazione ma è necessaria per capirci - un tempo immemorabile fa quando scrivevo le introduzioni per le prime antologie italiane (cioè con storie inedite scritte da italiani) di fantasia eroica pubblicate nel 1982 (Le spade di Ausonia, Akropolis) e nel 1984 (Le armi e gli amori, Solfanelli), e di orrore «alla Lovecraft» nel 1990 (Gli eredi di Cthulhu, Solfanelli): lì affermavo come due fossero le strade per un nostro autore che si volesse cimentare in questi «generi»: o quella indicata dagli autori stranieri più significativi (Howard,Tolkien, Lovecraft ecc.); oppure, trovare spunti, suggestioni, ispirazioni nella nostra storia e nel nostro legendarium ricchissimo in ogni regione della Penisola. Tutte due legittime, quando ben scritte, ma sicuramente la seconda più originale.

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ai confini della realtà

E

Di tempo ne è passato da allora, anche troppo, e pian piano sono usciti interessanti romanzi e racconti di entrambi i generi, ma quelli che mi hanno sempre soddisfatto di più sono di certo i secondi. Luigi De Pascalis è uno dei nostri autori che sin dall’inizio ha scelto la via di un immaginario «locale», sin dai suoi esordi, quando appunto nell’antologia di Akropolis pubblicò una rivisitazione della Chanson de Richard, un’epica cavalleresca ambientata in… Puglia, che si basava su un testo vero ma semisconosciuto. Proseguì con Viaggio per Lisa (protagonista Leonardo), che vinse il Premio Tolkien 1985, e Cielo d’autunno (ambientato in Abruzzo), che giunse primo al concorso dell’anno successivo. Ora ritrovo quest’ultimo racconto nella seconda parte di Il labirinto dei Sarra, pubblicato da un nuovo e coraggioso editore romano, La Lepre, che preannuncia l’uscita di altri romanzi di De Pascalis, editi e inediti. Di cosa si tratta? Innanzitutto non è, come imprudentemente è stato detto, l’opera del «Tolkien italiano». Con ciò si fa torto a Tolkien e De Pascalis. Il quale ha scritto un’opera autonoma che si basa su un immaginario italiano (abruzzese in particolare) e non ha creato certo una «Realtà secondaria» come la Terra di Mezzo, e che descrive personaggi contemporanei, ancorché legati al mito classico, e non personaggi simbolici di un mondo che vive in una dimensione immaginaria ancorché «tradizionale», e quindi in un certo senso «vera». Se proprio un qualche raffronto si deve cercare, lo vedrei in un certo Buzzati che non disdegnava di mescolare certe volte le divinità classiche al mondo moderno, e soprattutto al Giuseppe Bonaviri di La divina foresta, Notti sull’altura, L’enorme tempo, L’infinito lunare, nel senso dell’ispirazione e trasmutazione fantastica della mitologia siciliana, e non certo per lo stile perché Bonaviri lo ha barocco e complesso, mentre De Pascalis secco e lineare. Non mi pare nemmeno che il suo sia un «ro-

L’immaginario

made in Abruzzo di Gianfranco de Turris manzo di formazione», come anche qui è stato scritto: di certo invece un romanzo «di iniziazione» (che è una formazione del tutto particolare), come peraltro si legge nelle sue pagine: «Pareva quasi che tutte le ombre della famiglia si fossero alleate per spingerlo lungo un percorso iniziatico - sì, iniziatico, accidenti! - di cui la casa e i suoi abitanti erano parti essenziali». Vale a dire: mentre per

dei modi quando il giovane protagonista accompagna due vecchi zii nel paesetto abruzzese di Borgo San Rocco per decidere la divisione e la vendita della casa avita, Casa Sarra. Come in ogni bel romanzo fantastico, quest’ultimo s’insinua poco a poco a sconvolgere la Realtà di ogni giorno, fino a tracimare, a debordare e a riempire di sé la storia. Che ha al centro un’antica magione, proprio come

Borgo San Rocco (la location), un’antica magione custode di segreti millenari. Due protagonisti sacerdoti di un dimenticato rito dionisiaco e vittime consenzienti di un sacrificale d’amore. Ecco gli ingredienti del nuovo romanzo “d’iniziazione” di Luigi De Pascalis «formazione» in una storia romanzata s’intende in genere la presa di coscienza di un personaggio che raggiunge attraverso varie vicissitudini concrete, psicologiche, morali una sua maturità, per «iniziatico» s’intende meglio una presa di coscienza superiore, il raggiungimento di uno status molto diverso da quello di partenza sul piano spirituale e spesso esoterico, acquisizione di conoscenze che vanno oltre l’esperienza umana. E infatti si dice: «In quel palazzo lui e Ambra non erano semplicemente se stessi. Erano sacerdoti di un dimenticato rito dionisiaco e insieme vittime consenzienti di un sacrificale d’amore cui sensazioni fisiche, emozioni, sentimenti sarebbero serviti a risvegliare la dormiente di pietra e a nutrire le innumerevoli presenze che la abitavano». Chiaro, mi pare. Ma chi sono il protagonista, Alessandro, e Ambra? Tutto inizia nel più banale

nel fantastico classico, che si rivela essere custode di segreti millenari, insospettabili e incredibili, spesso negativi, ma nel nostro caso positivi.

Frugando tra vecchie e vecchissime carte della biblioteca, Alessandro troverà gli scritti e i disegni del prozio Andrea, scomparso misteriosamente all’inizio del Novecento, il che gli farà capire che proprio architettonicamente la vecchia casa custodisce un segreto di cui si era perso, a un certo momento nella storia familiare, il ricordo, e che la «sala dipinta» con i segni dello Zodiaco ha un suo preciso significato. E capirà anche alla fine chi è esattamente la bellissima e sensuale Ambra: e qui forse un parallelo tolkieniano non guasta pensando ai personaggi di Beren e Lùthien, e questo basti per non dire di più. Infatti, il recensore è nell’imbarazzo per non far scoprire troppo le

carte della narrazione e lasciare il gusto della stupìta scoperta. Qui è sufficiente dire che la famiglia Sarra è protetta da un semidio (e in quanto tale anche lui dopo millenni, mortale) che vive nel sottosuolo, custode di un qualcosa che gli uomini hanno da tempo immemorabile perso (forse l’introvabile tesoro di famiglia?), e che passerà il testimone della sua conoscenza al giovane Alessandro, l’ultimo dei Sarra, perché lui non avrà una discendenza. Una storia, quella dei Sarra, che come si scoprirà nella seconda parte del libro con resoconti che si riferiscono a vari momenti di questa vicenda antica ambientati nei secoli III, XVI, XIX e XX, ha inizio addirittura all’epoca di Aureliano, nel 270 d.C., l’imperatore che portò a Roma il culto del Deus Solis Invictus. Nel racconto che lo riguarda, di certo uno dei più emotivamente coinvolgenti, Scato il Marso è il protagonista di uno scontro fra divinità di varia origine che si combattono attraverso gli umani, quasi trastullo dei Signori del Gioco (gli «dèi che era proibito nominare», quasi gli Altri Dei di Lovecraft). Ma qualcosa va storto e si produce una specie di collasso cosmico che da allora peserà sul genere umano e sulla stirpe dei Sarra alla cui origine c’è Scato: «Troppe regole erano state infrante: le assi delle grandi macine del mondo s’erano arrestate. Anzi, erano uscite dalle loro sedi naturali. L’Universo barcollava alla ricerca disperata di nuovi equilibri. E forse, col tempo, li avrebbe anche trovati. Ma intanto gli dèi più antichi e potenti erano stati spazzati via da quel cielo improvvisamente ostile».Tutto comincia da qui e avrà la sua conclusione nel romanzo che dà il titolo al libro. Scritto, si deve dire per concludere, in uno stile asciutto, forse troppo, ma non per questo meno evocativo di antiche suggestioni, che trasuda nostalgia non tanto per “il bel tempo che fu”di una esistenza contadina più semplice, anche se più dura e travagliata, quanto per un universo ordinato in ben altro modo i cui valori di riferimento erano, spiritualmente e materialmente, diversi. Un bellissimo esempio di fantastico italiano.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Il Partito democratico deve integrarsi nella famiglia socialista Come PsiI, non ci interessano diritti di primogenitura perché ci sta a cuore che i democratici si integrino sempre meglio nella famiglia socialista europea. Quanto alla questione generale del rinnovamento della socialdemocrazia, ebbene la socialdemocrazia europea è sempre stata un ideale di giustizia, non una ricetta ideologica, e i suoi programmi si sono sempre adattati ai tempi. Oggi solo dal socialismo europeo vengono risposte originali ai problemi della crisi finanziaria ed economica globale. L’incarico di presidente della Fondazione europea studi di progresso riapre anche nel Pd la discussione mai risolta sul socialismo europeo. Anche i socialisti italiani, attraverso la loro Fondazione Socialismo, hanno condiviso la scelta su D’Alema, che è stata una scelta maturata all’interno del Pse, anche in considerazione del suo essersi prestato ad una candidatura “di bandiera” ai nome dei socialisti europei nella fase di scelta dell’alto rappresentante per la politica estera della Ue, ma soprattutto allo scopo di parlare all’intero centrosinistra italiano. Abbiamo apprezzato che nella riunione di Bruxelles il neopresidente abbia fatto un accenno sincero ai dissensi nel Pd e alla volontà di superarli.

Luca Cefisi

TREMONTI PREPARA LACRIME E SANGUE PER IL MEZZOGIORNO

Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando,Giuseppe Baiocchi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

Le critiche di Tremonti hanno il sapore di una lezione di demagogia, con il preciso obiettivo di suscitare il clima adatto per il federalismo leghista e rafforzare l’asse con Bossi in vista di futuri sviluppi di governo. Sappiamo tutti che la riforma imposta dalla Lega comporterà lacrime e sangue a carico del Mezzogiorno. Però, se è certamente vero che le regioni meridionali hanno responsabilità gravi quanto a sprechi ed inefficienze, è altrettanto vero che questo andazzo va pagato dai politici e non dai cittadini. Dunque se al 31 dicembre ci saranno fondi inutilizzati o sprecati, il ministro Tremonti suggerisca al governo di commissariare le regioni inadempienti mandando a casa i governatori incapaci e nel frattempo si occupi di controllare meglio il bilancio della presidenza del Consiglio che in quanto a sprechi non è seconda a nessuna.

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MESSAGGIO DEVASTANTE PER DONNE VITTIME VIOLENZA

Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato,Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza

Marco Di Lello

Rimango francamente sconcertata dalla pronuncia con cui la Cassazione ha annullato la sentenza di condanna per maltrattamenti inflitta ad un coniuge. Secondo quanto si apprende dalla stampa, i supremi giudici non avrebbero ravvisato gli estremi del-

la sopraffazione per via del carattere forte e reattivo della moglie. In un momento in cui la violenza sulle donne, soprattutto quella familiare, continua a riempire le cronache dei giornali, credo che un messaggio del genere possa risultare devastante, soprattutto per le vittime. L’attuale governo e la maggioranza hanno lavorato con grande determinazione per rafforzare la legislazione contro ogni tipo di abuso. Ora, tuttavia, occorre che tutte le Istituzioni recepiscano l’importanza di questo problema e lo affrontino con la giusta sensibilità. Se una donna è offesa, percossa, minacciata, resta vittima anche se ha un carattere forte.

Barbara Saltamartini

ALÌ HASSOUN DIPINGE IL PALIO Prima della caduta del muro, i comunisti italiani detestavano il capitalismo. Dopo l’abbattimento, resosi conto che il libero mercato poteva rimpinguare le casse del partito (e soprattutto dell’establishment), hanno cambiato nome, e si sono messi a far concorrenza a Berlusconi. Forse non paghi degli affari, e soprattutto di aver perso il controllo del territorio di mezza Italia, i riciclati nipotini di Stalin hanno pensato bene, in quelle poche aree che governano, di “vendicarsi” sui cattolici. Probabilmente ancora memori della vecchia scuola sovietica dove gli adepti venivano

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Il cucciolo del Serengeti Un cucciolo di leopardo muove i suoi primi passi tra l’erga del Parco nazionale del Serengeti, una delle più importanti aree naturali protette dell’Africa orientale che si trova nel nord della Tanzania, nella pianura omonima tra il lago Vittoria e il confine con il Kenya

LE VERITÀ NASCOSTE

Chi vuole inventare il Milionario? LOS ANGELES. Chi vuol essere milionario? Dollari o euro, poco importa: trattasi sempre di cifra ragguardevole. Certo, niente a che vedere con i 269,4 milioni di dollari che una Corte americana ha imposto come multa alla Walt Disney Co. per aver di fatto “rubato” il format del celebre programma. Il verdetto dei giudici riguarda la causa intentata dalla Celador International, casa di produzione britannica, alla celebre società americana, oggi di proprietà della Abc. La questione è complessa, ma intrigrante: il celebre gioco è stato creato dagli inglesi, che ne hanno venduto i diritti in tutto il mondo. La Buena Vista Television, da ascrivere alla Walt Disney, ne ha prodotto una versione leggermente diversa e si è sentita così in diritto di non pagare le royalties. Ma i britannici hanno fatto causa, e dopo ventisette giorni di audizione dei testimoni e tre giorni di camera di consiglio per i giudici, l’hanno spuntata. L’avvocato di Topolino ha annunciato ricorso: «Crediamo che questa sentenza sia profondamente ingiusta. Faremo di tutto per ottenere un ribaltamento del pronunciamento». Ma nel frattempo, i quasi 270 milioni dovranno essere pagati. Senza neanche la briga di rispondere a una domandina.

forgiati con gli slogan: Vaticano uguale lunga mano del capitalismo e padroni cattolici uguale sfruttatori di operai, l’amministrazione della città di Siena, (notoriamente di sinistra) ha avuto la brillante idea di “castigare”i cattolici con una trovata pazzesca. Il comune senese, fingendosi aperta alle altre culture e religioni, ha incaricato l’artista islamico Alì Hassoun di dipingere il Palio. Come prevedibile, l’adoratore della mezza luna non ha perso l’occasione di sovrapporre i simboli dell’islam sugli emblemi della cattolicità. Risultato: la Madonna è stata rappresentata con una corona dove stanno una croce, la mezzaluna islamica e la stella di David. Attorno al volto della Madonna, Alì ha scritto in arabo “Sura di Maria”, in riferimento alla sura 19 del Corano dove ella è celebrata come madre di Gesù, che l’Islam ritiene un profeta, ma nega che fosse Figlio di Dio, Dio fatto uomo. Come se non bastasse la figura centrale del Palio è un presunto san Giorgio, che in realtà è un guerriero saraceno con la kefiah araba, che trafigge un drago, il quale rappresenta un demone. Qualunque musulmano interpreta tale rappresentazione come l’Islam che trionfa sull’infedele e sul grande Satana. Ma lo scandalo più grave non sta tanto nello sfregio inferto dai post comunisti ai fedeli cattolici, ma nel silenzio del vescovo Buoncristiani, che invitato dai credenti a non “benedire”un’immagine che non è cristiana, ha fatto spallucce. Se è scontato che se ne infischino gli ex comunisti, che cercano di umiliare i cristiani “usando” i musulmani, non è accettabile che se ne infischi un vescovo. Ed è la conferma di quanto ha detto il Papa pochi giorni fa: «il pericolo più grave» non sono le persecuzioni, perché «il danno maggiore» la Chiesa «lo subisce da ciò che inquina la fede».

Gianni Toffali - Verona


il caso

pagina 24 • 10 luglio 2010

9 luglio 1960: annega nel sangue l’avventura politica di Tambroni. E si apre la lunga stagione del centrosinistra

Il mistero di Genova

Appena un decennio dopo Mussolini, Arturo Michelini stava per andare al governo. Eppure organizza un congresso del partito proprio in una delle città più antifasciste. Era stupido o esiste un’altra spiegazione? di Enzo Carra ercoledì mattina, a pochi metri dal mio scanno di Montecitorio, ho assistito alla rissa («non solo verbale» aggiungerebbe il cronista per alludere ad un cazzottone sull’occhio) tra alcuni deputati del Pdl e il dipietrista Barbato. Flashback: molti anni orsono quelli che oggi si picchiano e si insultano erano insieme a tirar monetine a Craxi e ad acclamare Di Pietro. Avanti: mentre proseguono gli scontri (il resocontista di un tempo avrebbe riferito di «epiteti irriferibili») poco lontano dall’aula, nelle strade del centro le forze dell’ordine manganellano i terremotati aquilani. La seduta sta per essere sospesa, stiamo per lasciare l’aula, uno di noi si alza a commemorare i morti di Reggio Emilia del luglio ‘60.

M

Cinquant’anni fa. Come oggi, i primi giorni di luglio. In quei giorni - dal due al quattro luglio del ’60 - si sarebbe do-

vuto tenere a Genova il Congresso del Movimento sociale. A presiederlo sarebbe stato Carlo Emanuele Basile, prefetto repubblichino della città medaglia d’oro della Resistenza. Il 28 giugno Sandro Pertini, direttore de Il Lavoro, dichiara che quel Congresso non si deve fare.

Fernando Tambroni Armaroli è a capo di un esecutivo monocolore Dc sostenuto dai voti determinanti dei missini guidati dal moderato Arturo Michelini. Un governo a sorpresa: sperava nei voti socialisti, ebbe quelli dei fascisti. Secondo Andreotti (Governare con la crisi. Dal 1944 a oggi): «Era difficile per il governo non assicurare la celebrazione del proprio Congresso a qualsiasi partito, ma era addirittura impossibile che ne fosse impedito un partito della maggioranza» Tambroni resiste dunque all’appello di Pertini. Ma «dal porto salgono gli echi

di grandi ondate, come quando il mare fa le pecore», commenta Italo Pietra nella sua biografia di Moro. E infatti dalla ribellione di Genova l’eco si diffonde dolorosamente per l’Italia. Il sei luglio i fatti di Porta San Paolo, con i carabinieri a cavallo guidati da Raimondo D’Inzeo, tra qualche settimana medaglia d’oro politica, a caricare i manifestanti. Tra questi molti parlamentari socialisti e comunisti, e molti di loro torneranno insanguinati alla Camera. «Sandro (Pertini, ndr), che c’era, è indignato per la provocazione ministeriale ma anche per il modo sciocco e ingenuo con cui la manifestazione è stata organizzata» scrive Pietro Nenni nella sua pagina di diario di quel sei luglio. Il Fernando Tambroni Armaroli. In alto, un’immagine degli scontri di Genova. Nella pagina a fianco: Arturo Michelini

giorno dopo, il sette, ci sono anche i morti. Cinque a Reggio Emila. E poi a Palermo e Catania.

Annega nel sangue l’avventura politica di Fernando Tambroni Armaroli e si apre la stagione del centrosinistra. Perché i missini avevano chiesto di svolgere il loro Congresso proprio a Genova? Arrivati quasi per caso nei paraggi del governo si troveranno così, nel giro di pochi mesi, nuovamente relegati all’opposizione e fuori dell’arco costituzionale. Erano trascorsi appena quindici anni dalla liberazione, un periodo più breve degli anni berlusconiani che stiamo vivendo. La presenza di un partito neofascista in maggioranza, impensabile fino alla vigilia della presentazione di Tambroni alla Camera, si era già realizzata tra dimissioni e polemiche. Il presidente del Consiglio, dimessosi dopo che


10 luglio 2010 • pagina 25

tre suoi ministri, Pastore, Sullo e Bo lo hanno lasciato per il voto dei missini, viene rinviato al Senato da Gronchi i cui rapporti con la sinistra erano sempre stati ottimi e che, da ultimo, aveva cercato di convincere Nenni ad appoggiare Tambroni. Il quale, secondo gli accordi, avrebbe dovuto limitarsi a un governo amministrativo e provvisorio per lasciare il campo alla fine di ottobre con l’approvazione del bilancio. In questa situazione di estrema precarietà, come viene in mente al segretario missino la provocazione del Congresso di Genova?

Una prima risposta, che poggia soprattutto sulla personalità di Tambroni, è che a lui stesso quel pasticcio non dispiacesse molto. Già ministro dell’Interno, così lo ricorda Andreotti, «si divertiva a lasciar credere di conoscere i segreti di tutti1 ma, in effetti, «aveva un archivio nel quale faceva raccogliere ritagli di stampa e qualche nota non so di quale bizzarra provenienza». Si diceva che nel suo incarico al Viminale avesse guadagnato anche la collaborazione di alcuni servizi. In particolare di quegli agenti catturati dagli inglesi al termine della guerra e riammessi poi in servizio e chiamati “maltesi” per via di un soggiorno forzato nell’isola. Di quegli agenti e della loro sagacia menava gran vanto e un po’ spaventava i suoi colleghi di partito. Partito da sinistra, dopo aver organizzato con Gronchi negli anni Cinquanta il Convegno di Pesaro – insolita riunione della sinistra Dc contro il patto atlantico – Tambroni insomma poteva anche puntare a un gollismo all’italiana. Poteva giocare spregiudicatamente sui conflitti di piazza guidati dal Pci per occupare uno spazio reazionario e anticomunista. La sua del resto non è soltanto una stagione politico-muscolare. Dalla sua parte c’è, ad esempio, Gianni Baget Bozzo con una rivista, Lo Stato, che mette insieme tante cose vecchie e nuove della cultura non marxista. Insomma, trovandosi nelle mani un’occasione, pericolosa ma molto interessante, Tambroni prova a sfruttarla fino alla fine. Con la polizia e i morti. Prova a dividere il Paese e conta di stare dalla parte della maggioranza. Certo, osserva Nenni, quel dc marchigiano ha giocato, e molto, fin dall’inizio del suo mandato. «Avrebbe dovuto dire: Sono qui per la forza delle cose; chiedo alla Camera due mesi di tregua politica» e «né noi, né Saragat, né Oronzo Reale avremmo potuto in questo caso rifiutare la nostra astensione. Invece Tambroni – scrive il leader socialista nel suo diario del 4 aprile

’60 – si è avventurato in un programma di dieci anni». Cuore avventuroso. Prove da uomo forte. Un potenziale golpista pronto a strumentalizzare la protesta antifascista provocata dai missini? Malgrado gli spioni maltesi e le sue borse zeppe di ritagli, Tambroni viene sconfitto dai ragazzi «con le magliette a strisce» di Genova e di Porta San Paolo. «L’illuminato vincitore di Firenze (il Congresso Dc dell’“apertura a sinistra”, ndr) era divenuto il terribile reazionario del luglio genovese del 1960. Così passa la gloria del mondo», sentenzia Giu-

avremmo precisato il nostro programma, definito le nostre convinzioni democratiche, offerto garanzie». Come si fa a credere che nel ’60 il Msi di Michelini preparasse un anticipo della svolta di Fiuggi? «Bisogna credere che ministri, prefetti, questori, siano degli imbecilli se hanno creduto che nelle circostanze pesanti Genova potesse subire in silenzio la provocazione», scrive ancora Nenni il primo luglio. E due giorni dopo saluta la «vittoria della coscienza antifascista del Paese», come «uno stimolo alla svolta a sinistra, proprio quello che i comunisti non vogliono».

Che i missini siano stati utilizzati per accelerare i tempi del “connubio” tra Dc e Psi? La grande paura di un’avventura autoritaria avrebbe condizionato e reso “irreversibile” l’alleanza di centrosinistra guidata dai due “cavalli di razza”, il saggio Moro, l’animoso Fanfani. Andreotti - allora quantomeno “tiepido” sulla svolta a sinistra - osserva: «Può sembrare strano che i missini non prevedessero la reazione furiosa dei partigiani di tutta Italia, ma probabilmente - essendo al corrente delle manovre antitambroniane - volevano sperimentare se la Dc non si fosse servita di loro per passare un guado complicato e fosse già pronta a rinviarli nel ghetto» (Governare con la crisi. Dal 1944 a oggi). Michelini, secondo Andreotti, avrebbe scommesso l’intera posta. Era un giocatore talmente sventato? Uno storico di destra, Adalberto Baldoni (La destra in Italia: 1945 - 1969), ricostruisce gli avvenimenti insistendo sulla «responsabilità oggettiva» del gruppo dirigente missino nell’aver spianato la strada agli avversari politici del loro partito. Una scelta «inopportuna e infelice» come quella di Genova «indirettamente contribuirà all’affermazione della linea di Moro e Fanfani, favorevoli all’apertura a sinistra». Il Movimento sociale micheliniano era stato strumentalizzato, afferma lo storico della destra italiana. Pure, un po’di elementare buonsenso in quel luglio di mezzo secolo fa avrebbe impedito un colossale errore politico del partito neofascista e avrebbe evitato i morti di Reggio Emilia, di Palermo e di Catania. Già, buon senso. O senso dei limiti. Se non ci furono certamente altre devono essere state le ragioni per una sfida con la piazza il cui esito era scritto. Nel sangue.

Cronistoria del governo monocolore appoggiato dai missini

I quattro mesi che sconvolsero l’Italia (e silurarono Tambroni) 21

MARZO 1960. Il governo monocolore democristiano proposto da Fernando Tambroni ottiene la fiducia della Camera, per soli tre voti di scarto (300 sì e 297 no), con il determinante appoggio dei deputati missini. La circostanza causa l’abbandono dei ministri appartenenti alla sinistra della Democrazia cristiana Giorgio Bo, Giulio Pastore e Fiorentino Sullo.

11 APRILE. Dietro esplicito invito della Dc, il governo rassegna le dimissioni che vengono respinte dal presidente Giovanni Gronchi, che invece lo spinge a presentarsi al Senato per completare la procedura del voto di fiducia. 29 APRILE. Ancora con l’appoggio dei missini e con pochi voti di scarto (128 sì e 110 no), il governo Tambroni guadagna la fiducia anche del Senato. 21

Giancarlo Pajetta viene interrotto da un commissario di Polizia che chiede di sciogliere la manifestazione per motivi di ordine pubblico: scoppiano disordini ed il governo ne esce indebolito e tra mille polemiche.

La destra potrebbe essere stata “usata” per accelerare i tempi dell’accordo tra Dc e Psi, voluto da Moro e da Fanfani lio Andreotti (Visti da vicino). Che si sia trattato di un tentativo autoritario sfuggito di mano allo stesso Gronchi è tuttavia una tesi troppo semplice e riduttiva. Che soprattutto non mette nella giusta luce e nel giusto rilievo il ruolo del Movimento sociale di Arturo Michelini. Partito che aveva inaspettatamente bruciato le tappe nel suo avvicinamento al governo: passare da Salò alla repubblica nata dalla Resistenza in poco meno di quindici anni è pur sempre un record. E non fa niente se, poco tempo prima, lo stesso Movimento sociale aveva brevemente sostenuto con i comunisti il governo siciliano dell’ex Dc Silvio Milazzo. Chi glielo fece fare al moderato Arturo Michelini di sciupare tutto convocando a Genova il grande ring per il nuovo combattimento tra fascismo e antifascismo?

Non mi convince la spiegazione per così dire “ufficiale”di parte missina. L’ex ambasciatore di Salò a Berlino, Filippo Anfuso, spiega: «Eravamo andati a Genova animati dai migliori propositi. Se ci avessero lasciato tenere il Congresso,

MAGGIO. Nel corso di un comizio del Pci, a Bologna,

15 GIUGNO. Il ministro dello Spettacolo, Umberto Tupini, annuncia che ci sarà una drastica censura per tutti quei film con «soggetti scandalosi, negativi per la formazione della coscienza civile degli italiani». Sotto accusa c’è anche il film di Federico Fellini, La dolce vita. 30 GIUGNO. Viene organizzata una manifestazione della sinistra a Genova, contro lo svolgimento del sesto congresso del Movimento sociale (Msi), che poi non si tiene. Un gruppo di alcune migliaia di manifestanti, tra cui molti portuali, alla fine della manifestazione viene coinvolto in forti scontri con la polizia, che vedranno decine di feriti da ambo le parti. 7 LUGLIO. Una manifestazione sindacale a Reggio Emilia finisce in tragedia quando la polizia e i carabinieri sparano sulla folla in rivolta, che si era impossessata di una camionetta: ben sette morti e numerosi feriti. Alla Camera riunita giunge la drammatica notizia, e dai banchi della sinistra si chiedono con forza le dimissioni del governo.

14 LUGLIO. Il presidente del Consiglio afferma alla Camera, prendendo spunto dalla visita di Togliatti a Mosca, che «questi incidenti sono frutto di un piano prestabilito dentro il Cremlino». Sostiene che dietro le rivolte ci sia la sinistra filo-sovietica. 19

LUGLIO. Il Governo rassegna le dimissioni, osteggiato dalle correnti di Moro e Fanfani della stessa Dc. Tambroni abbandona la vita politica.

26 LUGLIO. Fanfani viene nominato a capo di un nuovo governo monocolore democristiano.


mondo

pagina 26 • 10 luglio 2010

Parigi. Mentre si sgonfiano le accuse di tangenti per Sarkozy, riemergono tutti gli “affari sporchi” che hanno colpito l’Eliseo

Scandali “au soleil” Da Mitterand (Mazarine) a Giscard d’Estaing, tutti i sassolini nelle scarpe dei leader francesi di Enrico Singer ista attraverso le lenti italiane, deformate dalla raffica degli scandali di casa, la bufera che si è rovesciata su Nicolas Sarkozy appare quasi un consolatorio pareggio. Come dire che i cugini francesi, che sono sempre pronti a criticare e a deridere il degrado politico altrui, non se la passano poi molto meglio. Già i mondiali di calcio ci avevano uniti in un disgraziato gemellaggio di grandi decaduti. Adesso è la volta dei fondi neri. Tanto che il commento più comune comparso negli ultimi giorni sui nostri giornali è stato: anche la Francia scopre la questione morale. Ma la Francia, in realtà, la que-

V

euro per noleggiare un jet privato che lo portasse nella Martinica per una riunione sul terremoto a Haiti) e del sottosegretario alla Grande Parigi, Christian Blanc che ha speso 12.500 euro dei contribuenti per comprare sigari da offrire ai suoi ospiti. Passando per il caso forse più clamoroso, ancorché molto privato: quello della figlia segreta di François Mittrerrand, Mazarine, nata dalla relazione extraconiugale tra l’ex presidente e la direttrice del dipartimento scultura del Museo d’Orsay, Anne Pingeot. Una storia tenuta nascosta per ventidue anni che in tanti sussurravano a Parigi, ma che divenne pubblica soltanto quan-

Non solo sigari cubani: per le scrivanie di presidenti e ministri sono passati diamanti, sangue infetto, armi di vario calibro da vendere in Africa e molto altro ancora. Il prezzo dell’avidità stione morale l’ha scoperta da un pezzo. Anzi, l’elenco degli scandali che hanno coinvolto personalità di primo piano è lungo anche se ci guardiamo indietro soltanto di trent’anni. Dai diamanti che Valery Giscard d’Estaing avrebbe accettato dal dittatore centroafricano, Bokassa, al Watergate dell’Eliseo: le intercettazioni ordinate da Mitterrand per spiare centinaia di esponenti della politica, dell’economia e della cultura. Dall’affondamento della Rainbow Warrior, la nave di Greenpeace che voleva impedire gli esperimenti nucleari sull’atollo di Mururoa, agli affari africani di Jean-Christophe Mitterrand - uno dei figli dell’ex presidente - che fu condannato anche a due anni di galera per traffico d’armi.

Dal caso del sangue infetto dal virus dell’Aids che ha portato in tribunale l’ex premier, Laurent Fabius, a quello dei favori fatti al gigante petrolifero Elf che ha coinvolto l’ex ministro degli Esteri, Roland Dumas. Dal sistema di tangenti che Jacques Chirac avrebbe organizzato quando era sindaco di Parigi, fino ai recentissimi scandali delle spese pazze del sottosegretario per la Cooperazione, Alain Joyandet (116.500

do la ragazza comparve al funerale del padre, nel gennaio del ’96, in lacrime accanto alla madre e a Danielle, moglie legittima di Mitterrand, al cimitero di Jarnac.

Sono vicende di fronte alle quali appaiono davvero poca cosa i 150mila euro che la miliardaria Liliane Bettencourt, proprietaria del gruppo L’Oréal, avrebbe versato al comitato elettorale di Nicolas Sarkozy per spingere la sua corsa verso l’Eliseo. Tanto più che l’ex segretaria della miliardaria, la grande accusatrice del presidente, adesso ha anche in parte ritrattato. Ma in Francia – e questa è la grande differenza con l’Italia – non conta tanto l’entità dello scandalo quanto il modo in cui viene gestito dai protagonisti: accusatori, accusati e grandi mezzi d’informazione. Si possono ignorare storie imbarazzanti – per esempio l’esistenza della figlia segreta di Mitterrand era qualcosa di più di un sospetto anche quando il presidente socialista era in vita, eppure non fu mai usata come un’arma politica – e si può perdere il posto – come è accaduto ai due sottosegretari che si sono dimessi – per i sigari e un volo su un jet privato. Anche nell’ultima campagna

L’ex segretaria ritratta

Cronistoria dell’affaire Bettencourt Il 16 giugno il sito Mediapart pubblica estratti delle registrazioni pirata realizzate tra maggio 2009 e maggio 2010 dal maggiordomo di Liliane Bettencourt, ereditiera dell’Oreal, da cui emergono frodi fiscali, donazioni a membri del partito di maggioranza (l’Ump) e legami tra la miliardaria, Eric Woerth, ministro del Lavoro ed ex ministro del Bilancio, e la moglie Florence, che dal 2007 lavora per Clymène, la società che gestisce la fortuna della Bettencourt. Il 21 giugno Woerth annuncia che la moglie si dimetterà da Clymène; quindi afferma che né lui né sua moglie erano «al corrente di frodi o evasione fiscale» e nega di aver bloccato un’indagine del fisco nei confronti di Bettencourt o dell’Oreal. Il ministro esclude le dimissioni e riceve il sostegno del primo ministro Fillon. Il 25 giugno il procuratore di Nanterre afferma di aver messo a disposizione delle autorità fiscali un dossier su possibili frodi da parte della Bettencourt. Il 26 giugno Sarkozy afferma di non avere alcuna intenzione di chiedere al ministro del Lavoro di dimettersi dall’incarico di tesoriere dell’Ump. Il 6 luglio una ex contabile della Bettencourt afferma che Woerth ha ricevuto nel 2007, in qualità di tesoriere, 150mila euro in contanti per finanziare la campagna di Sarkozy. Lo staff di Sarkò e il gabinetto di Woerth negano, il ministro ribadisce di non avere intenzione di dimettersi. E due giorni fa l’ex contabile, alla polizia, inizia a ritrattare.

elettorale le turbolente questioni private di Sarkozy e della sua sfidante Ségolène Royal non hanno avuto quasi alcuna rilevanza, nonostante tutti sapessero che entrambi erano sull’orlo del divorzio dai rispettivi partner puntualmente avvenuto dopo il voto con Ségolène che ha lasciato l’ex segretario socialista, François Hollande, e Nicolas che ha lasciato Cecilia per sposare Carla Bruni. Senza dire, poi, che il controllo del potere politico sulla magistratura è più forte che altrove e che lo stesso lodo Alfano è ispirato alla legge che in Francia già garantisce la non perseguibilità del capo dell’Eliseo durante il suo mandato, tanto che Chirac sta affrontando soltanto adesso i suoi problemi giudiziari e che Sarkozy sarebbe comunque al sicuro fino al maggio del 2012 – ed oltre in caso di rielezione - anche per i regali di madame Bettencourt.

Ma proprio in queste date sta la vera ragione del nervosismo del presidente: la bufera che lo ha investito è un segnale molto chiaro quanto – per lui – allarmante. Nel suo stesso partito, l’Ump, è cominciata la lotta per la successione a un leader considerato, ormai, in declino. L’obiettivo, più o meno dichiarato, dei colonnelli dell’Union pour un mouvement populaire è salvare una candidatura alle prossime presidenziali, con la speranza che non sia una candidatura alla sconfitta. L’ ultimo sondaggio dell’Ipsos ha segna-

to il più basso livello di consenso (appena il 26 per cento) a tre anni dal trionfo di Sarkozy quando la Francia delusa dal gollismo immobile di Chirac, puntò sul cinquantaduenne uomo della rottura con il passato che proponeva il riscatto di una destra moderna, riformista e ambiziosa.Tra il 2007 e oggi c’è di mezzo la crisi economica globale e Sarkozy – in questo assai simile a Silvio Berlusconi – è un leader che vuole apparire sempre e soltanto vincente.

In Europa, invece, si è dovuto piegare ad Angela Merkel e, in politica interna, aveva promesso una «democrazia trasparente e irreprensibile», ma è finito nella sabbie mobili dei conflitti d’interesse, delle pressioni sulla stampa, dei nepotismi. Non solo. In Italia la pesante sconfitta dell’Ump alle regionali del marzo scorso è passata quasi inosservata, ma nei palazzi del potere parigini è stata un campanello d’allarme violento. La maggioranza tornata ai socialisti in quasi tutti i Dipartimenti, la drammatica crescita dell’assenteismo e il rafforzamento dell’estrema destra hanno fatto scalpitare i cavalli di razza del partito del presidente – da Alain Juppé, a Jean-François Copé, a François Fillon e, soprattutto, a Dominique de Villepin - che cominciano a sognare la successione. Già prima che esplodesse l’affaire Bettencourt, Nicolas Sarkozy aveva annunciato un serio rimpasto del suo governo


mondo

per settembre, confidando in una tregua estiva. Aveva anche annunciato che, quest’anno, la tradizionale festa per i vip nei giardini dell’Eliseo, che segue la parata del 14 luglio, non ci sarà. L’anno scorso era costata 700mila euro e il clima di austerità non la consente. Sarkozy ha anche messo nero su bianco una serie di tagli al budget dell’esecutivo: riduzione delle spese dei ministeri del 10 per cento, tetto massimo di 20 collaboratori per ministro (oggi sei ministri del governo Fillon sfon-

Sarkozy e che avrebbe materialmente ricevuto la busta con i 150mila euro in contanti. Woerth, oggi ministro del Lavoro, fino a qualche mese fa era ministro del Bilancio e, in quanto tale, era anche responsabile del fisco. Un patericolare deciso perché sua moglie, Florence era il gestore del patrimonio di Liliane Bettencourt: coincidenza che aumenta i sospetti di conflitto d’interessi e d’intreccio di favori.

Nei confronti del ministro, tut-

I 150mila euro che sarebbero stati versati nelle casse del comitato elettorale dell’Ump sbiadiscono, confrontati con la figlia illegitima dell’ex presidente, presentata al funerale del padre dano il tetto) e solo 4 collaboratori per i sottosegretari (che attualmente sono tutti fuori limite). Tagli anche per viaggi e auto blu, anche se il presidente non ha rinunciato al suo nuovo aereo privato: un Airbus A330 da 176 milioni di euro (e 20mila euro per ora di volo) con sala per le riunioni, 60 posti, una camera da letto e una vera doccia.

Adesso tutto questo rischia di non avere più valore. Sarkozy si sente assediato. Continua a dire che le accuse contro di lui sono soltanto «malvage invenzioni». E difende – per ora – il fedelissimo Eric Woerth che, nella primavera del 2007, era il tesoriere della di campagna elettorale

tora tesoriere dell’Ump, le notizie imbarazzanti sono ormai una lunga catena, compreso il rimborso di 30 milioni di euro di cui avrebbe beneficiato madame Bettencourt grazie allo scudo fiscale e nonostante si fosse “dimenticata” di dichiarare due conti in Svizzera da 80 milioni di euro e la proprietà di un’isolotto delle Seychelles. Per Sarkozy, insomma, si annuncia un 14 luglio di fuoco. E tornano a galla i suoi precedenti

passi falsi. A cominciare da quello che lo ha visto coprotagonista assieme con il figlio secondogenito Jean che ha 24 anni e che era candidato ad assumere – nonostante la sua giovane età e la sua quasi nulla esperienza – la guida del consorzio che amministra il quartiere degli affari della Defense. Carica alla quale ha poi dovuto rinunciare accontentandosi del ruolo di consigliere del comune di Neully – il sobborgo più elegante di Parigi – dove, guarda caso, abita anche la signora Bettencourt. Altro passo falso di poche settimnane fa era stato un maldestro tentativo di intervento nella partita per il salvataggio del quotidiano Le Monde con l’obiettivo di fermare alcuni acquirenti vicini alla gauche. Di nuovo, si potrebbe dire che questi sono piccoli episodi nella grande catena degli scandali che ha attraversato la storia recente della Francia. Ma, di nuovo, questo è un elemento che rende più delicata e difficile la posizione del presidente perché l’esperienza insegna che la situazione è più grave proprio quando sono utilizzati argomenti in apparenza minori per condurre l’attacco a un personaggio che conta. Il caso che più

Carla Bruni insieme al presidente francese Nicolas Sarkozy. In alto, l’ingresso dell’Eliseo. Sopra, dall’alto: l’ex dittatore africano Bokassa; l’ex presidente francese Francois Mitterand; Valery Giscard d’Estaing, protagonista della politica dell’Europa, coinvolto in uno scandalo di diamanti

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somiglia a quello di Nicolas Sarkozy è quello di Giscard, il presidente riformatore che rimase all’Eliseo per un solo mandato, complice lo scandalo fatto scoppiare dal settimanale politico-satirico Le Canard enchaîné che rivelò una storia mai provata: un regalo da un milione di franchi in diamanti da 30 carati ricevuto dal dittatore centroafricano, Jean Bedel Bokassa. Un caso esploso proprio durante la campagna elettorale delle presidenziali del 1981 in cui Valere Giscard d’Estaing si trovò di fronte non soltanto un agguerrito François Mitterrand, candidato socialista, ma anche il suo ex primo ministro, il gollista Jacques Chirac che, dall’autunno del 1978 conduceva una guerra senza quartiere contro Giscard e suo nuovo premier, Raymond Barre. Al al primo turno, Giscard ottenne il 28,3 per cento dei voti e il candidato socialista il 25,8. Chirac, con il suo 17,9 per cento, non riuscì ad entrare nel ballottaggio, tuttavia provocò una forte erosione di consensi ai danni del presidente uscente. Ancora oggi, Giscard afferma di avere la certezza che fu grazie all’azione sotterranea degli uomini di Chirac che, al secondo turno, una frangia consistente dell’elettorato neogollista riversò i suoi voti su Mitterrand con l’effetto di far pendere la bilancia a favore di quest’ultimo. Una versione che è stata confermata anche in libro scritto da Raymond Barre poco prima della sua morte.

Di sicuro, pubblicamente, Chirac subito dopo il primo turno dichiarò che avrebbe votato per Giscard «a titolo personale» con un tono di voce di una tale freddezza da suonare come un’aperta presa di distanza nei riguardi del presidente uscente. Il risultato fu che, nel ballottaggio, Mitterrand conquistò il 51,8 per cento dei voti battendo Giscard che ottenne il 48,2 per cento. È uno scenario che fa tremare i polsi a una parte del vertice dell’Ump che sarebbe ben deciso a regolare la questione della successione a Nicolas Sarkozy prima del prossimo appuntamento elettorale al quale manca poco meno di due anni. Di trame interne di questo genere, del resto, c’è già un precedente. Anche questo legato a uno scandalo: nel 2005 il presidente sarebbe stato vittima di un complotto per impedirgli di arrivare all’Eliseo, ordito da un gruppo di avversari politici capeggiati dall’ex premier, Dominique de Villepin, che è stato scagionato da questa accusa dal tribunale nel gennaio di quest’anno. E che ora sogna una rivincita.


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Usa. Sempre più presente il problema delle vittime e dei reduci di guerra nsieme al tradizionale barbecue, ai fuochi di artificio, alle coccarde e alle bandiere che sventolano ovunque, la festa del 4 di luglio in America si trascina dietro anche un problema che si va aggravando ogni giorno di più. Questa ricorrenza infatti, ogni anno ormai da tempo, accentua il disagio del popolo e dell’amministrazione americani nei confronti dei due conflitti in cui il Paese è impegnato: quello in Iraq e quello in Afghanistan. Soprattutto perché con essi si accentua la nota dolente delle cospicue perdite di vite umane che quotidianamente si registrano su ambedue i fronti. Tra morti, feriti, suicidi, malattie mentali gravi e altre patologie fisiche e psicologiche che esplodono più tardi, secondo fonti non ufficiali salgono a 500mila le cosiddette casualties che hanno afflitto e continuano ad affliggere le truppe americane in queste due guerre. Sul Los Angeles Times lo scrittore Matthew Nasuti - ex capitano dell’aviazione, avvocato al tribunale di Los Angeles ed esperto militare - afferma infatti che «le lesioni croniche, le lesioni interne o cerebrali di natura non gravissima e di minore entità, i problemi di udito o quelli mentali riportati dal personale che ha servito in Iraq ed in Afghanistan non sono conteggiate tra i danni di guerra a prescindere dal grado di debilitazione o infermità che provocano. O sono infatti raggruppate nella categoria di ‘ferite non dovute ad ostilità’ o semplicemente non sono registrate. Ma le conseguenze anche gravi che queste persone patiscono sono di diversa entità ed in alcuni casi sono addirittura devastanti».

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S e m p r e p iù d i f r e q u e n t e in tv, specie nei notiziari, passano in silenzio sullo schermo i nomi e i volti dei giovani che hanno perso la vita nei due conflitti. Quasi nessuno di loro supera i 30 anni. Soprattutto il fronte afghano continua a mietere il più alto numero di vittime nella più lunga guerra che gli Stati Uniti abbiano mai combattuto nella loro storia, inclusa quella per l’indipendenza. Una guerra, quella afghana, cominciata nel 2001 a seguito dell’attacco alle Torri gemelle, che ha avuto diverse fasi e che ora concentra l’attenzione dell’amministrazione Obama. Nel corso della storia americana, le amministra-

Iraq e Afghanistan, “rinati” il 4 luglio L’America celebra l’indipendenza e i due conflitti in cui è impegnata di Anna Camaiti Hostert

zioni democratiche mostrano il fianco quando è il momento di decidere strategie appropriate nei confronti dei conflitti in Asia. Durante la guerra in Vietnam, l’escalation fu decisa da Lyndon Johnson. Adesso in Afghanistan Obama ha deciso di inviare ancora 30mila soldati entro l’estate 2010, fissando però la data del ritiro definitivo nel luglio del 2011. Questa nuova scelta, annunciata dal presidente all’accademia militare di West Point, è stata criticata da molti anche nel suo partito. Il presidente ha tuttavia motivato questa opzione come l’unica possibile in quanto risponde ad un numero strategicamente consistente di obiettivi immediati che non possono essere più rimandati : respingere i continui avanzamenti dei talebani proteggendo il popolo afgano, aumentare gli attacchi nei confronti di al Qaida in Pakistan per giungere ad una sua sconfitta definitiva, mettere sotto pressione il governo del-

l’Afganistan, perché riduca la corruzione, addestri un suo esercito e implementi solide istituzioni. Dopo ciò è necessario andarsene. La difficile scelta di Obama trova la maggioranza del popolo americano favorevole ad un ritiro dall’Afganistan entro l’estate del 2011, come hanno mostrato i risultati di un’inchiesta di Usa-Today/Gallup del 25-26 giugno scorsi già dopo la sostituzione del generale McCrystal. La maggioranza confida infatti nella capacità degli Stati Uniti di raggiungere gli obiettivi stabiliti: primo fra tutti quello di respingere gli attacchi dei talebani e di sconfiggerli definitivamente insieme ad al Qaida, poi quello di creare un goafgano verno onesto e capace di dare direttive efficaci per la ripresa economica. Un po’ in calo è invece il con-

Nel corso della storia americana, i governi democratici mostrano sempre il fianco, quando è il momento di decidere le strategie in Asia

senso popolare nei confronti di come Obama gestisce in generale l’intera situazione in Afganistan. Qui il 50% degli americani trova il suo approccio buono e molto soddisfacente contro il 44% che invece lo definisce scarsamente appropriato o addirittura insufficiente. Allo stesso tempo questa sembra essere una guerra trascurata e dimenticata che viene a galla solo saltuariamente quando emergono grandi nomi come nel caso della sostituzione di un generale con un altro al comando delle truppe. Nei media e sui giornali si parla poco dei danni alla popolazione civile, di come sarà difficile uscire dall’impasse di una situazione economica disastrosa e insufficiente e di come gli afgani si rapportino agli americani che sono nel loro paese.

Un recente documentario - Camp victory, Afghanistan - della regista americana Carol Dysinger, racconta come nel tentativo di creare un esercito nazionale gli esperti americani si misurino con queste difficoltà e con l’avvilimento degli ufficiali afgani che cerano di superare le barriere culturali che li dividono. Il video mostra le frustrazioni da ambedue i lati, soprattutto da parte delle giovani reclute in gran parte analfabeti che si arruolano solo per sfuggire alla miseria e che vedono negli americani una forza estranea ai loro problemi. Dall’altro lato gli americani si trovano di fronte una situazione oggettivamente complicata nella quale è difficile insegnare rigore e disciplina. Ma il documentario mostra che assieme a quelli che sembrano contrasti inconciliabili esiste anche la possibilità di creare legami saldi e affetti forti. Trasformare una società tribale in un Paese con un governo nazionale efficiente e un’economia primitiva in una moderna ed evoluta può richiedere generazioni. Erigere le fondamenta di un esercito capace di creare sicurezza comporta una sfida da affrontare ad ogni piccolo passo, ma è possibile, e soprattutto è l’unica condizione che permetta in quel Paese la creazione di un governo che funziona e di un’economia che decolla.


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Un uomo in motocicletta si fa esplodere vicino alla polizia

Nessuna condanna formale per l’affondamento della Cheonan

Pakistan, attentato nel Nord: 56 vittime

Pyongyang graziata dal Palazzo di Vetro

PESHAWAR. L’ennesimo atten-

SEOUL. Il Consiglio di Sicurez-

tato suicida che insanguina il Pakistan è avvenuto ieri nella regione della Provincia nordoccidentali, al confine con l’Afghanistan. Un attentatore suicida, a bordo di una motocicletta, si è fatto esplodere nei pressi dell’ufficio del governatore della regione di Mohmand, che nelle ultime settimane è stata teatro di scontri feroci fra i talebani e le truppe di sicurezza. Almeno 56 le vittime dell’attacco: fra queste anche molte donne e bambini. La zona è abitata per la maggior parte da pashtun, etnia dominante nel Paese che si oppone da tempo all’avanzata degli “studiosi del Corano”. Rasool Khan, uno dei vertici della polizia locale, spiega all’agenzia sudafricana Reuters: «Il numero delle vittime è soltanto per ora fermo a 56. Ma il numero potrebbe salire nel corso delle prossime ore, dato che molte persone sono ancora sotto le macerie. I nostri uomini stanno facendo tutto il possibile per liberarle».

za delle Nazioni Unite intende condannare l’affondamento della corvetta sudcoreana Cheonan, in cui morirono 46 marinai, ma non accuserà direttamente Pyongyang dell’attacco. È quanto emerge dal contenuto della bozza di risoluzione votata ieri dal Palazzo di Vetro. La bozza è stata preparata dagli Stati Uniti. Il testo “deplora la perdita di vite umane” causato dall’affondamento, il 26 marzo scorso, ed esprime “profonda preoccupazione” per i risultati dell’inchiesta internazionale sull’accaduto. Secondo gli esperti russi, inglesi e coreani che hanno analizzato i resti della Cheonan, la corvetta è esplosa “a causa di un razzo,

Secondo le fonti ufficiali, i feriti gravi sono circa cinquanta; fonti ospedaliere parlano invece di almeno ottanta casi gravi. Fra i feriti ci sono molti rifugiati, che si erano spostati nei centri abitati per sfuggire agli

L’imam di Hezbollah colpisce (da morto) L’ultima a subire ritorsioni è l’ambasciatrice britannica a Beirut di Pierre Chiartano otremmo dire che mai coccodrillo fu più galeotto. Almeno per la carriera di un diplomatico di Sua maestà britannica e anche di una giornalista Usa. Hezbollah sembra essere diventato un argomento tabù. Il caso britannico è al femminile, perché si tratta dell’ambasciatrice inglese in Libano, Frances Guy, finita nei guai per aver scritto sul suo blog il cosiddetto ”coccodrillo” per l’ayatollah Mohammad Hussein Fadlallah, scomparso domenica. Il diplomatico era in carica dal 2008 nel Paese dei cedri. «Lo sceicco Fadlallah è scomparso ieri. Il Libano è un luogo meno bello il giorno dopo, ma la sua assenza si farà sentire ben oltre i confini del Libano», aveva scritto l’ambasciatrice nel blog ufficiale del Foreign Office. A Gerusalemme non l’hanno presa benissimo. E sono cominciate le proteste. Ma la feluca britannica era andata anche oltre, definendo il religioso come il suo «politico preferito» e un «galantuomo». «Se io sono triste per la notizia so, per certo, che la vita di molti altri ne sarà completamente rovinata. Il mondo avrebbe bisogno di molti uomini come lui, pronti a tendere una mano alle altre religioni, riconoscendo la realtà di un mondo moderno e pronto a scontrarsi con vecchie reticenze. Possa riposare in pace» aveva poi aggiunto la Guy.Yigal Palmor, un portavoce del ministero degli Esteri dello Stato ebraico ha duramente commentato, ironizzando: «l’ambasciatrice britannica pensa che fosse un uomo di pace e che il mondo abbia bisogno di più uomini come lui» come riportato dal Daily Telegraph. Il Foreign Office ha immediatamente risposto alle polemiche affermando che i commenti erano stati fatti a titolo strettamente personale e non rappresentavano in alcun modo la posizione ufficiale del governo inglese. «L’ambasciatrice Guy ha descritto la persona di Shiekh Sayyid Mohammad Hussein Fadlallah per come l’ha consociuta» si legge nella nota del ministero degli Esteri britannico. Per venire incontro alle richieste israeliane il ministero ha rimosso il commento della

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Guy dal blog della pagina ufficiale del servizio diplomatico. Il post che s’intitolava «La scomparsa di un galantuomo» non è più rintracciabile sul sito delle feluche britanniche. E che l’argomento dell’ayatollah libanese sia piuttosto scottante lo dimostra il fatto che proprio mercoledì scorso la Cnn aveva licenziato in tronco una corrispondente dal Medioriente.

Octavia Nasr aveva scritto su Twitter un post di 140 caratteri sulla morte dell’anziano religioso sciita. Nato a Najaf in Iraq nel 1935 da una famiglia libanese, Fadlallah, negli anni, aveva fondato numerose scuole religiose, biblioteche, centri di assistenza per le donne. Era considerato in mentore spirituale di Hezbollah. Nel 1966 era tornato in Libano. Cominciò così il suo lavoro a Beirut est nella Usrat Ataakhi, la Famiglia della fratellanza, un’associazione sciita che lo aveva invitato a restare nel Paese. Negli anni Ottanta fu bersaglio di numerosi tentativi di assassinio, visto che veniva ritenuto uno dei capi di Hezbollah, ruolo però sempre negato da Fadlallah e da Hezbollah. Ha sempre sostenuto delle posizioni fortemente antiamericane e revisioniste sull’Olocausto. La giornalista della Cnn aveva definito Fadlallah «uno dei giganti di Hezbollah che rispetto molto». Il vicepresidente della rete per gli affari internazionali Parisa Khosravi ha spiegato: «abbiamo deciso che non poteva più lavorare in questa azienda. La sua credibiltà per occuparsi di affari mediorientali è compromessa». Una volta accortasi delle reazioni suscitate dal suo messaggio la Nasr aveva replicato: «sembrava che appoggiassi tutte le opinioni di Fadlallah. Non è così». La giornalista ha poi spiegato che il «rispetto» per l’ayatollah era legato alla sua unica posizione, tra gli imam sciiti, a favore dei diritti delle donne. Ammetteva persino che, in caso di grave rischio per la vita della madre, fosse possibile l’aborto. Comunque la spiegazione non è stata sufficiente per convincere i vertici di Atlanta.

Licenziata anche una reporter della Cnn, che aveva espresso rispetto dopo la morte di Fadlallah definendolo un “galantuomo”

scontri fra militari e integralisti islamici. Erano sul luogo dell’attacco perché è lì che vengono distribuiti i generi di prima necessità proprio a favore degli sfollati. Riaz Hussain, testimone oculare, racconta: «Ero a circa duecento metri dal luogo dell’esplosione, quando ho sentito il botto. Non conosco la dinamica esatta dell’accaduto, ma ho visto i corpi a terra senza vita e tutte le persone che scappavano». Un ufficiale di polizia spiega inoltre che nella deflagrazione è crollato il muro di una prigione, da cui sono scappati i detenuti. Il Pakistan ha lanciato nello scorso anno due imponenti azioni contro i talebani. Questi hanno promessi di vendicarsi.

sparato da una nave nordcoreana”. Il testo statunitense ha avuto il via libera dei cinque membri permanenti del Consiglio. Fra questi anche la Cina, il principale alleato della Corea del Nord, che ha adottato una politica semi-neutrale sull’incidente. Pechino ha dichiarato di “non voler coprire nessuno” e ha condannato “gli atti che mettono a rischio la pace nella penisola”, ma non ha mai nominato direttamente Pyongyang.

Seoul, che attendeva una condanna diretta del Nord, ha espresso “rincrescimento” per la decisione del Consiglio, ma ha aggiunto che intende “adattarsi alla decisione”. In base a quanto riferito da esponenti del governo del Sud, però, va avanti il progetto di esercitazioni militari congiunte con gli Stati Uniti.Washington invierà nelle acque territoriali coreane la portaerei a propulsione nucleare USS George Washington, l’ammiraglia da 97.000 tonnellate della VII Flotta che si trova a Iokosuka, in Giappone. In più è atteso anche l’invio di un cacciatorpediniere Aegis e di un sottomarino nucleare, mentre Seoul farà partecipare un cacciatorpediniere da 4.500 tonnellate, un sottomarino e alcuni caccia F-15K.


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il personaggio della settimana Ritratti. Il ricordo di uno dei più instancabili e prolifici protagonisti del nostro panorama musicale

L’ultimo swing del «giovanotto matto» Musicista, compositore, raffinatissimo uomo di spettacolo che ha fatto esplodere il jazz nelle radio italiane: per oltre 40 anni Lelio Luttazzi ha segnato la musica italiana di Adriano Mazzoletti i è spento nella notte fra mercoledì e giovedì nella sua casa di Trieste, in Piazza dell’Unità, fra le braccia di sua moglie Rossana. Così a 87 anni se n’è andato Lelio Luttazzi, una delle grandi personalità della musica e dello spettacolo. Come tutte le persone pigre, Lelio che pigro forse non era così come diceva di essere, è stato in realtà, almeno per oltre quarant’anni, uno dei più instancabili e prolifici protagonisti della vita musicale in Italia. Aveva 18 anni quando avvenne l’incontro che gli cambiò la vita. Fu chiamato a dirigere l’orchestra di fossa di uno spettacolo studentesco al Politeama Rossetti di Trieste, la cui vedette era uno dei cantanti più celebri e celebrati dell’epoca: Ernesto Bonino.

S

Luttazzi, che suonava già assai bene il pianoforte, in quell’occasione lasciò la direzione dell’orchestra, salì sul palcoscenico e accompagnò Bonino, suonando a orecchio (conosceva a memoria tutti i successi di quel cantante). Bonino, sorpreso dalle capacità di quel ragazzo non ancora ventenne, gli chiese di scrivere una canzone, cosa che Lelio fece immediatamente componendo di getto musica e parole di Giovanotto matto. Dopo l’immediato successo di quel motivo decise di abbandonare gli

studi di Giurisprudenza per iniziare la carriera di musicista. Giovanotto Matto gli aveva portato fortuna e così invece di fare l’avvocato a Trieste è diventato uno dei più importanti musicisti e personaggio rappresentativo dello spettacolo italiano. Trieste era all’epoca una città molto vivace. Erano aperte almeno otto sale da ballo e sei fra ristoranti e caffè dove suonavano complessi formati da tre a otto-dieci musicisti. Oltre ai celebri Caffè degli Specchi, il Caffe Dante e Caffè Roma a Via Carducci, frequentato da scrittori ed intellettuali della Trieste fine Ottocento fra cui Italo Svevo, i cui nipoti compagni di scuola di Lelio, finirono tragicamente. I più grandi dispersi in Russia, l’ultimo ucciso da un cecchino fascista quando già Trieste era stata liberata. Quel tragico evento lo colpì così tanto che per tutta la vita i suoi occhi si inumidivano quando ricordava quel giorno così orribile. Ma oltre ai locali notturni dove si suo-

nava molta musica di ispirazione jazzistica, Trieste, forse unica in Italia, per quanto riguarda la musica americana, aveva un altro primato, quello di aver dato i natali a Vladimiro Miletti, ultimo dei grandi futuristi e primo di essi ad aver dato dignità al jazz con il suo poema Aria di Jazz. Parole in libertà del 1934. Nella sua opera Miletti si proponeva di «rendere la simultaneità di suono-impressione provocata dal jazz», di «sincronizzare i ritmi delle parole in libertà con quelli del jazz» e «vivificare e sintetizzare l’ambiente caratteristico del jazz». Un altro incontro determinante per la sua carriera fu quello con Ferruccio Merk, altro triestino che aveva preso il nome di Teddy Reno. «Alla fine del 1947», ha ricordato Teddy Reno, «avevo deciso di andare a Milano per fondare una casa discografica e quando il progetto era ormai in porto, passando davanti all’Hotel de la Ville notai

un giovane che intratteneva gli americani suonando il pianoforte e cantando alla Armstrong. Lo ascoltai e poi andai a trovarlo. Era Lelio Luttazzi. Amava la musica, faceva il cantante, il compositore, ma era insoddisfatto e un po’ nevrotico. Sognava di andarsene da Trieste, per fare qualcosa di importante: - Perché non vieni con me a Milano come pianista e arrangiatore nella mia nuova casa discografica? gli chiesi. Magari, disse lui. E combinammo subito».

La Cgd divenne una delle etichette più prestigiose proprio per la presenza oltre che di Teddy Reno e Lelio Luttazzi anche di Jula de Palma e dell’arrangiatore e direttore d’orchestra Gianni Ferrio. Nei sei anni fra il ’48 e il ’53, Lelio realizzò un imponente numero di incisioni con la sua orchestra, il suo complesso, i suoi ritmi, il suo quartetto swing, i suoi archi swing. Dischi dove suonava il pianoforte e accompagnava Teddy Reno che si ispirava a Frank Sinatra. Ma non solo, suoi erano gli arrangiamenti e fu in quel periodo che iniziò anche a cantare, spesso in duo con Teddy Reno. Una delle loro prime incisioni fu Cofee Time che Harry Warren aveva composto per il film Yolanda con Fred Astaire. Era un film musicale girato negli Stati Uniti nel 1945 e giunto in Italia a guerra terminata. Quella canzoncina divenne subito molto popolare proprio per quel disco Cgd pubblicato nel 1948, in cui Teddy Reno e Luttazzi “swingavano”, il primo “alla Frank Sinatra”, il secondo cantando in inglese a metà strada fra Louis Armstrong e Fats Waller, dove ogni tanto abbandonava il testo per cantare scat, assai bene e con grande senso del jazz. Sul retro di quel 78 giri, Teddy Reno e Luttazzi interpretavano il successo del momento Do You Know What it Means to miss New Orleans, leit- motiv del film New Orleans, con Louis Armstrong e Billie Holiday, appena giunto sugli schermi dei cinematografi italiani. Ciò a dimostrare quanto la musica americana e il jazz fossero importanti per quella generazione di musicisti. Ma dove Luttazzi sorprendeva era quando alla testa dei suoi Archi Swing, una sua invenzione - almeno per l’Italia - o della


10 luglio 2010 • pagina 31 In queste pagine, alcune immagini di Lelio Luttazzi: qui sotto, insieme con Maurizio Costanzo; con la cantante Arisa; con Mina e Totò

sua grande Orchestra d’Archi, costruiva degli arrangiamenti perfetti. Il “pigro” Luttazzi in quegli anni aveva trovato anche il tempo per incidere due o tre dischi al giorno, scrivere, sempre ogni giorno, un paio di arrangiamenti per grande orchestra e ascoltare provini e nuovi cantanti che invariabilmente si presentavano alla porta di quella nuova e interessante casa discografica. Furono con ogni probabilità queste incisioni, oltre al successo ottenuto con le prima trasmissioni a Radio Torino a far decidere la Rai ad offrirgli la direzione di una delle orchestre radiofoniche per un programma in cui vecchi motivi veniva-

stini, soppiantata anni dopo da El can de Trieste. Fra il 1948 e il ’51, Luttazi ebbe anche il tempo di scrivere Troppo tardi, One More Blues e soprattutto Vecchia America che fu uno dei maggiori successi del Quartetto Cetra. Per molti anni continuerà a dirigere le orchestre o piccoli complessi. Poi nel ’67 il debutto di Hit Parade gli dà una immensa popolarità. Erano gli anni d’oro della radio. La continua ricerca di nuove personalità in grado di attirare l’attenzione del pubblico. La grande capacità, soprattutto dei responsabili dei programmi, di trovare nuove idee e costruire nuove trasmissioni. Un forte gruppo di

A 18 anni avvenne l’incontro che gli cambiò la vita: diresse l’orchestra al Politeama Rossetti di Trieste, dove conobbe Ernesto Bonino no riadattati in chiave moderna. Era l’ottobre 1953. Il 1° dicembre nasceva il programma Nati per la musica e per quattro mesi la trasmissione andò in onda sul Secondo Programma. Quell’occasione spinse Luttazzi a lasciare il suo amico Teddy Reno e l’incarico alla Cgd per dedicarsi completamente alla composizione e allo spettacolo radiofonico. Mentre era impegnato a Milano aveva composto altre canzoni. Una delle quali, scritta per Teddy Reno, in partenza per l’Argentina ebbe l’identico successo del Giovanotto Matto. Era Muleta mia che divenne quasi un inno di tutti i trie-

autori, su cui emergeva il geniale Dino Verde, tre orchestre a disposizione di importanti direttori, da Kramer a Canfora, da Trovajoli allo stesso Luttazzi, ma soprattutto l’intelligenza nella “costruzione”di palinsesti sempre nuovi che spaziavano dal varietà, alla rivista, dalla prosa, alla musica in tutte le sue forme, alla cultura.

Nel frattempo si era trasferito a Roma. Se Milano era la capitale dell’editoria musicale e della discografia, Roma lo era per il cinema, la radio e da lì a qualche tempo anche per la televisione.

Quando il 6 gennaio 1967 uno di quei responsabili intelligenti ebbe l’idea di creare anche in Italia una hit parade radiofonica, la scelta cadde su Luttazzi. Le ragioni furono molte. Innanzitutto era un musicista ed era ormai personaggio noto per la sua attività televisiva e cinematografica. Celebre autore di canzoni, aveva il giusto tono per piacere anche ai ragazzi, lui che tanto ragazzo non era più, che seguivano le classifiche dei dischi più venduti. Per la prima volta queste classifiche venivano stilate con precise e affidabili ricerche di mercato realizzate settimanalmente con inchieste nei maggiori negozi di dischi della Penisola. Inoltre i testi di presentazione redatti da Sergio Valentini erano congeniali al modo di presentare tipico di Luttazzi. In onda ogni venerdì alle 13, ora di massimo ascolto all’epoca, raggiunse nel ’72 un ascolto di oltre 5 milioni e mezzo di ascoltatori, ponendosi come la trasmissione più seguita dell’intera radio italiana. Nel ’57 la radio portatile a transistor aveva raggiunto il suo apice, ciò consentiva un ascolto non stanziale, che se inizialmente era indirizzato verso le radiocronache sportive, stava passando anche verso quelle di intrattenimento. Infatti due anni dopo venne prodotta e messa sul mercato la prima autoradio. Il mercato del disco era in grande espansione e c’era bisogno di una nuova categoria di persone che potesse presentare i nuovi dischi che quasi giornalmente venivano immessi sul mercato: quella dei disc jockey. Persone competenti in grado di scegliere e “lanciare” attraverso l’etere le novità più rappresentative. Erano talmente seguiti e le loro scelte indiscutibili che divennero vere e proprie star. Lelio Luttazzi fu il primo dj della radio italiana, anche se le scelte provenivano da precisi sondaggi e i testi del programma scritti da un altro. Ma era la sua voce, il suo modo di presentare che facevano presa sugli ascoltatori. In tivù arrivò quasi subito, ma il suo debutto importante fu con la prima edizione di Studio Uno, nell’ottobre 1961. Sorprese tutti perché si presentò anche come cantante. Il giornalista Giuseppe Lugato ricorda: «Due settimane fa, in Studio

Da Hit Parade a Teatro 10 Si è spento a ottantasette anni, nella notte tra mercoledì e giovedì a Trieste, Lelio Luttazzi, musicista, compositore, raffinatissimo uomo di spettacolo, uno dei «padri fondatori» della radio e della televisione italiane. Soffriva da tempo di una neuropatia. Nato a Trieste il 27 aprile 1924, Luttazzi, dopo aver studiato giurisprudenza, iniziò a suonare il piano in stile jazz. Nel ’44 gli darà la notorietà il brano Il giovanotto matto. Inventore e conduttore della trasmissione radiofonica Hit Parade, andata in onda dal 1967 al 1976, presenterà in tv programmi popolarissimi come Studio Uno, Doppia coppia, Teatro 10, Ieri e oggi. Da circa due anni si era trasferito a Trieste, sua città natale, dove viveva a ridosso della storica piazza dell’Unità d’Italia insieme con sua moglie Rossana, che lo ha assistito fino alla fine.

Uno, abbiamo assistito al suo debutto televisivo, in qualità di cantante; tre giorni dopo l’abbiamo rivisto in Canzonissima. Nell’uno e nell’altro caso egli è entrato in scena velocissimo, a larghe falcate, come sospinto da un razzo. A pochi passi dalla telecamera si è fermato. Poi, ha strabuzzato gli occhi, e dalla sua bocca spalancata sono uscite le prime parole della sua canzone Canto anche se sono stonato. La voce, roca, che sembrava uscirgli a stento dalla gola, i capelli corti ma disordinati che s’alzavano e s’abbassavano a ritmo di swing, le stesse parole della canzone facevano ritornare alla mente atteggiamenti della generazione degli anni Trenta. Infine, all’improvviso su una nota altissima la musica si è interrotta. Lui si è subito composto in una statuaria immobilità; e, con un sorriso di circostanza, si è piegato in un inchino impeccabile».

Da quel momento divenne una presenza indispensabile in molti programmi tv. Anche il cinema lo scoprì e Antonioni gli offrì una parte importante ne L’Avventura. Il jazz e lo swing sono sempre stati la sua prima e grande passione. Se all’inizio della carriera di musicista Luttazzi non ebbe pianisti a cui riferirsi, quando giunse a Milano scoprì un pianista che divenne il suo preferito, Erroll Garner, più anziano di due anni. Senza voler far paragoni, anche Garner come Luttazzi era dotato di un orecchio e di una memoria straordinari. Da quel momento - unico in Italia - iniziò a “garneggiare” come è possibile ascoltare in tutti o quasi i suoi dischi. Era il momento del grande successo quando il 22 maggio ’70 venne arrestato con una accusa che si rivelò falsa e infondata.Venne scarcerato dopo un mese il 21 giugno. Quei 30 giorni passati a Regina Coeli da innocente influirono in modo determinante sulla sua sensibilità. Interruppe la carriera e non volle più apparire su quel piccolo schermo che gli aveva dato la celebrità e il successo. Non sappiamo se quel giudice che firmò l’ordine di arresto abbia poi pagato per il suo errore. Ne dubitiamo. Solo recentemente il suo vecchio amico e batterista Roberto Podio lo ha convinto a ritornare di fronte al suo pubblico. Il grande rinnovato successo si è concluso lo scorso 15 agosto a Piazza dell’Unità a Trieste dove un pubblico immenso gli ha decretato l’ultimo trionfo.


ULTIMAPAGINA Televisione. Si conclude oggi, dopo un grande successo di pubblico, la kermesse romana dedicata alle serie tv

Niente crisi per la fiction di Francesca Parisella

i respira aria di festa oggi a Roma in occasione della giornata conclusiva del RomaFictionFest. E, una volta calato il sipario sulla seigiorni dedicata alle fiction italiane e straniere, sarà tempo di bilanci. Ottimo, intanto, il bilancio di pubblico per la kermesse romana che già nei primi due giorni ha visto dodicimila appassionati aggirarsi tra l’Auditorium di via della Conciliazione e le sale del cinema Adriano dove sono state presentate le sezioni competitive Tv Drama,Tv Comedy,Tv Factual - per seguire le tante proiezioni in calendario. In attesa di conoscere i vincitori di questa IV edizione, si può dire che a vincere, ancora una volta - dopo gli ottimi risultati degli ascolti ottenuti nella scorsa stagione televisiva - è stata la fiction, il genere televisivo preferito dagli italiani in grado di competere con l’iridato mondo del cinema.

S

A confermarlo, infatti, sono i dati: la fiction italiana conta un volume d’affari che raggiunge gli 800 milioni di euro, dando lavoro a oltre 200mila persone tra artisti e artigiani, mentre il cinema, di milioni di euro, ne totalizza soltanto si fa per dire - 630. È dall’incontro tra cinema e fiction che nascono i prodotti vincenti come Romanzo Criminale, la serie prodotta da Sky, diretta da Stefano Sollima, che già nella prima serie ha conquistato il cuore del pubblico creando il nuovo filone chiamato romanzo- mania, con 120 pagine Facebook dedicate ai suoi protagonisti e oltre 1500 video caricati su Youtube. Acclamato dal pubblico del RomaFictionFest, i 10 episodi di Romanzo Criminale 2 - in onda a novembre su Sky Cinema 1 - ritrova Freddo, Dandy, Patrizia e il Commissario Scajola nella Roma degli anni ’80 tra alleanze, rivalità e segreti nascosti. Tra le fiction in lavorazione presentate in questi giorni, due sono i titoli che - più degli altri - promettono di non deludere il pubblico del piccolo schermo. Il Campione e i Bandito, la miniserie basata sul romanzo omonimo di Marco Ventura interpretata da Giuseppe Fiorello e diretta da Ludovico Gasparini, è ambientata negli anni Venti e racconta la storia di due ragazzini di Novi Ligure che, come tanti altri, vivono le loro giornate pedalando con fatica tra le strette strade sterrate delle campagne nebbiose del Nord. Due vite che oscillano tra la realtà e la leggenda quelle di Costante Girardengo, che in sella alla sua bici diventa il Campionissimo, e di Sante Pollastri che, rubando ai ricchi per donare ai poveri, nel malfamato borgo delle Lavandaie, viene considerato un benefattore. Più allegra e spensierata, invece, la serie televisiva in 12 episodi dal titolo provvisorio Cugino & Cugino prodotta da Ldm Comunicazione Spa per Rai Fiction. Dopo un Medico in famiglia, l’attore romano Giulio Scarpati, torna a vestire i panni di un vedovo, Filippo Raimondi, alle prese con un figlio da crescere, con tutti i magoni e i problemi del caso. A movimentare la vita di Filippo, già impegnato tra il ruolo di padre e quello di educatore carcerario, è l’eccentrico cugino Carmelo, interpretato da Nino Frassica, proprietario di un ristorante nel paesino siciliano dove vive e che, a causa di un disaccordo con l’Inps è costretto a vendere per trasferirsi nella caotica e consumisti-

ITALIANA Sky punta tutto su “Romanzo criminale 2”, mentre la Rai si affida alla strana coppia Frassica-Scarpati e a “Il Campione e il Bandito”. Lunetta Savino e Angela Finocchiaro sono le protagoniste del titolo di punta di Mediaset

ca capitale, proprio lui amante delle cose genuine e massimo culture dello slow food. E mentre Rai Uno punta sulla strana coppia composta da Frassica e Scarpati, Mediaset si affida ad altre coppie d’eccezione per vincere la gara degli ascolti. Lunetta Savino e Angela Finocchiaro tornano sul set per la serie Due mamme di troppo ideata da Paola Pascolini e Stefano Ceccarelli, prodotta da Ranieri Made e Fuscagni Comunicazione, per la regia di Antonello Grimaldi. I sei episodi, girati a Torino, sono il seguito dell’omonimo pilot che nel 2009 conquistò quasi sei milioni di telespettatori.

Da sinistra: Beppe Fiorello, Gioia Spaziani e Giorgio Faletti sono gli interpreti di “Il Sorteggio”, che sarà trasmesso a settembre da Rai1. Nella foto in alto, Nino Frassica e Giulio Scarpati in “Cugino & Cugino”

Dopo essere state acerrime nemiche, le due consuocere cinquantenni, la vedova meridionale trapiantata a Torino Lellè (Lunetta Savino) e l’aristocratica Gabriella Du Bessè (Angela Finocchiaro), sono ormai inseparabili e insieme, oltre a sorvegliare l’amore dei loro figli, Rita (Sabrina Impacciatore) e Alessandro (Giorgio Pasotti), gestiscono un elegante relais. Continuando a giocare sugli opposti che si attraggono è anche la miniserie Agata e Ulisse, prodotta per Mediaset da Italian International Film. La coppia protagonista della classica commedia degli equivoci questa volta è composta dalla brava Elena Sofia Ricci, nei panni di una simpatica ed eccentrica Agata, cartomante e sensitiva per necessità, e Antonio Catania, il pragmatico Ulisse, professore direttore dell’Istituto di Studi sul Paranormale. Ad offrire lo spunto comico, questa volta, è la tematica del paranormale trattata con leggerezza e fantasia tale da far dimenticare alcuni personaggi scontati e troppo caricaturati che gravitano attorno ai protagonisti.


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