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Il genio è un per cento ispirazione e novantanove per cento sudore
Thomas Alva Edison
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MARTEDÌ 27 LUGLIO 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Il coordinatore lascia il Credito Cooperativo e va in Procura: «Da mesi sono vittima di una bufera mediatica»
L’Italia bloccata per Verdini La questione morale paralizza il governo e Bossi vaneggia sulle tasse La maggioranza è nel caos e nessuno governa più il Paese. Anche Fini chiede la testa del triumviro che si dimette dalla banca. Il Senatùr: «Iva e Irpef ai Comuni» ma arriva la rituale smentita di Calderoli TUTTI CONTRO TUTTI
NUOVA TANGENTOPOLI
Hollywood party delle libertà
Così finirà la Seconda Repubblica
Una riforma sbagliata
di Enzo Carra
di Enrico Cisnetto
om’è ormai noto a tutti, il 25 luglio è stato rinviato ad altra data. Questa domenica d’estate, tanto carica di storia e di presentimenti, è trascorsa nell’abituale chiacchiericcio polemizzante, tutto interno al partito di maggioranza. Altroché 25 luglio di Berlusconi. Al presidente del consiglio - come scriveva ieri con raro e involontario senso dello humour Il Giornale, nel pezzo politico - «arrivano buone notizie dalla Sardegna». Forse c’è un chiarimento sulla questione eolica di cui al dossier Verdini-Carboni e nel quale entra il governatore sardo Ugo Cappellacci? a pagina 3
osa potrà accadere in questa torrida estate nella tempestosa politica italiana? Ci dobbiamo aspettare dei colpi di scena tali da cambiare lo scenario, o semplicemente si susseguiranno litigi e scandali, come è stato negli ultimi mesi, senza che però succeda nulla di decisivo? È evidente che chi sta partendo per le ferie si sta ponendo proprio queste domande – in un misto di preoccupazione, ripulsa e rassegnazione – e chi invece deve ancora farlo trova nello stillicidio delle notizie provenienti dai palazzi romani un motivo in più, oltre al caldo e alla stanchezza, per staccare la spina. a pagina 5
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Ci vuole più coraggio per liberare l’università
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L’analisi impietosa del sociologo Luca Ricolfi
Menefreghismo di Stato «La classe di governo punta solo alla sopravvivenza»
«Il vero obiettivo è l’autoconservazione: risultato reso possibile da una crisi accompagnata da un declino molto lento» Errico Novi • pagina 4
Il sito fantasma «Wikileaks» pubblica tutti i documenti riservati del Pentagono
In Rete la guerra segreta di Kabul «Il Pakistan aiuta al Qaeda e i marines sparano a vista sui talebani» di Osvaldo Baldacci
Questa è solo l’ennesima fuga di notizie
Una grande strategia contro l’intelligence
a situazione in Afghanistan è molto dura e non sempre pulita. E il Pakistan e l’Iran rappresentano una complicazione in più. È questo lo scoop che mette a repentaglio la stabilità del sistema della Difesa statunitense, scoop pubblicato, documenti alla mano, dal sito internet Wikileaks e ripreso da diversi importanti giornali internazionali. Si tratta della maggiore fuga di notizie della storia militare americana: 92mila documenti e rapporti segreti militari americani dal 2004 al 2009 relativi alla guerra in Afghanistan. a pagina 8
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seg1,00 ue a (10,00 pagina 9CON EURO
di Mario Arpino he le cose in Afghanistan non vadano per il meglio lo si sapeva, anche senza che la grande stampa portasse alla luce sette anni di dossier segreti. Altrimenti, non saremmo già al terzo tentativo di far andare meglio le cose con i “cambi di strategia” che ormai tutti conosciamo. Che l’intelligence pachistana, sia da sempre chiacchierata, anche questo è un fatto arcinoto. a pagina 8
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I QUADERNI)
• ANNO XV •
NUMERO
143 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
Gli Atenei sono al collasso: lo Stato deve uscire dalle aule per favorire l’autonomia di Francesco Saverio Marini ambiare tutto per non cambiare nulla: il rischio che corre l’attuale progetto di riforma dell’Università è quello di evocare il motto gattopardiano. Non voglio dire che è tutto da buttare o che il testo in discussione al Senato non introduca alcune significative novità: alcune proposte, esaminate singolarmente, sono, invero, apprezzabili e sembrano migliorare lo status quo, ma la questione è se l’idea di Università sottesa al progetto sia condivisibile. a pagina 10
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pagina 2 • 27 luglio 2010
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Risse. La maggioranza continua a dividersi sulla questione morale: ma ormai è diventato quasi un gioco al massacro
Il partito non è una banca Verdini si dimette dal Credito Fiorentino «per non danneggiarlo». E i finiani attaccano: «Non ha avuto lo stesso riguardo per il Pdl» di Marco Palombi
ROMA. Il centrodestra, maggioranza in Parlamento e nel Paese, è una sorta di ircocervo. Non nel senso della preziosa rivista di Fabrizio Cicchitto, ma proprio dell’animale mitologico mezzo caprone e mezzo cervo su cui si sono esercitate le fantasie classificatorie dei filosofi da Aristotele ai giorni nostri: per Benedetto Croce, per dire, un ircocervo era il liberalsocialismo, parola che metteva insieme robe che insieme non potevano stare, secondo lui. Tornando alla coalizione di governo c’è però almeno un’altra caratteristica della bestia leggendaria - oltre ovviamente alle speciali fattezze - che spinge a ritenerla una sorta di simbolico annuncio di futuro: l’ircocervo infatti, spiegò Diodoro Siculo, si lasciava apprezzare per lo scatto, ma tanto era veloce alla partenza quanto era facile a stancarsi. E così questo centrodestra, e il Pdl in particolare, tanto s’è sbrigato a darsi vita dopo la caduta di Romano Prodi, quanto ora annega nella sua stessa impossibilità ad esistere. La prova? Solo un governo e una maggioranza che affondano le loro radici nel tempo ciclico della mitologia potrebbero essere costituiti solamente di gente che sta all’opposizione. Fini sta all’opposizione di Berlusconi; Berlusconi di Fini e di Tremonti; gli ex colonnelli di An pure, ma con più timidezza; il ministro dell’Economia è alleato di Bossi che però a volte gli fa l’opposizione così come la fa un po’ a tutti gli altri. E poi c’è Verdini che prima era potentissimo e adesso oscilla nel vuoto come un trapezista; Cosentino che era contro Caldoro e Galan che è contro la Lega (ricambiato), che a sua volta bastona il sindaco Alemanno. E ancora Bocchino ha litigato con Lupi ma non è amato nemmeno dai cosiddetti “finiani moderati”(che poi, all’ingrosso, sono Moffa e Augello), Granata se l’è presa con Mantovano e adesso rischia di prendersela in quel posto e giù giù decine di guerricciole personali di cui s’è perso il conto. Se cominciasse a piovere, sarebbe palazzo Chigi a ironizzare sul “governo ladro”.
Nell’aula della Camera, tanto per dire, prosegue un assonnato dibattito sulla finanziaria manovra mentre il Paese, dal canto suo, dorme della grossa. Una robetta da 25 o 30 miliardi che non ha padre né madre: il Cavaliere non la voleva,Tremonti è stato costretto, per Brunetta è recessiva, per La Russa penalizza i coraggiosi militi eccetera. Al timone economico del Paese, insomma, pare ci stia l’Europa, mentre il governo sta all’opposizione dell’Ue. Anche Bossi, che ha sostenuto il mini-
Un comizio del Senatur alla vigilia del dibattito sulla manovra
Bossi lancia il federalismo dell’Iva. «Sciocchezze», dice Calderoli di Alessandro D’Amato
ROMA. Lo sciopero dei diplomatici, l’ostruzionismo di Pd e Idv in aula e le sparate di Bossi. La manovra di aggiustamento dei conti, su cui in settimana si voterà la fiducia, continua a infiammare l’attualità politica in questo scorcio di attività parlamentare prima delle ferie, tra le proteste di enti locali e dipendenti pubblici, manifestazioni di piazza annunciate (Idv e Popolo Viola saranno a Montecitorio il 28 e il 29) e astensioni dal lavoro come quella delle feluche: «Uno sciopero per il Paese, di orgoglio istituzionale, per dire ai cittadini che se la Farnesina va a fondo, l’Italia va fuori dal mondo», dice Cristina Ravaglia, presidente del Sndmae (il sindacato cui aderisce la stragrande maggioranza dei diplomatici), per spiegare così le ragioni della protesta «inusuale» del personale diplomatico.
Nel frattempo ieri 243 deputati si sono iscritti a parlare nella discussione generale sul decreto legge con la manovra economica. Secondo le attese, mercoledì ci sarà il voto di fiducia e giovedì, dopo l’esame degli ordini del giorno, la votazione finale sul provvedimento. Ma a movimentare ulteriormente il dibattito ci ha pensato Umberto Bossi: «La Lega ha già portato a casa 15 miliardi per i Comuni, ma bisogna trovare l’accordo con Tremonti e vedrete che ce la farò. Potrebbero girare nelle casse dei nostri Comuni l’Irpef e anche l’Iva, anche se in questo caso la situazione è più difficile», ha detto il Senatùr domenica sera alla festa della
Lega Nord di Soncino (Cremona). «Questo - ha aggiunto - è l’obiettivo di questa estate: il federalismo fiscale, non vado nemmeno in ferie se non chiudo la partita e sapete che io sono un uomo di parola: piano piano porteremo a casa quello che si può. Tranquilli fratelli padani: il federalismo è alle porte». Bossi, già che c’era si è anche speso in difesa delle rivendicazioni dei Cobas latte, sulle quali nei giorni scorsi si sono registrate diverse fibrillazioni nella maggioranza e che sono state oggetto di promesse elettorali da parte del figlio-delfino Renzo: «Sto dalla vostra parte, e ho detto a Berlusconi che non può far chiudere le fattorie del Nord, la gente non capirebbe. Galan io non posso cacciarlo, ma chiederò a Zaia di scendere in campo: sta facendo bene in Veneto, ma lui ha a cuore come me la vostra situazione. È uno che fa, non come Galan che parla e basta». Sarà pure un proclama da comizio, ma intanto ieri Calderoli s’è sentito in dovere di smentire il capo: «Tutte sciocchezze inventate dalla stampa».
Parole che hanno suscitato le reazioni dell’opposizione: «Le dichiarazioni di Bossi dimostrano quanto ormai la Lega sia distante dai problemi reali del paese», dice invece Davide Zoggia responsabile Enti Locali della Segreteria nazionale del Pd. «Non solo non si vede - afferma Zoggia - uno straccio di riforma federale, ma la Lega sostiene una manovra iniqua e quasi totalmente a carico delle autonomie locali (13 miliardi sui 24 della manovra). Il leader della Lega è in affanno, il suo intervento serve a coprire l’acquiescenza del suo partito nei confronti dei tagli voluti dal ministro dell’Economia che hanno affossato il federalismo». Ancora più dura Angela Finocchiaro: «Non è possibile che un leader politico come Bossi non sappia che la sua proposta è impraticabile e che le scelte del governo, di cui Bossi fa parte, vanno in tutt’altra direzione da quella da lui indicata. La provocazione bossiana dimostra ancora di più che l’esecutivo Berlusconi non esiste più».
stro dell’Economia in Cdm sui tagli a comuni e regioni, adesso sta all’opposizione: dice che gli servono i soldi e quindi propone di dare agli enti locali Irpef e Iva, senza spiegare peraltro cosa dovrebbe rimanere allo stato centrale a quel punto tolto il debito pubblico. Poi c’è la questione della mafia, che sta ovviamente all’opposizione anche lei. Il finiano Fabio Granata dice che «pezzi di istituzioni e di governo» complottano per evitare che si arrivi alla verità sulle stragi. Effettivamente, una frase un po’ forte. Nel tentativo di spiegarsi meglio, poi, il deputato siciliano s’è inguaiato anche di più: ha messo nel mirino il sottosegretario Mantovano, ex magistrato di provenienza aennina, reo d’aver negato il regime di protezione a Spatuzza. Apriti cielo. Il grosso del partito, e con particolare virulenza gli ex colonnelli, lo invitano ad accasarsi con
Tiene ancora banco la furiosa lite tra Fabio Granata e Alfredo Mantovano sulla mafia, le stragi del 1992 e la revoca della protezione al «collaboratore» Spatuzza Antonio Di Pietro (l’ultraberluscones Stracquadanio estende la richiesta all’immancabile Bocchino). Se non lo fa da solo, dicono, ci penseranno i Probiviri, cioè nove giudici delegati a punire l’indisciplina di Granata con l’espulsione. «E allora Cosentino? E allora Verdini?», dicono i finiani. Effettivamente l’attuale coordinatore del Pdl campano è incappato in una serie di intercettazioni che spiegano con una certa plasticità le sue opere e opinioni nei confronti dell’attuale governatore della sua regione, nonché compagno di partito, Stefano Caldoro (senza contare alcuni riferimenti diciamo coloriti al ministro Carfagna e, ovviamente, a Bocchino). Anche lui sembrerebbe carne da probiviri, ma tant’è.
All’opposizione di Denis Verdini, invece, ci sono ufficialmente i finiani: il triumviro pluri-indagato, sostengono, «si deve dimettere». Ufficiosamente, però, il numero di chi vorrebbe veder finire la carriera dell’ex grossista di carni fiorentino s’ingrossa assai: «Non si può sorridere senza mostrare i denti», diceva lui quand’era all’apice. «Io non faccio il ministro, io faccio i ministri», si vantava in una telefonata captata dalla Procura di Firenze. A tanta gente, il buon Denis, aveva mostrato i denti, a molta altra aveva impedito di fare il ministro (o anche molto meno) e adesso quei rancori si saldano con la questione morale agitata dall’arcipelago del presidente della Camera. Tutto si può dire, però, ma non che il nostro non sia sensibile alle richieste che vengono dalla base: infatti ieri Verdini, che prima era all’opposizione di tutti tranne che di Berlusconi, s’è dimesso. Non dalle cariche
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om’è ormai noto a tutti, il 25 luglio è stato rinviato ad altra data. Questa domenica d’estate, tanto carica di storia e di presentimenti, è trascorsa nell’abituale chiacchiericcio polemizzante, tutto interno al partito di maggioranza. Altroché 25 luglio di Berlusconi. Al presidente del consiglio - come scriveva ieri con raro e involontario senso dello humour Il Giornale, nel pezzo politico - «arrivano buone notizie dalla Sardegna». Forse c’è un chiarimento sulla questione eolica di cui al dossier Verdini-Carboni e nel quale entra il governatore sardo Ugo Cappellacci? Perché quella, effettivamente, è una questione spinosa anche per il Cavaliere che vede coinvolti i suoi amici nell’affaire. Macché, non sono queste le buone notizie. C’è di meglio, molto di meglio. «Con il piano casa recentemente approvato dalla Regione, il premier potrà realizzare nuovi bungalow abitabili nel complesso di Villa Certosa». Questa è la notizia che rallegra Berlusconi, coronando la sua e la nostra giornata politica. Sarà pure un ricordo del Sessantotto, ma il personale non è politico?
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Messo da parte, per un attimo, il personale, suo di Lui beninteso, è il politico che fa acqua da tutte le parti. Lì, davvero, ci vorrebbe un bel
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Neanche Berlusconi crede più ai suoi appelli contro le correnti
«Hollywood party», l’ultima frontiera del Pdl
Il tramonto della politica sta diventando la sua parodia: con la maggioranza che finge di essere all’opposizione di Enzo Carra piano (chiedere anche per questo a Carboni?). Il più grande predellino mai esistito sembra piuttosto una tavola da windsurf invasa da scalmanati in lotta tra loro nel tentativo di cavalcare onde diverse e,a propria volta, in lotta tra loro. Ha un bel da dire Berlusconi, nel messaggio domenicale al convegno di Alemanno, che bisogna “far crescere” il partito e non lasciare spazio «a contrapposizioni correntizie che ne paralizzerebbero la vita». Un bel dire, un bel raccomandare. Poi uno legge Bocchino, fresco reduce dal cecchinaggio di Nicola Cosentino che è il suo coordinatore campano, e apprende che sul caso Granata, tanto per fare un esempio, «è difficile» che si possano «attivare i probiviri». Spiega Bocchino: «Non so se Granata sia iscritto al pdl, pochi di noi lo sono, visto che il tesseramento non è stato mai lanciato». Altroché far crescere il partito, il problema è farlo nascere, predellino sempre a
nel partito, per carità, ma da presidente e membro del cda del Credito cooperativo fiorentino, la banca di cui è padre padrone dal 1990: «In questi mesi si è abbattuta sulla mia persona una tempesta mediatica», ha scritto il triumviro.
Ne uscirò pulito, ma «devo prendere atto che la rilevanza assunta dai fatti che mi vengono imputati rischia di gettare un’ombra sulla banca». Dunque, dimissioni. Curioso che Verdini, ieri interrogato dai magi-
parte.È pur vero che, tornato da un lungo viaggio fuori o attorno alla politica, Giuliano Urbani, uno dei componenti questo collegio dei probiviri che dovrebbe giudicare su non iscritti al pdl, si lascia andare a rivelazioni sui fondatori del predellino. Rivelazioni che fanno correre la memoria ad altri fondatori, i romani Romolo e Remo, che poi si sa come andò a finire.
Racconta dunque Urbani di aver previsto tutto nel 2004. «Eravamo nel bel mezzo di un consiglio dei ministri. A un certo punto, dopo aver ascoltato un ragionamento di Fini, di soppiatto scrissi un bigliettino a Berlusconi, e glielo allungai». Era per metterlo in guardia, s’intende. «Queste sono le tesi della sinistra», scrisse Urbani a Berlusconi. Il quale, al posto di arrabbiarsi sul serio «legge, mi guarda, sorride amaro» e «a sua volta allunga il biglietto a Fini». Evidentemente Berlusconi, a furia d’es-
strati romani sulla cosiddetta P3, non si preoccupi invece delle ombre che la sua posizione getta sul suo partito e, di conseguenza, sul governo. I finiani però, che stanno all’opposizione di Verdini (e di Berlusconi), gli chiedono di «dimostrare al partito la stessa sensibilità usata per il Credito cooperativo». Dentro An, ha spiegato uno 1stupito e rammaricato» Enzo Raisi, non si sarebbe certo cacciato Granata, ma quelli che «vanno a pranzo con Carboni». Cioè Verdini. Le dimissioni però, al mo-
sere antipolitico, tende a sottovalutare anche quel che si dice in politica: ma non saremo certo noi a dire che ben gli sta. Che poteva accorgersene prima, di Fini. E no, perché adesso un po’ siamo preoccupati per l’andazzo. La Russa intima al suo ex capo di smetterla con il «fare opposizione». Poi, fingendosi accomodante gli fa una proposta: «Se Fini rinunciasse al suo ruolo istituzionale e facesse il ministro… questo cambierebbe le carte in tavola». Pronto, perché sveglio è sveglio, Bocchino gli risponde: «Se Fini dovesse andare al governo credo preferirebbe occuparsi di un grande blocco elettorale del centrodestra, cioè del comparto difesa». Insomma, lo candida alla poltrona di La Russa. L’attuale ministro non replica, per il momento, ma potrà pur sempre constatare che essendo Fini di sinistra, come affermato già nel 2004 da Urbani, non può egli occuparsi di un “blocco elettorale”di destra. Non
In alto, Bossi, Berlusconi e Fini: fra i tre protoganisti della maggioranza ormai è rottura quasi totale. Con Fini, da un lato, attaccato da tutti e dall’altro il leader leghista che cerca di smarcarsi dal premier sul federalismo. Nella pagina a fianco, il coordinatore del Pdl Denis Verdini che ieri si è dimesso dal vertice della sua banca
c’è soltanto Fini con quel Granata che solleva la questione morale e chissà che gli rovesceranno addosso, roba che i probiviri per lui potrebbero essere quasi una salvezza. Se ci fossero, ma Urbani dice che ci sono, e magari ci saranno anche gli iscritti, vai a sapere, davanti a quel collegio, insieme a Granata, dovrebbero apparire nientepopodimeno che il triumviro Verdini e il coordinatore Cosentino. Udienze da aula bunker, spettacolo garantito. Se Berlusconi fosse quello di una volta c’è da giurare che Mediaset le trasmetterebbe in diretta, per far salire gli ascolti e fare tiè a Sky! «Qualcuno fu berlusconiano», conclude un certo Filippo Rubè su Il Foglio di sabato scorso, sintetizzando un tramonto con giacche rovesciate, da fine stagione. Era proprio necessario all’estensore di un articolo sui voltagabbana già presenti e soprattutto su quelli a venire lo pseudonimo che fu del personaggio di Giuseppe Antonio Borgese? Per dipingere la nostra realtà non servono personalità complesse come quel Rubè. La nostra, la vostra Italia del predellino è, semplicemente, un Hollywood Party meno allegro. Nel quale non si agita un uomo senza qualità e non c’è neanche un Peter Sellers con i suoi mocassini bianchi. C’è tutt’al più la compagnia del Bagaglino. Senza Però senza Lionello, che era il più bravo di tutti.
mento non sono un’opzione: quelle dalla banca servono a evitare il rischio di un commissariamento dell’istituto, ma da coordinatore sarebbero una sorta di ammissione di colpa e per il Cavaliere questo è inaccettabile. Il triumviro deve resistere finché la pressione giudiziaria non si sarà attenuata o ci sarà un accordo con Fini o la definitiva implosione del Pdl. D’altronde un partito in cui tutti stanno all’opposizione e nessuno governa è un ircocervo e prima o poi dovrà convincersi di non esistere.
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l’approfondimento
Così lo studioso torinese spiega la degenerazione del dibattito: «Anche i ministri migliori cercano solo di salvare se stessi»
Menefreghismo di Stato
Perché ci si attarda nelle liti anziché evitare che la nave affondi? «Il solo obiettivo di questa classe dirigente è autopreservarsi, e può farcela perché il declino è lento», dice Luca Ricolfi. Così anche la rissa torna utile per allontanare le responsabilità di Errico Novi
ROMA. Circola un allarme: l’Italia è un vascello senza guida, nessuno impugna il timone e indica la rotta. Sul Corriere della Sera ne è venuto fuori un dibattito, aperto dall’editoriale di Ernesto Galli della Loggia del 7 luglio e passato per gli interventi di altri opinionisti, da Sergio Romano a Mario Monti. Adesso alla confusione, al vuoto di idee che già affligge il confronto politico sembra aggiungersi un nuovo poco rassicurante vizio: una generalizzata alienazione delle responsabilità.Tutti accusano tutti, anche all’interno della maggioranza: Alemanno redarguisce Bossi, il Senatùr capovolge le critiche e accusa il sindaco di Roma, praticamente tutti si scagliano contro Fini e i suoi fedelissimi. L’opposizione insomma è affollata di gente. Nessuno che resti in prima linea ad assumersi qualche incombenza senza cercare alibi nel presunto tradimento altrui. E persino l’unico vero artefice della linea di governo, Giulio Tremonti, rappresenta la propria mission come mera attuazione di direttive superiori, quelle europee. Può procedere così, la nave italiana, nella diffici-
le tempesta della crisi? Se sì, spiega a liberal Luca Ricolfi, è perchè non si tratta di un vero e proprio naufragio ma di una deriva lenta: «Impercettibile, tale da lasciare a tutti il tempo di preservare con tenacia la propria esclusiva sopravvivenza».
Perchè è questo, dice il fondatore dell’Osservatorio del NordOvest, l’atteggiamento diffuso nella classe politica: «Lo si nota anche nel comportamento dei migliori ministri di questo governo: penso alla Gelmini, a Brunetta, alla stessa Prestigiacomo, tutte persone che fanno onestamente il proprio diovere ma che poi preferiscono restare disciplinatamente nel quadro generale, senza metterlo mai in discussione». Nemmeno i migliori del governo governano davvero: «No, ed è abbastanza chiaro che questo ceto politico non ha affatto l’ambizione di governare la crisi, coltiva semplicemente l’interesse a sopravviverle, ad autopresevarsi. Nella convinzione, peraltro fondata almeno in parte, che il declino sia difficile da arresta-
re in quanto legato a dinamiche globali». Dolce naufragio, dice Ricolfi, perché «non è che nel Mediterraneo sia in atto un disastro capace di portarci via il 20 per cento dei posti di lavoro in un anno. C’è una lento processo che l’anno prossimo per esempio ci lascerà con uno 0,5 per cento in meno di potere d’acquisto. Non abbastanza per scuoterci».
Ecco che scatta la logica dell’autopreservazione, spiega l’editorialista della Stampa. Funzionali al primordiale istinto sono i
A Tremonti basta compiacere l’Ue, non gli interessa indirizzare i tagli in modo selettivo
conflitti tra i partiti e al loro interno, le accuse, gli scaricabarile. Diversivi appunto, utili a lasciar avanzare il deserto senza che nessuno o quasi se ne accorga. Irresponsabilità? Più una dinamica inesorabile, secondo il professore di Analisi dei dati dell’università di Torino: «A proposito di quei ministri che vanno giudicati positivamente (e che non a caso sono tra i meno velenosi con i colleghi di maggioranza, nda) direi che incarnano al meglio una certa tendenza a occuparsi soltanto dei problemi di
propria competenza, senza mettere in discussione il contesto, fino a inghiottire più di un rospo. Penso alla Gelmini che non dice nulla se i fondi individuati per premiare gli insegnanti migliori vanno agli scatti d’anzianità. O a Brunetta che incassa senza colpo ferire il rinvio della class action, o ancora a Catricalà che pur non essendo un ministro si aspettava di sicuro una migliore riforma dei servizi pubblici locali». Anche qui, anche in questa rassegnata accettazione del contesto, c’è istinto di sopravvivenza?«Da un punto di vista sociologico sono portato a dire sì. Ma l’analisi psicologica può suggerire l’inevitabile obbedienza ad alcune regole non scritte della politica: primo, non criticare mai il capo, secondo, non compiere mai atti che possano mettere in pericolo l’unità della tua parte». Se anche i migliori non si agitano per opporsi al dolce naufragio è per questo. Con il risultato però che il destino della nave resta immutato.
C’è poca speranza, oltre la paura di Ricolfi («i nostri figli quando capiranno dove li ab-
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Siamo alla crisi finale di una classe politica che non capisce quel che gli capita intorno
Se la Seconda Repubblica finisce (male) come la Prima Berlusconi aveva una sola chance: accettare la proposta-provocazione di Casini. Invece gli ha risposto di no e si è chiuso in un angolo di Enrico Cisnetto osa potrà accadere in questa torrida estate nella tempestosa politica italiana? Ci dobbiamo aspettare dei colpi di scena tali da cambiare lo scenario, o semplicemente si susseguiranno litigi e scandali, come è stato negli ultimi mesi, senza che però succeda nulla di decisivo? È evidente che chi sta partendo per le ferie si sta ponendo proprio queste domande – in un misto di preoccupazione, ripulsa e rassegnazione – e chi invece deve ancora farlo trova nello stillicidio delle notizie provenienti dai palazzi romani un motivo in più, oltre al caldo e alla stanchezza, per staccare la spina. Non fino al punto, però, di non domandarsi con una certa angoscia cosa ne sarà della politica italiana, e quindi di tutti noi, di fronte allo sfascio che ogni giorno di più il logorarsi del Pdl, del governo, della maggioranza e più complessivamente della Seconda Repubblica, produce. Personalmente, non potendo andare in vacanza cercherò di utilizzare il mio lavoro – gli oltre cento appuntamenti di Cortina InConTra, a Cortina d’Ampezzo, iniziati sabato 24 luglio e che si concluderanno il 29 agosto – per tentare di trovare risposte a questo rebus. Gianni Alemanno, habitué di Cortina InConTra tanto da offrirmi la possibilità di replicarla nella Capitale con Roma InConTra, ha pubblicamente dichiarato che cercherà di usare il palcoscenico ampezzano per tentare l’impossibile: far fare pace a Berlusconi e Fini.
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Vedremo, ma già nei primi tre giorni, con gli interventi dei ministri Brunetta (berlusconiano senza enfasi) e Ronchi (finiano prudente) e del direttore del Corriere della Sera, la sensazione è che dal casino non si uscirà tanto facilmente – salvo l’ennesimo colpo di teatro del Cavaliere, che De Bortoli ha vivamente auspicato ma che nello stesso tempo ha considerato improbabile (sottintendendo che l’uomo non è più quello di prima) – ma nessuno sa cosa potrà davvero accadere. Infatti, la situazione somiglia maledettamente a quella del 1992, quando gli uomini della Prima Repubblica caddero sotto i colpi della magistratura per non aver saputo né intuire quello che stava per accadere né successivamente avere avuto la capacità di reagire. Anche ora la classe politica oscilla tra il minimizzare, il cavalcare e il reagire scompostamente e senza reale forza e lucidità. Con una differenza, però: mentre allora la di-
namica era più facile da interpretare – la sinistra che arma la mano della magistratura (per taluni) o più banalmente ne approfitta (è la mia tesi) per far fuori Dc e Psi – oggi è tutto maledettamente più complicato, perché non c’è più il pool di Milano ma tanti magistrati in cerca di visibilità ma soprattutto non c’è più la sinistra, e quindi il frullatore appare letteralmente impazzito. Se a questo si aggiunge il fatto che la corruzione è dilagante – Brunetta ha ammesso che Tangentopoli non è certo
Dalla pletea di «CortinaInConTra» si vede un Paese diviso a metà tra rabbia e speranze finita allora e De Bortoli ha denunciato che è di molto aumentata in questi ultimi anni – se ne ricava un quadro da“tutti contro tutti”davvero allarmante.
Detto questo, torniamo alla domanda iniziale: cosa può succedere? Il condirettore del Giornale, Sallusti, ha spiegato che così andando avanti le cose, sarà inevitabile andare alle urne. Berlusconi, lo abbiamo detto più volte, ha in testa questa “soluzione”da quando è scoppiato l’anno scorso lo scandalo Noemi e la signora Veronica ha pubblicamente denunciato la suo presunto stato di “malato di sesso”. Ci ha provato e riprovato, ma si è sempre fermato davanti al pericolo di fare l’affondo e trovarsi con un altro governo senza interruzione della legislatura. Per questo o gira davvero la carta, oppure la minaccia sarà sempre di più una pistola scarica. Nel primo caso, il premier potrà scegliere se chiedere la “sfiducia motivata” o dimettersi nelle mani del Capo dello Stato, ma in entrambi i casi dovrà
verificare se, tra Pdl e Lega, esiste ancora una maggioranza di parlamentari disposti a seguirlo fino al punto di fare harikiri interrompendo anzitempo il proprio mandato, perché in caso contrario nascerebbe un governo senza di lui e sarebbe costretto a una fine ingloriosa. Nel secondo caso, invece, Berlusconi si affida o alla sua capacità di schiacciare gli avversari – ma tra i due, Fini non è certo parso il soccombente, finora – o all’invenzione di uno spariglio come quello che ha vagheggiato proponendo all’Udc di entrare nella maggioranza al posto della pattuglia finiana, o infine al perdurare dello statu quo, quell’effetto di stanco trascinamento delle cose che già gli aveva consentito di completare la legislatura 2001-2006.
Ma sul fronte Udc, Casini gli ha già risposto chiaramente e nel modo migliore: io non pongo il veto sul tuo nome come premier di una diversa coalizione, ma essa tale deve essere e quindi occorre passare per una formale crisi di governo. Il Cavaliere ha risposto no per paura che la crisi porti ad altre soluzioni, e si è giocato l’unica chance saggia che aveva. Per ora, dunque, non rimane che il guadagnare tempo. E d’altra parte questa è stata, di fatto, la strada battuta fin qui dal premier, contando ancora una volta sulla debolezza altrui. Ma davvero è pensabile andare avanti così, con un “caso”al giorno, per altri due anni e mezzo? Tutto è possibile in questo benedetto Paese, ma francamente non credo. Al contrario, penso che i nodi verranno al pettine presto, molto presto. Se non in questa coda di attività parlamentare tra fine luglio e inizio di agosto, in autunno. Anche perché gli italiani cominciano a non poterne più di questo andazzo, e anche chi ha votato Pdl e ha creduto in Berlusconi vacilla. E non è certo in queste condizioni politiche che si può agganciare la ripresa e indurre la speculazione finanziaria a mettersi il cuore in pace sull’inattaccabilità del nostro debito pubblico. Comunque, fra poco sapremo. E se ci sono novità da Cortina, cari lettori di liberal, vi avverto. (www.enricocisnetto.it)
biamo portati ci si rivolteranno contro imbufaliti»). Si è sopraffatti, nella sua analisi difficile da confutare, persino dalla sensazione che davvero«certi appelli come quello di Mario Monti o i richiami spesso rivolti da Napolitano, siano tanto condivisibili quanto inutili». Effetti del declino somministrato «in dosi omeopatiche», come dice lo studioso: è la deresponsabilizzazione, o meglio l’alienzaione delle responsabilità, che poi è quel processo in base al quale ciascuno si mette all’opposizione di qualcun altro (pur facendo parte della maggioranza, spesso). Colpisce che in fondo anche Tremonti sia imprigionato in questo meccanismo. Lui, il solo forse capace di avere una visione nel governo, si abbandona all’inesorabile sia quando scolpisce una manovra «ordinata» dai vincoli di Bruxelles sia quando «attende che la svolta arrivi sempre da un agente esogeno, cioè dalla ripresa del commercio mondiale», come dice Ricolfi. Nemmeno lui, l’ideologo e di fatto il vero leader di questo governo, governa davvero. «Mi interrogo spesso sul suo atteggiamento», dice lo studioso torinese, «ne ho parlato con lui e sono arrivato a una mezza conclusione: ci sono giochi che lo appassionano davvero, cioè i conti pubblici, i giochi europei, il destino dell’Occidente, e altri che lo annoiano mortalmente, e mi riferisco alla bassa cucina delle norme attuative, dei disegni di legge. La sua filosofia è tagliare, non gli interessa come si taglia. Lui è felice come una pasqua se può presentarsi a Bruxelles con i compiti fatti, con il quaderno pulito».
Tremonti però non va oltre, osserva Ricolfi, «non si pone il problema di assegnare agli amministratori locali effettive capacità commissariali. eppure quella massa enorme di sprechi che opprime i nostri conti, tra 80 miliardi di spesa buttata via e 40 miliardi di evasione, ci lascerebbe margini di intervento enormi. Margini che smentiscono la tesi tremontiana secondo cui nulla può essere fatto se non attendere l’arrivo di nuovi impulsi esogeni». Nel mare del lento naufragio c’è anche il federalismo «che è un federalismo-patacca, perchè mancano i dati.Va dato atto a Luca Antonini di aver disvelato questo pasticcio, di averci spiegato con la sua commissione che “mancano le basi informative” per attuare il federalismo. Poi però si fanno lo stesso i decreti attuativi entro luglio per far contenta la Lega». Vincoli di coalizione, soggezione alla golden share padana, certo, ma anche «incapacità dell’opposizione di respingere le pressioni sociali e reclamare maggiore verità e piglio riformista da un governo in fondo assai conservatore».Tutti impegnati a opporsi ma nessuno che abbia voglia di impugnare il timore e sottrarre la nave alla deriva.
diario
pagina 6 • 27 luglio 2010
Lingotto. Domani i sindacati chiederanno lumi a Marchionne sul futuro italiano. Si rafforza l’ipotesi Newco per Pomigliano
Fiat, Bonanni contro il governo Il segretario della Cisl attacca: «Dov’è la politica industriale?» ROMA A via Po ancora oggi ricordano con molto fastidio che alle cene di gala della Fiat erano i Luciano Lama, i Bruno Trentin o i Sergio Cofferati a sedersi accanto all’Avvocato. Per il segretario della Cisl (come del resto per quella della Uil) il posto riservato era invece al tavolo dei manager di primo piano, dei Romiti. Domani i sindacati vedranno al ministero del Lavoro Sergio Marchionne per capire se esiste ancora un piano Fabbrica Italia. Oppure, se dopo Mirafiori anche gli altri stabimenti italiani perderanno pezzi di produzione a beneficio degli impianti esteri, come accadrà con il monovomume da assemblare in Serbia. E l’immagine del tempo che fu torna con prepotenza alla memoria nei giorni in cui Marchionne sembra più interessato alla risposte della Cgil – e la lettera dell’ex delegato Fiom PIer Franco sull’Unità titolata ”Le tute blu no si arrocchino”fa ben sperare – che alle mediazioni a egli sforzi di Raffaele Bonanni. Ieri il segretario della Cisl è sbottato. Ospite del “Caffè” di Corradino Mineo su Rainews, ha mandato a dire a «Guglielmo che lui non merita neanche il vitello più grasso, perché sono più volte che noi allestiamo un banchetto per salutare il suo ritorno. Vuole un gesto da noi? Per una volta tanto faccia lui un passo avanti, invece chiede sempre agli altri di fare passi indietro». Dietro lo sfogo non c’è soltanto l’aver messo la faccia su un trattativa complessa – quella su Pomigliano – che deroga su principi consolidati come il diritto
di Francesco Pacifico
due anni che rincorriamo aziende che vogliono andare via dall’Italia, cerchiamo di risolvere problemi di lavoratori minacciati di licenziamento o licenziati». Il problema è più generale: perché se non c’è un governo che fa una seria politica industriale, se non si nomina al più presto il nuovo ministro dello Sviluppo, come non si può affrontare il caso Fiat , così non si possono gestire le tante crisi industriali presenti o il ritorno al nucleare, che stanno a cuore alla Cisl. Domani Bonanni – e con lui il leader della Uil Luigi Angeletti – dovrà convincere Sergio Marchionne che il sindaca-
Bene i listini europei. Trichet: grande prova
I test aiutano le Borse ROMA. Molti operatori dubitano ancora della loro validità scientifica, ma l’esito degli stress test – soltanto 7 banche su 91 sono a rischio di default – ha portato molto ottimismo sui mercati.
Non a caso il presidente della Bce Jean-Claude Trichet ha parlato di «passo chiave per fare chiarezza sulla solidità degli istituti di credito. È stato davvero un
In via Po temono forti ripercussioni dopo aver garantito la pax sociale nello stabilimento campano. Il Lingotto attende novità dalla Cgil di sciopero e gli straordinari. E che per la rigidità di Epifani e di Marchionne rischia di saltare. Bonanni, infatti, ha lanciato strali soprattutto verso il governo. Che «non sta facendo nulla e non mette a disposizione neanche l’unica cosa che dovrebbe fare: cioè il coordinamento». All’esecutivo, verso il quale non ha mai lesinato responsabilità,“riconosce”soltanto di non aver messo a disposizione le risorse che in verità non ha. Ma non prospetta nessuna soluzione per questa azienda e per altre realtà. Sono
to italiano è capace di garantire alle aziende quella pax sociale necessaria per aumentare la produzione e implementare delicate rimodulazioni ai processi di produzione, come quelle che attendono il sito di Pomigliano d’Arco. Non ci sono incentivi alla rottamazione da rinnovare. Mentre fondi per nuove mobilità lunghe (come quella firmata nel 2007 da Cesare Damiano e che pure torneranno) sono impensabili a fronte di una manovra da 24,9 miliardi. Di conseguenza, di più, le parti o il governo non possono concedere
esercizio di trasparenza molto importante e apprezzato dalla Bce. E poi è stato impressionante il modo in cui sono stati condotti i test con 27 capitali che nello stesso momento comunicavano gli stessi schemi». Non sono mancati benefici sui maggiori listini europei. Dopo la pubblicazione dei dati sugli stress test europei,
giornata di forti acquisti in Piazza Affari per buona parte del settore del credito, che ha trainato l’intero listino. A Milano, giornata di acquisti. Il titolo del Banco popolare, il migliore tra quelli a elevata capitalizzazione, ha chiuso in crescita del 4,36 per cento a 4,78 euro, quello di Intesa SanPaolo del 4,06 a 2,5 euro. Bene anche la Banca popolare di Milano, che non è stata peraltro oggetto dei test, e che ha chiuso in rialzo del 2,42 a 3,91 euro, e Monte dei Paschi di Siena (+1,72 a un prezzo di 0,97). Stabili Ubi e Unicredit, i cui titoli sono saliti rispettivamente dello 0,56 a 8,04 euro e dello 0,37 per cento a quota 2,04.
Tutte positive in chiusura le Borse del Vecchio Continente: a Londra l’indice Ftse-100 ha terminato la giornata in progresso dello 0,72 per cento a 5.351 punti, a Parigi il CAC40 ha guadagnato lo 0,81 a 3.636 punti mentre a Francoforte il Dax è avanzato dello 0,45 a 6.194 punti, ad Amsterdam l’Aex di un +0,20 a 337 punti e a Madrid l’Ibex35 di un +0,83 per cento a 10.388 punti.
all’Ad di Fiat. Ed è questo il nodo della questione. Se Marchionne ha scelto la Serbia è perché il governo paga oltre due terzi dell’investimento necessario, per non parlare della concessione dei terreni e e della zona franca. Poi un operaio torinese guadagna 1.750 euro, uno di Kragujevac arriva a 500. Domani l’Ad di Fiat, a chi gli ricorderà gli incentivi o le casse integrazioni generamente concessi, replicherà che a Pomigliano le auto costeranno 500 euro in più rispetto alla Polonia. E se è vero che oggi il gruppo fa fatica a vendere un’auto oltre Chiasso, in futuro – dei sei milioni di pezzi che si vogliono costruire – appena il 15 per cento è destinato a restare sul mercato domestico. Senza contare l’atteggiamento sindacale: al Lingotto ha non poco inorridire l’aver sentito i Cobas annunciare uno sciopero preventivo sugli straordinari a Pomigliano per i prossimi 4 anni! Ma più che una nuova legge della rappresentanza in tempi brevi, a Torino vedrebbero come gesto di responsabilità il via libera a una newco per il sito campano, dove giocoforza i lavoratori avrebbero condizioni diverse rispetto a quelle degli altri dipendenti Fiat.
L’ipotesi non piace alla Cgil, ma Bonanni ha già fatto sapere che potrebbe dare il suo assenso. E per essere più credibile, il numero uno di via Po, farà anche pulizia in casa sua, smentendo il segretario della Fim torinese, Gianfranco Chiarle, secondo il quale Mirafiori non è Pomigliano e non c’è spazio per 18 turni. Di conseguenza per la Cisl è fondamentale salvare il progetto “Fabbrica Italia”. Accanto all’innalzamento della produzione domestica da 600 mila ai1,4 milioni di vetture, c’è la consapevolezza che deroghe per Pomigliano renderanno più facile il ruolo del sindacato sul territorio, senza il quale non si raggiungerà quella partecipazione degli utili e delle responsabilità che è un mantra in via Po. Un po’ la stessa strategia che ha spinto Bonanni ha coprire le spalle al governo sulle pensioni, per poi in futuro influenzare la riforma fiscale e quella degli ammortizzatori sociali. «La linea della Cisl è stata ineccepibile», nota Pier Paolo Baretta, ex segretario confederale e oggi parlamentare del Pd, «peccato che il governo gli stia tiranado una sola».
diario
27 luglio 2010 • pagina 7
I bagni di «Hollywood» e «The Club» usati per sniffare
Si indaga sulla morte dei 19 ragazzi accorsi alla «Love parade»
Scandalo a Milano, chiusi due locali per cocaina
Duisburg, dopo la tragedia ora l’inchiesta
MILANO. Si spengono le luci
ROMA. Dopo tre gioni dalla
in due locali «fashion» della Milano da bere. L’autorità giudiziaria ha disposto il sequestro delle discoteche «Hollywood» e «The Club», cinque persone sono finite agli arresti domiciliari, mentre altre 19 risultano indagate, nell’ambito dell’inchiesta della Procura di Milano su presunte mazzette per «addomesticare» i controlli nei locali notturni milanesi. Anche Belen Rodriguez è tra i testimoni dell’inchiesta: nell’ordinanza di custodia cautelare a carico di cinque persone, tra cui il presidente del Sindacato italiano dei locali da ballo, Rodolfo Citterio, compare infatti anche la testimonianza della showgirl e conduttrice televisiva, che nel 2007, interrogata per l’inchiesta «Vallettopoli», ha raccontato agli inquirenti che all’interno dell’«Hollywood» veniva consumata abitualmente droga, in particolare cocaina. L’inchiesta, coordinata dal pm di Milano Frank Di Maio, è nata da uno stralcio di quella che ha riguardato Fabrizio Corona in relazione a presunti fotoricatti ai danni di vip. Gli inquirenti attraverso l’uso di telecamere nascoste, hanno documentato con quanta facilità si riusciva a sniffare cocaina nei bagni dei due locali alla moda. Nelle carte dell’inchiesta ci sarebbe anche una intercettazione nella quale Emiliano Bezzon, ex comandante della polizia locale di Milano, parla con Citterio, chiedendogli di fargli sapere quali sono i locali dove si spaccia, in modo da intervenire con un blitz delle forze dell’ordine. Bezzon risulta indagato nell’inchiesta, per abuso d’ufficio e rivelazione di segreto d’ufficio. Abituali consumatori della «polvere bianca»erano soprattutto i volti noti dello spettacolo. Dagli stessi racconti della Rodriguez emerge con chiarezza quanto fosse facile ottenere e consumare cocaina all’interno dei locali.
tragedia che ha provocato la morte di 19 ragazzi, a Duisburg, si indaga sui motivi. Doveva essere una festa all’insegna della musica techno, invece, si è trasformata in un inferno a cielo aperto. Più di un milione di persone venute da tutta Europa per partecipare alla «Love Parade». Tra le giovani vittime c’è anche un’italiana, Giulia Minola, 21enne bresciana. Travolta dalla folla delirante, schiacciata dal quel vortice umano. Giulia era alla Love Parade assieme a un’altra ragazza, Irina Di Vincenzo, 21 anni, rientrata nel pomeriggio di domenica a Torino, la sua città. La ragazza è stata curata in ospedale a Duisburg
De Magistris: «Pronto a conquistare Napoli» «Ma potrei anche correre come leader nazionale» di Lucio Lussi
ROMA. La sinistra in cerca d’autore (per ora) è scossa soprattutto dalla discesa in campo diretta diVendola e dei vendoliani: c’è chi dice che occupano uno spazio vuoto; c’è chi ne segnala l’eccessivo anticipo sui tempi. Ne parliamo con un diretto interessato, Luigi De Magistris. Onorevole De Magistris, Vendola l’ha lanciata come candidato sindaco al Comune di Napoli. È d’accordo? Non me l’ha chiesto solo Vendola, ma anche la società civile e una parte cospicua dei napoletani. La mia candidatura è un’ipotesi sul tappeto, ma non è concreta. E se tutto il centrosinistra fosse unito sulla sua candidatura? In questo caso sarai maggiormente disponibile e la mia candidatura acquisterebbe ulteriore concretezza. Se ci fosse un accordo nazionale di alto livello che impegni tutte le forze del centrosinistra ad effettuare un gioco di squadra chiaro e leale, potrei candidarmi. Come giudica le dichiarazioni di Vendola autocandidatosi alla guida del centrosinistra? In questo momento è prematuro parlare di Vendola leader del centrosinistra alle politiche del 2013. Il centrosinistra ha bisogno di un confronto interno, anche aspro, sui contenuti. Prima delle spinte leaderistiche viene il gioco di squadra, indispensabile per fare bene e costruire un programma intorno al quale aggregare il gruppo che dovrà sconfiggere Berlusconi. Il centrosinistra ha tante persone in grado di ricoprire i panni del leader, Vendola, Di Pietro, Marino e anche io. Vendola ha intenzione di “sparigliare” il centrosinistra. Cosa vuol dire? Nichi è convinto che il centrosinistra abbia bisogno di discontinuità. La gestione politica non eccelsa degli ultimi anni impone un cambiamento di rotta, basato sulla semplificazione e sulla scelta condivisa del leader e non attraverso i classici giochetti di vertice. Di Pietro e alcuni esponenti del Pd hanno stoppato il governatore rosso, che ha trova-
to, invece, una sponda in Veltroni e Marino. Con queste premesse il Pd rischia un’ulteriore lacerazione? Più che di lacerazione, parlerei di fervido dibattito interno al Pd.Vendola è intelligente e se ha compiuto il passo di anticipare in modo tempestivo la sua candidatura sa di poter contare su numerosi consensi anche tra i democratici. Tra lei e Vendola corre una sincera amicizia. Una nuova leadership per la guida del Governo del paese? Io sono un grande amico di Nichi ma faccio parte dell’Idv.Vendola è un punto saldo del centrosinistra, così come lo sono io, come lo è Di Pietro e come lo sono alcuni leader del Pd. Nessuno di noi rappresenta un primus inter pares, siamo tutti sullo stesso livello. A solo tre mesi dalle regionali, Vendola ha dichiarato di voler diventare un leader nazionale. Un tradimento nei confronti delle persone che lo hanno votato? Nichi è diventato governatore grazie alla fiducia e alla riconoscenza dei pugliesi che lo hanno ritenuto capace di risolvere le problematiche della regione in cui vivono. L’impegno preso con gli elettori è una cosa seria e va mantenuto. Il percorso avviato da Vendola con le fabbriche e i laboratori politici è la strada giusta da percorrere per il rinnovamento della politica? Le Fabbriche sono un’idea intelligente per coinvolgere la base e la cittadinanza. Anch’io ho dato vita ad un’associazione, chiamata In Movimento, che ha come simbolo il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, il popolo che si mette in moto per risolvere la crisi. Parliamo di politica nazionale. Ci crede a un governo di larghe intese? No, anche perché i finiani sono i primi a non volere la spaccatura ma si limitano a tirare la corda per un riposizionamento dei rapporti di forza interni. Molto meglio un governo tecnico di transizione che riformi la legge elettorale e porti il paese a nuove elezioni”.
«Il centrosinistra ha bisogno di discutere, in modo anche aspro, sui contenuti. La scelta del leader viene subito dopo»
e poi dimessa. Quando è arrivata in ospedale non sapeva della morte dell’amica.\ Irina: «E’ successo tutto in un minuto. C’era talmente tanto casino... un inferno». Irina Di Vincenzo ricostruisce così la tragedia che le ha portato via la sua amica Giulia, compagna di studi al corso di design e moda del Politecnico di Milano. «E’ stato un momento di panico collettivo. Non si poteva andare né avanti né indietro. Poi la situazione è degenerata quando io e Giulia eravamo tra il secondo e il terzo tunnel. C’erano delle scale che salivano sul tunnel e che servivano da sfogo. Ma la polizia le ha chiuse». Dopo il disastro e le accuse, i responsabili della Love Parade hanno annunciato la fine del più celebre raduno di musica techno. Le parole non bastano per spiegare le dimensione dello sconcerto - dichiara l’organizzatore Rainer Schaller - la cosa più importante è che si chiariscano i fatti. Dopo il dolore espresso ieri dal cancelliere tedesco Angela Merkel, oggi ha parlato il presidente tedesco Christian Wulff per chiedere un’inchiesta approfondita. Sulla stampa tedesca è polemica sui 1200 agenti predisposti a fronte del milione e mezzo di partecipanti.
mondo
pagina 8 • 27 luglio 2010
Afghanistan. Oltre agli enormi costi totali, emerge un quadro militare inquietante: il Pakistan “collabora con al Qaeda” mentre i marines “uccidono i talebani a vista”
Kabul, la guerra segreta Pubblicati su internet 92.000 documenti segreti Usa che disegnano un conflitto diverso da quello ufficiale di Osvaldo Baldacci a situazione in Afghanistan è molto dura e non sempre pulita. E il Pakistan e l’Iran rappresentano una complicazione in più. È questo lo scoop che mette a repentaglio la stabilità del sistema della Difesa statunitense, scoop pubblicato documenti alla mano da un particolare sito internet e ripreso da diversi importanti giornali internazionali. Si tratta della maggiore fuga di notizie della storia militare americana. «Se ci accusano e polemizzano vuol dire che abbiamo fatto del buon giornalismo». Respinge ogni responsabilità e sembra non preoccuparsi delle accuse di aver messo a rischio la sicurezza nazionale e quella dei soldati Julian Assange, fondatore di Wikileaks (leak in inglese vuol dire “fuga di notizie”, 39 anni, ex hacker australiano), il sito che ha messo in rete 92mila documenti e rapporti segreti militari americani dal 2004 al 2009 relativi alla guerra in Afghanistan. Sembra condividere il pensiero anche una grande testata liberal come il New York Times, certamente non interessata a creare altri problemi a Obama, anche se l’amministrazione di Washington ha fatto notare che l’arco di tempo dei documenti precede la nuova strategia della presidenza Obama.
I nuovi dossier rientrano in una strategia per screditare le intelligence di Pakistan e Usa
L
«L’informazione è significativamente di pubblico interesse. Questi documenti gettano luce sulla straordinaria difficoltà a cui gli Stati Uniti e i loro alleati sono sottoposti»: per questo il Nyt insieme all’inglese Guardian e al tedesco Der Spiegel hanno dato risalto alle informazioni svelate da Wikileaks. In realtà per gli esperti della materia nessuna delle maggiori “rivelazioni” contenute in quei file sembra una sconvolgente novità. Però conta il fatto che si tratti di documenti ufficiali e segreti, e conta l’impatto sul pubblico, la percezione che da essi se ne ricava e quindi quanto questa percezione potrà modificare gli atteggiamenti futuri dell’Amministrazione statunitense e della comunità internazionale. Nei documenti persi dal Pentagono si legge che la guerra in Afghanistan sembra più che altro un fallimento. La sintesi è quella di una guerra costosa e fallimentare: «Dopo aver
Scherza con i fanti… e lascia stare i Servizi di Mario Arpino he le cose in Afghanistan non vadano per il meglio lo si sapeva, anche senza che la grande stampa americana e tedesca portasse alla luce - illuminando il pubblico con le proprie verità - sette anni di dossier segreti dell’intelligence. Altrimenti, non saremmo già al terzo tentativo di far andare meglio le cose - riducendo ogni volta l’obiettivo - con i “cambi di strategia” che ormai tutti conosciamo. Che l’Isi, l’interservice intelligence dell’esercito pachistano, sia da sempre chiacchierata, anche questo è un fatto arcinoto. Tutti i servizi del mondo sono sempre chiacchierati. Negli ultimi quarant’anni abbiamo avuto numerosi esempi anche in casa. Sopra tutto perché pochi sanno esattamente cosa facciano, mentre tutti sanno benissimo che, se a qualcuno facesse comodo attaccarli, avrebbero ben poche opportunità di difendersi. Chi ha letto qualche libro sulla storia di Pakistan e Afghanistan, sa che la situazione etnicogeografica tra i due Paesi, la questione del Kashmir e le interferenza indiane e iraniane, l’occupazione russa, l’antico sostegno occidentale e, successivamente, gli insediamenti di al Qaeda e dei santuari talebani lungo le aree tribali di confine, hanno favorito un’enorme sviluppo dell’Isi, portandone a volta qualche frangia apparentemente fuori controllo.
C
Ma questo, data la natura di tutti i Servizi (e quindi anche dell’Isi) non lo possiamo dare per certo. Anche se è vero che - come racconta Ahmed Rashid - taluni infiltrati nel Waziristan e nelle aree tribali a forza di camuffarsi sono diventati “più talebani dei talebani”. In ogni caso dei risultati ci sono, se le truppe di Musharraf prima e di Kayani poi - pur con perdite non indifferenti - sono riuscite a dare agli estremisti religiosi di casa propria sonore batoste. Tali da costringerli ora ad agire isolati nelle grandi città, con i metodi propri di al Qaeda. Quasi ogni giorno, poi, i “droni”americani riescono a colpire con attacchi mirati, tempestivi e selettivi piccoli bersagli nelle aree isolate, decapitando un buon numero di bande di insurgents.Tutto ciò, senza una collaborazione stretta dell’Isi non sarebbe possibile. D’altra parte, l’uscita di N.Y. Times, Guardian e Der Spiegel era prean-
nunciata, e sembra avere il sapore di una manovra concentrica ben coordinata. Circa una settimana fa, infatti, il Washington Post presentava una ponderosa inchiesta, condotta da una ventina di ricercatori. Avevano scandagliato tutte le aree dell’intelligence americana, dal Pentagono - che ne assorbe circa due terzi alla Cia e l’Homeland Security. Dal rapporto appare una sinistra immagine di un sistema che dopo l’11 settembre è cresciuto a dismisura, con un eccesso di notizie che nessuno riesce a utilizzare, un ristrettissimo numero di Super Users sistematicamente schiacciati dal lavoro, un sistema intelligence che ormai, secondo il Post, è totalmente fuori controllo. È molto probabile che ci sia del vero, ma la visione è talmente apocalittica che chia-
Quella di ieri è soltanto l’ultima di una lunga serie di “fughe” di notizie sulla guerra
ramente mira a un certo grado di discredito dei servizi alleati in genere. Quelli pachistani, nella situazione attuale, non possono che essere compresi. Sempre negli stessi giorni, un documento della London School of Economics dichiara testualmente qualcosa di incredibile: il Pakistan, ai più alti livelli politici e militari, darebbe supporto agli insurgents attraverso l’Isi con ingenti aiuti finanziari, logistici, militari e strategici, essendo “profondamente coinvolto” dalla parte del “nemico”. La manovra mediatica - originata da non si sa chi e basata su mezze verità non dimostrate - a questo punto è evidente. Ora, lasciamo perdere per un momento ogni possibile disinformazìa e cerchiamo di ragionare con la nostra testa. I servizi pakistani sono comandati dal generale Ahmad Pasha, il cui superiore diretto è il capo dell’esercito e delle forze armate, il generale Ashfaq Kayani.
Il quale fa parte di un comitato di coordinamento strategico congiunto con il Pentagono, presieduto dal chairman del Joint Chief of Staff, ammiraglio Mike Mullen, che a sua volta riferisce direttamente a Robert Gates, al presidente Obama ed al Congresso. L’ultima volta si sono stretti la mano la settimana scorsa, a Islamabad. Se tutto quanto si dice fosse vero, allora dovremmo credere che il generale Kayani, che manda i propri soldati a combattere i talebani e, spesso, a morire, lo faccia pur essendo deeply involved a favore della guerriglia. Parimenti, dovremmo pensare che l’ammiraglio Mullen, che con “l’eccesso di informazioni” di cui abbiamo parlato non può non sapere, stringa mensilmente la mano e si accordi con un generale che “supporta” quei talebani che ogni giorno uccidono un certo numero di soldati americani… Certamente l’Isi, se fa il suo mestiere, è coinvolta in Afghanistan, con i metodi propri dei servizi segreti. Come lo sono la Cia, il Sis britannico, il Raw indiano e probabilmente anche gli italiani. D’altra parte, la nuova strategia non richiede che si recuperino i talebani “buoni”? E allora, lasciamo che ognuno faccia il proprio mestiere, tenendo in mente un proverbio che, con una lieve modifica, potrebbe recitare: «Scherza con i Fanti, e lascia stare… i Servizi!».
mondo
27 luglio 2010 • pagina 9
ve che i talebani sono entrati in possesso di letali missili terraaria ma ricerca di calore. Nonché i veri risultati dell’escalation della campagna talebana con le mine nascoste, che finora ha causato almeno 2.000 vittime civili, e che è tra le principali cause di morte dei soldati internazionali. E poi la collocazione delle basi segrete da cui partono e da cui sono telecomandati (dal Nevada) i droni Reaper, gli aerei senza piloti usati per perlustrare il territorio e per condurre più di quanto si sapesse attacchi missi-
tatori suicidi. Arriverebbe quindi una conferma dei sospetti che l’Isi abbiano guidato l’insurrezione afghana nonostante gli aiuti militari statunitensi da oltre un miliardo di dollari all’anno. Il Pakistan ha immediatamente smentito queste notizie e ha anzi accusato di mettere in pericolo l’intera regione, l’amicizia tra i Paesi e di conseguenza la vita di moltissime persone che lottano contro il terrorismo. Si tratta di informazioni “senza alcuna sostanza”, ha detto l’ambasciatore a Washington. La verità probabil-
La Casa Bianca definisce “irresponsabile” la diffusione dei testi e Islamabad smentisce le accuse. Il sito si difende dagli attacchi: «Le notizie, se sono vere, provocano sempre critiche e proteste»
speso 300 miliardi di dollari in Afghanistan, gli studenti coranici sono più forti ora di quanto non lo fossero nel 2001». E questa frustrazione ha generato una tendenza a permettere metodi sempre più sporchi. Si formalizza poi il ruolo ambiguo del Pakistan e dei suoi servizi di intelligence, decisamente troppo vicini ai talebani. Un settore molto delicato dei “war logs”, diari di guerra, riguarda la conduzione di una guerra sporca.
Un capitolo del dossier riguarda le vittime civili delle forze della coalizione: dai file emergono
144 di questi incidenti. Secondo le stime ufficiali 195 civili sono rimasti uccisi in incidenti di questo genere ma la cifra - scrive il Guardian - è probabilmente sottostimata. Alcuni incidenti sono stati provocati dai controversi raid aerei contro cui ha protestato il governo afghano ma altri sono il frutto di sparatorie contro automobilisti o motociclisti disarmati per paura di potenziali attentatori suicidi. Le truppe quindi avrebbero ucciso centinaia di civili in scontri che non sono mai emersi. Inoltre si legge nero su bianco dell’esistenza di una unità segreta delle forze spe-
ciali che ha il compito di dar la caccia ai talebani per“ucciderli o catturarli” senza processo. Secondo il fondatore di Wikileaks Assange nei file ci sono “probabili crimini di guerra”, citando appunto ad esempio le operazioni della Task Force 373, “uno squadrone della morte”delle forze speciali Usa incaricato di eliminare singole persone incluse in liste nere redatte da autorità locali: «Hanno assassinato almeno sette bambini e altri innocenti», accusa Assange. E ci sono anche altre verità scomode che secondo i file si sarebbe tentato di insabbiare: ad esempio le pro-
listici, anche oltre il confine pakistano. Il Pakistan, è questo il punto più dolente dei documenti, che sono rapporti dal terreno non rielaborati. Tra le carte emerge che «il Pakistan, pubblicamente alleato degli Stati Uniti, ha permesso a funzionari dei suoi servizi segreti di incontrare direttamente i capi talebani in riunioni segrete per organizzare reti di gruppi militanti per combattere contro i soldati americani, e perfino per mettere a punto complotti per eliminare leader afghani». E che «l’intelligence pakistana (Directorate for InterServices-Intelligence, il famoso ISI) lavorava al fianco di al-Qaeda per progettare attacchi” e “faceva il doppio gioco”.
I war logs ricostruiscono gli sforzi dei servizi segreti di Islamabad per gestire le reti di atten-
mente sta nel mezzo. È noto che i servizi segreti pakistani hanno avuto un ruolo storico fondamentale nel creare le milizie armate nella zona, dai mujaheddin che combattevano contro i sovietici ai guerriglieri nemici dell’India fino agli stessi talebani.
La situazione ufficiale è cambiata radicalmente dopo l’11 settembre 2001, ma è noto che il governo e le autorità pakistane, se non fanno un doppio gioco, sono però ambigue e devono barcamenarsi tra opposte pressioni. E non controllano tutti i meandri dell’enorme apparato militare e della sicurezza. Nei file compare anche un ruolo più sostanzioso dell’Iran, che fornirebbe ai talebani aiuti in denaro, armi e addestramento, arrivando a porre taglie sulle teste di soldati e funzionari afghani.
Wikileaks ha provato le torture nel carcere di Guantanamo e la corruzione in Kenya. Ma i suoi membri rimangono segreti
Gli scoop scomodi di un sito fantasma utta la verità sulla guerra in Afghanistan è, forse, un titolo troppo forzato. Ma la “benedizione” con cui il NewYork Times presenta al mondo i 92mila documenti relativi al conflitto è - di fatto - la consacrazione finale di Wikileaks. Un sito scomodo, semi-clandestino e con una finalità particolare: rivelare i comportamenti non etici di governi e aziende. Un lavoro che, va detto, compie in maniera egregia. Wikileaks (da leak,“fuga di notizie” in inglese) è un sito internet che dà spazio all’invio di materiale classificato e riservato, in genere documenti di carattere governativo o aziendale, da parte di fonti coperte dall’anonimato. Il progetto si occupa di preservare l’anonimato degli informatori e di tutti coloro che sono implicati nella “fuga di notizie”. Wikileaks, nei pronunciamenti dei suoi membri, vuole essere «una versione irrintracciabile di Wikipedia, che consenta la pubblicazione e l’analisi di massa di documentazione confidenziale». Lo scopo ultimo è quello della trasparenza da parte dei governi quale garanzia di giustizia, di etica, di una più forte democrazia. Il sito è curato da dissidenti del governo cinese,
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di Massimo Fazzi scienziati, attivisti, giornalisti; i suoi obiettivi principali sono le nazioni dell’ex Unione Sovietica, dell’Africa subsahariana e del Medioriente. Senza dimenticare gli Usa.
Gran parte dello staff del sito, come gli stessi fondatori del progetto, rimangono per ora anonimi. Julian Assange, un membro dell’Advisory Board di Wiki-
leaks, affermò che il piano originale prevedeva il lancio del sito per marzo 2007 ma che Wikileaks si trovò impreparato a causa del risalto mediatico scaturito dalla rivelazione anticipata del progetto. Le ricerche su Google relative a Wikileaks passarono da 8 ad oltre un milione nel giro di due settimane. Lo staff afferma di avere in preparazione per la pubblicazione oltre 1.200.000 documenti riserva-
ti. Nella seconda metà del 2007 è stata pubblicata una cospicua documentazione, anche di grosso impatto per i media; si va da materiale sull’equipaggiamento militare nella guerra in Afghanistan fino a rivelazioni sulla corruzione in Kenya. La gestione del campo di Guantánamo è uno dei casi più celebri venuti alla conoscenza del grande pubblico grazie a Wikileaks.
Nel 2008 il sito è stato chiuso per decisione di un tribunale californiano dietro le pressioni della banca svizzera Julius Bär, ritenutasi diffamata da documenti che l’accusavano di supportare l’evasione fiscale e il riciclaggio di denaro sporco. Il 29 febbraio 2008, lo stesso giudice che lo aveva chiuso, autorizzò la riapertura del sito citando il primo emendamento e questioni riguardo la giurisdizione. Il 5 marzo 2008 la banca rinunciò alla causa. Il sito adopera una versione modificata del software MediaWiki, lo stesso software in uso anche sui server di Wikipedia. Ad un anno dal suo lancio, avvenuto nel dicembre 2006, il suo database conta oltre un milione di testi.
panorama
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ragioni&torti di Giancristiano Desiderio
L’Italia (sporca e in ritardo) vista dal treno on c’è bisogno di un libro sulle ferrovie dello stato per sapere che il sistema ferroviario italiano versa in uno stato comatoso. Ma il libro di Claudio Gatti non è un libro qualsiasi perché il giornalista italoamericano - risiede e lavora a New York dal 1978 - ha condotto un’inchiesta meticolosa mettendo insieme testimonianze e documenti riservati, confronti e riscontri e in questo testo - Fuori Orario, edito da Chiarelettere - ha messo una dietro l’altra “le prove del disastro Fs”. Il bello cioè il brutto - è che dopo aver viaggiato sui treni italiani in compagnia di Claudio Gatti si scende con la chiara conferma che non solo il sistema ferroviario, ma l’Italia intera sia un disastro ferroviario. Insomma, TrenItalia e l’Italia sono la stessa cosa: l’una si specchia nell’altra.
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L’esperienza del treno è un’esperienza comune. Chi di noi non ha viaggiato in treno? E chi di noi non ha viaggiato male in treno? E chi di noi non ha brutti ricordi di arrivi e partenze, rimborsi e strafottenze? Ed è il meno, perché basta andare con la memoria alla tragedia di Viareggio del 29 giugno 2009 per far dissolvere ogni tipo di disservizio e ogni tipo di lamentela pur legittima. Ma è proprio questa la cifra del dramma delle ferrovie dello stato in Italia: il disastro è totale, nelle piccole e nelle grandi cose. Personalmente ho esperienza del viaggio in treno perché sono stato un pendolare: la lettura del libro di Gatti è stata una conferma di quanto già sapevo, ma non per questo è stata inutile. Il giornalista che per primo denunciò lo scandalo Oil for Food racconta della guerra tra aziende di pulizia, di carri merci scomparsi (con relativa vendita di pezzi al mercato nero), percorsi e tratte cambiate per puro interesse elettorale, lenzuola sporche fatte passare per pulite con una spruzzatina di spray igienizzante, gare truccate e via di questo passo. Ascoltate questa cosetta documentata, provata, verificata: «Fino al 1999, quando i dati della puntualità erano inseriti manualmente, era tutto taroccato. Adesso non è più così. Ma in assenza di controlli esterni, lo spazio per l’abuso permane, nel 2008 ben 1754 eurostar sono arrivati in ritardo ma registrati come puntuali». Diciamo la verità: non c’è cosa più italiana di questa, i treni che arrivano in ritardo ma sono registrati come puntuali è l’idea che di quella strana cosa che si chiama Italia non gliene frega niente a nessuno. Siamo alle solite: qualunquismo? Purtroppo, la vita italiana si lascia spiegare dal qualunquismo. A proposito di spiegazioni. Ma perché le ferrovie italiane fanno schifo? Perché ciò che conta non è il servizio, ma il disservizio. Ogni anno entrano nelle casse delle Fs sei miliardi di euro che vanno distribuiti per alimentare un sistema di collusione diffusa che è il più resistente ostacolo a qualunque tentativo di cambiamento. Su ogni famiglia italiana grava una tassa occulta di 273 euro l’anno. Buon viaggio, Italia.
Liberiamo l’Università dal controllo dello Stato Tutti i limiti di una riforma che non affronta i problemi di Francesco Saverio Marini ambiare tutto per non cambiare nulla: il rischio che corre l’attuale progetto di riforma dell’Università è quello di evocare il motto gattopardiano. Non voglio dire che è tutto da buttare o che il testo in discussione al Senato non introduca alcune significative novità: vi saranno dipartimenti più forti e facoltà più deboli, sarà diverso il ruolo dei Consigli di Amministrazione, sarà vantaggioso per gli Atenei federarsi, i concorsi per professore saranno nazionali, i rettori non saranno rieleggibili più di due volte, verrà incrementato il monte orario dei professori, ecc. Insomma, alcune proposte, esaminate singolarmente, sono, invero, apprezzabili e sembrano migliorare lo status quo, ma la questione è se l’idea di Università sottesa al progetto sia condivisibile.
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È diffusa nella società e,
sità culturale e la libertà dell’indagine scientifica. Il pensiero o si muove libero o implode.
La cura, dunque, non può essere il controllo governativo o l’accentramento del potere, perché il primo può essere eluso o, ancor peggio, condizionato e il secondo rischia di favorire propri quei “baroni” che si vorrebbero combattere. Se veramente si intende evitare la proliferazione di Università inefficienti e il connesso moltiplicarsi di professori “per nascita”, la strada non può che essere quella di favorire la concorrenza: si lascino giudicare gli Atenei dal mercato e lo Stato faccia un passo indietro, anzi “il” passo indietro. Piuttosto che entrare nella governance degli Atenei, stabilire quanto e come devono lavorare i professori universitari, regolare i concorsi o sperimentare criteri di valutazione governativa degli Atenei, si elimini il valore legale della laurea e si consenta alle Università di scegliere liberamente il proprio corpo docente e i propri ricercatori. Paradossalmente, proprio la cooptazione è il sistema più trasparente e responsabilizzante.
Occorre togliere il valore legale della laurea e cancellare il contratto «nazionale» per dare vera autonomia agli atenei
a fortiori, nel mondo politico, la convinzione che i professori lavorino poco e male, che l’Accademia sia viziata da un assetto clientelare e che sia ingolfata da figli “d’arte” e che, comunque, l’insegnamento universitario costi troppo all’erario. Critiche che vengono abilmente diffuse sui mass-media da qualche solerte professore, scientificamente inattivo da anni. Rispetto a tali problemi, la soluzione prospettata dalla maggioranza parlamentare – e condivisa dalla minoranza – è quella di deprimere l’autonomia universitaria, accentrando i concorsi e intensificando i controlli statali. Discutibile l’analisi, errata la soluzione. Il problema non risiede nel numero di ore che i professori trascorrono in aule, spesso inospitali, di qualche Ateneo. Né il familismo è stato favorito o indotto dalla mancanza di controlli governativi. Il virus dell’Università è esattamente l’opposto: è la pretesa dirigistica che si cela in ogni intervento normativo. Ci si dimentica troppo spesso che l’Università è nata, qualche secolo fa, libera e ha un bisogno esistenziale di libertà. Ci si dimentica che diversamente dalla scuola, nell’Università vi è una virtuosa contiguità e circolarità tra la didattica e la ricerca e che quest’ultima, a sua volta, presuppone per definizione, la curio-
Nella stessa prospettiva si potrebbe abbandonare il sistema della contrattazione collettiva nazionale, affidando il rapporto di lavoro tra Atenei e docenti alla contrattazione individuale. Solo così si potrebbe favorire la competizione tra Atenei nell’accaparramento dei professori più bravi e si premierebbe l’impegno e il merito di questi ultimi, evitando un livellamento verso il basso. Sempre in un’ottica di liberalizzazione, si potrebbe altresì consentire agli Atenei di avvalersi dei propri professori per fornire servizi professionali a pagamento, in modo da attrarre risorse e rafforzare il rapporto tra l’Università e il mondo del lavoro. In altri termini e in conclusione, il tentativo di emendare i vizi del sistema universitario non può che passare attraverso una scelta autenticamente liberale, con una conseguente assunzione di responsabilità da parte dei professori. C’è un Ministro giovane: stracci tutto e abbia coraggio!
panorama
27 luglio 2010 • pagina 11
L’arrivo in libreria del secondo tomo dedicato alla Passione e alla Risurrezione è previsto per la primavera del 2011
Il Papa ricomincia da tre Benedetto XVI sta lavorando al terzo volume della sua grande opera su Gesù el mezzo della bufera scandalistica il Papa scrive un terzo volume su Gesù: la notizia è stata data la settimana scorsa dal portavoce vaticano in un sobrio ragguaglio sull’estate di Benedetto XVI e personalmente la considero un’informazione incoraggiante. Il richiamo alla penitenza per il peccato nella Chiesa e la riproposizione della figura di Cristo: questa concentrazione del Papa su ciò che è essenziale è un insegnamento per tutti. «Da alcuni giorni il Santo Padre ha cominciato a preparare il terzo volume della sua grande opera su Gesù», ha detto il padre Lombardi. Avremo dunque un Gesù di Nazaret 3 dopo il primo volume uscito nell’aprile del 2007 e dopo il secondo “consegnato” in maggio agli editori incaricati della pubblicazione: cioè a Manuel Herder – l’editore tedesco che sta curando l’opera completa (Gesammelte Schriften) di Joseph Ratzinger – e a don Giuseppe Costa, direttore della Libreria Editrice Vaticana. L’arrivo in libreria del secondo volume “dedicato alla Passione e alla Risurrezione” è previsto per la primavera del 2011. Il terzo – il cui annuncio è una novità: finora si riteneva che i volumi sarebbero stati due – sarà dedicato “ai Vangeli dell’infanzia”. Supponendo che il Papa teologo impieghi nella stesura del terzo volume lo stesso tempo che gli ha richiesto il secondo, cioè tre anni, l’opera sarà completa nel 2013. E sarà costata al cardinale e Papa Ratzinger –
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di Luigi Accattoli essa porta in copertina il doppio autore “Joseph Ratzinger - Benedetto XVI”– la fatica di un decennio. Nella prefazione al primo volume il Papa raccontava di aver avviato il lavoro “durante le vacanze estive”del 2003-2004 e di averlo completato, dopo l’elezione a Papa,“usando tutti i momenti liberi”. Siamo di fronte al fatto inedito, in epoca moderna, di un Papa che pubblica un lavoro teologico dopo l’elezione. Come Giovanni Paolo era stato il primo Papa della nostra epoca - per avere un precedente si deve risalire al Papa umanista Pio II, Silvio
Piccolomini fondatore di Pinza - a pubblicare da Papa scritti letterari e autobiografici (ben cinque volumi, tra poesie, memorie e riflessioni), così il suo successore usa della stessa libertà per fare il teologo, avvertendo che in questa uscita dal ruolo magisteriale egli potrà essere “contraddetto”da “ognuno” che lo legga. Trovo significativo che il Papa tedesco porti - per questa via - a compimento quella riforma dell’immagine papale avviata dal Papa polacco che consiste nel restituire piena soggettività alla testimonianza cristiana dell’uomo chiamato a fare il Vescovo di Roma.
Questo capitolo sarà invece incentrato sui “Vangeli dell’infanzia” e dovrebbe essere completato nel 2013
«Questo libro non è assolutamente un atto magisteriale, ma è unicamente espressione della mia ricerca personale del volto del Signore»: così era scritto nella premessa al primo volume dell’opera intitolata Gesù di Nazaret. La nostra epoca più di ogni altra esige che il maestro si faccia testimone e quella della scrittura soggettiva è una delle vie tentate dai Papi contemporanei per rispondere a tale esigenza. Essendo l’uomo d’oggi tanto disamorato nei confronti del cristianesimo, che cosa potremmo attenderci di meglio da un Papa se non che
ripresenti al mondo la figura di Cristo, che è la sola che può attrarre alla fede? Un analogo coinvolgimento soggettivo e testimoniale io vedo nel modo in cui Papa Benedetto affronta lo scandalo degli abusi sessuali dei preti mettendosi in gioco personalmente, piangendo con le vittime, riconoscendo la colpa e chiedendone perdono come fosse sua, chiamando a penitenza.Vedo una forte continuità tra quell’impegno e questo sulla figura di Cristo che l’assorbe nella quiete di Castel Gandolfo. Mi piace contemplarlo in quell’amabile concentrazione su Gesù, dopo quella drammatica sul mistero del peccato che l’indusse a predicare per due intere stagioni, lungo l’inverno e la primavera, l’urgenza della penitenza alla sua Chiesa tempestata dagli scandali. Mi attendo molto dal suo ritiro orante e laborioso. Stupito - come osservatore - ogni giorno di più dalla rissa che vedo ardere intorno a lui, in tanti ambienti di Chiesa, tra chi vorrebbe usare gli scandali contro i progressisti o contro i conservatori, contro la Curia attuale o contro quella di prima, come se si trattasse di una faccenda da poco, dovuta a qualche errore di governo. E non invece - come viene ripetendo il Papa teologo - di una prova grande, una “persecuzione dall’interno” come l’ha chiamata con un audace neologismo, dovuta al mistero di iniquità che sempre insidia l’umanità della Chiesa come ogni altra umanità. www.luigiaccattoli.it
Nuovi saperi. Sull’ultimo gioiello Apple, la «Divina Commedia» diventa napoletana
L’iPad e la via «verace» di Dante di Pier Mario Fasanotti uando c’è di mezzo la carta stampata, divento credulone. Il testo per me è sacro, autorevole come un padre. Sono diventato più malizioso e diffidente dinanzi alle schermate del computer: è possibile che lì si annidino larve di ignoranza. Tuttavia, confesso che per qualche secondo, a causa della mia dipendenza “testuale”, mi sono sentito scandalosamente ignorante. Per decenni ho ripetuto, a me stesso e agli altri, che Dante era fiorentino. Ma via! Era napoletano. Spiego perché. L’altro giorno ero a cena dai miei figli e la mia ex moglie mi si è avvicinata con uno strano sorrisetto. Aveva tra le mani l’ultima meraviglia elettronica: l’iPad. Mi chiede: «Recitami la prima terzina della Divina Commedia». Sono stato al gioco in attesa della trappola: «Nel mezzo del cammin di nostra vita/ mi ritrovai per una selva oscura,/ ché la diritta via era smarrita». È quel che sai tu, mi dice ridendo, ma la versione esatta ha una variazione: «ché la verace via era smarrita». Un certo stordimento l’ho avvertito. Poi ho letto la terzina su quella piccola lastra elettro-
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nica che teneva in mano con molta cura. Non «diritta» ma «verace». Filosoficamente ci poteva anche stare visto che Dante indica come “vera” la strada della giustizia e della pietà cristiana. Comunque, dopo una risata intrisa della personalissima rivincita d’un uomo che predilige la carta, l’invec-
era costosissimo a quei tempi) i nomi di coloro che dovevano essere appunto “ostracizzati”, ossia esiliati per dieci anni. Diritta, vera la via, ma accidenti è meglio dire“verace”, come lo sono le vongole del golfo di Napoli, prima dell’inquinamento da virus e da petrolio. Chi sia quell’imbecille che ha “caricato” l’iPad con una simile iniziale bufala tuttora lo ignoro. Date le premesse non vorrei però dover correggere alcuni passi della mia memoria scolastica. Per esempio sostituire Ismaele con Samuele nell’incipit di Moby Dick, la sottile angoscia di Proust nottambulo con un Tavor da 2,5 milligrammi, la fin troppo paziente Penepole, moglie di Ulisse, con quel peperino sensuale che è Penelope Cruz, che oltretutto è spagnola e non greca. A meno che la Apple, il produttore dell’iPad, non voglia abituarci poco alla volta a un divertente mischiar di carte letterario. Ci avvertano prima, però.
Il testo originale mostra errori e inesattezze: e se l’Ismaele di Moby Dick diventasse Samuele? O la Penelope di Omero di cognome facesse Cruz? chiabile e porosa carta, ho tradotto in gioco un’indignazione, non tanto di accademico quale non sono, ma di lettore medio.
Dante, dunque, parlava e gesticolava come un napoletano, camminava sui pendii del Vesuvio e temeva quella bocca di lava e non l’arcigno governo fiorentino che nelle sue tasche aveva soldi a non finire ma anche una bella manciata di “ostrakon”, ossia cocci di terracotta sui quali venivano scritti (il papiro
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aing Guek Eav, nome di battaglia “Duch”, ascolta in piedi la sentenza di 35 anni di carcere che il Tribunale internazionale dell’Onu, con sede a Phnom Pen, gli sta infliggendo. Il suo volto è impassibile, l’atteggiamento è ieratico, com’è comune del resto presso tutte le popolazioni della penisola indocinese, le quali sanno essere imperscrutabili nei momenti di maggiore patos. Duch infatti non lascia trasparire alcun sentimento interiore. Dopo l’apertura dei relativi processi lo scorso settembre, egli è il primo della lunga lista di Khmer rouge a essere condannato per il genocidio perpetrato negli anni Settanta in Cambogia. Dei massacri di allora si può avere un bilancio solo approssimativo. Si stima che, tra il 1975 e il 1979, siano stati uccisi fra l’1,7 e i 2,1 milioni di persone. La carneficina ha fatto scempio del 21% della popolazione cambogiana. Duch dovrà scontare una pena per crimini contro l’umanità e appunto per genocidio. Kaing Guek Eav è nato nel 1942. Si è aggiudicato la fama di macellaio per aver diretto il carcere di Tuol Sleng (campo S-21), proprio nella capitale cambogiana. Qui, sotto le angherie degli aguzzini ai suoi ordini, si pensa che siano passati circa 17mila prigionieri. Finora sono stati rintracciati solo 7 sopravvissuti. Alla condanna di ieri seguiranno altre
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sentenze, molto probabilmente simili. La maggior parte degli imputati infatti si è dichiarata colpevole, Duch in primis. Tuttavia la decisione della corte è risultata fin troppo clemente. Il pubblico ministero aveva chiesto 40 anni di carcere, 5 di questi sono stati resi nulli in quanto Duch sarebbe stato detenuto illegalmente prima della nascita dello stesso Tribunale competente. Ai 35 anni comminati, peraltro, devono esserne sottratti altri 11 in quanto già scontati. Il condannato quindi dovrà trascorrere ancora 19 anni in un istituto penitenziario cambogiano. Le reazioni alla sentenza, prevalentemente critiche, non si sono fatte attendere. Si è trattato però soprattutto di commenti a firma occidentale. Il Tribunale internazionale è stato messo all’indice per aver inscenato un “processo farsa”, vista l’eccessiva magnanimità che avrebbe adottato nei confronti degli imputati. Anche i parenti delle vittime si sono dichiarati delusi dalla sentenza. A loro giudizio la pena è stata troppo lieve. Inoltre le richieste di indennizzo sono rimaste inevase. Il Tribunale infatti ha stabilito un risarcimento solo per i nomi espressi dal pubblico ministero e non
il paginone Dopo 35 anni vanno alla sbarra gli autori di uno dei più sanguinosi
Processo agli o
quelli presentati dalle parti civili. Era stato chiesto inoltre che di fronte agli edifici dell’S-21, oggi trasformato in museo nazionale, fosse eretto un monumento con incisi i nomi di tutti coloro che hanno trovato morte in quel carcere, oppure di chi non si è avuta più notizia. La corte di Phnom Pen ha rigettato queste istanze e si è limitata a rendere pubbliche le scuse formali del “compagno Duch”. Dal canto suo, anche la stampa cambogiana ha reagito algidamente. Cambodge soir per esempio si è limitato a riferire quanto accaduto in aula, preferendo non dilungarsi in alcuna retrospettiva storica del genocidio e senza impegnarsi in alcun commento. Agence Kampuchea Presse (Akp) non ha nemmeno riportato la notizia. Sembra che il Paese preferisca non ricordare, quasi come se avesse voltato pagina da tempo ri-
Phnom Penh condanna a 35 anni il “compagno Duch”, uno dei carnefici di Pol Pot. È la prima volta che i khmer rossi fanno i conti con le loro colpe
spetto all’incubo vissuto. La Cambogia ha accettato con indolenza il verdetto, che era forse atteso in questi termini e altrettanto pazientemente aspetta le sentenze future degli altri imputati. Forse allora, quando davvero il processo sarà concluso, si confronterà con il suo passato. Certo è che per i Khmer rouge si è arrivati al redde rationem. Dopo trent’anni di libertà, restando sotto gli occhi di tutta la nazione, i colpevoli cominciano a pagare i crimini commessi.
L’olocausto nazionale voluto dal leader dei suoi Khmer rouge sarebbe passato sotto silenzio se non fosse stato per l’inchiesta di due reporter del New York Times, l’americano Sydney Schanberg e il cambogiano Dith Pran. Il primo fu premiato nel 1976 con il Pulitzer proprio per il servizio che era riuscito a raccogliere nell’ex Indocina francese. Il secondo, nel frattempo, era stato anch’egli rinchiuso nel campi della morte e ne sarebbe scappato solo tre anni dopo. Pran è morto nel marzo 2008 a New York, dov’era riuscito a ricostruirsi la carriera come fotoreporter per lo stesso giornale Usa. Di questa straordinaria testimonianza, nel 1984, il regista inglese Roland Joffé ha tratto il film The killing fields, che ricostruisce realisticamente e sotto ogni minimo dettaglio l’incubo cambogiano. Torture, sottomissioni fisiche e psicologiche, annientamento della personalità e cancellazione totale di qualsiasi espressione di cultura e di modernità. Il regime di Pol Pot rappresentò l’ultimo e più sanguinario rigurgito di socialismo reale esportato in estremo oriente e realizzato con la spietata violenza di una classe diri-
In realtà la resa dei conti è arrivata con sensibile ritardo. Il Tribunale internazionale per la Cambogia era stato istituito solo nel 2001. Già l’anno successivo era stato oggetto di critiche da parte delle organizzazioni per i diritti umani, in quanto risultava essere un mero compromesso di facciata, per evitare di coinvolgere alcuni esponenti dell’establishment cambogiano oggi al potere e probabilmente compromessi a loro tempo con il regime di Pol Pot. L’intenzione sembrava essere quella di voler archiviare il più in fretta possibile una vicenda ormai lontana e che comunque era sempre apparsa scomoda. L’inoperosità delle Nazio-
di Antonio Picasso
commesso dai Khmer venga giudicato come un reato da un organo giuridico nazionale. A sua volta l’identità cosmopolita della corte potrebbe influenzare virtuosamente e super partes i lavori di inchiesta, recupero delle testimonianze e di avvio del processo, senza che Phnom Pen riesca a censurare in qualche modo le ricerche. I massacri sono avvenuti però tra il 1975 e il 1979. Di conseguenza la raccolta del materiale necessario per l’incriminazione dei responsabili del genocidio si è protratta fino al 2007, anno in cui il pubblico ministero ha ufficialmente aperto l’inchiesta. Sono stati necessari poi altri due anni affinché il Tribunale avviasse i veri e propri lavori processuali. Secondo i critici, è trascorso troppo tempo e molti dei colpevoli sono riusciti a mettersi in salvo, oppure sono morti. Si veda il caso dello stesso Pol Pot, scomparso nel 1998.
ni Unite, durante lo sterminio, resta una macchia indelebile nella storia dei diritti umani calpestati. D’altra parte, la composizione della corte ha cercato di rispondere ai criteri più innovativi del diritto processuale internazionale. Il Tribunale è costituito da 30 magistrati, dei quali 17 sono cambogiani e i restanti 13 provengono da dipartimenti di giustizia di altri Paesi, in particolare Austria, Francia, Giappone, Nuova Zelanda, Polonia, Sri Lanka e Stati Uniti. Il fatto che la maggioranza dei seggi sia in mano alla Cambogia dovrebbe far pensare che lo sterminio
il paginone massacri della storia dell’Indocina: almeno due milioni le vittime
orrori del ’900
elemento – in parte preso a prestito dalla soluzione finale nazista contro gli ebrei – il genocidio fu perpetrato all’insegna della minuziosa catalogazione delle violenze impartite a ogni singolo individuo. Pol Pot volle che tutto fosse registrato e burocratizzato. Quello cambogiano non fu un massacro, come quello furioso del Ruanda 18 anni dopo, bensì uno sterminio effettuato con precisione chirurgica. Gli uomini del regime, Duch fra loro, agirono con indefessa efficienza. Da una parte erano ispirati dalla bramosia di potere personale. Dall’altra più aumentava il numero di morti e più di voleva ridurre quello dei testimoni oculari. Non è da escludere che molti di loro agissero anche per paura di evitare ritorsioni personali. L’esecuzione pedissequa degli ordini però non ha mai fatto fa valida giustificazione per sollevare i carnefici dalle proprie responsabilità. È per questo che le organizzazioni internazionali
La drammatica esecuzione di un “dissidente” cambogiano. Sopra e a sinistra, due immagini del museo ricavato dalla Scuola Tuol Sleng trasformata dai Khmer rossi nel centro di tortura S-21. Il responsabile del campo era il “compagno Duch”, nella foto a sinistra, sotto a Pol Pot
Il Tribunale Onu convocato per giudicare il massacro è costituito da 30 magistrati, dei quali 17 sono cambogiani e i restanti 13 provengono da dipartimenti di giustizia di altri Paesi, in particolare Austria, Francia, Giappone, Nuova Zelanda, Polonia, Sri Lanka e Stati Uniti. Ma la mancanza di fondi lo ha reso quasi inutile
gente verso la propria nazione. Gli storici tendono a fare il parallelismo fra Pol Pot e Stalin, oppure con Hitler. Il carnefice cambogiano resta però unico fra i grandi sterminatori del Novecento per tre caratteristiche. Prima di tutto quella di aver preso come vittima il suo popolo nella totale integrità, senza alcuna distinzione etnica, religiosa o di appartenenza politica. La Cambogia fu in un certo senso vittima di se stessa. Pol Pot tendeva ad annientare sul nascere qualsiasi forma di libertà individuale ed espressione culturale collettiva. Il Paese, secondo la prospettiva perversa del leader rivoluzionario, sarebbe dovuto tornare all’età della pietra e da lì ripartire per costruire un’autentica società comunista. Terzo
hanno sempre protestato in sede Onu e presso i singoli governi occidentali.
I l g e n o c i d i o e r a s o t t o gli occhi di tutti. Le prove erano tangibili ancora quando si poteva frenare lo spargimento di sangue. I testimoni diretti dei crimini avrebbero potuto raccontare con esattezza quanto stava accadendo. Perché invece solo nel 1994 – a dieci anni dall’uscita del film di Joffé e 18 dall’inchiesta di Schanberg – il Dipartimento di Stato Usa ha riconosciuto una sovvenzione all’Università di Yale per la realizzazione di uno studio sul genocidio cambogiano? Perché si sono dovuti aspettare trent’anni per emettere una prima sentenza ufficiale contro i responsabili dello sterminio? La risposta ci viene data dalla storia di allora. A metà degli anni Settanta, il
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Vietnam era uscito vincitore dal conflitto contro gli Stati Uniti e il guerra interna tra le forze comuniste del nord e quelle filo-occidentali del sud era debordata nei Paesi vicini: Laos in parte, ma soprattutto nel territorio sotto la giurisdizione di Phnom Penh. L’Occidente – Washington in particolare – non ne volle sapere delle violenze che continuavano in quel lontano angolo dell’Asia, dove tanti bravi ragazzi americani avevano già perso la vita. Le stragi lungo il Mekong si protrassero senza che la comunità internazionale agisse per frenarle. I gruppi armati che si fronteggiavano potavano avanti la linea di “non fare prigionieri”. In alternativa c’era la possibilità di avviarli ai campi di lavori forzati, per la costruzione di una pura società comunista.
Lì in realtà la maggior parte di loro avrebbe incontrato la morte. Dopo trent’anni di silenzio, la Cambogia fa i conti con la sua storia. La sua giovane monarchia, restaurata nel 1993, vorrebbe chiudere questo capitolo così lugubre nel più breve tempo possibile e senza strascichi. Quella di evitare la condanna a morte verso i colpevoli del genocidio – che è stata invece comminata verso altri criminali in passato e in contesti differenti – costituisce un passo avanti nel cammino democratico del Paese. Questo sta già dimostrando di avere tutti gli strumenti per accelerare i tempi per quanto riguarda l’industrializzazione e
la modernizzazione della società civile. Fra i tre Paesi della penisola indocinese, la Cambogia resta la più arretrata. Molti osservatori però ne percepiscono qualità di sviluppo innate, al punto da considerarla insieme al Vietnam come una futura “tigre asiatica”. Il pericolo tuttavia è che il governo di Phnom Pen sia spinto più dalla fretta ad archiviare le sofferenze, che ancora pesano sull’opinione pubblica nazionale, anziché essere animato da un’idea di giustizia e ordine istituzionale. Gli aguzzini di un tempo, coloro che sono ancora vivi, sono stati arrestati tutti. Il processo di riabilitazione degli ex protagonisti di regimi sanguinari non è una novità propria della Cambogia. La Germania nazista e l’Iraq di Saddam Hussein, passando per la stessa Italia fascista, sono state purificate nella prospettiva di un futuro migliore per ogni singolo Paese. Quello che si teme però è una scarcerazione dei colpevoli prima dei tempi ragionevoli. È strano infatti che non si sia mai parlato nemmeno di ergastolo. Se la Cambogia avesse deciso di dimenticarsi il passato, a farne le spese sarebbero la memoria dei 2 milioni di morti, ma anche la credibilità delle sue istituzioni, che desiderano presentarsi come autenticamente democratiche.
mondo
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Cina. Le aperture del governo alla Chiesa sono in realtà scelte obbligate. E forse il Vaticano dovrebbe avere più coraggio…
Il falò delle libertà Nonostante passi avanti “di facciata” Pechino nega ancora il diritto alla fede di Bernardo Cervellera egli ultimi mesi, da aprile ad oggi, la Chiesa in Cina ha celebrato l’ordinazione di ben sei nuovi vescovi, oltre all’insediamento ufficiale in diocesi di un vescovo già ordinato, ma non ancora accettato dal governo. La meraviglia è che tutti i candidati sono stati approvati dalla Santa Sede e sono riconosciuti dal governo di Pechino. Ma la meraviglia ancora maggiore è che questa ondata di nuove ordinazioni episcopali succede ad almeno due anni di magra, in cui cioè non vi è stata alcuna consacrazione sebbene vi fossero circa 40 diocesi della Chiesa ufficiale con pastori ottuagenari, che necessitavano un ricambio, o a sede vacante. I nuovi ordinati (più quello insediato ufficialmente) - di cui AsiaNews ha dato pronta notizia – sono pastori di Bameng (Mongolia Interna); Hohhot (Mongolia Interna); Haimen (Jiangsu); Xiamen (Fujian); Sanyuan (Shaanxi); Taizhou (Zhejiang); Yulin (Yanan, Shaanxi). A tutte le ordinazioni, meno quella di Bameng, erano presenti vescovi in comunione con la S. Sede. A Bameng, invece, ha fatto capolino il vescovo patriottico Ma Yinglin, ordinato in modo illecito nel 2006. Egli è considerato il delfino di Antonio Liu Bainian, il vice presidente dell’Associazione patriottica, soprannominato il “papa” della Chiesa ufficiale per il suo potere sull’economia e sui vescovi della Chiesa. Da almeno tre anni, nei documenti interni della polizia, dell’Ap e del Fronte unito, Ma Yinglin viene sponsorizzato co-
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me il futuro presidente del Consiglio dei vescovi cinesi e presidente nazionale dell’Ap. Entrambe le due istituzioni sono considerate inaccettabili dalla Santa Sede perché nei loro statuti si rivendica la costruzione di una Chiesa “indipendente” da Roma e dal papa. L’assenza di Ma Yinglin dalla maggior parte delle ordinazioni e soprattutto la sfornata di 7 vescovi, approvati dalla Santa Sede e dal governo, ha rallegrato tutti i cattolici. Ma alcuni vi hanno visto qualcosa di più: un cambiamento nella politica religiosa della Cina verso il Vaticano, un accordo ritrovato fra potere politico in Cina e la Santa Sede, un dirigersi a tappe veloci verso i rapporti diplomatici. Qualcuno, nelle ordinazioni avvenute, vede il miraggio del “tutto risolto”, della strada ormai in discesa e tira un respiro di sollievo perché in Cina si prepara una nuova alleanza fra
ro che Ma Yinglin, il vescovo illecitamente ordinato, ha partecipato solo a una ordinazione. Egli però aveva programmato di partecipare anche ad altre. Ma la resistenza offerta dai cattolici di Bameng (candidato all’episcopato, preti, suore e fedeli), l’ha costretto a cambiare i programmi e da presidente della celebrazione è stato neutralizzato, insieme alle centinaia di sacerdoti presenti.
Ma questo non è un cambiamento della politica del governo o dell’Ap: è solo il frutto della resistenza dei fedeli e dell’aderire dei cattolici cinesi alle indicazioni della Santa Sede. Anche la serie di ordinazioni – che erano bloccate da anni – è avvenuta per il timore del governo di creare tensioni ingovernabili fra i fedeli che rivendicano un vescovo per la loro comunità come un diritto della loro libertà religiosa (in teoria
La serie di ordinazioni episcopali degli ultimi tempi è avvenuta per il timore del governo di creare tensioni sempre maggiori fra i fedeli, che rivendicano un vescovo per la loro comunità come un diritto il trono e l’altare. AsiaNews non è facile al miraggio e il contatto con cattolici ufficiali e sotterranei cinesi non ci rende né ottimisti, né pessimisti, ma semplicemente realisti. E proprio per realismo, per comprendere davvero cosa succede in Cina, vale la pena puntualizzare questa apparente “svolta” avvenuta nella politica religiosa cinese verso i cattolici. È ve-
difesa dalla costituzione cinese). In tutti questi decenni è stato proprio il sensus fidei di questi fedeli, attaccati al rapporto col papa, che ha convinto i tanti vescovi patriottici al passo coraggioso di chiedere la riconciliazione con Roma. È vero che il governo ha dato l’ok per queste ordinazioni dopo un periodo di chiusura ed è vero che Pechino sa molto bene e accet-
ta che queste ordinazioni abbiano l’approvazione della Santa Sede. Il punto è che ormai Pechino non può più fare altrimenti: senza l’approvazione della Santa Sede un vescovo cinese non può più celebrare, non è più rispettato dai fedeli, se si presenta in una chiesa, i fedeli l’abbandonano. Ne è prova lo stesso Ma Yinglin, che a Kunming, la sua diocesi, ha solo qualche decina di fedeli attorno, pagati con favori e soldi perché vengano alle cerimonie. Per Pechino pretendere che i vescovi non abbiano il permesso del Vaticano significa rischiare di vedere i fedeli fuggire dalle chiese ufficiali e rifugiarsi nelle temutissime chiese sotterranee, perdendo il controllo sulle comunità.
Quello che in un miraggio sembra un “accordo raggiunto” fra Pechino e Santa Sede in realtà è solo l’unica scelta possibile (costretta, ma intelligente) del governo se vuole sperare di controllare ancora la Chiesa, mostrando di accettare perfino l’approvazione della Santa Sede. Per verificare che da parte di Pechino vi è davvero un cambiamento di politica, occorre domandarsi: dopo l’ordinazione, i nuovi vescovi hanno libertà per praticare la loro
pastorale? In teoria i vescovi nuovi e vecchi della Chiesa ufficiale hanno grande libertà. In pratica per esercitare il loro ministero essi devono ricevere il permesso (un “libretto rosso”) dal Comitato amministrativo della Chiesa (un ramo dell’Ap).
Tale permesso è in sé qualcosa di contraddittorio: i vescovi vengono ad appartenere a una istituzione non accettabile dal punto della fede e del loro ministero; eppure, per svolgere il loro ministero religioso hanno bisogno del permesso di tale istituzione. Tale permesso li rende di fatto invisi ai cattolici sotterranei che vedono nel “libretto rosso” un’adesione all’Associazione patriottica e quindi un tradimento della fedeltà al papa. In tal modo vi è il rischio che la stessa approvazione della Santa Sede per l’ordinazione di un vescovo ufficiale venga annacquata nel suo significato e diventi perfino un boomerang contro la Chiesa perché serve al Partito a dividerla (e indebolirla) ancora di più. Nella sua Lettera ai cattolici cinesi, pubblicata nel maggio 2007, Benedetto XVI, pur bollando come “incompatibile con la fede cattolica” la serie di statuti del’Associazione patriottica, non chiede a nessun vescovo l’espli-
mondo ne cattolica. In questi ultimi anni le occasioni di “lavaggio del cervello”si sono moltiplicate. In parte ciò è dovuto alla necessità di contrastare la Lettera del papa, ancora tabù in Cina; in parte perché l’Associazione patriottica sta preparando l’Assemblea nazionale dei rappresentanti cattolici in cui si dovrebbe votare per il presidente del Consiglio dei vescovi e per il presidente dell’Ap. L’Assemblea nazionale dei rappresentanti cattolici è l’autorità massima che governa la Chiesa cattolica in Cina. I suoi statuti la definiscono “l’organismo sovrano”.
Essa è una struttura “democratica” in cui i vescovi sono una minoranza. L’organismo ha potere di decidere la pastorale nazionale, le attività della Chiesa, le nomine episcopali e perfino questioni di teologia. La sua superiorità ai vescovi la rende inconciliabile con la dottrina della Chiesa cattolica. Da tempo l’Ap cerca di organizzare tale Assemblea per votare il nuovo presidente dell’Ap e il presidente del Consiglio dei vescovi cinesi. Le due cariche sono vacanti da anni: il vescovo patriottico Michele Fu Tieshan, eletto presidente dell’Ap nel ’98, è morto nel 2007; mons. Giuseppe LiuYuanren, vescovo patriottico di Nanchino, eletto presidente del Consiglio dei vescovi nel 2004, è morto nel 2005. In tutti questi anni, il raduno è stato sempre “rimandato”: nel 2008
cita uscita da essa. Ma domanda di verificare se la partecipazione lede o no al ministero episcopale. È un fatto che talvolta la lesione c’è. Un esempio: agli inizi di luglio il Fronte unito e il ministero degli affari religiosi (precisamente: l’Amministrazione statale degli affari religiosi) ha radunato decine di nuovi vescovi per un incontro di quattro giorni a Pechino. Il tema è naturalmente la bontà della politica religiosa del governo. Altre volte tali incontri durano mesi. I poveri vescovi, costretti ad accettare questi “caldi inviti”, non solo non possono esercitare il loro ministero nelle loro diocesi, ma sono sottoposti a un continuo lavaggio di cervello per apprezzare sempre più il controllo del governo sulla religio-
Il nuovo vescovo di Shanghai. Sopra, un pope ortodosso. In alto la cattedrale di Pechino. Nella pagina a fianco, scene di vita religiosa nella Cina rurale di inizio Novecento, quando la Chiesa era libera
per il terremoto e le Olimpiadi; nel 2009 per i 60 anni della Repubblica popolare; nel 2010 per l’Expo di Shanghai. Ma la vera ragione sta nel fatto l’Ap vuole essere sicura che sarà votato Ma Yinglin. Di fatto però, molti vescovi ufficiali non vogliono parteciparvi perché essa è davvero “inconciliabile” con la fede cattolica. Proprio alcuni mesi fa la Commissione vaticana per la Chiesa in Cina ha diffuso un comunicato in cui si chiede ai vescovi legati al pontefice di evitare «di porre gesti (quali, ad esempio, celebrazioni sacramentali, ordinazioni episcopali, partecipazione a riunioni) che contraddicono la comunione con il Papa”. L’indicazione ha preso alla sprovvista alcuni vescovi abituati a mettere insieme la fedeltà interiore al papa e l’apparente fedeltà all’Ap. Essi lamentano che in tal modo si rischia di farsi accusare come “non patriottici” perché si “ama la Chiesa (e il papa)”. Lo slogan “aiguo; aijiao” (amare la patria,
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come istituzioni straniere che cospirano alla caduta della Cina. Un cambiamento di mentalità è necessario anche per garantire libertà religiosa ai cattolici sotterranei, spesso imprigionati come comuni delinquenti (perché sfuggono alle regole di controllo) e come “nemici della patria” perché appoggiano il papa. Se il miraggio del cambiamento di politica fosse vero, occorrerebbe che da subito vengano liberati i due vescovi sotterranei scomparsi da anni (mons. Giacomo Su Zhimin di Baoding; mons. Cosma Shi Enxiang di Yixian) e i sacerdoti che scontano pene di isolamento o ai lavori forzati senza nemmeno essere stati condannati da un tribunale. Ma anche su questo punto la politica cinese non è cambiata. Essi accusano la Chiesa sotterranea di “non amare la patria” e di non iscriversi all’Ap perché ubbidiscono al papa straniero. In realtà i cattolici sotterranei affermano che amare il papa non è per nulla
Per le autorità pretendere che i vescovi non abbiano il permesso di Roma significa rischiare di vedere i fedeli fuggire dalle comunità ufficiali e rifugiarsi nelle temute chiese sotterranee amare la Chiesa) è usato come un ritornello dall’Ap per esigere obbedienza ad essa, gettando il sospetto che amare la Chiesa e il papa sia di per sé un odiare il proprio Paese. Nelle paure di questi vescovi e nel ritornello abusato si vede come la struttura di pensiero dell’Ap e del governo siano ancora legati alla vecchia nomenclatura marxista e nazionalista, che ha generato la persecuzione di questi decenni bollando Vaticano e papa
contrario all’amore della patria, ma non possono rinunciare a questo legame, come vuole l’Ap, che da 52 anni pretende costruire una Chiesa “indipendente”. Che la Chiesa sotterranea non sia un’organizzazione “terrorista”che cospira contro il governo cinese, lo dimostrano i fatti: in 60 anni di comunismo, pur con tutte le persecuzioni subite, mai nessun cattolico ha compiuto un gesto di violenza, messo bombe, sparato alla polizia, incendiato o distrutto qualcosa. In più, diversi vescovi e sacerdoti sotterranei hanno cercato di farsi riconoscere ufficialmente dal governo, accettando anche il suo controllo.
Ma la risposta è stata sempre che essi devono piegarsi a iscriversi all’Ap, rinnegando il papa. Forse, in fondo, ciò a cui mira il Partito non è solo il controllo sui cristiani, ma far perdurare la divisione fra di essi. Un sacerdote sotterraneo è an-
dato diverse volte dalla polizia domandando di essere registrato, senza appartenere all’Ap. Egli ha sottolineato che per le forze dell’ordine era un guadagno sapere cosa lui faceva e come controllarlo. Il poliziotto gli ha riso in faccia: “A noi – ha detto – basta che voi rimaniate divisi. Se foste uniti ci dovremmo preoccupare di più”. Un vero cambiamento della politica cinese verso la Chiesa cattolica non sta tanto nel permettere l’ordinazione di vescovi ufficiali approvati dalla Santa Sede, quanto nel garantire la libertà e la pratica religiose eliminando la divisione fra “attività normali”e “attività illegali”. L’Onu ha chiesto alla Cina di eliminare questa discriminazione fin dal 1994 e Pechino tuttora non cambia!
Questa è anche la direzione che i cattolici del mondo dovrebbero tenere, in linea con quanto domanda Benedetto XVI nella sua Lettera ai cattolici cinesi, e cioè favorire l’unità e la riconciliazione fra comunità ufficiali e sotterranee. Ma per farle riconciliare, occorre anche anzitutto farle vivere e quindi chiedere la liberazione dei prigionieri e cancellare la divisione fra attività normali e illegali! Alcune comunità sotterranee vivono ancora con sospetto il loro rapporto con gli “ufficiali”, ma è anche vero che molti vescovi “ufficiali” cercano di non farsi vedere troppo amici (tanto meno fratelli nella stessa fede) dei loro colleghi e figli delle comunità sotterranee. Questo dovrebbe suscitare maggiore attenzione anche da parte del Vaticano che, secondo molti sacerdoti sotterranei “si è dimenticato”della loro Chiesa. Da anni – da quando nel 2005 sono iniziati i timidi rapporti fra rappresentanti cinesi e membri della Segreteria di Stato – la Santa Sede parla sempre meno delle comunità sotterranee; se uno di loro (vescovo, sacerdote, laico) è in prigione, di rado il Vaticano chiede la loro liberazione. Il 7 luglio scorso mons. Jia Zhiguo, vescovo sotterraneo di Zhengding è stato liberato dopo 15 mesi di sequestro da parte della polizia. Il card. Ivan Dias, prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei popoli, con grande coraggio, ha scritto a lui un messaggio di “bentornato nel servizio”. Ma forse ha pensato che non era ancora tempo di inserire anche la parola “prigionia”o “isolamento”per far capire al mondo che il vescovo non era tornato da una vacanza, ma da un periodo di abolizione dei suoi diritti.
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Gran Bretagna. Il premier punta sui Paesi emergenti per rilanciarsi l Primo Ministro britannico David Cameron è arrivato ieri in Turchia per la sua prima visita ufficiale da quando occupa il numero 10 di Downing Street. Cameron incontrerà il suo omologo turco, Recep Tayyip Erdogan, per affrontare sia il tema dell’adesione di Ankara all’Unione Europea, sia il miglioramento dei rapporti bilaterali tra il Regno Unito e la Turchia. Il premier conservatore sarà raggiunto mercoledì dal suo segretario agli Esteri, William Hague, che sta imprimendo un sorprendete nuovo corso al Foreign Office. Il plenipotenziario della politica estera britannica ha più volte ribadito che se il Regno Unito non vuole scomparire dalla scena internazionale come attore di rilievo, deve impegnarsi in nuove e più forti relazioni con i Paesi emergenti che fanno parte del G20. E la Turchia rientra a pieno titolo nel gruppo individuato da Hague. Le nuove linee guida del governo di Londra saranno orientate verso la conferma della «special relationship» con gli Stati Uniti, ma soprattutto sullo sviluppo con le potenze emergenti, Cina India e Brasile in primis. Inoltre, Hague intende stabilire contatti personali più stretti con i colleghi stranieri. La nuova visione della politica estera britannica dovrà essere «distinta, in Europa e in tutto il mondo», caratterizzata da relazioni personali e da continue comunicazioni, non solo formali, concentrata sulle economie emergenti non solo nei momenti di crisi. Il titolare del Foreign Office, all’inizio di questo mese, aveva dichiarato che era necessario un «particolare sforzo diplomatico per lavorare con la Turchia», facendo riferimento al suo ruolo di potenza regionale nel Medio Oriente, nell’Asia Centrale e
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Il futuro di Londra passa per Ankara Iniziato il viaggio di Cameron in Turchia: affari, guerre e nuovo slancio verso l’Ue di Massimo Ciullo
nato nei confronti della Turchia: durante una visita nel 2008, la Regina Elisabetta aveva dichiarato che la Turchia «ha una posizione unica, come un ponte tra Oriente e Occidente in tempi cruciali per l’Ue e il mondo intero». Ma il percorso turco verso la piena integrazione europea è stato ostacolato finora dalle reticenze e dai palet-
L’Inghilterra sostiene con forza l’ingresso turco nel club di Bruxelles: per Elisabetta II, è «l’unico modo per costruire un vero ponte» nei Balcani Occidentali. Parlando di economia poi, Hague aveva anche sottolineato che la Turchia «è la più grande economia emergente dell’Europa, un ottimo esempio di Paese impegnato a sviluppare un nuovo ruolo e nuovi legami per se stesso, in parte all’interno e in parte all’esterno, delle strutture e delle alleanze già esistenti». Cameron è intenzionato a ribadire il sostegno britannico all’ingresso di Ankara nel Club di Bruxelles. Sostegno che Londra non ha mai lesi-
ti frapposti da alcuni membri Ue, primi fra tutti, Francia e Germania. Uno degli scogli più ardui da superare riguarda la questione di Cipro. L’isola del Mediterraneo è divisa in due lungo la cosiddetta “linea verde” dal 1974, anno dell’invasione dell’esercito turco della parte settentrionale dell’isola, dove la minoranza turca ha proclamato la Repubblica Turca di Cipro Nord, riconosciuta unicamente da Ankara. Nel 2004, dopo il fallimento dei negoziati per la riunificazione, è
Anche il ministro Westerwelle in visita ufficiale
E oggi arriva Berlino Il Ministro degli Esteri tedesco Guido Westerwelle è arrivato oggi ad Ankara per discutere con il suo omologo turco dell’adesione turca all’Ue e della questione di Cipro. Westerwelle, anche il vice-cancelliere tedesco, incontrerà a Istanbul il Ministro degli Esteri turco Davutoglu. I due si soffermeranno in particolare sullo stallo dei negoziati tra Ankara e Bruxelles, originati dal mancato riconoscimento di Cipro da parte della Turchia. Nel 2004, dopo il fallimento dei negoziati per la riunificazione dell’isola divisa dal 1974 tra le due comunità (greco-cipriota e turco-cipriota), è entrata a far parte dell’Ue solo la Repubblica di Cipro, l’unica riconosciuta internazionalmente, mentre la Repubblica Turca di Cipro Nord con-
tinua ad essere riconosciuta e sostenuta solo da Ankara. I negoziati per l’adesione, cominciati nel 2005, hanno subito un brusco rallentamento per il rifiuto di Ankara di aprire i suoi porti alle merci provenienti da Cipro, come previsto in sede europea. Lo scoglio di Cipro ha parzialmente congelato il percorso di adesione turco, che si è arenato sulle prime 8 aree d’intesa con Bruxelles, sulle 35 previste per poter pervenire alla piena accettazione di un paese candidato all’ingresso nella Ue. La visita potrebbe aprire una crepa nel fronte anti-turco maggioritario in seno alla coalizione di governo, guidata dalla Merkel, orientata a concedere al massimo (come la Francia) una “partnership particolare” alla Turchia.
entrata a far parte dell’Ue solo la Repubblica di Cipro, l’unica riconosciuta internazionalmente e abitata dalla maggioranza greco-cipriota. Da quel momento, i negoziati per l’adesione hanno subito un brusco rallentamento per il rifiuto di Ankara di aprire i suoi porti alle merci provenienti da Cipro, come previsto da alcuni accordi siglati in sede europea. Qualche resistenza, per dire la verità, è emersa anche tra le fila dei Tories più radicali, che non hanno mai guardato con simpatia né all’Ue, né all’ingresso di una nazione islamica in Europa. Cameron ed Erdogan si confronteranno anche su altri temi di politica internazionale, a partire dalla situazione in Afghanistan, a pochi giorni dalla conclusione della Conferenza dei Paesi donatori ospitata a Kabul dal Presidente Hamid Karzai. La Turchia, in qualità di membro della Nato, partecipa alla missione internazionale con circa 1800 soldati, inviati dal Paese musulmano per combattere l’estremismo islamico in Afghanistan e Pakistan.
Il Regno Unito invece, è presente nel Paese asiatico con il contingente più grande (circa 10mila militari), secondo solo a quello Usa. Ma il neo-premier conservatore ha dichiarato a più riprese che intende riportare a casa tutti i suoi uomini entro il 2015 e che ritiro parziale è già in programma per i primi mesi del prossimo anno. Oltre alle questioni più scottanti, però, Cameron intende privilegiare anche gli aspetti economici del suo viaggio in Turchia. La principale preoccupazione è quella di far uscire il suo Paese dalla crisi e ciò può avvenire più velocemente se il Foreign Office comincia ad avere un «orientamento più commerciale», come aveva detto la settimana scorsa, annunciando che guiderà personalmente una delegazione di alto profilo composta da uomini d’affari e diplomatici nella sua prossima visita ufficiale in India, un’altra potenza emergente entrata nelle mire del nuovo governo di Londra. Il restyling degli Affari Esteri britannici prevede anche la cooptazione di personale proveniente dal Dipartimento dell’Economia e l’assunzione di un direttore commerciale a capo della nuova struttura. Cameron ha anche avanzato l’idea di favorire il reclutamento di ambasciatori e diplomatici attingendo anche a figure esterne, inclusi uomini d’affari di un certo livello.
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Sono le misure più dure mai prese dai 27 contro il nucleare
Il governo punta a eliminarla per i crimini non violenti
L’Ue adotta nuove, pesanti sanzioni contro l’Iran
Pechino studia l’abolizione della pena di morte
BRUXELLES. L’Unione Europea ha adottato ieri nuove sanzioni, di una durezza senza precedenti, contro il programma nucleare iraniano colpendo in particolare il settore energetico, il gas e il petrolio, strategico per la Repubblica islamica. Lo riferisce una fonte diplomatica che ha partecipato alla riunione dei ministri degli Esteri di 27. Le misure adottate dalla Ue vanno persino oltre quelle varate dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu lo scorso 9 giugno. È previsto il divieto di ogni nuovo investimento, assistenza tecnica o trasferimento di tecnologia in Iran, soprattutto nel campo della raffinazione e della liquefazione del gas.
PECHINO. La Cina vuole togliere la pena di morte per molti reati che oggi la prevedono e abolirla del tutto per chi ha oltre 70 anni. Il quotidiano statale China Daily spiega che un progetto di legge sarà discusso dal Comitato permanente del Politburo entro fine agosto. Oggi la pena di morte è prevista per 68 reati, 44 dei quali non sono commessi con violenza, dall’omicidio alla corruzione allo spaccio di stupefacenti a reati contro lo Stato. Anche se non sono rivelati i dati ufficiali, gruppi come Amnesty International calcolano che Pechino da molti anni ha il triste primato delle pene di morte irrogate ed ogni anno vi sono eseguite migliaia di pene capitali, pari a
Inoltre, gli scambi commerciali con la Repubblica Islamica devono essere resi più difficili, vietate le attività delle banche iraniane ed esteso il numero di cittadini iraniani a cui vietare il visto, con particolare riguardo per le guardie della rivoluzione, l’armata ideologica del regime di Teheran. La maggior parte delle sanzioni diventerà effettiva da oggi, con la pubblicazione sul giornale ufficiale della Ue. Per quanto riguarda le attività nei settori del gas naturale e del petrolio, le sanzioni prevedono il blocco di nuovi investimenti nel Paese,
Il destino di Hayward non coinvolge la BP Le dimissioni dell’a.d. non toccheranno la compagnia di Ubaldo Villani-Lubelli l 20 aprile scorso esplodeva il pozzo di petrolio a 1500 metri di profondità nel Golfo del Messico. Due giorni dopo affondava anche la piattaforma petrolifera dell’ormai famosa British Petroleum, più nota semplicemente come BP. Ad oltre tre mesi dall’incidente non solo le conseguenze ambientali della catastrofe non sono ancora veramente stimabili, ma non si riesce neanche a valutare l’entità dei danni che la più grossa compagnia petrolifera europea dovrà pagare: venti, sessanta o addirittura cento miliardi di dollari. Probabilmente i costi non avranno limiti e non saranno mai abbastanza anche perchè sulla base delle ultime notizie, un tecnico della Deepwater Horizon, la piattaforma affondata nel Golfo del Messico, ha dichiarato che il dispositivo di allarme sonoro era stato disattivato mesi prima dell’esplosione per evitare che la gente venisse svegliata di notte. Le responsabilità della British Petroleum sembrano ancor più gravi ed al momento in cui scriviamo le dimissioni di Tony Howard, il numero uno della compagnia petrolifera, sono annunciate ma non ancora ufficiali. È comunque lecito chiedersi quale sarà il destino della BP. In un primo momento sembrava sicuro il suo fallimento, tuttavia la British Petroleum, come ha ricordato in un recente articolo l’edizione domenicale (11. Luglio 2010) del giornale tedesco Die Welt, non fallirà. E questo non tanto perchè la compagnia fa affari d’oro ed avrà, alla fine dell’anno, un utile molto superiore alle spese che dovrà pagare per l’incidente nel Golfo del Messico, ma perchè la BP non è una semplice impresa privata. La British Petroleum, infatti, garantisce, sia agli Stati Uniti sia al Regno Unito, l’indipendenza europea dalla Russia. La Bp nasce nel 1909 come compagnia statale e solo nel 1987 viene, grazie alla privatizzazione voluta da Margaret Thatcher, totalmente privatizzata. Sin dall’inizio del secolo scorso, dunque, la BP è stata sempre uno strumento della politica industriale ed europea del Regno Unito e lo è ancora oggi anche se interamente in mano ai priva-
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ti. Ma la British Petroleum, come sempre ricorda il Die Welt, è indispensabile anche per la politica americana. Il fallimento della BP sarebbe troppo rischioso per gli Stati Uniti, non solo perchè gli USA vogliono essere sicuri che la compagnia petrolifera pagherà i danni fino alla fine, ma anche per un altro motivo.
Nel 1998, infatti, la BP si fonde con la compagnia americana Amoco e diventa il più grande produttore di olio e gas negli Stati Uniti ed anche la seconda più grossa fornitrice di benzina e gasolio dei benzinai statunitensi. È il più importante distributore di benzina e carburanti per le forze armate statunitensi. E quindi è altamente improbabile che il governo americano lasci fallire un partner così importante o che semplicemente lo faccia finire in mani straniere, magari cinesi o russe. A questo si aggiunga che il governo americano, se vuole diminuire la dipendenza nell’importazione dal politicamente instabile Medio Oriente, deve per forza di cose collaborare con le aziende petrolifere private. Lo stesso Obama, se all’inizio era convinto che la BP dovesse fallire, ora apprezza gli sforzi della compagnia nel ricorrere ai ripari e la considera un’azienda stabile che è interesse comune che rimanga tale. Non è forse neanche un caso che l’annunciato successore di Tony Howard sarà il capo della BP negli Stati Uniti, ovvero Bob Dudley. In alternativa circola il nome di Iain Conn, fino ad ora responsabile per gli affari con i distributori di benzina e le raffinerie. A questo punto non è chiaro, ed evidentemente non casuale, che la British Petroleum ha annunciato che inizierà a breve una nuova perforazione nel Mare Mediterraneo, a nord delle coste libiche. Il gruppo ha, infatti, ricevuto l’autorizzazione ad effettuare cinque perforazioni in virtù di un accordo firmato nel 2007 con le autorità libiche. Queste nuove trivellazioni avranno luogo nel golfo di Sirte a circa 1.700 metri, dunque ad una profondità addirittura superiore a quella del Golfo del Messico.
La British Petroleum è il maggior fornitore di carburante per l’esercito Usa. Ecco perché Obama la risparmierà
nonché restrizioni per quanto riguarda l’assistenza tecnica e il trasferimento di tecnologie, specie nel campo della raffinazione e della liquefazione del gas, cioè dove Teheran più dipende dall’estero.Sul fronte finanziario, le nuove misure sono destinate a colpire le attività di banche e assicurazioni e a portare al congelamento degli attivi di banche iraniane depositati fuori dal Paese. Limitazioni sono previste anche per quanto riguarda le coperture assicurative finora fornite a transazioni commerciali. Secondo fonti diplomatiche europee, le nuove sanzioni sono le più pesanti mai adottate nei confronti di un Paese dall’Ue.
ben più della metà di quelle di tutto il mondo: nel 2008 le esecuzioni sono state 1718 su 2390 mondiali. Questa abolizione sarà la prima riduzione della pena dal 1979. La pena di morte non si è rivelata un valido deterrente, per esempio per reati come la corruzione, anche perché è raro che per simili reati si giunga all’esecuzione.
Proprio ieri Chen Shaoji, ex capo della Conferenza politica consultiva del popolo cinese per il Guangdong, è stato condannato a morte per avere accettato bustarelle per circa 30 milioni di yuan, ma con pena sospesa per due anni, formula che precede una commutazione in ergastolo dopo un periodo di buona condotta. Secondo dati ufficiali, almeno il 10% delle pene capitali sono commutate in carcere. Tra i reati per cui la pena capitale sarà abolita, si parla della corruzione per somme contenute (non troppo superiori a 100mila yuan, 10mila euro), anche se è certo che la pena di morte permarrà per i casi di corruzione grave, vista la grande diffusione e l’allarme sociale. Pare che la decisione sia presa anche per uniformare le condanne dei diversi tribunali, che emettono sentenze molto diverse fra di loro.
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Teatro. Questa 64esima edizione non ha presentato grandi novità rispetto al passato. In arrivo intanto le mini-kermesse, da Shakespeare a Maupassant
Avignone cala il sipario Terminerà nella giornata di oggi il Festival «In», mentre va avanti la rassegna parallela dell’«Off» di Diana Del Monte
AVIGNONE. Che siano arrivati per dare vita a un concerto, a una prosa teatrale, a una coreografia o a un’esposizione, oggi, non è importante, perché tutti, dagli artisti ai tecnici, dai giornalisti alle scolaresche, si preparano ad abbandonare la ville-théâtre. La grande macchina teatrale è prossima alla chiusura, per il Festival di Avignone il tempo scade oggi, mentre l’off andrà avanti ancora per alcuni giorni, fino a sabato; con loro sparirà tutto quel sottobosco fatto di decine di piccoli festival, rassegne e “cicli di”che ogni anno affiancano i due eventi principali.
Già da domani, dunque, la cittadina comincerà a rallentare i suoi ritmi, aprendo la strada, come si usa dire, al momento in cui si devono “tirare le som-
segue dinamiche diverse, sembra voler riaffermare il diritto del teatro, luogo extraquotidiano per eccellenza, di volersi occupare dei problemi quotidiani proponendosi come il luogo dove si riflette sull’attualità e sulla società, che rimarca, e spesso contesta, le scelte politiche, che legge nell’arte, e nell’arte drammatica in particolare, una forma di partecipazione, quando non di attivismo, alla vita socio-politica. A riempire i palcoscenici istituzionali, ma soprattutto i cortili adibiti ai dibattiti e le sale per gli incontri con il pubblico, dunque, erano la crisi economica, le relazioni internazionali, gli affari interni, e la gestione delle risorse pubbliche, in particolare quelle inerenti la cultura. Un’edizione, dunque, durante la quale era impensabile spegnere le diatribe sociopo-
gista – L’immagine dell’orchestra mi faceva pensare ad un gruppo costituito e solidale oggi perduto perché lui stesso soggetto allo sfaldamento. L’idea è quella di un capo che non può più riunire il suo esercito perché il collettivo, o piuttosto i collettivi, si sono infranti o stanno per essere distrutti». Non sono esclusi i temi dell’integrazione culturale e dell’intolleranza, tematiche molto seguite ovunque, ma particolarmente sentite da un’ex potenza colonizzatrice che negli ultimi anni ha discusso a lungo sull’interdizione dei simboli religiosi, velo in primis, che il gruppo GdRA affronta, non senza ironia, spiegando la “sindrome di Malinowski”. Attraverso la lettura del diario dell’etnografo polacco, pubblicato postumo, si evidenziano, così, quei pregiudizi sottili e ingannevoli che s’infiltrano nella società contemporanea apparentemente aperta e ci si chiede chi sono i “noi” e chi i “loro”, ricordando che Malinowski ha soggiornato a lungo in diversi paesi studiando le tribù locali, come quelle delle Trombrian e di Yale. In questa 64esimma edizione di Avignone, dunque, è importante tenere gli occhi e le orecchie ben aperti sull’attualità e, se possibile, portarla in scena, sia che sia affrontata in maniera diretta che indiretta, sia che ci si proponga di analizzarla o semplicemente di utilizzare alcuni spunti come suggestioni da intrecciare nella narrazione. E cosa fa l’universo “off” mentre Avignone “in”si interroga sull’oggi? Avignone Off, “il più grande teatro del mondo” dice il suo slogan, è un universo, appunto, che, insieme all’off-off e a tutte le altre mini rassegne, sa contenere tutto e il contrario di tutto: da Shakespeare a Guy de Maupassant, da Dit-moi oui, commedia romantica, alla rivista anni ’40, dalla commedia musicale al cantautore impegnato. A luglio, per le strade di Avignone si può assistere ad una vera guerra all’ultimo volantino che inizia nella tarda mattinata e finisce a tarda sera, perché è impossibile conoscere il cartellone del “fuori le mura” del festival ufficale sfogliando con sistematica serenità un programma. Solo quello di Avignone Off, infatti, è grande come un elenco telefonico di un piccolo capoluogo; non impaginato secondo reali criteri organizzativi, il fascicolo dell’altro festival è composto di quarti di pagina dal taglio pubblicitario, perché nell’universo off gli incassi dei biglietti contano, e tanto. Si può davvero tro-
Andando al di là della qualità dei singoli lavori, e senza dare un giudizio semplicistico, la danza rimane generalmente autoreferenziale
me”. Dal punto di vista dello spettatore, il Festival “in”non ha presentato grandi novità; pur nella sua varietà, la rassegna non ha scelto una strada nuova, non ha sorpreso o scioccato e, tantomeno, turbato il suo pubblico. Che il panorama teatrale proposto sarebbe stato caratterizzato dalla forte presenza della parola scritta e della musica era molto più che prevedibile, era organizzato; facilmente ipotizzabile, di conseguenza, anche lo sposalizio fra i due mondi che, inevitabilmente, ha condotto gli artisti ospiti verso una ricerca sul ritmo della parola scritta e sulla musicalità nelle modulazioni vocali, due aspetti, peraltro già molto presenti sia nella scrittura di Cadiot che nel teatro di Marthaler. D’altra parte, però, un festival diverso, non così chiaramente caratterizzato dalle due figure di Cafiot e Marthaler, avrebbe aperto non pochi interrogativi sul ruolo degli artisti associati e sulle motivazioni del loro turn over annuale. Quello su cui si può e si deve, invece, riflettere ancora sono le declinazioni di queste “tendenze”, così come le eccezioni e/o le deviazioni dalla strada maestra. Il Festival, e parliamo sempre di Avignone “in” visto che l’off
litiche insieme alle luci della sala, che, al contrario, si volevano e si dovevano accendere proprio con i riflettori. Non bisogna, però confondersi, siamo ben lontani dalle contestazioni sessantottine e da Paradise now, ad Avignone, infatti, il tutto è gestito con molta discrezione e adeguatezza. Si può parlare della questione della lingua, interrogandosi e preoccupandosi della morte della francofonia nella Francia di oggi e accusando le figure politiche di riferimento di essere troppo anglofili; si può lavorare sul fascino del potere, come nel Riccardo II di Sastre che ha dovuto rispondere, prima domanda del dibattito con il pubblico, a chi gli chiedeva un parallelo tra l’opera e la situazione politica contemporanea, oppure si possono portare in scena le pagine politiche dei giornali, come ha fatto Christophe Huysman ne L’orchestre perdu.
«Il titolo indica la sfaldatura dell’organizzazione sociale, politica ed economica del nostro mondo – ha spiegato il re-
vare di tutto, incluso un assolo di Regine Chopinau organizzato in una sala di un palazzo signorile medievale, originariamente dedicata ai locali di servizio. E mentre la Chopinau danza per un ristretto pubblico, ci chiediamo: e la danza cosa fa? La danza avignonese è “d’autrefois”; altrove perché, come spesso accade, non sembra appartenere alla stessa dimensione del teatro di prosa, intenta a navigare per i propri lidi. I nomi c’erano e alcuni spettacoli erano validi, ma andando al di là della qualità dei singoli lavori, e senza voler operare un giudizio troppo semplicistico, basato sulla dicotomia “giusto-sbagliato”, la danza resta generalmente autoreferenziale. Agli antipodi con il “resto del teatro”, l’arte
spettacoli
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La pièce inizia con i danzatori confusi tra il pubblico, seduti ai propri posti. Poi...
Pina Bausch “torna” e incanta tutti
Lo spettacolo “Out of context” di Alain Platel dedicato alla grande coreografa tedesca scomparsa lo scorso anno lain Platel, ortopedagogo prestato alla danza a tempo indeterminato, è finalmente uscito da quella fase di bulimia creativa che aveva caratterizzato la creazione di Vsprs (2006) e Pitié (2008). Lo ha fatto per dedicarsi a Pina. Out of context – for Pina è arrivato ad Avignone giovedì scorso ed ha immediatamente conquistato la platea. Un ispirato lavoro sul gesto ripetuto, di qualunque natura, sapientemente strutturato e incredibilmente acuto che porta sul palco i tic, gli atteggiamenti, le abitudini motorie e posturali inconsce di una grandissima gamma di figure, sia umane che animali. La dedica alla coreografa tedesca scomparsa l’anno scorso ed esplicitata nel titolo, risuona ad un livello profondo durante tutta la performance. Il comune interesse per il gesto quotidiano e per la fragilità umana, così come la volontà di andare oltre i codici “tradizionali” della danza, sembrano aver condotto Platel ad un momento di grande affinità elettiva con il lavoro della Bausch. I piccoli gesti ripetuti, l’eclettismo artistico che non concepiva la divisione tra cultura “alta” e cultura “bassa”, la solitudine dell’individuo inserito all’interno dei codici sociali di comportamento, la fragilità, insomma, in tutte le sue declinazioni, che per Pina era specialmente quella della donna, vengono qui riprese e declinate alla Platel. Lo spettacolo inizia con i danzatori confusi tra il pubblico, seduti ai propri posti. Dopo pochi minuti, ad uno ad uno, la compagnia si alza e va sul palco; lì, lentamente, abbandonano i propri vestiti e, nudi, si mettono in fila per esporsi al pubblico, lo fissano e, così facendo, dichiarano la propria fragilità avvolti solo da una coperta rossa, lo stesso colore voluto dalla Bausch per vestire la sua eletta, vergine destinata al sacrificio nel Sacre du Printemps. La Bausch, dunque, perché se questo lavoro è esplicitamente dedicato a lei sin dal titolo, in realtà, durante tutta la performance, i richiami diretti al suo lavoro prendono piuttosto la forma di citazioni discrete, sparse qua e là per lo spettacolo – come quando, poco dopo l’inizio, tutti i danzatori iniziano improvvisamente un unisono fatto di piccoli gesti e tic, e, tra i ricordi dei bauschiofili emerge subito Kontaktoff.
A
Si conclude oggi il Festival di Avignone. In questa pagina: Christophe Huysman in “L’orchestre perdu” (a sinistra); Maupassant e William Shakespeare (sopra); la coreografa Pina Bausch (a destra).
della coreografia sembra, in realtà, molto poco attenta all’andamento del mondo.
Non è sempre stato così e, ad Avignone come altrove, ci sono le dovute eccezioni; ma la danza sembra oggi troppo impegnata sull’io, sul corpo dell’io, sul fatto che il corpo dell’io incontra, occasionalmente, altri “io”, per occuparsi di ciò che avviene intorno. D’altra parte, la danza di Avignone è in una fase di transito; uscita da un’edizione, la numero 63, che non le dava molto spazio, è ora in attesa del 2011 che vede un coreografo, Boris Charmatz, quest’anno al festival con due suoi lavori, unico artista associato per la 65esima edizione. Per la danza, Rimandiamo al prossimo anno.
irriconoscibile da essere compresa, e non semplicemente ascoltata. Eppure, parlare di Out of context solo in funzione del suo legame con la memoria della madre del teatro-danza sarebbe riduttivo. Il lavoro di Platel, infatti, è un’acuta analisi del corpo contemporaneo nelle sue espressioni quotidiane, nei modelli proposti dai media al grande pubblico, nelle situazioni straordinarie della vita di ognuno, come la maternità o il primo passo di un bambino, nella condizioni di maggiore difficoltà, come la malattia mentale e gli handicap fisici permanenti, il tutto, portato in scena con una sagace ironia che sfocia, occasionalmente, in satira.
Con “Out of context” infatti, si ride di cuore sia quando si assiste al rituale umano della conquista e dell’abbandono, ma anche quando, grazie ad una straordinaria intelligenza e delicatezza nel trattare il tema, vengono portate sul palco le discrasie e le disfunzioni motorie tipiche dei portatori di handicap. Ed è solo quando si pensa che si sia arrivati alla fine, che non ci può essere nulla di più ironicamente irriverente, che arrivano loro: due bambini di meno di un anno che, portati in mezzo al palcoscenico, fanno da contraltare ai danzatori che ne propongono un’efficace parodia. L’ironia nella danza è una dote rara e difficile da raggiungere. Riuscire ad andare oltre la macchietta, che in alcuni casi è già una conquista, vuol dire saper usare il proprio corpo con tale maestria da non temere di essere ridicoli ed Out of context è uno spettacolo che pochissime compagnie si possono permettere. Il corpo di ballo di Platel è una di queste; la raffinatezza della preparazione dei suoi danzatori, infatti, permette ad ognuno di loro di far ballare ogni singola parte del corpo: muscolo, articolazione, osso o qualunque altro tessuto molle sia incluso nel perimetro loro corpo, può danzare e danza. Dalla lingua all’ultima falange del mignolo sinistro, Platel usa tutto, i passi codificati non gli servono se non per ironizzarci sopra, mostrando, tra l’altro, la leggerezza e la pulizia dei suoi danzatori in condizioni di ordinaria tecnica. Out of context ha lasciato Avignone domenica. Lo spettacolo, dopo il debutto dello scorso 13 gennaio a Bruxelles, è, infatti, impegnato in una serratissima tournée europea che terminerà a dicembre. In Italia arriverà a novembre per poche date, il 9 e 10 a Torino, il 13 e 14 a Ferrara. (d.d.m.)
In realtà, durante tutta la performance, i richiami diretti al lavoro della donna prendono la forma di citazioni molto discrete
L’unica dedica tradizionalmente intesa di tutto lo spettacolo arriva in chiusura, quando una voce leggermente stonata inizia a cantare, lentamente e scandendo bene le parole, una nothing compares to you di Prince resa sufficientemente
cultura
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metà del ‘900, a Princeton, Einstein e Gödel discutevano sulle soluzioni delle equazioni della relatività generale, trovando che erano possibili traiettorie ad anello nel tempo. In questi giorni dal Mit (Massachusetts Institute of Technology) di Boston una notizia: un gruppo internazionale di studiosi guidati dal professor Lloyd ritiene realizzabile combinare insieme le curve temporalmente chiuse della relatività generale con la meccanica quantistica. In parole povere: un viaggio a ritroso nel tempo non è più fantascienza. E a chi non dispiacerebbe? Chi non vorrebbe essere Mario o Saverio (Troisi e Benigni in Non ci resta che piangere) alle prese con la partenza delle tre caravelle o con le invenzioni suggerite a Leonardo da Vinci? A ciascuno la propria scelta di rivivere l’attimo privato o il momento storico preferito.
A
Claudio Fracassi (Il romanzo dei Mille, Mursia editore 2010, 405 pp., 19 Euro) si farebbe “teletrasportare”, al 99%, alla notte tra il 5 e il 6 maggio del 1860, a Quarto, vicino Genova, sul famoso scoglio da cui partirono Garibaldi e i suoi mille volontari. Molti italiani, stimolati dalla ricorrenza, quest’anno, dei 150 anni dalla spedizione, forse lo imiterebbero per sapere se davvero Bixio disse: «Da questo momento comando io!» quando alle 9 di sera del 5 maggio dette il via all’impresa “rubando” alla compagnia Rubattino i vapori, Lombardo e Piemonte. Ma chi erano questi famosi “Mille”? Certo, in quei giorni, per le strade di Genova, vedere quella compagine eterogenea per provenienza, ceto sociale e motivazione deve essere stato uno spettacolo: siciliani e veneti, toscani e lombardi, bolognesi e pavesi, tutti insieme pronti a “liberare il Sud”. Una «banda di flibustieri del Mediterraneo guidata da Garibaldi», come apparve scritto nel “Bullettino” ufficiale emanato dal capo di stato maggiore dell’esercito borbonico il 25 maggio a Palermo. In rappresentanza di molte classi sociali (150 avvocati, 100 medici, 20 farmacisti, 50 ingegneri, e poi agricoltori, artigiani, commercianti), tra quella moltitudine di volontari c’era «il patriota sfuggito alle galere, il siciliano in cerca della patria, il poeta in cerca d’un romanzo, l’innamorato in cerca dell’oblìo, il miserabile in cerca d’un pane, l’infelice in cerca della morte». Per Cavour un insieme di “folli” di cui deprecava ufficialmente l’operato, cercando di ostacolarlo subdolamente con il rifiuto di fornire armi, e di cui sapeva e seguiva tutte le azioni per mezzo dei suoi “inviati”. Sui “numeri” dei Mille molti hanno fornito le cifre più varie: tra le notizie sicure annoveriamo che alla partenza vi
Libri. Qualche volume per conoscere Giuseppe Garibaldi e il suo esercito
Sfogliando l’impresa dei Mille di Dianora Citi era una sola donna, Rosalia Montmasson, moglie di Francesco Crispi, e che nella Gazzetta ufficiale del 1878 (dove fu pubblicato l’Elenco alfabetico di tutti i componenti la spedizione dei Mille di Marsala) tra la decina di “stranieri” elencati vi fu inserito anche Giuseppe Garibaldi, perché nato a Nizza, di-
baldi dimandò a un ufficiale di cui non rammento il nome: “Quanti siamo in tutti?”. “Co’ marinai siam più di mille”, rispose l’ufficiale.“Eh! Eh! Quanta gente!”, esclamò il generale, con un gesto di meraviglia. […] Per parte mia, quelle parole mi fecero meraviglia infinita, e ammirai il gran cuore di quel-
l’uomo cui parean troppi mille uomini per un’impresa, alla quale altri avrebbe riputato indispensabile un esercito» (I Mille. Un toscano al fianco di Garibaldi, Mauro Pagliai editore 2010, 399 pp., 14 Euro). Anche se il più anziano era un genovese, settantenne, e il più giovane un ragazzino di undici
I racconti dei garibaldini sopravvissuti sono stati ripubblicati in questi ultimi mesi e sono certamente da non perdere quelli di Giuseppe Cesare Abba, di Alberto Mario e di Alexandre Dumas, tutti riproposti da Mursia editore venuta francese il 24 marzo 1860. Un commento sui “numeri” è nelle parole dello stesso Generale riferite da chi le udì in prima perGiuseppe sona, Bandi, chiamato a partecipare alla spedizione direttamente dall’eroe dei due mondi come suo aiutante: «Ero a bordo da pochi minuti, quando il Piemonte si mosse e gli venne dietro il Lombardo. Allora, Gari-
In alto, un’illustrazione di Giuseppe Garibaldi. Sopra, lo sbarco dei Mille nella città di Milazzo
anni (il cui padre, volontario, non aveva avuto cuore di lasciarlo solo a casa), nella media troviamo ragazzi attorno ai vent’anni, scappati da casa di nascosto per eludere il divieto dei genitori. Ippolito Nievo, classe 1831, il poeta-soldato delle Confessioni di un italiano, letterato intellettuale e garibaldino, il 5 maggio 1860 da Genova scrive, ormai alla partenza, al
fratello della decisione di seguire Garibaldi: «Mio Carlo, avverto te solo che al punto che leggerai queste righe io avrò già fatto vela verso il Mezzogiorno d’Italia. Usa con prudenza verso la Mamma di questa notizia, per tutto quello che potesse nascere. A lei la tenni nascosta a bella posta come pure al Papà e ad Alessandro». Non tutti, dopo lo sbarco, poterono scrivere come Nievo alla madre, per rassicurarla con esempi e parole a lei comprensibili e di consolazione: «Mamma mia, ti ricordi del viaggio in Sicilia tante volte da me progettato? Eccolo finalmente in azione, più pittoresco di quanto avrei pensato. Palermo, con un po’ più di caldo, è negli usi, nella società, nei pettegolezzi, una fotografia di Venezia. […] Sai quello che mi è successo? Mi hanno nominato Vice intendente generale delle forze Nazionali in Sicilia e per giunta capitano. Il povero nonno sarebbe molto geloso del primo titolo […]» (Diario della spedizione dei Mille, Mursia editore 2010, 100 pp., 9 Euro). I racconti dei garibaldini sopravvissuti sono stati variamente ripubblicati in questi ultimi mesi e sono da non perdere: da Giuseppe Cesare Abba, cui si deve una delle più famose cronache dell’impresa (Noterelle di uno dei Mille) ai già citati Nievo e Bandi, ad Alberto Mario (La camicia rossa, Mursia editore 2010, 214 pp., 17 Euro) alle Memorie di Garibaldi di Alexandre Dumas (sempre Mursia editore), non garibaldino bensì “osservatore straniero”.
Leggendo i racconti in prima persona di alcuni di quegli «uomini, cui solo corredo militare erano un fucile per capo e una dozzina di camicie rosse per compagnia, vale a dire una camicia ogni dozzina di uomini», riconoscendo il loro «sentimento della completa abnegazione per la patria, non si può fare a meno di esclamare: costoro ben meritavano il miracolo dell’entrata in Palermo!» (dal resoconto amministrativo dell’intendente generale Acerbi riportato nel succitato Diario di Nievo). Certo, se potessimo tornare indietro nel tempo scopriremmo quanto i ricordi sono stati resi fedelmente, quanto è stato “ricamato” e quanto c’è di genuino: concretamente sentiremmo o no Garibaldi mettere a tacere quella ciurma partita da Genova «senza cambiar gli abiti soliti a portarsi nelle case e nei caffè» con una arringa che terminava minacciando «qui sul mio bordo non deve udirsi altra voce che la mia: e il primo che ardisse di disobbedirmi, si prepari ad esser buttato in mare»? Ma anche se il Generale non disse esattamente così, cambierebbe qualcosa nel mito della spedizione dei Mille? E questo è solo l’inizio del racconto di quello che successe...
spettacoli
27 luglio 2010 • pagina 21
Musica. Il grande successo nelle hits statunitensi (e non solo) di “Freight train”, il nuovo album del country-man Alan Jackson
La colonna sonora dei ranch di Valentina Gerace
er molti Alan Jackson è un perfetto sconosciuto. Ma per chi ne capisce di musica americana, rappresenta uno dei “cowboy” del country tradizionale tra i pochi rimasti in circolazione. Una firma discografica che non ha mai deluso i fan e gli appassionati del genere. E i dati parlano da soli. Oltre 50 milioni di dischi venduti. Più di 12 album prodotti e diverse compilation, tutti con l’etichetta Arista Nashville. Più di 50 singoli al top delle prime 30 nelle classifiche stilate dalla rivista americana Billboard e 25 numero Uno. Quando si compra un disco di Jackson si sa cosa si sta per ascoltare. Perché il grande countryman non ama cambiare formula. Ha scelto di abbracciare quel country classico, tradizionale, autentico, trasmessogli dal “padre”Johnny Cash.
P
L’artista della Georgia incastona ancora una volta grandi classici della musica americana in Freight Train e utilizza la metafora di un treno con cui percorriamo uno scenario simbolico descritto con ironia tagliente ma anche a tratti con estremo verismo. L’amore è il protagonsta del disco. Come in ogni raccolta country. Ma anche il desiderio profondo di fuggire lontano da un mondo che corre. Insensibile a un tramonto, un sorriso, un cielo stellato. Una dimensione soffocante in cui ci si calpesta l’un l’altro. Incastrati tra gesti sempre uguali. Sarebbe più semplice essere un treno, riflette Alan Jackson. Una macchina di ferro, senza cuore, che trasporta cianfrusaglie e personaggi. Ma che non può soffrire, amare, pensare. E a rispecchiare la metafora, anche molte ballate del disco sembrano correre, con ritmo incalzante, veloce, quasi sfottente, dove mandolini, fiddle, cori e chitarre sembrano voler sdrammatizzare i turbamenti del cuore. Amanti, padri e figli, lavoratori, donne innamorate o ferite dall’amore stesso, sono i protagonisti. Personaggi veri, concreti. Che si fanno però portatori di messaggi universali, dall’eco eterna. Anche queste 12 ballate, racchiuse nel diciottesimo album di Jackson, hanno impresse grandi firme: Andy Leftwich, Fred Eaglesmith, Janie Fricke, Jay Knowles, Keith Stegall, Kylie Sackley, Lee Ann Womack, Roger Murrah, The Wrights, Vern Gosdin, Vicky McGehee. Dal primo brano, Hard hat and a hammer, un vero e proprio inno Walt Withmaniano al lavoratore, al desiderio di rifugiarsi in
un luogo rilassante e fuggire dalla realtà in That’s where I belong, in cui dice di non voler ascoltare nessuna sirena, macchina o grida. Solo la brezza di un calmo oceano.Tra le attuali top 20 del country americano, It’s Just That Way, una delle poche scritte da Jackson nel disco, prodotta da Keith Stegall, Vicky McGehee e Kylie Sackley. Una sottile ironia caratterizza I Could Get Used To This Lovin’ Thing e The Best Keeps
Alan Jackson ci ricorda come il country non sia solamente un genere musicale. Ma un veicolo per trasmettere valori, significati e soffermarsi su verità che da sempre l’arte (musica, danza, letteratura, teatro) ha reso il centro di ogni riflessione. Freight train è un album spensierato ma che scivola a tratti in un profondo “blues” sentimentale, rappresentando proprio quel contrasto della vita di ognuno, tra sofferenza, paura, stanchez-
certificato di platino per l’album Here In The Real World, suo disco d’esordio. Seguono A Lot About Livin (1992) che contiene il singolo She’s Got the Rhythm (And I Got the Blues) co-ideato con Randy Travis. In Don’t Rock The Jukebox e Under the influence (1999) rivisita alcuni vecchi successi della
Disponibile in Italia dal 30 marzo 2010, il disco è il marchio di fabbrica di un personaggio che negli ultimi vent’anni si è dimostrato un sopraffino cesellatore di suoni e racconti di vita Getting Better. Autobiografica After 17, un tenero ritratto della figlia che cerca un posto in questo mondo di matti. È l’amore il protagonista di Big green eyes, Every now and then e True Love Is A Golden Ring, scritta con Roger Murrah. Sublime il connubbio di voci nel duetto con Lee Ann Womack in Till the end. La title track, scritta da Fred Eaglesmith, è un bluegrass sulla futilità di correre e scappare dai ricordi tristi, per dimenticare il passato.
za, ricerca della felicità, e desiderio di sdrammatizzare e esorcizzare i mali della vita con un sorriso e un’ironia sottile, quasi cinica. L’“american dream”di Alan Jackson sta nella città di Nashville sin da bambino. La raggiunge presto per lavorare alla The Nashville Network. Negli anni Ottanta entra in contatto con personaggi di rilievo della country music. Clay Walker, Chely Wright, Faith Hill e inizia la svolta. Nell’89 gli viene conferito il
musica country riportandoli alla ribalta. Il 2002 è l’anno che fa di Alan Jackson uno dei maggiori artefici di questo genere con l’uscita di Drive che lancia il singolo Where Were You (When The World Stopped Turning) dedicato ai tragici fatti dell’11 settembre del 2001. Il più recente album in
studio, Like red on a rose del 2006, vede la collaborazione di Alison Krauss, mentre in Good Time del 2008 ballate come Small Town Southern Man restano incastonate nel country di sempre.
In fondo è quello che cantava Walt Whitman nelle sue poesie dedicate alla sua amata America. Il lavoro conferisce a ogni uomo una dignità che lo eleva e lo rende come gli altri. Qualsiasi lavoro egli faccia. Ricchi, poveri, lavoratori di ogni genere, non siamo diversi. Apparteniamo a un meccanismo universale che ci porta a obbedire a dinamiche sempre uguali. E spesso restiamo accecati da automatismi che spesso ci annebbiano la mente e ci fanno dimenticare il valore delle piccole cose. Alan Jackson descrive tutto questo con ironia. Ed è questa la vera novità. Ritmi essenziali, ballate semplici e arrangiamenti tradizionali per immortalare in musica piccole, grandi verità.
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE
Sciopero dei medici. Perché se la prendono con gli ammalati? Medici come i ferrovieri, i controllori di volo, i tranvieri, ecc. Non c’è differenza. Il primo obiettivo è l’utente e non la controparte, il governo, cioè il ministro della Salute, che ironia della sorte è un medico. Con l’aggravante che l’utente è un malato, colui cioè che è nelle condizioni di minor difesa. E il giuramento di Ippocrate? Carta igienica. Il malato è preso in ostaggio e tanto più gli si fa male tanto maggiore è la capacità contrattuale. Perché i medici non se la prendono con il ministro della Salute? Perché non provocano danno alla controparte e non ai degenti? Vogliono un esempio di come si può danneggiare il datore di lavoro, ossia il goveno? Basterebbe svolgere le proprie mansioni senza far pagare il ticket previsto. L’utente avrebbe il servizio e il governo avrebbe un danno economico di cui potrebbero essere chiamati a risponderne, mentre i danni al malato sono immolati sul santuario del diritto di sciopero e se li paga il malato da solo. Più semplice invece è la sofferenza del malato, sbattuta in faccia al ministro della Sanità, per sostenere le proprie richieste. Se, poi, lo sciopero viene fatto per continuare a dare le stesse prestazioni sanitarie allora non se ne capiscono le modalità attuative: è il malato il primo a soffrire.
Primo Mastrantoni
RENATA POLVERINI HA RAGIONE: BASTA SPRECHI Ha fortemente ragione la presidente Polverini quando afferma che bisogna procedere oltre che alla razionalizzazione dei costi anche alla lotta contro gli sprechi della sanità. Da cittadino, da medico e da amministratore ho avuto modo di verificare l’esistenza di una struttura, il San Giovanni di Roma, di altissimo livello dove è presente l’apparecchiatura per la tomoterapia oncologica. È un acceleratore lineare che consente di fare trattamenti sofisticati in pazienti portatori di tumore della prostata, del distretto cervico facciale, dei tumori cerebrali e patologie ematologiche consentendo di ottenere risultati sorprendenti. Si ricorda che in Italia ne esistono solo altre 9 di queste apparecchiature. La macchina è ferma: cosa, chi e perché la ferma? Sembra solo per questioni buro-
cratiche. Con coraggio e determinazione la Polverini vuole fermare gli sprechi, sono affianco a lei in questa battaglia che ritengo giusta, per questo credo sia un grande spreco tenere ferma una struttura costata decine di milioni di euro e un’apparecchiatura costata quasi 4 milioni di euro e la cui messa in funzione è attesa da migliaia di pazienti ammalati di cancro.
Raffaele D’Ambrosio
LE BANCHE: OSSIGENO FINANZIARIO Mi fa particolarmente piacere che un istituto prestigioso come il Censis abbia certificato con un suo studio che la Banca più è radicata sul territorio e più piace. Le Banche devono essere l’ossigeno finanziario per le imprese. Più sono vicine al territorio dove le imprese operano e producono, più sono efficaci, e maggiori sono risultati che si ottengono. In questo senso, i dati diffusi oggi sono
Un profilo... rapace L’Eagle Rock, un’«aquila» rocciosa situata su una scogliera dell’Isola dei Canguri (Australia), è il risultato di un processo erosivo che dura da 500 milioni di anni. Onde, vento e salsedine hanno scalfito la pietra fino a farla rassomigliare al becco di un rapace, appollaiato su un dirupo che si affaccia sul mare
significativi: gli impieghi verso le imprese aumentano del 6% nei sistemi bancari fortemente territorializzati e diminuiscono del 2,9% tra le banche tradizionali. Sono d’accordo col Censis anche quando dice che si è ormai esaurito il ciclo della banca come negozio di prodotti finanziari.
Giancarlo Pavan
TEOCRAZIA NON È DEMOCRAZIA Gli Stati musulmani sono nettamente teocratici. Teocrazia non è democrazia. Le
L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
massime autorità religiose e politiche delle comunità islamiche sono gli imam (“califfi” maschi, eletti con metodi patriarcali), non sacerdoti professionali. Nel regime teocratico, il fine della salvezza delle anime ha la preminenza su quello perseguito dallo Stato laico (il benessere materiale dei cittadini). Lo Stato è subordinato alla Chiesa. La legge ecclesiastica prevale su quella civile. Il potere spirituale supera ogni potere terreno, per dignità e nobiltà.
Gianfranco Nìbale
dal ”Chosun Ilbo” del 26/07/2010
L’unione (con l’America) fa la forza maggiori esponenti del governo degli Stati Uniti temono che la Corea del Nord possa decidere di mettere in atto nuove provocazioni di tipo militare contro la Corea del Sud. Ovviamente, come “risposta” alle accuse lanciate da Seoul per l’attacco del 26 marzo scorso contro la corvetta Cheonan. A chi gli chiedeva se Pyongyang sia davvero in grado di fare una cosa del genere, il portavoce del Dipartimento di Stato Philip Crowley ha risposto: «Tragicamente, sì». Dopo aver partecipato allo “storico” incontro del due più due – i ministri della Difesa e degli Esteri di Stati Uniti e Corea del Sud – il capo dei militari americani Robert Gates ha detto ai giornalisti: «Alcuni fattori, verificatisi nel corso degli ultimi mesi, dimostrano che in Corea del Nord è in corso un processo di successione. Questo potrebbe portare a nuove provocazioni». James Clipper, nominato prossimo direttore dell’intelligence nazionale, ha aggiunto: «Potrebbe essere l’inizio di un nuovo, pericoloso periodo in cui la Corea del Nord tenterà di nuovo di portare avanti i propri piani, interni ed esteri, tramite attacchi militari diretti contro Seoul».
I
Un portavoce della delegazione della Corea del Nord ha partecipato all’incontro dell’Asean che si è svolto la scorsa settimana ad Hanoi; nel corso del meeting, ha messo in guardia: «Ci potrebbe essere una risposta fisica del mio governo alle esercitazioni militari navali congiunte fra Corea del Sud e Sta-
di Shin Lee-yap
ti Uniti». Queste sono ancora in corso, al largo delle coste del Mar Giallo. Il governo degli Stati Uniti, al momento, sta tenendo sotto controllo circa 200 conti bancari segreti: sospettano che siano in qualche modo connessi con il mercato delle armi dirette al Nord, con il traffico della droga, con la contraffazione di denaro e con altre attività illecite. Fra questi conti ci sono anche quelli del leader del regime del Nord, Kim Jong-il, che sembra aver nascosto il suo denaro nelle banche di Svizzera e Liechtenstein. Questa attività di controllo potrebbe portare guai: nel 2006, la Corea ha ordinato il proprio primo test nucleare dopo che Washington ha congelato 25 milioni di dollari nordcoreani in una banca di Macao. Questa volta, inoltre, Pyongyang è convinta
che la Cina sia disposta a guardarle le spalle. Ma il regime si muove anche su piani politici: dal governo Kim è arrivato l’ordine, alle associazioni proNord che operano in Corea del Sud, di fare il possibile perché il Grand National Party (il partito conservatore del presidente Lee Myung-bak) esca sconfitto dalle elezioni del 28 luglio.
Questo risultato aiuterebbe, dato che la cosa che più infastidisce Pyongyang è proprio l’atteggiamento intransigente di Seoul. D’altra parte, il 20 per cento della popolazione del Sud non crede ai risultati dell’inchiesta internazionale che accusa il Nord dell’affondamento della Cheonan. E fra questi ci sono i deputati dell’opposizione. Inoltre, un pastore protestante entrato nel Nord senza autorizzazione ha poi accusato Seoul di “aver ucciso”i propri marinai per motivi politici. E non importa che nel Nord ci siano migliaia di persone nei campi di concentramento. Questi dati convincono il regime di avere molti sostenitori nel Sud; e non dimentichiamo che la guerra civile è scattata perché Pyongyang era convinta del sostegno di 200mila sudcoreani. Se il governo non si rafforza in maniera sostanziale, la Corea del Nord può tornare a pensare di essere in grado di vincere. Ma, per rafforzarsi, Seoul deve fare affidamento sull’alleato migliore che ha: gli Stati Uniti. Il peggiore errore che i politici possono compiere è quello di mettere in pericolo la propria popolazione per motivi ideologici sbagliati. Seoul non lo faccia.
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LE VERITÀ NASCOSTE
I videogiochi violenti riducono stress e ostilità NEW YORK. I videogiochi non trasformano le persone in psicopatici con tendenze omicide. Anzi, i videogame violenti riducono lo stress e abbassano il livello di ostilità. Lo sostiene la ricerca del professore Christopher J. Ferguson della Texas A&M International University, che aggiunge così un nuovo argomento a una materia controversa come quella del rapporto tra giochi e violenza. «Abbiamo sottoposto 103 adulti a un’attività frustrante - spiega Ferguson - e quindi li abbiamo suddivisi casualmente in quattro gruppi: uno che non ha giocato, uno che ha giocato a un videogame non violento, uno che ha giocato a un videogame violento nei panni dei buo-
ni, e uno che ha giocato a un videogame violento nei panni dei cattivi. Il risultato suggerisce che i giochi violenti riducono la depressione e i sentimenti ostili». Agiscono da antistress, insomma. Ferguson arriva addirittura a ipotizzare un futuro impiego dei videogame nelle terapie comportamentali di adolescenti e giovani: potrebbero aiutare i pazienti a sopportare meglio le frustrazioni della vita reale, e a calmarsi senza alimentare comportamenti aggressivi. Per quanti limiti abbia questa ricerca (un campione molto piccolo, e test condotti solo su adulti), la conclusione non giunge nuova ai videogiocatori, che lo sanno benissimo: niente di meglio di una sessione
ACCADDE OGGI
OGM FREE PER DARE PIÙ REDDITO AI NOSTRI CONTADINI Si doveva impedire che pochi sciagurati piantassero semi ogm; probabilmente il governo stesso avrebbe dovuto intervenire direttamente per distruggere i campi inquinati, senza lasciando spazio a illusioni e chimere di un “progresso” che fa arretrare. Bisogna impedire che le piante modificate artificialmente possano inquinare quelle naturali. Cosa potremmo raccontare circa le garanzie e la tipicità del “Made in Italy”, motivo di vanto per il nostro Paese? Chi può e deve, approvi subito, ora, la legge sull’etichettatura dei prodotti che dice ai consumatori qual è l’origine delle materie prime. Non possiamo restare inerti rispetto a gruppi di pressione che contrastano questa semplice e utile comunicazione di servizio. Ribadisco che solo un agroalimentare dalla coscienza sporca o dalla qualità non sicura di sé ha motivo di temere da un’etichetta chiara. Al contrario chi lavora per dare il meglio ha solo da guadagnarci: la nostra agricoltura è vincente sui mercati e può essere competitiva perchè sa proporre la singolarità, qualità e tipicità delle sue produzioni, che escono dagli schemi della omogeneità della mondializzazione e che rifuggono da generalizzazioni che inevitabilmente gli ogm porterebbero al nostro sistema primario.
Franco Manzato
RIDUZIONE DELL’ETÀ MASSIMA PER LA PATENTE DI GUIDA La notizia dell’iniziativa dell’on. Mario Valcucci del Pdl, di voler porre il limite
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
di Vincenzo Bacarani
27 luglio 1968 I Pink Floyd pubblicano l’album A Saucerful of Secrets negli Usa 1974 Scandalo Watergate: il Comitato giudiziario della Camera dei rappresentanti vota per raccomandare il primo articolo dell’impeachment contro il presidente Richard Nixon: ostacolo della giustizia 1986 I Queen si esibiscono a Budapest, diventando il primo gruppo occidentale a esibirsi in un Paese dell’est comunista 1992 Palermo: il commissario dell’anti-racket Giovanni Lizio è assassinato dalla mafia 1993 L’Italia è colpita da tre autobomba: una a Milano, dove muoiono sei persone; due a Roma, danneggiando gravemente la chiesa di San Giorgio al Velabro e la basilica di San Giovanni in Laterano 1995 A Washington, viene inaugurato il Memoriale dei veterani della guerra di Corea 1996 Ad Atlanta, un tubo bomba esplode al Centennial Olympic Park, durante le Olimpiadi
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
a Modern Warfare 2 per scaricare i nervi. Certo, non è come fare un idromassaggio rilassante: durante la partita allo sfogo si mischiano eccitazione e adrenalina, ma sono sensazioni che si sgonfiano a console spenta, senza lasciare addosso rabbia extra.
di 80-85 anni, oltre il quale non sarà più possibile guidare, è giunta agli interessati come un fulmine a ciel sereno, ed è stata accolta come una punizione non meritata. La motivazione che con l’età diminuisce l’attenzione è un’affermazione gratuita perché non suffragata da indagini scientifiche. Quello che è certo, è che con l’età aumenta la prudenza che manca ai giovanissimi, e anche l’attenzione, che è fondamentale nella guida. Poiché con l’età aumenta la prudenza, gli anziani non hanno bisogno di steccati per sapere quando devono lasciare definitivamente la patente e ciò perché hanno maggiore autocontrollo. Porre dei limiti può risultare anche offensivo verso chi si sente ancora in pieno vigore. Manca un’indagine per conoscere il numero dei patentati divisi per età e la percentuale degli incidenti attribuiti a ogni fascia d’età. Cose che sono tutti i giorni sotto gli occhi di tutti: quanta gente guida mentre usa il telefonino? Per non parlare degli eccessi di velocità, che qualcuno voleva esentare da penalità, se commessi da auto blu. E che dire dei motociclisti senza casco, o dei sorpassi irregolari, tanto per indicare solo alcuni casi più eclatanti. Il problema più urgente non è quello di aggiungere altre norme al Codice della strada, ma quello di far rispettare quelle che ci sono. Per far ciò occorrono più uomini e più mezzi. Occorre aumentare l’organico delle forze dell’ordine, dotarle dei mezzi moderni necessari, senza assoggettarle ai tagli introdotti con la manovra finanziaria.
Luigi Celebre
Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Robert Kagan, Filippo La Porta,
Direttore da Washington Michael Novak
Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)
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Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)
Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Collaboratori
Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,
Maria Pia Ammirati, Mario Arpino,
Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,
Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi,
Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,
Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,
Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,
TELELAVORO, UN ALTRO PASSO IN AVANTI Recentemente è stato siglato un importante accordo sindacale con un grande gruppo industriale sul telelavoro, di cui si è parlato tanto negli anni scorsi, ma che oggi viene di rado trattato nelle varie vertenze che si susseguono. Il telelavoro è una forma di occupazione che consente al dipendente – in base a particolari norme concordate in sede di trattativa tra azienda e rappresentanti dei lavoratori – una certa elasticità di orari e che soprattutto prevede la possibilità per il lavoratore di svolgere le proprie incombenze di ufficio da casa propria. Questa opportunità non è mai stata molto amata dai sindacati tradizionali un po’ perché lo stipendio può subire qualche taglio e un po’ perché il lavoratore, svolgendo l’attività da casa propria, non partecipa più alla vita interna dell’azienda e potrebbe anche disinteressarsi delle attività dei delgati sindacali. È chiaro che il telelavoro non può essere applicato agli operai e a tutte quelle categorie che svolgono attività soprattutto manuale, ma c’è una gran parte di lavoratori che, con l’ausilio di telefonini, fax e computer può far fronte alle incombenze senza uscire da casa. L’ultimo accordo sul telelavoro è stato raggiunto nei giorni scorsi alla Nestlé. Il Gruppo Nestlé è presente in Italia dal 1875 e occupa circa 5300 dipendenti suddivisi in 18 stabilimenti produttivi (oltre alla sede centrale di Milano). La multinazionale è leader mondiale nel “food and beverage”, con sedi in più di 130 Paesi. Il gruppo ha sottoscritto con il Coordinamento delle Rsu (rappresentanze sindacali unitarie) e con le segreterie nazionali dei sindacati di categoria un accordo per sviluppare il telelavoro in azienda. Prende ora avvio la fase sperimentale dell’iniziativa, che ha l’obiettivo di offrire alle persone di tutte le sedi italiane che svolgano la propria attività mediante strumenti telematici, la possibilità di organizzare il lavoro in maniera flessibile, alternando specifici momenti di presenza in azienda al lavoro da casa. Sosddisfatti i vertici dell’azienda. «L’accordo, tra i più completi nel panorama industriale nazionale, è un importante traguardo per noi – afferma infatti Fausto Palumbo, responsabile risorse umane della Nestlè Italia – Questa iniziativa rappresenta un’ulteriore soluzione concreta per conciliare impegni della vita familiare e di quella lavorativa». Il telelavoro sarà disponibile prioritariamente per quelli che stanno affrontando fasi di vita caratterizzate da particolari impegni familiari. Secondo l’azienda, si aprono «nuovi orizzonti sull’organizzazione del lavoro» e l’accordo costituisce «un ulteriore passo verso una mentalità orientata alla valorizzazione della performance, a prescindere dal tempo trascorso in ufficio». bacarani@gmail.com
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