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Potevano scegliere fra il disonore e la guerra. Hanno scelto il disonore, e avranno la guerra Winston Churchill
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • VENERDÌ 30 LUGLIO 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Bocchino, Granata e Briguglio deferiti ai probiviri: sarebbero più di trenta i deputati pronti a seguire l’ex leader di An
Fini scende dal predellino
Il Pdl non c’è più. Durissima scomunica del cofondatore («non garantisce più la Camera»). Verso gruppi parlamentari autonomi: ora si aprono concreti rischi per la tenuta del governo SCENE DA UN DIVORZIO
Eletti dal Parlamento gli otto “laici”
Nasce il nuovo Csm: Vietti verso la vicepresidenza
La coerenza, l’incoerenza e la convenienza: l’8 settembre del Pdl Sergio Romano: «Siamo sull’orlo di un collasso istituzionale»
di Enzo Carra
«Non è più solo una questione politica, ma una lite durissima tra due fra le cariche principali dello Stato»
Linda Lanzillotta: «È arrivato il momento di un nuovo governo» «Il premier sta facendo campagna acquisti per salvarsi, ma così certifica di non aver più la maggioranza»
Si sblocca in extremis la scelta dei candidati. Il più votato è stato Nicolò Zanon poi, con l’esponente Udc ci sono Matteo Brigandì, Guido Calvi, Glauco Giostra, Annibale Marini, Filiberto Palumbo e Bartolomeo Romano
Paolo Pombeni: «Ma fuori dal Pdl, per il cofondatore non sarà così facile» «Il vero timore di Berlusconi è veder fallire il bipolarismo e il premierato che di fatto la sua presidenza ha istituito» a pagina 4
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Marchionne prosegue per la sua strada per aggirare il contratto
Lo strappo di Pomigliano
di Francesco Lo Dico uido Calvi e Glauco Giostra per il Pd, Michele Vietti per l’Udc, Matteo Brigandì per la Lega, Annibale Marini, Filiberto Palumbo, Nicolò Zanon e Bartolomeo Romano per il Pdl. Complice il forcing del Quirinale, maggioranza e opposizione hanno trovato ieri l’accordo sui membri laici che completano i ventiquattro mebri chiamati a presiedere il nuovo Csm per i prossimi quattro anni. I partiti sembrano aver esaudito dunque le richieste di Giorgio Napolitano. Il capo dello Stato aveva indicato infatti la fine di luglio come data ultima per la configurazione del nuovo Csm, chiamato al difficile compito di dirimere le viperine connivenze tra malaffare, politica e giustizia adombrate dall’inchiesta sui massoni «sfigati» della P3. Ma ieri è stato il giorno del via libera anche per il centrista Michele Vietti alla vicepresidenza del Consiglio superiore della magistratura, grazie all’intesa raggiunta da Cicchitto e Casini. Una fumata bianca, che non ha mancato di rilasciare ceneri tossiche in entrambi gli schieramenti. a pagina 6
a Fini ha veramente ragione? La tensione accumulata in questi anni tra il capo del predellino e l’uomo che detestava le comiche finali è fortissima.Tanto forte da relegare in secondo piano le ragioni politiche dell’uno e dell’altro. Come se non esistessero e non avessero un peso in una vicenda che al momento sembra piuttosto un’operazione militare con relativo sfoggio di resistenza dei finiani, di bombe da disinnescare, di sottili distinzioni tra guerra e guerriglia che approdano all’inevitabile appello alla tregua e all’intimazione a deporre le armi. Cerchiamo di capire. Certo, è difficile perché chi pensa alla politica è confuso da quanti hanno farcito questi due anni difficili di povere allegorie storiche. a pagina 3
La nuova società Fiat resta fuori dalla Confindustria di Francesco Pacifico
Collegare le retribuzioni alla produzione
ROMA. Sergio Marchionne
Se il Lingotto lascia lo Stato per il mercato
va avanti per la sua strada: la newco che gestirà Pomigliano non entra in Confindustria e quindi non aderisce al contratto nazionale dei metalmenccanici: il LIngotto vuole mano libera nei confronti dei dipendenti. Quanto poi alla minacciata uscita da Confindustria di tutta l’azienda, Marchionne ha rinviato la decisione di due mesi. Come dire che ha dilazionato (solo un poco) l’ultimatum. a pagina 8
I QUADERNI)
• ANNO XV •
NUMERO
146 •
di Carlo Lottieri incontro di ieri a Torino presso l’Unione Industriali segna una svolta storica per l’economia italiana. È stata infatti ufficializzata la nascita di una nuova impresa controllata dalla Fiat, denominata Fabbrica Italiana, che già a fine settembre a Pomigliano inizierà a riassumere il personale del vecchio stabilimento campano di Fiat Auto. a pagina 9
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IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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pagina 2 • 30 luglio 2010
Separazioni. Ormai è rottura totale nel Pdl: entra in forse la tenuta del governo. I finiani alla Camera sono più di trenta
Il giorno della scomunica Durissimo documento contro Fini: in discussione il suo ruolo alla Camera. Deferiti Bocchino, Granata e Briguglio. Verso gruppi parlamentari autonomi potrebbero da una parte degenerare in tribunale, dall’altra risvegliare lo spirito di corpo della fiamma e accrescere le truppe del cofondatore. Non a caso spiega Angela Napoli, deputata finiana ascritta al novero dei fedelissimi: «Intanto ci siamo visti qui a Montecitorio tra noi del gruppo, poi il presidente (Fini, nda) ha riunito quelli del Senato che stanno con noi. Si è parlato della possibilità di formare gruppi autonomi, ma la decisione non è scontata. Nel senso che intanto serviva verificare quanti siamo, e i numeri ci sono. Il nostro passo successivo dipende dal livello della provocazione:
di Errico Novi
ROMA. «Manteniamo fede al mandato degli elettori. Non vuol dire che si debba per forza stare nello stesso gruppo». È quello che Gianfranco Fini spiega ai fedelissimi prima che vada in scena il «processo indiziario» a suo carico, all’ufficio di presidenza del Pdl. La condanna nei suoi confronti sarà durissima, alla fine: viene giudicato, prima di tutto, «incompatibile» con il partito. Poi viene messo in discussione «il suo ruolo di garanzia come presidente della Camera». Quindi una lunga serie di accuse sulla linea adottata in questi mesi dall’ex leader di An. Passano pochi minuti e Berlusconi in conferenza stampa rincara la dose: «Non tollero più il dissenso: ci saranno iniziative dei parlamentari perché Fini lasci la presidenza di Montecitorio». Gli chiedono se tutto questo possa mettere in pericolo il governo: «Non credo proprio», risponde il Cavaliere.
Votano solo in tre, contro il documento di scomunica, e sono ovviamente tre finiani: Adolfo Urso, Pasquale Viespoli e Andrea Ronchi. Votano contro anche il deferimento ai probiviri di Italo Bocchino, Fabio Granata e Carmelo Briguglio. Degli altri ex An presenti a Palazzo Grazioli si espone solo Giorgia Meloni, che chiede almeno di rinviare ogni decisione di ventiquattro ore. Niente da fare. Berlusconi è una furia. Il risultato è di innescare la risposta del rivale e cofondatore. Dal punto di vista giuridico il presidente della Camera non è ancora fuori ma riunisce prima i deputati, poi i senatori, predisponendo la nascita di gruppi autonomi dal Pdl. Atto reso indispensabile dalle «provocazioni» della controparte, come spiegano i finiani.
La più velenosa di tutte è l’“allegato”al documento votato dall’ufficio di presidenza, la nota con cui i tre ex An schierati con il presidente della Camera vengono deferiti al collegio dei probiviri. Resta incerto il ruolo di altri ex An come Gianni Alemanno, la cui ombra si allunga già a inizio pomeriggio sulla pre-riunione tra Berlusconi, i triumviri e i capigruppo, oltre a Letta e ai “consulenti legali”Alfano e Ghedini. Dalla componente ex aennina viene fatto notare che atti violenti nei confronti dei finiani
Una giornata caotica tra voci e smentite, prima della riunione del comitato di presidenza del Pdl
Ecco la lista dei “trenta” ROMA. Alle minacce, i finiani hanno risposto con la conta. Perché sapevano bene che Berlusconi aveva paura di possibili imboscate in Parlamento. Ergo: per rimandare al mittente l’espulsione, i finiani dovevani dimostrare di essere abbastanza da mettere in crisi il governo. Alla Camera e al Senato. Sorpresa: alla Camera sono più di trenta e al Senato 9. Abbastanza per fare bei guai. Ma chi sono? Bocchino, Briguglio, Granata, Raisi, Barbareschi, Proietti, Divella, Buonfiglio, Barbaro, Siliquini, Perina, Angela Napoli, Bellotti, Di Biagio, Lo Presti, Scalia, Conte, Della Vedova, Urso, Tremaglia, Bongiorno, Paglia, Lamorte, Rubens, Menia, Angeli, Ronchi, Moffa, Cosenza, Patarino sono i fedelissimi alla Camera. Non solo ci sono i numeri per un gruppo parlamentare autonomo (a proposito del quale il nome non è ancora stato deciso), ma ce n’è abbastanza per mandare sotto il governo nelle votazioni. Insomma: l’espulsione è stata respinta al mittente.
Tra Berlusconi e Fini ormai è rottura: il Pdl brandisce l’arma della censura contro i fedelissimi del presidente della Camera, Italo Bocchino, Fabio Granata e Carmelo Briguglio
una procedura contro alcuni di noi con sospensione e deferimento ai probiviri, sarebbe certo un atto molto grave». Arriva puntualmente. «Tutto comunque è affidato alla valutazione di Fini. È lui che indicherà il passaggio successivo», è la risposta preventiva della Napoli.
Linea chiara. Messaggio limpido e non privo di una sua pericolosità per la componente berlusconiana. Ed è a questo punto della querelle che si inserisce l’intervento di alcuni maggiorenti ex An, secondo l’interpretazione di un berlusconiano di rango: «Nel momento in cui si procede all’espulsione di Bocchino, di Granata e Briguglio, per i vari Alemanno e Matteoli si pone un problema serio. Non avrebbero più peso e sarebbero anche loro continuamente esposti alla minaccia. Sarebbero condannati a una sorta di gregariato notabilare». Nel documento che approda all’ufficio di presidenza (prima fissato per le 20 poi anticipato di un’ora) si critica con formidabile durezza la linea assunta dal presidente della Camera su legalità e questione morale, lo si definisce appunto «politicamente lontano dal partito», il che equivale a estraneo, e quindi a una «espulsione politica», come dicono i big berlusconiani. Secondo il dispositivo messo nero su bianco da Sandro Bondi e letto davanti a gotha del partito dun-
que Fini non può che trarre le sue conseguenze e accomodarsi fuori: «Meglio prendere due percorsi diversi».
È questo il senso della strategia berlusconiana. Ed è vero che Fini è lontano anni luce dall’orizzonte del Cavaliere. Lo si capisce anche scorrendo l’intervista pubblicata ieri dal Foglio e firmata da Giuliano Ferrara in persona, prodottosi in un generoso ed estremo sforzo di ricomposizione. In quelle dichiarazioni (che però già mercoledì sera Berlusconi liquida perché «fuori tempo massimo»), in quel lungo appello a «resettare senza rancori» c’è tutta la riflessione di un “politico”, l’ex capo di An, appunto. Ed è lì la distanza siderale dal Cavaliere. Al di là della probabile mediazione stilistica di Ferrara, la proposta di tregua concessa da Fini nell’intervista è tutta intessuta di senso politico, è impostata secondo uno schema intellettuale tipico dell’uomo politico puro. Categoria a cui Berlusconi però non appartiene, come ammette lo stesso Fini nel colloquio con Ferrara. Aspetto che in una delle molte, definitive battute consegnate da Bocchino nel dies irae si trasforma nel seguente chiasmo: «Fini e Berlusconi, lo statista e il politicante». Certo l’ex vicecapogruppo è al solito tra i più attivi nel clima di guerriglia. Alcuni deputati pdl di confessione berlusconiana come Giancarlo Lehner e Giorgio Stracquadanio lo scorgono durante le ultime fasi del dibattito sulla manovra mentre recluta al telefono colleghi «per far mancare i voti alla maggioranza». Lui risponde: «Non sanno di che parlano». In realtà Bocchino organizza un incontro per fare un conteggio preventivo dei deputati disposti a iscriversi al gruppo autonomo. Sono 34 secondo la versione più attendibile, mentre tra i 12 senatori riuniti poco dopo da Fini ce ne sarebbero due o tre indecisi. I nomi sono quelli di sempre, non mancano Urso e Ronchi, uomini di stretta fiducia del cofondatore come Checchino Proietti e acquisizioni più recenti come Luca Barbareschi. Nella truppa di Palazzo Madama si contano almeno un paio di colombe molto attive a ricomporre la frattura: Andra Augello e Pasquale Viespoli. Il primo dice: «Io e Fini non ce ne andiamo, dipende da quello che succede».
prima pagina Sono pochi ma comunque si rendono visibili gli ex forzisti schierati per la pace: sicuramente Beppe Pisanu che coglie l’occasione dell’offertta di pace di Fini per auspicare il chiarimento, quindi Giuliano Cazzola secondo il quale «non è mai troppo tardi per la ricomposizione». Pesa però più di tutte la frase di Gianni Alemanno: «Spero ancora nel miracolo», dice quando mancano ancora diverse ore all’ora x dell’ufficio di presidenza. Significativa è anche l’uscita di Umberto Bossi: «Se la sbrighino loro, io ho già le mie beghe». Ancora più indicativo di un certo malumore per la furia berlusconiana è il messaggio strappato da un cronista poco dopo in Transatlantico: «Che cosa consiglio a Silvio? Di andarsene in ferie». Secondo parlamentari del Pdl è solo il sibillino epifenomeno del crescente disagio del Senatùr, preoccupato perché la sua base non può mandare giù la presenza nel principale partito alleato di figure come Verdini. «È un imbarazzo inevitabile, per gli elettori leghisti». In più a Bossi non pare sfuggire l’intenzione del Cavaliere di fare melina sul federalismo per tenere il Carroccio agganciato al destino dell’esecutivo qualunque cosa accada. C’è un’altra legge sulla quale di sicuro il presidente del Consiglio tira il freno a mano ed è quella sulle intercettazioni. Mercoledì era circolata addirittura l’idea di un ritiro del testo: fonti berlusconiane chiariscono invece che si tratta semplicemente di una «calendarizzazione differita». Se ne parla a settembre in modo da evitare brutte sorprese in aula sulle pregiudiziali. E da guadagnare il tempo sufficiente a Berlusconi per trascinare dalla sua parte un po’ di finiani, quel tanto che basta a rendere inoffensivi i gruppi autonomi del rivale. Secondo Andrea Ronchi, ministro alle Politiche ue, non se ne parla comunque di estromissione dei finani dal governo. Secondo il presidente del senato Renato Schifani, invece, «gli elettori restano sconcertati da uno scontro che non è istituzionale ma politico, visto che politico è il ruolo rivendicato dal presidente della Camera». Tra le certezze ineluttabili c’è il siluramento di un fedelissimo del cofondartore dalla rosa degli eletti al Csm, Antonino Lo Presti, ma anche la smentita della Procura su una possibile convocazione di Berlusconi per l’inchiesta sulla P3: «Cesare è un nomignolo attribuito anche ad altri e comunque non c’è nulla di penale nei passaggi in cui è nominato».Tra le certezze ci sarebbe in realtà anche la nomina di Paolo Romani a ministro dello Sviluppo economico nel Consiglio dei ministri di oggi, dopo un’estenuante attesa e le ripetute pressioni del Cole. Ma con gli uragani che tirano dalle parti di Berlusconi meglio non dare nulla per scontato.
30 luglio 2010 • pagina 3
Un giro di opinioni su coerenza, incoerenza e convenienza
Ma non ci guadagna Fini?
a Fini ha veramente ragione? La tensione accumulata in questi anni tra il capo del predellino e l’uomo che detestava le comiche finali è fortissima. Tanto forte da relegare in secondo piano le ragioni politiche dell’uno e dell’altro. Come se non esistessero e non avessero un peso in una vicenda che al momento sembra piuttosto un’operazione militare con relativo sfoggio di resistenza dei finiani, di bombe da disinnescare, di sottili distinzioni tra guerra e guerriglia che approdano all’inevitabile appello alla tregua e all’intimazione a deporre le armi.
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Cerchiamo di capire. Certo, è difficile perché chi pensa alla politica è confuso da quanti, per tirare a campare, hanno farcito questi due anni difficili di allegorie alquanto povere e di pigre analogie con i fatidici 25 luglio e 8 settembre. A seguire questa traccia poco fantasiosa dovremmo limitarci a segnalare che scampato, come al solito, l’appuntamento di luglio (in quello vero i protagonisti furono in gran parte fucilati), il Cavaliere può dettare oggi le condizioni per la resa. E se anche il comunicato finale di un “chiarimento”tra i due dovesse garantire che “la guerra continua”, non sarebbe così. Perché quella conclusione, apparentemente positiva per i patiti della ricomposizione ad ogni costo, equivarrebbe a sottomissione e resa senza condizioni di Fini. Il presidente della Camera può trincerarsi dietro una sincera rivendicazione dell’incoerenza politica come valore. Su questo terreno è difficile che il Cavaliere gli possa rimproverare qualcosa. Lui che ha della politica e soprattutto dei politici una considerazione bassissima non può accusare l’altro. Ieri mattina, leggendo la sua conversazione con Giuliano Ferrara, quell’incipit («resettiamo tutto, senza risentimenti») è sembrato un modo berlusconiano di affrontare il problema della coabitazione, per superarlo. Di fatti: resettare non è troncare o sopire, come si fa se
Sì, ora toccherà ai suoi ex colonnelli spiegare perché rimangono in ostaggio di Enzo Carra l’obiettivo è effettivamente quello di chiarirsi, ed eventualmente pentirsi, pur di continuare. Resettare è asportare, cancellare, rimuovere, dimenticare. Scrivere quello che si vuole, per siglare un altro finto accordo.
Con tutta la migliore buona volontà, a leggere poi gli essenziali memento con cui Fini correda il suo invito ci si chiede: come potrebbe mai accettare il Cavaliere quell’agenda? Sia pur in modo schematico – se non rudimentale – Fini gli propone di aprire il fronte del Nord con la Lega e con Tremonti. Con aria apparentemente svagata, il presidente della Camera condanna Bossi per i «comportamenti antieuropei nel mercato del latte» e arriva a sollecitare una discussione sul fede-
Il valore della legalità sarà in astratto condivisibile da quasi tutti nel pdl, ma chi glielo spiega a Cosentino e a Verdini che non è contro di loro?
ralismo fiscale «che non può pesare solo sulle spalle di Tremonti e di Calderoli». Lo fa come se fosse preoccupato per il peso che portano quei due, ma non è ignaro di quali sarebbero le conseguenze di queste decisioni. Se il Cavaliere resettasse con Fini si troverebbe in poco tempo nella medesima situazione che portò sette anni orsono alla destituzione di Tremonti e alla progressiva crisi. Allora il governo poteva contare su di una maggioranza parlamentare addirittura più forte di quella attuale.
Infine, poiché in politica le parole hanno sempre più significati, come intendere la ripetuta evocazione della “questione morale” da parte del presidente della Camera? Perché questa interpella un partito nel quale le conferenze stampa si organizzano soprattutto per difendersi e attaccare i magistrati e i giornalisti (salvando il solo Caliendo). Il valore della legalità sarà in astratto condivisibile da quasi tutti nel pdl, ma chi glielo spiega a Cosentino e a Verdini che non è contro di loro? C’è piuttosto da chiedersi, sempre che il finale di commedia sancisca la rottura tra il fondatore e il cofondatore, che cosa ci faranno, nel pdl, gli ex colonnelli di An. Se si mette da parte la tattica quotidiana di cui è stato fatto il conflitto, ci si accorge che le divergenze tra Fini e il Cavaliere ci sono e sono irrimediabili. Le posizioni del presidente della camera sono però quelle di una nuova destra occidentale che non si vuol limitare ad essere reazionaria. Come faranno a vivere con Berlusconi quelli che negli anni Novanta organizzavano fiaccolate intorno ai palazzi di Giustizia, acclamavano Di Pietro e, comprensibilmente, celebravano Paolo Borsellino come un “loro” eroe? Come faranno a dichiararsi ancora di destra con Fini che da fuori alzerà i toni della sua campagna per il“riarmo morale”? Naturalmente, questa è un’altra storia. E non cancella il peccato originale dell’ex leader di An che un giorno salì sul predellino.
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pagina 4 • 30 luglio 2010
SERGIO ROMANO
«Ormai siamo vicini al crollo istituzionale» «Non è più solo un problema politico: i protagonisti della lite sono premier e presidente della Camera» di Francesco Capozza
ROMA. «Siamo molto vicini ad una crisi istituzionale senza precedenti». Non usa mezzi termini Sergio Romano per descrivere il panorama politico attuale e le prospettive che si stanno per aprire con il redde rationem tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini. Una resa dei conti da tempo annunciata e questa volta in procinto di essere attuata con alcune mosse, dicono i ben informati di Palazzo, senza precedenti. Ambasciatore Romano, qual è, secondo lei, lo scenario che si apre, ci sono forse possibilità di riconciliazione? Mi è davvero difficile immaginare che ci possa essere una riconciliazione tra il presidente del Consiglio e quello della Camera. Detto questo, però, il problema è capire cosa pensa di fare Berlusconi, qual è, cioè, la sua strategia. Lei si è fatto un’idea in merito? A mio avviso Berlusconi può percorrere
puntando all’effetto. Cosa dovrebbero fare, a suo avviso, i due cofondatori del Pdl? Non amo dare consigli di questo genere, tanto più quando si sta ragionando per assurdo, con una situazione tutt’altro che definita. Tuttavia, è logico, io auspicherei che ci fosse un accordo tra i due, per il bene del Paese. E invece cosa accadrà? Come le dicevo prima, Berlusconi ha due strade percorribili: andare ad elezioni anticipate o tirare avanti senza i finiani, sperando però di recuperarli strada facendo.
LINDA LANZILLOTTA
«È il momento del nuovo governo»
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Fini cercherà di resistere, affermando che non si può essere espulsi per dissenso e che le cose che dice oggi le ha dette anche al Congresso costitutivo del 2008. Insomma, sembrerà di assistere più che ad una partita a scacchi ad una mano di scopone…
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due strade: la prima, quella delle elezioni anticipate, la seconda, fare a meno di Fini e dei suoi cercando di arrivare alla fine della legislatura con una maggioranza anche modesta. In questo secondo caso, che immagino sia la strada che ha in mente il capo del Governo, potrebbe cercare di far rientrare nella maggioranza uno ad uno i finiani, indebolendo sempre di più la pattuglia dei fedelissimi del presidente di Montecitorio. Ambasciatore, sempre secondo i ben informati, Berlusconi avrebbe intenzione di impedire ai capigruppo della maggioranza di partecipare alle riunioni organizzative dei lavori dell’aula, bloccando di fatto i lavori parlamentari. Tutto questo al fine di logorare Fini e costringerlo a dimettersi. Cosa ne pensa? Questo scenario che lei mi rappresenta ci porterebbe ad una crisi istituzionale senza precedenti. Non esiste la sfiducia nei confronti dei presidenti delle assemblee parlamentari e una mossa come questa sarebbe davvero inconsueta e senza precedenti. Ma in questa situazione mi rendo sempre più conto che ognuno dei protagonisti recita a soggetto, senza un disegno preciso, ma
«Fa campagna acquisti per salvare l’esecutivo, ma così, di fatto, cambia la maggioranza» di Marco Palombi
Per quanto riguarda la prima opzione c’è sempre l’incognita del capo dello Stato, perché ricordiamoci che è lui che deve sciogliere il parlamento, il secondo caso, come appunto dicevo, potrebbe in effetti essere la strada che Berlusconi ha in mente di percorrere. Lei crede, come qualcuno pensa, che Berlusconi abbia paura di aprire una crisi pilotata perché teme che Napoletano possa non riconferirgli l’incarico? Questo no, non lo credo. O meglio, non credo che ci siano altre opzioni rispetto a Berlusconi e quindi in caso di crisi il presidente della repubblica affiderebbe, almeno in prima istanza, certamente a lui l’incarico. Se Berlusconi abbia paura di quello che lei mi chiede, però, non sono in grado di dirlo; non saprei proprio». Cosa dovrebbe fare invece Fini? Cosa dovrebbe fare il presidente della Camera, mi perdoni, non sta certo a me dirlo. Posso dire cosa penso farà. Secondo me cercherà di resistere, affermando che non si può essere espulsi per dissenso e che le cose che dice oggi le ha dette anche al Congresso costitutivo del 2008. Insomma, sembrerà di assistere più che ad una partita a scacchi ad una mano di scopone…
ROMA. «Gianfranco Fini ha avviato un percorso di definizione di un’identità politica ispirata a valori liberali e democratici che non trova spazio dentro al Pdl di Berlusconi. E, ancor di più, non trova spazio la sua richiesta di una organizzazione del partito su principi di libertà e democrazia interna. Mi sembra che i passi che ha fatto siano senza ritorno, d’altronde anche Berlusconi accelera verso la separazione». Linda Lanzillotta, deputata dell’Api di Francesco Rutelli proveniente dal Partito democratico, è convinta che la separazione di Fini dal Cavaliere sia un fatto naturale: «Il presidente della Camera ha avviato un confronto su temi di grande rilevanza sui quali mai ha trovato un’apertura dentro al Pdl: il caso intercettazioni, per non fare che l’ultimo esempio, dimostra come in quel partito sia impossibile trovare una mediazione che stia bene a tutti». Adesso, dunque, «non si vede come si potrebbe giustificare una toppa: se re-
stasse ne andrebbe di mezzo la sua credibilità». Dunque, sotto con l’espulsione-uscita dell’arcipelago di Fini dal partito del Cavaliere e la creazione di autonomi gruppi in Parlamento, fase preliminare della creazione di un nuovo soggetto politico: «Anche questo non sarebbe altro che la naturale evoluzione della diversificazione oggettiva di linee all’interno del Pdl - dice l’ex ministro degli Affari regionali -. Con tutte le differenze del caso rispetto a un partito nato da un predellino, ricorda quel che è accaduto nel Pd: le anime non si sono fuse nei nuovi contenitori come accade, ad esempio, ai grandi partiti anglosassoni, che riescono a riconoscersi in un comune sentire su alcuni grandi temi e a stringersi attorno ad una leadership».
Questo non è solo il lungo dipanarsi dell’antipatia personale tra Fini e Berlusconi, sostiene Lanzillotta, «questa è una crisi
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PAOLO POMBENI
«Non sarà così facile per lui fuori dal Pdl» «L’ex leader di An cercherà di resistere fino alla fine, altrimenti dovrà fare i conti con Casini e Rutelli» di Francesco Paolo Scotti
ROMA. «Votiamo la manovra e poi è finito tutto». Con queste parole, arrivando a Montecitorio per il voto definitivo al disegno di legge economico, Silvio Berlusconi ha annunciato l’inizio dello showdown con Gianfranco Fini. A nulla è valso l’estremo tentativo (a mezzo stampa, dalle colonne de Il Foglio) del presidente della Camera di «resettare tutto» per «onorare un impegno preso nei confronti degli italiani». Niente, il presidente del Consiglio ha intenzione di mettere la parola fine ad una telenovela che va avanti da fin troppo tempo. «Ora basta» ha detto
del sistema bipolare» che «dovrebbe sfociare in un nuovo quadro politico pluripartitico ma semplificato rispetto al passato: non possiamo mica tornare ad avere 36 partitini». In pratica, «questi gruppi che si creano per la crisi dei grandi contenitori dovranno poi riunirsi in una aggregazione più consistente: serve un nuovo polo liberale, moderato, riformista, che sia il punto d’approdo di quanto si stacca da Pd e PdL». Questo nuovo soggetto dovrà «certo definire fino in fondo la sua identità e i suoi valori, ma Fini ad oggi s’è creato un profilo politico che può convergere in un aggregato di questa natura». Oggi, però, non è ancora il momento dei grandi scenari: si parla dei numeri, di quanti sono i finiani, di quanto peseranno in Parlamento, di appoggio esterno e quant’altro. «È vero premette l’ex ministro - ma io penso che dopo i numeri deve venire la politica: intendo dire che anche se il governo riuscisse a tenere in Parlamento grazie alla campagna acquisti in corso in queste ore rimarrebbe la debolezza politica del premier». In sostanza «è fallita la maggioranza uscita dalle elezioni: non c’è più quel progetto, la coalizione che lo garantiva e non c’è più nemmeno il programma. Niente diminuzione delle tasse, niente grandi riforme di struttura, resta solo il federalismo, che peraltro secondo noi in questo momento è inattuabile e infatti finora s’è tradotto in tagli, tasse e irresponsabilità: non solo i soldi a Catania, ma anche il regalo a Roma contenuto nella manovra è assolutamente inqualificabile».
A questo punto c’è un’unica soluzione decorosa: «Visto che
Berlusconi ama molto richiamarsi al popolo sovrano - spiega Lanzillotta - dovrebbe riconoscere che questo eventuale governo post finiano è diverso da quello scelto dagli elettori: è venuta meno la composizione delle forze che riequilibravano la potenza della Lega, ormai azionista unico più che di riferimento. Sopravvive solo, sempre più appannato, il presidente del Consiglio». Non solo: «Non reggerà comunque a lungo e a quel punto bisognerà gestire la fase di transizione: un governo diciamo “del presidente”, una maggioranza non politica che in un anno faccia le riforme economiche per la competitività e la riforma di una legge elettorale che non fa che perpetuare la paralisi del sistema politico: andare di nuovo al voto così sarebbe un disastro». In un momento come questo, insomma, «la politica italiana si sblocca se si passa ad una fase nuova e lo si fa solo cambiando l’attuale assetto del governo». Bisogna, in sostanza, riconoscere che si è fallito, pensare un quadro politico radicalmente diverso dall’attuale e una legge elettorale è, quasi sempre, la miglior levatrice di un nuovo quadro politico e dunque una necessità imprescindibile secondo la deputata dell’Api: «Dico una cosa impossibile: se Berlusconi decidesse di guidare la transizione per rifare la legge elettorale si potrebbe anche fare. Dico impossibile perché questo assetto del sistema gli conviene. Certo non so con quale credibilità si presenterà di nuovo agli elettori senza Fini e con la Lega: sarebbe una figura di secondo piano rispetto a Bossi, che incarnerebbe l’identità del governo e la sua ragione politica».
ne di numeri: Berlusconi può anche andare avanti, ma il problema è un altro, e cioè se davvero un governo diverso da quello che il premier stesso ha immaginato possa continuare senza l’apertura di una crisi formale». In effetti un passaggio parlamentare e l’apertura di una crisi è quello che in molti chiedono, anche l’Udc, che in una nuova maggioranza – ma con un nuovo programma – sarebbe pure disposta ad entrare, ma il problema, secondo molti, sarebbe il timore di Berlusconi di non essere reincaricato da Napolitano. «Non credo che sia così, dice il professore bolognese, piuttosto penso che Berlusconi abbia davvero timore del fallimento del bipolarismo e del premierato che di fatto la sua presidenza ha istituito».
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Per il premier il problema politico non è quello di cambiare maggioranza, ma piuttosto dover passare attraverso una crisi che, di fatto, segnerebbe il fallimento del bipolarismo e del premierato che la sua presidenza ha istituito
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Oltre a Berlusconi, aggiunge Pombeni Silvio, con Gianfranco e i suoi («che, credetemi, si contano sulle dita di due mani ad essere ottimisti») non vuole più avere nulla a che fare.
E che stavolta siamo di fronte al redde rationem è convinto anche Paolo Pombeni, docente all’Università di Bologna ed esperto di politica interna ed europea. «Anche se Berlusconi – dice Pombeni – ci ha abituati ai suoi colpi di scena, stavolta credo che siamo davvero di fronte alla separazione tra i due fondatori del Pdl». D’altronde che l’aria fosse questa lo aveva testimoniato anche il durissimo botta e risposta tra Italo Bocchino e Denis Verdini appena due giorni fa, in occasione della conferenza stampa indetta dal coordinatore del Pdl. E proprio Bocchino secondo fonti di palazzo avrebbe riunito ieri i finiani e preparato la richiesta per la costituzione di un nuovo gruppo parlamentare, un fatto, lo definisce Pombeni «significativo di come la situazione stia precipitando». Tuttavia Pombeni non è del tutto convinto che si andrà a finire come con Prodi, con una maggioranza risicatissima: «probabilmente c’è anche questa possibilità, tuttavia io credo che non sia una questio-
«credo che anche Fini non avrebbe nulla di positivo da trarre dall’uscita dal Pdl e dalla formale crisi del bipartitismo». Per il presidente della Camera, dice Pombeni, «la via è molto più stretta di quella del premier. Dove vuole collocarsi? Senza dubbio in un’area moderata, ma questa è fin troppo affollata: c’è Casini con cui fare i conti e c’è pure Rutelli». In più c’è un problema di fondo, uno spettro, che aleggia alle spalle di Fini: la presidenza della Camera che «gli è stata assegnata dal partito e dalla maggioranza, se ne dovesse uscire – ragiona Pombeni – sarebbe lecito riflettere sull’opportunità di una sua permanenza sullo scranno più alto di Montecitorio». Certo, una sfiducia individuale nei confronti di un presidente d’assemblea non è né prevista dalla Costituzione e dai regolamenti parlamentari né c’è mai stato un precedente di questo tipo. Per Pombeni «nonostante la situazione sia molto particolare e senza precedenti, il problema si porrebbe e certamente sarebbe lecita una conta dell’effettiva maggioranza che sostiene Fini come presidente». Una crisi istituzionale, ne è comunque convinto il professore di Bologna, «non converrebbe nemmeno a Berlusconi, soprattutto in vista del proprio futuro…».
diario
pagina 6 • 30 luglio 2010
Istituzioni. I nuovi sono Brigandì, Calvi, Giostra, Marini, Palumbo, Romano, Vietti e Zanon
Nasce il nuovo Csm
Finalmente sbloccata l’elezione degli otto “laici”
MATTEO BRIGANDÌ
di Francesco Lo Dico
ROMA. Guido Calvi e Glauco Giostra per il Pd, Matteo Brigandì per la Lega, Annibale Marini, Filiberto Palumbo, Nicolò Zanon e Bartolomeo Romano per il Pdl. Complice il forcing del Quirinale, maggioranza e opposizione hanno trovato ieri l’accordo sui membri laici che completano i ventiquattro chiamati a presiedere il nuovo Csm per i prossimi quattro anni. I partiti sembrano aver esaudito dunque, le richieste di Giorgio Napolitano. Il capo dello Stato aveva indicato infatti la fine di luglio come data ultima per la configurazione del nuovo Csm, chiamato a dirimere le viperine connivenze tra malaffare, politica e giustizia adombrate dall’’inchiesta sui massoni «sfigati» della P3
Ma ieri è stato il giorno del via libera anche per il centrista Michele Vietti alla vicepresidenza del Consiglio superiore della magistratura, grazie all’intesa raggiunta da Fabrizio Cicchitto e Pierferdinando Casini. Una fumata bianca, che non ha mancato di rilasciare ceneri tossiche in entrambi gli schieramenti, mostrando di quali buone intenzioni sia lastricata la corsa all’organo di autogoverno dei magistrati. Nel centrodestra è stato infatti giubilato all’ultimo momento Nino Lo Presti, deputato indicato dal presidente della Camera, Gianfranco Fini. Una mossa che prelude all’imminente cacciata del cofondatore degli azzurri, reo di aver sollevato la questione morale in casa del Pdl. Per Igna-
GUIDO CALVI
GLAUCO GIOSTRA
MICHELE VIETTI
dei gruppi di Camera e Senato del Pd, con quattro contrari e sei astenuti sugli oltre 300 parlamentari democratici. Proposti da Dario Franceschini, i nomi di Giostra e Calvi sono stati bocciati tra gli altri da Ignazio Marino e Giovanni Bachelet, e dagli astenuti Rosa Calipari e Felice Casson. E puntuale è arrivato il duetto Marino-Bersani, con il chirurgo che ha annunciato scheda bianca per contestare i modi di selezione delle candidature, e il segretario del Pd che ha replicato a muso duro: «L’assemblea del partito si è espressa e non si possono accettare, al momento del
Accordo con strascico polemico in casa Pd, dove Ignazio Marino e Giovanni Bachelet hanno contestato le nomine volute da Dario Franceschini zio La Russa, una tesi priva di fondamento: «Nino Lo Presti non è stato escluso perché finiano – ha chiosato il ministro della Difesa –. Abbiamo scelto di valutare persone di alto profilo e laicità. Lui aveva un profilo troppo politico». Osservazione che male si declina però, con i nomi degli altri candidati azzurri Bartolomeo Romano e Filiberto Palumbo, rispettivamente consigliere giuridico di Angelino Alfano, e assistente di Niccolò Ghedini nella difesa del premier Silvio Berlusconi nell’ambito dell’inchiesta Trani Rai-Agcom. Ma se a via dell’Umiltà non si ride, non c’è un clima troppo ilare neanche al Nazareno, dove la scelta dei membri laici del Csm è avvenuta in una riunione congiunta
voto, posizioni difformi». «Il Pd commette un errore quando, al momento delle sue scelte, riconduce sempre tutto alle solite culture, il Pci e la Dc», ha commentato Ignazio Marino, auspicando per le candidature «un metodo diverso, come avviene in Europa, dove i candidati vengono auditi per poterne verificare le competenze e le abilità». Critiche rimandate al mittente da Bersani: «Giostra e Calvi hanno un solo titolo: l’autorevolezza». Sbloccata con qualche strascico la nomina dei membri laici, il nuovo Csm è dunque al suo varo. I ventiquattro componenti del’organo di autogoverno della magistratura (presieduto dal capo dello Stato, che è membro di diritto insieme al Primo presi-
dente e al Procuratore della Corte suprema di Cassazione), siederanno a Palazzo dei Marescialli per i prossimi quattro anni. Eletti per i due terzi da tutte le toghe ordinarie che appartenengono a tutte le componenti della magistratura, e per un terzo dal Parlamento riunito in seduta comune tra i professori universitari in materie giuridiche e avvocati che esercitano la professione da almeno quindici anni (membri laici), l’organo sarà chiamato a vigilare sull’autonomia e l’indipendenza della magistratura. Strada subito in salita, se si pensa che toccherà ai 24 occuparsi della spinosa vicenda di Alfonso Marra. Accusato di essersi rivolto all’ex “giudice” della P3 Lombardi, affinché esercitasse pressioni sul Csm, per ottenere l’incarico che attualmente riveste a Milano, sulla testa dell presidente della Corte di Appello meneghina incombe la richiesta di trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale. Dopo la conclusione dello spoglio delle schede, e l’elezione nei giorni scorsi dei 16 nuovi consiglieri togati di Palazzo dei Marescialli, la geografia dei seggi attribuiti alle varie correnti è stata delineata. A perdere un seggio è la corrente “di sinistra” delle toghe, Magistratura democratica, che nella prossima consiliatura vede tre poltrone occupate al posto delle quattro attuali. Situazione immutata invece per le altre correnti. Ai togati vanno ad aggiungersi dunque, gli otto membri laici del Csm chiamati a vigilare sul potere giudiziario su proposta dei partiti. Secondo l’articolo
104 della Costituzione, «la Magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere». A tutelarne autonomia e indipendenza, facendo da contrappeso ai membri togati, ci sono dunque i cinque membri indicati dalla maggioranza.
Nel blocco di centrodestra il nome di maggiore spessore è Annibale Marini, presidente emerito della Consulta che già nel ’97 era stato nominato su indicazione dei berluscones. A seguire Brigandì, già avvocato di Umberto Bossi in 199 processi, messinese ma leghista, nonché parlamentare dimissionario perché «stufo di fare lo schiacciabottoni». E ancora, in quota berlusconiana, l’avvocato palermitano Bartolomeo Romano, consigliere del ministro Alfano dal 2008 con alle spalle pubblicazioni come La subornazione. Tra istigazione, corruzione e processo e La tutela penale della sfera sessuale. Detto del vice-Ghedini, Filiberto Palumbo, completa il quadro il costituzionalista Nicolò Zanon, assai critico verso i «sans culottes da terrore giacobino», al secolo i contestatori della Legge Bavaglio. Sulla sponda opposta, in area Pd, Glauco Giostra, docente di procedura penale alla Sapienza di Roma, e il senatore democratico Guido Calvi, già legale di Massimo D’Alema nel caso Unipol e oppositore di Clementina Forleo. E infine il vicepresidente del Csm, il centrista Vietti, deputato torinese che fu sottosegretario alla Giustizia nel secondo governo Berlusconi.
ANNIBALE MARINI
FILIBERTO PALUMBO
BARTOLOMEO ROMANO
NICOLÒ ZANON
diario
30 luglio 2010 • pagina 7
Olga Acanfora è presidente dei piccoli industriali di Napoli
Nel giorno del sì alla manovra, sconfessata una sua decisione
Arrestata imprenditrice coinvolta nella camorra
Il Tar del Lazio boccia gli aumenti autostradali
NAPOLI. L’ imprenditrice Olga
ROMA. Nel giorno del via libera definitivo alla manovra, arriva subito il primo stop a una delle sue misure più discusse. Il Tar del Lazio, infatti, ha sospeso il decreto che ha disposto l’aumento dei pedaggi autostradali. I giudici hanno accolto il ricorso contro l’aumento dei pedaggi in 9 barriere autostradali del territorio romano, presentato dalla Provincia di Roma assieme a 41 comuni del territorio provinciale. Sulla stessa materia avevano presentato ricorsi autonomi il comune di Fiano Romano e la provincia di Pescara. Nell’ordinanza del Tar è spiegato che al pagamento deve corrispondere un servizio, e dunque l’utilizzo di un’infrastruttura, e non può trattarsi
Acanfora, 53 anni, presidente del Gruppo piccola Industria dell’Unione Industriali di Napoli e prima donna al vertice dell’associazione, è stata arrestata dagli agenti della Questura di Napoli con l’accusa di estorsione aggravata nell’ ambito delle indagini per l’omicidio del consigliere comunale di Castellammare di Stabia, Gino Tommasino, ucciso nel febbraio del 2009. Il provvedimento è stato emesso su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli. La Acanfora, con la mediazione di Tommasino, consigliere comunale del Pd, avrebbe, tra la metà del 2008 e gli inizi del 2009, chiesto l’ intervento del clan D’Alessandro attivo a Castellammare di Stabia, per estorcere la riduzione dei costi di lavori professionali prestati alla sua azienda.
Olga Acanfora, amministratrice dell’associazione «Meta Felix» e componente del cda del Centro di medicina psicosomatica di Castellammare di Stabia, con interessi anche nel settore immobiliare, era stata eletta al vertice del gruppo piccola industria di Confindustria Napoli il 23 luglio 2009. Il consigliere comunale di Castellammare di Stabia Luigi Tommasino, 43 anni, del Pd, fu ucciso nei
pressi di casa, mentre era in auto con il figlio piccolo, da sicari ritenuti affiliati al clan D’Alessandro. Il movente dell’omicidio sarebbe stata una somma di denaro non restituita al clan. Uno dei sicari, Catello Romano, 19 anni, era iscritto alla stessa sezione del Pd di Tommasino. Le indagini per l’omicidio del consigliere comunale hanno portato all’arresto di Salvatore Belviso, ritenuto il braccio destro del boss Vincenzo D’Alessandro. Già nell’ottobre del 2009 la Acanfora fu ascoltata come persona informata dei fatti su un giro di false fatturazioni. Poi ad un certo punto, la sua veste cambiò: da teste potenziale a indagata.
L’Europa si divide tra fede e massoneria Il Belgio chiede un incontro con le associazioni atee di Luca Volontè i è svolto nei giorni scorsi a Bruxelles l’annuale vertice delle istituzioni europee con i leader religiosi sul tema dell’Anno Europeo 2010 dedicato alla lotta alla povertà e all’esclusione sociale. L’incontro è stato coordinato dal presidente della Commissione europea Barroso insieme ai presidenti del Consiglio Europeo Herman van Rompuy e dell’Europarlamento, Jerzy Buzek. Hanno preso parte alla riunione una ventina di responsabili cristiani, ebraici e musulmani ed esponenti delle comunità sikh e dell’induismo di 14 Stati membri dell’Ue. Da parte cattolica erano presenti i presidenti del Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa, il cardinale Peter Erdo, e della Commissione degli episcopati della Comunità Europea, monsignor Adrianus van Luyn, monsignor Stanislav Zvolensky, a capo dell’Episcopato slovacco, e Flaminia Giovanelli, sottosegretario del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace.
S
Da parte vaticana si è sottolineato che la povertà è «troppo grande» ed è «purtroppo in crescita»: 85 milioni di persone nell’Ue (17%) vivono sotto la soglia di povertà e la mancanza di lavoro 1causa primaria di esclusione sociale... ha raggiunto proporzioni intollerabili. Intollerabile non solo per il numero di disoccupati che continuano a crescere» ma anche per il numero di «lavoratori poveri», 15 milioni (l’8% dei lavoratori nell’Ue) che non riescono ad assicurare «una vita dignitosa a se stessi e alle loro famiglie». È cresciuta, inoltre - ha rilevato il sottosegretario di Giustizia e Pace - la povertà relativa tra la gente: cinque anni fa il 20 per cento dei cittadini più ricchi aveva un reddito cinque volte superiore al restante 80 per cento della popolazione e la disuguaglianza all’interno e tra i Paesi non accenna ad arrestarsi. Il fenomeno, poi, colpisce in modo particolare bambini, disabili, anziani e quanti nascono in famiglie povere e non sono in grado di spezzare
il ciclo della miseria. «La Chiesa cattolica sta al fianco dei poveri, alza la voce in loro favore e promuove iniziative per aiutarli a superare la loro situazione». Dunque un incontro annuale con le comunità religiose a tema, implicita affermazione del valore sociale e civile delle religioni.
Ben diverso da ciò che si farà in ottobre, sempre sotto l’egida dei vertici della Ue, che sentitisi preda di pressioni imbarazzanti, soprattutto da parte delle presidenza di turno belga, hanno deciso di avere un confronto con atei e massoni. Il tema dell’incontro non è noto, nemmeno si parlerà della lotta alla povertà, dunque un prestigioso riconoscimento del valore «in sé»dell’ateismo e della massoneria. Giscard d’Estaing ha fatto scuola, dopo il riconoscimento delle “società filosofiche” nella «bocciata» Costiuzione europea, ora l’ennesima sudditanza al circolo del compasso e della cazzuola. Nel Trattato di Lisbona sono messe sullo stesso piano (art.17) sia le Chiese sia le organizzazioni filosofiche. Insomma, sotto la pressione del Belgio l’Ue è stata costretta a convocare un con atei e massoni per il 15 ottobre. Secondo la Commissione Ue, l’associazione massonica a Bruxelles deve essere vista come una «comunità di coscienza interconnessa in tutta Europa» e «una forma di organizzazione umanista». Non importano la segretezza né i riti oscuri che ne circondano gli aderenti. Insomma la Ue dimostra sempre più di perdere la bussola: non solo appare sempre più difficile trovare una via d’uscita alla crisi politica dell’Unione Europea, non solo vediamo un’orizzonte scevro di leadership credibili, ma la scelta politica di aprire a tutti e omologare chiese, atei, religioni orientali e massoneria conferma la deriva incomprensibile dell’Europa. Senza guida e senza identità, preda piuttosto di «pressioni» e lobby sempre più esigenti nelle proprie richieste e desideri.
La richiesta è solo la risposta polemica a un vertice che si è tenuto nei giorni scorsi con i cristiani, ebraici e musulmani
di una mera tassa. «Il provvedimento impugnato - si legge nelle ordinanze - per essere coerente con la finalità enunciata deve assumere il carattere di corrispettivo per l’utilizzo di una infrastruttura; al contrario, tale carattere non appare sussistente in alcune delle ipotesi evidenziate». La decisione vale per l’intero territorio nazionale ma resta da capire come la società Autostrade si adeguerà alla decisione.
Tra le prime reazioni alla decisione dei giudici c’è quella del presidente della Regione Lazio, Renata Polverini. «Bene, mi fa piacere, per i tanti pendolari del Lazio che ingiustamente si erano ritrovati con l’aumento delle tariffe». «È un importante segnale quello che viene dal Tar del Lazio» ha detto invece il sindaco di Roma, Gianni Alemanno: «Questo ci consente di rivedere il provvedimento in modo da scaricare le necessità finanziarie del governo sui margini di profitto della società autostrade e non sugli utenti» Il presidente della Provincia Nicola Zingaretti, infine, ha commentato: «Abbiamo evitato l’ingiustizia che a pagare la festa fossero sempre gli stessi, e soprattutto quelli che la festa non l’hanno mai fatta».
economia
pagina 8 • 30 luglio 2010
Regole e paletti. L’ad Marchionne attacca ancora la Fiom. Oggi sarà negli Usa per incontrare Barack Obama
Lo strappo di Pomigliano La Fiat del Sud esce da Confindustria E per Mirafiori si decide a settembre di Francesco Pacifico
ROMA. Tra poco più di un anno tornerà a regime lo stabilimento di Pomigliano d’Arco. Entro settembre si deciderà cosa costruire a Mirafiori. Per la fine di ottobre, invece, Sergio Marchionne attende una soluzione da Emma Marcegaglia e da Maurizio Sacconi per evitare alla Fiom Cgil di appigliarsi al contratto nazionale dei metalmeccanici per proclamare scioperi selvaggi e per frenare i nuovi standard produttivi che il manager vuole introdurre in Italia. Il capoazienda oggi vedrà a Washington il presidente Barack Obama a un anno dall’ingresso di Fiat in Chrysler. Ieri ha dato mandato al capo delle relazioni industriali del Lingotto, Paolo Rebaudengo, di annunciare ai sindacati che la disdetta all’iscrizione da Federmeccanica – preludio al disconoscimento dell’intesa nazionale sulle tute blu – è stata congelata. Resta però la volontà di stringere un accordo su un nuovo quadro normativo, incentrato sul recupero di produttività: il che vuol dire massimo utilizzo degli impianti, flessibilità, paletti contro gli scioperi “politici”, cioè più legati alle rivendicazioni nazionali che a quelle aziendali.
Il Lingotto congela per due mesi l’uscita da Confindustria e spinge la Marcegaglia a forzare la mano sulle intese aziendali per evitare gli scioperi selvaggi Se questi sono gli obiettivi, il Lingotto non si sente garantito dall’attuale piattaforma metalmeccanica. Ma non è detto che la cornice debba per forza essere un contratto aziendale e totalmente sganciato da quello settoriale, come quelli ideati dai giganti del trasporto (Alitalia o Ferrovie). Così all’Unione Industriale di Torino – dove ieri le parti hanno discusso di stabilimenti italiani e della newco che controllerà il sito di Pomigliano – è parso chiaro a tutti che il problema di Marchionne non è la permanenza in Confindustria, quanto ridiscutere i rapporti di forza con la Fiom. Le tute blu della Cgil continuano a chiedere di rifare l’accordo sull’impianto campano e fanno persino fatica a manifestare la loro adesione alla richiesta di 18 turni lavorativi, invece sposata in pieno dalla segreteria nazionale di corso d’Italia. Per quanto possa apparire tortuosa, la strategia suggerita a Marchionne dal giuslavorista Raffaele De Luca Tamajo è semplice. Racconta un sindacalista: «Se una sigla sindacale non firma un’intesa, allora perde una serie di strumenti (come i delegati o la presenza nei direttivi) senza i quali è più difficile fare attività sindacale in fabbrica e proclamare gli scioperi».
In parole povere, se Fiat riuscisse a imporre uno schema diverso da quello attuale – magari delegando i diversi standard di produttività alle intese aziendali previste dal nuovo modello contrattuale – difficilmente potrebbe firmarlo la Fiom, che ha definito anticostituzionale persino l’accordo di Pomigliano. Con il risultato che le tute blu di Gianni Landini si ritroverebbero senza le armi appropriate.
Che sia nel mirino, l’ha ben compreso la stessa Fiom. Non a caso il responsabile auto, Enzo Masini, ha annunciato che «l’azienda ha informato le organizzazioni sindacali che intende uscire da Confindustria per non dover rispettare il contratto nazionale di lavoro dei metalmeccanici». Se l’obiettivo è «vincolare gli investimenti alla possibilità di infliggere sanzioni alle organizzazioni sindacali e ai singoli lavoratori», la strategia è quella di «proseguire sulla strada delle sue scelte unilaterali». Cioè provando isolare la prima forza metalmeccanica del Paese. Il titolare del Lavoro, Maurizio Sacconi, è convinto che alle richieste del gruppo torinese si possa rispondere senza strappi unilaterali tanto da escludere «la possibilità di una uscita del Lingotto da Confindustria. La Fiat non rinuncia a essere associata, non cerca strade al di fuori delle relazioni industriali». E se il leader del Pd, PIer Luigi Bersani, si chiede «se per mantenere l’industria in Italia, dobbiamo forse portare l’Italia negli Stati Uniti o magari in Cina?», il ministero di via Veneto guarda al nuovo modello contrattuale, non firmato però dalla confederazione di Epifani. Non a caso Sacconi ha ricordato alle parti che esiste «una piattaforma riformista pronta a sostenere le politiche di investimento nel nostro Paese e fatta da tutte le grandi organizzazioni sindacali. Vorrei tanto che vi partecipasse anche la Cgil». Va da sé che per seguire questa strada, c’è bisogno di maggior coraggio da parte dei vertici di Confindustria – ed è questo il nodo del contendere tra Marchionne e la Marcegaglia – così come ci vuole il completo appoggio dai sindacati più riformisti. E il fronte che fa capo a Cisl, Uil, Ugl e Fismic ha garantito che farà la sua parte, se Fiat confermerà gli investimenti, non ridurrà salari e maestranze, e non farà strappi eclatanti. Così, a riprova della loro disponibilità, tutte queste forze hanno accettato la disdetta di un accordo aziendale firmato nel 1971 e che regolava il monteore e i permessi sindacali per i delegati e per i cosiddetti esperti. In cambio hanno ottenuto che si facesse un nuovo accordo in materia già a settembre e che l’intesa di Pomigliano non venisse applicata a tutti gli stabilimenti nazionali. Infatti i livelli produttivi di ogni sito italiano
Per l’Istat, la crescita è maggiore di quella dell’inflazione
A giugno retribuzioni in aumento (+2,5) ROMA. Le retribuzioni contrattuali orarie nel mese di giugno sono aumentate del 2,5% rispetto allo stesso mese del 2009 e dello 0,1% rispetto a maggio. Lo ha comunicato ieri l’Istat, ricordando che l’inflazione a giugno ha segnato un +1,3%. L’aumento delle retribuzioni registrato nel periodo gennaio-giugno 2010, in confronto allo stesso intervallo dell’anno precedente, è del 2,3%. A giugno i contratti collettivi nazionali di lavoro in vigore per la sola parte economica interessano il 64,3% degli occupati dipendenti rilevati per il periodo di riferimento degli indici, con una quota corrispondente del 61,1% del monte retributivo osservato. Sempre a giugno, risultano in attesa di rinnovo 39 accordi contrattuali, relativi a circa 4,7 milioni di dipendenti. La quota di dipendenti che aspettano il rinnovo è pari al 35,7%, in calo rispetto a quella
di maggio 2010 (36,4%), a seguito dei rinnovi recepiti nel mese, ma più elevata rispetto a giugno 2009 (20,2%). E sono 39 anche i contratti in vigore, che regolano il trattamento economico di circa 8,4 milioni di dipendenti. A essi corrisponde un’incidenza in termini di monte retributivo pari al 61,1 per cento.
I settori che presentano gli incrementi più elevati sono alimentari, bevande e tabacco (5,2 per cento), telecomunicazioni (4,5 per cento), energia e petroli (4,4 per cento), regioni e autonomie locali e servizio sanitario nazionale (4,0 per cento per entrambi), estrazioni minerali e commercio (per entrambi la variazione è del 3,9 per cento). Gli incrementi minori si osservano, invece, per ministeri, scuola, forze dell’ordine e militari-difesa (in tutti i casi l’aumento è stato dello 0,3 per cento).
economia
30 luglio 2010 • pagina 9
Dietro la decisione di Torino ci sono la crisi e la formazione internazionale dell’ad
Così Sergio, l’americano, lascia lo Stato per il mercato La scelta di legare la retribuzione alla produzione rovescia non solo la tradizione dell’azienda, ma anche una cultura nazionale di Carlo Lottieri incontro di ieri a Torino presso l’Unione Industriali segna una svolta storica per l’economia italiana. È stata infatti ufficializzata la nascita di una nuova impresa controllata dalla Fiat, denominata Fabbrica Italiana, che già a fine settembre a Pomigliano inizierà a riassumere il personale del vecchio stabilimento campano di Fiat Auto. La società non sarà iscritta a Confindustria e quindi si muoverà al di fuori della contrattazione nazionale.
L’
saranno decisi da specifici tavoli in un percorso che inizierà a settembre per definire il futuro di Mirafiori.
Inutile dire che la Fiom definisce carta straccia queste intese. Il responsabile auto Enzo Masini Enzo Masini, è convinto «che gli investimenti previsti per il nostro Paese nei prossimi ada Fiat saranno sono subordinati all’estensione a tutti gli stabilimenti dell’auto delle condizioni imposte per quello di Pomigliano d’Arco con l’intesa separata del 15 giugno scorso».
L’azienda conferma gli investimenti in Campania: i lavoratori saranno riassunti dalla newco nel 2011. Disdettati gli accordi sui permessi sindacali Sempre ieri l’azienda ha ufficializzato la nascita della newco Fabbrica Italia Pomigliano, che gestirà il sito campano. I lavori per l’implementazione delle piattaforme per l’assemblamento della nuova Panda partiranno dopo l’estate. Ma cosa ancora più importante, tutti i 5.200 lavoratori che oggi occupati nella produzione delle Alfa 147 e 159 saranno riassunti entro il settembre 2011. Con loro rientreranno anche i mille lavoratori della Ergom, azienda dell’indotto Fiat. Fino a quella data saranno in cassa integrazione. Il segretario della Fismic, Roberto Di Maulo, ha fatto notare che, essendo controllata da Fiat partecipazioni, «la newco Fabbrica Italia non sarà iscritta all’Unione Industriale di Napoli». Ma secondo il leader di Uil Auto, Eros Panicali, «non si può escludere a priori che anche questo stabilimento entri nel perimetro di Confindustria».
La dirigenza Fiat si è detta pronta non soltanto a riassumere tutti, ma anche a investire in maniera significativa, procedendo fin da agosto alla ripulitura dell’area in cui si dovrà lavorare alla Panda. Ma la condizione fondamentale posta è di portare Pomigliano all’esterno dal sistema confindustriale, sottraendosi in tal modo alle regole del contratto nazionale che la federazione delle imprese metalmeccaniche sigla d’intesa con i sindacati: e la logica di questa strategia è chiara, specie alla luce della volontà di tenere aperti solo gli impianti che aiutano il gruppo a reggere la concorrenza internazionale. L’abbandono dei contratti unitari è infatti una cosa sola con il braccio di ferro di questi mesi, che ha portato l’amministratore delegato della Fiat a decidere la chiusura di Termini Imerese, a pretendere nuove regole per gli impianti campani e, infine, a rendere noto il prossimo trasferimento in Serbia della produzione della monovolume. Lo scenario che si apre è il frutto di una serie di circostanze, che in vario modo hanno favorito l’emergere di questa nuova situazione. In primo luogo, bisogna riconoscere che per l’azienda torinese molto è cambiato quando Silvio Berlusconi è asceso ai vertici della politica nazionale.Tra il Cavaliere e l’azienda degli Agnelli non è mai corso buon sangue e così l’imporsi del centro-destra ha ridotto il flusso di denaro che per decenni era stabilmente affluito dallo Stato ai bilanci del gruppo di via Marconi. Non che siano spariti del tutto gli incentivi e le rottamazioni, ma è saltato ogni collegamento diretto tra la dirigenza della Fiat e i vertici della politica. In
più, un ruolo importante nel favorire il cambiamento l’ha giocato la crisi, che ha spinto a decidere ristrutturazioni necessarie e troppo a lungo rimandate: a partire dall’esigenza per la fabbrica torinese di razionalizzare la produzione, collegando retribuzioni e redditività in modo da essere competitiva. Negli stabilimenti del Sud, in particolare, i contratti nazionali garantiscono redditi non giustificati da quanto viene prodotto.Va anche aggiunto che è proprio l’uniformità delle retribuzioni che tiene i capitali lontani dal Mezzogiorno: con la conseguenza paradossale che da un lato abbiamo salari “teorici” in linea con quelli del Centro-Nord,
Tra le ragioni dell’arretratezza industriale del Sud c’è anche l’impossibilità di adeguare il rapporto costi-ricavi
mentre dall’altro la realtà è fatta soprattutto di retribuzioni assai basse all’interno dell’economia informale.
Un elemento decisivo che ha preparato le novità di questi giorni è stato pure l’arrivo a Torino –nel momento di massima crisi del gruppo automobilistico – di un manager che, a dispetto del nome e dei genitori, ha ben poco di italiano. Marchionne è infatti un uomo d’azienda che è approdato solo sei anni fa alla testa della Fiat e che ha costruito la propria carriera tra Nord America e Svizzera; la sua cultura imprenditoriale, insomma, lo porta a privilegiare – contro una tradizione aziendale consolidata – i risultati di mercato rispetto agli aiuti di Stato, la capacità di reggere sulle proprie gambe invece che le relazioni in grado di assicurare finanziamenti. I dibattiti di queste settimane, infine, sarebbero impossibili se non fosse tramontata l’idea di considerare l’Italia come un’unica economia, da gestire con regole e contratti uniformi. In passato si è cercato di introdurre una qualche diversificazione dando spazio ad accordi integrativi, ma ora è chiaro che la stessa logica dei contratti unitari, dalle Alpi a Lampedusa, va accantonata. L’insieme di questi fatti ha reso possibile la svolta di ieri, che ci restituisce una rappresentazione più realistica della realtà, poiché solo commisurando salari e produttività sarà possibile aggredire la disoccupazione cronica del Mezzogiorno. Va sempre ricordato che un’analisi oggettiva della situazione è premessa indispensabile alla soluzione dei problemi. Se la produttività di Torino e quella di Pomigliano sono differenti, non ci capisce come si possano retribuire i lavoratori alla stessa maniera. Per troppo tempo le decisioni assunte ieri sono apparse non necessarie in ragione del fatto che la Fiat ricavava dagli aiuti di Stato quanto non riusciva a ottenere dai consumatori. Quegli schemi, che non hanno aiutato l’industria automobilistica e certamente neppure lo sviluppo del Sud, si sono però rivelati fallimentari. E se la crisi aiuterà l’Italia a ristrutturare la Fiat su basi di mercato e a ripensare le relazioni industriali (soprattutto nel Mezzogiorno), a quel punto si potrà dire che davvero non tutto il male viene per nuocere.
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panorama
ragioni&torti di Giancristiano Desiderio
È già finito l’amore tra Caldoro e Napoli a differenza tra il Pdl e il Pd a Napoli oppure la differenza tra Caldoro e Bassolino è esattamente questa: mentre i primi si stanno facendo del male, i secondi ci hanno fatto del male (soprattutto a Napoli e alla Campania, ma con la storia vergognosa della spazzatura un po’ tutta l’Italia ci ha rimesso la faccia, e fosse solo quella). Un sondaggio recentissimo svolto da Luigi Crespi registra per il Pdl campano la perdita secca di quasi nove punti, mentre il presidente Caldoro perderebbe un punto percentuale. Insomma, la brutta storia del falso dossier ha avuto i suoi effetti. Il Pdl è riuscito in un’impresa storica: senza fare nulla di male è già in salita. Un grande capolavoro.
L
L’eredità di Antonio Bassolino è pesantissima. La regione Campania è piena di debiti e l’unico modo concreto per rimpinguare le casse regionali è quello, purtroppo, di aumentare le tasse. La pressione fiscale è di Caldoro, ma la colpa è di Bassolino. Altra strada da percorrere il centrodestra non ha in Campania. Tuttavia, questa realtà non contestabile dei fatti è proprio il grande patrimonio politico che Caldoro e la sua giunta dovrebbe amministrare al meglio. Dopo qualsiasi vittoria elettorale e politica c’è sempre un periodo di speranza e di attesa. Tecnicamente lo si può chiamare “il tempo della sposa”: è, infatti, una sorta di luna di miele in cui, forte del risultato conseguito, il vincitore può permettersi quasi qualsiasi cosa. Persino aumentare le tasse. Tanto la responsabilità è addebitata ai predecessori. Questo nella normalità delle cose. Evidentemente, Napoli è un mondo a parte. Anche il “patrimonio”del disastro amministrativo e governativo lasciato da Bassolino è stato spazzato via in men che non si dica. Caldoro, che conosceva tutto del falso dossier, ha formato la sua squadra di governo mettendo dentro anche chi aveva partecipato attivamente alla composizione delle carte che avrebbero dovuto distruggerlo. Come a dire che Caldoro è la vittima, ma è anche il carnefice: anche lui ci ha messo del suo per creare danni a se stesso.
Quando sarà passata l’estate a Caldoro e al suo governo regionale si comincerà a chiedere qualcosa in più della lamentela classica sull’eredità sciagurata di Bassolino. Il Pdl, insomma, deve cominciare a portare a casa qualche risultato. Sul fronte amministrativo e sul quello ancor più sensibile, se possibile, del governo del territorio. Sembra, invece, che come le cose siano scappate di mano sul piano del partito e della politica “interna”, allo stesso modo non ci si raccapezzi sul governo delle cose. A cominciare, manco a dirlo, dalla spazzatura. La Campania è lontana, molto lontana dal raggiungimento di una soglia di sicurezza perché non è ancora in piedi il sistema industriale di smaltimento dei rifiuti. Le discariche sono un tampone e la loro capienza non è infinita. Sono un pozzo che è quasi colmo. Se Caldoro non ci lavoro, ben presto ci sarà il ritorno della monnezza. E magari dopo verrà ancora lui, Bassolino.
D’Alema e le stragi: la politica non fa la spia Il presidente del Copasir: «Niente menzogne sulla mafia» di Sabrina de Feudis
ROMA. Ieri Massimo D’Alema in qualità di presidente del Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica) ha illustrato la relazione annuale sull’attività svolta. La riforma istituita dalla legge n. 124 del 2007 ha ribadito il ruolo essenziale del Comitato, cioè quello di verificare che l’attività informativa per la sicurezza si svolga nel rispetto della Costituzione, delle leggi, nell’esclusivo interesse e per la difesa della Repubblica e delle istituzioni. La relazione presentata ieri ha l’obiettivo di informare il Parlamento e l’opinione pubblica delle modalità attraverso cui questo organismo parlamentare svolge i suoi compiti. Un discorso articolato quello dell’ex ministro degli esteri, che ha toccato punti cruciali e di gran importanza. Dal coinvolgimento di alcuni agenti dei servizi segreti nelle stragi di mafia del ’92-’93, alla situazione afghana, sino al cambio generazionale previsto all’interno dell’intelligence.
la Commissione parlamentare antimafia e con gli organi competenti dell’Esecutivo. L’auspicio di D’Alema è quello di riuscire a procedere su questa strada anche per il futuro. E, poi, riferendosi alla celebre frase pronunciata dal giudice Lari secondo la quale la politica non sarebbe in grado di sopportare le verità relative alle stragi di mafia, D’Alema ha detto: «Credo, invece, che la politica non possa reggere il peso della menzogna su queste vicende».
Ma è stata una chiacchierata a tutto tondo, ben al di là delle competenze del Comitato. Per esempio, sul tema della guerra in Afghanistan D’Alema resta convinto dell’importanza passata e presente della missione. Non nega la situazione problematica dal punto di vista della sicurezza e invita a una riflessione politica. Secondo D’Alema il tema di una pacificazione «è obbligatoria, ma arriva troppo in ritardo». Non nasconde l’importanza del lavoro svolto dai Servizi Segreti, sul territorio afghano, pagato a caro prezzo, con la scomparsa di un’agente avvenuta lo scorso 26 febbraio, a causa di un attentato suicida compiuto a Kabul, per mano dei talebani contro due «guest house».
L’ex premier annuncia anche un «turn over parziale» degli 007: «Nei Servizi arriveranno 200 giovani»
D’Alema si ritiene soddisfatto del lavoro svolto e punta a completare l’operazione di razionalizzazione del sistema degli archivi esistenti all’interno dei Servizi, anche con l’obiettivo di determinare condizioni di maggiore trasparenza. Il Comitato sta procedendo verso un’apertuta all’esterno, pur nei limiti e compatibilmente con le caratteristiche del settore, questa rappresenta un’imprescindibile esigenza imposta dalla legge di riforma, con l’intento di superare le impostazioni tradizionali che hanno determinato nel tempo non pochi problemi nel rapporto con l’opinione pubblica. Il Presidente del Copasir si è soffermato anche sulla questione relativa alle stragi di mafia. «Non è compito del Comitato ha detto - di occuparsi in modo complessivo di queste vicende, che riguardano altri organismi e in primo luogo della magistratura, nei confronti della quale deve essere evitata ogni interferenza». In una sua riflessione D’Alema ha esposto la necessità per il Comitato di essere dotato di quei poteri di inchiesta di cui oggi non dispone e che gli consentirebbero di intervenire in maniera più diretta. Nella relazione, comunque, si dà conto di come il Comitato abbia collaborato, nel rispetto dei propri limiti, con
Una novità importante , comunque, è rappresentata dal ricambio generazionale degli “007”. Sono in vista innovazioni riguardanti la formazione del personale, in particolare attraverso l’istituzione della Suola unica: di questo si occuperà il Comitato nei prossimi mesi. Lo stesso D’Alema ha parlato di «turn over parziale». «All’interno dei Servizi Segreti arriveranno all’incirca 200 giovani». Ma come avviene il reclutamento di uno 007? Il leader del Pd ha confermato: «Nonostante la riforma introduca l’ingresso nei Servizi con una procedeura concorsuale, in realtà questo sistema non è stato mai adottato, perché in questa sistuazione ci vuole molta discrezione, cosa che non sarebbe possibile con un concorso pubblico». Quindi questo sarebbe il probabile identikit di un giovane 007: un ragazzo, laurato, con ottime competenze nel settore economico e delle telecomunicazioni e una spiccata capacità nel «problem solving».
panorama
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Dopo la «regionalizzazione» il ministro Matteoli è soddisfatto: «È stato un buon affare»
Tirrenia torna (quasi) dei Florio Lombardo evoca la storia per giustificare l’acquisto della compagnia di navigazione ROMA. Il giorno dopo del governatore siciliano Raffaele Lombardo, neoazionista di riferimento della Tirrenia, è particolarmente gaio: «Partecipiamo, con trasparenza, ad una cordata, la Mediterranea Holding di cui possediamo il 37%. Non abbiamo la maggioranza e parlare di regionalizzazione è da cretini o disinformati, sempre che non ci sia malafede». Così il presidente della Regione siciliana, , in un post sul suo blog a proposito della privatizzazione della Tirrenia, risponde a chi (e non solo pochi) ha ironizzato sul fatto che la privatizzazione della compagnia di navigazione sia in realtà almeno in parte un passaggio di mano tra istituzioni pubbliche. «Abbiamo preteso, nello statuto, che la flotta Tirrenia lasci Napoli e venga a Palermo. Mi auguro che i siciliani apprezzino l’importanza di questa scelta. La sede legale e tributaria sarà Palermo ed è qui che pagheranno le tasse», ha aggiunto Lombardo.
di Gualtiero Lami alla liberazione del Meridione dalla sanguinaria dittatura dei Borbone. Comunque, continuando a dettare la linea sulla nuova Tirrenia, Lombardo dice: «Noi, come Regione, incideremo sulla strategia. Abbiamo preteso che la Sicilia e Palermo siano il sito da cui le cosiddette autostrade del mare si dipartano. Non solo il collegamento con Pantelleria o Favignama ma anche con
Tunisi, Tripoli, Il Cairo, Casablanca, Barcellona, Marsiglia, Genova e Venezia. Rotte più convenienti in una logica di mercato che dovra’ guidare questo processo. La Regione - prosegue il post del governatore - non avrà funzione manageriale così come non pensiamo ad un nostro esponente che faccia l’armatore. La Regione, in questa operazione, non guadagna e non perde perché il rischio d’impresa è tutto dei privati, a tutela del patrimonio della Sicilia. Ciò fa parte delle condizioni statutarie». Infine, Lombardo nel suo sito spiega: «Siamo pronti a cedere le nostre quote. Quindi nessun insulto agli imprenditori con cui ho discusso e che ho invitato a far parte di questa cordata. Chi lamenta una loro assenza, li porti qui e noi cederemo le nostre quote al costo del capitale e non un euro in più. Imprenditori che però devono assumersi il rischio d’impresa senza l’aiuto della Regione: l’imprenditore, industriale o confindustriale tiri fuori i capitali ed entri nell’azionariato della società».
Il Governatore siciliano chiama in causa il fantasma dell’Unità «fatta contro il Mezzogiorno»
«Torna in Sicilia - continua Lombardo - la flotta che fu dei Florio dopo circa un secolo e mezzo. I Florio, imprenditori più potenti degli Agnelli, avevano una flotta, la Tirrenia, che ci fu soffiata dopo l’Unità d’Italia, quando ci unificarono con la violenza e contro la nostra volontà distruggendo la grande imprenditoria meridionale», ha aggiunto il governatore manipolando ben bene la storia e dimenticando, se non altro, la decisiva partecipazione dei siciliani alla spedizione dei Mille e
Di fatto, l’operazione comporta il passaggio di proprietà della Tirrenia e della sua controllata siciliana Siremar dalla finanziaria statale Fintecna
alla Mediterranea holding, la cordata guidata dalla Regione Siciliana (37%) e di cui fanno parte Ttt lines (30,5%) di Alexandros Tomasos, Lauro (18,5%), Isolemar (8%), Nicola Coccia (3%) e la famiglia Busi-Ferruzzi (3%). Le quote, tuttavia, dovrebbero modificarsi, con la Regione siciliana in particolare che ha ridurrà nel tempo la propria partecipazione lasciando spazio a privati, anche stranieri, e con interessi nel Mediterraneo. Ma un cambiamento dovrebbe riguardare anche Coccia, che dovrebbe tagliare la propria partecipazione, e la famiglia Busi-Ferruzzi, che dovrebbe aumentarla. Mediterranea, per altro, era l’unico concorrente all’aquisto. Reazioni positive – sia pure per ragioni diverse – anche dal governo: «L’esito della gara per la privatizzazione della Tirrenia non è stato un flop: a noi bastava un concorrente e non si poteva certo vendere a due» ha detto con straordinario acume imprenditoriale il ministro delle infrastrutture e trasporti, Altero Matteoli, conversando con i giornalisti in occasione della conferenza dell’Anas sui piani per affrontare l’esodo estivo. A chi gli chiedeva un giudizio sull’esito della privatizzazione della Tirrenia, il ministro ha risposto: «Sono soddisfatto che la vendita si sia concretizzata». Lo stesso Matteoli ha poi annunciato che convocherà le organizzazione sindacali: «Appena firmato il contratto di vendita, quindi dopo il 4 agosto, convocheremo e informeremo i sindacati perché è nostro dovere istituzionale».
Elezioni. È dura con il leghista la motivazione del Tar sul riconteggio dei voti in Piemonte
«Le liste di Cota erano illegittime» di Guglielmo Malagodi
TORINO. Nuvole nere si addensano sul futuro del neo-governatore del Piemonte Roberto Cota: il riconteggio dei voti relativi alle liste «Al centro con Scanderebech» e «Consumatori», che alle ultime Regionali sostenevano il candidato leghista, stabilito nelle settimane scorse dopo i ricorsi del centrosinistra, è stato deciso dal Tar del Piemonte perché «l’esame del merito conduce alla acclarata illegittimità dell’ammissione delle due liste controverse con conseguente annullamento, in via diretta ed immediata, dei relativi provvedimenti di ammissione emessi dagli otto uffici centrali circoscrizionali». È quanto si legge nella sentenza del Tribunale amministrativo piemontese depositata ieri. «Questa decisione muove nell’ottica della tutela della volontà dell’elettore» ha precisato Alfonso Graziano, giudice estensore della sentenza, consegnando, insieme al presidente del Tar Franco Bianchi, la sentenza agli avvocati alla presenza dei giornalisti. Nelle 113 pagine, il collegio
giudicante rileva quindi che «ciò stante restano da acclarare quali ulteriori, eventuali, concreti effetti demolitori possano discendere dal parziale «de cisum» fin qui assunto, avuto riguardo, in particolare al-
ti delle parti, ciascuno dei quali procederà al riconteggio delle schede che saranno suddivise in 3 gruppi: quelle con l’indicazione di voto solo sulle liste in questione, quelle con l’indicazione della lista e quella del presidente collegato (Roberto Cota) e le schede con voto disgiunto, cioè con l’indicazione di voto a una delle due liste e il voto a un candidato presidente diverso da quello a cui le liste erano collegate (Mercedes Bresso, Davide Bono e Renzo Rabellino). L’unica certezza è che i voti dati alle liste (con qualunque tipologia di voto) saranno annullati, ma resta da decidere ogni eventuale ulteriore conseguenza sugli effetti che avrà sull’esito elettorale. La questione sarà dibattuta in aula al Tar nell’udienza fissata al 7 ottobre.
Il nuovo «spoglio» comincerà subito e avverrà sotto il controllo diretto del Tribunale regionale, ma alla presenza dei delegati delle parti la proclamazione degli eletti alla carica presidenziale, nonché alla ripartizione dei seggi in seno al consiglio regionale».
Il riconteggio delle schede delle due liste «incrinate» avverrà a partire da domani. Le schede elettorali, custodite in un deposito a Chieri (To), saranno prelevate ora dagli Uffici Circoscrizionali delle 8 province del Piemonte, coadiuvati da personale del Tar e alla presenza dei delega-
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i rischia di fare una gran confusione. Tanto per adeguarmi comincio la telefonata con un “prooontooo!” in un romanesco approssimativo e strascicato, da casermone al Tirburtino coi panni stesi, mamma mia che figura co’ i vicini che stanno sempre lì a spia’, ‘sti scostumati. Ma dall’altra parte del filo c’è un borbottio, un gomitolo di suoni, forse di parole, tutte intorcinate. C’è da stupirsi, ma anche no: del resto la sora Augusta maritata Cecioni non l’ha mai sentita nessuno, manco io quindi. Le chiedo: «Magari c’è su’ fija?». Risposta, almeno quella che mi pare una risposta: «Ma che sta’ a di’?». Insisto, è il mio mestiere a costo di irritare: «Sora Augusta, vorrei parlare con Franca Maria Norsa». Lei è tranchant:«Mai sentita, se vedemio, me stia bbene, eh...».
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Errore clamoroso. Franca Maria Norsa, milanese di nascita e da molti anni gioiosamente abitante a Roma senza quelle lagne dei lumbard quando scavalcano il Po, e soggiornante a volte a Trevignano, lago di Bracciano, se in città c’è afa cattiva e il ponentino non vuole proprio arrivare, è praticamente una sconosciuta. La suddetta signora è infatti nota, anzi notissima, come Franca Valeri. Compie 90 anni domani. Auguri affettuosi alla donna che ha adottato come cognome Valeri in omaggio al poeta Paul Valèry. All’attrice che qualche scriba improvvisato riduce a “caratterista”. Una bestemmia. Franca è un’ottima attrice, anche se magari ci sarebbe (e tanto) da recriminare sulla miopia di certi registi: ma come? Avevano a disposizione una che trasudava versatilità e invece la ingabbiavano nei soliti recinti macchiettistici. Ricordate la televisione in bianco e nero? Sì? Allora capirete perché mi sono rivolto alla Cecioni madre. Lei, la Valeri, con un abitino semplice, accollato ed ele-
il paginone
Ritratto della grande attrice, consacrata dalla televisione popolare ma am
Apologia della Franca Valeri compie 90 anni. Per tutta la vita ha raccontato i vizi della borghesia italiana usando la sua arte e la sua ironia. Un esempio di intelligenza messa al servizio della comicità di Pier Mario Fasanotti Franca voleva fare la piccolo-borghese di Roma, quella che a stento trattiene la traboccante naturalità popolana o la traduce, con effetti comici, in un fraseggiare intenzionalmente forbito, salvo poi sbottare. Come quando la Cecioni figlia s’arrovella nello scegliere il luogo bancario dove mettere i suoi “du sordi”, allora acchiappa il telefono, sua grande passione, e si mette in comunicazione con improbabili bancari. Sbaglia, s’arruffa, s’indigna. Vorrebbe una banca lontana da Roma, magari al nord, lì se ne intendono di soldi, eh sì, parlano sempre di quelli, ma niente da fare. Allora è irresistibile la tentazione
tello pneumatico con le tonsille. Mai una parolaccia, quella che fa da didascalia al colloquiare di oggi, quelle due o tre consonanti rozze e monotone senza le quali pare che oggi gli italiani non possano divertirsi, anzi capirsi tra loro. La s’intuisce, la parolaccia: sbuca dalla bocca del bancario cafone e sbrigativo, probabilmente della Padania con “pecunia” che “olet” (ma minga tropp) e consola sempre. Ed ecco lo sbotto di lei, che sempre signorfa è, perbacco: «Scostumaaatooo!».
Le veniva bene il romanesco. Del resto amava molto Carlo Emilio Gadda,
Pur essendo diventata popolare con il celebre personaggio romano (la donna che risolveva la vita parlando al telefono con «mammà»), è milanese purosangue. Legata ai grandi scrittori del nord, da Gadda a Arbasino. Scelse il suo nome d’arte in omaggio al poeta Paul Valery gante, faceva finta d’avere un telefono in mano, con le dita componeva il numero. Di chi? Ma è ovvio: de mammà, una rompiscatole micidiale, ma anche un punto di riferimento quotidiano, boa sicura del buon senso in un mare di crescenti incertezze, di sbandamenti sociali, di quesiti personali, pure quelli che appaiono stupidi. Capitava a volte che le chiamate fossero fuori luogo, anzi fuori orario, pure a mezzanotte, e questo dava il là a frastagliati ragionamenti sul tempo, sul giorno e la notte.
di telefonare alla Banca di Roma. Chiede subito se è proprio “de Roma”, non si sa mai. «Ah sì, vabbe’». Resta però diffidente, è come se telefonasse al negozio sotto casa, cosa sconveniente per mantenere la privacy di investitore. Quanto? Le chiedono. Diecimila lire. Il viso rettangolare di Franca-sora Cecioni non s’accartoccia in smorfie, no, quello mai si deforma: lei recita con gli occhi, che si spalancano, che guardano il cielo come dire ma dove diavolo va oggi il mondo, ma soprattutto con la voce, volutamente petulante, un mar-
il gran lombardo che abbandonò le ville, i villini e le villette della Briansa, scritta e recitata con la “esse”, grassa e un po’ bavosa, per bagnarsi nel Tevere, assorbire parlate del Lazio e del centro-Italia, e occuparsi un un delittaccio, a via Merulana, e così, con quella trama esile esile, parlare del mondo intero, dei vizi italici, di Mussolini chiamato “il Merda”, delle piccole convenienze, dei compromessi, bonari oppure per niente. Franca Valeri è amica da sempre di un altro lombardo, Alberto Arbasino da Voghera. Conosce bene i
testi dell’uno e dell’altro. Così è nata “la signorina sbob”, altro suo cavallo di battaglia. Una sequela di garbate pugnalate alla borghesia che si crede chissà chi e chissà che cosa. Spiegò a Pippo Baudo un giorno: «È entrata nel repertorio perché sono milanese, perché sono una borghese… no, non voglio ridicolizzare nessuno, ma ho visto e studiato certi tipi del nord, quindi…». La “signorina”, compunta anzi ingessata nelle sue manie di precisione, nelle sue indignazioni che partivano da auto-illusioni, era sola davanti alla telecamera, parlava a un interlocutore invisibile, un soliloquio affollato di personaggi. Come quando, rivolgendosi a un uomo della finestra di fronte, sciorina stupidaggini, vezzeggiativi, corteggiamenti un po’ perfidi un po’ teneri, per concludere così: «Io sono e so essere crudele…del resto si sa, la donna è una brutta bestiolina…». Il personaggio snob ricorreva al roteare delle labbra, a movimenti mascellari, a repentine chiusure di labbra. Così si dava un tono, da snob appunto, da schizzignosa, da una che non le va mai bene niente e poi resta sola, solissima.
«Caratterista» scrivono in certi siti web. Non che sia sbagliato, ma è brutta limitazione. Ha fatto film, ha recitato migliaia di volte in teatro reggendo bene tutte le parti, anzi arricchendo il copione, personalizzandolo, piegandolo non tanto a sé quanto alla realtà che si doveva mettere in scena. È sempre stata meravigliosa nei ruoli della rompiscatole. Ripetitiva forse per il dictat dei copioni, questo sì. La ricordiamo accanto a Sordi nel film Il vedovo. Una donna-incubo, la lombarda con i “danè” che se la intende solo con chi è in cima alla classifica reddituale, con i falliti o parassiti come il marito no, mai e poi mai. Lo chiamava “pirletta”. E, data un giorno per scomparsa in una tragedia aerea, torna a guastare la frettolosa e sguaiata festa dell’Al-
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amata anche dal cinema d’autore. E ancora oggi un mito del nostro teatro
a Sora Cecioni Di sé dice: «Sono una che la guerra l’ha vista. Solo che allora si poteva ancora sperare. In che cosa? Che prima o poi finisse. Mentre ora i poveri cari pulcini della signora Cecioni cosa possono aspettarsi che finisca? Possono solo sperare che un cataclisma spazzi via il cattivo gusto, ristabilisca il rispetto umano e ci consenta di ridere di vizi e virtù»
In queste foto, Franca Valeri in varie fasi della sua lunga e fortunata carriera sempre divisa tra cinema, teatro e tv. In alto a destra, con Vittorio Caprioli bertone allegramente vedovo, finalmente ricco in quanto erede e libero di mostrare la sua nuova donna, una stangona bionda della Bassa. La Valeri procede come un fantasma inesorabilmente in carne e ossa, e soprattutto voce che ti trapana i timpani. Ridiventa la padrona. È lei la signora, e via ‘sti burini che s’apprestano a succhiare soldi nella mangiatoia “sine domina”.
Per apprezzare, o soltanto conoscere, Franca Valeri occorre andare per sottrazione. Evitare cioè di leggere quanto qualcuno hanno scritto di lei. Per esempio Aldo Busi che dell’attrice fa un irriverente quanto errato e inutile ritratto nel libro Sentire le donne
(editore Bompiani, se qualcuno volesse proprio leggerlo). Il narciso bresciano va a Roma per incontrarla. E - ma da quale pulpito! Montichiari (Bs), lo sanno tutti, non è certo Oxford - comincia a sbeffeggiare una palazzina di un quartiere residenziale dicendo che vorrebbe mostrare un candore ginevrino e invece è cairota tanta è la cartaccia qua e là per le strade. Poi l’incontro. Si fa per dire, dato che Busi usa ambienti e persone (vere) per parlare di sé, sempre di sé. L’intervistata, ossia la Valeri anziana e un poco traballante (e chi non lo è a quell’età?), è scaraventata nelle pagine come fosse una scema, una che perde continuamente il filo dei discorsi, che confonde tutto, che mischia memoria teatral-televisiva e memoria quotidiana. Infine la messinscena di lui che si toglie la camicia per il caldo e si sdraia nel letto accanto a lei, sbottonandosi la patta dei pantaloni e inventandosi risolini della signora al telefono con un’amica. Tremendamente volgare la
descrizione di Franca: «Minuta, composta, come chiusa in se stessa, un po’ tremolante per via dell’Alzheimer e senza alcuna voglia di guardarsi attorno e con poca anche di quella di guardare davanti a sé….io ho pensato a una pendolare che va a guadagnarsi il pane… a una nomade della sublime guitteria o inclinazione a far ridere gli altri…». Eh, no, questo non va. Questo non è vero.
Altro che demenza senile. È donna con disturbi cognitivi quella che pochi giorni fa a un giornale ha detto: «La ricchezza? È quello che è. Meglio averla che non averla, intendiamoci. Però in genere la facilità di spendere appartiene a periodi di pace sociale ed economica, mentre oggi la maggior parte delle persone è giustamente angosciata…». Ma guarda un po’, Franca legge i giornali, e li capisce pure. E ancora, a proposito di Berlusconi: «Sapendo quanto è volgare l’uomo, non si dovrebbe neanche stare a sentire cosa dice...». È questa la donna e attrice che non sarebbe in grado di guardarsi attorno? Franca sa ancora ridere, e pure in modo arguto:\u2028 «Non è che lui sia un Richard Gere… è un vecchio,
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piuttosto brutto, come anche gli uomini del suo staff... guardarsi allo specchio a una certa età serve giusto a darsi una rassettata... Più importante sarebbe guardarsi allo specchio morale, per le persone intelligenti è un gesto istintivo, fa male ma porta anche beneficio. Berlusconi credo che non abbia proprio tempo, però sospetto che abbia sempre uno specchietto in tasca per controllare se sono a posto tutte le sue ristrutturazioni».\u2028 Risponde alla domanda sul nesso tra tramonto e volgarità: «Credo che in questo caso la
volgarità sia insita nel personaggio, da sempre. D’altra parte ognuno invecchia secondo ciò che è stato da giovane». Si può essere d’accordo oppure no, ma certo è da fare i complimenti a una novantenne che continua a stare, e bene, sul palcoscenico della vita.
Franca Valeri è consapevole degli anni che le pesano sulle spalle (non però sul cervello) quando afferma: «C’è una la ricetta per spaventare la morte costringendola ad emigrare su un’altra galassia? Lo si chieda a Margheita Hack che, sull’argomento, certo ne sa più di me». L’attrice poco tempo fa si è calata nei panni della Pizia, personaggio di Durrenmatt. Ha compreso a fondo il testo, l’ha torto quel che basta per metterne in risalto i significati più penetranti. Ha sempre riflettuto a lungo sulle pagine da far ballare in teatro. Ha sempre aggiunto un maquillage personale senza perdere la reverenza verso i grandi scrittori. Li ha voluti interpretare, con rispetto e con lecite libertà sceniche. E ancora:«Beh, confesso che per me la tristezza non esiste. È solo una pausa per riprender fiato tra una battuta e l’altra. Serve a riordinare le idee, come un sorso di whisky per l’ alcolista o la rosa dal gambo lungo per una signora ancien régime». Triste no, come assicura lei. Ma amara sì. Ne dà prova parlando dello slabbramento della società odierna. Parola di una donna «che la guerra l’ha vista. Solo che allora si poteva ancora sperare. In che cosa? Che prima o poi finisse. Mentre ora i poveri cari pulcini della signora Cecioni cosa possono aspettarsi che finisca? Che un cataclisma spazzi via il cattivo gusto, ristabilisca il rispetto umano e ci consenta di ridere di vizi e virtù come faceva l’uomo che ho amato di più nella vita». Chi era, signora Valeri? «Un signore che non mi ha fatto la corte ma non per colpa sua. Era nato qualche secolo prima di me». Ci dica il nome! «Rabelais, l’autore di Gargantua e Pantagruel che oltretutto, disdetta, era pure un frate!».
mondo
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Usa. Da Obama ai repubblicani, passando per Wikileaks, ecco come l’informazione “contamina” la vita pubblica
È la stampa, presidente! In America ormai, politica e media sono sempre più legati a doppio filo di Anna Camaiti Hostert on un consenso sceso al 38% (18 punti in meno dall’anno scorso) il presidente Obama, a circa tre mesi dalle elezioni di mid term che il 2 novembre rinnoveranno gran parte del Parlamento americano, si trova in uno dei momenti peggiori del suo mandato. I problemi sul tappeto sono molti: due fronti di guerra aperti, un disastro ecologico di proporzioni gigantesche e un’economia che fa fatica a riprendersi con un tasso di disoccupazione altissimo. La campagna elettorale è già cominciata e gli avversari repubblicani cercano di trarre il maggiore vantaggio possibile da questa delicata situazione. Inoltre, dopo le esplosive rivelazioni di Wikileaks al New York Times su materiale riservato della guerra in Afganistan anche l’ala più liberal del partito democratico e gli indipendenti che avevano assicurato il loro voto a Obama sono sul piede di guerra. Nell’ultimo mese i toni della battaglia politica si sono alzati mentre i colpi sotto la cintura si sono abbassati e sono diventati più frequenti. Responsabile in parte di questa sterzata è il pericoloso abbraccio tra politica e mezzi di informazione i quali sono ormai in grado di far tremare le fondamenta del palazzo senza preoccuparsi affatto delle conseguenze.
C
I politici democratici d’altro canto si adattano a questo predominio, sempre più interessati all’immagine della loro amministrazione nei media e sempre meno ai fatti concreti. Paul Krugman parla del“paradosso Obama” che a dispetto delle sue numerose vittorie in Parlamento compresa la riforma sanitaria, vede il suo consenso tra la gente indebolirsi. Così il premio Nobel per l’economia suggerisce che l’unico obiettivo che Obama dovrebbe perseguire dovrebbe essere proprio quello di apparire e parlare meno e creare più posti di lavoro. Intanto il vicepresidente Joe Biden è andato di recente nel programma serale di Jay Leno e per la prima volta nella storia presidenziale Obama è andato in uno show mattutino di intrattenimento
femminile: The View. Conduttori e giornalisti continuano a soffermarsi su osservazioni che non hanno rilevanza politica senza mettere l’accento su problemi la cui soluzione è invece fondamentale per la ripresa del Paese. I leader democratici vanno in televisione a parlare di quello che hanno realizzato durante il loro mandato, pensando che questo possa influenzare le opinioni dei votanti.
I repubblicani, d’altra parte, sembrano meno interessati alla loro immagine nei media e più invece a come ottenere risultati in vista delle elezioni di novembre. E, a questo proposito, come ci ricorda Charles Madigan, esperto editorialista del Chicago Tribune, i giornalisti sembrano avere dimenticato che c’è una linea di divisione netta tra informazione e opinioni personali. Ma per Madigan, il maggiore responsabile di questo stato di cose sono proprio i lettori e gli spettatori accusati di soffermarsi con troppa compiacenza sui fatti più scabrosi della vita dei personaggi famosi. E questo atteggiamento superficiale - accusa Madigan - incoraggia la stampa a tenere comportamenti che hanno poco a che vedere con l’informazione. A meno che questo trend da parte del pubblico non cambi, la tendenza rimarrà la stessa o addirittura peggiorerà. Questo è un modo di inquinare due settori che fi-
sommerge di telefonate le fonti per accertare la verità. Cosa è successo a quello che si definiva obbligo di testimoniare i fatti? La conclusione di questo triste sviluppo è che non abbiamo più dei media affidabili… abbiamo abbandonato una serie di vecchie regole che definivano il codice etico dell’informazione».
Un vecchio adagio della United Press International (U.P.I.) era First get it right, then get it out. Nonostante il livello della competizione per arrivare per primi alla notizia comportasse anche atteggiamenti spregiudicati, prima si doveva accertare non solo che la notizia ci fosse, ma che corrispondesse alla realtà dei fatti. Infine si dovevano verificare le fonti e le circostanze della vicenda. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti e molti errori sono stati commessi nel calderone dell’informazione, in parte anche a causa della pressione che veniva esercitata sui giornalisti per arrivare alla notizia per primi. Ma il terreno non è mai stato ideologico, solamente tattico. Ora invece si è verificata una degenerazione. Molti giornalisti del Los Angeles Times, del Washington Post e del New York Times proprio in questi giorni pubblicano articoli sulle responsabilità della stampa
I leader democratici vanno in tivù a parlare di quello che hanno realizzato durante il mandato, pensando che questo possa influenzare le opinioni dei votanti no ad ora negli Usa sono stati nettamente separati: il mondo politico e quello dei media. «Ovviamente qualcuno che confonde le acque, manipola le notizie e getta sospetti infondati su qualcun altro sono cose ineccepibili per questa gente. Certo questo comportamento è molto più conveniente sul piano economico che avere uno staff che appura le notizie e
nel creare false notizie e sulla scelta di cosa sia il caso di pubblicare, incoraggiando il pubblico a esigere una maggiore integrità. Durante questi giorni la controversia della dipendente del ministero dell’agricoltura Shirley Sherrod licenziata dalla Casa Bianca a causa di alcune affermazioni apparentemente razziste apparse su internet in un video messo online da Andrew Breitbar, giornalista e opinionista conservatore, ha inondato i giornali americani. Ha inoltre mostrato quanto stiano prendendo campo posizioni ideologiche che si pensavano ormai scomparse. La dipendente afroamericana del ministero dell’Agricoltura, Shirley Sherrod, a una riunione della Naacp ( National Association for Advancemente of Colored People) ha affermato che nel passato, anche in conseguenza del fatto che suo padre era stato assassinato da bianchi, aveva fatto solo il minimo indispensabile per aiutare la famiglia di un agricoltore bianco. Così l’aveva accompagnato da un avvocato bianco che non solo non aveva fatto niente per lui ma lo aveva incoraggiato a vendere la sua proprietà.
Dopo che l’uomo disperato l’aveva pregata di aiutarlo a non disfarsi della proprietà, Sherrod aveva chiamato tutti quelli che avrebbero potuto fare qualcosa per lui e l’aveva salvato dal disastro economico. Sherrod era pertanto giunta alla con-
mondo
clusione che il discrimine non può essere costituito dal colore della pelle, ma invece dalla differenza tra chi ha i mezzi economici e chi non ce l’ha, siano essi neri, bianchi o ispanici. «Dio mi ha aiutato a capire che il problema non può essere ristretto ai neri. Riguarda tutti coloro che sono poveri» ha affermato la donna. Purtroppo Breitbart ha mandato online solo la parte in cui la dipendente ha affermato
termometro è difficile farcelo rientrare» dice un proverbio americano. Ad aprire uno spiraglio di luce in questa complessa e intricata situazione è piovuta la vicenda di Wikileaks che, se forse non gioverà all’amministrazione Obama, è tuttavia un esempio che il giornalismo americano ha ritrovato un po’ dei suoi sani valori professionali ed etici. Si è parlato di giornalismo “ibrido” nel senso che mette insieme siti internet e pilastri della tradizione giornalistica mainstream americana ed europea come il New York Times, l’inglese Guardian e il tedesco Der Spiegel. Julian Assange fondatore del portale Wikileaks ha infatti deciso di condividere informazioni che potevano essere esposte online con le tre grosse testate giornalistiche. In uno scantinato di Londra i giornalisti hanno studiato e verificato i 91.000 rapporti consegnati. Questo può significare davvero una svolta nel mondo dell’informazione riportando in primo piano l’importanza di verificare le fonti, ma anche di assumerne di nuove provenienti da internet. Assange ha spiegato poi che il motivo che lo ha spinto a compiere questa scelta è stato quello di riformare un sistema istituzionale dove gli abusi sono sempre coperti da funzionari che classificano i documenti in modo tale che informazioni politiche delicate non vengano mai rese pubbliche. E assieme ad esso implicitamente anche quello del mondo giornalistico dove le fonti sono sempre più endogene e sempre meno verificate. Questo, secondo Joseph Atanasio, professore alla facoltà di legge della Southern Methodist University obbligherà inoltre a discutere la legittimità e la legalità di questi metodi non solo sul territorio americano, ma a livello mondiale.
In un parallelo drammatico con i Pentagon Papers di Daniel Ellsberg che nel 1971 determinarono un’escalation delle proteste popolari contro la guerra in Vietnam, queste rivelazioni senza infrangere nessun divieto e nessun top secret mettono il dito sulla piaga della guerra in Afghanistan mostrando gli agenti pakistani che collaborano con i talebani e soprattutto portando alla luce la morte di un gran numero di civili di cui finora non si è mai parlato. Forse il mondo politico e quello dei media dovranno cominciare a staccarsi da quell’abbraccio mortale che li danneggia ambedue irreparabilmente. Potrà questo nuovo evento aprire in campo giornalistico una riflessione su come attenersi ai fatti piuttosto che sulle opinioni di chi li riporta? E riuscirà in campo politico a ricondurre in primo piano l’importanza di dare ai cittadini delle risposte concrete ai problemi del quotidiano, senza preoccuparsi eccessivamente dell’audience che ogni apparizione o conferenza stampa crea?
I loro avversari, d’altra parte, cercano di trarre il maggiore vantaggio possibile dalle difficoltà (compreso un calo di consensi) con cui il leader statunitense deve fare i conti che non aveva aiutato una famiglia bianca accusandola di razzismo, dando un’immagine dei fatti che era l’esatto l’opposto di quello che è accaduto.
Sherrod è stata licenziata senza neanche avere il tempo di replicare. Se Breitbar non si è mai giustificato di quello che ha fatto, Obama e Vilsack, ministro dell’Agricultura, appena venuti a conoscenza dei fatti si sono immediatamente scusati per lo spiacevole incidente offrendo di restituire alla signora il suo posto. Ma quante persone ancora porteranno con sé l’idea che Sherrod è una nera razzista? «Una volta che il mercurio è uscito dal
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Bloccati i punti controversi della legge sull’immigrazione
Intanto Barack “batte” l’Arizona di Osvaldo Baldacci il Far West. Lo sceriffo, i messicani, il deserto e i canyon. Regolamenti di conti. Qualche pistolero, un giudice, ma anche i banditi. Non è un set cinematografico, è l’Arizona di questi giorni, quella in cui è in corso una disfida sul tema dell’immigrazione dei latinos. Non senza lasciare sul campo strascichi e problemi. E forse vittime: in molti temono che le nuove misure adottate dall’Arizona faranno prevedibilmente cambiare le rotte migratorie, senza però comportare necessariamente una riduzione del flusso di messicani verso gli Stati Uniti, con la conseguenza però che quest’anno il numero dei morti tra quanti cercheranno di entrare clandestinamente negli Usa potrebbe essere il più alto degli ultimi dieci anni. È già stato stimato che oltre 100mila latinos stanno comunque lasciando l’Arizona, dove alcuni quartieri sono praticamente deserti: scappano i clandestini, a causa della legge che prevede la possibilità di fermare ed eventualmente arrestare qualunque sospetto clandestino, ma anche i regolari, intimoriti dal clima di intolleranza.
È
Tutto questo nonostante la legge sia stata sostanzialmente fermata in extremis (è entrata in vigore oggi) da un giudice che ha bloccato le parti più controverse. Ad aprile il governatore Jean Brewer ha firmato questa severa legge contro l’immigrazione clandestina, che oltre a scatenare il panico ha sollevato furiose opposizioni, compresa quella della Casa Bianca. Ma il provvedimento avrebbe anche il sostegno di circa il 60% della cittadinanza. Con questa legge, tra l’altro, la polizia potrà fermare chiunque sollevi “ragionevoli sospetti” di trovarsi sul territorio dell’Arizona senza documenti. A fermare la legge sostenuta con enfasi ad esempio dallo sceriffo “Arpajo il giustiziere”, che si era affrettato a mostrare in tv i campi di tende circondati da filo spinato che aveva preparato nel deserto vicino la sua città, è stata la giudice federale Susan Bolton, della Corte di Phoenix. Dopo giorni d’attesa ha accolto in extremis
in modo preliminare il ricorso degli avvocati del Dipartimento di Giustizia. Secondo Bolton, la polizia locale e federale non ha il diritto di chiedere i documenti a un passante solo basandosi “sul ragionevole sospetto” che sia un clandestino, così come recitava il testo. Il giudice ha deciso di bloccare la parte della legge che richiedeva ai funzionari di polizia di controllare lo stato di immigrazione di una persone fermata per un altro reato.
Il giudice ha anche sospeso un altro aspetto della legge, che imponeva agli immigrati legali di portare sempre con sé i documenti di immigrazione: «Se dovesse applicare questo statuto l’Arizona imporrebbe agli stranieri residenti legalmente un fardello “preciso, inusuale e straordinario”che solo il governo federale ha l’autorità per imporre». Si tratta solo di un primo passo. Bolton ha detto che probabilmente, dopo un’analisi più approfondita delle carte, si convincerà definitivamente del ricorso presentato dal governo. Obama infatti, insieme alle associazioni dei diritti civili, si è contrapposto frontalmente a questa legge, sostenendo il rischio di discriminazione razziale, ma anche il fatto che la materia dell’immigrazione compete solo al governo federale. Anche per questo il governo federale non punirà le città dell’Arizona che non applicheranno le leggi statali, diventando “santuari” dei clandestini. D’altro canto i sostenitori della legge SB 1070 andranno in appello e fino alla Corte Suprema, mentre molti altri Stati stanno pensando a leggi simili. La questione è anche un tema centrale dello scontro politico e della imminente campagna elettorale di medio termine. Molti neoelettori delle minoranze e specie i latinos hanno sostenuto Obama anche in virtù delle sue promesse su una migliore legge sugli immigrati. Che non è mai partita e difficilmente lo farà nelle prossime settimane. La determinazione dell’amministrazione democratica nel caso Arizona è un tentativo di dare un nuovo segnale in questa direzione. Non è detto che basterà.
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Francia. Secondo la gauche, si tratta di “stigmatizzazione etnica” n’operazione “di stigmatizzazione etnica”. La scelta del governo francese di chiudere 300 campi rom ritenuti illegali non poteva che scatenare le critiche più aspre. Le parole qui riportate sono di Olivier Besancenot, giovane leader del Nouveau d’Anticapitalisme Parti (Npa), espressione francese del movimento no global. La misura è stata adottata direttamente per volontà del presidente Sarkozy. «Le persone non in regola con i permessi, che vivono in questi campi, saranno immediatamente espulse», ha detto il capo dell’Eliseo, dopo un vertice straordinario sulla sicurezza della Francia. La scorsa settimana decine di nomadi si erano scagliati contro il comando della Gendarmérie nel paesino di Saint Agnan, nel dipartimento dell’Yonne, a sud-est di Parigi. La sommossa era sorta dopo l’uccisione di un giovane rom, freddato dai colpi di pistola di un gendarme perché, mentre era in auto, non si era fermato a un posto di blocco. Il Ministero dell’Interno transalpino ha aggiunto che la decisione sarà applicata nei prossimi tre mesi. Per le istituzioni parigine prendere di mira i rom significa scardinare una rete di criminalità organizzata, estesa su tutto il territorio nazionale e con forti legami all’estero. A giudizio delle autorità francesi, i nomadi – i particolare i rom immigrati da Bulgaria e Romania – sarebbero protagonisti nelle attività di narcotraffico, prostituzione, immigrazione clandestina e accattonaggio. Tuttavia, non si tratta di un problema limitato ai confini francesi. Dopo gli accordi di Schengen, esso coinvolge tutta l’Europa. Il rischio è che Sarkozy inciampi in una trappola di xenofobia che
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Calano i sondaggi e Sarkò caccia i rom L’Eliseo annuncia la chiusura di 300 campi e scatena le ire dell’opposizione e dei media di Antonio Picasso
governi di Bucarest e Sofia. Recentemente proprio l’ambasciatore francese presso il governo bulgaro, Etienne de Poncins, ha pubblicato sul suo blog un reportage da lui stesso raccolto in merito alla vita e alla cultura rom, un popolo dovrebbe rappresentare un patrimonio di tradizioni per tutta l’Europa. I rom nel Paese balcanico rappresen-
Tra scandali e crisi economica, l’uomo forte dell’Ump vede in caduta libera la propria popolarità e teme per le prossime elezioni egli stesso è andato a cercarsi. Le critiche dei socialisti in Francia, così come dei rappresentati della comunità zigana devono far riflettere.“Si tratta di una dichiarazione di guerra”, hanno detto questi ultimi. L’Eliseo è passato alle maniere forti senza confrontarsi con i suoi partner dell’Unione europea per come gestire una crisi che riguarda due problemi comunitari urgenti: l’integrazione razziale e la convivenza delle minoranze etniche. Parigi rischia di creare una frattura con i
tano circa lo 4,1% della popolazione (7 milioni di abitanti).Tuttavia nel 2009 l’economia bulgara è stata investita da un’impennata di disoccupazione (9,1%, con tre punti in più rispetto all’anno precedente), che automaticamente ha implicato l’aumento di emigranti verso il cuore dell’Europa. Poncins, insieme all’ambasciatore italiano Stefano Benazzo, ha visitato i campi e le scuole della comunità nomade che ancora vive in Bulgaria e ha cercato di instaurare un dialogo pro-
Sembra senza fine l’affaire Bettencourt
La pietra dello scandalo Lilliane Bettencourt è nata a Parigi nel 1922, figlia di André, il fondatore della grande casa di prodotti di bellezza L’Oréal, uno dei giganti dell’economia francese.Titolare ancora oggi del 27,5% dell’azionariato di questa multinazionale, madame Bettencourt è la donna più ricca di Francia. Forbes ha stimato un capitale personale di circa 22 miliardi di dollari. In questo momento però gioca lo scomodo ruolo di primadonna nello scandalo finanziario che rischia di fra crollare anche la presidenza Sarkozy. Una serie di rivelazioni, da parte dei più stretti collaboratori della Bettencourt, ha richiamato l’attenzione della magistratura transalpina. Secondo le indagini, nel 2007 la L’Oréal avrebbe messo a disposizione dell’at-
tuale Presidente della Repubblica circa 150mila euro. Per quanto la cifra sia irrisoria, si tratterebbe di un finanziamento illecito al partito di governo, l’Union pour un mouvement populaire (Ump). Nello scandalo sono coinvolti i più alti esponenti dell’attuale esecutivo. Ieri gli inquirenti di Nanterre hanno interrogato per nove ore il Ministro del Lavoro, Eric Woerth, ritenuto uno dei primi responsabili dello scandalo. Woerth è ritenuto il tramite fra il potere e la L’Oréal. All’epoca dei fatti egli era Ministro del Bilancio. Sua moglie invece, Patrice de Maistre, era una dipendente della Clymène, società partecipata dalla L’Oréal. Il sospetto è che proprio attraverso questo intreccio sia passata la tangente in favore di Sarkozy.
duttivo, affinché siano i rom per primi a contenere le derive criminali presso i loro gruppi. Ora questi sforzi rischiano di crollare.
La Francia in realtà non rappresenta una nuova frontiera per il nomadismo. Le gens du voyage, secondo la dizione attribuita loro nel 1969, sono circa 400 mila, distribuiti in comunità a sé stanti su tutto il territorio nazionale. Le carovane dei rom raggiunsero la Francia secoli fa. Stanziarono nella Camargue e poi si spostarono verso la Spagna. Oggi l’aumento delle tensioni presso questa realtà etnica – emarginata sì rispetto alla società civile europea, ma a essa comunque parallela – è data dall’aumento di stranieri al suo interno. I nomadi giunti dai Balcani sono spesso musulmani oppure cristiano-ortodossi. La loro confessione religiosa mal si concilia sia con il cattolicesimo radicato nella campagna francese, sia con quello professato dagli stessi rom transalpini. La decisione dell’Eliseo rischia di sfociare in uno scontro etnico dai caratteri continentali e non solo francesi. È vero che ieri la Commissione europea non ha perso tempo nel dare il suo ok alla scelta della Francia di sgomberare i campi illegali, in difesa della sicurezza nazionale. Non si può sottovalutare però la sensibilità che le minoranze etniche sanno infondere presso il parlamento Ue e le organizzazioni impegnate nei diritti umani. Un secondo pericolo potrebbe essere il coinvolgimento risentito delle comunità zingare in altri Paesi, per esempio in Germania e in Italia. Quella di Parigi appare come una mossa populistica voluta espressamente da un Sarkozy in calo di consensi. Le ombre di fondi neri messi a disposizione da Liliane Bettencourt, la proprietaria dell’impero di cosmesi L’Oreal, per la campagna presidenziale del 2007 è l’ultimo atto di una serie di scivoloni commessi dal capo dell’Eliseo. Il 14 luglio, il presidente francese era stato criticato anche per la presenza sul palco delle autorità di alcuni rappresentanti di governi africani sulla cui trasparenza e democrazia nessuno potrebbe scommettere. La crisi economica e le misure di ripresa inoltre non hanno soddisfatto l’elettorato. Possibile quindi che Parigi abbia adottato la questione sicurezza come volano per riconquistare il consenso del nazionale, centro-destra prendendo i rom come capro espiatorio.
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La risoluzione (non vincolante) è stata adottata dopo 15 anni
Teheran si impegna a sostenere economicamente le famiglie
L’Onu decide che l’acqua è uno dei diritti dell’umanità
Ahmadinejad: «Vogliamo raddoppiare la popolazione»
NEW YORK. L’accesso all’acqua potabile è uno dei diritti fondamentali dell’intera umanità, rientra di diritto nel novero dei diritti umani. Lo stabilisce una risoluzione delle Nazioni Unite, approvata nella notte di ieri dall’Assemblea generale dopo più di 15 anni di dibattiti. Il documento, non vincolante, era stato presentato dalla Bolivia ed è passato con il voto a favore di 122 Paesi, nessun contrario e 41 astensioni. Nel testo si afferma che «l’accesso a un’acqua potabile pulita e di qualità, e a installazioni sanitarie di base, è un diritto dell’uomo, indispensabile per il godimento pieno del diritto alla vita». E si invitano gli Stati e le organizzazioni internazionali ad adoperarsi per fornire aiuti finanziari e tecnologici ai Paesi in via di sviluppo, esortandoli ad «aumentare gli sforzi affinché tutti nel mondo abbiano accesso all’acqua pulita e a installazioni mediche di base».
TEHERAN. Il presidente Ah-
L’inserimento nella dichiarazione dei diritti umani è un passo decisivo per affrontare la questione sempre più urgente della mancanza di risorse idriche sufficienti per centinaia di milioni di persone. Secondo le stime dell’Onu, ogni anno un milione e mezzo di bambini
Hormuz, fitto mistero sulla nave colpita La petroliera «attaccata da razzi o sommergibile» di Aldo Bacci uel che accade nello Stretto di Hormuz è destinato ad alzare sempre un velo di nebbia. Non certo per il clima di quella zona, ma perché è un passaggio talmente strategico con una situazione talmente delicata che si ha paura anche delle ombre. È anche il caso dei danni alla petroliera giapponese M.Star, cu cui ieri, dopo l’esame in porto, si è riaperto il giallo. All’inizio si era pensato a un attacco, poi a un’onda anomala, ora si parla di collisione o dell’esplosione di una mina. Comunque problemi. Martedì una specie di esplosione è avvenuta a bordo della petroliera, di proprietà della società giapponese Mitsui O.S.K Lines LTD, mentre navigava al largo delle coste dell’Oman, all’altezza dello stretto di Hormuz. Uno dei marinai è rimasto ferito, ma poco altro. La nave ha deciso di cambiare rotta e di ritornare nel porto di Fujairah negli Emirati Arabi Uniti, scortata dalla marina militare emiratina, per riparare i danni prodotti dalla deflagrazione e per far curare il ferito. In un primo momento il ministero dei trasporti giapponese ha riferito che l’esplosione potrebbe essere stata creata da un attacco esterno: «Dal momento che uno dei membri dell’equipaggio ha visto un lampo all’orizzonte immediatamente prima dell’esplosione, la società sospetta che sia probabile un attacco». Poi però l’equipaggio ha comunicato all’autorità aeroportuale degli Emirati Arabi Uniti che a colpire la gigantesca nave-cisterna sarebbe stata una gigantesca onda anomala. Ora il giallo si riapre, dato che ieri il direttore del porto di al-Fujeira ha dichiarato che «L’esplosione, avvertita l’altro ieri notte su una petroliera giapponese mentre attraversava lo stretto di Hormuz, è stata causata da un ordigno o dalla collisione con un sottomarino». Togliendo attendibilità all’ipotesi dell’onda causata da un terremoto, il direttore ha però precisato che «al momento stiamo facendo solo ipotesi e ufficialmente la causa della deflagrazione è ancora sconosciuta». Washington ha subito fatto sapere che
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nessuna delle sue navi era in zona. La delicatezza dello Stretto di Hormuz ha fatto subito pensare, con timore, a varie ipotesi comunque imbarazzanti, come appunto il coinvolgimento della flotta Usa. Ma certo anche mine sulle rotte non sarebbero una bella notizia. Il primo scenario a cui si era fatto riferimento è un attacco dei pirati, i quali operano pericolosamente più a sud, nel Golfo di Aden, ma allargano sempre più la loro sfera di azione: se raggiungessero davvero lo Stretto di Hormuz metterebbero definitivamente a repentaglio l’intero sistema economico internazionale.
L’altro problema è il terrorismo di stampo qaedista, che spesso ha preso di mira impianti petroliferi. Ultima più remota ma temuta minaccia è la tensione nel Golfo Arabico, con l’Iran che più volte ha minacciato di “chiudere”il passaggio strategico. al Qaeda e pasdaran sono subito stati accusati dal sito Debkafile. Secondo l’Amministrazione per l’informazione sull’energia degli Stati Uniti, per lo stretto di Hormuz passa il 40% del petrolio mondiale trasportato via mare e il 20% di quello trasportato complessivamente. Lo stretto di Hormuz collega l’Oceano Indiano e il Golfo dell’Oman con il Golfo. La costa nord è in Iran, quella sud negli Emirati arabi uniti e nell’enclave dell’Oman di Musandam. Nel punto più stretto è largo 21 miglia marine. È l’unico collegamento marittimo fra i ricchi giacimenti petroliferi del Golfo e il resto del mondo, passaggio obbligato per le petroliere. Ogni giorno viene attraversato in media da 15 petroliere, che trasportano da 16,5 a 17 milioni di tonnellate di greggio. A sua volta dà accesso al Golfo di Aden, da cui transitano ogni anno 22mila navi da e per l’Oceano indiano, trasportando l’8% delle merci mondiali. I corridoi di transito per le navi nello Stretto di Hormuz passano in acque territoriali dell’Oman e dell’Iran. La V Flotta degli Stati Uniti pattuglia il Golfo da una base in Bahrein anche per garantire il traffico petrolifero.
Si riapre il caso del cargo: prima missile, poi onda anomala, ora di nuovo missile. E lo Stretto diventa sempre più importante
sotto i cinque anni muore per malattie legate alla carenza d’acqua o di strutture igieniche. E nel testo della risoluzione si afferma che 884 milioni di persone non hanno accesso all’acqua potabile e 2,6 miliardi vivono in condizioni igienico-sanitarie insufficienti. Fra le nazioni che si sono astenute gli Stati Uniti, il Canada, il Regno Unito, l’Australia: a loro parere la risoluzione potrebbe minare l’iter in corso a Ginevra presso il Consiglio dei diritti umani per costruire un consenso sui diritti legati all’acqua. E non c’è dubbio che la decisione porterà scompiglio anche nei Paesi del Medioriente, dove l’acqua è rara ed estremamente preziosa.
madinejad vuole raddoppiare la popolazione dell’Iran, portandola dagli attuali 75 milioni a 150 milioni. È questo lo scopo dichiarato della politica approvata da Teheran il 27 luglio, che prevede aiuti finanziari per le famiglie che avranno figli durante l’anno in corso (cominciato per il calendario iraniano il 21 marzo scorso). Ad ogni famiglia cui nascerà un nuovo figlio saranno versati 950 dollari in un conto governativo. Ogni anno lo Stato addebiterà nel conto altri 95 dollari, fino a che il figlio non raggiungerà i 18 anni. Una volta raggiunto il 20mo compleanno, il denaro potrà essere ritirato e usato per educa-
zione, matrimonio, salute o per comprare una casa. «Coloro che sostengono la pianificazione familiare, pensano con i criteri del mondo laico» ha detto il presidente iraniano presentando l’iniziativa e opponendosi alla vecchia politica iraniana “di importazione occidentale”. Nel 1970 l’Iran ha lanciato una forte campagna per ridurre la natalità, con lo slogan “Due figli sono sufficienti”. Dopo la rivoluzione islamica del 1979, la campagna di controllo sulla popolazione è stata invertita, per poi essere ripristinata 10 anni dopo, quando l’economia ha cominciato a vacillare sotto il peso del crescente numero di abitanti.
Negli anni Novanta, Teheran ha ridotto le nascite incoraggiando l’uso di contraccettivi, portando il tasso di natalità dal 3,9 (1986) all’1,6 per cento (2006). Fin dalla sua prima elezione nel 2005, Ahmadinejad ha sostenuto l’aumento delle nascite. Il presidente iraniano non ha però rivelato dove troverà i soldi per rendere effettiva la manovra e c’è il timore che in futuro la disoccupazione possa crescere oltre il 10 per cento attuale a causa della nuova politica.
cultura
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L’intervista. Esce “Corrispondenze”, una raccolta di scritti dello storico e critico musicale Mario Bortolotto
Gli affondi dell’onnisciente Così lo definisce il suo editore, Roberto Calasso. Anche se lo studioso avrebbe preferito fare l’attore di Jacopo Pellegrini n libro nuovo di Mario Bortolotto è una lieta sorpresa, una festa per la mente, lo spirito e gli occhi (la consueta eleganza cromatica dei Saggi Adelphi tocca coll’amaranto tendente al magenta di queste Corrispondenze un vertice finora inattinto, forse inattingibile); è l’incontro con un vecchio amico, che torna a farci visita con regolarità. La cadenza dei progetti editoriali portati a compimento dallo storico e critico musicale romano d’adozione ma friulano di nascita, si è a lungo attestata su due a decennio: così fu negli anni Sessanta del Novecento (Introduzione al Lied romantico e Fase seconda, a cui potremmo aggiungere il lungo testo, quasi una monografia, su Petrassi e la traduzione-curatela del Wagner di Adorno), negli Ottanta (Consacrazione della casa, una raccolta di saggi dedicati all’opera in musica, e la versione riveduta e corretta del Lied romantico, colla sacrosanta palinodia su Richard Strauss), nei Novanta (Dopo una battaglia, Est dell’Oriente); ma ec-
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La copertina della raccolta di saggi di Mario Bortolotto appena pubblicata da Adelphi (511 pagine, 36,00 euro). A sinistra, un’immagine dell’autore
Musicisti ma non solo...
Articoli per quotidiani e riviste, programmi di sala e altri saggi compongono questa silloge dedicata alle avventure musicali dell’Ottocento europeo. Con la consueta attenzione per la scrittura, il senso del gusto e dell’ascolto e l’inclinazione spiccata per gli aneddoti co, col nuovo secolo, un’impennata: siamo passati a quota tre (Wagner l’oscuro, La serpe in seno - su Strauss - e queste ultimissime Corrispondenze), senza tener conto delle ristampe toccate al Wagner di Adorno (Einaudi) e a Fase seconda (Adelphi). La scelta delle metafore iniziali, ne convengo, non è delle più preziose e rare (la sorpresa, la festa…); e qualcuno potrebbe forse eccepire che parlare di Bortolotto, raro esempio di Sior Todaro Brontolon, personalità scontrosa burbanzosa sbuffante, come d’un amico sia quantomeno temerario. Eppure, credetelo, non pochi lettori senza volto e senza nome a ogni sua comparsa in libreria vanno soggetti a un fenomeno che credo non sia mai stato osservato in riferimento a scritti di argomento musicale: a una febbricitante attesa, segue una lettura famelica, un completo appagamento intellettuale, infine una gratitudine sconfinata espressa all’autore, via lettera o via telefono, da emeriti quanto commossi sconosciuti («un gesto cortese, perfettamente lecito - commenta l’interessato, però stravagante. Dev’essere gente che ha tempo da perdere»). Per l’appunto un’amicizia salda, basata sulle ragioni essenziali profonde immutabili della consonanza spirituale (a parte il fatto che l’uomo Bortolotto sa poi essere un amico attento e assiduo, senza invaden-
ze di sorta). Soddisfazione e conoscenza, sono risultati che il fruitore-tipo del Bortolotto-pensiero il più delle volte è in grado di conseguire solo dopo sforzi non indifferenti. D’altra parte il Nostro non ha mai fatto mistero della sua massima: guai a facilitare chi legge! Sennonché, sorpresa ancor più lieta, la reazione d’uno tra i dedicatari di queste Corrispondenze, a sua volta collaboratore storico e apprezzatissimo di liberal, Pietro Gallina, sembra certificare l’esatto contrario. Sfogliando con voluttà la copia appena ricevuta in dono, il mitico Poule (per gli amici, e per Bortolotto in ispecie) avrebbe esclamato: «Ma si capisce tutto!». Una grande novità sul piano ricettivo: il Verbo bortolottesco spiegato al popolo, frotte illimitate di acquirenti che si affacciano all’orizzonte. Gliel’auguriamo di cuore. Anche se poi l’affermazione non appare del tutto vera. Almeno non sempre. Qualche passaggio ostico permane, quantunque molto meno che in passato. L’origine elzeviristica, divulgativa di questa silloge (programmi di sala per teatri, articoli per quotidiani e riviste, specialistiche e non, contributi per cataloghi di mostre) ha di necessità illimpidito i grumi del ragionamento e della sintassi, senza con ciò incidere sulla qualità e quantità del “messaggio”, tanto meno sulla paletta lessicale. A mutare è
stata la dispositio, non la sostanza del pensiero. La sintesi e la perspicuità imposte dalla goethiana “domanda del giorno” pare acuiscano l’estro e l’intelligenza di Bortolotto. Il quale, parlando di altri, ma riferendosi anche a se stesso, ebbe a scrivere oltre quarant’anni fa: «Lo storico (della musica, ma non solo, ndr) avrebbe a essere uno scrittore, nella piena accezione del termine». La sua è una lingua al tempo stesso “speciale”(in quanto impiegata per “raccontare” una forma d’arte, per fare critica) e “specialissima” (nel senso di originale, dotta, raffinata, compiaciuta persino), che per vie ideali e concrete si riallaccia a modelli aurei, Longhi Contini Manganelli: «Tutte le persone che s’incontrano - assicura Bortolotto possono essere maestri. Nessuno però mi è mai piaciuto a tal punto da imitarlo. Ho sempre trovato essenziale il fascino della scrittura. Rammento ancora il sincero entusiasmo che destò in me la scoperta delle cronache musicali firmate da Giorgio Vigolo sul Mondo. Alcuni di questi pezzi resistono ancora benissimo al passare del tempo». Con Manganelli, a mio parere l’ispiratore supremo, Bortolotto condivide il dono per l’aforisma che sintetizza e illumina un argomento, per l’affondo ironico, graffiante. Ecco la raffigurazione dell’ultimo Berlioz: «Chiuso ormai in un so-
Sopra, in senso orario, alcuni musicisti oggetto degli studi di Bortolotto: Brahms, Puccini, Schubert e Wagner. Sotto (sempre in senso orario), il pantheon elettivo del critico musicale: Nietzsche, Strawinsky, Adorno e Karl Kraus in un ritratto
cultura un pianoforte. Lo insegnava la classica signorina, l’unica figlia della mia maestra.Tutti nella mia famiglia erano musicofili, mia cugina suonava con perizia, insieme abbiamo letto una valanga di riduzioni a quattro mani. Dopo un po’ che si è iniziato a suonare, continuare diviene inevitabile, se interviene l’amore per lo strumento, per la musica. Certo ci sono alti e bassi, momenti di disperazione (le Invenzioni a tre voci di Bach all’inizio mi sembravano insormontabili), ma un buon maestro garantisce all’allievo che verranno tempi migliori. Quando la sullodata signorina si trasferì a Genova, andai per breve tempo da un maestro di Conegliano, ma c’era la guerra e gli spostamenti impraticabili; poi, in campagna dov’eravamo sfollati incontrai una signora che aveva un pianoforte in casa: si rivelò un’eccellente insegnante e mi portò al diploma». Studi di composizione? «No, non ho mai sentito in me l’impulso creativo». E l’attività di musicologo? «Non so bene cosa significhi quella parola… Comunque, cominciai per conto mio scrivendo articoli immaginari e persino una monografia su Ravel, che ho saggiamente bruciato». Questo quando? «Negli anni dell’università (Bortolotto era iscritto a medicina, ndr), a Pavia. Le date esatte non le ricordo affatto, le trovo limitanti. Poco dopo conobbi Franco Donatoni, il compositore, che m’intro-
Schubert e Listz, Mendelssohn e Brahms, Schumann e Mahler, Verdi e Wagner. Insomma l’essenza del Romanticismo (con i suoi antecedenti e successori) è presa, in “Corrispondenze”, nella rete invisibile e segreta dei legami tra le cose. Quella foresta di simboli celebrata da Baudelaire gno mitico, il musicista prosegue imperterrito una rabbiosa inattualità» (p. 185); ed ecco come calare una pietra tombale sulla meritoria ma non impeccabile ripresa di un’opera sconosciuta: «Salva la qualità della edizione lisboeta (al Teatro São Carlos era stata posta in scena la rarissima Carodejka di Ciajkovskij, ndr), vorremmo una ripresa in un grande teatro». Una perfidia coi fiocchi, senza dar troppi sospetti. La neutralità puramente descrittiva del titolo apposto al presente volume (corrispondenze = resoconti giornalistici) allude in realtà a un magma ribollente di amori e predilezioni forsennate, quelle nutrite dal firmatario per le avventure musicali dell’Ottocento europeo, per «l’essenza celeste della Romantik» (Schubert e Liszt, Mendelssohn e Brahms, Schumann e Mahler, Verdi e Wagner, e i francesi, e i russi), coi suoi antecedenti (da Gluck, Mozart, Cherubini, Rossini, confinato nei recinti del Bello Ideale e dell’opera buffa, a Beethoven, ricondotto con ardimento e lungimiranza ai princìpi del romanticismo) e i suoi successori sotto forma di continuità o di opposizione (Stravinskij tra tutti). Insomma, in queste Corrispondenze occorrerà piuttosto riconoscere la rete invisibile e segreta dei legami tra le cose, la foresta di simboli celebrata da Baudelaire. Dalla lista degli omaggiati con scritti ora più ora meno lunghi (due i tagli principali: intorno alle sei pagine e intorno alle tredici, con qualche contrazione ed espansione) manca tuttavia un nome amatissimo, Giacomo Puccini. La conversazione con Bortolotto prende il via da quest’assenza: «Ho fatto una scelta, ecco tutto. Ma non ho alcuna intenzione di annullare i miei interventi su di lui. In Consacrazione
della casa ho ristampato quello su Madama Butterfly, che a suo tempo destò tante discussioni per l’errata interpretazione di un passo». Quale criterio è stato seguito nel selezionare i testi? Sono i prediletti, i più riusciti? «Non direi che il piacersi sia una faccenda oggettiva. Io non mi piaccio mai. E d’altra parte, l’idea di raccogliere i miei articoli non mi attraeva granché, ero molto incerto. Alla fine mi sono lasciato convincere, lo fanno tutti facciamolo anche noi…». Ne seguirà un altro? «Col tempo e colla paglia, chissà…». Io penso proprio di sì, e prima di quanto ce l’aspettiamo… «Nello scrivere di musica il difficile sta nel trovare un punto di convergenza coll’oggetto di cui ci si vuole occupare. Il lessico, la sintassi non sono elementi neutri, ma devono aderire al contenuto, ai modi d’espressione: parlare di Chopin, quintessenza dell’eleganza e dello snobismo (ecco un perfetto aforisma verbale, ndr), colla lingua di un reporter sportivo o di un notista politico sarebbe raccapricciante». Come avvenne il primo accostamento alla musica? «Occorrerebbe stabilire se sono stato io ad avvicinarmi alla musica o la musica a me. Bambino, a Pordenone, sono stato messo davanti a
dusse alla Nuova musica e m’invitò ad andare a Darmstadt a seguire i corsi estivi di analisi e composizione. Fu là che incontrai vari esponenti della cosiddetta Avanguardia, Boulez, Kagel, Nono, Clementi, Castiglioni,Togni, destinati a diventare oggetto d’indagine e, in qualche caso, amici. Fu sempre Donatoni a offrirmi di scrivere un libro per una collana di cui si occupava presso Ricordi: io ne proposi uno sul Lied. La prima edizione era gremita di refusi…». Ma si ebbe una recensione favorevolissima di Vigolo… «Sì. Tra noi doveva esserci una simpatia reciproca, io almeno la sentivo molto per lui». E le esegesi dei musicisti contemporanei come nacquero? «Su loro richiesta (è il caso di Petrassi) o come naturale conseguenza dei nostri rapporti personali, del mio vivo interesse per la loro produzione». E fu così che Bortolotto ne divenne l’aedo, il vate. «Sono categorie in cui non mi riconosco. Non mi sono mai sentito il loro esegeta ufficiale, talvolta ne ero amico, conoscevo piuttosto bene le loro opere, nulla più. In quegli anni organizzavo anche una rassegna dedicata alla Nuova musica nell’ambito del Festival pianistico di Bergamo e Brescia: giornate erano molto dense, molto accese; si avvertiva, a quel tempo, una forte partecipazione emotiva, applausi fischi lotte discus-
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sioni. Oggi sono pochissimi i compositori che possono reggere il paragone colle personalità d’allora, sono intervenute altre maniere, e a me la musica senza problemi - per citare Boulez non interessa». A pagina 153 s’incontra una quadrinità che potrebbe rappresentare il pantheon di Bortolotto: Nietzsche, Karl Kraus, Stravinskij (che il Nostro si ostina a scrivere Strawinsky, riproponendo la firma del musicista, ndr), Adorno… «Sì, in parte. Sono tutte figure centrali della cultura moderna. La lezione di Kraus oggi mi sembra appannata, quella di Adorno no di certo. Ecco, di lui posso dire ch’è stato un maestro, anche se delle sue tesi essenziali non ne condivido più una. Le sue riflessioni fornivano una chiave magica che apriva tante porte; quello su Mahler resta un testo sensazionale» (e parte la citazione a memoria di un frammento sulla Nona Sinfonia). «Alcune opere di Stravinskij risultano piuttosto deboli, specie quelle del periodo americano, ma gli scritti - i dialoghi con Craft, i libri a sua firma - denotano grande profondità. Mi piacerebbe fare uno studio approfondito sulla Poetica della musica, tornare sulla nota questione della sua stesura, quanto è di Stravinskij, quanto dei suoi collaboratori, quali le fonti estetiche a cui essi attinsero». Se la definizione della musica come «dialettica di struttura e materiale» (pagine 55 e 80) si riallaccia agli antichi commerci colla Nuova musica, estranee a essa sono di sicuro la categoria del gusto, quella dell’ascolto, e l’inclinazione spiccata per gli aneddoti : «possono essere illuminanti, quand’anche non autentici. Diceva Mérimée“nella storia non amo che gli aneddoti”». «L’articolo riportato nel libro al quale sono più legato è quello su Montale critico e appassionato di musica. L’incontro con Montale è stato tra le sorprese più gradevoli riservatemi dalla vita. Era simpatico, incantevole, intelligentissimo». Oltre ad aver cantato tra le calli di Venezia il duettone della verdiana Forza del destino insieme al poeta laureato, Bortolotto si è anche esibito accanto a Gabriele Baldini: «Fu a Roma, in Piazza del Tritone, dov’è la fontana del Bernini. Avevamo bevuto un pochino troppo. Attaccò Verdi, aveva una bella voce, io mi limitai a fargli da pertichino. Comunque, più che cantare o suonare, il mio sogno sarebbe stato fare l’attore», e giù coll’Amleto, la voce che vibra, gli occhi che brillano. Come gli capita solamente davanti a un piatto di risotto alla milanese ben fatto, a una pagina di alta letteratura, a un quadro eccelso («quanti chilometri percorsi a piedi nei musei, solo all’Ermitage sono quattordici. E tuttavia…»). Giacché Bortolotto non risparmia «una svista, o un lapsus» (pag. 424) all’adoratissimo Fedele d’Amico e allo stesso Montale, concluderò notando la presenza di pochissimi refusi (ma quello a pag. 26 - invece del Motzart usato da Da Ponte troviamo il corretto Mozart - rischia di rendere incomprensibile una chiosa sulla «grafia del cognome») e di qualche imprecisione, che tacerò per evitare rappresaglie. Ma se, come sosteneva d’Amico, «i libri sono fatti di errori», si ammetterà facilmente che in un’opera di 513 pagine sette, otto inciampi sono inezie. E, concedetemelo, beccare in castagna l’«onnisciente» (così Calasso di Bortolotto) dà a tutti noi fallaci singolari consolazioni.
spettacoli
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ra gli oltre 330 festival cinematografici italiani e esteri di tutto il mondo (compresi quelli su internet!) dedicati ai temi più vari, dall’arte ai diritti umani, dalla filmografia umanitaria a quella d’amore, dalla “produzione mondiale non legata alle logiche di mercato” al cinema d’animazione e videogame, tra tutti questi, dunque, ne troviamo solo otto consacrati alla montagna: quattro in Italia, e uno rispettivamente in Svizzera, in Austria, in Canada e, a cadenza biennale, a Kathmandu, in Nepal.
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Tra le rassegne italiane si terrà, dal 30 luglio all’8 agosto, a Valtournenche (e a BreuilCervinia nei primi due giorni), in Valle d’Aosta, la XIII edizione del Cervino CineMountain, Festival Internazionale del Film di montagna, una manifestazione che vuole riproporre all’attenzione degli amanti della natura e dell’ambiente il meglio della cinematografia specializzata. Promosso dal Comune di Valtournenche e organizzato dall’Associazione culturale strade del Cinema, il Cervino CineMountain è presieduto da Antonio Carrel, ex sindaco di Valtournenche e guida storica del Cervino, con il contributo di Luisa Montrosset, responsabile delle collaborazioni e delle partnership alla manifestazione, e Luca Bich, regista e esperto conoscitore della filmografia di montagna. Il Festival, che ama definirsi come «il più alto d’Europa», sarà, come nelle precedenti edizioni, suddiviso in quattro sezioni: “Cervinia mon Amour”, dedicata allo sci in ogni epoca ai piedi del Cervino, “Antropomount”, consacrata al nuovo concetto storico-antropologico di “bio-verticalità” (riflessione sul rapporto dell’uomo con la verticalità),“festival Concorso”, nocciolo della manifestazione con proiezioni della filmografia di montagna spesso segregata lontano dai circuiti usuali, e l’“Espace Montagne”, spazio consacrato alla libreria e all’emeroteca con pubblicazioni specialistiche e incontri degli autori con il pubblico. Qualche piccolo saggio di quanto ci riservano i dieci giorni. La prima giornata (30 luglio) di “Cervinia mon Amour”, destinata ai personaggi “della montagna”, sarà riservata quest’anno alla “valanga rosa” di ogni epoca, dalla prima campionessa italiana di sci degli anni Quaranta, Celina Seghi, alle olimpioniche dei nostri tempi, fino a Isolde Kostner. Le campionesse, mimando lo “walk of Fame” sull’Hollywood Boulevard di Los Angeles, lasceranno le loro orme a BreuilCervinia, inizio di una serie, per la futura realizzazione della “promenade”dei grandi dello sci e dell’alpinismo di ogni tempo. Il secondo giorno, sempre a
Kermesse. Al via da oggi a Valtournenche il “Cervino CineMountain”
Il Festival più alto di tutta Europa di Dianora Citi Breuil-Cervinia, sarà riservato all’omaggio a padre Alberto De Agostini, a 50 anni dalla scomparsa, fratello del cartografo e cofondatore della casa editrice De Agostini, un salesiano consumato dal fuoco della fede e dell’esplorazione nonché dell’alpinismo. Curiosa la vita di padre Alberto: inviato in Cile nel 1910 come educatore nella casa salesiana di Punta Arenas, dedicò la vita a descrivere le montagne e i luoghi ancora
mota montagna nella Terra del Fuoco, nell’imperversare del maltempo che gli rese impossibile l’impresa. Ci riprovò nel 1956 a 73 anni, organizzando felicemente una spedizione con Clemente Maffei Gueret e Carlo Mauri.
La stessa sera dell’omaggio a De Agostini, in onore e in ricordo di Guido Monzino, in occasione dell’istituzione del primo premio Monzino, dedicato
espressamente alle guide, saranno premiati Marco e Hervè Barmasse, di Valtournenche, e i fratelli Anthamatten di Zermatt «per essersi distinti nella loro attività professionale ed esplorativa». Il mondo delle guide, alpine e artiche, in questi ultimi anni, con le numerose disgrazie dovute all’imperizia dei frequentatori estivi e invernali delle cime montuose, è stato più volte messo sotto accusa. Il premio si ispira non
Sarà suddiviso in quattro sezioni: “Cervinia mon Amour”, dedicata allo sci; “Antropomount”, alla “bio-verticalità”; “festival Concorso”, con proiezioni di film lontani dai circuiti usuali; “Espace Montagne”, consacrato a libreria e emeroteche sconosciuti della Patagonia, ben prima dei vari Chatwin o Sepùlveda. Padre “Patagonia” (così fu soprannominato) è autore di ben 22 libri (la maggior parte geografici) e innumerevoli fotografie: a 100 anni dalla scoperta di quei luoghi gli scatti originali dei primi anni del Novecento in Terra del Fuoco saranno in mostra a Valtournenche presso la sezione l’“Espace de Montagne”. Per terminare le curiosità su padre De Agostini, nel 1913 tentò invano l’ascesa al Sarmiento (2.245 metri), re-
Si apre ufficialmente oggi a Valtournenche, e terminerà il prossimo 8 agosto, il “Cervino CineMountain”, Festival Internazionale del Film di montagna. La kermesse è promossa dal Comune di Valtournenche, organizzata dall’Associazione culturale strade del Cinema, il “Cervino CineMountain ” e presieduta da Antonio Carrel, ex sindaco di Valtournenche e guida storica del Cervino
a caso al milanese Guido Monzino, membro della famiglia che negli anni Trenta fondò i magazzini Standa: egli scoprì la sua passione per l’avventura nel mondo “del freddo” negli anni Cinquanta (era nato nel 1928) grazie ad Achille Compagnoni (residente a Cervinia e deceduto nel maggio 2009) con cui iniziò la sua formazione e la sua esperienza scalando il Cervino. Monzino in seguito fu responsabile di ben 21 spedizioni in tutto il mondo, dall’Everest (realizzò la prima ascensione italiana) alle Ande,
dall’Himalaya alle montagne africane fino alla Groenlandia e all’Artico. Fu noto soprattutto per la meticolosità della sua organizzazione e la perizia tecnica con cui era solito preparare personalmente i propri viaggi, studiando in tutti i dettagli gli aspetti legati alla logistica e all’equipaggiamento, riducendo in tal modo i rischi nel raggiungimento delle mète fissate.
Innegabile la solidità di tutto il programma filmico, che vedrà una selezione di ben 34 lungometraggi rappresentanti del meglio della filmografia di montagna, prodotta non più di tre anni fa. Sarà inoltre assegnato l’Oscar degli Oscar di montagna, il Grand Prix Festival, riconoscimento al migliore dei film vincitori tra i festival di cinema di montagna del mondo. Tra le star dell’alpinismo presenti Walter Bonatti, che racconterà il “suo” Cervino. Una splendida chiusura l’8 agosto: l’ultima giornata sarà dedicata ad un animale emblematico della vita di montagna: la mucca. Alle 21 nella piazza della Chiesa, come per il festival di Locarno nella Piazza Grande, sarà proiettato, nella sezione “Vachement Votre: HomMage à la vache d’ici et d’ailleurs”, il film La vacca e il prigioniero di Henri Verneuil (1959), con Fernandel, soldato francese prigioniero dei tedeschi che organizza la fuga dall’azienda agricola, dove è costretto a lavorare, fingendo di condurre al pascolo la sua mucca. L’anno prossimo sarà dedicato all’asino, altro animale che in montagna è stato il simbolo degli alpini e con loro protagonista della nostra grande guerra?
spettacoli
29 luglio 2010 • pagina 21
Musica. Da poco uscito in Italia, il nuovo album di Ligabue “Arrivederci, Mostro!” convince e scala le classifiche
Nuovi sogni di Rock’n’Roll di Matteo Poddi ostro, ultimamente, sembra essere la parola più usata nel mondo della musica sia nazionale sia internazionale. È stata scelta per il titolo del suo nuovo album anche da Ligabue che, però, non è esattamente il tipo di cantante che si lascia guidare dalle mode del momento. Ligabue, infatti, è riuscito nell’intento, sempre più difficile da attuare, di rimanere coerente nel corso degli anni rimanendo sempre e comunque fedele a se stesso a costo di correre il rischio di sembrare ripetitivo. Ma in realtà quella che può essere scambiata per un certa ridondanza dei testi e delle musiche è nient’altro che l’esaltazione dello stile unico del cantautore, scrittore, regista, sceneggiatore e chitarrista di Correggio. Il suo nuovo album di inediti, il nono registrato in studio, si chiama Arrivederci, Mostro! ed è uscito a maggio a cinque anni di distanza dal precedente Nome e Cognome. Si tratta di un album che esce esattamente vent’anni dopo il suo disco di esordio Ligabue, pubblicato nel maggio del 1990. Un album importante che segna un momento fondamentale nella lunga carriera dell’artista. L’idea per la copertina di Arrivederci, Mostro! è stata ispirata da Fishy Island di Erik Johansson ed è stata realizzata da Paolo De Francesco. Se qualcuno gli chiede di spiegare il titolo per Luciano la risposta è semplice: «Ognuno di noi ha i propri mostri, i propri fantasmi. Li si possono chiamare ossessioni, paure, condizionamenti, senso di inadeguatezza, aspettative e chissà in quali altri modi ancora. Sappiamo, però, che sono vivi e sono il filtro attraverso cui chiunque matura la propria, personale visione del mondo. Credo di conoscere abbastanza bene i miei “mostri”, mi fanno compagnia da tanto tempo. Può darsi che sia anche per questa lunga frequentazione che ora, in questa fase della mia vita, mi sembrano meno “potenti” e “ingombranti”. Alcuni di loro li ho affrontati in questo album ma era solamente per fargli sapere che li stavo salutando. Loro come tutti gli altri. So benissimo che sarebbe fin troppo bello che fosse un saluto definitivo. Infatti non mi sono permesso di dire: “Addio, mostro!” ma un più prudente e realistico: “Arrivederci Mostro!”».
M
assorbe stimoli e spunti da tutto quello che lo circonda e li riversa nelle sue canzoni che, infatti, trasudano di vita e di emozioni. Già solo il titolo di quest’album porta a galla sensazioni positive come la voglia di giocare, di non prendersi sul serio e di affrontare la vita con leggerezza, energia e fiducia. E i 12 nuovi brani incisi da Ligabue riescono proprio a infondere ottimismo nell’ascoltatore. Sono freschi, autentici, genuini. Rappresentano le riflessioni di un uomo che ha avuto tanto, forse tutto, dalla vita ma che
gliandosi contro chi è bravo a giudicare e a mettere in cattiva luce gli altri. Il rock puro continua a scorrere nelle vene dell’artista con i brani Atto di fede e Un colpo all’anima, settima e ottava canzone dell’album, dove Ligabue coinvolge l’ascoltatore con dei riff incantevoli, ma più dolci e meno ruvidi.
Il testo della traccia Un colpo all’anima, che ha varato il disco come singolo, porta con sè un testo importante, dove la melodia segue le parole passo dopo passo. Si prosegue al ritmo di Il peso della valigia e Taca Banda, dove alcune sonorità e la ricerca di nuovi effetti negli strumenti fanno pensare a una voglia di modernità, malgrado rimangano nei testi gli elementi che contraddistinguono lo stile di Ligabue, il romantico con la chitarra. La voce roca e graffiante dell’artista continua a sposarsi perfettamente con la potenza dell’undicesima traccia titolata Quando mi vieni a prendere (Dendermonde, 23/01/09), penultimo brano del cd. Un’altra bella canzone che si arricchisce di me-
I 12 nuovi brani riescono a infondere ottimismo. Sono freschi, autentici, genuini. Rappresentano le riflessioni di un uomo che ha avuto tanto, forse tutto, dalla vita ma che continua a porsi domande e a cercare risposte
Questo album presuppone un’approfondita conoscenza di se stessi, del proprio carattere, delle proprie fragilità ma anche dei punti di forza sui quali investire energie e sforzi. Per questo Arrivederci, Mostro! si presenta come un frutto che è quasi in procinto di cadere dall’albero dal quale ha tratto il suo nutrimento. E l’albero di Ligabue è estremamente ramificato con le radici che si insinuano in vari tipi di terreno. Quello della musica ma anche quello del cinema e dell’arte. Ligabue, come una spugna,
continua a porsi domande e a cercare, affannosamente, delle risposte. Ad aprire la tracklist è Quando canterai la tua canzone, un brano adrenalinico, impetuoso, grintoso, sudato, gestito in maniera perfetta sia dal testo che dalla musica stessa, una canzone che s’infrange con irruenza ma anche con la bellezza dello stile di questo artista rock romantico. Un pezzo che si presta benissimo alla dimensione live che è fondamentale per il Liga nazionale. Non a caso i musicisti coinvolti nel progetto di Arrivederci, Mostro! sono gli stessi che hanno accompagnato il Liga in tour in questi ultimi anni: Michael Urbano (batteria), Kaveh Rastegar (basso), Fede Poggipollini (chitarre), Niccolò Bossini (chitarre) e Luciano Luisi (tastiere). A questi si aggiungono alcuni ospiti: il Solis Strings Quartet in Quando mi vieni a prendere, José Fiorilli alle tastiere e Lenny, il figlio undicenne di Luciano, alla batteria in Taca banda. La linea sottile e Nel tempo, secondo e terzo pezzo, sono contraddistinti da ritmi accelerati conditi da assoli di chitarra davvero azzeccati. E la chitarra elettrica è al protagonista indiscussa anche di pezzi quali Ci sei sempre stata, La verità è una scelta e Caro il mio Francesco. Quest’ultimo è un brano inedito per un artista come Ligabue che non è mai stato protagonista di sfoghi contro i colleghi o i sedicenti amici. Con questa canzone Ligabue, in un dialogo immaginario (ma nemmeno poi tanto) con Francesco Guccini, riesce a togliersi un bel po’ di sassolini dalla scarpa parlando chiaro e sca-
lodie rock esotiche e di un testo romantico, ingrediente immancabile; il tutto contornato dalla possente e precisa sezione ritmica. Chiude il cerchio la canzone Il meglio deve ancora venire, brano di buon gusto e di pregevole fattura, dove sia il testo che la melodia sprigionano energia e carisma da tutti i pori. Ligabue continua a fare emozionare i suoi ascoltatori come sempre. Questo album è perfettamente all’altezza delle aspettative che ha suscitato. È un disco che rappresenta una summa della discografia di un artista che non ha mai avvertito il bisogno di stupire a tutti i costi. Arrivederci, Mostro! Almeno fino al prossimo disco!
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE
La metastasi culturale della querela: si va in carcere per reato d’opinione Non solo in Iran o in Cina. Anche in Italia è possibile finire in carcere per reati d’opinione. È successo di recente al direttore responsabile del Giornale di Caserta, Gianluigi Guarino, arrestato per diffamazione a mezzo stampa. I reati d’opinione sono una categoria obsoleta, che colpisce e comprime la libertà di espressione. Dall’ingiuria alla diffamazione, dall’istigazione al vilipendio, questi reati non dovrebbero esistere in una democrazia liberale moderna. Dovrebbe bastare la giustizia civile, dove è l’offeso che ha l’onere di dimostrare il fatto e il danno subito. E soprattutto, non si dovrebbe mai finire in carcere per aver espresso un’opinione, per quanto ripugnante possa apparire ai più. Eppure non solo cittadini comuni e giornalisti sono condannati dalla giustizia penale per aver detto qualcosa, ma si moltiplicano le iniziative legislative per rendere ancora più facile la condanna, specialmente se l’opinione è espressa su Internet. Corollario di queste proposte liberticide è la dilagante cultura della querela: i politici querelano i politici invece di confrontarsi, le aziende querelano i consumatori che esprimono la loro insoddisfazione, i magistrati querelano i giornalisti che criticano il loro operato, e così via.
Pietro Yates Moretti
LO SFASCIO DELLA SANITÀ AL SUD È COLPA DELLA SINISTRA Lo sfascio della sanità prodotto dalla sinistra nel Mezzogiorno ha causato danni incalcolabili. La scellerata gestione del sistema sanitario dei vari Bassolino, Loiero, Vendola e compagnia, purtroppo, si ripercuote inevitabilmente sulla collettività che è costretta a pagare, in termini di maggiori tasse e di minore assistenza, colpe di amministratori incapaci e dediti solo alle clientele e alla spartizione di prebende. Per la quale oggi, però, quello che più preoccupa è il dato Svimez secondo cui al Sud una famiglia su cinque non ha i soldi per pagare il medico. È un dato che deve far riflettere e sul quale bisogna assolutamente individuare soluzioni per garantire a tutti, ad iniziare dai meno abbienti, la possibilità di farsi curare, senza avere la preoccupazione di non poter pagare lo
specialista. Invito il Pdl e i presidenti Caldoro (Campania) e Scopelliti (Calabria) a farsi carico di una problematica seria che la sinistra ha abiurato in nome del clientelismo e dell’affarismo. Noi siamo, senza se e senza ma, per difendere i più deboli e per adeguate politiche sociali.
Nunzia De Girolamo
La palma ti fa bella Questa bimba sta sfoggiando delle decorazioni tradizionali della sua popolazione, quella dei Pokot. Le donne di questo gruppo etnico (tra Kenya e Uganda) si adornano il collo con larghe collanine intrecciate con fibre di palma o altre piante locali. Il girocollo viene poi addobbato con bottoni e perline a seconda delle possibilità economiche
A CIASCUNO LE SUE OCCASIONI Le occasioni, si sa, sono da cogliere. Il 19 luglio di occasioni ce n’erano ben due. Una, a Palermo, dove si commemorava un martire dello Stato e della mafia. L’altra, a Milano, dove si premiava chi fa martire lo Stato con le mafie. Intorno alla prima occasione si è raccolte l’Italia che crede al potere dei valori, e dall’altra l’Italia che crede ai valori del potere. Questo spiega perché il governo, questo governo, a Palermo non c’era e a Milano sì. A Palermo si rimpian-
geva l’assenza di un servo dello Stato, a Milano si compiaceva chi si serve dello Stato. Da un lato cittadini ignoti dall’altro tutti i cortigiani devoti dai volti ben noti.
Gianfranco Pignatelli
RIFLESSIONI SUL FUTURO Il Novecento, l’attenzione alle economie e politiche di massa: con il materialismo ha sotteso l’uomo e il lavoro al bene prodotto e ai suoi profitti. Ora siamo nel
L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
Duemila, secolo dello spiritualismo come forza animosa, che si pone in una sintonia diversa con l’ambiente esterno e con il prossimo, attivando una sussistenza economica e alimentare diversa. Un tale processo trasformerà l’economia globale, portandola ad essere trainante per la democrazia dei popoli in difficoltà e non solo per la loro economia sommersa. Perché non essere ottimisti?
Bruna Rosso
dal “The Indipendent” del 29/07/2010
Il mondo multipolare secondo Cameron isogna dare i giusti riconoscimenti. David Cameron potrebbe essere leggermente troppo operativo nella sua corsa a fare affari con l’India – e potrebbe essere ipocrita chiedere all’India di aprire le sue porte al libero commercio mentre noi chiudiamo le nostre all’immigrazione – ma parlando in termini di politica estera britannica, va detto che il primo ministro ha preso la palla e sta giocando. Prima di essere eletto Cameron ha detto ch,e vuole portare via la nazione dall’eccesso di influenza che gli Stati Uniti operano sul loro partner junior, appunto l’Inghilterra, per rilanciare la nazione in una visione più genuinamente mondiale, basata sugli interessi delle singole nazioni. E così sta facendo. La scorsa settimana, a Washington, ha detto chiaramente che la Gran Bretagna sta ri-bilanciando le proprie priorità. Questa settimana ha chiarito dove queste puntano. Nel suo discorso ad Ankara, non ha semplicemente reiterato il sostegno inglese all’ingresso della Turchia nell’Unione europea, contro i dubbi (se non contro una vera e propria opposizione) di Germania e Francia. Questa è da tempo una posizione britannica. Ma per un leader conservatore, noto euroscettico, è sorprendente definire l’Ue come il club a cui unirsi. E ancora più sorprendente è stata la definizione di Gaza come una “prigione a cielo aperto”. Sareste ingenui se vi aspettaste un rovesciamento totale della politica british. Ministri e funzionari di governi hanno già espresso la loro devozione a Israele, e le parole di Cameron riguardo l’impegno della Turchia in Afghanistan (in ambito Nato) non
B
di Adrian Hamilton
sono state troppo gradite dal governo di Ankara, che cerca di divenire leader del mondo musulmano. Un gioco bilanciato molto bene, in effetti. D’altra parte, il fatto stesso che il primo ministro sia andato in una nazione musulmana a proporre un rapporto indipendente e simpatetico, e faccia lo stesso con l’India e le economie emergenti, dimostra la fiducia che Cameron nutre nella sua abilità di gestire i rapporti esteri. E dice anche qualche cosa di altro sul modo in cui la Gran Bretagna è tornata a considerare primari i propri rapporti commerciali. Ovviamente, viviamo in
un’epoca in cui i vecchi poteri declinano e i nuovi emergono. Il numero di libri e riviste che lo sostiene è divenuto impossibile da contare. Ma è anche vero che l’era della crescita a tutti i costi, dove finanza ed economia erano tutto, è passato. Siamo in un mondo in cui la politica importa, e capire le esigenze e le pressioni di ogni singola nazione è divenuto uno sport molto serio. Qual è, secondo lo stesso Cameron, la maggiore sfida estera della nazione oggi? È l’Afghanistan. E qual è il nostro fallimento più grande? L’Iraq, dove rimaniamo in beata ignoranza di quello che succede intorno a noi. Rimaniamo invasori. Un tempo il ministero degli Esteri britannico era molto buono. Colpito dall’assalto di Margaret Thatcher, che accusava i funzionari di “essere diventati come i nativi” e gli tagliava i fondi, ha perso molto del suo smalto. Negli ultimi decenni si è concentrato sull’America, sull’Europa e sui “grandi temi” come l’anti-terrorismo. Trasformare il ministero in un’organizzazione commerciale, trasferendo come dirigente proprio il ministro del Commercio, non ha aiutato. È molto importante per i commercianti capire il mondo in cui si affacciano, ma non a spese dei diplomatici. Cameron questo lo capisce? È un uomo schivo, secondo cui le dinamiche di potere particolare sono argomenti per esperti. Ma almeno nelle politiche estere, come sta scoprendo, puoi fare la differenza anche soltanto con gli annunci pubblici. È a casa, dove gli annunci devono essere seguiti dai fatti, che attendono i veri problemi. È qui che scopriremo la pasta di cui l’uomo è fatto.
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LE VERITÀ NASCOSTE
Ma se non mi spieghi come si fanno i bambini… FRANCOFORTE. Una coppia di coniugi tedeschi si è presentata in una clinica per la fertilità dato che, dopo otto anni di matrimonio, non avevano ancora avuto figli, e non riuscivano a capire perché. Gli esami però non hanno evidenziato alcun problema fisico in nessuno dei due coniugi. Grande è stato lo stupore del medico quando alla domanda «Quanto spesso fate sesso?», la coppia (36 anni lui, 30 lei) lo ha guardato interrogativa e gli ha chiesto: «cosa intende esattamente?». È emerso che la coppia è cresciuta in un ambiente ultrareligioso, e nessuno aveva mai spiegato loro come nascono i bambini. I medici hanno sottolineato che non si tratta di persone mentalmente ri-
tardate, ma di individui che non erano consapevoli dei requisiti fisici per procreare. La coppia è stata messa in cura presso un terapista sessuale e la clinica ha avviato una ricerca per scoprire se vi siano altre coppie nelle stesse condizioni.
MOSCA. Un giovane russo, Sergey Tuganov aveva scommesso 125.000 rubli (circa 3200 Euro) con due ragazze che era in grado di fare sesso ininterrottamente con loro per almeno 12 ore. L’uomo ha vinto la scommessa, ma pochi minuti dopo la fine della sua “performance” ha avuto un arresto cardiaco ed è deceduto. Una delle ragazze ha spiegato che lei e la sua amica hanno immediatamente
ACCADDE OGGI
PER UNA VERA GIUSTIZIA MINORILE Ci sono molti casi di genitori che non giungono alle cronache e soffrono in silenzio per le ingiustizie causate da un sistema di relazioni e segnalazioni ai tribunali che non consentono difese, soprattutto nel caso di persone poco abbienti, perché non hanno la possibilità di far valere i propri diritti. Troppi bambini sono stati tolti con la forza alle famiglie non sempre con buone ragioni, troppo spesso con errori dovuti a superficialità, incompetenza, relazioni e perizie basate su opinioni e non su fatti di psicologi e psichiatri, diventano fondamentali perché il bambino prenda la strada della comunità. È evidente che questo sistema necessita di una radicale riforma perché si possa parlare di “vera” giustizia minorile.
Silvio De Fanti
AFGHANISTAN: IL RUOLO DELL’ITALIA È DI PRIMARIA IMPORTANZA Gli occhi del mondo sono puntati sull’Afghanistan, dove a Kabul si è svolta una cruciale conferenza di settanta ministri degli esteri. L’occasione è stata utile non solo per fare il punto sulla situazione militare, sempre estremamente complessa, ma per trattare una strategia comune per i mesi a venire. Karzai è chiamato a svolgere un ruolo fondamentale di pacificazione e di riconciliazione, essenziale per una prospettiva di sviluppo e di pace dopo l’interminabile guerra civile. Il ruolo dell’Italia è e rimane di primaria importanza e la presenza del nostro contingente nel Prt di Herat è portato come esempio di capacità, di efficienza e di coraggio.
M.B.
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
di Vincenzo Bacarani
30 luglio 1930 A Montevideo, l’Uruguay vince il primo Campionato mondiale di calcio 1932 A Los Angeles si apre la X Olimpiade 1945 Esce a Torino il primo numero del giornale sportivo Tuttosport 1956 Una risoluzione congiunta del Congresso degli Stati Uniti viene firmata dal presidente Eisenhower, la quale autorizza la frase “In God We Trust” come motto nazionale 1965 Il presidente Lyndon B. Johnson tramuta in legge il Social security act del 1965, fondando Medicare e Medicaid 1966 Allo stadio di Wembley, i padroni di casa dell’Inghilterra vincono il primo Campionato mondiale di calcio teletrasmesso, sconfiggendo la Germania Ovest per 4 a 2 1969 - Guerra del Vietnam: il presidente Richard Nixon compie una visita improvvisa nel Vietnam del Sud, per incontrarsi con il presidente Nguyen Van Thieu 1971 L’Apollo 15 atterra sulla Luna
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
chiamato l’ambulanza, ma quando i medici sono arrivati non hanno potuto fare altro che constatare la morte di Sergey. Sembrerebbe che all’origine della morte ci sia il fatto che Tuganov avrebbe ingerito un’intera confezione di Viagra prima della “maratona del sesso”, per essere sicuro di vincere la scommessa.
ANIMALI E CRISI ECONOMICA La crisi economica ha ripercussioni anche sugli animali: si inizia ad assistere ad abbandoni e randagismo addirittura di cavalli, mancanza di cure, disattenzione sul fronte della prevenzione, richieste di eutanasia. Avere un animale, dunque, potrebbe essere un lusso eccessivo? Nel comparto delle produzioni di alimenti crollano i prezzi alla produzione e di conseguenza, peggiorano le condizioni di vita degli allevatori e degli animali allevati. Le preoccupazioni per il benessere sono realmente sentite dai cittadini o sono solo una preoccupazione a costo zero? Una condizione di crisi che dovesse durare porterà a delle riduzioni di spesa. È moralmente accettabile farle gravare su un essere senziente come un animale, invece che su beni di consumo e servizi voluttuari come telefonini, novità elettroniche, vacanze e palestre?
Carla Fagiani
LA QUESTIONE MORALE INNANZITUTTO Prima di mettere mano alla struttura del Pdl, quanto mai necessaria, è importante che Berlusconi raggiunga un accordo con la minoranza di Fini. Cicchitto ha ragione quando critica le correnti e spinge per una formazione politica più coesa e più presente sul territorio. Si potrebbe immaginare un Pdl sempre più federalista, geometria necessaria, per dare pieno sostegno al programma di governo. Prioritaria rimane comunque una fortissima azione per interrompere cordate e cordatine di faccendieri e affaristi che nuociono terribilmente all’azione politica del Pdl. La questione morale innanzitutto.
Margherita
Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Robert Kagan, Filippo La Porta,
Direttore da Washington Michael Novak
Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,
Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)
Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Collaboratori
Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,
Maria Pia Ammirati, Mario Arpino,
Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,
Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi,
Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,
Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,
Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,
PRECARIATO: FLEXSECURITY SOLUZIONE POSSIBILE Se ne sta tornando a parlare in questi giorni dopo mesi di silenzio. Si tratta della cosiddetta flexsecurity, un meccanismo che viene già applicato in alcuni Paesi europei (Inghilterra, Danimarca e la Scandinavia in generale, Francia) anche se con alcune diversificazioni. In Italia siamo ancora in una fase di discussione, tuttavia il tema è finalmente approdato in Parlamento. Flexsecurity vuol dire - in sostanza che le aziende possono licenziare il dipendente quando lo ritengono opportuno e lo Stato garantisce una sicurezza (più o meno ampia) del reddito e un reinserimento in tempi realativamente brevi nel mondo del lavoro del dipendente licenziato. La flexsecurity andrebbe di fatto a sovrapporsi all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Come lo Stato però potrebbe andare incontro al lavoratore licenziato? In Europa ci sono diverse impostazioni: corsi di qualificazione professionale retribuiti, ricollocamento pilotato in altre aziende, bonus dello Stato per trasporti pubblici, sanità, servizi, gas, luce, acqua, telefono. Insomma sostegno diretto o indiretto a quel lavoratore che in Inghilterra viene definito “on income support”. Su questo tema Pietro Ichino, senatore del Partito democratico e giuslavorista dopo un passato anche di sindacalista, ha proposto due disegni di legge che sono complementari. Il primo introdurrebbe la flexsecurity in maniera sperimentale, il secondo – necessario al primo – in forma di disciplina generale, applicabile a tutte le imprese per i rapporti di nuova costituzione. Perché due disegni di legge fra loro complementari? Per alcuni opportuni motivi: il primo che introduce la flexsecurity in maniera sperimentale tutela chi ha già un rapporto di lavoro “protetto” dall’articolo 18 e nello stesso tempo rappresenta un’occasione per il “vecchio” lavoratore dipendente che volesse aderire al nuovo sistema; il secondo, sotto forma di disciplina generale, introduce di fatto la flexsecurity per tutti i nuovi rapporti di lavoro. Questo nuovo sistema propone alcune importanti novità nel mondo del lavoro: garantisce flessibilità alle imprese e fornisce una ragionevole sicurezza al lavoratore. Ma la flexsecurity viene contestata e non da poca gente. I sindacati - ad esempio - sono scettici, se non contrari, perché vi intravedono - a torto o a ragione - un tentativo di scardinamento dello Statuto dei lavoratori; i lavoratori a tempo indeterminato temono che sia una trappola che li obblighi poi a rinunciare ai diritti acquisiti. Quelli a favore sono i lavoratori precari, quelli a tempo determinato che potrebbero avere finalmente un contratto a tempo indeterminato. La flexsecurity potrebbe dunque avere sì una funzione di scardinamento: non dello Statuto dei lavoratori, bensì del precariato. bacarani@gmail.com
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ULTIMAPAGINA Cinema. Costanzo, Mazzacurati, Martone e Celestini gli italiani in concorso
Ecco i magnifici quattro di di Pietro Salvatori eri Paolo Baratta, presidente della Biennale di Venezia, e Marco Muller, direttore della Mostra del Cinema, hanno presentato la 67° edizione della kermesse più attesa della laguna, in scena dall’1 all’11 settembre prossimi. Il programma presentato è un sonoro schiaffo per chi, tra il detto e il non detto, negli scorsi anni si era proposto di fare concorrenza all’ultrasessantenne Leone d’Oro. Stiamo parlando del Festival del Film di Roma, convitato di pietra nel corso della conferenza stampa. «In cartellone ci sono 79 prime mondiali» gongola Muller, che continua: «A Venezia troverete i film con i quali dovremo fare i conti nella prossima stagione cinematografica».
I
Parole che possono essere una piccola quanto dovuta autocelebrazione del duro e riuscito lavoro di selezione, ma nelle quali vi si può leggere anche una stoccata di fioretto ai poco amati competitor romani. E in effetti il cartellone offre il meglio di quel che la piazza cinematografica offrirà, almeno per tutto l’autunno. Solo nel concorso troviamo Darren Aronofsky, Sofia Coppola, Vincent Gallo, Alex de la Iglesia, Richard Lewis con la sua attesissima versione cinematografica de La versione di Barney, Takashi Miike, Francois Ozon, Tsui Hark e l’ex enfant prodige autore di Lola corre Tom Tykwer. Oltre ai nostri Ascanio Celestini, al suo primo lungometraggio, Saverio Costanzo, che mette in scena il best seller La solitudine dei numeri primi, Mario Martone e Carlo Mazzacurati. Ora, se si considera che tutte le produzioni hanno garantito che il cast accompagnerà il proprio film sul Lido, solo il concorso dovrebbe garantire la presenza sul tappeto rosso di stelle del calibro di Natalie Portman, Winona Ryder, Vincent Cassel, Benicio del Toro, Dustin Hoffman, Paul Giamatti,Toni Servillo, Filippo Timi, Luigi Lo Cascio, Silvio Orlando, Gérard Depardieu, Willem Dafoe, vanessa Redgrave e Stefania Sandrelli. Non è sufficiente? Nessun problema. Basta passare al Fuori-concorso ed ecco spuntare i nomi di Robert Rodriguez, che presenterà il suo Machete, Julie Taymor, Marco Bellocchio, Michele Placido, Giuseppe Tornatore e Gabriele Salvatores. Ci sono proprio tutti, dunque. O quasi. Manca Pupi Avati,
che nei giorni scorsi aveva accusato Muller di non aver accettato il suo Una sconfinata giovinezza, sostituendolo nel concorso con La pecora nera di Celestini. Subito Cicchitto e Gasparri si erano augurati all’unisono che non ci fossero scelte ideologiche dietro la decisione della Mostra, che aveva penalizzato il cattolico Avati per far posto al più “progressista”Celestini. «C’è un processo di selezione, e ci sono ben quattro autori italiani in concorso - si difende Muller - Ad Avati abbiamo offerto un dignitosissima serata fuori concorso, che non è stata accettata dal regista». Nessuna pregiudiziale politica, dunque, secondo il direttore, che non vede come si possa catalogare un film a destra piuttosto che a sinistra. Manca anche George Clooney, che sarebbe dovuto essere sul red carpet accompagnando il suo ultimo lavoro,
The American, girato interamente all’Aquila. Qui la spiegazione si fa più semplice: «Il film esce negli Usa il primo settembre - spiega Muller - dunque l’interesse dei produttori e dei distributori era che potesse essere il film d’apertura, in caso contrario non avrebbe avuto senso portarlo. Noi però abbiamo pensato in altro modo. Ad aprire l’edizione di quest’anno avremo Rodriguez e Aronofsky». E scusate se è poco. Ma soprattutto l’assenza che ha destato più di un rammarico è quella di Terrence Malick, geniale regista di capolavori quali La rabbia giovane e La sottile linea rossa. Tree of Life, il suo nuovo film, manca nel cartellone ufficiale. Anche se, tra le pellicole in concorso ne è segnalata una “a sorpresa”. Potrebbe essere proprio quello di Malick? «Staremo a vedere», non si sbottona Muller. Grandi novità per la sezione Orizzonti, quella che da sempre ha raccolto le proposte innovative soprattutto dei
VENEZIA giovani filmakers. «Abbiamo deciso sin dall’autunno di rinnovare Orizzonti - racconta il Direttore - Non abbiamo ragionato né in termini di formato, né in termini anagrafici».
Si troveranno così affiancati autori esordienti e mostri sacri del cinema, cortometraggi e lungometraggi, opere tradizionali di fiction narrativa e linguaggi sperimentali. Una decisione fortemente sostenuta dal Presidente della Biennale Baratta: «La crisi ha caratterizzato la produzione cinematografica di quest’anno, e alcuni grandi registi si sono adattati a fare corti, film di più breve durata. Le crisi inducono dei mutamenti, che spesso sono permanenti. Per questo Orizzonti si dedicherà in modo specifico di tutte queste nuove forme di sperimentazione, unendo sia principianti che artisti navigati». E a proposito di crisi, quest’anno l’organizzazione ha dovuto far fronte ad una serie di riduzioni sui costi, che non hanno tuttavia inficiato l’architettura complessiva del palinsesto, come spiega Baratta: «Il costo totale sarà pari a 12 milioni di euro, dei quali circa 7.7 forniti dal ministero. La costanza del loro apporto e le conferme di tutti gli sponsor ci hanno permesso di non discostarci nella sostanza dalla Mostra che avevamo in mente». Ci sarà da attendersi il ministro Bondi, che in passato aveva snobbato la kermesse, sul lido? «Mah - risponde Baratta - Noi abbiamo invitato tutte le autorità istituzionali.Vedremo come si comporrà la loro agenda nel prossimo mese, si sa quelli che sono i tempi della politica. Chiunque vorrà venire, comunque, sarà il benvenuto».
Presentato ieri a Roma il programma del Festival: «In cartellone ci sono 79 prime mondiali» ha detto un soddisfatto Marco Muller, direttore dell’attesissima Mostra del Cinema A sinistra, le immagini dei quattro registi italiani in concorso al Festival del Cinema di Venezia che inizierà il 1° settembre: Ascanio Celestini, Mario Martone, Carlo Mazzacurati e Saverio Costanzo