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ALL’INTERNO DEL QUOTIDIANO PAGINE SPECIALI DI

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • SABATO 7 AGOSTO 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

«Il pericolo più grave viene proprio dai membri del Movimento democratico. Che, con la tortura, il Partito ha “rieducato”»

Tutte le spie di Pechino Dopo il clamoroso caso degli 007 sovietici, il più noto oppositore al regime cinese lancia l’allarme sugli agenti di Hu Jintao in Occidente. E denuncia: «Si infiltrano in banche e aziende» GUERRA TECNOLOGICA

di Wei Jingsheng

Anche la Lega si schiera contro i falchi

overnare con le spie è uno dei pilastri fondamentali del regime del Partito comunista cinese. È un modo di governare che ha dato i suoi frutti sia con i metodi tradizionali, cinesi e stranieri, che con i metodi antichi e attuali. Oltre agli sforzi con cui Pechino tenta di controllare le politiche dei propri nemici - sanzioni economiche e investimenti mirati - i comunisti hanno sviluppato nel tempo un metodo di spionaggio che viene definita “re-dirigere alla Cina dopo aver esportato all’estero”. Nel tentativo di distruggere le diverse attività dell’opposizione, il Partito non cerca semplicemente di ottenere accesso e informazioni dall’interno di quelle formazioni, ma ha scelto di impegnarsi anche nella diffusione di dati fasulli, tesi a distrarre i nemici. Negli ultimi venti anni anni, la dimensione del movimento democratico - così come quella dei gruppi religiosi e del Falun Gong - ha raggiunto un livello magnifico. a pagina 2

E con gli Usa scoppia la cyberwar

G Il fattore Pisanu: non c’è pace per il Pdl

Oltre all’ex ministro, che ha preso posizione contro il voto anticipato, sono sempre di più i parlamentari che - pur di non andare alle urne - stanno pensando di avvicinarsi a Fini Errico Novi e Franco Insardà • pagine 6 e 7

Tanto vale far governare gli elettori

A che serve un leader se ci vuole sempre il voto?

di Vincenzo Faccioli Pintozzi l XXI secolo testimonia una nuova lotta per l’egemonia mondiale. I due attori principali sono gli immancabili Stati Uniti d’America e l’ambiziosa Cina, e con mezzi e obiettivi diversi si può dire che la lotta sia già iniziata. Siamo di fronte a una neo Guerra Fredda: la corsa agli armamenti è a pieno ritmo, con l’obiettivo di controllare lo spazio elettronico; e l’intelligence cinese è in ascesa nella prima guerra per il dominio del cyber-spazio. Il cyber spionaggio è lo strumento scelto dalla Cina per rovesciare la supremazia americana: il Ministero della Sicurezza di Stato cinese sta sfornando i migliori cyber 007 del globo, in grado di perlustrare siti protetti definiti inattaccabili, ricchi di informazioni riservate.

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Sono cambiate le regole dello spionaggio

Dopo Lin Piao e James Bond ecco gli hacker rossi Microfilm e barbe finte addio. Oggi per rubare dati, servono soprattutto i pirati informatici Osvaldo Baldacci • pagina 4

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Fra tradizioni e protezione degli animali

Chi è il magnate americano, re della beneficenza

Palio di Siena, la mossa del cavallo

Warren Buffett, miliardario «a modo mio»

di Francesco D’Onofrio

di Maurizio Stefanini

a debolezza del governo attuale è figlia diretta della scelta di Silvio Berlusconi di cacciare dal Popolo della libertà Gianfranco Fini e alcuani deputati. Ora che il capo del governo si è reso conto di aver fatto una fesseria e di aver, lui sì, allagato la nave che lo tiene a galla, ecco che cerca di tirar fuori il coniglio dal cilindro: immancabile ecco il richiamo alla sovranità, agli elettori, agli italiani. La cosa è davvero strana e merita di essere sottolineata perché ne va dell’idea stessa di democrazia liberale.

on si è probabilmente riflettuto a sufficienza sulle ragioni di fondo, che nel corso di molti secoli hanno indotto gli uomini a considerare gli animali tutti di volta in volta oggetto di divertimento o di guadagno, oppure soggetti da tutelare anche nei confronti dell’uomo. La vera questione, in realtà, è la difesa culturale (e non soltanto sentimentale) della vita.

anno scorso, in piena ondata di crisi, Warren Buffett staccò un assegno da 44 miliardi di dollari per terminare l’acquisto della Burlington Northern Santa Fe (Bnsf): 51.766 Km di ferrovia, di cui già nell’aprile del 2007 aveva preso una prima tranche del 22,6% attraverso una delle sue finanziarie, la Berkshire Hathaway.

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di Giancristiano Desiderio

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I QUADERNI)

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NUMERO

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WWW.LIBERAL.IT

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IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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pagina 2 • 7 agosto 2010

Il più grande dissidente cinese descrive scopi e modalità dell’intelligence di regime, inviata come “quinta colonna” in Occidente

La Cina è (troppo) vicina

Spesso il Partito usa gli ex dissidenti arrestati per fare contro-informazione e ottenere informazioni vitali di Wei Jingsheng overnare con le spie è uno dei pilastri fondamentali del regime del Partito comunista cinese. È un modo di governare che ha dato i suoi frutti sia con i metodi tradizionali, cinesi e stranieri, che con i metodi antichi e attuali. Oltre agli sforzi con cui Pechino tenta di controllare le politiche dei propri nemici - sanzioni economiche e investimenti mirati - i comunisti hanno sviluppato nel tempo un metodo di spionaggio che viene definita “re-dirigere alla Cina dopo aver esportato all’estero”. Nel tentativo di distruggere le diverse attività dell’opposizione, il Partito non cerca semplicemente di ottenere accesso e informazioni dall’interno di quelle formazioni, ma ha scelto di impegnarsi anche nella diffusione di dati fasulli, tesi a distrarre i nemici. Negli ultimi 20 anni, la dimensione del movimento democratico - così come quella dei gruppi religiosi e del Falun Gong - ha raggiunto un livello magnifico. Di conseguenza, la dimensione dell’attività spionistica comunista e la tecnologia al suo servizio sono cresciuti in relazione. È divenuta nel tempo il pilastro principale a sostegno del governo. Esistono due tipi principali di spionaggio comunista contro la resistenza del popolo. Il primo potrebbe essere riassunto in “spingi fuori e colpisci all’interno”, mentre il secondo potrebbe chiamarsi “spingi all’interno e colpisci all’esterno”. Lo scopo di entrambi i metodi è lo stesso, e i metodi di applicazione sono simili.Tuttavia, le direzioni in cui si muovono e gli obiettivi cui mirano sono diversi. Si potrebbe ipotizzare l’esistenza di due dipartimenti diversi, all’interno del Partito, che se ne occupano.

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Facciamo un esempio pratico del “spingi fuori e colpisci all’interno”. Si usa la debolezza di alcune persone che vivono in Cina per spingere i nomi noti del movimento democratico (o dei gruppi religiosi) a palesarsi all’esterno; in questo modo, li si può costringere a lavorare in segreto per il regime. A questo punto, si useranno per controllare o danneggiare le organizzazioni di oppositori che operano dentro o fuori il Paese. Alcune di queste persone si sono già

mane principale, c’è un livello d’azione superiore che usa proprio la mancanza di conoscenza fra i cinesi in patria e quelli all’estero. I primi, spesso, nutrono una errata cieca fiducia nei confronti dei secondi, e questo permette ad agenti istruiti di dirigere il movimento di opposizione nazionale. Il risultato è che queste persone si muovono sui sentieri sbagliati, e allo stesso tempo si espongono alle organizzazioni di spionaggio del Partito. Quindi i gruppi di opposizione sono destinati a sparire rapidamente, o a diventare corpi “mascherati” del governo con l’incarico di distruggere gli altri.

esposte in Cina, e quindi il loro valore è molto diminuito. Tuttavia, il Partito usa la propria influenza sui media per aumentare la loro reputazione e poi li butta fuori. Ma, data la mancanza di comunicazione fra la

Cina e i cinesi d’oltremare, i nostri amici che vivono al di fuori della nazione non conoscono bene la situazione interna. Quindi, queste persone si presentano loro come attivisti democratici: il loro scopo è quello

di distrarre i veri attivisti e la stampa internazionale. A volte, inoltre, usano i canali controllati dal regime per contattare gli oppositori interni, vedendoli di fatto al governo. Oltre a questo compito, che comunque ri-

Un’organizzazione di opposizione, molto conosciuta sia all’estero che all’interno della Cina, è crollata esattamente camminando su questo sentiero. Alcuni dei suoi membri più anziani potrebbero non aver retto alle pressioni e alle torture inumane operate in prigione, e potrebbero essersi arresi. Potrebbero aver ammesso il loro sbaglio, unendosi alla polizia

LE INFILTRAZIONI NELLE BANCHE CANADESI lcuni giorni fa, il capo dell’Intelligence nazionale del Canada Richard Fadden ha fatto trapelare ai media nazionali una sua convinzione: «Diversi politici canadesi sono controllati da governi stranieri. Fra loro, il più attivo è il regime comunista cinese». Queste dichiarazioni hanno scatenato una ridda di proteste, soprattutto da parte di alcuni deputati dell’opposizione: sono la prova, ha dichiarato Fadden, «sono la prova che cercavo della coscienza sporca di alcuni di loro». Il Partito cinese, denuncia Wei Jingsheng, «usa le comunità cinesi nei vari Paesi per comprarsi i politici che si fanno comprare. Questa manipolazione poi si riversa su tutti i cinesi che vivono nel Paese». Tra l’altro, Fadden è stato chiamato a conferire al proprio Parlamento per dare delle spiegazioni. Qui ha dichiarato di avere le prove di quello che ha detto, e ha sottolineato che non intende scusarsi. Un sondaggio condotto subito dopo queste dichiarazioni ha dimostrato che tre quarti della popolazione crede a Fadden, e lo sostiene nella sua battaglia di “pulizia”. Inoltre, il capo dell’intelligence ha detto che il prossimo passo sarà quello di controllare le infiltrazioni cinesi all’interno di alcune banche di grandi dimensioni, che «hanno ricevuto dalla Cina enormi capitali sospetti in questo periodo di crisi finanziaria globale».

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IN AUSTRALIA UN MINISTRO ERA A LIBRO PAGA ppena un anno fa, l’ex primo ministro australiano Kevin Rudd fu costretto a licenziare con disonore il proprio ministro della Difesa Joel Fitzgibbon: il suo capo dell’intelligence aveva provato senza ombra di dubbio che il ministro era a libro paga di Pechino. In pratica, grandi compagnie cinesi pagavano il ministro per conto del governo: lo scopo era quello di ottenere commesse, ma alcuni membri dei servizi segreti australiani temono che vi fossero di mezzo anche dei segreti militari. Questo fatto, scrive Wei Jingsheng, «dimostra innanzitutto l’onestà dei politici occidentali, che davanti alla corruzione vengono spinti alle dimissioni. Ma dall’altra parte dimostra come oramai l’attività di lobby di questi agenti infiltrati arrivi fino ai ministeri di quei governi che permettono attività favorevoli al Partito». Una fonte diplomatica australiana ha denunciato: «Sotto il controllo di Fitzgibbon, erano molti i visitatori delle nostre caserme con passaporto cinese. Non penso che questo modo di fare sia molto sicuro, per il governo o per il Paese». Ma questo, conclude ancora Wei, «è il modo di fare di Pechino. Sa che a pagare, in caso, saranno i politici di altri Paesi che vengono presi con le mani nel sacco. Al limite è disposta a perdere anche i propri agenti: sono persone di cui non tiene alcun conto, neanche umano».

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comunista. Questa situazione è normale. Dopo tutto, quanti di noi potrebbero resistere alle torture del comunismo? Io sono simpatetico a queste persone, che si sono arrese alla fin fine perché sono esseri umani: arrendersi è normale. Non è corretto venire criticati per questo. Molte persone si arrendono anche perché in questo modo possono essere rilasciati prima. Sebbene decidano di arrendersi non sconfiggendo il nemico, non vendono i nostri amici e non lavorano come spie. Sebbene decidano di non voler più continuare le attività d’opposizione rimangono amici del movimento democratico, anche se semplicemente in forma privata. Tuttavia, esiste una piccola parte di queste persone che gradualmente si vendono al dispotico potere della polizia; un po’ perché il governo ha scoperto i loro punti deboli e un po’ perché cercano di mantenere intatta l’immagine eroica che hanno di loro stessi. All’inizio fanno poche cose per la polizia: cose che non violano la loro coscienza. Ma pian piano la gravità delle loro azioni peggiora, e arrivano a vendere gli amici e aiutare i malvagi.

Usano la scusa dell’avere “diverse opinioni” come scudo per le proprie azioni. Inoltre, portano avanti l’errata (ma popolare) convinzione, sia dentro che fuori la Cina, che soltanto con delle prove prodotte in tribunale si possono giudicare le altre persone. Eppure, non esiste persona che possa confermare in tempo reale l’identità di questi agenti, e quindi è difficile avvertire i propri amici dei pericoli che rappresentano. Grazie a questo modo di fare, molti danni sono stati portati al movimento democratico e ai gruppi religiosi dentro e fuori la Cina. Certo, non tutta l’opposizione è composta da idioti. Mentre il tempo passa, la verità si avvicina e questi traditori vengono a galla. Certo, quando iniziano a perdere il proprio valore di

pedine all’interno del Paese il Partito li manda fuori, in modo che possano continuare a prendere in giro l’opinione pubblica, cercando di influenzare il sostegno della comunità internazionale al movimento democratico. Le azioni di queste persone oltrepassano la media dell’intelligenza. Diventano i principali sostenitori dei politici pro-Cina sparsi per l’Occidente e – con il sostegno finanziario delle grandi aziende dell’Ovest

munista, e in particolare quando si parla di diritti umani e democrazia in Cina, vediamo alcune ben note persone che avanzano e parlano a favore del Pcc. Eppure, quando i tempi erano più duri, avevano difeso il lato dei diritti umani e della democrazia. Molto spesso, oggi, fanno invece falsa testimonianza e – per provare che le loro posizioni a favore del Partito sono corrette e si integrano nel discorso democratico

credo politico, e le loro azioni, quando arriva il momento cruciale, invece di leggere come i media occidentali li dipingono. Circa dieci anni fa, il movimento democratico ha deciso di usare questo metodo per evitare altri danni da parte di questi agenti. C’è poi un importante principio che viene usato dalla Coalizione cinese democratica d’Oltremare. Ed è quello di analizzare l’azione e i pronunciamenti di una persona in tem-

to. In passato, si è avuta molta frustrazione fra i nostri amici che non capivano chi fossero questi agenti. In passato la stessa cosa è avvenuta fra il Partito e il Kuomintang: entrambi coltivavano delle speciali agenzie “per eliminare i traditori”, uccidendo tutte le spie note. Eppure, questo modo di fare potrebbe essere definito terrorismo. E alcuni agenti attuali hanno dato lo stesso suggerimento anche a noi, qualche tempo fa: ma non abbiamo abboccato.

I metodi applicati per anni dalla coalizione si sono dimostrati efficaci. Quando troviamo una spia, non facciamo altro che allontanarla dai lavori del gruppo. E questo perché, se ci sbagliamo sulla valutazione, non facciamo danni eccessivi. Inoltre, avremo la possibilità di correggerci. È ingiusto, ma è meglio danneggiare un singolo attivista democratico che tutto il gruppo. Fra due errori, scegliamo il minore. Dopo tutto, non esiste alcuna nazione che usa gli standard giuridici per l’azione anti-spia. Alcune di queste preferiscono lanciare un fumogeno, per confondere l’aria. In secondo luogo, abbiamo scelto questo modo di agire perché è così che rendiamo gli agenti incapaci di fare quello che dovrebbero. Non abbiamo bisogno di punirli, perché lo faranno i comunisti: e loro lo fa-

TAIWAN, GLI USA E LA GUERRA DI NERVI l problema Taiwan leva il sonno ai dirigenti comunisti. L’isola, “conquistata” da Chiang Kai-shek dopo la sconfitta nella guerra civile, vive in uno stato di fatto che le garantisce una piena indipendenza, che però viene sempre meno diplomaticamente riconosciuta. Avendo dalla loro parte gli Stati Uniti, però, i taiwanesi sanno di avere una carta importante. Ecco perché lo spionaggio cinese ha molto da fare a Taipei e dintorni. Il caso più clamoroso risale al febbraio 2008, quando informazioni segretissime sul sistema di difesa aerea di Taiwan e altra tecnologia ceduta al’isola dagli Usa sono finiti nei segreti carpiti negli Stati Uniti dallo spionaggio cinese. La vicenda è emersa quando il Dipartimento di giustizia a Washington ha rivelato l’arresto di Gregg Bergesen, esperto di sistemi difensivi presso il Pentagono all’Agenzia di cooperazione per sicurezza e difesa. È accusato di avere venduto “informazioni segrete” a Tai Shen Kuo, taiwanese naturalizzato statunitense poi arrestato. Kuo, commerciante di mobili a New Orleans, avrebbe poi trasmesso i dati a Pechino tramite il cinese Kang Yuxin, pure arrestato. Il sistema, chiamato “Bo Sheng” o anche “Broad Victory”, è cruciale per la difesa di Taiwan contro un attacco dalla Cina, che ritiene l’isola parte del suo territorio e ha oltre 900 missili sempre puntati contro di lei.

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– fanno lobby a favore delle politiche di Pechino. Si comportano da professionisti mantenendo un’aria inesperta e innocente. Si riuniscono e lavorano duramente per sostenere il governo comunista e i super-profitti che le grandi aziende possono ricavare grazie a questo. All’interno del cosiddetto circolo del movimento democratico d’oltremare ci sono alcune persone di questo tipo: prima avevano la fiducia degli altri, mentre ora portano avanti la loro missione speciale. Quando il circolo politico dell’Occidente inizia una disputa seria con il Partito co-

– si spingono a influenzare molto seriamente il modo in cui i politici occidentali (che non possono conoscere più di tanto la situazione interna alla Cina) osservano il comportamento del governo. Queste persone non hanno solamente aiutato la guerra cinese sui media occidentali, ma hanno anche indirettamente influenzato il movimento democratico del Paese.

C’è un metodo molto semplice ed efficace per distinguere questo tipo di persone, quelle con una missione speciale. Ed è quello di controllare il loro vero

po reale, senza valutare i crediti ottenuti in passato. Questo perché quando si presenta un momento importante, una battaglia che richiede unità, dal passato salta sempre fuori qualcuno che canta una canzone diversa e si oppone. Se i nostri amici si uniscono e capiscono (sostenendoli) i punti principali del movimento democratico, sarà facile riconoscere chi salta fuori all’improvviso. Alcuni di noi non vedono con chiarezza la situazione, mentre ad altri manca la capacità di giudizio. Questo potrebbe creare se non confusione, almeno sospet-

ranno perché, una volta divenuti inutili, li disprezzano. D’altra parte, sono persone che hanno tradito i loro compagni. Il movimento democratico è riuscito a evitare lo spionaggio per un decennio. Queste esperienze sono per il benessere dei nostri amici in Cina, un aiuto fondamentale per giudicare coloro che hanno conflitti con il Partito. Io spero che gli amici rimasti in patria si allontanino da teorie dannose, si chiariscano la mente e cerchino di prevenire i danni delle spie. Altrimenti, il prezzo da pagare sarà la fine dell’organizzazione.


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l’approfondimento

Ormai arrivano anche sulla Luna, come in un film di James Bond. Ma sono laureati negli istituti più prestigiosi del Paese

Operazione Moonhacker Le barbe finte, il bavero alzato e i microfilm non si usano più. Oggi le nuove spie sono maghi del computer, in grado di violare i complicatissimi software che proteggono i segreti militari (e soprattutto commerciali) del mondo intero di Osvaldo Baldacci

iente impermeabili col bavero alzato, niente cappelli calati sul volto, niente occhiali scuri. L’intelligence cinese è molto attiva, ma non funziona in stile film di spionaggio e neanche secondo la tipologia della guerra fredda. Troppe cose sono diverse da allora. Prima di tutto è cambiato il mondo. E soprattutto è cambiata la tecnologia. Poi tra l’occidente euro-americano e l’Asia orientale non ci sono terreni comuni o terre di nessuno in cui muoversi tra ombre e nebbie, difficile confondersi. Ciononostante i servizi segreti del celeste impero ora colorato di rosso sono tra i più attivi al mondo, forse ben più di quelli che più facilmente riempiono le pagine dei giornali, a partire dai russi per arrivare ad americani, europei e mediorientali. Gli agenti cinesi hanno alcune ben definite linee di azione in quanto agli obiettivi. Primo bersaglio in assoluto è la dissidenza interna. Secondo, strettamente collegato, tutto ciò che interagisce negativamente con

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la tradizionale sfera di influenza cinese, per cui in cima a tutto Taiwan, con Tibet, Xinjiang e anche le regioni più vicine al Paese-continente, quindi dalla Corea al Giappone, dal sud-est asiatico all’India all’Asia centrale. Senza dimenticare che sicuramente si sono attivate organizzazioni per la raccolta di informazioni nelle aree di nuovo interesse cinese, come l’Africa e il Medio Oriente.

Poi c’è la questione della tecnologia militare, con un occhio attento puntato soprattutto verso gli Stati Uniti. E infine c’è la tematica forse più importante, anche se meno scenografica: lo spionaggio industriale, un obiettivo prioritario di Pechino per mantenere impetuosa la sua crescita. Per raccogliere le informazioni in tutti questi ambiti la Cina si affida a servizi di intelligence che devono mettere in campo tutte le loro risorse, dagli agenti sul terreno agli analisti capaci di dare un senso alla massa di informazione proveniente da fonti aperte (i

mezzi di comunicazione e le pubblicazioni scientifiche) o coperte (lo spionaggio), dai traditori comprati o ricattati agli agenti inconsapevoli di fornire informazioni a una potenza straniera. Ma oggi come oggi la principale spia, quella capace di raccogliere più informazioni e semmai anche di danneggiare la rete informativa nemica è quella che non si allontana dalla sua scrivania nel suo ufficio. Sono gli operatori della tecnologia elettronica. Quelli che manovrano i satelliti, che si oc-

L’agente migliore oggi è quello che non si alza mai dalla propria scrivania

cupano di intercettazioni e altre intrusioni di questo genere. Ma più ancora sono i maghi dei computer. Sono gli hacker al servizio dell’intelligence, qualcosa che si sta diffondendo in tutto il mondo ma che proprio in Asia ha avuto il suo primo lancio, tra Cina e Corea del Nord. Squadroni di occhialuti ragazzini (ma anche di professori universitari e geni matematici) che smanettando davanti a un computer riescono a violare i maggiori segreti delle più difese realtà mondiali, dai

ministeri della Difesa agli archivi delle multinazionali. Si racconta che alcuni paesi, e la Cina probabilmente tra questi, abbiano inquadrato in formazioni militari i loro hacker, combattendo costantemente una cyber-guerra contro ogni sorta di nemici. Ma non guerre da videogioco. No, il campo di battaglia in molti casi sono lo sterminato universo della posta elettronica. Pescare la email giusta può voler dire vedersi aprire la caverna del tesoro colma di segreti capaci di incrementare significativamente il PIL della Cina. Ed è a questo che lavorano costantemente le spie informatiche cinesi.

Anche una delle recenti maggiori controversie planetarie, che è arrivata a coinvolgere il segretario di Stato Usa Hillary Clinton e a pesare sui rapporti tra Washington e Pechino, si è originata da questa realtà. Parliamo del caso Google-Cina, col colosso internet più volte sul punto di lasciare o di essere scacciato dal vasto e appetitoso


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Superato il gap informatico, Pechino appare sempre più tecnologicamente avanzata

E il dragone lanciò agli States la guerra delle password

Le due maggiori super-potenze del pianeta sono impegnate da tempo in un conflitto di nervi da cui dipende la supremazia sull’economia di Vincenzo Faccioli Pintozzi l XXI secolo testimonia una nuova lotta per l’egemonia mondiale. I due attori principali sono gli immancabili Stati Uniti d’America e l’ambiziosa Cina, e con mezzi e obiettivi diversi si può dire che la lotta sia già iniziata. Siamo di fronte a una neo Guerra Fredda: la corsa agli armamenti è a pieno ritmo, con l’obiettivo di controllare lo spazio elettronico; e l’intelligence cinese è in ascesa nella prima guerra per il dominio del cyber-spazio. Il cyber spionaggio è lo strumento scelto dalla Cina per rovesciare la supremazia americana: il Ministero della Sicurezza di Stato cinese sta sfornando i migliori cyber 007 del globo, in grado di perlustrare siti protetti definiti inattaccabili, ricchi di informazioni riservate. A settembre Parigi, Londra e soprattutto Washington hanno subito le incursioni di cyber-agenti cinesi, in grado di violare il computer e (nel 2007) danneggiare irreparabilmente persino il computer dell’allora sottosegretario americano alla Difesa, Robert Gates. Sun Yiming e Yang Liping sono i due ufficiali cinesi a capo di uno dei programmi più avanzati di “Cyber Guerra” contro gli Stati Uniti. Questi due ufficiali conoscono a menadito i protocolli di comunicazione Nato, e il Pentagono conosce bene i loro recenti successi. Un’unità di hacker ai loro ordini è riuscita a mettere off-line - paralizzandola una portaerei americana nel Pacifico, lasciandola inerme e praticamente alla deriva. Alcune divisioni dell’esercito statunitense (come 82esima e la 101esima) hanno subito almeno qualche migliaio di intrusioni di hacker cinesi nei loro sistemi informatici. Decine di computer dell’esercito Usa risultano talmente ricolmi di “troyan horse” made in China, da dover essere distrutti perché irrecuperabili. Sembra una visione irrealistica del Web, ma un’indagine degli esperti del Congresso americano ha concluso che presto, molto presto, l’intelligence cinese avrà capacità e conoscenze per mettere segno un cyber in attacco grado di paralizzare le centrali elettriche americane. Lasciando al buio quasi il

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settanta percento del territorio americano. In Cina si lamentano invece delle continue incursioni di hacker americani ed europei. L’Esercito di Liberazione Popolare organizza“gare”in cui si selezionano gli hacker più brillanti. Secondo alcune fonti rimbalzate dai blog cinesi, l’ultimo giovanissimo vincitore ha dimostrato la sua bravura violando niente meno che il sito della Nasa, davanti agli occhi stupefatti degli esaminatori. Bisogna dire però che i cinesi sono molto avvantaggiati nella cyber guerra, producendo la quasi totalità degli hardware utilizzati dall’occidente e dal governo americano (in particolar modo) sono a conoscenza di tutti i talloni d’Achille e dei punti migliori in cui colpire il nemico. Ma nemmeno per que-

L’Fbi è arrivato a chiedere aiuto alle Chinatown per scovare le cyber-spie

sto dettaglio i cyber guerrieri cinesi hanno problemi. Gli 07 cinesi sono per prima cosa ottimi programmatori e ricercatori; poi, una volta finito l’addestramento, sono assegnati generalmente a destinazioni straniere per periodi che fluttuano tra i sei e i dieci anni. Negli Stati Uniti – quindi dentro le frontiere americane – arrivano ogni anno decine di migliaia di ricercatori universitari cinesi, inviati con ricchissime borse di studio nelle università americane.

Non c’è dubbio che molti di essi siano militari. Le comunità asiatiche sono di notevoli dimensioni specie nella West Coast e nella casa del software, la Silicon Valley californiana: le dimensioni le rendono quasi inattaccabili e forniscono un’ottima copertura agli agenti infiltrati. Questi, secondo i dati del Fbi, stanno trafugando un numero enorme di brevetti sia militari che civili, stilando inoltre liste dei punti deboli dei provider e dei server che compongono la rete governativa Usa. L’Fbi non sa che pesci pigliare: è arrivata a pubblicare annunci in lingua mandarina nella Chianatown di San Francisco, con la speranza di trovare qualche collaboratore cinese che sveli come funziona e da chi è composta la rete spionistica cinese nel territorio americano. Ultimo inciso: quando il cancelliere tedesco Merkel visitò insieme alla delegazione di industriali tedeschi Pechino, ordinò ai delegati di non abbandonare mai i loro portatili e di usare il meno possibile i collegamenti internet. Per evitare che spie cinesi visitassero i database tedeschi alla ricerca di segreti industriali. Nella foto di gruppo si vedono tutti gli imprenditori tedeschi che stringono al petto il loro computer, si guardano intorno con aria terrorizzata, e il sorriso d’occasione sembra una paralisi facciale. Evidentemente la Merkel non prese bene il fatto di essere seguita, ad ogni passo, da un plotone di agenti hitech cinesi, e al momento del brindisi con il primo ministro Wen Jiabao, denunciò pubblicamente le malefatte degli ospiti. Il primo ministro cinese si limitò a sorridere, accusando un non meglio identificato “gruppo isolato di hacker civili”.

mercato cinese. Perché Pechino pretende di applicare censure che Google non gradisce (per motivi ideali ma anche per motivi di gestione e di costi), ma soprattutto perché si è scoperto che gli hacker cinesi riuscivano a entrare nelle caselle di posta e in questo modo hanno scoperto e perseguitato diversi dissidenti. E ugualmente hanno avuto accesso a segreti industriali. D’altro canto le denunce contro le intrusioni informatiche cinesi sono sempre maggiori, e la preoccupazione per la costante, violenta e senza regole guerra che si combatte nel cyberspazio è ormai un dato assodato. Di recente alcuni analisti hanno lanciato un allarme sull’eccessiva dipendenza delle Forze Armate americane dall’elettronica, col rischio di rimanere impotenti se un attacco difficile ma possibile distruggesse il sistema. Lo scorso anno un rapporto della commissione per l’intelligence aveva affermato che i cinesi potrebbero essere in grado, tramite lo spionaggio informatico, di interferire e bloccare la fornitura di acqua e di energia. Non si disdegna di ricorrere all’utile fusione di metodi tradizionali e tecnologie innovative.

Una situazione classica che si è ripetuta di recente, a volte arrivando agli onori delle cronache, è quella di avvenenti signorine cinesi, ben addestrate, che si fanno facilmente sedurre da diplomatici e manager occidentali, per poi incastrarli. Nei tempi moderni non si tratta poi di ricattarli oppure di fare da ponte per reclutarli (o comunque non solo di questo), si tratta piuttosto di creare l’occasione di favorire uno scambio involontario e inconsapevole di tecnologia: le ragazze cercano di impossessarsi o di clonare le memorie di notebook, computer, cellulari, agende elettroniche, webcam, oppure a volte regalano chiavette usb e altra tecnologia simile (regali che vengono spesso fatti anche da aziende cinesi) predisposta per funzionare in modo truffaldino per trasferire informazioni a Pechino, con Cavalli di Troia o altri sistemi di infezione informatica. Il tutto allo scopo di permettere alle imprese cinesi (dal forte coinvolgimento statale o dei membri del partito) di avvantaggiarsi nelle trattative commerciali o di venire in possesso di brevetti e modelli altrui. D’altro canto oggi per mettere mano su un’informazione fondamentale non occorre microfilmare pagine scovate tra quintali di carta dopo essersi infilati in un archivio polveroso, ma può bastare scoprire una password o impossessarsi del contenuto di un portachiavi usb. Due anni fa un collaboratore di Gordon Brown aveva “smarrito” il proprio BlackBerry dopo essere stato “agganciato”da una cinese nella discoteca di un hotel di Shanghai.


politica

pagina 6 • 7 agosto 2010

Non solo Pisanu. Il no del presidente dell’Antimafia al voto anticipato e le sue rivelazioni sulla «maggioranza contraria alle urne» riaprono il balletto dei numeri nei gruppi parlamentari

I fantasmi del Pdl Detestano Verdini. Temono di non essere ricandidati. Tra i berlusconiani cresce un esercito invisibile vicino a Fini di Errico Novi

ROMA. «La decisione finale, per nostra fortuna, spetta al Capo dello Stato». Delle dirompenti dichiarazioni consegnate da Beppe Pisanu a Repubblica, è forse questa la più significativa. Può davvero il Parlamento prescindere dall’ansia del Colle per una avventura elettorale colma di insidie? E in ogni caso, si può davvero dare per scontato che, se Berlusconi sciogliesse il suo gabinetto, Napolitano non riuscirebbe a trovare un’altra maggioranza? Dopo l’intervista del presidente dell’Antimafia molti dubbi sono legittimi. Di fronte a uno strappo del Cavaliere per andare a elezioni anticipate «mi opporrei», dice Pisanu, «perché lo scioglimento delle Camere piomberebbe come un macigno sulla fragile situazione del nostro Paese». Quindi il passaggio rivelatore: «Sono comunque sicuro che la contrarietà alle elezioni sia molto più ampia di quanto non appaia, sia nella società che nelle aule di Camera e Senato». È un elemento finora sottovalutato, nella crisi aperta dentro il Pdl. C’è un’ostilità assai più estesa di quanto si possa pensare, rispetto a un ritorno alle urne. E il pensoso Berlusconi che, in giro per il centro di Roma, quasi scansa i cronisti, dovrà fare i conti con questo aspetto.

Dopo aver fallito clamorosamente le previsioni sul numero di parlamentari che avrebbero seguito Gianfranco Fini, gli uomini del Cavaliere rischiano di vedersi scappare di mano il controllo delle truppe per la seconda volta. Di sicuro c’è ben poco. Si parte dalle consuete certezze, come quelle messe ordinatamente in fila dalla giovane deputata Nunzia De Girolamo, alla prima legislatura ma indicata come uno dei possibili nuovi sottosegretari da promuovere al rientro: «Credo che non si sfilerà nessuno, siamo tutti molto compatti attorno al nostro leader. Auspico che si possa continuare a governare, ma vorrei ricordare che noi siamo una maggioranza segnata dalla volontà di fare, di realizzare gli obiettivi. E se per caso dovessimo trovarci nostro malgrado con un governo ingessato, appesantito da chi lo vuole mettere sotto ricatto, è meglio tornare dagli elettori».

Lo strano vizio del premier di invocare la sovranità popolare invece di risolvere i problemi del Paese

E il Cavaliere, di nuovo, scarica sugli italiani le sue responsabilità di Giancristiano Desiderio a debolezza del governo attuale è figlia diretta della scelta di Berlusconi di cacciare dal partito Fini e alcuni deputati. Ora che il capo del governo si è reso conto di aver fatto una fesseria e di aver, lui sì, allagato la nave che lo tiene a galla, ecco che cerca di tirar fuori il coniglio dal cilindro: immancabile ecco il richiamo alla sovranità, agli elettori, agli italiani. La cosa è davvero strana e merita di essere sottolineata perché ne va dell’idea stessa di democrazia liberale: gli italiani votano, eleggono il Parlamento e negli ultimi tempi scelgono anche il governo e così l’esecutivo fa il suo lavoro che dovrebbe essere quello di risolvere qualche problema alla vita sociale degli italiani. Con Berlusconi, invece, questo principio è capovolto: l’esecutivo entra in crisi e gli italiani sono chiamati a risolvere i problemi del governo attraverso il ri-

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creare uno straccio di democrazia dell’alternanza e dare all’Italia un’area politica e culturale che nella Repubblica non ha mai avuto una dignitosa cittadinanza: il centrodestra. Però, dello straccio di democrazia dell’alternanza è rimasto solo lo straccio e il motivo è noto a tutti: Berlusconi pur parlando il linguaggio liberale non ha mai voluto abbandonare il suo populismo per mettere fine all’avventura con un partito o un’alleanza dalle virtù moderate.

Se prima il populismo berlusconiano era funzionale al bipolarismo, ora è funzionale solo alla sua democrazia cesarista: se prima il rispetto del voto - ignorato dai leghisti e dal Bossi in canotta - era invocato per creare l’alternanza, ora è richiamato per neutralizzare la classica vita istituzionale. Il populismo fine a se stesso di Berlusconi è anti-liberale. Non è un caso se Fini, il giorno dopo la cacciata dal partito che ha contribuito a fondare, ha definito illiberale il comportamento del capo del governo. Il richiamo di Berlusconi alla sovranità e al voto degli italiani è ingiustificato perché palesemente strumentale: Fini in qualità di co-fondatore chiede di discutere, ma Berlusconi dice “non si discute e ti caccio”, e ora che lo ha messo alla porta torna alla carica col programma “prendere o lasciare”, e se si prende non si discute, e se si lascia allora - nella logica populistica - si torna dagli italiani. I quali in questa storia che va avanti da quasi venti anni, prima si sono illusi di poter vivere in una democrazia normale, poi hanno cominciato ad avere qualche sospetto e ora hanno la certezza che non è Berlusconi o il governo di turno che deve risolvere i loro problemi ma sono loro che devono risolvere i problemi di Berlusconi o del governo di turno. Il populismo berlusconiano non è la cura ma la malattia. Dalla debolezza del governo attuale non si esce con l’anticipazione del voto ma con la regolare vita istituzionale. La sovranità non sceglie solo un governo, ma elegge un Parlamento e alimenta la vita istituzionale. La fine del bipolarismo non è la fine delle istituzioni.

Berlusconi scorda che tra il corpo elettorale e il suo c’è quello delle istituzioni, e il compito della politica è quello di incarnarle e farle funzionare chiamo del presidente del Consiglio alla sovranità inviolabile (e che, infatti, nessuno viola: anzi, vale la pena ricordare che l’unico partito che ha effettivamente fatto un ribaltone fu la Lega nel 1994).

Berlusconi dimentica volutamente che tra il corpo elettorale e il suo c’è di mezzo il corpo delle istituzioni e il compito principale della politica è proprio quello di incarnare le istituzioni facendole funzionare. Per nostra fortuna, infatti, la fine di un governo non è la fine delle istituzioni. La sovranità “appartiene al popolo” ma siccome Berlusconi pensa che lui sia il popolo allora crede che la sovranità gli appartenga e che sia nella disponibilità del suo volere. Questo populismo è servito per

Ma davvero non ci sono ombre? Possibile che qualcuno possa aderire a una nuova maggioranza anche nel timore di non essere ricandidato? «Se si arrivasse a questo avremmo l’opportunità di capire chi è legato allo status e chi al servizio: se davvero si concepisce la politica come servizio, si accetta anche di rinunciare al proprio ruolo».

Molti potrebbero non ragionare così. Ma De Girolamo insiste: «È anche una questione di riconoscenza verso Berlusconi. Intanto chi ha il dubbio se assecondare una maggioranza diversa sa quella uscita dalle elezioni dovrebbe ricordare di essere stato eletto sotto un simbolo che reca il nome di Berlusconi. E poi senza disconoscere l’opera svolta da ciascuno di noi, è chiaro che è sempre Berlusconi a determinare la vittoria». E se qualcuno scegliesse una strada diversa? La parlamentare campana la mette così: «Berlusconi non abbandona nessuno, devono confidare in questo. Tutti d’altra parte hanno lavorato con disciplina in questa legislatura, quindi io dico che non si deve avere paura perché saranno tutti ricandidati». E però forse Nunzia De Girolamo vede la faccenda da un’ottica particolare: lei è al suo primo mandato, ma chi magari ne ha accumulati già tre o quattro è oggettivamente assai più a rischio. Nei mesi scorsi, raccontano berlusconiani di rango, Sandro Bondi ha messo in giro la voce, forse con un pizzico di imprudenza, che per le prossime Politiche sarebbe stato introdotto un discrimine severissimo: chi ha già tre mandati alle spalle si fermerà. Si è subito scatenato il panico. E all’epoca, parliamo dell’inizio dell’anno, Italo Bocchino non si lasciò sfuggire l’occasione per


politica

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Dal 13 al 15 agosto Festa della Lega a Ponte di Legno: a ferragosto parla Bossi

Anche la Lega apre la caccia ai falchi

Calderoli incontra il presidente della Camera e lavora al programma. Maroni snobba gli emissari del Pd di Franco Insardà

ROMA. Nonostante le certezze ostentate voci

commentare con molti colleghi: «Come si fa a stare in un partito del genere, in cui non c’è nemmeno la certezza della candidatura?». Proprio il sadismo adoperato verso i peones, lasciati sempre a friggere nell’incertezza, è forse la questione che più ha attirato su Verdini la diffusa inimicizia dei parlamentari.Tanto che Berlusconi, nella riunione di giovedì pomeriggio a Palazzo Grazioli, ha fatto notare che anche lui accumula una montagna di telefonate inevase, durante il giorno, ma che poi la sera cerca di rispondere a tutti.

Di questioni ce ne sarebbero molte. Un’altra fonte interna dice: «Qui a Palazzo Madama c’è molto scoramento. Giovedì mattina in tanti sono dovuti rientrare in fretta e furia a Roma per la conferenza stampa sulla giustizia e l’hanno fatto malvolentieri. C’è un punto da non sottovalutare: molti sono al primo mandato e non prenderebbero neanche la pensione, la legge è cambiata di recente. Tanti altri però non vogliono andare alle elezioni anche perché vorrebbero finalmente lavorare a provvedimenti previsti nel programma, non solo alle leggi per Berlusconi. Quindi dicono: ben venga un rilancio dell’azione di governo sul Mezzogiorno». Sarebbe quello infatti uno dei temi sui quali il premier vorrebbe chiedere una sorta di nuova investitura parlamentare al rientro dalle vacanze, anche per inchiodare Futuro e libertà a un patto di fedeltà con il governo. Dice Filippo Berselli, presidente della commissione Difesa del Senato: «Su molti punti i finiani rischiano di trovarsi in difficoltà. Sulla giustizia ma anche sul definitivo accantonamento di progetti come la cittadinanza agli stranieri. Perciò il ritorno alle urne non è un’ipotesi lontana.

Poi dico: saremmo stati irresponsabili se non avessimo prima approvato la manovra, ma adesso anche l’Europa vedrebbe con più favore un governo italiano solido e non costretto a vivacchiare».

E Pisanu? Possibile che la previsione dell’ex ministro dell’Interno su una “maggioranza contraria alle urne” sia del tutto infondata? «Pisanu è persona non molto lontana dal presidente Fini. Anzi, era accreditato come uno che condivideva la linea della Terza carica dello Stato: Dopo questa intervista l’ipotesi credo si rafforzi». Quindi il suo è un caso isolato? «Bisognerebbe chiedere a lui, davvero non so chi possano essere eventuali senatori disposti a sostenere un governo diverso dall’attuale. Ma seppure ci fosse qualcuno oppresso dal timore di non essere ricandidato, pensa davvero che con Fini riuscirebbe a farsi eleggere?». C’è però un’altra questione forse sottovalutata: davvero il pressing del Quirinale per evitare uno scioglimento anticipato non troverebbe nessuno, nel Pdl, disposto a recepirlo? Paolo Guzzanti per esempio solleva a sua volta altri dubbi. E come sottovalutare i tanti, da Musso a Giovanardi (entrambi al Senato) che si sono lamentati di recente per una gestione sempre più autocratica del Pdl? Come ignorare che altri, come Benedetti Valentini, non hanno seguito Fini solo perché trattenuti a forza dai capigruppo? E come dimenticare chi, come Massimo Baldini, è stato messo ai margini da Verdini? O i tanti, da sottosegretari come Nitto Palma a onesti soldatini come Asciutti, che hanno già raggiunto la fatale soglia delle tre legislature? Anche stavolta i conti dei berlusconiani rischiano di non tornare.

interne e qualche osservatore che conosce bene le cose in casa leghista raccontano di un clima poco tranquillo in via Bellerio e della speranza di ritrovare un’intesa con Fini. Da una parte le previsioni del politologo Roberto D’Alimonte che danno, in caso di elezioni anticipate, un Senato con una maggioranza risicata, stile Prodi 2006. Dall’altra le preoccupazioni per un futuro incerto di molti esponenti storici del Carroccio che non fanno parte del “cerchio magico”(Rosy Mauro, Marco Reguzzoni e Federico Bricolo) intorno a Umberto Bossi. E mentre la maggioranza dei politici, scattato lo sciogliete le righe parlamentare, è partito per le vacanze Bossi e i suoi hanno puntato verso le valli padane con una agenda ricchissima di appuntamenti per incontrare la loro gente. Il clou è previsto dal 13 al 15 agosto a Ponte di Legno, in provincia di Brescia, con la festa della Lega Nord, per la quale gli organizzatori prevedono oltre diecimila presenze. Proprio a ferragosto il popolo padano, e non solo, spera di conoscere dalla viva voce del suo leader le intenzioni della Lega sul futuro della maggioranza e dell’alleanza con Berlusconi.

I leghisti non si fidano dello scenario attuale, sono consapevoli che il loro popolo questa volta vuole il federalismo e sarebbe difficile giustificare ulteriori rinvii, soprattutto ai loro nuovi elettori che non fanno parte dei «duri e puri” di Pontida. Lo stato maggiore del Carroccio in questi giorni metterà a punto la strategia per l’agenda autunnale, ma già si registrano i primi sussulti. Lo schema è quello classico della Lega: proclami del leader, posizioni intransigenti di alcuni esponenti, toni più morbidi e accomodanti di alcuni big del partito. Ogni dichiarazione ha dei messaggi precisi per alleati e avversari che, in qualche caso stanno tentando di incontrare esponenti del Carroccio per tentare qualche abboccamento. Nei giorni scorsi ci sarebbe stato un tentativo da parte di alcuni esponenti del Pd (Andrea Orlando e Roberta Pinotti) di organizzare un incontro con Roberto Maroni. Il tentativo è fallito e il ministro dell’Interno si è affrettato a dichiarare: «Avremo un nuovo governo entro Natale, così da approvare il bilancio entro la fine dell’anno. Se Berlusconi non ha la maggioranza si dimette e va dal Capo della Stato che però dovrebbe tenere conto di chi ha vinto le elezioni. In due giorni, si renderanno conto che non c’è possibilità di avere altre maggioranze e Napolitano scioglierà il Parlamento e indirà nuove elezioni». Lo stesso Bossi continua a dire che «così non si va avanti» e il capogruppo

leghista in Senato Bricolo aggiunge: «Obiettivo della Lega è continuare l’azione di questo governo per attuare il federalismo, realizzare le riforme e il programma elettorale. Qualora questa strada non fosse percorribile l’unica opzione è ridare la parola agli elettori».

Posizioni chiarissime, alle quali, però, si contrappone quella del ministro Roberto Calderoli che, in un’intervista al Corriere della Sera, ha annunciato un incontro con Gianfranco Fini, per presentargli i decreti sul federalismo. «È lì che si vedrà - ha detto il ministro - se il governo può andare avanti o se sarà necessario ridare la parola agli elettori. Ci aspettiamo un contributo secondo il quale il metodo del confronto, anche su altre questioni, sarà basilare per capire se Fini è ancora d’accordo con il programma che ha sottoscritto». Le dichiarazioni di Calderoli sono state subito accolte con favore dal viceministro finiano

Manuela Dal Lago avverte: «Nessuno di noi ha voglia di tornare alle urne. Chi è serio sa che il Paese non vuole le elezioni anticipate» Adolfo Urso: «È un altro segnale che si ricomincia a discutere di politica». Anche Manuela Dal Lago, presidente della commissione Attività produttive di Montecitorio, ha lanciato segnali di apertura, dichiarando all’Adnkronos: «Più che una mediazione, quella del ministro Calderoli è una verifica. In Parlamento i finiani hanno dichiarato che voteranno il federalismo fiscale». La Dal Lago confermando le preoccupazioni sull’ipotesi di elezioni anticipate ha aggiunto: «Nessuno di noi ha voglia di tornare alle urne. Chi è serio sa che il Paese non le vuole. Le elezioni diventano però indispensabili se ci si accorge che non si può realizzare il programma». Bossi chiama i suoi a raccolta e Calderoli, dopo l’incontro con Fini, farà parte con Tremonti, Ghedini, Alfano, Bonaiuti, Cicchitto e Quagliariello del gruppo al Berlusconi avrebbe incaricato di preparare un programma in quattro punti (fisco, giustizia, federalismo e Sud) da presentare a settembre ai finiani per ricucire lo strappo interno al Pdl. E l’estate si preannuncia di fuoco anche in Padania.


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società

arebbe molto interessante andare alla radice dell’espressione americana concernente il congresso o la presidenza indeboliti per ragioni varie; gli americani in questo caso dicono che si tratta di una «lameduck Presidency» o di un «lameduck Congress»: tecnicamente gli americani dicono che in questo caso si tratta di una «anatra zoppa». Noi diremmo una «presidenza azzoppata», perché almeno fino ad ora non si può parlare di un Parlamento azzoppato. Nell’un caso come nell’altro, l’indebolimento di una istituzione fondamentale di governo fa riferimento ad un animale azzoppato.

vertimento. In questi casi, la comparazione finisce con l’essere sostanzialmente tra valori anche alternativi tra di loro: la protezione dell’animale in quanto tale, a prescindere dalle ragioni per le quali esso entra in rapporto con l’uomo, o la salvaguardia della tradizione dell’utilizzazione dell’animale a fini sportivi o competitivi come avviene anche nel caso del Palio di Siena.

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Perché questo riferirsi ad un animale per indicare l’indebolimento di un’istituzione di governo? Non si è probabilmente riflettuto a sufficienza sulle ragioni di fondo, che nel corso di molti secoli hanno indotto gli uomini a considerare gli animali tutti di volta in volta oggetto di divertimento o di guadagno, oppure soggetti da tutelare anche nei confronti dell’uomo. Questo dibattito è improvvisamente diventato di attualità, allorché è parso che il suggerimento che il ministro Michela Vittoria Brambilla traeva dalla recentissima decisione catalana di vietare la corrida in Catalogna, potesse comportare una sorta di interdizione persino per il notissimo Palio di Siena. Ebbene occorre proprio riflettere su questa oscillazione tra protezione e tradizione, che ha riguardato in particolare il cavallo come in tanti ricordiamo in riferimento al cavallo Nestore, splendidamente descritto in un film di Alberto Sordi. Nel corso dei secoli l’umanità ha fatto riferimento ad un uso non bellico del cavallo, forse proprio perché in quei tempi l’uso bellico costituiva una sorta di corrispettivo culturale e politico dell’utilizzazione del cavallo medesimo a fini sportivi o quanto meno competitivi. Lunghissima è infatti la storia dell’utilizzazione del cavallo per obiettivi militari o a fini competitivi: fino all’introduzione di armi non più basate sulla cavalleria, questa contestuale valenza del cavallo medesimo anche a fini comunque correlati alla prestanza fisica dei cavalieri aveva pertanto una sorta di “nobiltà” di fondo, nel senso che il cavallo veniva comunque visto quale compartecipe essenziale di azioni umane significative. Ben diversa è la situazione nella quale l’utilizzazione del cavallo o di altri animali è vista esclusivamente o anche prevalentemente per il soddisfacimento di interessi economici più o meno leciti (gare legittime o clandestine che siano), o per pure e semplici esigenze di di-

Si tratta pertanto di avere per riferimento fondamentale una idea di fondo: l’esistenza in quanto tale, anche dell’animale, va tutelata perché si tratta comunque di un essere vivente, o al contrario si devono ritenere prevalenti il soddisfacimento di interessi economici, anche vitali per l’essere umano, e la salvaguardia di tradizioni popolari radicalmente vissute come parte essenziale di questa o quella comunità? La questione, dunque, attiene anche in questo caso ad aspet-

La questione attiene all’idea stessa che abbiamo dell’uomo e del suo rapporto con gli altri esseri viventi

Il caso. Il nodo è la difesa culturale (e non solo sentimentale) della vita

La mossa del cavallo Ecco perché sia la Brambilla sia Siena hanno (almeno in parte) le loro ragioni di Francesco D’Onofrio

La proposta shock del ministro al Turismo fa discutere

Le contrade del Palio in rivolta ROMA. «Aboliamo il palio di Siena». A dirlo non è la contrada della Lupa, che aspetta la vittoria ormai da 21 anni, a differenza dei rivali storici dell’Istrice, trionfatori nel 2008. No, a dichiararlo è il ministro del Turismo, la rossa Michela Vittoria Brambilla. L’ispirazione della ministra animalista è stata offerta della Catalogna, che negli scorsi giorni ha bandito le corride, suscitando le polemiche dei tradizionalisti di tutta la Spagna. «Ci sono troppe manifestazioni, troppi retaggi che comportano lo sfruttamento degli animali. Se la Catalogna ha rinunciato alla corrida noi possiamo rinunciare a qualche Palio», ha detto qualche giorno fa la Brambilla, nella cornice istituzionale di Palazzo Chigi, riferendosi in particolar modo al più famoso dei palii del belpaese. Evidentemente colpita dalla eco positiva con la quale è stata accolta la decisione del governo autonomo catalano, il ministro ha osservato che le manifestazioni nelle quali è a rischio l’incolumità degli animali

«non aiutano l’immagine dell’Italia all’Estero», e che pertanto, in tal senso, «occorrerà valutare esattamente quali saranno le esperienze postive e quali quelle negative». Di segno nettamente negativo, ovviamente, le reazioni delle autorità locali. Maurizio Cenni, sindaco di Siena, ha minacciato di sporgere denuncia contro il ministro. Da sempre, secondo il sindaco, il Palio rispetta le leggi dello Stato sulla tutela degli animali, rendendo così le posizione della Brambilla addirittura diffamatorie nei confronti degli organizzatori. «La ministra animalista che fa ridere i polli», ha commentato Enrico Rossi, presidente della Regione Toscana. Ma una stroncatura arriva anche dalle fila dello stesso Pdl. Gli onorevoli Valducci e Lorenzin liquidano infatti la vicenda così: «Dev’essere stato il caldo agostano, o la scarsa conoscenza della storia e delle tradizioni italiane, ad aver indotto il ministro Brambilla a proporre l’abolizione del Palio di Siena».

ti essenziali dell’essere umano, dell’idea stessa che abbiamo dell’essere umano in quanto tale, del suo rapporto con altri esseri viventi, essendo comunque rilevante la distinzione tra esseri viventi animali ed esseri viventi vegetali.

Si tratta dunque di una questione non balneare, come purtroppo si è dovuto constatare in riferimento ad una vera e propria sollevazione di scudi concernente il Palio di Siena. Se si tratta della difesa culturale e non soltanto sentimentale della vita in quanto tale anche se si tratta di vita animale - occorre riuscire a salvaguardare fondamentali tradizioni popolari basate sugli animali, solo a condizione che esse non mettano necessariamente in pericolo la vita degli animali medesimi. Sia che si tratti infatti di interessi economici potenzialmente contrastanti con la tutela della vita del cavallo (come sembra che sia avvenuto nel caso dei cavalli romani utilizzati a fini turistici anche nelle ore più calde della giornata); sia che si tratti di interessi sportivi che traggono origine da antiche e nobili tradizioni militari (come nel caso del carosello di Piazza di Siena), si può affermare che l’utilizzazione del cavallo è fondata certamente sulla salvaguardia della vita del cavallo medesimo, perché in questi casi si tratta di utilizzazioni non brevi di cavalli che devono peraltro essere accuditi per trovarli in ottima forma al momento del bisogno.


L’

otto pagine per cambiare il tempo d’agosto

i m p r e s a

7 agosto (1420)

Brunelleschi inizia la costruzione della sua cupola di Santa Maria del Fiore

Filippo, il Bello di Firenze di Claudia Conforti

na stupefacente progressione demografica contrassegna la Firenze del duecento, che passa, nel volgere di un secolo, da circa 50mila abitanti a circa 95mila, attestandosi tra le città più fiorenti e popolose d’Europa, superata solo da Parigi, che tocca i 200mila abitanti. Questa crescita torrenziale è allo stesso tempo sintomo e condizione di uno straordinario sviluppo economico e civile, che rifigura radicalmente l’immagine e la struttura architettonica della città. Le sue mura, a partire dal 1284, sono enormemente ampliate, fino a raggiungere una lunghezza di circa 9 chilometri, includendo, al di là dell’Arno, la porzione collinare di Boboli e di San Giorgio, e a dotarsi di ben diciannove porte, tra le quali le nuove aperte alla Croce, a San Gallo, al Prato. Contemporaneamente la dotazione civile della città si arricchisce di una sontuosa loggia del Grano (poi trasformata nella chiesa di Orsanmichele); di un palazzo del Popolo (il Bargello) e del possente palazzo dei Priori (palazzo Vecchio), sede del governo. Tra le manifestazioni di magnificenza civile, in gran parte ideate dal genio costruttivo di Arnolfo di Cambio, si annovera anche la rifondazione della chiesa cattedrale, in antico dedicata a Santa Reparata. Nel 1285 il consiglio fiorentino dei Cento decide infatti di ampliare, a spese della comunità e non gravando sulla chiesa, la cattedrale, assegnandone il progetto ad Arnolfo. L’architetto scultore nel 1300 verrà esentato con delibera del governo, dal pagamento delle tasse, come riconoscimento per avere dato «magnifico e visibile principio… al più bello e onorevole tempio della Toscana». La nuova grandiosa chiesa sarà dedicata a Santa Maria del Fiore, associando così nella titolazione il nome della madre di Dio al fiore, simbolo araldico e paradigma onomastico di Firenze/Fiorenza. continua a pagina 10

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LA PERDUTA GENTE - CAPITOLO 5

DIAMO I NUMERI

CINEMA CALDO - UN’ESTATE D’AMORE

Le orribili opinioni del dopocena

L’errore dei sette mari

Il primo sigillo di Ingmar

di Carlo Chinawsky

di Alessandro Boschi

di Osvaldo Baldacci

pagine 12-13

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La cattedrale progettata da Arnolfo assume come scala di riferimento fisica e concettuale la nuova dimensione della città, quale è prefigurata dalla cerchia di mura appena edificate: della città nuova la cattedrale, capace di accogliere ben 30mila fedeli, intende rappresentare ed enfatizzare la magnificenza edilizia e l’orgoglio civico, come attestano i documenti che proclamano la nuova basilica “onore del Comune e orgoglio della città”.

a punto in queste circostanze è affidata all’affresco dedicato alla Chiesa Militante e Trionfante che Andrea di Bonaiuto ha istoriato tra il 1366 e il 1369 nella sala capitolare, denominata cappellone degli Spagnoli, della chiesa domenicana di Santa Maria Novella a Firenze. Il dipinto mostra il fianco settentrionale della nuova cattedrale, che è coronata di statue e le cui navate sono scandite da quattro campate, illuminate da slanciate trifore finemente

L’edificazione del corpo basilicale, a cui contribuirono centinaia di operai, richiederà un intero secolo e comporterà la profonda modificazione di tutto il quartiere medievale gravitante che all’intorno, verrà in gran parte demolito per dare spazio e veduta alla magnifica chiesa, al campanile di Giotto e al battistero, complementi architettonici del grandioso tempio mariano. La costruzione della cupola tuttavia resterà sospesa fino al quattrocento inoltrato: non sappiamo se Arnolfo avesse già in mente, oltre all’assetto spaziale della cupola, anche le modalità tecniche e costruttive della sua titanica edificazione. Sta di fatto che per oltre un secolo il grande vuoto absidale entra a far parte del panorama fiorentino e suggerisce innumerevoli e spesso fantasiosi modi per il suo completamento. Le ragguardevoli dimensioni spaziali infatti creavano irresolubili problemi relativi al reperimento e alla messa in opera delle centine lignee, cioè dei tavolati in legno che, seguendo il disegno della grande volta, ne armavano la struttura, sostenendone temporaneamente il peso materiale durante la costruzione. L’ambizioso programma costruttivo della nuova cattedrale di Firenze si materializza solo nel 1296 quando viene approvato il disegno di Arnolfo di Cambio che prevede una basilica a tre navate, conclusa da una colossale struttura a cupola. I lavori tuttavia procedono con grande lentezza per circa mezzo secolo, allorché subentra nel cantiere, in qualità di capomaestro, Francesco Talenti che dal 1350 imprime un energico impulso all’opera e amplia e perfeziona il progetto arnolfiano. Nel 1367 una commissione di esperti, definiti gli “otto maestri e dipintori”, mette a punto un modello in scala della cattedrale, il cui assetto architettonico e dimensionale viene vincolato da un decreto che impegna, per il futuro, maestranze e capimastri al rispetto meticoloso del progetto. Un’immagine sintetica e riassuntiva dell’organismo quale fu probabilmente messo

traforate e individuate da sottili pilastri gotici che si snodano verso l’alto in obliqui con-

come prova di entusiasmante genialità tecnica e di insuperabili capacità gestionali: imperitura testimonianza del primato artistico e delle risorse creative del popolo fiorentino. Organico complemento dell’impianto composito della cattedrale, articolata da un ipertrofico presbiterio a pianta centrale, saldato a un corpo basilicale a tre navate, la cupola aspira sin dalle premesse a caratterizzarsi come primario coronamento dell’intero organismo architettonico. Essa intende imporsi come simbolico elemento di identità civica e come segnale visibile di orientamento oltre che di dominio della città sul territorio. La grande cattedrale con la sua immensa cupola in effetti coor-

La cupola in realtà costituirà l’atto conclusivo della fabbrica e si imporrà, nel tempo, come prova di entusiasmante genialità tecnica e di alte capacità gestionali

trafforti rampanti. La sezione absidale è conformata da una gonfiante cupola a otto spicchi, impostata su un tamburo ottagonale, al quale si addossano tre absidi poligonali semicupolate. La cupola in realtà costituirà l’atto conclusivo della fabbrica e si imporrà, nel tempo,

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dina e riassume in un disegno urbano unitario le emergenze architettoniche della fiera città del giglio. La dimensione della luce interna della cupola raggiunge all’incirca i 45 metri ed è programmaticamente superiore al diametro interno del Pantheon (43.30), fino ad allora la cupola per antonomasia: irraggiungibile attestato dell’eccellenza costruttiva degli antichi. Il progetto della cupola di Santa Maria del Fiore costituisce una sfida esaltante quanto temeraria sia per il comportamento statico della struttura che per l’organizzazione del cantiere, che per buona parte si svolge a un’altezza vertiginosa e in condizioni spericolate.

All’avvio dei lavori nel 1420 per la grande copertura voltata si assumono i caratteri tipologici e formali di una cupola a padiglione estradossato, con profilo a sesto acuto libero da contrafforti esterni visibili. L’attenzione dell’Opera del Duomo, un organismo appositamente costituito, a cui il governo fiorenti-

no demanda la realizzazione della cupola, si concentra sulla ricerca delle più opportune modalità costruttive e sulla predisposizione delle necessarie dotazioni tecniche, in primo luogo delle macchine di sollevamento e dei legnami per le impalcature, le armature e le dime. Nel 1418 viene promosso un concorso di idee per raccogliere e confrontare indicazioni sulle tecniche costruttive più adatte, sulle opere provvisionali (ponteggi, armature di sostegno, centine), sulle macchine di cantiere. Una prima verifica attuata su modelli costruiti a grande scala approda alla definizione di un programma costruttivo, che contempla oltre alle modalità operative, anche aspetti procedurali e competenze individuali. A Filippo Brunelleschi e allo scultore Lorenzo Ghiberti, nominati Provveditori, toccano congiuntamente la direzione e il controllo dell’attività di cantiere: il loro rapporto sarà screziato di contrasti e si concluderà, dopo crisi burrascose, con l’affermazione definitiva del so-


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o stesso giorno...

Il cervellone elettronico poteva eseguire tre addizioni o sottrazioni al secondo, una moltiplicazione in 6 secondi, una divisione in 15 e un logaritmo in più di un minuto, di Francesco Lo Dico ma pesava 4 tonnellate abbondanti arvard Mark I, 7 agosto 1944: la nal Business Machi-

Harvard Mark I, nacque così l’antenato del personal computer

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storia del personal computer comincia da qui. L’Automatic Sequence Controlled Calculator (Ascc), è il primo calcolatore digitale automatico. Progettato da Howard Hathaway Aiken, ricercatore del dipartimento di fisica della americana Harvard che venne coadiuvato dagli ingegneri meccanici C. D. Lake, F. E. Hamilton e B. M. Durfee, il macchinario prese le mosse dagli studi di Charles che già nell’Ottocento aveva lavorato a uno strumento di calcolo automatico. Aiken prende contatto con alcuni costruttori statunitensi nel 1937, ma tutti, compresa la Monroe Calculator Company rinviano il progetto al mittente. Grazie all’aiuto di Theodore H. Brown, docente di Statistica economica, l’inventore viene presentato a James W. Bryce, alto funzionario del settore ricerca dell’Ibm (Internatio-

delle eccessive dimensioni, l’uso delle tradizionali centine o armature in legno. Vengono avanzate ipotesi anche molto fantasiose, come quella di formare un mucchio di terra,

L’affresco di Andrea di Bonaiuto nel Cappellone degli Spagnoli a SM Novella; immagine zenitale di Santa Maria del Fiore; l’apparecchiatura muraria detta “spinapesce”.

nes Corporation). Bryce resta impressionato dall’Ascc, e nel 1939 comincia la realizzazione de lprogetto presso i laboratori Ibm di Endicott. Ci vollero quattro anni alacri di lavoro, ma infine il calcolatore vide la luce in seguito a un investimento di 250mila dollari. Pronto già dal febbraio del 1944, il calcolatore restò segretamente a disposizione della Marina americana, finchè il 7 agosto fu data notizia a mezzo stampa che la straordinaria invenzione era stata donata a Cambridge. La curiosità intorno all’oggetto mirabolante si fece spasmodica. Il mondo conobbe il Mark I: interruttori, relè, alberi di rotazione, frizioni, 765mila componenti e centinaia di chilometri di cavi. Occupava uno spazio di sedici metri, ed era alto due metri e mezzo. Peso totale di 4 tonnellate abbondanti. Il cer-

dell’opera senza fare ricorso ad armature temporanee di qualsiasi natura. Impostata su di un poderoso tamburo ottagonale, la cupola si sviluppa in otto vele, saldate esternamente da arcuati costoloni marmorei bianchi che convergono verso la lanterna, accendendo un vivace contrasto cromatico con il rosso del rivestimento laterizio delle vele. La cupola nasce a parete piena, per poi suddividersi in

L’osservazione ravvicinata della costruzione consente di cogliere alcuni accorgimenti costruttivi e geometrie che hanno consentito di diminuire il peso della struttura mano a mano che la costruzione procedeva verso l’alto. Il raccordo tra i filari di mattoni in corrispondenza degli angoli, là dove si incontrano vele adiacenti, é ottenuto sviluppando la giacitura dei piani di posa secondo superfici coniche: una disposizione già dal ’700 definita ‘a corda blanda’, cioè in forma di festone, che permette di evitare pericolose discontinuità strutturali nei punti più delicati. Di grande rilievo e di assoluta novità risulta poi l’accorgimento costruttivo detto ‘spinapesce’ dal disegno assunto dai mattoni. Il termine infatti fa riferimento a una particolare forma di apparecchiatura muraria che rende stabili piccoli settori murari grazie all’azione di contrasto esercitata da mattoni emergenti, posti alle estremità di ogni settore. L’espediente, che non ha valore strutturale ma solo costruttivo, consente al maestro muratore di evitare lo slittamento verso il basso

Di grande rilievo e di assoluta novità è l’accorgimento costruttivo detto ‘spinapesce’ dal disegno assunto dai mattoni. Il termine fa riferimento a una particolare forma di apparecchiatura muraria che rende stabili piccoli settori grazie all’azione di contrasto di mattoni emergenti, posti alle estremità lo Brunelleschi.

Nel perseguire l’obiettivo di non intaccare con contrafforti la slanciata eleganza del profilo della cupola, si ravvisa la necessità di scaricare le spinte della volta nello spessore del muro, rafforzandolo con catene di pietra, di ferro e di legno. Ancora all’avvio dei lavori permane irrisolto il modo con cui sostenere la grande volta nel corso della sua costruzione, risultando impraticabile, a causa

grande quanto la cupola, che funzioni come supporto alla costruzione. Una volta terminata la cupola, per accelerare la rimozione della montagna di terra, si ipotizza di disseminare al suo interno monete d’oro, in modo che l’avidità spinga i cittadini a scavare e ad asportare con ceste il terriccio. Ma l’ipotesi verrà rapidamente accantonata. A Brunelleschi è riconosciuto il merito di aver trovato la soluzione per la costruzione

due calotte: una interna, con spessore di 2.20 metri, e una esterna, di 0.90 metri; l’intercapedine di 1.20 metri tra le due calotte consente la risalita fino alla lanterna. La chiave di volta della cupola in marmo è denominata serraglio e salda la cupola alla lanterna, la quale ultima costituisce la fonte privilegiata della luce per il presbiterio.

vellone elettronico poteva eseguire tre addizioni o sottrazioni al secondo, una moltiplicazione in 6 secondi, una divisione in 15,3 secondi e un logaritmo in più di un minuto. Dipendeva tutto dalle istruzioni scritte su alcune schede perforate, secondo un modello che diventò noto come Architettura Harvard. Fu usato laggiù fino al 1959 per risolvere problemi scientifici complessi e a fini militari. Ma oggi farebbe tenerezza

della muratura in corso di realizzazione, prima ancora che si raggiunga l’equilibrio complessivo di ogni strato di mattoni con la chiusura sull’intero perimetro dell’ottagono. La soluzione della ‘spinapesce’, cosiddetta dalla disposizione dei mattoni, diventerà frequente nella costruzione delle cupole nella seconda metà del ‘400. Un cantiere fuori misura come questo ha richiesto una forza lavoro qualificata, ma anche un’organizzazione del lavoro attenta e programmata; considerazioni di rilievo possono essere proposte sulle varie attività sviluppate in un più ampio raggio di azione, come nelle cave, nelle fornaci, nelle botteghe degli scalpellini, così come nella messa a punto di macchine di sollevamento, di ponteggi, di accessori di cantiere. Proprio per sua ardita eccezionalità, la cupola di Santa Maria del Fiore ha goduto nei secoli dell’interesse di architetti e ingegneri, che hanno scrutato le sue strutture murarie e interrogato le centinaia di documenti che ne hanno accompagnato la costruzione e la storia.

Documenti che oggi sono consultabili su internet alla pagina www.operaduomo.firenze.it. La sintesi più leggibile e accurata delle vicende storiche e costruttive del capolavoro di Brunelleschi si deve al volume di Chiara Peroni e Lamberto Ippolito, La cupola di Santa Maria del Fiore, 2ˆ edizione, Carrocci Roma 2009, a cui questo articolo è totalmente debitore.

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IL GIALLO

CAPITOLO 5 Le orribili opinioni del dopocena Un scalata illecita, uno scoop finito in niente: la politica aveva vacillato, e qualcuno aveva insabbiato il caso di Carlo Chinawsky

C

on il colonnello Alfredo Boi le solite cose che si chiamano convenevoli. Di lui ricordavo solo cose marginali. Ed è la peggior cosa se si è davanti a un uomo che si considera di potere. L’avevo incontrato a Bologna molti anni prima. Lui accennò alla “nostra” Rimini e a mio padre: «L’ho conosciuto bene». A questo punto deviai il discorso. Di mio padre parlo solo con me stesso e con mia sorella. «Tu sai perchè sono qui», dissi. Boi, romagnolo di nascita e d’accento, era un uomo adiposo e molle. Fu facile fotografare nel suo faccione un dissimulato disappunto: venivo da Roma per risolvere un caso milanese.

Un’ intrusione, così era nei fatti e nel suo orgoglio di capotribù. Cadenzò più volte la sua “personale sollecitudine” nell’affidarmi “l’ottimo maresciallo Conforti”. E poi: «Ne risolviamo già di misteri… a sentire la faccenda di quel zurnalista mi tira un po’ il culo, sai com’è. In ogni caso abbiamo qui il famoso Stauder...». «Famoso è chi fa film o va in tivù a dire stronzate, discorso chiuso. Piuttosto, sai se Jorio abbia dato fastidio a qualcuno che conta?». «Ma son cose che conosci bene, valà Stauder!». «Sono un cane che annusa. Un cane più intelligente di un cane. Quindi non hai niente, eh?». Boi sbuffò con allegria e lanciò al-

tre panzanate cerimoniali. Come dire: chi sta a Roma ne sa più degli altri. Arridaje. Mi venne in mente che quand’era a Bologna aveva un’amante. Popputa, vistosa. Inevitabile, davanti alla massa gelatinosa dentro la divisa, chiedersi quali acrobazie amatorie fosse costretto a fare o potesse fare. In molti se lo domandavano, e giù risate. La prescelta poteva essere una come “l’odorosa ancheggiante” di cui accenna in un romanzo Giuseppe Pederiali, emiliano fantasioso. «Quel che ti serve chiedimelo, caro Nicola, mi raccomando». Ringraziai e raggiunsi un bar di via Moscova, con il mio magrissimo Virgilio. «Qual è il programma, colonnello?». Gli spiegai che m’ero fatto due urgenze. La prima: rintracciare la figlia. E a questo punto lui strizzò gli occhi. Sua segnaletica di riflessione. Poi mi disse che il brigadiere Mauro Pizzi, omone buono che non mollava mai la presa, poteva darci una mano. «Ci sa fare con le persone… ». «’Na bona pezza, insomma. E pure bravo, lei dice… ma bisogna pur dargli un punto di partenza». «Eh sì». «Che però non abbiamo. Chissà, il cimitero... semprechè Patrizia Jorio non sia una che dice cose come ah, papà me lo porto dentro, che inutile tristezza le lapidi. Mi sa che il cronista ha venduto i mobili per dare soldi a lei. A chi sennò?». «Il cimite-

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ro…nient’altro?». «Ovvio che no, marescià. Verifichi se la ragazza ha precedenti penali. Magari non ha controllato nessuno. Mi diceva di questo brigadiere…. ». «Pizzi, sì. È un fenomeno a scovare la gente, un vero mastino». «Frase da film». Ridacchiò da permaloso. Lo informai che sarei andato al giornale dove aveva lavorato per decenni.

Lo scoop di Jorio sullo scandalo Torchini-Scorrano era finito in niente: i giornali avevano avuto altre carni da azzannare e la politica era poi tornata, almeno per un certo tempo, nel suo canale setoso. Ma era andata peggio per chi s’aspettava forse un premio. Ossia Jorio. Al quale invece era stato dato il benservito. In uno dei suoi quaderni aveva scritto una frase in stile manzoniano: «Le memorie vaghe aiutano i colpevoli: il torto e la ragione convivono come i capelli di una treccia, lunga e sporca». L’ex professore di liceo recitava a se stesso quel che decenni prima poteva dire ai suoi alunni o forse non aveva mai detto perché si stizziva per la bassa qualità dell’uditorio. «E poi andremo insieme dalla vedova Jorio». «Sono curioso», disse Conforti. «Anch’io. Me la vedo come una donna antipatica». Bruno Rimi era un uomo con la barba ingrigita e un paio di

Molto rumore per nulla: i giornali avevano taciuto e la politica era tornata nel suo canale setoso. Jorio lo aveva scritto: «Le memorie vaghe aiutano i colpevoli: il torto e la ragione convivono come i capelli di una treccia, lunga e sporca» occhialini tondi che teneva o sulla punta del naso o appoggiati al petto, assicurati a una cordicella. Avevo cercato lui perché il suo nome era scritto sui diari di Jorio: accanto una frase: «Esule nel paese che ha eletto come suo, uno dei pochi che parla, con cognizione di causa - e di effetto - delle cose di cui si sta occupando». Lo doveva stimare, forse erano anche amici. «Si può andare in un bar, nel frattempo mi fumo la mia sigaretta», disse immediatamente. Non s’era meravigliato della mia visita. La sigaretta era di quelle indiane, sottilissime, che faceva a mano. Camminava lentamente e in modo elastico, spesso si fermava per finire una frase. Naturalmente cordiale, poteva diventare vischioso. Mi raccontò subito che lui e Jorio si erano conosciuti a Roma, nella redazione dell’Avanti!. «Alcide era soprattutto un intellettuale. Faceva il cronista per curiosità umana e per non ripiombare nell’inferno dell’insegnamento, così lo chiamava.Tutti e due

credevamo che ci fosse un filo, un filo robusto, che univa giornalismo e cultura… ». «Invece?». «Talvolta c’è», rispose buttando fuori il fumo a mento alzato, «ma è un’anguilla. Bisogna prima scegliere una cordata, un gruppo… il meccanismo è questo, dovunque mica solo da noi. A meno di essere noto per aver scritto libri di successo».

Rimi doveva appartenere al club di quelli che si sentono a proprio agio quando trovano interlocutori coi quali evitare «le orribili opinioni del dopocena»: frase di Carlo Emilio Gadda. Io e mia moglie la ripetevamo spesso, prima di una sortita mondana, la sera. Entrammo in un locale con un’insegna tipo pub irlandese. Lo salutarono con deferenza. «Mi è spiaciuto, e tanto. Non sono andato al suo funerale perché ero a Parigi. Là ho ancora un appartamento, e non me ne disfo anche se mi costa parecchio. Ho fatto il corrispondente per quindici anni… e adesso


LA PERDUTA GENTE Nelle puntate precedenti Stauder, nel bilocale milanese dall’Arma, esamina gli appunti di Jorio. C’è una traccia di romanzo o commedia ambientata in un giornale. Considerazioni astiose e vere. Scopre anche che Jorio intervistò a Parigi la moglie di un finanziere, Torchini, corrotto e corruttore, vicino alla malavita e alla politica. La donna ammette con lui che Scorrano, anche durante il processo, non rivelò mai il nome del politico del quale probabilmente era il “burattino”.

Illustrazione di Michelangelo Pace

son qui… ordine di rientrare… non avevo scelta». Ed ecco la domanda tardiva: «Scusi, colonnello, come mai s’interessa al suicidio di Alcide? Vuole dire che… ». «Appunto. Non siamo sicuri. Quel che volevo chiedere a lei, dottor Rimi, è che mi chiarisse la faccenda Torchini-Scorrano… lui per quella andò a Parigi… ». «Fino in fondo non l’ho mai capita nemmeno io… nel senso che Alcide era caporedattore di cronaca, poteva mandare un collega, e invece no… ma era testardo, e poi parlava poco». «Ma tra voi… ». «Mi disse quasi niente. L’ho visto però turbato. Sa, guai a domandargli troppo: se voleva parlare lo faceva, certe domande lo irritavano». «E cosa le ha detto di quell’intervista? Ma soprattutto: perché la fece?».«Non le so rispondere. Potrei dire perché era un ottimo giornalista. Ma questo non chiarisce affatto. Quel che è certo è che sollevò un polverone tirando in ballo, di nuovo, l’onorevole Scorrano. Un mascalzone… ». «Per avere quell’appuntamento a Parigi le chiese consiglio… delle informazioni…?». «Certo. Lo misi in contatto con un mio stringer, un informatore. E quella donna si è sbilanciata… non ci avrei scommesso. Un bel sasso ha lanciato». «Che è finito nello stagno», completai io. «Eh sì. Il guaio è che lo stagno ci riguarda da

vicino. Come giornale, intendo». «Mi faccia capire bene», chiesi coi gomiti sul tavolino e guardandolo dritto negli occhi, grigi come la sua rimpianta Senna. «L’onorevole Scorrano ha a che vedere con l’azionariato che controlla La Sera? Oppure Torchini, il finanziere che ora è al fresco, è un burattinaio o un prestanome… ». «Tutte e due le cose. Torchini pare abbia tentato la scalata al nostro gruppo editoriale. È una di quelle cose che non si dice o non si deve dire, veda un po’ lei». «Scalata con l’appoggio di Scorrano?». «Sono voci. Insistenti, mai battezzate da prove. Diciamo che forse c’entra il suo gruppo politico, una correntina che serve a stabilizzare o a cambiare gli equilibri in Parlamento. Sa, sono quelli che alla fine possono ricattare anche se sono considerati delle merde. Lui comunque è uomo di mezza tacca». «Però tempo fa la sua barchetta andava a vele spiegate». «Ah, questo di sicuro. Ma solcava gli stagni», sorrise, «allora come oggi è difficile trovare un mare vero, quello di Melville». «Ho capito, non si chiamava Ismaele. Però il suo collega l’ha pagata sulla propria pelle». «Lei mi sta chiedendo se se n’è andato dalla Sera spontaneamente o l’hanno spinto fuori senza fare chiasso?». «Appunto».

Fece il gesto di arrotolare un’altra sigaretta, poi lasciò perdere. Finì il suo Campari, fissò il bicchiere vuoto che teneva in mano. S’era imbucato in una delle sue pause meditative. Dovevano essere frequenti. «E dunque?», lo incalzai. «Quando Alcide andò a Parigi il direttore non c’era. Se fosse stato in sede l’avrebbe bloccato. I due vice o sottovalutarono i retroscena oppure… credevano facesse solo un pezzo di cronaca». «E se avessero permesso la trasferta a Parigi per mandare un messaggio a qualcuno… qualcuno che non era in sede, magari?». «Lei è acuto. Risultato finale: l’hanno silurato. Con modi seducenti, cioè una buonuscita da non rifiutare. Era vicino alla pensione, gli conveniva. In cambio del silenzio». «Ma al processo… posso anche ricordare male… non venne fuori l’interesse azionario, insomma la scalata di Scorrano. Solo quella di Torchini. I magistrati non presero in considerazione certe connessioni… cose vaghe, sussurri… Jorio in uno dei suoi appunti parlò non a caso di “memorie vaghe” a proposito di colpevoli… ». «Ah». «La cosa finì lì, comunque. Jorio se ne va, magari con un premio, e… ». «Eh no!». «Perché dice no?». «Alcide era testardo. È vero che andò a lavorare per quella rivista del cavolo, ma scrisse un pezzo per Universo, foglio di estrema sinistra. Lui che di sinistra proprio non era, anzi». «E che successe?». «Da quel che ho saputo doveva fare una serie di articoli sui casi insabbiati in Italia… Avrebbe

Bruno Rimi prese tempo armeggiando con la sigaretta indiana. Poi si fermò, con lo sguardo incollato alla facciata del palazzo dove doveva rientrare. «È una domanda giusta e difficile, colonnello Stauder», disse. «Me la sono posta anch’io» potuto continuare per anni». «Invece ne scrisse uno solo? Quello su Torchini e Scorrano. È così?». «Proprio. La cosa strana è che la direzione di Universo lo fermò. Non andò mai a fondo, malgrado certi spunti suggeriti da Jorio. Oggi si cagano sotto anche quelli. Si scandalizzano a corrente alternata». «Lei conosce qualcuno di Universo con cui possa parlare?». Mi fece il nome di un certo Ernesto Corradi: «È uno che riesce ancora ad avere pensieri suoi. Le do il cellulare». Gli chiesi, una volta fuori del bar, se l’ostinazione di Jorio fosse dettata da ragioni esclusivamente professionali. Rimi prese tempo armeggiando con la sigaretta indiana. Poi si fermò, con lo sguardo incollato alla facciata del palazzo dove doveva rientrare. «È una domanda giusta e difficile, colonnello Stauder. Me la sono posta anch’io».

Cambiai direzione: «Conosce la figlia di Alcide?». «So che si chiama Patrizia. Tutto qui. Non ne parlava mai, solo qualche accenno.Nebuloso, direi. Ma era chiaro che per lui era un cruccio. O qualcosa di più, visto che era la figlia. Anch’io ne ho una, che vive lontano… in Grecia. Non mi chiama mai». «E lei la chiama sua figlia?». «Ci ho provato. Inutile. Domanda difficile anche questa, colonnello». Malinconia. Familiare e geografica. Due destini, a parte la morte, che s’erano sfiorati più di una volta. «Patrizia non è mai venuta a trovare il padre in redazione?». «No. L’ho vista solo in foto. Una ragazza non bellissima, ma interessante. È capitato una volta quando mi sono avvicinato ad Alcide e lui aveva il cassetto della scrivania aperto. L’ha subito richiuso e ha tenuto ad allontanare un possibile equivoco. Mi ha detto “è mia figlia”, come se avessi potuto immaginare una sua amante». «Lei sapeva se si incontravano di tanto in tanto? Per me è importante». «Sa, quel che odio di più, anche nel mio lavoro, sono le ipotesi… viviamo in un paese che si ingozza di questo». «Che mi stava dicendo di Patrizia?». «Il due più due non fa sempre quattro», rispose Bruno Rimi «Ma un giorno l’ho sentito dire al telefono

“bar Samoa”. Anni fa era un posto stravagante, allegro, dove si faceva buona musica, pieno di balordi, di perditempo, di lenoni, di intellettuali o aspiranti tali, di pittori in cerca di galleristi o critici d’arte, della grande occasione… oggi no». «È cambiato tutto, immagino». Sorrise: «In questa zona c’è stato l’assalto di quegli stracciaculi di stilisti. Erano meglio i bordelli di via Fiori Scuri, le osterie, i caveaux pieni di fumo e di chiacchiere sceme. Mi creda: non è la solita nostalgia, come quella per i Navigli». «Lo so».

Alzò il braccio e puntò il dito: «Vede quelle due in bicicletta, le sciurette del quartiere… il cestino di vimini, scarpette giuste… tutta ecologia da attico… ». «Ce ne sono anche a Roma. Ma usano di più il motorino». «Sa, è questo orribile fuori che entra anche nel giornale… non so se mi segue… ». «Forse». «Vede», proseguì, «il virus che noi dovremmo descrivere o combattere s’infila nei nostri computer, e allora scompare sia il fuori che il dentro. Io sono di modeste origini, forse per questo… ma le faccio perdere tempo, vero?». «Per niente». «Be’, era per dirle che sia io che Alcide eravamo d’accordo. Un giorno ci siamo detti la stessa cosa: non riusciamo ad andare oltre un fastidio». «Mi spieghi meglio». «Aspetti… Alcide tirò fuori un paragone originale… disse che la nostra intelligenza è come un mestolo che raschia la base di una pentola. Non serve, ci vorrebbe invece un punteruolo… Era il suo assillo». Tornai alle cose che più mi premevano e gli chiesi se Jorio e la figlia si vedevano al Samoa, se lui li avesse visti lì o se l’avesse saputo da qualcun altro. Scosse piano la testa con gli occhi puntati sulle sue scarpe Clark: «Il due più due… ». «Me l’ha già detto». Era pensieroso. Forse aveva il timore di lasciar trapelare cose che non lo riguardavano più. Il rispetto per l’amico morto era come un tampone in gola. «Possiamo scambiarci i numeri del cellulare?», chiesi. «Surement» e finalmente s’accese la sigaretta indiana. Sapeva cose che non m’aveva voluto dire. Non ancora.

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DIAMO I NUMERI La questione risale a più di quattro millenni fa, quando una sacerdotessa sumera di nome Enkheduanna ne indica per la prima volta sette nell’Inno 8 alla dea Inanna. Una suddivisione che dai greci ai romani approda a oggi on doveva essere poi così difficile diventare il terrore dei sette mari, visto che i mari sono forse almeno settantuno, secondo certi calcoli geografici, ma direi di più. Solo Wikipedia ne elenca uno sfracello. Quanti pirati, corsari, eroi della letteratura e loro antagonisti hanno ottenuto questo spaventoso titolo che riecheggiava feroci imprese tutto intorno al mondo, sospinti dal vento, evanescenti e imprendibili nell’immensità delle distese marine. Ma questo epiteto che andava di moda soprattutto nei secoli passati in realtà pur richiamandosi a una tradizione millenaria non ha alcun fondamento geografico.

L’errore dei 7 mari

N

La questione risale a parecchi secoli fa, più di quattro millenni per l’esattezza, quando una sacerdotessa sumera di nome Enkheduanna parla per la prima volta di sette mari nell’Inno 8 alla dea Inanna. In realtà nella Mesopotamia, che oggi è l’Iraq, i mari che contavano erano soprattutto due, il Golfo Persico-Arabico e il Mar Mediterraneo: per due millenni il sogno di gloria dei re di quelle parti era conquistare tutto dal Mare Superiore (il Mediterraneo) al Mare Inferiore (il Golfo). Comunque dell’idrografia mondiale gli abitanti dell’attuale Iraq non ne sapevano molto. Ma avevano fama di grandi sapienti, e non è escluso che questa loro tradizione sia rimasta viva attraverso i secoli per arrivare ai greci, che sono quelli che l’hanno ripresa e rilanciata, nonché, in virtù della loro precisione, definita. Erodoto ad esempio parla di sette

All’origine del numero c’è solo un antico valore simbolico di Osvaldo Baldacci mari e li elenca pure: Egeo, Mar Nero, Mar di Marmara, Ionio, Mar Rosso, Mediterraneo occi-

Contarli è un’impresa, perché i nomi di alcuni vengono aggiornati, e ciascun popolo o nazione ne ha battezzato di propri a tutela del territorio o in concorrenza con un vicino ostile dentale, Mediterraneo orientale. Il sette forse aveva perso ormai quel valore simbolico di pienezza che gli è comunemente associato ma che è soprattutto di tradizione mediorientale, e passato negli scritti dei più

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razionali greci diventava qualcosa da dettagliare e definire. Ma di sette mari parlano anche i cinesi e gli indiani, e naturalmente i romani, che li riprendono dai greci rivisitandoli dalla prospettiva delle loro conoscenze geografiche molto accresciute sulla scia dei gladi dei legionari. Dai romani la definizione di sette mari passò al Medioevo, e pur andando via via mutando di contenuto e adeguandosi alle scoperte di nuove e persino sempre più grandi distese d’acqua, il fascino simbolico della locuzione era talmente forte che è rimasta tale fino a noi. Tanto che ancora oggi si parla di sette mari, non solo in senso letterario e in quello simbolico, ma anche nel tentativo di far funzionare geograficamente la frase. Con troppi trucchi però per passarla liscia: i sette mari oggi sono gli oceani, peccato però che gli oceani non sono sette. E allora si dividono,

per far tornare i conti nella migliore dimostrazione di come la suggestione della tradizione prevalga sui dati di fatto. Un Oceano Indiano, un Oceano Artico, un Oceano Antartico, ma due Oceani Atlantici – settentrionale e meridionale - e due Oceani Pacifici – settentrionale e meridionale – e così fa sette. Ma qualcuno bara, a meno che non mi spieghi come si fa a distinguere il confine tra gli oceani del nord e quelli del sud, e poi magari farlo rispettare alle correnti. Gli Oceani sono cinque, anche se suona meno bene.

Ma è estate, torniamo al mare. Già è difficile definirlo, un mare. Che poi è un’area in qualche modo definibile in base a limiti geografici, e perlopiù si trova all’interno di un oceano. Contare i mari poi è un impresa, i nomi di certe aree vengono aggiornati, ciascun popolo o ciascuna nazione dà un no-

me a un pezzo di mare vicino che considera come suo e che può essere in concorrenza con la rivendicazione di un altro vicino ostile. E poi ad esempio il Mar Mediterraneo conta per uno o conta per tutti i mari che lo compongono, più magari il nome collettivo per andare a coprire le aree più a largo, meno definite? Se ci mettiamo a contare i mari Tirreno, Adriatico, Ionio, più il Mar Ligure, il Mar di Sicilia, il Mar di Sardegna, quello di Corsica, lo Stretto di Sicilia, il Canale di Sardegna, il Canale di Corsica, magari anche il Canale di Piombino, ecco che solo l’Italia di mari ne ha parecchi più di sette, e pure tutti belli e ricchi di storia. E diteglielo voi ai vichinghi che per gli antichi i sette mari da navigare erano solo quelli mediterranei: i loro drakkar sono arrivati fino in Sicilia, ma non hanno disdegnato il Mar Baltico, il Mare del Nord, fino al Mar di Groenlandia e forse fino al Golfo di San Lorenzo e alla baia di Hudson. E poi anche i pirati in fondo si muovevano in molti mari anche solo stando in America Centrale, tra i Caraibi e il Golfo del Messico. Poi ci sono le tradizioni delle antiche civiltà del Pacifico asiatico che a loro volta non hanno rinunciato a una certa prolificità nell’individuare e dare nomi ai tanti mari dallo Stretto di Bering giù giù attraverso Corea, Giappone, Filippine fino all’Indonesia e allo Stretto di Malacca con cui si trapassa nell’Oceano Indiano: i due Mar Cinese, il Mar del Giappone, il Mar Giallo, il Mar delle Filippine, il Mar dei Coralli. Per non dire che le nuove scoperte in Artico e Antartico nonché i cambiamenti geomorfologici dovuti allo scioglimento dei ghiacci portano alla possibile nascita di nuovi mari.

Infine ci sono altri mari, veri e propri mari che infatti così si chiamano, che difficilmente gli eroi navigatori avrebbero affrontato anche se determinati a fare il giro del mondo. Parlo dei mari interni, e non mi riferisco a quelli come il mar di Marmara e il Mar Nero, comunicanti con l’acqua aperta. Parlo delle distese di acqua salata piantate nel bel mezzo della terraferma, spesso eredità di ere remotissime quando erano veri grandi mari. Ce ne sono molti, ma almeno quattro sono tanto famosi e importanti da essere citati: il Mar Morto, il Mar di Galilea, il Mar Caspio e il Lago d’Aral. Quindi gli eroi dei sette mari devono farsi coraggio, rimboccarsi le maniche, spiegare le vele e ricominciare il giro, altrimenti la loro è solo una passeggiata.


I TESORI DELLE GRANDI CIVILTÀ alibela è un miracolo africano. Fino a pochi anni fa era irraggiungibile. Qui, sul grande altopiano etiopico circondato nei lontani bassopiani da terre islamiche, eremiti e contadini cristiani durante il Medioevo realizzarono un sogno impossibile. Gerusalemme ormai, erano gli anni attorno al XII secolo, era in mano musulmana: nessun pellegrino cristiano poteva sperare di raggiungerla. I cristiani d’Africa decisero, allora, di ricostruire Gerusalemme sul loro altopiano. Scavarono colline, svuotarono la roccia delle montagne, aprirono tunnel e gallerie, innalzarono, nel ventre della terra, undici cattedrali di pietra e le unirono con un labirinto sotterraneo di passaggi e tunnel artificiali. Aprirono perfino, come se avessero avuto a disposizione una spada colossale, il cuore di una montagna: volevano farci passare un fiume e non poteva che essere il Giordano.

L

Quattro chiese sorgono direttamente dalla roccia, saldate alla terra dal pavimento. Bet Abba Libanos è inchiodata alla montagna dal soffitto. Se nell’oscurità di Medhane Alem sono state collocate le tombe dei patriarchi, nella Cappella della Santissima Trinità si trova il simbolo del sepolcro di Cristo. La minuscola chiesa-grotta di Bet Daneghel, la Casa delle Vergini, ricorda, invece, il martirio delle donne del monastero femminile di Edessa, uccise, nel IV secolo, dall’imperatore Giuliano l’Apostata. I cristiani d’Etiopia non avevano legami con il mondo del Mediterraneo: eppure l’eco dei miracoli e delle tragedie della loro religione era arrivata fino a loro. Bisogna credere alle leggende sacre: la geografia rupestre di Lalibela, il più straordinario complesso di roccia della storia dell’umanità antica, fu stravolta in soli ventiquattro anni. Tanto impiegarono gli operai – angeli divini e non, come vuole la cronaca storica, carpentieri egiziani e siriani – a costruire queste straordinarie architetture rupestri. San Giorgio in persona vigilò sui lavori: al punto che pretese che la chiesa a lui dedicata fosse eretta, come un gigantesco monolito saldato a forma di croce, fuori dall’intreccio delle basiliche di Lalibela. È la chiesa più bella, invisibile fino a quando non si sta per cadere nella trincea dove è stata scavata. Nella roccia è impressa perfino l’impronta dello zoccolo del cavallo di San Giorgio. I pellegrini che ogni gennaio si dirigono verso Lalibela sono i fedeli di un cristianesimo ostinato e conservatore: il regno di Axum, grande impero dell’antichità africana, è stato la prima terra-chiesa nella roccia cristiana della storia dell’umanità.

LALIBELA

ni aderì allo scisma monofisita che nega la doppia natura, umana e divina, di Gesù Cristo. Nei giorni del Natale i pellegrini verso Lalibela sfilano in una processione che non ha uguali. Vestiti di panni luridi, le shamma ridotte a stracci laceri dopo troppo cammino, il cibo raccolto in cestini sospesi sulle spalle, finalmente possono inginocchiarsi davanti alle possenti chiese di pietra. Baciano le croci che i preti estraggono da sotto le vesti e donano miseri regali. Tutto quel che hanno: un tozzo di pane risparmiato, l’ultimo centesimo conservato in un fazzoletto. In cambio vengono benedetti, possono sfiorare con le labbra quella croce mostrata quasi con indifferenza. Donne anziane si prostrano fino a terra con una pietra sulla testa, prova della loro estrema penitenza. Cristianesimo feudale e mistico: la notte del Natale non ha mai fine. Si sale il corridoio, inciso nella roccia, che conduce a Bet Maryam, la Casa di Maria e ci si ritrova stretti fra migliaia e migliaia di

Viaggio nella Gerusalemme d’Africa, la città santa scavata nella roccia del vasto altopiano etiopico

Il cuore sacro dell’Etiopia di Rossella Fabiani

Ad Axum, grazie a predicatori siriani, la religione fu subito fede di stato. L’imperatore si convertì e il popolo abbandonò il paganesimo persone, compressi fra vesti di cotone crudo e sudore che gela nel freddo della notte. In un angolo, preti e diaconi cantano e danzano al ritmo di pesanti tamburi e del tintinnio dei sistri, sonagli dorati agitati a ogni passo di danza. È una nenia-preghiera, una insonne trance sacra che non avrà soste in attesa dell’alba.

Attorno al Trecento, prima della conversione dell’imperatore Costantino, fu il re africano Ezana ad abbracciare la nuova religione. È stato un processo storico inverso a quello di Roma: nel più potente impero dell’antichità mediterranea, il cristianesimo si diffuse lentamente e solo dopo tre secoli di persecuzioni e dopo una evangelizzazione che costò non pochi martiri riuscì a raggiungere la corte imperiale. Ad Axum, grazie a predicatori siriani, la religione fu subito fede di stato, credo ufficiale di una corte re-

I cristiani crearono nel ventre della terra undici cattedrali di pietra e le unirono con un labirinto sotterraneo di tunnel gale. Si convertì l’imperatore e il suo popolo di montanari abbandonò il paganesimo: per questo le gerarchie della chiesa ortodossa d’Etiopia sono sempre state un anello fondamentale del potere dei “re dei re”, dall’antichità axumita fino agli anni del negus Hailé Selassié. E

nemmeno la tirannia comunista di Menghistu, padrone dell’Etiopia per 17 anni, riuscì più di tanto a scalfirne il potere profondo. Dispute teologiche intricate hanno segnato la storia dei cristiani d’Etiopia: dopo il concilio di Calcedonia, nel 451, la chiesa di questi altopia-

Alla fine sarà l’alba a purificare il mondo: solo allora, il corteo dei preti si schiera, insensibile a ogni vertigine, lungo le trincee della voragine in cui è stata scolpita la chiesa di Bet Maryam e, al primo raggio di sole, esplode il canto della nascita, la gioia che scaccia ogni fatica: «È nato, è nato». Felicità pura, tutta la stanchezza scompare in un attimo. Ma il destino dei pellegrini è implacabile: quel giorno stesso si rimetteranno in moto, raccoglieranno in un sacco averi inesistenti e si incammineranno nuovamente per percorrere a ritroso i cammini verso i lontanissimi villaggi dell’altopiano. Alcuni di loro, invece, decideranno di rimanere nella città santa. Aspettano Timkat, la festa dell’Epifania, vivendo di carità. Un’attesa di dodici giorni. Quel giorno, a metà mattinata, un’altra lunga processione si snoderà per le strade polverose di Lalibela.

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CINEMA CALDO

UN’ESTATE D’AMORE DI INGMAR BERGMAN

Il primo sigillo di Ingmar di Alessandro Boschi n’estate d’amore è uno dei primissimi film di Ingmar Bergman e risente in maniera profonda della sua vita privata. In quel periodo Bergman aveva intrapreso una complicata relazione con la giornalista Gun Hagbert. Ora, a prescindere dal fatto che anche il nome avrebbe dovuto scoraggiarlo, non c’è dubbio che, impegnato lui, impegnata lei, i presupposti per un periodo burrascoso c’erano tutti.Venne infatti beccato dalla moglie Ellen in flagranza di reato (in realtà era insieme a Gun a teatro). Gun, impaurita, tornò dal marito e Bergman si rifugiò in un piccolo appartamento dove scrisse Un’estate d’amore.

U

morte di Henrik ha come colonna sonora dei semplici arpeggi ripetuti. Quando infine la protagonista si renderà conto che è necessario rompere con il passato sarà assistita da una esplosione orchestrale che comunica alla scena una straordinaria energia. Il film fu presentato fuori concorso alla Mostra di Venezia nel 1952, dove fu accolto con interesse (e vorremmo vedere...). La forza della pellicola risiede nella sua “apertura”. Il film

lità di aiutare noi stessi e gli altri. È una morte che non sa di essere tale. Peraltro il cinema di Bergman è un grande cinema perché non è un cinema che dà risposte, è un cinema che pone domande, in maniera incessante, diremmo assillante. Da grande pensatore laico ha la necessità di stimolare l’uomo sul suo destino e sul rapporto con il prossimo. Per questo, se non possiamo definire il regista credente non possiamo nemmeno definirlo ateo tout court. In fondo in lui è sempre presente il comandamento “ama il tuo prossimo come te stesso”. Quando Maria è nel suo camerino si materializza un collega con ancora indosso gli abiti di scena (il mago), che al di là dei suoi modi sarcastici le offre la scintilla di cui lei ha bisogno per uscire dal torpore che l’attanaglia. E l’attanaglia dal momento in cui, morto Henrik, supplica lo zio di uccidere il suo cane perché, secondo lei, «sarebbe troppo duro vivere senza il proprio padrone». È lì che inizia la parabola discendente di Maria.

Il contrasto tra il periodo estivo di gioia dei due amanti e l’atmosfera deprimente in cui precipita la protagonista è la grande forza della pellicola presentata a Venezia nel 1952 dal grande regista svedese

Nella sua biografia il regista descrive Gun come «bella, alta, sportiva, intensi occhi blu, disponibile (non c’è dubbio), integra (?) etc. etc.». Dal punto di vista fisico sembra il ritratto di Maria, l’attrice Maj-Britt Nilsson protagonista del film. Il cui personaggio ha però una storia ben più complicata alle spalle. Quando noi la vediamo la prima volta scopriamo che è una non più giovanissima ballerina che vive tirando avanti, con una relazione e una professione che tollera per inerzia. Poi un giorno riceve un diario che la riporta indietro di molti anni, a una relazione vissuta con un giovane, morto a causa di una caduta sugli scogli mentre tentava di tuffarsi in mare. Da qui il film si sviluppa e ci fornisce ulteriori tracce della tragedia di Maria. Si scopre che un vecchio zio, approfittando del suo dolore, l’aveva trascinata in una squallida relazione, spingendola a credere che dalla vita, dal dolore che ci provoca, ci si può solo difendere erigendo un muro di protezione. Tutto il film si sviluppa in questo limbo con la voce fuori campo della protagonista. Finché, grazie anche alle sollecitazioni di un maturo collega travestito da Mago Coppelius, Maria capisce che coloro che le stanno intorno, coloro che forse l’amano e che forse ella stessa ama, tutti, hanno diritto a una chance. E che forse, quel muro intorno a lei, non è una protezione ma solo l’alibi del suo egoismo. Fortissimo il contrasto tra il periodo estivo di gioia dei due amanti e l’atmosfera ovattata e deprimente in cui precipita la giovane e in cui ristagna per così tanto tempo. La straordinaria capacità di Bergman, allora giovane ma del tutto padrone della propria arte e della propria tecnica, sta proprio nel mostrarci, contrapponendoli, il magnifico legame tra quel giovane amore e la natura che lo circonda e lo coccola, e il buio del dopo, della solitudine. Un’estate d’amore offre una miriade di spunti per parlare del cinema di Bergman oltre che dei temi a lui più cari. Ad esempio è importante l’uso della musica da parte del maestro svedese. Maria è una ballerina, e le prove che vediamo sono quelle del Lago dei cigni di Pëtr Il’Cajkovskij con relativa composizione di sottofondo. I momenti dedicati alla coppia d’amanti sono riservati a Chopin, mentre la tragedia che porterà alla

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non dà risposte ai grandi temi della nostra esistenza, non ci vuol dire niente di definitivo. Anzi, ci fa capire che forse è bene non dimenticare la vita di tutti i giorni. Perché, come diceva Goethe, «la realtà non è un granché ma è l’unico modo che abbiamo per afferrare la vita». La fissità emotiva che deriva da un grande dolore è forse più grave del dolore stesso, perché ci toglie la possibi-

Nel film la presenza di Dio non è evocata in nessuna maniera, se non nelle immagini innamorate del paesaggio nordico. Ma c’è una sua presenza immanente in ogni scena. Perché se dio non c’è, come è stato giustamente osservato citando il Macbeth di Shakespeare, nulla ha senso, e tutto diventa «una favola narrata da un idiota, piena di fracas-

so e di furore, che non significa niente». Un’estate d’amore è poi prezioso anche per altri motivi. Come ad esempio la perfetta geometria di alcune scene realizzate talvolta come un gioco di specchi, talvolta proprio utilizzando gli stessi. Nasconde poi tra le pieghe delle simbologie molto care al regista, come la vecchia che dovrebbe essere già morta e che invece gioca tranquillamente a scacchi con un prete. Infine, Maria tornata alla vita, che si strucca di fronte allo specchio del camerino. Sembra, rovesciata nel senso, la scena finale de Le relazioni pericolose di Stephen Frears. Quando la Marchesa Isabelle de Merteuil (interpretata da una gigantesca Glenn Close), appena derisa a teatro, si strucca piangendo, uscendo per sempre da quel gioco di finzione che l’aveva vista padrona. Il cinema, gente che va, gente che viene. Basta uno specchio, meglio se inquadrato da Ingmar Bergman.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g e di cronach di Ferdinando Adornato

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Incentivi per le imprese che rispettano le norme per la sicurezza L’ennesimo grave incidente in provincia di Lecce, in cui è rimasto coinvolto un operaio che lavorava ad un cancello, ripropone il problema della sicurezza sui luoghi di lavoro che rappresenta ormai una vera e propria emergenza. Da architetto e direttore di lavori nei cantieri, dico che il lavoro encomiabile svolto dall’ispettorato del Lavoro e dalle forze dell’ordine non è sufficiente a garantire il rispetto delle regole sulla sicurezza nei luoghi di lavoro e ad evitare gravi incidenti. È evidente che occorre una vera e propria rivoluzione culturale nel mondo dell’impresa, sia pubblica che privata, che deve considerare la vita dei propri dipendenti un bene da tutelare. Occorre fare uno sforzo per tenere i cantieri i sicurezza, magari attraverso incentivi per quelle imprese che dimostrino attenzione verso il problema e che mettono in atto tutti i meccanismi ed i sistemi di sicurezza previsti dall’attuale normativa. Ma non basta: gli incentivi vanno controllati. Occorrerebbe cioè che le imprese che ne usufruiscono, certifichino l’avvenuta spesa degli oneri per la sicurezza, in modo da evitare che imprenditori furbi possano vanificare le norme ed appropriarsi di questi incentivi.

Salvatore Negro

I CITTADINI SIANO PER DAVVERO RISARCITI In riferimento ai danni causati dal maltempo in varie zone del Veneto, mi auguro che i cittadini siano veramente risarciti e che non si ripeta l’esperienza di Vallà di Riese, quando a fronte di 36 milioni di euro censiti di danni, da Roma sono arrivati solo dieci milioni, tra l’altro per tutti i comuni veneti colpiti dal maltempo, soldi frutto di un emendamento alla finanziaria e non del Fondo nazionale della Protezione civile.

Alessandro Pavan

DISABILI ED EMERGENZA Aiutare le persone disabili e coloro che le assistono a gestire e ad affrontare situazioni d’emergenza. A questo pensa un progetto regionale che sarà realizzato in collaborazione con la Protezione civile. L’esigenza di mettere a punto un piano destinato a questo scopo si era manifestata più volte da parte delle associazioni per i disabili, dopo eventi catastrofici quali il terremoto del ’97 o il più recente sisma dell’Aquila. Ecco in cosa consisterà il progetto. Innanzitutto, saranno organizzati incontri di formazione in materia di Protezione civile, in cui verranno coinvolti i referenti delle associazioni che si occupano di disabilità e anzianità. In quel contesto sarà presentato un test, propedeutico al coinvolgimento dei disabili nella redazio-

ne di un utile vademecum. Altra linea di intervento riguarda la redazione di due piani pilota (probabilmente a San Benedetto del Tronto e a Falconara), da inserire all’interno degli esistenti piani comunali di emergenza, prevedendo così una parte dedicata alle persone “diversamente abili”. In particolare, verranno coinvolti fattivamente i referenti di associazioni per i disabili. Dopo la redazione dei piani pilota, si testerà quanto redatto con simulazioni di emergenza con la partecipazione anche dei disabili. Saranno elaborati, inoltre, programmi sulla base dei quali verranno specificatamente formati gli operatori di Protezione civile per interventi con persone disabili. Infine, è stata lanciata l’ipotesi di arrivare alla progettazione di un sito e di un network dedicati all’argomento. La Regione intende continuare a garantire il sostegno ai disabili e ai loro familiari, per questo, nonostante i tagli imposti dalla manovra finanziaria del governo, l’impegno è quello a mantenere inalterata la spesa per le politiche sociali e il livello quantitativo dei servizi. Ciò che non deve venir meno è lo spirito solidaristico della Regione. Sempre in tema di disabilità, si evidenzia la necessità di ripensare al ruolo della famiglia, già perno dell’assistenza sociale. La famiglia va “professionalizzata” attraverso un’adeguata formazione. In questo

L’IMMAGINE

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PARIGI. Per quanto al giorno d’oggi possa sembrare quasi incredibile, appena scoperta la radioattività erano in molti a pensare che questa fosse in realtà estremamente benefica e potesse essere usata come cura per le problematiche più disparate. Da una ricerca francese risulta che la cura “miracolosa” proposta per la più ampia gamma di usi è stato il Radithor, che ha causato la morte di diverse persone. Abbiamo poi i profilattici al radio, per recuperare vigore sessuale, in tempi in cui non c’era il Viagra, intorno al 1920 vevivano venduti dei profilattici al radio. E che dire del gelato all’uranio? È stato in vendita per un periodo solo nella costa occidentale degli Usa, per festeggiare la scoperta di un giacimento di uranio. Per le donne, invece, la crema di bellezza “tho-radia“. Commercializzata in Francia, il prodotto offriva i presunti effetti benefici della radioattività. Anche i denti meritano le loro dose di radiazioni, e così è stato realizzato in Germania il dentifricio al torio. Negli anni Ottanta un produttore giapponese ha realizzato la “Nac Plate”, una placca di metallo contenente uranio, da inserire nel pacchetto di sigarette e che avrebbe dovuto diminuire la concentrazione di nicotina nelle sigarette stesse.

senso non va lasciata sola ma deve essere considerata un soggetto a pieno titolo nel settore socio sanitario.

Luca Marcone

PARLAMENTARI E EMOLUMENTI E così anche i parlamentari vedranno diminuiti i loro emolumenti. Noi volevamo aumentarli e eravamo disponibili a portargli il caffé, se avessero portato avanti una serie di riforme. Siamo delusi e non comprendiamo la gioia del ministro Calderoli: non fu lui che nel 2005 propose che l’erogazione del finanziamento pubblico è dovuta per tutti e cinque gli anni di legislatura, indipendentemente dalla sua durata effettiva? In questo modo i partiti non più presenti in Parlamento continuano a percepire il finanziamento pubblico. Un risparmio di una decina di milioni sugli emolumenti ai parlamentari non compensa i 500 milioni di finanziamento pubblico (di cui solo un centinaio documentati), alla cui spartizione partecipa anche Lega e Pdl del quale fa parte il presidente della Camera dei Deputati, Gianfranco Fini, promotore dell’iniziativa. La politica ha vinto sulla Politica. Il fumo sull’arrosto.

PREZZO DEL LATTE REGIONALE

Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 18278817

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Radioattività uguale beneficio

Primo Mastrantoni

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e di cronach

LE VERITÀ NASCOSTE

La scimmia sulla schiena Quello che vedete è un orango del Borneo, primate universalmente noto per la sua paura dell’acqua: Suryia, un maschio di 7 anni, non solo apprezza i bagni in piscina, ma si comporta come un nuotatore provetto. Riesce a compiere in totale autonomia anche 6 metri della piscina del parco che lo ospita, il Myrtle Beach Safari, Carolina del Sud

Ci sono tutte le premesse per raggiungere l’obiettivo della ridefinizione del prezzo regionale del latte. Lo stanziamento previsto dalla regione Lazio di 2,2 milioni di euro per assistenza tecnica e promozione, sta favorendo l’intesa tra cooperative e Centrale del latte di Roma che sembrava impossibile. Al di là dell’accordo è importante l’atteggiamento della Centrale del Latte di Roma che ritiene importante mantenere e preservare la vocazione zootecnica regionale.

Paolo Perinelli


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grandangolo Anniversari. Quasi 70 Paesi presenti alle celebrazioni

Dopo 65 anni gli Stati Uniti ritornano (disarmati) a Hiroshima Dalla fine della II Guerra mondiale nessun ambasciatore americano aveva mai partecipato alla cerimonia per le vittime delle bombe atomiche sganciate nel 1945 sul Giappone. Fino a ieri, quando il rappresentante di Washington ha onorato i sopravvissuti e ha chiesto di smantellare gli arsenali di Antonio Picasso l 6 agosto 1945, l’Enola Gay – un bombardiere B-28 “Fortezza volante” – sganciava un ordigno nucleare sulla città di Hiroshima. L’esplosione dell’ordigno, soprannominato grottescamente “Little boy”, provocò 130mila morti e 180mila sfollati. Pochi giorni dopo, il 9 dello stesso mese, un altro aereo dell’aeronautica Usa colpiva Nagasaki. Questa volta la bomba era stata chiamata “Fat man”. I morti furono 40mila e altrettanti i feriti. Nei mesi e negli anni seguenti, sono state oltre 300mila le vittime delle radiazioni sprigionate dalle due bombe. I due episodi posero fine alla guerra nell’Oceano pacifico che gli Stati Uniti avevano ingaggiato contro il Giappone quasi quattro anni prima. Facendo tabula rasa di Hiroshima e Nagasaki, si scrisse la parola “fine” al secondo conflitto mondiale. Il mondo si buttò quindi nell’era atomica e nelle tensioni della guerra fredda.

l’Associazione dei Premi Nobel per la pace si riunirà a Hiroshima. All’evento è prevista anche la partecipazione del Presidente Usa, Barack Obama. Se così fosse, si potrebbe dire che i traumi politici seguiti alla seconda guerra mondiale possono essere archiviati davvero. Gli storici hanno sempre dubitato della

Ieri il 65esimo anniversario del bombardamento di Hiroshima è stato ricordato con un gesto dall’alto contenuto simbolico. Per la prima volta dal ‘45, era presente alla cerimonia l’ambasciatore Usa in Giappone, John Roos. Adesso si attende il 12 novembre, giorno in cui

necessità di ricorrere a un’arma così potente per sconfiggere un Giappone, che era già allo stremo delle sue forze. Molti osservatori, critici nei confronti di Washington, sostengono che l’allora presidente Harry Truman avrebbe potuto evitare tanta violenza. In realtà lo stesso

I

Corea del Nord, Iran e Israele sono nel mirino della comunità internazionale: hanno la Bomba senza permesso

team di scienziati del “Progetto Manhattan”, creatori in laboratorio della bomba atomica, non era consapevole della potenza devastante e delle ripercussioni sul lungo periodo che questa avrebbe avuto. Nella prospettiva geopolitica molti sostengono che il Giappone venne colpito sì per porre fine alla sua lotta indefessa, ma anche per dimostrare all’Unione sovietica di Stalin la forza degli Usa. La storia che seguì infatti fu quella dello scontro mai combattuto fra i due poli, Usa e Urss con annessi satelliti. La rispettiva corsa al nucleare fece da deterrente contro qualsiasi escalation. L’olocausto mondiale, che entrambi i blocchi temevano e che certo nessuno dei due avrebbe voluto provocare, ostacolò lo scoppio di conflitti di grandi dimensioni. Dal 1945 a oggi sono state combattute infatti soltanto guerre di dimensione ridotta e soprattutto senza l’utilizzo di armi nucleari.

In 65 anni, solo sette Paesi si sono procurati un arsenale atomico: Cina, Francia, Gran Bretagna, Russia e Stati Uniti, vale a dire i membri permanenti del consiglio di sicurezza dell’Onu. A questi vanno aggiunti l’India e il Pakistan, le quali hanno raggiunto il loro

ambizioso obiettivo rispettivamente nel 1974 e nel 1998. Nel frattempo sono emersi dubbi in merito alla potenza nucleare di alcuni paesi. In primis Israele, il quale è sospettato di essere in possesso di almeno 80 testate. Il dato però non ha mai avuto una conferma. Il Sud Africa, a suo tempo, si era dotata di sei testate, che però ha smantellato nel 1991. La Corea del Nord ha cominciato la realizzazione del suo progetto solo pochi anni fa.Tuttavia la comunità internazionale è intervenuta per bloccarne la realizzazione. Lo stesso sta accadendo per quanto riguarda l’Iran.

Nel 1968, Regno Unito, Urss e Usa hanno sottoscritto la prima stesura del Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp), al quale vi hanno aderito successivamente altri 186 Stati. Alcuni governi si sono limitati a firmarlo, senza provvedere poi alla ratifica. Altri, come la Corea del Nord, lo hanno rigettato in un secondo momento, pur avendolo sottoscritto. Il documento, tuttora in vigore, vorrebbe disciplinare la questione nucleare a livello internazionale e sulla base di tre principi: il progressivo disarmo degli arsenali esistenti, la non proliferazione – vale a dire evitare che un Paese


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Sarebbe la prima volta in assoluto che un presidente visita la zona

E i Nobel per la Pace decidono di incontrarsi a Nagasaki il 12 novembre. Barack Obama compreso di Massimo Ciullo e celebrazioni per il 65° anniversario dell’Olocausto atomico di Hiroshima e Nagasaki, pur continuando a costituire un tabù per la Casa Bianca, hanno visto per la prima volta, la partecipazione ufficiale di un rappresentante del governo di Washington. Dal dopoguerra, fino ad oggi, nessun membro in carica dell’Amministrazione Usa aveva preso parte alle commemorazioni. L’expresidente Jimmy Carter visitò il Museo della Pace di Hiroshima nel 1984, quattro anni dopo aver lasciato la Casa Bianca. La più alta carica statunitense a recarsi ad Hiroshima, durante il suo mandato, è stata la speaker della Camera, Nancy Pelosi, nel 2008. Ieri, a rappresentare gli Stati Uniti c’era l’ambasciatore americano a Tokyo, John Ross, che ha deposto una corona in ricordo delle vittime. La presenza degli Usa alla cerimonia per la prima volta in 65 anni, per molti rappresenta un segno di discontinuità rispetto al passato. E che deve essere attribuito principalmente alla nuova politica del Presidente Barack Obama, premio Nobel per la pace. Nel programma di governo del leader democratico, un’attenzione di particolare rilievo è stata riservata al rilancio dei negoziati per il disarmo nucleare e per la messa al bando delle armi di distruzione di massa. Lo stesso Segretario di Stato Hillary Clinton aveva anticipato che Obama «riteneva appropriato» che gli Usa partecipassero all’anniversario, a sottolineare gli sforzi della nuova amministrazione americana in questa direzione. Clinton ha confermato che il Presidente Obama intende riconoscere formalmente l’anniversario del bombardamento di Hiroshima, la prima città nella storia ad aver subito un attacco atomico. E lo stesso ambasciatore Ross, in una nota, ha rimarcato che «bisogna continuare a lavorare per realizzare un mondo senza armi atomiche per il bene delle generazioni future». Il rappresentante diplomatico Usa ha ricevuto i ringraziamenti del sindaco della città-martire, Tadatoshi Akiba che ha espresso la speranza di ricevere presto la storica visita di Obama. Nel suo intervento, il primo cittadino di Hiroshima ha detto che «per la salvezza delle future generazioni, noi dobbiamo lavorare assieme per realiz-

L

trasmetta informazioni a un suo alleato per facilitarlo nella creazione di un proprio arsenale – e infine la trasformazione dell’energia atomica da strumento militare a civile. Nel corso dei venti anni che separano la firma del trattato dalla fine della guerra fredda, nel 1989, le due superpotenze nucleari si sono sforzate nel proseguire su questa direzione.

La lunga serie di summit e di trattati bilaterali hanno incentivato la riduzione del numero di testate a disposizione dei due rispettivi blocchi. Il 1991 rappresenta il vero punto di svolta. Dopo anni di negoziazioni e con l’Unione sovietica in via di sbriciolamento, Mosca e Washing-

I progetti Onu per impedire la proliferazione sembrano avere pochi frutti: sarà decisiva Washington ton hanno trovato l’accordo per lo smantellamento rispettivamente di 6mila testate nucleari. Era lo Start-1 (Strategic arms reduction treaty). A questo è seguito lo Start-2, firmato nel 1993. Il 10 aprile 2010, dopo un ulteriore lungo periodo di contrasti e incomprensioni fra le due superpotenze, Russia e Stati Uniti sono giunti agli accordi di Praga per la nascita del New Start. Questo prevede una limitazione a 1.550 testate nucleari ciascuno. Gli sforzi compiuti dai due Paesi sono innegabili e il comportamento di ben pochi altri governi può essere paragonato al loro. Nel 1991, quando il sud Africa ha abbandonato le sue ambizioni militari e ha reso l’intero continente la più vasta area

denuclearizzata del pianeta. Cinque anni dopo, nella piccola città sudafricana di Pelindaba, 53 stati africani hanno firmato un trattato regionale di non proliferazione nucleare. In manifesta controtendenza è il caso di altri governi. Dall’India a Israele, dal Pakistan alla Corea del Nord, senza dimenticare la force de frappe della Francia e oggi la corsa dell’Iran. Son tutti esempi della volontà di perseguire una propria strada nell’ambito della sicurezza nazionale, non concordando con la linea indicata dagli Usa, dalla Russia e soprattutto dal Tnp. Del resto entrare a far parte del club nucleare è un obiettivo di massimo prestigio per un Paese che ambisce a figurare tra le potenze mondiali. Il fatto che il Tnp abbia ingessato la comunità internazionale a solo cinque potenze titolari del “diritto atomico” non è stato metabolizzato dalle nazioni escluse. Il caso francese resta avulso da questa interpretazione di ampio respiro dello scenario. Nel 1958 l’allora presidente Charles de Gaulle decise di dotarsi di un proprio deterrente nucleare, che fosse parallelo ma autonomo a quello della Nato. Il caso creò non poche frizioni tra Parigi e Washington. Tuttavia la Francia ebbe il buon senso di rispettare i patti con il blocco occidentale.

Al contrario, le ombre che si addensano su Israele non permettono di smentire i dubbi in merito alle sue 80 testate. Altrettanto differenti sono i casi della Corea del Nord, la quale ha cercato di arrivare alla meta, ma le è stato impedito, dell’India e del Pakistan – missione compiuta – e infine dell’Iran.Teheran è il problema del momento infatti. Washington vuole bloccare le mire belliciste del regime in sede internazionale attraverso un rigido sistema di sanzioni. Il sogno di Obama è la denuclearizzazione mondiale. Da qui il desiderio di andare a Hiroshima. Non è detto però che un gesto di alto contenuto simbolico porti a quei risultati pratici sperati.

zare un mondo senza armi nucleari». Una dichiarazione che, ai numerosi presenti, ha ricordato lo storico discorso di Obama a Praga ad aprile dello scorso anno, durante le cerimonie per la firma del nuovo Trattato Start sulle armi strategiche, con il Presidente russo Dmitry Medvedev. La presenza del diplomatico statunitense al mausoleo di Hiroshima, ha rafforzato le voci circa una possibile visita, nei prossimi mesi, da parte del presidente Usa.

Una visita che dovrebbe coincidere con la missione in terra nipponica in programma da tempo nell’agenda dell’inquilino della Casa Bianca, dopo le recenti frizioni sulla base militare Usa (la più grande fuori dai confini statunitensi) dell’isola di Okinawa e l’esposizione della fusoliera dell’Enola Gay, il bombardiere che sganciò la bomba su Hiroshima, presso lo “Smithsonian Institute”, causa di pesanti polemiche sia negli Usa sia in Giappone.Washington considera Tokyo un alleato strategico e non intende assolutamente alienarsi le simpatie del governo nipponico, considerato una sorta di baluardo anticinese nel quadrante estremo-orientale. Il Primo ministro giapponese, Naoto Kan, ha lanciato messaggi rassicuranti da questo punto di vista; il premier ha ribadito la necessità per il suo Paese dell’ombrello atomico statunitense per contenere l’aggressività di paesi come la Corea del Nord, che nonostante le sanzioni delle Nazioni Unite continua ad agitare lo spauracchio dell’arma nucleare anche nei confronti di Tokyo. All’evento commemorativo c’erano anche il Segretario Generale dell’Onu, Ban Ki-moon, e una presenza record di cittadini e rappresentanti, con diplomatici di 74 Paesi diversi, il numero più alto registrato finora, tra cui anche la prima assoluta delle potenze atomiche Francia e Gran Bretagna. «Siamo tutti insieme in un viaggio da Ground Zero a Global Zero, ovvero un mondo libero dalle armi di distruzione di massa - ha dichiarato Ban Ki-Moon, nel suo intervento alla cerimonia - è l’unica via percorribile verso un mondo più sicuro. Finché esisteranno gli armamenti atomici saremo costretti a vivere sotto un’ombra nucleare».


cultura

pagina 20 • 7 agosto 2010

In basso, un’immagine dello psicologo e professore Massimo Canu e la copertina del suo primo romanzo “Legami dolenti” (Koinè Nuove Edizioni). A fianco, un disegno di Michelangelo Pace

Tra gli scaffali. Da Koiné arriva “Legami dolenti”, il convincente esordio letterario dello psicologo e professore Massimo Canu

Ecco i ragazzi dello zoo di Roma n intreccio di sensazioni, più o meno chiare, di colori, di odori, e soprattutto di numerosi personaggi, ciascuno con la propria storia. È questa l’immagine che Massimo Canu offre del suo primo romanzo. Legami dolenti è una raccolta di storie vere di tossicodipendenza, che scorrono nella Roma degli anni Settanta e toccano ben tre generazioni. Storie conservate in uno scrigno, in un file su un computer, per ben tre anni, e che solo ora hanno trovato la luce. Personaggi ideati «dal ricordo delle numerose centinaia di persone, con problemi di tossicodipendenza», scolpite nella memoria dell’autore, che le ha incontrate nella sua vita professionale e personale.

U

Massimo Canu, laureato in Psicologia e specializzato in Psicoterapia, professore all’Università di Roma La Sapienza, si occupa da molti anni di tossi-

di Bianca Penna che, psicosi, disturbi di personalità e grandi solitudini, che lo hanno portato ad incontrare persone con un elevato carico di sofferenza. Legami dolenti fa addentrare il lettore, dolorosamente e spesso in maniera piuttosto forte, nella vita di famiglie che si trovano ai margini della società, famiglie incapaci di rapportarsi con le regole della società e con le regole della vita stessa. La Roma raccontata nel libro è una Roma di periferia degli anni Settanta, nella quale “le guardie so’ infami” perché spesso arrestano il capofamiglia lasciando alla moglie tutta la famiglia sulla spalle, e chi mena di più rappresenta l’uomo più forte e virile, quello da rispettare. Una Roma di periferia fatta di prepotenze e di soprusi, fatta di botte e di lividi. Una Roma nella quale una bambina che legge o studia perde del tempo prezioso,

Nel romanzo, lo scrittore ci porta per mano in un mondo che non c’è più, la Capitale degli anni 70, ma attraverso storie vere di tossicodipendenza, profondi vuoti dell’anima e speranze per il futuro... codipendenza. A Roma ricopre il ruolo di presidente dell’Agenzia comunale per le tossicodipendenze e, fin da giovanissimo, come lui stesso ci racconta di suo pugno nell’introduzione al libro, ha iniziato a costruirsi «una formazione in materia di tossicodipendenza che potesse riuscire a spiegargli quello che sfuggiva alla sua ragione». Un percorso, quello di Massimo Canu, tra Comunità terapeuti-

perché invece dovrebbe occuparsi delle faccende domestiche. Una Roma nella quale un bambino che non frequenta più la scuola rappresenta quasi una rassicurazione per i genitori, e non un grosso problema. «L’obiettivo che mi sono posto nello scrivere il romanzo - spiega Massimo Canu - non è semplicemente mettere in luce gli effetti nefasti causati dalle droghe, in primis sulla persona che

le assume, ma tentare di suscitare delle riflessioni, un ragionamento, sulla qualità delle relazioni che caratterizza ciascun sistema o rapporto che ci lega all’altro». E sono proprio i rapporti affettivi, o meglio la mancanza di rapporti affettivi, a spronare il lettore a un ragionamento sugli avvenimenti raccontati nel libro e che costituiscono il problema principale all’interno del nucleo familiare di cui si parla in Legami dolenti. Bambini cresciuti senza alcun tipo di amore, marito e moglie che vivono come due sconosciuti all’interno della propria casa, adolescenti abbandonati alla propria esistenza per le strade, violenza spacciata quasi come sintomo d’amore: legami dolenti, per l’appunto, che costituiscono il filo rosso che lega tutti i protagonisti del romanzo. La droga, nella storia raccontata nel libro così come nella vita, rappresenta e

viene intesa come il sintomo persistente di un grosso disagio: un campanello d’allarme davanti al quale non è possibile chiudere gli occhi. Immagini violente, quasi innaturali, scorrono durante tutta la lettura del romanzo, e quasi ci fanno chiudere gli occhi per non affrontare quegli episodi crudi e veri che turbano, che segnano dentro, che sono difficili da comprendere e accettare. Immagini che ci toccano dentro, immagini che ci mostrano come può diventare la vita di ognuno di noi e soprattutto come è davvero la vita di molte persone. E allora tentiamo, proviamo a immedesimarci nei personaggi, in Loredana che diventa madre ma non ha alcuna base per farlo, o

in Nino, che getta via la sua vita da adolescente e baratta le sue amicizie per un pugno di droga, che gli offre più emozioni dei suoi compagni di vita. Ci troviamo così a riflettere irrimediabilmente sui legami affettivi, sulla loro naturalezza, sulle emozioni genuine che abbiamo la possibilità di provare durante la nostra vita. E poi, naturalmente, gettiamo un occhio sulle emozioni e sui legami che potrebbe offrirci la droga: emozioni forti, sensazioni probabilmente mai provate, ma senz’altro emozioni e sensazioni false e nocive. Riflettiamo sulla scelta di non vivere davvero, sulle motivazioni che i protagonisti del libro, ma anche i ragazzi che girano per le nostre strade, o i nostri amici, possono trovare per rinchiudersi, consapevolmente o inconsapevolmente, in un vortice che spesso non lascia scampo, in una prigione che si costruiscono e alimentano con le loro stesse mani.

Il merito di Canu è quello di offrire uno spaccato sulle carenze affettive e sui rapporti di dipendenza e di dare soprattutto uno spunto reale e significativo di riflessione, con l’obiettivo di migliorare il domani per rendere consapevoli tutte le generazioni che una possibilità vera c’è, ed è quella scegliere la vita, con tutti i dolori e la felicità che questa può portare.


cultura distratti o i frettolosi spesso se la cavano. Anche con i libri da mettere in valigia o da comprare nei luoghi di vacanza. Stavolta non vogliamo parlare dei pur bravissimi Pennacchi, Avallone, Camilleri, Lucarelli e Sorrentino. Con il forzato arbitrio imposto dallo spazio, segnaliamo alcuni libri che meritano la lettura anche se rischiano di passare in second’ordine, o di stare in seconda fila sugli affollatissimi scaffali. IL SEGRETO DEL MONDO. Una raccolta di storie e aneddoti. Talvolta amari, spesso divertenti. Provengono da varie regioni del mondo: Africa, Persia, Israele, India, Cina. Ideali per chi sta sulla sedia a sdraio o sotto un albero, in montagna. Nella sezione dedicata ai ricchi e ai poveri c’è la vicenda dell’“Avaro annegato”. Un uomo molto ricco, e pure molto taccagno, un giorno cadde in un fiume. Non sapeva nuotare, la corrente lo trascinava lontano. Lungo le rive c’erano persone che correvano gridando «dà la mano, dà la mano!». Niente da fare. Finché venne Nasreddin, che si avvicinò all’acqua e disse: «Prendi la mia mano!». Lo salvò, ovviamente. (Jean-Claude Carrière-Il segreto del mondo-Garzanti). LA TORRE. Della letteratura tedesca si conosce ancora poco. Il romanzo che segnalo sta avendo un forte successo di vendite e di critica ed è in corso di traduzione in 14 paesi. Siamo a Dresda, negli anni Ottanta, sotto il regime comunista. In un quartiere residenziale vivono persone sommerse dal grigiore e dalla loro torre d’avorio osservano l’inesorabile declino della Germania dell’Est. La Stasi, il servizio segreto, ha modo di ricattare chi ha una relazione extraconiugale, e sbarra la strada verso l’indipendenza, anche solo professionale, di chiunque. Un redattore editoriale per il solo fatto che ha studiato a Mosca ha il privilegio di entrare a «Bisanzio», appartato quartiere dove vive la nomenclatura che controlla tutto e tutti. E fa da tramite tra la nostalgicamente borghese torre e la roccaforte del potere che teme di scomparire. (Uwe Tellkamp - La Torre Bompiani). NEL PAESE DELLA PERSUASIONE. Di racconti se ne pubblicano pochi in Italia. E di solito gli editori privilegiano quelli stranieri. E’ da millenni che la buona letteratura nasce dai racconti. Eppure certe case editrici spingono per l’inversione di rotta. George Saunders, texano, viene considerato uno dei più dotati eredi della satira let-

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I

Sei degli otto autori ”consigliati”: Kelly, Carrière, Telkamp, Saunders, Cappelli, Pavon. In basso le copertine dei loro libri: ”Chiedi scusa! Chiedi scusa!”, ”Il segreto del mondo”, ”La Torre”, ”Nel paese della persuasione”, ”Canzoni della giovinezza perduta”, ”Le sorelle scarlatte”

Libri. Da Dresda all’Impero romano. Volumi da leggere sotto l’ombrellone

Qualche consiglio per sfogliare l’estate di Pier Mario Fasanotti teraria come Mark Twain e Kurt Vonnegut. L’autore alza, per così dire, il volume delle tendenze e delle mode sociali, ridicolizzandole, deformandole. I suoi racconti mostrano come gli atti più semplici, come portare il nipotino a teatro o

non una voce monotona che t’incanta parlando in modo ragionevole». (Gorge Saunders Nel paese della persuasione Minimum Fax). CANZONI DELLA GIOVINEZZA PERDUTA. È la frase che pronuncia Demis, con i suoi occhi celesti,

Storie divertenti. Ci sono le fattucchiere lucano-americane al servizio delle star, le topmodel con l’alito cattivo, assessori «strafatti», un cantante rock che vende pentole ma il finale è di quelli che fanno invidia perché conquista «la

Sarebbe stato troppo facile consigliarvi Pennacchi, Camilleri, Lucarelli oppure Sorrentino. Oggi invece vi facciamo conoscere otto autori meno in vista, ma che meritano di diritto di fare capolino tra gli scaffali della vostra libreria cuocere una bistecca, rischiano di diventare incubi. Ma bisogna resistere, per essere liberi. Che l’America sia, come egli dice, «un vocio continuo, un sacco di voci che strillano, quasi sempre cose sbagliate, anche assurde a volte, ma per favore,

ingialliti dal mal di fegato. Uno che di storie incredibili ne ha una sporta. Lo ascoltano tutti, anche i depressi. Gaetano Cappelli ha scritto dieci racconti. Lo scrittore di Potenza fa danzare i suoi personaggipersone e così crea un mondo.

donna più bella del mondo». Inganni, illusioni, equivoci, speranze. Tutto questo nel Sud dagli spazi infiniti. (Gaetano Cappelli - Canzoni della giovinezza perduta - Marsilio). CHIEDI SCUSA! CHIEDI SCUSA! Siamo tra le dune della famo-

sissima Martha’s Vineyard, dove se la spassano i ricconi del New England. Ad abitare la villa è il clan dei «fantastici Flanagan», irlandesi che non hanno problemi di soldi. Schermaglie da pub, voci su insurrezioni. Marito e moglie, in quell’ambiente lindo in stile georgiano, hanno un menage che va dalla crudeltà al comico. Finchè un’estate le cose cambiano e l’impalcatura crolla. Linguaggio accurato e brillante, grazie anche ai trascorsi giornalistici dell’autrice. (Elizabeth Kelly -Chiedi scusa! Chiedi scusa! - Adelphi). LE SORELLE SCARLATTE. L’editore Sellerio continua a scoprire e a riscoprire, per fortuna. E’ la volta di Francisco Garcìa Pavòn (1919-1989), padre nobile del giallo iberico. Siamo nella Mancia, a indagare è il placido e robusto commissario Plinio, uomo goloso, in piazza riverito. Gli piace passeggiare e parlare con la gente, salvo che l’agente di turno lo informa di un fattaccio e così lui viene scaraventato in una storiaccia, che affronta pigramente. Deve affrontare la vicenda di due anziane signore, capelli rossi, gemelle, figlie del notaio. Scomparse. Avevano fama di riservate. Quando Plinio entra nella loro villa scopre qualcosa di inquietante. Spunta il drammone carnale, con le sue tracce dietro pesanti drappi.(Francisco Garcìa Pavòn - Le sorelle scarlatte - Sellerio). AUGUSTUS. John E. Williams ha buona fama come narratore dei grandi della romanità, per questo viene accostato a Robert Graves e a Marguerite Yourcenar. A raccontare dell’Ottaviano che diventò il divo Augusto è la voce del generale Marco Vispanio Agrippa, eroe di Anzio. Lotte di potere, desideri e progetti di grandezza, donne che stimolano e donne che ostacolano: non solo gli uomini, ma la Storia stessa. (John E. Williams - Augustus Castelvecchi). TOGNAZZI. Voglio dire poco del libro di Valentina Pattavina, al quale è accluso un Dvd, perché a parlare di Ugo Tognazzi si farebbe notte. Versatilissimo, inimitabile. Capace di tragicomicità, ma anche di burla e sarcasmo, di ruoli intensi, seri, pietosi, Tognazzi fu capace di «rivendicare il diritto alla cazzata» e resistette a qualsiasi tentazione conformistica. Fa parte della “storia del gusto” degli italiani, impietosamente e impeccabilmente specchio di molte italianità, mica solo una. I giovani dovrebbero scoprirlo, noi abbiamo il piacere della memoria. (Valentina Pattavina -Tognazzi - Einaudi).


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il personaggio della settimana Un “self made man” figlio della Grande Depressione che crede solo nell’economia “reale”

«Miliardario, a modo mio» Chi è Warren Buffett, l’Oracolo di Omaha che insieme a Bill Gates - sta convincendo i più ricchi magnati americani a devolvere in beneficenza metà delle loro fortune. E che adora Frank Sinatra di Maurizio Stefanini

anno scorso, in piena ondata di crisi, Warren Buffett staccò un assegno da 44 miliardi di dollari per terminare l’acquisto della Burlington Northern Santa Fe (Bnsf): 51.766 Km di ferrovia, di cui già nell’aprile del 2007 aveva preso una prima tranche del 22,6% attraverso la sua finanziaria Berkshire Hathaway. Per di più, offrendo ai soci di essere pagati per il 40% in azione della Berkshire, che schizzarono subito in su del 31%: e lui stesso paragonò questa scommessa sulla fine della crisi all’all-in. La mossa del giocatore di poker che butta sul piatto tutto le sue fiches, per giocarsele tutte in una sola mano. Subito dopo, annunciò la sua partecipazione a un programma di cartoni animati su Internet, per spiegare l’economia ai ragazzini. All’inizio di agosto, ha agitato il gossip finanziario con quell’annuncio che al momento di andare in pensione avrebbe suddiviso la direzione della Berkshire in due tra funzione esecutiva e finanziaria: una mossa che ha scatenato le scommesse a che il suo erede sarà il 44enne cinese Li Lu. Un ex-studente della Tienanmen, che come top executive della Berkshire ha fatto guadagnare a Buffett vari lucrosi affari nella Repubblica Popolare: ad esempio, il finanziamento del fabbricante di vetture e batterie Byd, fruttato 1,2 miliardi di dollari.

L’

Una foto e due illustrazioni di Warren Buffett. Nella pagina a fianco: Bill Gates

Da ultimo, l’“Oracolo di Omaha”, come lo chiamano, ha lanciato un’iniziativa per persuadere 40 miliardari e milionari Usa a donare la metà della loro fortuna ai poveri. Con Buffett, la cui ricchezza ascende a 47 miliardi di dollari, tra i promotori dell’iniziativa sono Bill Gates e il messicano Carlos Slim Helú: proprio i due “gladiatori” con cui negli ultimi anni si è conteso le prime tre piazze della classifica Forbes dei miliardari. Dopo che in America Latina avevano attribuito l’idea a Slim, Gates e Buffett hanno spiegato che era

stato lo stesso Buffett invece a pensarci, durante una cena organizzata a New York nel maggio del 2009. D’altra parte, già nel 2006 aveva donato 37 miliardi di dollari in azioni benefiche per le popolazioni del Terzo mondo. Le cene successive per propagandare il progetto sarebbero state invece soprattutto di Gates. «Abbiamo appena iniziato e già abbiamo avuto una risposta fantastica», racconta Buffett. Tra i “convinti” ci sono già David Rockefeller, Ted Turner, Larry Ellison e il sindaco e uomo più ricco di New York Michael, Bloomberg.

Eppure, l’uomo che sta agitando in tutti questi modi l’economia mondiale ha appena confessato che trascorre almeno 12 ore a settimana in un’attività frivola come il gioco del bridge on line. Dice peraltro che è quella l’unica cosa per la quale usa il computer, a parte guardare video su YouTube, in cui cerca soprattutto le canzoni di Frank Sinatra. «Mi piace entrare in YouTube, ascoltare una canzone e poterla raccomandare ai miei amici», ha detto in una recente intervista. «Adoro trascorrere una o due ore ascoltando Frank Sinatra che canta My way, e mi sento meglio che mai». Una canzone evidentemente non scelta a caso. «Ho vissuto una vita piena/ Ho viaggiato su tutte le strade/ Ma più. Molto più di questo/ L’ho fatto a modo mio/ Rimpianti, ne ho avuti qualcuno/ Ma ancora, troppo pochi per citarli/ Ho fatto quello che dovevo fare/ Ho visto tutto senza risparmiarmi nulla». «Cos’è un uomo, che cos’ha?/ Se non se stesso , allora non ha niente», dice pure My way. “Per dire le cose che davvero sente/ E non le parole di uno che si inginocchia/ La storia mostra che le ho prese/ E l’ho fatto a modo mio». Da confrontare con la famosa frase che Warren Buffett usa per spiegare il modus operandi che lo ha portato alla ricchezza: «Il value investor cerca azioni il cui prezzo è ingiustificatamente basso rispetto al valore intrinseco di tali azioni». Un modus operandi in cui è stata sua cura particolare investire in imprese tecnologiche. Eppure, per far ciò non segue la Borsa on line, e neanche consulta le pagine economiche dei giornali digitali. «“Non ho iPod, non ho iPad,

non ho un profilo sociale sulle pagine di Facebook o Twitter, e entro dieci anni sarò rimasto l’unico uomo che continuerà a leggere giornali di carta», dice anche ridendo. Forse ride anche all’idea che dà per scontata di poter arrivare ai novant’anni, vistto che è nato il 30 agosto del 1930. Confrontiamo però Buffett con i suoi due grandi rivali-amici: Gates, l’uomo di Microsoft, e Slim, il re dei cellulari.Terzo miliardario al mondo, lui è però il primo se togliamo di mezzo la New Economy e ci limitiamo all’economia tradizionale. Sarebbe fuorviante dire che Buffett è un nemico di quella triade informatica-telefonia mobile-biotecnologie attorno quale i guru del “Pensare Digitale” come Negroponte o Kevin Kelly hanno immaginato addirittura un cambio delle regole economiche. Come abbiamo visto, quando lo trova conveniente ci investe, e quando riesce a farci qualcosa che trova interessante vi si coinvolge anche in prima persona.

A parte le ferrovie, i principali asset della Berkshire sono in effetti in firme come la Coca Cola, la Nike, la Gillette, la McDonald’s, la Kirby Company, la Walt Disney o l’American Express, e anche il suo ritorno a un pilastro della rivoluzione industriale ottocentesca come le ferrovie in piena crisi dei subprime è sembrato a molti un messaggio precuiso. Come dire, in tempo di polemiche sull’eccessiva finanziarizzazione


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e virtualizzazione: torniamo ai fondamentali, e all’economia reale.

«Sì, ci sono state volte, sono sicuro lo hai saputo/ Ho ingoiato più di quello che potessi masticare/ Ma attraverso tutto questo, quando c’era un dubbio/ Ho mangiato e poi sputato/ Ho affrontato tutto e sono rimasto in piedi/ L’ho fatto a modo mio», ricordano pure i versi di My way. «Ho amato, ho riso e pianto/ Ho avuto le mie soddisfazioni, la mia dose di sconfitte/ E allora, mentre le lacrime si fermano, /Trovo tutto molto divertente». In effetti, va ricordato, Buffett nacque in piena Grande Depressione: l’epoca in cui appunto da una parte risaltò in

ska, che però a un certo punto lasciò perdere gli affari per darsi alla politica, venendo anche eletto tra 1942 e 1950 membro repubblicano della Camera dei Rappresentanti. Molto amico del pensatore libertarian Murray Rothbard, si trovò ad avere idee isolazioniste e antiinterventi all’estero che in fase di inizio Guerra Fredda, per non parlare della guerra calda il Corea, lo misero non solo all’opposizione dell’Amministrazione Truman, ma anche in condizioni di progressivo isolamento nel suo stesso partito. Era anche un fervido sostenitore del Gold Standard: in netto contrasto con la futura avversione del figlio per gli “improduttivi”investimenti in oro. Dalla

prima dichiarazione dei redditi, deducendone 35 dollari per l’uso della sua bicicletta. A 15 assieme a un amico investì 25 dollari per mettere un flipper usato in un barbiere, e seguito poi da altri flipper in altri barbieri. Da studente universitario fondò la Buffett Partnership, fondo d’investimento per gestire il patrimonio di amici e parenti.

Sposatosi a 21 anni dopo il ritorno nel Nebraska, iniziò a rastrellare azioni sottovalutate. Infine decise di rendere pubblica la Buffett Partnership fondendola con la Berkshire Hathaway: una società tessile ormai in declino ma quotata in Borsa, di cui aveva iniziato a rastrellare

Investe anche nella new economy, ma usa il computer solo per giocare a bridge online e per cercare, su YouTube, tutti i video di The Voice modo estremo il problema del contrasto tra economia reale e economia virtuale; dall’altro, personaggi come Paul Getty elevarono a arte il saper distinguere nelle azioni che la gente buttava via come carta straccia, tra quelle che lo erano sul serio e quelle altre dietro le quali c’erano invece asset solidi, e che dunque una volta rastrellati per un tozzo di pane avrebbero consentito di fare guadagni value spettacolosi. Appunto, il investing.Va detto che non si tratta di un self made man, per lo meno in senso classico. Suo padre Howard era infatti a sua volta un businessman del Nebra-

carriera politica del padre, però, il giovane Warren ricavò un’adolescenza a Washington, che gli permise di laurearsi alla Colombia Business School.

Racconta comunque la leggenda che benchè proveniente da una famiglia non oppressa dal bisogno e benestante fin da ragazzino avesse iniziato ad arrabbattarsi per guadagnare: vendendo Coca Cola, chewing gum o settimanali porta a porta, e aiutando nella drogheria del nonno. A 14 anni, dopo aver comprato un appezzamento di terreno che affittava ai pastori locali, compilò la sua

azioni dal 1962. Di lì, il successivo decollo, sempre seguendo rigorosamente il principio del value investing: servizi, industria, assicurazioni, biancheria, proprietà frazionata di jet privati, energia, tubifici... Gli esperti assicurano che la svolta decisiva è nel 1967, con l’acquisto di due compagnie assicurative: la National Fire and Marine Insurance Company e la National Indemnity Company. Nel 1985 la Berkshire abbandonerà dunque definitivamente il settore tessile, per diventare quello che è oggi il più grande riassicuratore mondiale dopo la svizzera Swiss Re e la tedesca Mu-

Dalla “scalata” alle opere di bene L’imprenditore Warren Edward Buffett è nato a Omaha il 30 agosto 1930. Soprannominato l’“oracolo di Omaha”, nel 2009, con un patrimonio di 60 miliardi di dollari, sarebbe, secondo la rivista Forbes, il terzo uomo più ricco del mondo (dopo Bill Gates) e il 40esimo più ricco di tutti i tempi. La sua attività finanziaria inizia a partire dal ’62, anno in cui comincia ad acquistare partecipazioni della Berkshire Hathaway, industria tessile in declino, di cui prenderà il controllo qualche anno dopo. Con la Berkshire Hathaway acquista aziende sottovalutate nei più variegati settori, dai servizi all’industria alle assicurazioni alla biancheria, passando per società che offrono proprietà frazionate di jet privati; infine acquisisce la Mid American Holding nel settore energia, e inizia così a investire in tubifici. Con la Berkshire Hathaway, nel ’67, acquisisce due compagnie assicurative: la National Fire and Marine Insurance Company e la National Indemnity Company. Il settore delle assicurazioni conquista sempre più spazio all’interno della holding di Buffett, così dall’85 abbandona il settore tessile e si dedica a quello assicurativo. Oggi Berkshire Hathaway è il più grande riassicuratore mondiale dopo la svizzera Swiss Re e la tedesca Munich Re. Nel 2006 ha donato 37 miliardi di dollari in azioni benefiche per le popolazioni del Terzo mondo.

nich Re. Un gigante delle assicurazioni che però non ha mai smesso la strada dell’ulteriore diversificazione, e neanche il confronto con l’economia reale. Ovviamente, anche nel personaggio Buffett non è tutto oro quello che luce. Michela Murgia, l’autrice di quel libro autobiografico Il mondo deve sapere da cui Palolo Virzì ha tratto il film Tutta la vita davanti, scrisse quella tragedia sul precariato dopo aver lavorato nel call center la Kirby International: società di Cleveland produttrice di sistemi di pulizia che abbiamo visto nell’orbita di Buffett, e che anche negli Usa è spesso nell’occhio del ciclone. Sia per il trattamento dei dipendenti, sia per l’aggressività nelle tecniche di vendita. Buffett è poi famoso per la sua tirchieria, ed ha una concezione della famiglia per lo meno originale. Quando la prima moglie Susan lo piantò per mettersi a fare l’attrice e la cantante lui si mise a vivere con Astrid senza divorziare, i tre firmavano gli auguri di Natale assieme, e solo alla morte di Susan nel 2004 Warren e Astrid si sposarono. E pure dell’idea di lasciare metà dei suoi beni ai poveri sembra avere gran parte l’altra intenzione di non dare niente ai figli. Ma Buffett, probabilmente, si spiegherebbe continuando a cantare Frank Sinatra. «E ora la fine è vicina/ E quindi affronto l’ultimo sipario/ Amico mio, lo dirò chiaramente/ Ti dico qual è la mia situazione, della quale sono certo». «Ho programmato ogni percorso/ Ogni passo attento lungo la strada/ Ma più, molto più di questo/ L’ho fatto a modo mio».


ULTIMAPAGINA Nuovo album e nuovi concerti

Ma quale reunion, Sting canta da SOLO S di Alfredo Marziano

i mettano il cuore in pace, gli orfani dei Police. La temporanea rinascita del trio è stata un fuoco di paglia, un blitz dettato da ragioni di business e nostalgia, oltre che dalla curiosità di vedere cosa ne sarebbe venuto fuori. «La gente ha reagito al nostro ritorno come se papà e mamma fossero tornati assieme. Ma chi vuole davvero tornare ad abitare con la moglie da cui ha divorziato? Io non lo farei» ha spiegato recentemente Sting a scanso di equivoci, confessando che «la reunion non è stata facile. Non c’è stato nulla di nuovo: nessuna nuova canzone, niente nuova energia, nessun desiderio di partire da lì per poi fare nuove cose insieme».

Così la prossima volta che lo vedremo sui palchi italiani - il 25 ottobre al Teatro Verdi di Firenze, il 2 novembre all’Arcimboldi di Milano, il 3 novembre al Palaolimpico di Torino e il 10 novembre al Santa Cecilia di Roma - sarà di nuovo “solo”: per modo di dire, visto che nel tour che promuove il nuovissimo album Symphonicities, rilettura in chiave sinfonica del vecchio repertorio (compreso quello dei “poliziotti”), lo accompagnano il fido chitarrista Dominic Miller, la cantante Jo Lawry e un intero ensemble sinfonico, la Royal Philharmonic Concert Orchestra diretta da quel Steven Mercurio già collaboratore di Pavarotti e di Andrea Bocelli. Già, perché da quando ha il privilegio di incidere per la prestigiosa Deutsche Grammophon il signor Gordon Sumner, reduce da una serie di scialbi dischi solisti e alle prese con un preoccupante crampo dello scrittore, s’è intelligentemente inventato una carriela parallela da artista “maturo”e crossover, all’incrocio tra popular e classica, musica seria e musica “leggera”. Prima un album di madrigali per liuto (Songs From The Labyrinth) scritti da un compositore di epoca elisabettiana, John Downland. Poi If On A Winter’s Night, antologia di inni, parole e brani folk di ambientazione invernale che gli ha concesso lo sfizio di misurarsi con Bach, i lieder schubertiani e la prosa di Robert Louis Stevenson. Quindi uno spettacolo teatrale, Twin Spirits, in cui con la moglie Trudie Styler rilegge l’epistolario di Robert e Clara Schumann. E ora questo tuffo autoreferenziale nel passato, nobilitato

Dopo aver infranto la speranza dei suoi fan di rivederlo con i Police, torna con “Symphonicities” reinterpretando in chiave sinfonica alcuni dei suoi successi, come “Englishman in New York”, più alcuni brani del repertorio dei Police, tra cui “Roxanne” dagli archi e dagli ottoni di una grande orchestra (lo ha anticipato di poco l’amico Peter Gabriel, che fa qualcosa di molto simile nel tour di Scratch My Back). Troppo ambizioso, troppo autocelebrativo? Macché, dice lui, «io non mi prendo mai troppo sul serio. So cosa dicono di me, che sono pretenzioso e tutto il resto. Ma io me ne frego». Del resto ha 58 anni compiuti, il fascinoso signor Sumner. E oggi trova molto più divertente esercitarsi sugli spartiti di Purcell con il suo contrabbasso del 19° secolo che saltare come un grillo su un palco in mezzo al fragore degli strumenti elettrici, rinfocolando l’amore per la musica classica instillatogli dalla madre pianista e dai programmi radiofonici della Bbc anni Cinquanta. Un anatema ai tempi dei Police, il che non vuol dire che Sting abbia abdicato allo spirito originario del suo fare musica: «Tutto nasce da quelle ridicole premesse che hanno reso il rock’n’roll un ambiente talebano, un circolo chiuso in se stesso», spiega. «Ma qual è lo spirito del rock’n’roll se non la liberta di fare ciò che si vuole? Che dovrei fare, starmene buono nel mio recinto? Non posso.

Sono un tipo curioso ed entusiasta, mi piace scoprire cose nuove». O riscoprirle sotto una luce diversa. In Symphonicities si diverte a cambiare abito all’immortale Roxanne e all’elegante Englishman In New York, infiocchetta di svolazzi e contrappunti Every Little Thing She Does Is Magic e rivolta come un guanto l’antica Next To You senza privarla della sua frenesia

punk. Dal vivo blandisce il pubblico rincarando la dose con altri classici, Russians e King Of Pain, Fragile (che in America ha dedicato agli abitanti delle zone devastate dall’affondamento della piattaforma petrolifera della BP) e l’hit planetario Every Breath You Take, ma Symphonicities è anche l’occasione per «riscopire canzoni di cui io stesso mi ero dimenticato». Chicche da fan perse nella memoria collettiva come I Burn For You, recuperata dalle scalette del primo tour solista, oppure You Will Be My Ain True Love (dalla soundtrack del feulleiton Cold Mountain), e poi oscuri lati b di singoli come End Of The Game e quella canzone folk, We Work The Black Seam, scritta di getto ai tempi dello sciopero dei minatori inglesi contro la lady di ferro Margaret Thatcher.

Come divertissement il disco funziona, anche se c’è da chiedersi quale sia la sua data di scadenza. Ma i concerti promettono molto di più, Sting che si presenta sul palco in giacca da smoking e il direttore Mercurio che balza e si agita come un folletto, gli orchestrali che si beccano raffiche di applausi e la voce angelica della Lowry che vola alta nel duetto di Whenever I Say Your Name. Da oltreoceano, infatti, rimbalzano recensioni entusiastiche. «Un concerto imperdibile», strilla il Globe and Mail. «Arte e creativià allo stato puro», rilancia il San Diego Union Tribune, mentre sul Chicago Daily Herald Eileen Brown scrive che «mentre la musica rock e quella sinfonica non sempre si sposano bene tra loro, stavolta la combinazione funziona a diversi livelli», e aggiunge che «a differenza della reunion dei Police di qualche anno fa, questo non è uno spettacolo nostalgico». Sembrava “bollito”, Sting: indossando il tuxedo s’è riscoperto di colpo molto più giovane.


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