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he di cronac
Gli infelici, non avendo nient’altro, solitamente si attaccano alla morale
9 771827 881004
Marcel Proust di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MARTEDÌ 10 AGOSTO 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Ancora un giorno di polemiche nella maggioranza sulla casa di Montecarlo per colpire l’inquilino di Montecitorio
L’odio non conviene a Silvio Prima ha rinunciato a Casini,ma le cose sono peggiorate.Ora sta cercando di distruggere Fini: ma così presto diventerà solo il prestanome di Bossi.Come Prodi con Bertinotti DECLINO BERLUSCONIANO
Al Gemelli in terapia intensiva
di Errico Novi
Dalla Casa delle Libertà al duopolio con Umberto
ROMA. Italo Bocchino parla
Una replica a Panebianco e una proposta per il Nord
di Giancristiano Desiderio a fine di Berlusconi sta al Pdl come il trionfo di Berlusconi sta alla Cdl. La Casa aveva un suo riconosciuto padre, ma in essa convivevano più persone, ognuno aveva interessi e valori e tra questi Berlusconi mediava svolgendo il suo ruolo politico e affermando contemporaneamente la sua leadership. Poi Berlusconi ha iniziato a cacciar via i suoi stessi figli dalla Casa trasformandola in una casamatta ossia un Partito in cui la solitudine del padre non potendo mediare tra diversi interessi e valori è diventata subalternità e il berlusconismo ha lasciato il campo definitivamente al bossismo o leghismo.
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Cossiga ricoverato in gravissime condizioni
Caro Angelo, ti spiego la nostra idea d’Italia Un federalismo nazionale per unire (e non dividere) di Rocco Buttiglione
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L’area della responsabilità e le elezioni a Milano Un programma alternativo a quello del Carroccio di Savino Pezzotta
alle pagine 4 e 5
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Entrato in ospedale per problemi respiratori, si è sottoposto a dei controlli. Le sue condizioni sono improvvisamente peggiorate nel pomeriggio
di «bastonature mediatiche». Magari. Sono colpi di martello pneumatico, assestati giusto in modo da far crollare la maggioranza. È la campagna al limite del vampiresco che i giornali vicibni al Cavaliere, i suoi dirigenti più guerrafondai conducono per colpire Fini e avvicinare il voto. tutto si ripete, tutto sembra già scritto. Berlusconi è di nuovo in preda a una furia demolitrice. Vuole mandare in frantumi la maggioranza esattamente come fece due anni fa con il vecchio centrodestra, quando decise di rompere l’alleanza con Casini. Avanti un altro, ora tocca al cofondatore del Pdl. via anche lui. Silvio approfitta della disavventura immobiliare del presidente della Camera per cercare di accelerare i tempi, arrivare in fretta a nuove elezioni e costruirsi una nuova corte in Parlamento. Sciolto il legame con il centro moderato stavolta trocca al leader con cui il presidente del Consiglio ha fondato il Pdl meno di un anno e mezzo fa. a pagina 2
I roghi rianimano lo scontro tra il premier e Medvedev
Dopo il massacro dei sei medici stranieri
Gli incendi in Russia, il silenzio di Putin
Afghanistan: governi troppo deboli
di Pietro Salvatori
di Bernardo Cervellera
emergenza incendi, per Medvedev, potrebbe rivelarsi quel che è stato l’uragano Katrina a New Orleans per Bush: un colpo durissimo per la popolarità del commander in chief russo, dal quale potrebbe non risollevarsi.
ono stati tutti identificati i 10 volontari uccisi il 6 agosto scorso a Badakhshan in un attentato rivendicato dai talebani come una lotta contro il “proselitismo cristiano”e contro “le spie degli americani”. E invece era soltanto un crimine comune.
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di Francesco Capozza l presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga, è stato ricoverato ieri in gravi condizioni al Policlinico Gemelli di Roma per problemi respiratori. In un primo momento sembrava non essere in pericolo, gli stessi medici nel primo pomeriggio avevano dichiarato che l’ex capo dello Stato «non versava in gravi condizioni». Poi, col passare delle ore, una complicazione ha notevolmente peggiorato la situazione, tanto che Cossiga è stato immediatamente trasferito nel reparto di terapia intensiva del Policlinico della capitale.
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I QUADERNI)
• ANNO XV •
NUMERO
153 •
WWW.LIBERAL.IT
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IN REDAZIONE ALLE ORE
22.30
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pagina 2 • 10 agosto 2010
Predellino 2. Dal presidente del Consiglio un messaggio ai Club per una «mobilitazione contro chi produce chiacchiere»
L’eterogenesi dei Fini
Il Cavaliere randella il presidente della Camera in preda a una nuova furia demolitrice, che rischia di consegnarlo definitivamente a Bossi di Errico Novi
ROMA. A ben guardare Italo Bocchino stavolta veste i panni del pompiere. Parla di «bastonature mediatiche». Magari. Sono colpi di martello pneumatico, assestati giusto in modo da far crollare la maggioranza. È la campagna al limite del vampiresco che i giornali vicini al Cavaliere e i suoi dirigenti più guerrafondai conducono per colpire Fini e avvicinare il voto.Tutto si ripete, tutto sembra già scritto. Berlusconi è di nuovo in preda a una furia demolitrice.Vuole mandare in frantumi la maggioranza esattamente come fece due anni fa con il vecchio centrodestra, quando decise di rompere l’alleanza con Pier Ferdinando Casini. Avanti un altro, ora tocca al cofondatore del Pdl.Via anche lui. Silvio approfitta della disavventura immobiliare del presidente della Camera per cercare di accelerare i tempi, arrivare in fretta a nuove elezioni e costruirsi una nuova corte in Parlamento ulteriormente depurata da
I quotidiani d’area e i falchi del partito tornano a chiedere le dimissioni della Terza carica dello Stato: è una corsa verso le urne qualunque possibile critica. Sciolto il legame con il centro moderato stavolta tocca al leader con cui il presidente del Consiglio ha fondato il Pdl meno di un anno e mezzo fa. Resterà evidentemente sa solo con la Lega. In splendida solitudine? Meglio riflettere sugli aggettivi.
Farebbe meglio, il Cavaliere, a riflettere su alcune coincidenze. Nel giorno in cui alcuni suoi avanguardisti, vedi Daniele Capezzone, tornano a reclamare le dimissioni della Terza carica dello Stato, nelle stesse ore che vedono il Giornale di Vittorio Feltri impegnato in una furente campagna di adesioni alla richiesta di decapitare Montecitorio, arriva con notevole tempismo il colpo d’acceleratore della Lega. Mai così sarcastico, quasi sprezzante, Roberto Maroni, come nell’intervista concessa al settimanale A, in cui ricorda di non avere casa a Montecarlo e di non aver mai vinto al Superenalotto. Mai così risoluto, almeno rispetto alle ultime uscite, Roberto Calderoli nel dire che o «si dice sì a tutto», o si aderisce preventivamente a «un articolato», a «mozioni molto dettagliate» su federalismo, immigrazione, sicurezza e (tanto per far contento
Il lento declino della “rivoluzione berlusconiana”
Dalla Casa delle Libertà al duopolio con il Senatùr di Giancristiano Desiderio a fine di Berlusconi sta al Pdl come il trionfo di Berlusconi sta alla Cdl. La Casa aveva un suo riconosciuto padre, ma in essa convivevano più persone, ognuno aveva interessi e valori e tra questi Berlusconi mediava svolgendo il suo ruolo politico e affermando contemporaneamente la sua leadership e il carattere popolare e liberale della Cdl. Poi Berlusconi ha iniziato a cacciar via i suoi stessi figli dalla Casa trasformandola in una casamatta ossia un Partito in cui la solitudine del padre non potendo mediare tra diversi interessi e valori - pur esistenti nella società italiana è diventata subalternità e il berlusconismo ha lasciato il campo definitivamente al bossismo o leghismo.
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Se nella Casa Berlusconi era un leader politico che aveva davanti a sé la prospettiva di istituzionalizzare la democrazia dell’alternanza, nel Partito Berlusconi interpreta lo strano ruolo di un Cesare agli ordini di Bruto ossia Bossi (non a caso l’unico politico di centrodestra che ha effettivamente tradito-accoltellato Berlusconi e fatto il ribaltone e il cosiddetto “governo
tecnico” o del presidente con tanto di cambio di maggioranza). Diciamola tutta: Berlusconi senza Casini e Fini è la controfigura plutocratica del secessionista Umberto Bossi. Formuliamo l’ipotesi più favorevole per il capo del governo: si ritorna a votare e il duopolio B&B vince. Come? Il calo di consensi del Pdl è compensato dalla crescita senza precedenti della Lega che diventa politicamente il vero partito di maggioranza relativa.
A quel punto il duopolio è di fatto trasformato in monopolio e Silvio Berlusconi, che per vanagloria se non per senso politico vorrebbe rappresentare ogni singolo italiano, è l’interprete del valore nordista al cui interesse sarà piegata tutta la politica nazionale. Già oggi il governo è in realtà il gabinetto Berlusconi-Maroni con l’appalto dell’economia al para-leghista Tremonti. Con la vittoria elettorale il Pdl avrà realizzato hegelianamente la razionalità che il suo acronimo si porta in grembo: Partito della Lega. Sarà questo l’ultimo atto della politica plebiscitaria di Berlusconi che dopo aver divorato e eliminato i suoi alleati cattolici, nazionali e moderati non dovrà far altro che completare l’opera eliminando anche se stesso ossia uscire di scena senza consegnare il Paese ad un sistema democratico più adulto, maturo e responsabile ma al suo passato più antico con un corpo nazionale e sociale diviso in due e un corpo politico incapace di rappresentarne l’unità (che tutto possa realizzarsi nel marzo 2011 quando saranno 150 anni esatti dall’Unità d’Italia è solo un’astuzia dell’irragionevolezza alla quale gli italiani si vorranno, si spera e si crede, sottrarre). Resta la sostanza: nella Casa delle libertà si litigava, come in ogni casa, ma c’era politica e il suo leader aveva ancora una strategia di crescita democratica da offrire al Paese. Nel Partito della libertà Berlusconi, come un vero Re Solo, non avrà nessuno con cui litigare cioè misurarsi e con la corte e la servitù parlamentare non avrà nulla da proporre al Paese se non il suo asservimento tecnocratico. Ma anche i meno avveduti tra gli elettori del centrodestra non hanno mai lavorato per un film così triste.
Berlusconi) giustizia, oppure «si vota, tra novembre e dicembre, meglio prima che dopo». Ultimatum consegnato del ministro padano in un’intervista a Repubblica, studiato apposta per rinchiudere Fini e i suoi nel recinto dei prigionieri e costringerli alla rottura. Ecco, il premier dovrebbe interrogarsi sul motivo che spinge i leghisti a essere così spediti nella ricerca dell’incidente decisivo. Dovrebbe essere abbastanza chiaro che il Carroccio fiuta l’odore della preda, e che questa ha le fattezze del Pdl. Sono proprio i voti di Berlusconi a eccitare i padani, ad affrettare i loro passi e le loro parole.
Il Cavaliere insomma dovrebbe accorgersi che liberandosi di Fini si consegna definitivamente ai lumbàrd. Che non sarà più padrone del proprio governo e che sarà arduo, per lui e per i suoi aedi, convincersi di essere diversi dal Prodi prigioniero di Bertinotti. È a Silvio che non conviene questa corsa verso il precipizio, è a lui che questa foga distruttrice può portare danno. Ed è sempre lui a pregiudicarsi il lieto fine verso il quale solo i più attenti tra i suoi consiglieri (Giuliano Ferrara e pochi altri) cercano inutilmente di spingerlo. Gli indizi coincidono, accentuano cioè l’analogia tra la corsa di queste ore e l’impennata di fine 2007. Il predellino sembra essere tornato di moda. Non c’è piazza San Babila, stavolta, ma i piccoli appelli che Berlusconi fa partire da internet. Quello di ieri è solo l’ultimo della serie ed è indirizzato a una delle costole movimentiste dell’universo berlusco-
I padani sentono l’odore del sangue e danno l’ultimatum: «Dai dissidenti sì senza subordinate ai quattro punti, o si va subito al voto» niano, i Club della libertà di Mario Valducci: è necessaria, dice il premier, «una mobilitazione permanente per contrastare i disfattismi e i personalismi di chi antepone i propri particolari interessi al bene di tutti, al bene del Paese». Di cosa si tratta? Qual è la forma di mobilitazione a cui si fa appello? Berlusconi nel suo messaggio la descrive con una cura che si fa improvvisamente minuziosa, al punto da suonare come un programma organizzativo già compiuto, nella sua testa: «È necessario far conoscere», dice, i provvedimenti e i meriti del governo, «a tutti gli italiani. Dovremmo riuscire a collocare in ogni piazza degli 8100 comuni della nostra Italia un nostro banchetto, un nostro gazebo e nostri sostenitori che spieghino quanto il governo è riuscito a realizzare». Quindi la chiamata alle armi: «Vi chiedo la disponibilità a partecipare a questa grande opera di diffusione attraverso una capillare rete di militanti basata sulla suddivisione delle 60mila sezioni elettorali».
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Da un anno il Giornale e Libero si dedicano alla Terza carica dello Stato
Il partito dell’odio Ai quotidiani d’area e agli ultrà Capezzone, Napoli e Stracquadanio danno man forte gli ex colonnelli di An di Franco Insardà
ROMA. Giampaolo Pansa un anno fa, in occasione della nomina di Vittorio Feltri a direttore del Giornale, aveva scritto sul Riformista: «Dalla carta stampata colerà il sangue e anche qualcosa di più immondo». La frase è stata ripresa anche dal direttore di Avvenire, Dino Boffo, nella sua lettera di dimissioni il 3 settembre, al termine di una campagna contro di lui iniziata dal Giornale il 28 agosto. Per questo motivo Feltri ha avuto sei mesi di sospensione dal Consiglio dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia, mentre è stato assolto per il “caso Fini”, ovvero la pubblicazione di un articolo intitolato “Il presidente Fini e la strategia del suicidio lento”, nel quale si faceva riferimento a un fascicolo del 2000 su faccende a luci rosse riguardanti personaggi di An. Insomma quella tra Feltri e
Quando c’è una rottura Berlusconi sale il gradino della svolta populista, scompone ogni struttura partitica e si rivolge direttamente a questo più o meno reale esercito di guardie azzurre, invocando il sangue dello scontro. Non c’è una idea di partito, in tutto questo, ma la più berlusconiana delle visioni ultraleaderistiche e ultraziendali, come se al posto della più grande forza politica del Paese si trattasse di una enorme società multilivello: «Sarà il più grande porta a porta mai realizzato in Italia», dice infatti il Cavaliere, «ed è per questo che chiedo una mobilitazione permanente». Tutto mentre Ferrara gli fa notare che lo sputtanamento non può esaurire la politica, mentre il più misurato dei finiani, Silvano Moffa, lo prega di accorgersi che con l’iniziativa di Futuro e libertà si è semplicemente privata la Lega della golden share. Dettaglio questo che a Berlusconi sembra non interessare: prenderlo in considerazione lo costringerebbe a ragionare in termini politici. E invece lui preferisce coltivare l’illusione del nuovo predellino, facendo forse finta di dimenticare che a un esito comunque politico, questo ulteriore strappo, lo porterà eccome, ed è la definitiva vittoria della Lega.
In un messaggio di buone vacanze rivolto ai Club della libertà, Berlusconi (sopra) già ridisegna il Pdl e liquida Fini (in basso) come produttore di chiacchiere. A Feltri (a destra) resta la parte più faticosa di un attacco che rischia di avvantaggiare solo Bossi (in basso a sinistra)
Fini è una battaglia che parte da lontano, ma che dopo lo strappo definitivo con Silvio Berlusconi ha assunto toni sempre più duri, condita spesso dal controcanto affidato a Libero, diretto da Maurizio Belpietro. L’ultimo episodio è quello relativo all’appartamento di Montecarlo, lasciato in eredità ad An, venduto e affittato al fratello della compagna dell’ex cofondatore del Pdl.“Fini come Scajola”, titolava ieri Il Giornale il commento di Feltri alla risposta di Fini sulla vicenda, accompagnato da una campagna per farlo dimettere da presidente della Camera, con tanto di raccolta di firme e di sms. Lo scontro in questi giorni sta assumendo dimensioni ancora maggiori tanto che Giancarlo Lehner, editorialista del Giornale e deputato del Pdl, a proposito delIa vicenda, parlando di nepotismo, si è lasciato andare a giudizi molto forti: «siffatto vizio endemico marca da secoli l’irrisolta questione meridionale, anche di certuni finiani di Trinacria, benché non risulti estranea anche alle regioni rosse, al Nord leghista e nemmeno in Parlamento, dove figli senza merito alcuno, se non di essere orfani, usano e abusano di seggi parlamentari». E pensare che una decina di giorni fa, dopo il “tradimento” finiano, Giorgio Stracquadanio, ultras berlusconiano e animatore del giornale online Il predellino, aveva chiesto per Fini un trattamento simile a quello riservato a Boffo. Sulla stessa linea si ritrovano altri falchi del Pdl: su tutti Daniele Capezzone e Osvaldo Napoli. Le loro quotidiane dichiarazioni contro la Terza carica dello Stato trovano però il sostegno decisivo degli ex colonelli di An Ignazio La Russa e Altero Matteoli. È così ben disegnato quel partito dell’odio che il Cavaliere ha messo in campo per eliminare l’ultima voce critica sopravvissuta nella maggioranza. In questi dodici mesi di direzione del Giornale, che del partito dell’odio è organo ufficiale, Feltri non ha perso occasione per attaccare Fini e chi gli è vicino, nonostante, in alcuni casi, le prese di distanza del Cavaliere e di altri esponenti del Pdl. Uno
degli obiettivi è Elisabetta Tulliani e i suoi familiari: la madre e il fratello, fino ai “finiani” più in vista come Italo Bocchino. Un anno contrassegnato dalla ricerca di scandali sui rapporti patrimoniali tra la Tulliani e il suo ex compagno Luciano Gaucci, sugli appalti Rai concessi a una società che produce programmi televisivi che farebbe capo alla “suocera” del presidente della Camera, Francesca Frau e su Giancarlo Tulliani, anche lui interessato a dei programmi tv e affittuario dell’appartamento di Montecarlo. In molti di questi casi sono partite delle azioni giudiziarie contro gli articoli pubblicati, ma la battaglia è destinata comunque a proseguire in questo“tutti contro tutti”nella stampa di centrodestra.
A settembre dell’anno scorso, infatti, dopo l’affondo del Giornale e l’annuncio di querela, ci fu una breve tregua, sottolineata anche dalle parole di Ignazio La Russa in un’intervista alla Stampa: «Adesso la fase è cambiata. Feltri ha un poi ridimensionato la cosa, ma soprattutto Berlusconi ha assicurato che si riuniranno gli organismi collegiali, e così sarà». Una speranza che non si è tramutata in realtà, i finiani hanno ricominciato a protestare e il Giornale e Libero hanno ripreso il cannoneggiamento. Feltri ha parlato di “compagno Fini”, per le nuove posizioni su immigrati, gay e biotestamento. E all’inizio di novembre lo ha accusato di «essere un alleato fedele a intermittenza». Per poi ritornare, questa volta insieme con Libero, a ipotizzare l’idea del presidente della Camera di voler «pensionare Berlusconi». Verso la fine dello scorso anno sono cominciate le richieste di dimissioni di Fini, descrivendolo come «ormai nudo» e che ha «gettato la maschera» (Vittorio Feltri) o che «lavora per il re di Prussia» (Maurizio Belpietro). Al punto da far ipotizzare provocatoriamente a Ffwebmagazine; «E se il nemico interno fosse Feltri?». A Natale, tanto per gradire, Fini ha inviato al suo “nemico”una confezione di Valium (per passare le feste «senza ossessioni e allucinazioni»), ricambiata dal direttore con dodici bottiglie di prosecco e con il messaggio: «prestigioso vino italiano dal sapore ben più gradevole del Valium e anche dell’olio di ricino, del quale in passato Fini è stato grande estimatore». A gennaio l’inizio dell’attacco “immobiliare” con un titolo eloquente : “Fini come Di Pietro”, con relativa indignazione di alcuni esponenti del Pdl ed ex An. Per poi continuare nei mesi successivi, accusando il presidente della Camera di «remare contro». E giungere a scrivere che sarebbe opportuno «sciogliere il nodo Fini che strozza qualsiasi attività». E a titolare qualche giorno dopo: «Fini leader della congiura», «Fini esce dal Pdl? Sarebbe ora». E continua a scorrere non solo sangue.
Le pesanti accuse di nepotismo di Giancarlo Lehner: «Anche in Parlamento figli senza merito alcuno, se non di essere orfani, usano e abusano di seggi»
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l’approfondimento
Una risposta all’editoriale pubblicato ieri sul Corriere della Sera
Un appunto a Panebianco Abbiamo bisogno di una democrazia in grado di decidere, ma senza abbandonarsi a derive plebiscitarie. E dobbiamo lavorare per un federalismo nazionale, per unire (e non dividere) il Paese. Infine, serve una seria riforma della giustizia di Rocco Buttiglione ul Corriere della Sera di ieri, Angelo Panebianco spiega con la consueta chiarezza che l’asprezza dello scontro politico in Italia si spiega con il fatto che si confrontano fra loro tre diverse idee di repubblica. Una è la repubblica plebiscitaria, incarnata da Berlusconi, che però non è riuscita a dare concretezza e dignità istituzionale e democratica alla spinta popolare che lo ha portato al potere. L’altra è la repubblica che non decide dei suoi oppositori. La terza è la repubblica di Bossi che cerca una via d’uscita dallo stallo istituzionale attraverso il federalismo. Sorge inevitabilmente per noi dell’Udc e del partito della nazione in via di formazione la domanda: quale è la nostra repubblica? In molti di noi è forte la nostalgia per la prima repubblica ed anche il desiderio di una restaurazione. La nostalgia è un sentimento rispettabile, il desiderio è invece sbagliato.
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Una cosa è difendere da giudizi liquidatori l’onore di una formula politica che molto di buono ha fatto per il paese, un’altra cosa è chiudere gli occhi davanti al fatto che essa era
già logora venti anni prima della sua caduta. Non a caso Aldo Moro era alla ricerca di un rinnovamento che però è stato mancato. Negli ultimi anni della Prima Repubblica una confusa ideologia della partecipazione ha generato molto dibattito e poche decisioni ed ha coperto reti clientelari che hanno usato i diffusi poteri di veto per promuovere soprattutto se stesse. È mancato il rinnovamento dei partiti che, perso il riferimento ideologico, si sono trasformati in mere aggregazioni di potere.
È nata allora la ondata plebiscitaria che ha portato al potere Berlusconi. Panebianco osserva giustamente che la deriva plebiscitaria non è di per se né democratica né antidemocratica. Semplicemente il paese era stanco di una situazione in cui decisioni importanti per il bene comune erano continuamente rimandate per la necessità di mettere d’accordo tutte le consorterie che disponevano in qualche modo di un potere di veto sulla decisione pubblica. Tuttavia non bisogna sottovalutare il potenziale antidemocratico di una situazione del gene-
re in cui il popolo è disposto a seguire il primo che passi alzando una bandiera e gridando parole d’ordine di radicale cambiamento. È così che nasce il tiranno. Neppure bisogna sottovalutare “le forze oscure della reazione in agguato”. Il Partito Comunista ha gridato tanto al pericolo reazionario da screditarsi completamente. Di conseguenza quando il pericolo realmente si è manifestato le denunce avevano perso ogni credibilità. Esiste in Italia una cultura anarcofascista profondamente radicata che disprezza il parlamentarismo e la democrazia e sogna l’uomo del destino. La deriva plebiscitaria si è fermata sulla testa di Berlusconi. Poteva andarci peggio. Poteva fermarsi sulla testa di Di Pietro, molto più disposto di Berlusconi a mandare in galera i suoi avversari politici. Fini avrebbe potuto usare quella deriva plebiscitaria per tentare una impossibile rivincita del fascismo, ma ha scelto di non farlo. Poteva però andarci anche meglio. Berlusconi non è infatti riuscito a riformare le istituzioni migliorando la loro capacità decisionale senza intaccarne il carattere democratico. Per la ve-
rità all’inizio ha tentato, chiamando intorno a se uomini che avevano capacità e competenze per ripensare la democrazia italiana: penso a Colletti, Pera, Urbani etc...
Berlusconi è stato inchiodato dalla sinistra e dalla magistratura sul conflitto di interessi, ha smarrito il disegno riformatore (anche perché non ha incontrato interlocutori credibili in campo avverso) ed ha finito con il fare le politica della difesa del suo potere. Non metterei il disegno di Bossi sullo stesso piano degli altri due. In realtà Bossi non vuole il federalismo, vuole la secessione. Non cerca un sistema politico per padroneggiare la complessità della situazione italiana.Vuole ridurre la complessità cacciando via una metà dell’Italia. Noi non dobbiamo proporre il ritorno al passato. Noi dobbiamo riprendere il discorso là dove esso si è interrotto. Abbiamo bisogno di una democrazia che decide senza perdere la sua caratteristica democratica e senza cedere a tentazioni anarcofasciste o diciannoviste (si chiama diciannovismo il clima di ribellismo e di sfiducia nella
democrazia da cui nacquero a breve distanza di tempo comunismo e fascismo). Bisogna introdurre tutti e solo quei cambiamenti che rendono funzionante la nostra democrazia. Bisogna farlo con intransigenza ma anche senza astratti furori. Abbiamo bisogno di rafforzare il potere dell’esecutivo dando al presidente del consiglio gli stessi poteri che ha il cancelliere tedesco. Il cancelliere viene eletto dal Parlamento e può essere sfiduciato solo con un voto che indichi contestualmente il nome del successore. Il cancelliere nomina e revoca i ministri ed ha la guida effettiva di tutto (e solo) il potere esecutivo. Fare eleggere il capo del governo dal popolo è invece una assurdità che è stata sperimentata solo in Israele per un breve periodi e con risultati catastrofici.
Il Capo del Governo deve controllare effettivamente l’esecutivo ma deve dipendere dalla fiducia del Parlamento e deve potere essere sostituito se vi fossero serie e gravi ragioni. Il sistema tedesco rende questa sostituzione difficile (ed evita così le crisi di governo ricorrenti che hanno piagato la Pri-
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Ci sono le condizioni per una proposta alternativa a quella leghista che oggi sembra predominante
L’area della responsabilità e le elezioni a Milano
In primavera si rinnoveranno i consigli municipali in molti paesi e città. Il centro dello schieramento politico deve riflettere su come incidere di Savino Pezzotta n questi giorni si sta esaurendo un sistema politico che non ha mai trovato un suo assetto stabile nonostante una legge elettorale che ha consegnato ai leader un potere quasi assoluto e ha tolto agli elettori la libertà di scegliere. È ormai evidente che l’alternanza bipolare (tre vittorie elettorali di Berlusconi e due di Prodi) con coalizioni di partiti più o meno omogenei, non è riuscita a produrre per l’Italia quelle riforme necessarie che avrebbero reso socialmente meno pesate la crisi e più equo il suo superamento. Molti affermano con una certa soddisfazione che è iniziata la crisi di Berlusconi e del berlusconismo ma a mio parere bisogna evitare che i desideri diventino fonte di nuove illusioni. Questa è una fase inedita che va affrontata con particolare attenzione, serietà, con un costante atteggiamento critico e una buona dose di realismo. Non sappiamo ancora come Berlusconi affronterà le attuali difficoltà.
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La piattaforma dei quattro punti sembra più posizione tattica che la definizione di una precisa strategia. Potrebbe anche aprire nuovi scenari ma molto dipenderà dagli atteggiamenti che assumerà “Futuro e libertà”. Oggi il disegno, il ruolo e i movimenti futuri del Pdl e del centro-destra non sono chiari o in via di chiarimento. Per questo occorre essere prudenti nell’affermare che sia finito il berlusconismo come fenomeno politico, sociale e culturale: ricordiamoci che il berlusconismo è stato ed è ancora un fenomeno di massa. Inoltre teniamo conto della crisi di sistema in corso che coinvolge i due partiti maggiori. Quello che veramente è andata in dissolvimento è la vocazione maggioritaria sulla quale il Pdl (Berlusconi) e il Pd (Veltroni) vo-
levano costruire un bipolarismo di cui essi erano l’asse portante.
L’unica cosa certa è che siamo entrati in nuova fase politica che, per definire una chiara strategia politica, richiede attenzioni in grado di andare oltre i tatticismi del momento. Per accelerare il cambiamento del modello politico e di rappresentanza che ha predominato in questi quindici anni, vanno utilizzate le difficoltà di Berlusconi. Solo in questo modo la democrazia
È il momento di proporre per il Nord un’idea diversa del federalismo e delle autonomie italiana recupererà la sua capacità di attrazione, di rappresentanza e di capacità di governo. Da questo punto di vista la proposta molto sottovalutata di un governo di larghe intese avanzata dall’Unione di centro, non può essere piegata alle contingenze dell’oggi ma assunta come una metafora tesa a indicare un superamento dell’attuale situazione e a individuare i tratti profondi della crisi italiana. Siamo precipitati in una situazione di grandi difficoltà di natura economica ma che investono anche il piano culturale, sociale, politico ed etico. In questi quindici anni di falso e improduttivo bipolarismo, si sono indeboliti gli elementi che facevano dell’Italia un Paese condiviso. Se si vuole mutare rotta e tornare a pensare al futuro, l’analisi deve partire da questi elementi e riportare al centro del dibattito pubblico l’interesse generale e nazionale, rispetto a quello privato, corporativo e territoriale che, purtroppo, in questi anni ha predominato e modificato i modi del fare politica e il modo di pensare di milioni di persone. Ho l’impressione che di fronte all’attuale situazione tra le forze sociali predomini la confusione e l’incertezza sul cosa sia indispensabile fare. Soprattutto nel Pd, orientato pare a mettere insieme un’alleanza che assommi il populismo di sinistra, il giustizialismo e la visione temperata delle aggregazioni centriste. Mi sembra una missione impossibile: il Pd è chiamato a fare scelte precise. Si muove invece con chiarezza d’intenti il Sen. Bossi che con“un colpo al cerchio e uno alla botte”, con “un’affermazione e una smentita”, non abbandona l’obiettivo finale. La Lega ha scelto di stare con Berlusconi e credo che non lo
mollerà, nonostante i corteggiamenti di una parte della sinistra. Il tema del ribaltone non è più per la Lega all’ordine del giorno, anzi. Sia che la legislatura continui o che si vada al voto, quest’alleanza è essenziale perché gli assegna un ruolo e una funzione che non può né vuole mollare. Non è un caso che escluda qualsiasi possibilità d’allargamento dell’alleanza e in particolare manifesti un’ostilità forte nei confronti dell’Unione di Centro ritenuta, sul piano dei valori e della vision, alternativa al suo progetto politico. Nonostante la crisi che attraversa il Nord e impoverisce le famiglie e i ceti medi e popolari, i leghisti romanizzati insistono nell’alleanza con il Pdl. In questo modo sono centrali al Nord, dove tolgono al partito di Berlusconi ogni possibilità di competizione. E’già successo nelle recenti elezioni amministrative quandoVeneto e Piemonte sono state consegnate ai leghisti e la Lombardia messa sotto la loro tutela. L’andare o no alle elezioni per la Lega non è importante perché in entrambi i casi persegue l’obiettivo di essere il Partito del nord.
Si gioca oggi, nella pianura padana, la vicenda politica che riguarda il futuro dell’Italia. Non voglio assolutamente demonizzare la Lega, ma non vedere, per effetto dei numeri e del cosiddetto radicamento, i suoi tratti fondamentali, significa vivere il rapporto politico in maniera falsata. Bossi, Maroni e Calderoli a volte dicono cose che anch’io condivido ma è altrettanto chiaro che hanno un’idea diversa dalla mia della Repubblica e dell’unità nazionale. L’autodefinitasi “area della responsabilità”- che non va confusa con il terzo polo ma come la ricerca tra forze diverse di un modo condiviso di sentire e di vedere i problemi nell’interesse generale dell’Italia - dovrebbe misurare la sua possibilità d’influenza e di proposta. Non sappiamo se si andrà a votare o no ma è certo che in primavera si rinnoveranno i consigli municipali in molti paesi e città, Milano compresa. Credo che la cosiddetta area delle responsabilità dovrebbe riflettere sul come incidere in questo appuntamento. Oggi a mio parere ci sono le condizioni per una presenza di proposta al Nord e in Lombardia che sia diversa da quella leghista che tende a essere predominante. Non si cambierà la politica italiana se non si parte dal basso. Forse è il momento di proporre un’idea diversa del federalismo e delle autonomie, cercando di rispondere alle vere esigenze del Nord, alla rete diffusa dei produttori, delle famiglie e dei lavoratori, dei giovani in cerca di lavoro, delle piccole imprese e dei territori insoddisfatti delle politiche centralistiche che hanno trovato nella Lega Nord un forte sostegno. Mantenere il dibattito fermo alla disputa delle alleanze con un polo o con l’altro finisce per inibire ogni forma d’innovazione e di cambiamento. Significa restare prigionieri di un modello, questo bipolarismo, che è ormai finito.
ma Repubblica) ma non la rende impossibile, ed infatti in un paio di occasioni in sessanta anni a questa possibilità si è fatto opportunamente ricorso. Un buon sistema deve essere flessibile per adattarsi anche ad eventi straordinari. Si può prevedere, eventualmente, che in caso di cambiamento del capo del governo a legislatura in corso il nuovo governo debba presentarsi agli elettori entro un anno per ricevere la loro conferma ma questo è il massimo di rafforzamento dell’esecutivo compatibile con un sistema parlamentare
La riforma della forma di governo deve essere accompagnata dalla riforma del sistema elettorale. La deriva plebiscitaria è tentata dalla ipotesi di una democrazia senza partiti. A questa tentazione bisogna resistere: i partiti possono uccidere una democrazia ma non ci sono democrazie senza partiti. È bene cercare di evitare la formazione di aggregazioni meramente personalistiche e clientelari e favorire la convergenza delle grandi tradizioni politiche effettivamente presenti nel paese. A questo serve un sistema elettorale proporzionale con una adeguata soglia di sbarramento. Se si pensa che la preferenza sia uno strumento che può favorire un voto clientelare ma si vuole, d’altro canto, mantenere un rapporto forte fra l’eletto e gli elettori si possono eleggere i candidati in collegi uninominali con riparto proporzionale dei seggi con il sistema in vigore a suo tempo per il Senato della Repubblica. Credo che dobbiamo dare la nostra disponibilità ad un federalismo nazionale, per unire e non per dividere il paese. Serve il restituire allo stato il ruolo di comunità sovraordinata, della quale le regioni fanno parte e serve istituire una camera delle regioni in cui le regioni diventino stato ,assumendo collettivamente responsabilità nazionale. Serve, infine, una riforma della giustizia che prima di tutto ne incrementi la efficienza. Se i processi si facessero in fretta molti problemi si risolverebbero anche nel rapporto con la politica. I colpevoli verrebbero condannati e gli innocenti potrebbero ricevere un giusto risarcimento politico. È poi giusto ribadire la indipendenza della magistratura ma anche farne regredire la politicizzazione. Una magistratura politicizzata non può essere indipendente. Bisogna evitare la dipendenza dall’esecutivo ma quella da un partito lo da una ideologia può essere ancora più esecrabile. A volte, quando si finisce in un vicolo cieco, per potere andare a vanti è necessario prima tornare indietro. Tornare indietro rispetto agli eccessi della deriva plebiscitaria per andare avanti verso una vera democrazia che decide.
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Afghanistan. I fondamentalisti non mostrano i capi d’accusa mossi contro i membri dello Iam. Forse perché non esistono
Vittime per caso I volontari uccisi dai talebani non erano missionari: sono morti per il loro servizio di Bernardo Cervellera ono stati tutti identificati i 10 volontari uccisi il 6 agosto scorso a Badakhshan in un attentato rivendicato dai talebani come una lotta contro il “proselitismo cristiano”e contro “le spie degli americani”. L’International Assistance Mission (Iam), un’organizzazione non governativa cristiana, da decenni in Afghanistan, ha riconosciuto i sei americani, una britannica e una tedesca, tutti medici oculisti, insieme a due traduttori afghani, che dopo un soggiorno di due settimane e mezzo nella regione di Nuristan, stavano tornando a Kabul attraverso il Badakhshan, considerata la via più sicura. Lo Iam ha perso i contatti con i veicoli dei medici mercoledì e si presume che siano stati attaccati tra mercoledì e venerdì scorso.La morte degli otto volontari cristiani lascia sgomenti. È la prima volta che membri di un’organizzazione non governativa vengono presi di mira in modo così esplicito. Nel caso specifico, tutto è abbastanza fuo-
S
ri del comune. Anzitutto, l’organizzazione per cui gli otto volontari lavoravano, è impegnata nel Paese da 44 anni e senza mai nascondere la propria identità cristiana, era riuscita a farsi stimare per la professionalità e la dedizione sotto il re, sotto il regime filo-sovietico, sotto i Talebani e anche ora, in questo periodo di guerra. Non era nemmeno la pri-
aspettare uno o due giorni, come di solito avviene. In più la rivendicazione è avvenuta in modo altisonante, come per gloriarsi di fronte a tutto il mondo musulmano e chiamarlo a raccolta: «Ieri [il 6 agosto] - ha detto - una delle nostre pattuglie ha affrontato un gruppo di stranieri. Erano missionari cristiani e li abbiamo uccisi tutti». Egli ha pure ag-
Da questo assassinio appare ormai evidente che gli estremisti islamici non si curano per niente dei bisogni della gente che dicono di volere difendere. Questa violenza è contro tutto il Paese ma volta che il gruppo si muoveva. Fra essi, il loro capo spedizione,Tom Little, un optometrista di New York, era un vero esperto dell’Afghanistan, essendovi arrivato fin dagli anni ‘70. Stupisce anche che il portavoce dei Talebani, Zabihullah Mujahid abbia subito rivendicato l’esecuzione degli otto volontari e di due dei traduttori, senza
giunto anche che si trattava “di spie dell’America”, che volevano raccogliere informazioni sugli insediamenti dei guerriglieri fondamentalisti. Zabihullah ha precisato che i volontari, tutti medici oculisti eccezionali, avevano con sé bibbie in lingua Dari e che “facevano proselitismo”. Ma per quanto altisonanti, le accuse non tengono. Dirk Frans,
direttore esecutivo dello Iam, ha negato con forza le due accuse di proselitismo e di politica: «Lavoriamo in Afghanistan dal 1966. Loro sanno che siamo un ente cristiano, ma di sicuro non distribuiamo bibbie». Egli ha anche spiegato che gli uccisi erano medici e che lo Iam si occupa solo di aiutare la popolazione. Fonti di AsiaNews nel Paese hanno fatto notare che questa volta i talebani non hanno mostrato i “capi di accusa”, le bibbie e magari le mappe segnate con la presenza di guerriglieri islamici. Forse perché non sono mai esistite. Nemmeno la polizia che ha re-
cuperato i corpi ha trovato le famose bibbie in lingua Dari, la prova del “proselitismo”di questi volontari cristiani. Invece i poliziotti hanno notato che oggetti di proprietà degli uccisi sono stati rovistati e derubati, tanto da far supporre che gli autori dell’esecuzione islamica sono solo dei ladri, con vaghi legami coi talebani. Far apparire un furto e l’omicidio come una tappa del jihad può significare che i talebani vogliono mascherare la loro debolezza e il bisogno di nuovi alleati: le regione di Badakhshan, al confine con il Tajikistan, teatro dell’attentato, è
Pakistan, Corea del Nord, India, Somalia... L’elenco di chi viola la libertà religiosa è infinito, e aumenta giorno per giorno
Uno stillicidio lento e continuo ell’equazione cristiano uguale occidentale si sapeva già. Ma che l’equazione fosse uguale anche al contrario è novità di poco tempo fa. Quello contro i cristiani (e gli occidentali in genere) è uno stillicidio di violenze, lento ma costante, che passa da espropri di terreni; violenze relative; piccole emarginazioni e arriva fino a veri e propri massacri. L’ultimo in ordine di tempo, quello scatenato contro i dieci oculisti occidentali, e quindi cristiani, che i talebani hanno ucciso per combatterne il proselitismo. Di cui, per altro, non hanno le prove. Ma gli “studiosi del Corano” non sono certo gli unici a compiere attività ricreative di questo genere.
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Anzi, a ben vedere potrebbero essere persino scambiati per principianti da chi, della lotta al cristiano, ha fatto una professione. Uno dei professionisti del settore è senza dubbio il regime stalinista nordcoreano, che lo scorso maggio (ma la notizia è trapelata soltanto negli ultimi giorni) ha scoperto
di Vincenzo Faccioli Pintozzi alcuni fedeli cristiani riuniti in una chiesa domestica nella provincia di Pyongan, dove erano riuniti per celebrare una funzione clandestina, e li ha arrestati tutti. Delle ventitre persone fermate, tre sono state condannate a morte e immediatamente fucilate. Secondo le fonti locali, gli arresti e le fucilazioni sono avvenute a metà maggio: «In quel periodo, subito dopo la disastrosa riforma valutaria, la polizia ha scoperto ventitre residenti di Kuwaldong (contea di Pyungsung, provincia di Pyongan) riuniti in una chiesa cristiana clandestina. Li hanno arrestati tutti e, dopo un lunghissimo interrogatorio, hanno condannato a morte i tre considerati leader del gruppo. Gli altri sono stati
mandati al lager n° 15, il Kwanliso di Yoduk”. Il cristianesimo “sotterraneo” sarebbe stato conosciuto da alcuni membri del gruppo in Cina, mentre si trovavano lì per questioni di lavoro. Secondo la fonte, «molti dei residenti della zona sono stati presi in un rastrellamento e interrogati per giorni. Le autorità temono il diffondersi della religione. Ma questo non si può evitare, dato che la situazione peggiora sempre di più e la gente inizia a riscoprire la fede. Le condanne servono anche a spaventare il popolo». C’è poi il caso indiano, che si avvicina sempre di più agli eccessi del confinante Pakistan. Dai pogrom anti-cristiani lanciati in Orissa nell’estate del 2008, sembra aumentare la vio-
lenza degli estremisti indù contro le minoranze, ree dal loro punto di vista di “contaminare” l’anima più pura della Confederazione indiana.
Confederazione che, a voler essere pignoli, nacque proprio per garantire un multiculturalismo anche religioso che poi è stato dimenticato per strada. E adesso il primo partito del Paese, il Bjp, ha fatto della caccia al cristiano uno sport nazionale, amato ed estremamente praticato. Non va meglio in Pakistan, dove anche le aree non tribali e quindi lontane dall’influsso più puramente talebano sono divenute luoghi poco consigliabili per chi non venera il Profeta. La Somalia, e con essa tutta l’area del Maghreb, non fa eccezione in questa cornice di sangue e dolore. Da parte sua, la Chiesa molto spesso condanna senza intervenire in maniera chiara: i governi vengono lasciati fuori, nonostante l’evidente correlazione con gli estremisti. E l’Occidente dedica a questi morti alcune pagine di giornale per poi dimenticarli.
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I numerosi pronunciamenti istituzionali non bastano a lanciare un segnale comune
Ma gli Stati hanno il dovere di fermare questa strage Che fine ha fatto la proposta, avanzata dal ministro Frattini, di tenere una Conferenza mondiale sulla libertà religiosa? di Luigi Accattoli possibile fare qualcosa - e che cosa - per fermare il massacro dei cristiani che va crescendo nel mondo? L’interrogativo viene riproposto dall’uccisione nel Nord-Est dell’Afghanistan di otto volontari cristiani occidentali avvenuta tra giovedì e venerdì e rivendicata dai talebani. Il fatto è oscuro e chissà se mai sarà chiarito. La polizia afghana ha diffuso una versione del fatto fornita da un interprete afghano che era con gli otto e che sarebbe riuscito a salvarsi dimostrando che era musulmano con la recita di una sura del Corano. La rivendicazione talebana accusa gli otto di spionaggio e di proselitismo: «Abbiamo trovato delle Bibbie in lingua Dari che intendevano distribuire alla popolazione». Ma le autorità locali non credono alla rivendicazione talebana e propendono a ritenerlo un fatto di rapina. Conviene dunque restare prudenti ma la correttezza informativa non impedisce di svolgere una valutazione del fatto in chiave di “rischio cristiano” selezionando alcuni elementi certi che lo hanno caratterizzato. Gli otto erano cristiani, cristianamente motivati a svolgere la loro missione medica in soccorso della popolazione afghana. La rivendicazione talebana - che può essere falsa nel merito, cioè per quanto riguarda responsabilità e motivazioni dell’atto, ma che è ritenuta autentica nella fonte - muove esplicitamente l’accusa di “proselitismo religioso”. Sappiamo bene, del resto, che nella fase finale del loro dominio i talebani decretarono l’espulsione di tutti i cristiani dall’Afghanistan. Si tratta dunque di un fatto che segnala come cento altri - in questo inizio di millennio - il montare a incendio della cristianofobia in gran parte del mondo musulmano oltre che in quello indù. In Medioriente innanzitutto, in Pakistan e in Afghanistan, in Sudan, in Somalia, in Nigeria e in India, nelle Filippine. Di questo episodio - che ha visto l’uccisione di tre donne insieme a cinque uomini - dovremmo conservare nella memoria almeno le parole della britannica Karen Woo, 36 anni, che nel suo blog aveva annunciato così la missione in cui ha perso la vita: «Non sarà priva di rischi ma credo che ne valga la pena perchè quel che conta è assistere coloro che ne hanno più bisogno».
È
una delle poche regioni afghane sottratte da sempre al loro controllo. Ma è anche possibile che la loro lotta sia ormai divenuta più spietata: essi non combattono più solo i militari stranieri, ma tutti gli occidentali tout court. Il punto è che i militari presenti in Afghanistan possono essere criticati per tanti aspetti: dopo anni di guerra non c’è sicurezza; domina la miseria; cresce la corruzione; non vi sono infrastrutture…
Ma i volontari erano là per donare il loro servizio alla popolazione afghana, avendo curato milioni di persone dalla possibile cecità, 180mila solo nel 2009. Lo Iam, con 50 volontari stranieri e 500 impiegati afghani opera in sette province del Paese. Con un budget che nel 2009 è stato di 3,6 milioni di dollari, il gruppo gestisce un programma per malati mentali a Herat; scuole per adulti a Kandahar; scuole di inglese a Mazar-e Sharif; piccoli progetti idroelettrici nelle zone rurali senza elettricità, oltre al grande lavoro contro la cecità. Per questo, la violenza contro di loro è una violenza contro la stessa popolazione afghana. Da questo assassinio appare ormai evidente che i fondamentalisti non si curano affatto degli interessi e dei bisogni della gente che dicono di voler difendere.
In alto, l’arrivo a Kabul delle salme dei dieci volontari uccisi dai talebani lo scors 6 agosto. Sopra, un gruppo di vedette degli “studiosi del Corano”, che hanno rivendicato la strage e hanno accusato i volontari di essere missionari cristiani in piena attività di proselitismo. Secondo un portavoce, i dieci nascondevano alcune Bibbie in lingua dari che avevano intenzione di distribuire alla popolazione. Nella pagina a fianco, una chiesa cristiana
mata in causa e che va onorata. Segni di risveglio dell’attenzione dell’Occidente verso i cristiani perseguitati non sono mancati negli ultimi anni.
Il Parlamento Europeo il 15 novembre 2007 condannò «ogni tipo di discriminazione e intolleranza fondato sulla religione» con esplicito riferimento agli “atti di violenza contro le comunità cristiane”. Il 16 novembre 2009 su iniziativa italiana il Consiglio dei ministri degli Esteri dell’Unione Europea deplorò «che la discriminazione basata sulla religione esista ancora in tante regioni del mondo e che a persone appartenenti a minoranze religio-
La Chiesa è cristianamente impegnata a essere composta anche da martiri, ma questo atteggiamento non può essere adottato anche dai governi di quei Paesi occidentali liberi e laici
Il mondo cristiano che patisce ai nostri giorni tante crisi sta anche vivendo questa pagina grande di un rinnovato martirio della missione e della carità. Da un punto di vista ecclesiale il fatto può essere vissuto con serenità e persino con gratitudine: dopo tanti secoli in cui la croce fu anche strumento di dominio, non può che rallegrare il fatto che oggi essa sia sempre di più nella mano di chi patisce violenza. Nel settembre del 1997 ero tra i giornalisti che ascoltarono il cardinale Joseph Ratzinger, a Bologna, rispondere così a una domanda sul rogo di Giordano Bruno: «Il Signore ci faccia comprendere che la Chiesa non deve fare martiri ma essere Chiesa di martiri». Si può dunque capire la prudenza mostrata su questo tema dalle Chiese cristiane, ma c’è una responsabilità degli Stati, dei Parlamenti e della società civile dell’intero Occidente che è chia-
se continuino a essere negati diritti umani». Di nuovo il Parlamento europeo si è fatto sentire il 21 gennaio scorso quando ha condannato l’uccisione di sei cristiani copti in Egitto e ha chiesto alle autorità egiziane di sottoporre a processo i responsabili di quell’eccidio. In più occasioni il ministro Franco Frattini ha accennato all’idea di una Conferenza internazionale sulla libertà religiosa da tenere in Italia “entro l’anno”: cioè entro il 2010. Che ne è di quella proposta? A commento di quest’ultima strage afghana, il parlamentare del Pdl Renato Farina ha proposto che il nostro Parlamento dedichi una sessione alla “guerra ai cristiani”: è una buona proposta ma temo che non si farà.Troppo spesso le parole dei governanti, le risoluzioni dei Parlamenti e le dichiarazioni dei politici dedicate a questa materia scomoda restano dei gesti occasionali di buona volontà. Perché ciò non avvenga reputo che il primo passo sia distinguere le dichiarazioni “promozionali” dalle proposte praticabili e aiutare queste ultime a divenire realtà. Ecco dunque che personalmente apprezzo l’idea della Conferenza proposta dal ministro Frattini e quella della sessione parlamentare avanzata da Farina e ritengo si debba chiedere loro - come a ogni altro eventuale proponente - di non fermarsi. www.luigiaccattoli.it
politica
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Il personaggio. L’ex capo dello Stato, trasportato ieri mattina all’ospedale capitolino, ha da poco compiuto 82 anni
Malore e ricovero per Cossiga Al Policlinico Gemelli per problemi respiratori: «In terapia intensiva» apprensione, in occasioni come questa, si mescola facilmente all’ottimismo. Eppure la notizia del ricovero al Policlinico Gemelli del presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga - battuta ieri dalle agenzie di stampa e poco dopo confermata dalla direzione del nosocomio ha destato subito preoccupazione umana e politica. Ufficialmente si parla di «problemi respiratori» che in un primo momento, così recitava il comunicato del Gemelli, «non destano particolare preoccupazione». Poi in seguito a una complicazione, Cossiga è stato trasportato subito in terapia intensiva. Che Cossiga soffra per sua stessa ammissione di «depressione» e che abbia superato con grande lucidità ma con qualche strascico fisico un intervento chirurgico risalente a qualche anno fa è cosa nota,
L’
di Francesco Capozza ti di Cossiga, però, sono sempre stati lucidissimi e contingenti - e spesso dirimenti - al calendario politico parlamentare recente. Lui, al contrario di altri “emeriti” e “a vita”continua ad essere presente nella vita politica italiana.
E spesso è in grado di far notizia, quando non addirittura di cambiare gli scenari in campo. Come quando, nel 1998, riuscì a portare a Palazzo Chigi «il primo ex comunista» Massimo D’Alema. Più che un “ribaltone” l’ex capo di Stato - che prova disprezzo per la politica di basso profilo - mise in piedi una delle operazioni politiche più straordinarie degli ultimi decenni: creare un partito (l’Udr), plasmare una nuova maggioranza e far nominare primo ministro un leader di partito come D’Alema, che pri-
Il Presidente emerito della Repubblica, è stato accolto con affetto dai sanitari e dal personale dell’ospedale ed è stato sottoposto a una serie di esami e di accertamenti ma i problemi «respiratori» di adesso cadono come un fulmine a ciel sereno anche tra le persone a lui più vicine.
Ottantadue anni compiuti lo scorso 26 luglio, Francesco Cossiga non è certo uno di quegli “ex” che amano ritirarsi in buon ordine e non far più parlare di sé. L’ex presidente della Repubblica, contrariamente ad altri illustri“colleghi”non ama il silenzio, un po’com’era uso durante il suo settennato al Quirinale, né tanto meno è solito esimersi dal commentare accadimenti politici più o meno importanti. Gli interven-
ma di allora non aveva mai avuto un risalto istituzionale (se si eccettua la breve stagione alla presidenza della Commissione bicamerale per le Riforme istituzionali del 1997). O come quando, presidente del Consiglio Romano Prodi (alla sua seconda esperienza), rassegnò le dimissioni - ovviamente respinte - da senatore a vita proprio in un momento in cui la maggioranza di governo a Palazzo Madama si reggeva su quella manciata di “ex”e su quei titolari “di altissimi meriti” di nomina presidenziale. Una provocazione, visto e considerato che né la
Costituzione né il regolamento della Camera alta prevedono la possibilità che un senatore “di diritto e a vita”possa lasciare il suo
scranno, ma destinata a far tremare, e non poco, l’allora inquilino di Palazzo Chigi. O come, più di recente, è stato tra i primi fir-
Recapitata lettera con un proiettile kalashnikov
Ciancimino: «Minacciano mio figlio, non parlo più» ROMA. «Basta, sono stanco. Non voglio più parlare con i magistrati e chiederò a Feltrinelli di ritirare dal commercio il mio libro Don Vito». Massimo Ciancimino ha 47 anni, un padre famoso e mafioso morto nel 2002 e un figlio nato cinque anni fa che ne porta il primo nome,Vito Andrea: è a lui, al bambino, che erano indirizzate le minacce contenute in una lettera - completata dal proiettile di kalashnikov d’ordinanza - arrivata ieri nell’abitazione palermitana della famiglia in via Torrearsa: «Le colpe dei padri infami e traditori ricadranno sui figli - scrive l’anonimo estensore - Lei e i suoi complici siete stati avvisati da troppo tempo. Lei e i suoi amici magistrati sarete la causa di tutto». È «una vigliaccata», è sbottato il figlio di don Vito: «Perché prendersela con un bambino di appena cinque anni? Che senso ha inviare un proiettile di kalashnikov a mio figlio? Sono questi i vantaggi di cui godrei?». Ciancimino s’è poi recato in Procura, dov’era atteso, e ha mostrato missiva e proiettile al sostituto della Dda Nino Di Matteo: ai
giornalisti presenti ha ribadito che non intende più rispondere ai magistrati che da due anni lo interrogano sulla presunta trattativa tra pezzi delle istituzioni e i vertici di Cosa Nostra nel 1992. Non è la prima volta che il rampollo dell’ex sindaco corleonese di Palermo riceve minacce di questo genere. Era già successo lo scorso aprile, sempre attraverso l’arrivo di una lettera, ma quella volta nella casa di Bologna, dove vive da quando ha lasciato la Sicilia per altre minacce, ricevute quando cominciò a collaborare coi magistrati. Quattro mesi fa, però, i proiettili di kalashnikov erano cinque, come i bersagli indicati: lui stesso, il collaboratore Gaspare Spatuzza, i magistrati Sergio Lari, Antonio Ingroia e Di Matteo. «Un consiglio - gli scrissero allora - vada via dall’Italia, taluni crediti non possono essere più posticipati. Sono state disposte più operazioni a garanzia della democrazia, tutte in attesa di essere eseguite». Allora non successe nulla, oggi le minacce al figlio potrebbero spingere Ciancimino al silenzio.
matari di una proposta di legge volta ad abolire definitivamente l’istituto dei senatori a vita. Modificare, cioè, quell’articolo 59 della Costituzione che è stato ed è al centro di tante interpretazioni negli ultimi decenni. Quello, per intenderci, che assegna al presidente della Repubblica “regnante”la facoltà di nominare «cinque senatori a vita» e che ogni presidente ha letto in maniera diversa (chi, proprio come Cossiga, ritiene che i “cinque” siano nella piena disponibilità di ogni presidente si contrappone a chi, come per esempio Carlo Azeglio Ciampi, ritiene che “cinque”sia il numero massimo di senatori a vita possibili). Con il sistema elettorale vigente e su base regionale, quel piccolissimo ma altrettanto fondamentale numero di senatori non eletti è un patrimonio che al momento opportuno può rivelarsi fondamentale. E questo Francesco Cossiga lo sa bene.
Tant’è che pur citando spesso con divertimento Carlo Bo, «c’è già qualcuno che pensa ogni tanto ad abolire i senatori a vita: la morte», ha voluto comunque condurre questa provocazione politica sottoscritta da moltissimi senatori di centrodestra e che approderà presto, così dicono, all’esame di Palazzo Madama. Solo esempi per descrivere un uomo dalla grande arguzia politica e dalla immensa cultura (Antonio Maccanico, segretario generale del Quirinale all’epoca di Pertini e Cossiga, ama raccontare che quest’ultimo passava moltissime ore della sua giornata nella vastissima biblioteca del palazzo presidenziale) la cui ironia e la cui preziosa conoscenza della recente storia italiana servono e serviranno ancora a lungo al Paese.
L’
otto pagine per cambiare il tempo d’agosto
i m p r e s a
10 agosto (1946)
Alla Conferenza della Pace, De Gasperi tiene un grande discorso nel silenzio dei Paesi vincitori
Il capolavoro di Alcide di Aldo G. Ricci
oi che invidiate i giornalisti perché vedono tante cose interessanti, ringraziate Iddio di non essere stati nell’aula del Lussemburgo oggi nel momento in cui De Gasperi scendeva a passi lenti i gradini che attraversano i banchi dell’emiciclo, perché vi siete risparmiati un gran brutto momento». Così scriveva l’11 agosto del 1946 sul Corriere della sera l’editorialista Filippo Sacchi nella sua corrispondenza da Parigi per la Conferenza della pace indetta dai Paesi vincitori della Seconda Guerra Mondiale. E proseguiva: «Ecco qui un ministro d’Italia, un patriota, un galantuomo costretto a presentarsi davanti ai vittoriosi di ieri per chiedere che gli italiani non vengano strappati all’Italia, che terre incontestabilmente nostre per costume e per lingua non vengano amputate da quel corpo glorioso al quale appartengono da secoli: per chiedere soprattutto che sia prestata fede alla testimonianza sanguinosa dei Caduti della Liberazione». Queste poche battute del giornalista dell’epoca danno un’idea precisa dell’atmosfera drammatica in cui De Gasperi pronunciò il famoso discorso del 10 agosto di fronte alle delegazioni dei Ventuno Paesi vincitori per sostenere le ragioni dell’Italia uscita dalla Guerra di Liberazione e tentare di contenere le perdite territoriali e le sanzioni previste. Il discorso è famoso per più motivi. Anzitutto perché si trattava del primo discorso ufficiale del massimo rappresentante della nuova Italia di fronte a un consesso internazionale al massimo livello. Poi perché in quell’occasione emerse concretamente l’isolamento dell’Italia, che aveva sperato di essersi guadagnata titoli di merito con il contributo dato alla guerra di Liberazione nel ruolo di ‘cobelligerante’, e doveva constatare l’ostilità dei vincitori e la loro ferma intenzione (con qualche apertura degli Stati Uniti) di non mettere in alcun modo in discussione gli accordi raggiunti a danno del nostro Paese. continua a pagina 10
«V
LA PERDUTA GENTE - CAPITOLO 6
I TESORI DELLE CIVILTÀ - TELL EL AMARNA
CINEMA CALDO - STAND BY ME
Polvere bianca e altri vizi di forma
La rivoluzione di Akhenaton
Quattro amici e un mistero
di Carlo Chinawsky
di Alessandro Boschi
di Rossella Fabiani
pagine 12-13
pagina 15
pagina 16 pagina 9 - liberal estate - 10 agosto 2010
Nella foto grande, Alcide De Gasperi. Qui sopra, la Costituzione italiana promulgata sulla Gazzetta Ufficiale il 27 dicembre 1947. Qui sotto, lo sbarco delle truppe americane ad Anzio, avvenuto il 22 gennaio 1944. Nella pagina a fianco, la Conferenza di Parigi del ’46
E infine quell’intervento è entrato nel Guinness dei discorsi memorabili per i suoi contenuti drammatici e per il clima di palese ostilità nel quale venne pronunciato. Il silenzio che accolse De Gasperi alla tribuna, che lo accompagnò per i quaranta minuti dell’intervento e che seguì alla conclusione, mentre lentamente e con il volto contratto in una maschera di tensione riguadagnava il suo posto nella parte alta dell’emiciclo, era più fragoroso di qualunque altra manifestazione e conferiva a quella giornata un’atmosfera tutta particolare che l’avrebbe resa a suo modo indimenticabile.
De Gasperi uscì provato da quell’esperienza. Provato dai giorni che l’avevano preceduta, durante i quali aveva speso molte energie nel mettere a punto un testo difficile in cui si dovevano alternare rivendicazioni di meriti per la nuova Italia, richieste di cambiamenti dei testi che si andavano preparando per il Trattato di pace, ra-
gionamenti volti a dimostrare le contraddizioni e i pericoli impliciti in molte delle soluzioni decise ai danni dell’Italia. Provato dai contrasti interni alla coalizione di governo, dove le sinistre portavano avanti una
trovava a Parigi per i lavori della Conferenza, si trasferì nella capitale francese portando avanti incontri e colloqui a titolo privato nei quali criticava apertamente la posizione ufficiale italiana. Provato infine dal silenzio che aveva accompagnato il suo discorso, tollerato dai vincitori come un atto dovuto, ma accompagnato da reazioni e comportamenti che dimostravano chiaramente come le sue considenon razioni avrebbero modificato in alcun modo le conclusioni a cui i quattro ‘grandi’ erano pervenuti. Questa sensazione netta di quasi inutilità delle infinite mosse preparatorie portate avanti per accreditare l’Italia antifascista come interlocutore del nuovo consesso internazio-
Il silenzio che lo accompagnò per quaranta minuti era più fragoroso di ogni altra manifestazione e avrebbe reso indimenticabile l’atmosfera di allora negli anni a venire
linea diversa da quella della maggioranza governativa, sostenendo le rivendicazioni della Jugoslavia sostenute dall’Unione Sovietica (allora sua alleata). Provato in particolare dall’azione di sabotaggio di Togliatti, che per tutto il tempo in cui la delegazione italiana si
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nale, provocò in lui un senso profondo d’impotenza e di frustrazione, alla quale tuttavia reagì nei giorni successivi riprendendo pazientemente la trama degli incontri bilaterali e dei piccoli passi, nella convinzione, poi rivelatasi esatta, che la frattura che si andava appena delineando tra Stati Uniti e Unione Sovietica si sarebbe necessariamente accentuata, e che in un diverso contesto internazionale l’Italia, che De Gasperi vedeva schierata nettamente nel campo occidentale, avrebbe potuto trovare nuove occasioni per contenere i danni delle mutilazioni territoriali e delle sanzioni materiali.
L’appuntamento del 10 agosto era stato preceduto dalla Conferenza dei ministri degli Esteri delle quattro grandi potenze, che avevano approvato una bozza di Trattato che prevedeva per l’Italia le previste concessioni alla Francia (Briga, Tenda e il Moncenisio), la perdita delle colonie, pesanti riparazioni all’Urss (tra le quali la
cessione di gran parte della flotta), il passaggio dell’Istria alla Jugoslavia e la creazione di un Territorio libero di Trieste. Un quadro cupo per l’Italia che prefigurava, tra l’altro, un futuro inevitabile esodo degli italiani d’Istria verso la madrepatria.
Era seguito un viaggio di Nenni in alcune capitali europee (Oslo, L’Aia, Bruxelles, Parigi) per trovare sostegno alle richieste italiane presso le socialdemocrazie del Vecchio continente, che però aveva ottenuto solo dichiarazioni di simpatia, ma nulla di concreto. La partenza della delegazione italiana era stata preceduta da un Consiglio dei ministri del 31 luglio, durate il quale De Gasperi aveva tracciato un quadro pessimistico della situazione indirizzata verso l’approvazione di un trattato punitivo per l’Italia senza alcuna considerazione per la sua azione dopo la caduta del fascismo. Il governo era spaccato sulla linea da adottare. Si andava da posizioni di rifiuto di firmare un trattato del
genere per ragioni di principio (il repubblicano Facchinetti e il democristiano Scelba, che si faceva interprete delle posizioni di Luigi Sturzo), a posizioni di accettazione delle mutilazioni territoriali da parte delle sinistre, con riserve però rispetto alle sanzioni economiche. Prevalse alla fine la linea di De Gasperi, intenzionato a sostenere le ragioni dell’Italia di fronte ai Paesi vincitori, ma anche all’opinione pubblica internazionale, e a proporre un rinvio di un anno delle decisioni relative a Trieste e alla Venezia Giulia, per non comprometterne le sorti: una proposta sostenuta da tutto il governo con l’eccezione dei comunisti, che la criticarono anche a Parigi nei loro contatti con la stampa e i rappresentanti diplomatici. Della delegazione facevano parte anche Saragat, per i suoi contatti con la Francia, per le questioni delle frontiere occidentali; Bonomi, affiancato da un gruppo del Cln della Venezia Giulia, per quelle orientali; il ministro del Tesoro Corbino per le questioni economiche legate alle riparazioni. Partendo per Parigi, il 7 agosto, De Gasperi rilasciò questa significativa dichiarazione ai giornalisti: «Non so se parto come imputato. Direi che la mia posizione è per quattro quinti quella di imputato responsabile di una guerra che non ho fatto e che il popolo non ha voluto; per un quinto è quella di cobelligerante».
Arrivato nella capitale francese, De Gasperi ebbe alcuni contatti con membri di delegazioni amiche, ma soprattutto passò la maggior parte del suo tempo in camera, accumulando fogli su fogli del prossimo discorso e sottoponendoli all’esame dei colleghi. Il testo, in italiano, venne completato alle 15
del 10 agosto, un’ora prima dell’intervento. Del gelo che accolse il presidente italiano quando venne chiamato alla tribuna dal francese Bidault, si è già detto. Ma De Gasperi, stringendo i denti, non diede segni di cedimento e guadagnò a passi lenti il posto dell’oratore. L’incipit del discorso è ormai famoso: «Prendendo la parola in questo consesso mondiale sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me: e soprattutto la mia qualifi-
L
o stesso giorno...
La Itala era stata zavorrata dall’aggiunta di 2 serbatoi da 150 litri, un serbatoio da 50 per olio motore e uno della stessa capacità per l’acqua potabile: di Francesco Lo Dico eppure non ebbe rivali ra partita il 10 giugno del 1907 da (più quello di serie da 83
Scipione Borghese, da Pechino a Parigi per fare la storia
E
Pechino. A bordo di una pesantissima Itala 35-45 hp, che tutti davano per svaforita, c’erano loro: il principe Scipione Borghese, e il giornalista Luigi Barzini, inviato del Corriere della Sera . Delle venticinque vettura annunciate, a contendersi il filo di lana della Pechino-Parigi, se ne erano presentate al via solo cinque: due De Dion-Buton, una Spyker e un triciclo Contal. Le difficoltà della più avventurosa corsa della storia, avevano scoraggiato molti. «Non v’è che discutere un progetto per finire col trovarlo assurdo; l’entusiasmo si rinvigorisce con l’azione, ma si perde parlando», scrisse Barzini. Poco adatta ai fondi accidentati, la Itala di Borghese e del fido meccanico Guizzardi, era stata vieppiù zavorrata dall’aggiunta di 2 serbatoi supplementari da 150 litri cadauno,
ca di ex nemico che mi fa considerare come imputato e l’essere citato qui dopo che i più influenti tra voi hanno già formulato le loro conclusioni in una lunga e faticosa elaborazione». Dopo questo esordio sottotono venne però subito la rivendicazione di principio: «Ho il dovere innanzi alla coscienza del mio Paese e per difendere la vitalità del mio popolo di parlare come italiano; ma sento la responsabilità e il diritto di parla-
re anche come democratico e antifascista, come rappresentante della nuova Repubblica, che armonizzando in sé le aspirazioni umanitarie di Giuseppe Mazzini, le concezioni universalistiche del cristianesimo e le speranze internazionaliste dei lavoratori, è tutta rivolta verso quella pace duratura e ricostruttiva che voi cercate e verso quella cooperazione fra i popoli che avete il compito di stabilire». Fissati questi paletti ideali, De Gasperi passò a sottoli-
litri), un serbatoio da 50 litri per olio motore e uno della stessa capacità per l’acqua potabile. L’Itala di Borghese varcò la ruvida Mongolia, attraversò i fiumi e le pioggie siberiane, sferragliò lungo i mitici binari russi della Transbaikalia, oltrepassò sabbia, pioggia, guadi, crolli di ponti, paludi, e impantanamenti nel fango. Perse una delle sue ruote a raggi, ma fu ricostruita a mano in sette ore da un falegname di stanza presso la città di Perm. Dopo aver attraversato i monti Urali e altre vicissitudini l’equipaggio raggiunge finalmente dopo Nishnii-Nowgorod la ”buona” strada. Scipione e Barzini fanno l’ingresso trionfale a Mosca il 27 luglio, raggiungono Berlino il 5 agosto e finalmente tagliano il traguardo di Parigi il 10 Agosto, dopo sessanta giorni di viaggio, 16mila km percorsi, di cui
neare le contraddizioni del testo proposto rispetto alle esigenze dell’Italia e soprattutto rispetto ai caratteri del nuovo Stato repubblicano, chiudendo, come s’è detto, con una richiesta di rinvio per il problema più delicato: quello delle frontiere orientali.
Concluse con un appello segnato dalla tensione morale che animava tutto il discorso: «Non sostate su labili espedienti, non illudetevi con una
voratore di 47 milioni è pronto ad associare la sua opera alla vostra per creare un mondo più giusto e più umano». Il discorso si chiuse in un silenzio assordante, come oggi si usa dire. Molti delegati, che non avevano capito una parola, essendo stato pronunciato in italiano e attendevano la successiva traduzione, sedevano stanchi e annoiati ai loro posti. De Gasperi venne accompagnato fuori dell’Aula, mentre si attendevano le traduzioni. Nessuno lo salutò all’uscita, con una significativa eccezione. Quando il Presidente passò accanto al delegato degli Stati Uniti, Jimmy Byrnes, questi gli sorrise e gli strinse la mano. Il gesto provocò stupore e sconcerto tra i presenti, quasi che fosse stata rotta una tacita intesa per la totale indifferenza. Dichiarò più tardi lo stesso Byrnes: «Nessuno gli parlò. La cosa mi fece impressione; mi sembrava inutilmente crudele… Così quando passò accanto alla delegazione americana gli tesi la mano e la strinsi… Volevo fare coraggio a quest’uomo che aveva sofferto nelle mani di Mussolini ed ora
Concluse con un appello segnato dalla tensione morale che animava tutto il discorso: «Non sostate su labili espedienti, non illudetevi con una tregua momentanea o con compromessi instabili. È in questo quadro di una pace stabile, signori, che vi chiedo di dare respiro e credito alla Repubblica d’Italia»
tregua momentanea o con compromessi instabili; guardate a quella meta ideale, fate uno sforzo generoso e tenace per raggiungerla. È in questo quadro di una pace stabile, signori delegati, che vi chiedo di dare respiro e credito alla repubblica d’Italia: un popolo la-
12mila su strade appena tracciate. Merito di un’automobile d’acciaio, che portò ponte e differenziale integri al traguardo, e dell’abilità organizzativa del principe Scipione, che Barzini ritrasse così: «Si sentiva in lui il predominio del cervello sul cuore, della volontà sulla sensibilità... una volta partito avrebbe fatto tutto il possibile per trionfare... ebbi immediatamente fiducia in lui». Impresa vecchia di cento anni. Portati benissimo.
stava stava soffrendo nelle mani delle Nazioni alleate». La consegna del silenzio era stata rotta dal solo Byrnes, meno formalista, come spesso accade agli americani, ma il discorso aveva lasciato il segno. Saragat, per esempio, commenta con queste parole: «La sua alta figura, il suo volto affilato e pallido, il suo sguardo profondo, la sua immobilità quasi ieratica s’imposero all’assemblea... Quando finì il discorso ebbi l’impressione che i delegati, prima ostili, facessero uno sforzo per non applaudire, ma l’impressione su tutti fu innegabile». Anche sulla stampa americana vi furono echi favorevoli. Doroty Thompson sul New York Herald Tribune scrive: «Voi peroraste la causa dei principi, la sola che può essere duratura». E concludeva: «Verrà il giorno in cui lo spirito che voi avete difeso trionferà». E Anne O’Hare McCormick sul New York Times commentò che «l’ironia della posizione di De Gasperi è che egli debba subire la punizione dei peccati commessi dal regime che ha combattuto tutta la vita».
I risultati raggiunti in quella sede furono minimi perché le decisioni erano state già prese. Ma quel discorso drammatico impose la figura di De Gasperi all’opinione pubblica internazionale come quella del rappresentante più nobile, dignitoso e lungimirante della nuova Italia repubblicana e democratica: un credito che si sarebbe rivelato provvidenziale negli anni successivi.
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IL GIALLO
CAPITOLO 6 Polvere bianca e altri vizi di forma Bocche cucite, labili indizi, giri a vuoto e giri di parole. Ora c’è una sola domanda: chi è davvero Patrizia? di Carlo Chinawsky
on era così distante, ci andai. Il bar Samoa era in effetti un luogo in disarmo rispetto alla sua stagione migliore. C’era un senso di freddo, da locale in attesa di sgombero. Sedie metalliche, gelide solo a guardarle, luci fioche da centro di accoglienza per indigenti. Gli immigrati, tutti di colore, stavano fuori, a pochi metri dall’entrata del Samoa, dietro le loro provvisorie bancarelle o davanti ai teli stesi a terra. Le sciurette mondano-ecologiste, ma anche i pochi turisti, preferivano i due bar di fronte, molto affollati. Chiesi all’uomo che era al bancone, uno smilzo coi baffetti anemici, l’unico presente in quel momento, se conoscesse Alcide Jorio. «Le interessa?».
N
Con gente come quella occorre subito dire di essere un carabiniere. Prima ebbe un moto di fastidio, poi guardando la foto che gli mostrai parve rilassarsi. Rispose «Sì, mi sembra». L’uomo dietro al banco del Samoa era una lumaca in piedi. Smorta, senza ossa. Ne vediamo ogni giorno, giovani e vecchie. «È da molto che non viene qui questa ragazza?». «Molto no… ». «Lo scorso inverno o in primavera l’ha visto?». «Mi pare di sì». «Le dica subito le cose che sa, non perdiamo del tempo, sia io che
lei». Spallucce come risposta. Immancabili in quelli che penzolano tra il so e il non lo so, il forse e il ma. Sono gli stessi che si lamentano quando una nostra auto arriva con tre minuti di ritardo. «Era assieme a una ragazza, vero?». «Sì, quella con tanti foulard», farfugliò mentre sciacquava dei bicchieri. «Tanti in che senso?». «Ne aveva più di uno al collo. Tutti colorati». «Ah, sì, allora dev’essere Patrizia», buttai lì. «Guardi, non conosco il...». «Ne è sicuro?». Smise di lavare bicchieri, tazze e cucchiaini, mi guardò, inspirò e dette l’impressione di trattenersi. Doveva avere un insulto in bocca. Un bolo acido pronto a diventare proiettile verbale. O solo l’invito a farmi gli affari miei. Rimase nella gabbia della sua prudenza. «E Patrizia ci viene ancora da sola?». «Sono stato via per un po’, non potrei darle le informazioni che cerca». «E qui chi c’era? Voglio dire al bar, in sua assenza». «Mia moglie. Ma ora non c’è». «Ho capito, vi date il cambio. E quando la trovo sua moglie?». «Forse domani». «La signora deve presentarsi alla caserma dei carabinieri, via Moscova… è qui dietro… ». «Okay, so bene dove si trova…ma perché?». Evitai di rispondere alla sua domanda: «Le dica di chiedere del mare-
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Illustrazione di Michelangelo Pace sciallo Conforti. Lui l’aspetta. A mezzogiorno in punto». «Ci sarà anche lei?», e sfiorò la nube dell’apprensione. «Ci sarò». «Va bene», disse chinandosi per afferrare un secchio, cosa che forse poteva rimandare a dopo. «Qual è il nome di sua moglie?». «Rosalba Korete». Faccia da sberle. «Lei è molto gentile», sorrisi e uscii.
Poi chiamai Conforti e gli diedi indicazioni sul locale: «Maresciallo, uno nostro in borghese sempre nei pressi. Poi informi il colonnello Boi: la Finanza deve fare un controllo. Accuratissimo». «Ha scoperto qualcosa, signore?». «Per ora no. Ma quell’uomo mi è odioso». «E basta, colonnello?». «A me sì». «Il cosiddetto fiuto?». «Lasci stare i libri polizieschi. Un’indagine è fatta di sensazioni. Nel caso mio, poi, avverto cattivi odori, anche a distanza». Tornai nel bilocale, a via Palermo. Volevo tornare sugli scritti di Jorio. Procedetti a caso. Vizio che da alcuni anni non correggo più: ho capito che un presunto difetto può diventare metodo. A quell’ora, nella mia casa romana, Alina mi avrebbe portato un caffè, il gatto Gogol si sarebbe acciambellato sulla poltrona di fronte alla mia poltrona oppure avrebbe giocato coi
L’uomo dietro al banco del Samoa era una lumaca in piedi. Smorta, senza ossa. Ne vediamo ogni giorno, giovani e vecchie. «È da molto che non viene questa ragazza?». «Molto no… ». «Le dica subito le cose che sa, non perdiamo tempo, sia io che lei» fogli che avrei avuto in mano. C’era un appunto del cronista che mi sembrò una considerazione a margine di una lettera di dimissioni: «Le grandi rivelazioni giovano al cronista soltanto se non riguardano quei potenti che, direttamente o no, hanno a che fare con la proprietà del giornale su cui scrive. Questa è una tela, anzi una ragnatela, che all’inizio si configura, agli occhi degli innocenti e degli sprovveduti, come una garanzia, ma poi si tramuta in una stretta al collo».
Buona prosa. Con l’incedere un po’ giuridico come quello di Leonardo Sciascia, l’uomo che con puntuta cortesia illuminista e la sua passio civilis sollevava polemiche sotto il largo balcone del giornale su cui educava gli italiani al ragionare sottile. Non sapevo quando esattamente Jorio s’era accorto che Torchini o Scorrano, o tutti e due insieme, erano legati alla società che governa La
Sera. Possibile che non ne fosse a conoscenza prima di salire sull’aereo che lo portava a Parigi? Lui e il collega-amico Bruno Rimi non potevano essere così sprovveduti. Quindi era lecito pensare a un colpo di mano. O di coda. In assenza del direttore. Il quale si chiamava Giulio Barra, 58 anni mal portati, per sette anni corrispondente da New York, politicamente al centro ma con timone – o la barra, chissà quanti avevano fatto questa battuta – nervosamente e servilmente variabile, vocina flautata (questo lo appresi leggendo brani dei quaderni). Barra era stato sostituito un mese dopo lo scoop di Jorio. Che coincidenza.
Scoop? Parola abusata. In effetti il cronista aveva trovato a Parigi una dichiarazione da mettere tra virgolette. Una testimonianza diretta, cosa ben diversa dai sussurri e dalle maliziose allusioni che svolazza-
LA PERDUTA GENTE Alla fine la macchia di sangue s’ingrandì sul suo ridicolo gilet, come l’impero romano sulle carte geografiche marmoree sulla parete, prima d’arrivare al Colosseo. Notai le sue mani: molto curate, le stesse che usurpavano vite senza scudo tronde, il luogo in cui camminava come una iena.
Nelle puntate precedenti Il colonnello Stauder incontra Bruno Rimi, amico e collega di Jorio (la vittima). Viene a sapere che la famosa intervista a Parigi fu una specie di colpo di mano e che costò al cronista posto e carriera. Collusioni tra politica, finanza, malavita e proprietà del gruppo editoriale? Ma il jolly romano ha l’impressione che Rimi non dica tutto, specie sulla figlia del suo amico e sui particolari dello scandalo Torchini. Jorio aveva pubblicato un articolo su un giornale dell’opposizione. Soltanto uno, e scottante. Perché non ci fu un seguito?
rono in tribunale. Stretta connessione tra finanza marcia e politica: abitudine quasi preistorica nel nostro Paese dove pare che certuni incontrino certi altri. L’ammissione dell’ex moglie di Torchini era l’anello mancante, sia pur tante volte evocato come ovvio. Ma mai sbattuto in faccia o posato su uno dei due piatti della bilan-
cia. Risultato? Zero. Zero a tal punto che anche un giornale di estrema sinistra, Universo, aveva iniziato con una marcia trionfale per poi affrettarsi a silenziare trombe e tromboni. Tutti a casa. Tutti, non importa da quale direzione provenissero e verso quale s’incamminassero. Insabbiamento. Il paese da decenni era diventato un terreno da bonificare dalle bombe, vecchie e meno vecchie, e da migliaia di mine antiuomo o anti club politico-finanziari. Gli scanner però non funzionavano a dovere o non venivano usati o fingevano d’essere usati. Non era da escludere che Jorio avesse delle carte in più. Magari nascoste.Vabbè, ma dove? Da buttare sul tavolo nel momento creduto più opportuno. Da giocare con chi e a favore di chi? Domanda scomodissima, m’avrebbe detto Bruno Rimi. Si poteva anche credere che Jorio giocasse in proprio. Visti i discorsi che faceva con il collega sul punteruolo che raschia sotto lo sterco dell’apparenza e cose simili, ne poteva venir fuori un cavaliere senza paura, con la lancia in resta, oppure un ricattatore che si autogiustificava con nobili intenti. Però tardivi.
Più andavo avanti a leggere più ero convinto di niente. Mi alzai dalla poltrona, così mor-
bida e avvolgente da suggerire una pennichella, e andai alla finestra. I bambini della scuola se n’erano andati. Saliva fino al mio piano un pungente odore di focaccia alla cipolla. Proprio sotto c’era un negozio con l’insegna “Prodotti regionali”, così vago e così furbo, e così adatto ai radical-chic dell’arrondissement Brera. Mi venne fame. Uscii e raggiunsi un bar di corso Garibaldi. Quelli vestiti da stock-option e quelli che discutevano dei soldi degli altri se n’erano ormai andati. Mi sedetti a un tavolino dopo aver ordinato un piatto di insalata e un tramezzino. Sarebbe stata l’ora più adatta giocare con i figli che avrei dovuto avere da Catherine, guardare i loro quaderni di scuola. Una notte avevo detto a mia moglie, con la mano tra i suoi capelli: «Chissà che testa piccola avranno». E lei aveva capito subito, s’era girata e aveva incollato le sue labbra alle mie. Come dire: mettimi incinta, adesso. Se avessi avuto figli, probabilmente, non avrei avuto segreti orribili. Non avrei avuto notti in cui camminare con la pistola in tasca alla ricerca degli escrementi del mondo. L’uomo con il gilet color topo mi aveva fissato. Sapeva. Le sue scarpe erano leggermente impolverate sulla punta. Era uno sterrato, d’al-
Alla fine la macchia di sangue s’ingrandì sul suo ridicolo gilet, come l’impero romano sulle carte geografiche marmoree sulla parete, prima d’arrivare al Colosseo. Notai le due mani: molto curate, le stesse che usurpavano vite senza scudo. Ero andato al suo funerale e avevo osservato a lungo la vedova, impassibile come una statua asiatica. Il telefonino squillò mentre stavo afferrando la tazzina del caffè. Era Conforti. Disse che aveva spiegato tutto al brigadiere Pizzi. «Non è una gran notizia». «È qui con me». «Me lo passi». Iniziò con «Comandi!». La sua voce era roca, l’inflessione abruzzese. «Brigadiere, per ora lasci stare il cimitero. Piuttosto dovrebbe raccogliermi informazioni sullo spaccio in zona Brera. Lei forse conosce il bar Samoa. «Sissignore. Lì di polvere bianca pare ce ne sia tanta. E magari altro». «Di sera e di notte o anche di giorno?». «Credo che la coca non abbia orari precisi… sento i colleghi della narcotici. Ne conosco bene uno… la zona è quella che è, sa… ». «Questo lo so, ma a me interessa il Samoa. Troppo vuoto per non avere altri introiti». «Ho capito, lei crede, signore, che quelli si mantengano col traffico… un centro di smistamento… ». «È da verificare». «Quindi potrebbe darsi che Patrizia Jorio si rifornisse lì… non so se il maresciallo Conforti gliel’ha già detto, ma quella ragazza ha precedenti per droga. È stata fermata tre volte». «Solo droga?». «Anche prostituzione. Sono cose che vanno a braccetto quelle». Ovvio. Gli ordinai di organizzare dei turni e anche di pedinare il proprietario, Nando Corsetti». «Agli ordini». Mi passò Conforti, che era ansioso di dirmi che aveva fissato un incontro con la vedova Jorio. «Che reazione ha avuto?». «M’è sembrata indifferente. O rassegnata. Prima ha detto che nel pomeriggio sarebbe uscita, poi quando ho fatto insistenze lei ha accettato di vederci. A casa, non in caserma: pareva una condizione. Ho fissato verso le quattro… va bene?». «Sì. Vediamoci qui da me, a via Palermo. Porti anche
Pizzi». Feci due telefonate. La prima al mio amico Mantelli, al quale dovevo chiedere dell’onorevole Scorrano. Lui fece “ah!”, io cercai di scansare un suo lungo commento o l’inevitabile invito alla prudenza: «Guarda che è una storia… diciamo parallela». «E che significa parallela?». «Non dimenticare che Jorio faceva il giornalista. In teoria avrebbe dovuto mettere kappao il politico con quel servizio a Parigi, in realtà non è successo niente di niente… ». «Capita sovente». «Lo so anch’io. A me comunque interessa sapere in quale gruppo o gruppetto sta ora e a chi è più vicino». «Ti chiamo domani, Nicò. E a Milano come ti trovi? E il collega Boi è stato utile, gentile… ».
Un Mantelli evasivo. M’aspettavo una delle sue frasi in romanesco. Le tirava fuori quando bisognava mettere il naso nelle cose della politica. Invece silenzio. Che non sapesse un accidente? «Sopra Milano c’è una plastica grigia che copre tutto», dissi. Seconda telefonata. A Ernesto Corradi, il giornalista «più onesto dell’Universo», secondo quanto aveva detto Bruno Rimi. Gli spiegai di Jorio, della mia indagine. Lui rispose che al telefono era “meglio di no”. Già: l’epoca delle intercettazioni. Ma bastava quel “meglio di no”a far scattare certi allarmi. «Possiamo vederci, non crede?», proposi. «Certo… anche se francamente non ho molto da dirle… anzi sul suo suicidio non so proprio niente, colonnello… », e così mise le mani avanti. Goffamente. Stetti al gioco: «Fa niente, capisco. In ogni caso a me interessa il lato umano del suo collega… la sua famiglia, i suoi hobby, le sue passioni letterarie… era un uomo colto e raffinato a quanto m’hanno riferito… ». «Ah, questo sì. La chiamo io, colonnello… mi scusi, ma non so bene che impegni avrò nelle prossime ore o giorni… quindi… ». «Aspetto. Non così tanto, lo tenga a mente questo». M’avrebbe chiamato da una cabina telefonica, era ovvio. Avevo lanciato l’amo e lui lo vide a distanza. Un altro giornalista che sapeva e non parlava, o non poteva parlare subito. C’era il rischio che i tempi si allungassero, assieme alla quasi certezza di dover mettere i piedi su un terreno viscido.
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DIAMO I NUMERI La storia della festa sportiva più antica del mondo, che il barone de Coubertin riadattò alla modernità a partire dal 1896, è travagliata e piena di sorprese: la sua numerazione porta le cicatrici di quanto è successo nel secolo scorso Londra nel 2012 si terranno i trentesimi Giochi Olimpici. Ma i Giochi Olimpici non sono stati ventinove. Non stiamo qui a voler fare i pignoli e a metterci a dire che in realtà vanno calcolati anche i Giochi Olimpici antichi, quelli inventati nella città Greca di Olimpia nel 776 a.C. e che addirittura venivano utilizzati per calcolare la cronologia (con Olimpiade infatti tecnicamente si intende non i Giochi in sé ma il periodo di quattro anni che intercorre tra un’edizione dei Giochi e la successiva). Non citeremo antenati intermedi che pur esistono, dato che già nel XVII secolo un festival sportivo che prendeva il nome dalle Olimpiadi si teneva in Inghilterra, e nei secoli seguenti eventi simili vennero organizzati in Francia e in Grecia, ma tutte manifestazioni di poco conto. E tantomeno staremo qui a dire che sono Giochi Olimpici anche quelli invernali, 21 edizioni fin qui disputate, istituiti nel 1924 e che godono di un’edizione bonus rispetto ai Giochi estivi in quanto quella del 1994 a Lillehammer servì a cambiare il ritmo e ad alternare biennalmente i giochi estivi e quelli invernali. Ci sono poi i Giochi Paralimpici, dedicati ad atleti con disabilità fisiche, visive e mentali, che non vanno certo trascurati e durante i quali si compiono delle imprese veramente notevoli.
A
Ma veniamo ai Giochi Olimpici più noti, quelli estivi moderni, le Olimpiadi per eccellenza. Ebbene, sono loro che nella trentesima edizione che si terrà a Londra nel 2012 non saranno però celebrati per la trentesima volta. La storia dei Giochi Olimpici in-
Teorie dei Giochi
Londra 2012 sarà la trentesima Olimpiade. Ma solo sulla carta... di Osvaldo Baldacci fatti è molto travagliata, e piena di sorprese. Anche la numerazione porta le cicatrici di quanto è successo in più di un secolo di vita, e a questo mero calcolo numerico si vanno poi ad aggiungere alcune curiosità. I Giochi Olimpici moderni, come è noto, furono inventati e fortemente voluti dal barone francese Pierre De Coubertin. Sono legati a uno spirito di pace e fratellanza universale, come in effetti era nelle intenzioni di De Coubertin, ma pochi sanno che lo stesso inventore aveva anche in mente di re-
La Prima Guerra Mondiale fece saltare la possibilità di tenere la manifestazione a Berlino nel 1916: nessuna tregua fu in grado di interporsi al massacro nelle trincee di tutta Europa stituire ai giovani francesi lo stimolo e l’abitudine all’esercizio fisico, perché secondo lui il venir meno di questo elemento era stato alla base della sconfitta della Francia da parte della Prussia nel 1870. Olimpiadi per la pace,
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quindi, ma anche per preparare soldati migliori, seppur nella speranza di non doverli mettere in campo se non per sport. D’altro canto già nell’antica Grecia il legame tra sport e arte militare era strettissimo. Come peraltro lo era quello tra Olimpiadi e pace, tanto che le città greche presero a osservare una tregua olimpica nelle loro guerre durante lo svolgimento dei circa tre giorni di gare. Cosa che si è provato a ripetere in età moderna, e con un esplicito appello congiunto Onu-Cio a partire dal 1992, ma con scarso successo. Se infatti nell’antichità le Olimpiadi fermavano le guerre, nell’età contemporanea le guerre hanno fermato le Olimpiadi. È questo infatti il principale motivo perché i conti dei Giochi Olimpici non tornano. Dalla Prima Olimpiade di Atene 1896 all’ultima edizione disputata a Pechino nel 2008, ci sono 28 cicli quadriennali, quindi contando inizio e fine 29 tappe olimpiche, ma solo 26 sono state effettivamente disputate. Le tre mancanti sono state regolarmente assegnate e restano nel computo, ma non sono mai state svolte. Causa, la guerra. La Prima Guerra Mondiale, per la precisione, fece saltare la possibilità di disputare i Giochi Olimpici che nel 1916 dovevano essere tenuti a Berlino: nessuna tregua olimpica fu in grado di interporsi nel massacro che avve-
niva nelle trincee di tutta Europa. Sempre la guerra, la Seconda Guerra Mondiale con tutti i suoi orrori, la ebbe vinta per ben due volte su qualsiasi spirito olimpico, su qualsiasi desiderio di competizione pacifica. Nonostante allora si trattasse di un Paese non ancora del tutto belligerante (a parte le decennali guerre coloniali) il Giappone non ospitò l’edizione prevista a Tokyo nel 1940, che doveva tenersi congiuntamente a Helsinki, capitale della Finlandia a quell’epoca invasa dai sovietici. Impensabile poi che si potesse svolgere un evento sportivo di livello internazionale nell’Europa stremata del 1944, e tantomeno nella malridotta Londra, benché la capitale britannica ebbe poi l’orgoglio sufficiente per ospitare nel 1948 i primi Giochi Olimpici del dopoguerra.
Se ci sono quindi tre Olimpiadi in meno, c’è però anche la storia poco nota di un Olimpiade in più. O meglio, di una gara sportiva che ha sempre voluto essere un’Olimpiade ma continua a vedersi ostinatamente respinta la sua ambizione. Di elementi favorevoli ne aveva molti. Era il 1906, eravamo ad Atene e si celebrava il decennale dell’istituzione delle Olimpiadi moderne. Parteciparono 20 Paesi, un grande successo per l’epoca. Ed è accertato che i 903
atleti partecipanti in 17 sport erano convinti di competere in Giochi Olimpici. Ma no, questi Giochi Olimpici intermedi (cioè sfasati rispetto al ciclo quadriennale), il Cio non li vuole proprio riconoscere, e già nel 1905 preferì istituire dei Giochi quadriennali negli anni pari non olimpici, inizialmente chiamati “Jeux Internationaux Olympiques d’Athènes”. La situazione politica e bellica impedì però che questa manifestazione si ripetesse e prendesse piede. L’edizione del 1906 fu però un grande successo, ma ancora nel 1949 la richiesta di considerarla ufficiale e di numerarla come 3b venne respinta da una commissione del Cio. Eppure le edizioni ufficiali di Parigi 1900 (che poi in realtà si era chiamata Concorso internazionale di esercizi fisici) e di Saint Louis 1904 erano ben lungi dall’essere andate altrettanto bene. D’altro canto è il caso di dire che forse nel calcolo si dovrebbe tenere conto anche delle tante edizioni “dimezzate”. Se così fosse, di Olimpiadi complete ne resterebbero giusto una manciata. Le prime edizioni infatti videro un numero limitato di nazioni e atleti partecipanti, sia per lo start-up sia e ancor di più per la difficoltà ad affrontare le lunghe distanze specie intercontinentali. Quando i mezzi divennero un po’ più all’altezza, subentrò la politica: ad Anversa nel 1920 e a Londra nel 1948 fu impedito di partecipare ai Giochi Olimpici alle nazioni sconfitte nelle precedenti guerre mondiali (con l’eccezione dell’Italia); l’Urss non prese parte ai Giochi Olimpici fino alle Olimpiadi di Helsinki del 1952 e dal 1928 organizzò per gli atleti comunisti una competizione alternativa chiamata Spartachiadi; Melbourne 1956 venne boicottata da Paesi Bassi, Spagna e Svizzera per protesta contro la repressione sovietica della rivolta ungherese del 1956, nonché da Cambogia, Egitto, Iraq e Libano a causa della Crisi di Suez; nel 1976 furono i paesi africani a boicottare le Olimpiadi per protestare contro il Sudafrica; ai Giochi di Mosca nel 1980 i paesi occidentali a rifiutarsi di partecipare a causa dell’invasione sovietica dell’Afghanistan; per vendetta il blocco orientale non partecipò a Los Angeles 1984. Quante sono state dunque finora le vere Olimpiadi?
I TESORI DELLE GRANDI CIVILTÀ el 1887 una contadina egiziana che cercava della marna, una fine roccia di calcare e argilla usata in agricoltura per l’arricchimento dei terreni poveri, si imbatté in un mucchio di blocchetti di argilla dura. In realtà, quella donna senza saperlo aveva rinvenuto parte di un archivio reale dell’antico Egitto, circa 400 tavolette incise con caratteri cuneiformi. La contadina decise di vendere quei blocchetti d’argilla a un suo vicino per una somma irrisoria e qualche pezzo fu portato al Cairo per essere esaminato. Alla fine del 1887 alcune di queste tavolette furono mostrate a uno studioso incaricato dal British Museum di acquistare tutto quanto poteva arricchire le collezioni del museo londinese e questi si persue qlle lettere in accadico, la lingua internazionale dei grandi imperi dell’antichità, non erano dei falsi ma la corrispondenza diplomatica risalente al XV secolo avanti Cristo di faraoni e re di tutto il Vicino oriente, compresi i re vassalli e i governatori di Canaan, Fenicia e Siria.
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TELL EL-AMARNA Nel deserto orientale, alla scoperta della capitale di Amenofi IV, il faraone che impose il culto di Aton
La rivoluzione di Akhenaton di Rossella Fabiani
Delle 400 tavolette rinvenute, 82 andarono al British, 192 a Berlino, una cinquantina rimasero al Cairo e venti furono disperse in altre collezioni
Al British Museum arrivarono soltanto 82 delle quasi 400 tavolette rinvenute, altre 192 ando invece al museo di Berlino, una cinquantina rimasero al Cairo e una ventina furono disperse in altre collezioni. Tell el-Amarna, la località nel deserto orientale dove furono ritrovate le tavolette, fu identificata con l’antica Akhetaton, la capitale del regno di Akhenaton, ossia Amenofi IV (13721354 avanti Cristo), il faraone che cambiò nome e abbandonò il culto delle tradizionali divinità egiziane per imporne uno solo, quello di Aton, rappresentato dal disco solare, con cui egli stesso s’identificò. Per questa divinità costruì una nuova città: Akhetaton (Tell el-Amarna) e vi trasferì la capitale con gli archivi reali, suoi e del padre Amenofi III (1413-1377 avanti Cristo), il faraone della XVIII dinastia che segnò l’apogeo della civiltà e della potenza egiziana. Akhenaton, dunque, è stato l’ultimo importante sovrano della XVIII dinastia ed è stato uno dei primi faraoni, se non
cheggiano tutte le terre del re. Se verranno gli arcieri, allora quest’anno le terre del re, mio signore, rimarranno. Ma se non verranno gli arcieri, le terre del re, mio signore, saranno perdute... tutte le terre del re, mio signore, stanno andando alla rovina».
Sotto Tutankhamon, tutto finì in abbandono. La città e i suoi preziosi archivi restarono nascosti fino al 1887 l’unico, a trasformare radicalmente, anche se brevemente, la religione e la cultura del proprio Paese. All’inizio del suo regno cominciò ad adorare un nuovo dio, Aton, che egli riteneva essere l’unico vero Dio e unico creatore dell’universo. A differenza delle altre divinità egizie Aton non è rappresenta-
ti i suoi preziosi archivi. Alcune lettere della corrispondenza diplomatica di Amenofi III, il padre di Akhenaton, sono particolarmente interessanti dal punto di vista biblico perché scritte intorno al 1390 avanti Cristo. Queste lettere offrono un quadro della condizione sociale e politica di Canaan che conferma perfettamente quanto descritto nel libro di Giosuè. Nella loro corrispondenza, gli ufficiali e i re-vassalli delle città cananee della Palestina, allora sotto l’influenza dell’impero egiziano, riferiscono di imminenti invasioni e di ostilità da parte di gente straniera che gira per le loro campagne e attacca le loro città gente che chiamano Apiru. I governatori e i re-vassalli di Canaan scrissero al faraone per chiedere aiuto, tuttavia in quel frangente Amenofi III non sembrava avere alcun interesse nella difesa dei territori oltre confine. In una delle numerose lettere scritte dal re di Gerusalemme, che resisteva ancora agli invasori, si legge: «Gli Apiru sac-
to in forma antropomorfa ma sempre come un sole i cui raggi sono braccia terminanti con mani, alcune delle quali reggono l’ankh. Per questo Amenhotep IV ha rinominato se stesso in Akhenaton (“Colui che serve Aton”) e trasferì la capitale in una città appositamente costruita, chiamandola Akhet-
Aton, Orizzonte di Aton (oggi, appunto Tell el-Amarna). Questo faraone, predecessore di Tutankamen, e marito di Nefertiti, ha radicalmente rivisto il mondo religioso egiziano, istituendo una singolare forma di monoteismo. La radicale innovazione nella religione è stata una sfida diretta contro la casta sacerdotale. I sacerdoti erano scelti in base allo stato, alla nascita, ed erano potentissimi giacché portavoce degli dei. Quando Akhenaton ha dichiarato Aton-Ra come dio supremo e che egli stesso era l’unico
portavoce di Aton-Ra, i sacerdoti si sono trovati improvvisamente privi di potere e ovviamente scontenti. Akhenaton, d’altra parte, aveva efficacemente consolidato la sua potenza. Tuttavia una morte misteriosa circonda la figura di Akhenaton. Probabilmente venne ucciso e dopo la sua morte il nuovo culto ebbe fine. Il suo successore, Tutankhamon, abbandonò la nuova capitale, ritornò a Tebe e restaurò il culto di Amon. La capitale di Akhenaton finì così preda del deserto, che la seppellì con tut-
Un’altra lettera, inviata dal re di Ghezer, contiene la richiesta d’aiuto per difendere la città contro le incursioni degli Apiru: «Perché gli Apiru sono più forti di noi, possa il re, mio signore, aiutarmi a scampare dagli Apiru, di modo che gli Apiru non ci distruggano». Città-stato importanti come Gerico, Beer Sceba, Hebron, Betel e Gabaon non inviarono lettere semplicemente perché, come affermato dal libro di Giosuè furono tra le prime a cadere. Il libro di Giosuè riferisce che Israele conquistò 31 città-stato indipendenti(Giosuè12:9-24), ma che rimaneva da conquistare ancora una parte del Paese (Giosuè 13:1). Le lettere di Amarna confermano questo stato di cose, esse sono una splendida prova sia dell’esattezza della cronologia biblica, che pone l’invasione di Canaan intorno al 1400 avanti Cristo circa, sia della veridicità e dell’accuratezza delle vicende descritte nel libro di Giosuè.
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CINEMA CALDO
STAND BY ME DDII ROB REINER
Quattro amici e un mistero di Alessandro Boschi a vita non è giusta. Non sappiamo perché ma questa è la prima frase che ci viene in mente se pensiamo a Stand by me - Ricordo di un’estate. O meglio, se pensiamo al suo finale, a Richard Dreyfuss che scrive le ultime parole del suo romanzo sullo schermo a lettere verdi di un vecchio computer XT: «Non ho mai più avuto amici come quelli che avevo a dodici anni. Gesù, ma chi li ha?».
L
Tratto da un racconto di Stephen King, The Body, Stand by me – Ricordo di un’estate è la storia di quattro ragazzi dodicenni che un giorno d’estate partono alla ricerca del cadavere di un loro coetaneo travolto da un treno in un luogo del quale sono casualmente venuti a conoscenza. Chris (River Phoenix) è il leader silenzioso del gruppo, viene da una famiglia turbolenta ed è il migliore amico di Gordie (Wil Wheaton). Il quale Gordie, che ha perso il fratello maggiore in un incidente d’auto e per questo si è sempre sentito in colpa, diventerà da adulto lo scrittore interpretato da Richard Dreyfuss, coscienza critica del film. Teddy (Corey Feldman) è l’occhialuto figlio di un reduce mentalmente disturbato dal quale viene vessato in continuazione senza che questo ne intacchi l’affetto. Vern, infine, (Jerry O’Connell), è il sovrappeso del gruppo, timido e pauroso di tutto. Quello che intraprenderanno i nostri sarà un viaggio lungo, che li costringerà a passare lontano da casa una notte intera e che li porterà fuori da quella magnifica dimensione in cui ancora non si pensa alle ragazze e al massimo ci si chiede se negli ultimi tempi siano cresciute le tette di Minnie, la fidanzata di Topolino. Un rito di passaggio, niente di più. Ma lo straordinario talento dei quattro protagonisti e la voce narrante di Richard Dreyfuss (per una volta tolleriamo la voce fuori campo...) fanno di Stand by me un piccolo capolavoro. Sappiamo benissimo di esagerare, ma è una cosa che facciamo di proposito, confortati in questo dalla certezza che quando un film ci entra così dentro è la nostra parte più intima che ne determina la valutazione. Quindi, per dirla meglio, per noi, Stand by me è un piccolo capolavoro. E poi c’è la parte più triste, quella che ci buggera. Quando all’inizio del film Dreyfuss legge la notizia che il suo vecchio amico Chris è morto nel tentativo di separare due persone che stavano litigando, non possiamo fare a meno di pensare che quel ragazzino era interpretato da River Phoenix, morto davvero qualche tempo dopo, a soli 23 anni. E allora non sappiamo cosa ci dispiaccia di più, se la morte del suo personaggio o quella del suo interprete. Assurdo vero? Ma le due cose sembrano con-
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nesse in maniera inestricabile, come se la mestizia dei due avvenimenti, quello vero e quello di finzione, fosse legata a doppio filo da un ineluttabile destino. La pellicola diretta da Rob Reiner, figlio del regista Carl Reiner e marito
sarà capitato di trascorrere un bel periodo insieme a degli amici, delle vacanze, o magari di avere partecipato a quelle micidiali cene tra ex compagni di scuola. Si sta bene, si ride, si scherza, e alla fine si dice sempre: mi raccomando, non perdiamoci di vista, cerchiamo di rimanere in contatto. Non avviene mai. Basta uscire per strada e il telefonino squilla, cosicché quella porta spazio temporale si richiude dietro di noi, che veniamo ripresi “dagli ingranaggi della vita” che ogni giorno macina una parte di noi. Triste e retorico, ma vero. Stand by me ci parla un po’ di noi, ci rinfresca la memoria. Ci mostra quattro bambini (perché a dodici anni si è ancora bambini) che in un solo giorno percorrono il viaggio di una vita. Partono dalla loro piccola città, Castle Rock, 1281 abitanti, e vi ritornano trovandola più piccola. Come avviene tutte le volte che ritorniamo nei luoghi dove abbiamo trascorso le nostre prime vacanze: tutto ci appare microscopico, non rendendoci conto che invece siamo noi a essere diventati più grandi. Il viaggio nel film è ancora di più sottolineato da un treno minaccioso. Anzi, in realtà la presenza del treno è una presenza immanente, perché i ragazzi per raggiungere il luogo prestabilito procederanno fianco a fianco alla ferrovia.
E per due volte rischieranno di essere travolti da una locomotiva che pur scorgendoli sulle rotaie non farà nulla per rallentare. Un po’come il tempo che per quanto tu rischi di non farcela non si ferma mai ad aspettarti. A dirla tutta lo fanno anche certi simpatici autisti d’autobus. Comunque, l’altra botta di tristezza che la pellicola ci riserva, per quanto prevista in film del genere, è quando ci racconta come sono andate le vite dei nostri eroi. Scopriamo così che Vern si è sposato e ha quattro figli e che Teddy ha cercato senza successo di emulare il padre arruolandosi nell’esercito. Senza mai lasciare Castle Rock. Di Chris e Gordie già sappiamo. E qui scatta la molla dei rimpianti. Si pensa a quello che sarebbe potuto essere e non è stato. Si pensa che forse le cose sarebbero andate in maniera diversa se non ci si fosse persi di vista. Che nella vita si fanno sempre cose che non hanno importanza. Che proprio non ce la facciamo a essere felici senza un tocco di malinconia. Che della malinconia ci si innamora molto facilmente. Che in fondo che male c’è ad ascoltare una vecchia canzone che ci riporta indietro nelle stagioni? La verità è solo e soltanto una. «Non ho mai più avuto amici come quelli che avevo a dodici anni. Gesù, ma chi li ha?».
I giovani protagonisti del film percorrono in un solo giorno il viaggio di una vita. Partono dalla loro piccola città, Castle Rock, e vi ritornano più consapevoli, in un rito di passaggio diventato un cult della regista Penny Marshall, ci prende e ci imbeve nella malinconia. Perché tutti abbiamo degli amici che non vediamo più da chissà quanto tempo, e altri che non vedremo mai più. E ci mancano perché ci manca quello che eravamo noi quando stavamo insieme a loro. Ma la vita, dice sempre il protagonista, è fatta così. Quelli che sembrano legami indissolubili svaniscono come nebbia al sole. Il bello è che quasi mai facciamo davvero qualcosa perché ciò non avvenga, preferiamo assistere all’accumularsi della nostra tristezza, corredo della vita che passa e che ci allontana da chi ci ha fatto compagnia per tanto tempo. Anche a voi
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g e di cronach di Ferdinando Adornato
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Afghanistan: le Forze armate al servizio di un ideale di pace Ancora una volta, l’Italia paga un alto tributo in termini di vite umane per garantire la pace in una zona martoriata dalla guerra. Ci sentiamo vicini ai familiari di questi nostri eroi e ai tanti militari che continuano la loro missione in Afghanistan e nella altre zone di guerra del mondo. In particolare, siamo profondamente addolorati per la perdita del caporal maggiore Pierdavide De Cillis: la Puglia sta pagando un prezzo molto alto per queste missioni, offrendo i suoi figli migliori, che non esitano a mettere la propria professionalità ed il proprio coraggio a disposizione delle Forze Armate, al servizio di un ideale di pace. Oggi il dolore della famiglia di Pierdavide De Cillis, a cui assicuriamo la nostra vicinanza e solidarietà, è il dolore di tutta la Puglia. Le immagini puntualmente trasmesse dai tg nazionali ci fanno comprendere le difficoltà e i rischi che i militari italiani affrontano quotidianamente, al servizio della pace e della nazione. Siamo fieri e orgogliosi del loro impegno e del lavoro che puntualmente svolgono. A loro assicuriamo tutto il nostro sostegno e garantiamo la nostra vicinanza.
Salvatore Negro
NUOVA SEDE FIAT
L’EUROPA SENZA TURCHIA È MENO FORTE
Kragujevac, località sconosciuta della Serbia, sarà in futuro più volte mensionata per essere la nuova sede della produzione Fiat. Spero che la scelta, indipendentemente dai risvolti occupazionali generali, rispetti la qualità delle autovetture dell’azienda torinese, visto che in passato una certa produzione in Polonia aveva dato risultati scadenti. Da allora molte cose sono cambiate, e le Fiat non sono più solo macchine con eccellenti motori spinti e basta. Non è il mercato dell’Est ad essere discutibile, ma la rispondenza alla qualità delle produzioni che non avvengono strettamente in casa propria.
Mentre la Germania, per bocca del ministro degli Esteri Westerwelle, guarda con prudenza all’ingresso della Turchia nell’Unione europea, nonostante il rapporto di amicizia che si basa su secoli di manodopera interna, Cameron, leader tory inglese, afferma che una Europa senza Turchia è meno forte: è chiaro che ciò sottolinea due fattori: 1. Londra si comporta sempre un po’ da “esterna” all’indole europea; 2. dette affermazioni si devono leggere solo in chiave economica e non politica.
Bruno Russo
PIÙ PRESENZA DELL’AUTORITÀ PER STRADA La riforma del codice della strada è stata approvata. Varie le nuove disposizioni su cui, però, pesa sempre come un macigno l’applicazione: l’inasprimento delle sanzioni per la violazione di norme già esistenti e poco o male applicate non deve essere un alibi. Se si vogliono fare le cose per bene, la conseguenzialità, quindi dovrebbe essere: maggiore presenza dell’autorità per strada, più personale e meglio pagato nei vari corpi di polizia, migliore manutenzione e costruzione delle strade.
Lettera firmata
Gennaro Napoli
SOLARE E NIENTE SCORIE: IL FUTURO DELLA NOSTRA MADRE TERRA Il solare e l’eolico sono energie vincenti che la natura ci offre. Le ricerche internazionali continuano a qualificarle come più economiche rispetto al nucleare. E se aggiungiamo il fattore scorie zero, il conto è fatto. La produzione e l’impianto, su scala nazionale, di pannelli solari, di eliche che catturano il vento, di apparecchi che assorbono l’energia geo-termica o la forza delle acque dei mari, dei fiumi, dei torrenti, permetterebbe un flusso di energia pulita inesauribile. Di contro, tonnellate di scorie radioattive, da stoccare (dove), isolare (come), controllare
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Illusioni da Bruxelles Ben Heine, fotografo e illustratore belga, è autore di particolari creazioni. La visione astratta della realtà schematizzata dalla matita si sovrappone all’oggettività della macchina fotografica. L’idea è nata per caso: l’artista stava scrivendo una lettera davanti alla tv e, rileggendola, ha visto l’apparecchio in trasparenza dietro al foglio
LE VERITÀ NASCOSTE
Storia di truffa o di follia? TOKIO. Sogen Kato era considerato l’uomo più vecchio di Tokio, e uno dei più vecchi del mondo, avendo superato i 110 anni. O almeno così si credeva. Nei giorni scorsi, un comitato delle autorità del comune di Tokio si è presentato a casa dell’uomo, per organizzare dei festeggiamenti ufficiali per il suo 111esimo compleanno. Ma si sono insospettiti quando i parenti hanno detto loro che Kato «non voleva vedere nessuno»: un atteggiamento che si era ripetuto in tutti gli incontri che le autorità avevano cercato di avere con l’uomo. Il comitato è quindi tornato a casa di Kato, ma questa volta accompagnato dalla polizia, pretendendo di vedere l’anziano. E qui la sorpresa: Sogen Kato era sì presente in casa, ma il suo corpo era ormai mummificato, la morte risalente forse a più di 30 anni fa. I parenti hanno detto di non essersi accorti della morte: hanno raccontato che Kato si era confinato nella sua stanza più di 30 anni fa ed era diventato un “Buddha vivente”. Una spiegazione che non è stata convincente per la polizia, tanto più che nel tempo in cui «non si erano accorti della morte», all’uomo è stata versata la pensione, e alla famiglia sono arrivati oltre 9,5 milioni di yen. La polizia ha aperto un’indagine.
(quando), smaltire (in che modo). Energie sostenibili, dunque, per proteggere la nostra Madre Terra.
Domenico S.
L’ONU DICHIARA L’ACQUA UN DIRITTO UMANO L’Onu ha finalmente stabilito che l’acqua è un diritto umano fondamentale e non calpestabile. Anche il governo italiano ha votato a favore, insieme ad altri centoventidue Paesi, nel corso dell’Assemblea generale dell’Organizzazione delle nazioni unite. Un successo, considerando quello che sta accadendo in Italia in merito alla questione acqua. La dichiarazione dell’Onu e la presa di posizione della stessa Italia avvalorano sicuramente la teoria di quanti sostengono nel nostro Paese, che un bene essenziale, che dovrebbe essere pubblico, non può essere assoggettato alle regole del mercato, a scapito dei cittadini. Mi riferisco al discusso decreto Ronchi che sancisce, tra l’altro, anche la privatizzazione delle reti idriche.Votare a favore, nel corso dell’Assemblea, e avere come riferimento normativo un decreto che stabilisca di «ridurre i costi per le pubbliche amministrazioni e garantisca la migliore qualità dei servizi resi agli utenti» sembra un nonsense. Il testo votato dall’Onu dichiara che «l’accesso a un’acqua potabile pulita e di qualità, e a installazioni sanitarie di base, è un diritto dell’uomo, indispensabile per il godimento pieno del diritto alla vita». L’attuazione del decreto Ronchi vede prevalere la tendenza speculativa. Inoltre, secondo indagini svolte sul territorio nazionale, nessuna esperienza di gestione, sia mista che completamente affidata a privati, ha aumentato la qualità del servizio. Al contrario, si registra un aumento dei costi di gestione, a fronte di una mancanza di investimenti.
Ivano Giacomelli
mondo
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Russia. L’emergenza potrebbe rivelarsi per Medvedev quel che è stato l’uragano Katrina per Bush: un colpo durissimo. E il premier lo sa
Il silenzio di Putin Onnipresente all’inizio degli incendi. Poi sparito. Perché i roghi possono “bruciare” la carriera... di Pietro Salvatori emergenza incendi, per Medvedev, potrebbe rivelarsi quel che è stato l’uragano Katrina a New Orleans per Bush: un colpo durissimo per la popolarità del commander in chief russo, dal quale potrebbe non risollevarsi. La gravissima crisi che sta colpendo il Paese in questi giorni, devastato dagli incendi che non accennano a scemare, sta ridisegnando per l’ennesima volta gli equilibri di potere a Mosca. Il presidente Medvedev sta tenendo un profilo insolitamente basso. È stato Putin nei giorni scorsi a prendere le redini del comando, mostrandosi laddove la situazione è apparsa più critica, per rassicurare la popolazione. Ma probabilmente il premier non si aspettava una crisi a tal punto incontrollabile. Un’eccessiva esposizione mediatica, in questo momento, si è rivelata del tutto controproducente per le autorità moscovite, che avevano immaginato di poter controllare agilmente la situazione in poco tempo e con i soli mezzi ordinari a loro disposizione. Previsione che si è rivelata del tutto erronea, e che ha costretto Putin a ritirarsi in buon ordine. Sono tre giorni che il premier non si fa vedere né rilascia dichiarazioni (tranne che sul grano, con la chiusura delle esportazioni fino al 31 dicembre), cosa insolita se raffrontata al consueto presenzialismo muscolare dell’ex ufficiale del Kgb. La strategia putiniana sembra evidente. Oltre a tirarsi fuori da una situazione che per lui, alla luce della totale inadeguatezza delle soluzioni tentate, può diventare spino-
L’
sa, con il suo silenzio il primo ministro punta a far ricadere l’intera responsabilità su Medvedev. Il presidente, che fino ad oggi si è nascosto dietro l’attivismo del proprio ingombrante premier, non può celare di essere il responsabile ultimo del Paese e, dunque, in fin dei conti, colui al quale si devono imputare le mancanze della macchina organizzativa russa nel far fronte allo stato di calamità. Nei machiavellici calcoli di Putin hanno sicuramente
democratico del proprio sistema politico. Quella della Federazione Russa si potrebbe definire una «democrazia mimata», per utilizzare una formula che ha contraddistinto le fragili democrazie est-europee negli anni Trenta, in particolar modo quella romena. Un sistema nel quale esistono sulla carta il balance of power e le garanzie politiche e civili previste nei sistemi democratici occidentali, ma nel quale, di fatto, il potere politico utilizza la propria egemo-
Lo “Zar” non si aspettava una catastrofe incontrollabile, per questo i primi giorni viaggiava nelle zone colpite. Poi ha capito che l’esposizione mediatica poteva danneggiarlo e si è ritirato avuto un peso gli ultimi sondaggi, che vedono il premier superare di oltre sette punti il proprio rivale nel gradimento della popolazione. Non essere riuscito a risolvere celermente la crisi potrebbe essere stato così un inaspettato vantaggio per Putin.
Dopo la caduta del comunismo, con l’avvento di Eltsin, prima, e di Putin poi, a molti analisti sembrò che la Russia avesse ripreso l’antica e mai sopita strada dello zarismo. «Un uomo solo al comando» è d’altronde la cifra politica che ha contraddistinto la storia del Paese che fu dei Soviet. I quattrocento anni della dinastia dei Romanov e il settantennio sotto l’egida del Partito di Lenin e Stalin hanno segnato indelebilmente il palcoscenico russo, rendendolo refrattario a una semplice transizione in senso
nia per condizionare gli equilibri di potere e regolare d’imperio lo spazio di espressione pubblica. Senza contare che, la stessa carta costituzionale, della quale la Russia post-sovietica si è dotata nel dicembre del 1993, prevede un sostanziale controllo del potere esecutivo su quello legislativo. La commistione di questi due elementi ha portato, nelle ultime tre tornate elettorali, ad un predominio incontrastato del partito Edinaja Rossija, Russia Unita, guidato dall’attuale premier Vladimir Putin. Nel 2007, in occasione dell’ultimo rinnovo della Duma, il Parlamento russo, la formazione di Putin ha raggiunto l’incredibile percentuale del 64%, lasciando il principale avversario, il Partito comunista, all’11, distanziato di oltre cinquanta punti percentuali. Anche se «mimata», la democrazia russa prevede
qualche limitazione all’onnipotenza del governo.Tra le poche, l’impossibilità per lo stesso presidente di ricandidarsi per più di due mandati consecutivi. Nel 2008, tale vincolo ha scardinato la prassi che si era andata consolidando dalla metà degli anni Novanta in poi. Fino al 2000, infatti, Putin è stato il silenzioso ed accomodante delfino di Eltsin, che lo nominò nel 1997 primo ministro, per favorire una transizione morbida alle presidenziali del 2000. Cosa che puntualmente è avvenuta. Durante il suo secondo mandato, il popolarissimo Presidente ha designato Dimitrij Medvedev, allora vice-primo ministro, come suo erede politico. Un’altra successione senza scossoni ha portato dunque il nuovo delfino ad insediarsi al Cremlino nel maggio di due anni fa.
Ma mentre Putin era succeduto a Eltsin in un periodo nel quale quest’ultimo percorreva la rapidissima china discendente della sua traiettoria politica, Medvedev ha preso in mano le redini del comando in un momento nel quale il suo pre-
decessore godeva di una popolarità mai vista prima e, a 56 anni, era ancora considerato, tanto dalla popolazione che dagli analisti internazionali, l’uomo forte di Mosca. La nomina di Putin a premier, che nei suoi ultimi mesi da presidente aveva rafforzato sensibilmente i poteri del Primo ministro, è apparsa a tutti come l’evidente segnale che Medvedev non dovesse far altro che tenere in caldo per quattro anni la poltrona al proprio leader, in attesa che potesse ricandidarsi. «Via al tandem Medvedev-Putin. Ma alla guida c’è solo Vladimir», titolava per esempio la Repubblica due anni fa. Ma le cose non sono andate esattamente così. Medvedev, nell’ultimo periodo, si è conquistato a poco a poco ampi margini di autonomia decisionale e, cosa ben più importante ai fini delle elezioni che si terranno fra due anni, di visibilità pubblica. L’attuale presidente si è mostrato fin da subito tutt’altro che rassegnato alla prospettiva di dover cedere la propria poltrona nel 2012. Al punto che, per avallare il tormentone che lo dipinge come
mondo
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Da settimane 550 focolai stanno devastando il Paese, 60mila i voli cancellati. Allarme per i siti nucleari
Caldo e fumo per le strade, i morti a Mosca raddoppiano I giornali parlano di «catastrofe» e monta la rabbia dei moscoviti per la cattiva gestione della crisi, nonostante l’intervento dei militari di Pierre Chiartano ar Putin non poteva immaginare un’estate più bollente – la più calda del millennio ripetono stampa e canali televisivi – sia dal punto di vista climatico che da quello politico, almeno per la sua immagine di salvatore della Patria. L’emergenza incendi che da settimane sta devastando tutta la Russia occidentale, sembra stia mettendo a dura prova le capacità mediatiche dell’ex agente della Fsb. E mentre raddoppiano i decessi in una capitale sotto una spessa coltre di gas tossici sprigionati dal fuoco, sono ancora oltre 550 gli incendi che stanno mandando in fumo circa 170mila ettari. Una quarantina i focolai solo intorno a Mosca, già quattromila i senza tetto e oltre cinquanta le vittime dirette. Ora Putin, mentre i diplomatici delle ambasciate stanno lasciando la capitale, vorrebbe varare un piano di emergenza e dotare le forze antincendio dei mezzi più adatti per combattere le fiamme, che hanno lambito anche la centrale nucleare di Sarov. La situazione viene definita dalla stampa russa «catastrofica». La mossa del premier è stata interpretata come una risposta alle critiche rivolte alle autorità russe, accusate di non essere intervenute tempestivamente contro gli incendi, iniziati da settimane. Il sindaco della capitale, Yuri Luzhkov, anche lui entrato nel mirino delle critiche ha finalmente deciso di interrompere le ferie. «Non ci sono le condizioni per imporre lo stato di emergenza. La situazione, pur rimanendo difficile, resta sotto controllo» ha riferito il vice sindaco Vladimir Resin. Niente stato di emergenze, quindi, per Mosca. Anche dal fronte traffico aereo le notizie sono disastrose. Da venerdì scorso sono oltre 63mila i voli cancellati nella Russia europea. Il denso fumo, secondo Alek-
Z
«il liberale» dell’establishment, ha preso gradualmente ma sensibilmente le distanze dal proprio predecessore nella gestione delle tematiche di politica internazionale, cercando, in particolar modo, di evitare per quanto possibile lo scontro frontale con gli storici avversari statunitensi, con i quali, al contrario, Putin aveva avuto spesso modo di scontrarsi verbalmente.
I principali osservatori della vita del Cremlino escludono che il progressivo allontanamento fra i due politici possa portare ad una definitiva spaccatura, che non converrebbe a nessuno. «Il candidato potrei essere io, Putin, o qualcun altro. Ma in nessun caso saremo entrambi candidati», ha detto Medvedev alla stampa russa. Se riuscisse, come sembra voler fare, a addossare le responsabilità sul solo presidente, uscendone pulito, Putin potrebbe segnare il punto decisivo nella corsa presidenziale che nel 2012 infiammerà, questa volta solo in senso figurato, l’intera Russia.
sandr Frolov, capo del servizio meteo russo RosHydromet, ha mandato in tilt anche gli aeroporti moscoviti di Domodiedovo e Vnukovo, dotati di strumentazione (ILS cat. III) per il decollo e l’atterraggio anche con visibilità zero. L’ultimo intervento di rilievo del premier russo era stato qualche giorno fa per bloccare l’esportazione di grano.Temporaneo, ma per un periodo lunghissimo: dal 15 agosto fino al 31 dicembre. Il primo blocco totale da undici anni. Per Putin sembra una riedizione della vicenda dell’affondamento del sommergibile Minsk, ma dalle proporzioni decisamente più imponenti e dalle ricadute imprevedibili. Quando ci si deve confrontare
cubi di acqua» per domare gli incendi, secondo le fonti della Difesa. A rendere più preoccupante la situazione è, anche, l’aumento del tasso di mortalità che, in base a quanto riferito dal capo del dipartimento sanitario di Mosca, Andrei Seltsovski, è raddoppiato. L’inquinamento provocato dalle torbiere in fiamme attorno alla capitale russa supera – in maniera variabile – dalle tre alle sei volte i livelli di allerta. L’Osservatorio per la qualità dell’aria di Mosca, Mosecomonitoring, afferma che il fumo è composto di particelle di monossido di carbonio e di idrocarburi specifici. L’aria contiene anche forti concentrazioni di ossido di azoto, ammoniaca e solfuro d’idrogeno, mentre i livelli di ossigeno sono bassi. Per Pavel Loghinov, del Centro medico europeo di Mosca, la lista dei problemi di salute provocati dal fumo è lunga: bronchite, asma, allergie, infezioni polmonari e oculari.
Inoltre la mancanza di ossigeno nell’aria può dar luogo a problemi cardio-vascolari. E per proteggersi in maniera efficace i mezzi sono pochi: «la sola cosa che aiuta davvero è andarsene da Mosca». «Per la respirazione, le maschere chirurgiche e di altro genere aiutano, ma non risolvono il problema della mancanza d’ossigeno» afferma il medico. Preoccupante la situazione relativa alle centrali nucleari: un fossato di otto chilomentri è stato scavato attorno al sito di Sarov, il più importante della Russia: lì fu costruita la prima bomba atomica sovietica nel 1949. «La situazione si è stabilizzata», ha spiegato il ministero delle Emergenze, parlando della centrale nucleare, dove però nei giorni scorsi erano stati portati via tutti i materiali esplosivi e radioattivi.
Gli esperti sanitari: «per la respirazione, i vari tipi di maschere aiutano, ma non risolvono il problema della mancanza d’ossigeno» con la realtà, non basta più il controllo sui media, quando, ogni mattina, milioni di moscoviti si risvegliano avvolti da una nebbia velenosa. Anche il ministero della Difesa si è mosso, con circa settemila soldati e 600 mezzi. I militari hanno anche posato oltre 40 chilometri di condutture d’acqua nella regione di Mosca e di Nizhni Novgorod. Sistema idrico d’emergenza che avrebbe «fornito undicimila metri
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Terrorismo. Per Giacarta ha legami con al Qaeda e ha progettato attacchi arresto ieri a Giava dell’imam radicale Abu Bakar Bashir fa parte di un’operazione di ampio respiro che le autorità indonesiane stanno portando avanti dal febbraio scorso. Bashir, 71 anni, era già stato rinchiuso in un carcere fra il 2004 e il 2006, in quanto sospettato di essere coinvolto nell’attentato perpetrato da al Qaeda a Bali nel 2002, in cui morirono 202 persone. La connivenza tra questo imam, celebre per le idee palesemente estremiste, e la jihad attiva su territorio indonesiano non è stata mai certificata. Nemmeno ieri le accuse che hanno portato al suo fermo sono apparse incontrovertibili. Tuttavia le autorità di Jakarta stanno attraversando una fase delicata nelle indagini contro le minacce terroristiche in seno alla società nazionale. Ed è per questo, probabilmente, che hanno pensato di arrestare Bashir prima di una sua fuga all’estero. Da una serie di ricerche congiunte fra l’Indonesia, la Giordania e l’Unione europea è emerso un ritorno di fiamma della Jemaah Islamiah (Ji), il gruppo qaedista operativo nel Paese. Secondo un report pubblicato ad aprile dall’International crisis group (Icg) di Bruxelles, la polizia indonesiana avrebbe scoperto un campo di addestramento per potenziali terroristi nella provincia settentrionale di Aceh.
L’
Questa ha guadagnato tristemente gli onori della cronaca soprattutto perché è stata l’area più colpita dallo tsunami alla fine del 2004. Qui trovarono la morte oltre 220mila indonesiani. Per gli esperti dell’anti-terrorismo di tutto il mondo però, Aceh rappresenta un epicentro di fermenti indipendentistici e derive fondamentaliste isla-
L’Indonesia arresta l’imam Abu Bakar Bashir Co-fondatore e leader spirituale della Jemaah Islamiyah è accusato della strage di Bali di Antonio Picasso
conflitto mondiale, e poi nella lotta di indipendenza dal colonialismo olandese. Per l’Indonesia quindi, Aceh costituisce anche l’espressione dell’eroismo nazionale. Ricordiamoci infine che proprio qui erano stati individuati i giacimenti petroliferi che in passato arricchivano il governo indonesiano. Dalla sommatoria di elementi si desu-
«Ci sono gli Usa dietro tutto questo», ha gridato il religioso dalla lunga barba. «Questo fermo è una benedizione,Allah mi ricompenserà» miche. Il Free Aceh Movement e il Front Pembala Islam sono solo due esempi dei gruppi sovversivi rintracciati in quest’area. La provincia è da sempre una spina nel fianco per il governo di Jakarta. Nel suo passato Aceh vanta un sultanato indipendente. La popolazione locale ha dimostrato una fervida capacità alla guerriglia e all’emancipazione da qualsiasi autorità ritenuta straniera. Ha svolto un ruolo fondamentale nella guerra contro il Giappone durante il secondo
me l’obiezione di Jakarta a riconoscere l’indipendenza della provincia. Sopraggiunto lo tsunami (e di conseguenza venuti a mancare gli introiti del turismo straniero), la popolazione locale si è sentita abbandonata in una condizione di improvvisa indigenza. Le forze indipendentiste insieme alla Jemaah Islamiah ne hanno approfittato per diffondere le loro dottrine di violenza. Queste in realtà avevano dimostrato già di saper intimorire l’avversario nel 2002 appunto con l’atten-
I kamikaze provocarono 202 vittime
L’attentato del 2002 L’attentato di Bali del 12 ottobre 2002 ha segnato la seconda grossa fiammata di al-Qaeda contro l’Occidente dopo l’11 settembre dell’anno prima. Responsabile operativa dell’attacco, che provocò 202 morti e altrettanti feriti, è stata la Jemaah Islamiah (Ji), il gruppo jihadista attivo ormai da 17 anni nell’intero sudest asiatico. Il colpo messo a segno nel cuore del turismo indonesiano è stato l’ultimo e purtroppo produttivo atto di una serie di tentativi precedenti. Fra questi c’era anche l’Operazione Bojinka del 1995, la quale - se fosse riuscita - avrebbe fatto impallidire il disastro del World Trade Center di sei anni dopo. Per molti aspetti la Ji rispecchia nella maniera più devota la dottrina di combattimento messa a punto da Osama bin Laden. Il
gruppo è composto da cellule autonome che effettuano il reclutamento dei propri shahid presso la popolazione locale e ne stimolano il desiderio di lotta pressando sull’indigenza della propria famiglia, di cui l’Occidente e il governo di Jakarta sarebbero responsabili. Non è un caso che l’attentato di Bali fu organizzato da attentatori suicidi indonesiani, che i utilizzarono mezzi più imper provvisati portare a termine la loro missione. Per l’attacco vennero utilizzate due autobombe e alcuni attentatori che si fecero esplodere a distanza ravvicinata dalla folla. Le vittime furono in parte turisti - soprattutto australiani e inglesi - ma anche 38 indonesiani, “colpevoli” di fraternizzare con gli infedeli.Tutto secondo i desideri di bin Laden. (a.p.)
tato a Bali. Negli ultimi sei mesi la polizia indonesiana ha effettuato 48 arresti. A questi bisogna aggiungere l’uccisione di Dulmatin, leader spirituale e operativo della Ji. Il comandante era conosciuto con lo pseudonimo di “genius”, per le sue le capacità di mantenere aperto il network del terrorismo locale con le organizzazioni jihadiste straniere. Dulmatin era legato al gruppo Abu Sayyaf delle Filippine, ma soprattutto con Abu Musab al-Zarqawi, il terrorista di origine giordana, capo di “al-Qaeda in Mesopotamia”, ucciso a Baghdad nel 2006.
È stato grazie alla collaborazione con i guerriglieri iracheni che Dulmatin ha importato in Indonesia i metodi di guerriglia adottati da al Qaeda in Medio Oriente. È il 9 marzo 2010, dopo tanto impegno per arrestarlo, le forze speciali indonesiane, “Delta 88”, procedono nell’incursione nella zona dove il terrorista è stato individuato, a Pamulang, vicino Jakarta. Tuttavia, andando contro i propri interessi e provocando le critiche di Washington - che ha spiccato una taglia di 10 milioni di dollari sulla testa di Dulmatin - le teste di cuoio indonesiane perdono il controllo della situazione. Il capo della Ji muore nello scontro a fuoco. Jakarta quindi si trova con un cadavere tra le mani e i terroristi locali animati dalla sete di vendetta. Una fine del tutto diversa è attesa per l’imam Bashir. La rabbia e il risentimento espressi dai suoi seguaci dovrebbe far riflettere le autorità di Jakarta a non esagerare nel trattenere questo illustre prelato oltre i limiti e senza un capo di imputazione ben preciso. Bashir va visto come l’Hannan al-Turabi del sud-est asiatico. Il leader sudanese è legato a filo doppio con al-Qaeda, così come di questo imam non si possono negare le idee radicali e peraltro poco islamiche. «Non c’è nulla di più nobile che il martirio per un musulmano», aveva detto ancora nel 2005 Bashir. Per poi proseguire: «i turisti stranieri sono come vermi e serpenti che meritano di morire senza pietà». Per quanto inequivocabile sia la posizione di Bashir, Jakarta deve stare attenta a non commettere passi falsi. Quando ieri è stato trasferito in carcere, l’imam non si è negato alle telecamere. La sua serenità era quella di chi è consapevole che non gli si può torcere un capello, se si vuole evitare un’escalation popolare contro le istituzioni.
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Due navi cozzano all’ingresso: una continua a perdere greggio
Continua l’emergenza anche in Pakistan: “enormi” i danni
La marea nera arriva in India: ora è a rischio Mumbai
Alluvioni sulla Cina, fiumi di fango nelle città
MUMBAI. Sembra oramai quasi
PECHINO. Almeno 6mila fra
una barzelletta, ma le petroliere e i loro carichi rischiano di essere i peggiori incubi dei governanti di tutto il mondo. Dopo Stati Uniti, Cina e Giappone, l’incognita “marea nera” arriva anche in India. Dove, davanti all’imponente porto di Mumbai, la Guardia Costiera sta lavorando alacremente cercando di contenere una perdita di petrolio che sgorga da un cargo inclinato e che sta affondando: 300 containers sono già finiti in acqua, ma l’emergenza rischia di aggravarsi. Due mercantili, l’MSC Chitra e il Khalija, hanno avuto una collisione sabato nell’imboccature del porto di Mumbai. Una nave è riuscita a rientrare in porto, dove adesso è sottoposta a lavori di riparazione; ma la Chitra MSC, a causa dell’urto, si è inclinata nettamente e ha cominciato a perdere il carico.
membri dell’esercito, della polizia e dei vigili del fuoco lavorano con alacrità dalla notte scorsa per recuperare persone disperse o seppellite dal fiume di fango che ha invaso e distrutto la contea di Zhouqu (Gansu). Sono infatti oltre 1300 le persone disperse e circa 50mila quelle sfollate in altre aree per salvarsi. Il fiume di fango, creatosi con le piogge torrenziali delle ultime settimane, con una profondità da 1 a quattro metri, ha seppellito intere aree, distrutto palazzi, rese inagibile strade. A causa di ciò rimane difficile l’arrivo di macchinari e scavatori. La gente scava nel fango alla ricerca di superstiti usando le mani nude o le pale.
Sei navi guardacoste sono al lavoro per ridurre l’impatto, mentre un elicottero lancia spray dissolvente. Il Chitra MSC aveva un carico di 1.219 container, con 2.662 tonnellate di petrolio, 283 tonnellate di gasolio e 88.040 litri di olio lubrificante. La marea inquinante si sta allargando e strisce di petrolio si stanno avvicinando alle grotte di Elephanta e potreb-
Scacco matto a Erdogan, un laico alle Forze Armate Isik Kosaner è il nuovo capo di Stato Maggiore di Luisa Arezzo a Turchia ha il suo nuovo capo di Stato Maggiore, che subentrerà a Ilker Basbug, in pensione dal 30 agosto prossimo. Si chiama Isik Kosaner e fino a ieri ha ricoperto la carica di Capo delle Forze di terra. Al suo posto è stato nominato il generale Erdal Ceylanoglu. Le nomine arrivano dopo alcuni giorni di crisi fra l’esecutivo islamico moderato e lo Stato maggiore, da sempre custode dei principi laici su cui si fonda la Turchia moderna. Ma se sul Capo di Stato Maggiore è stato raggiunto un accordo abbastanza agilmente per evitare tensioni pericolose, anche con l’Occidente, sul comandante delle Forze di terra, che rappresenta la seconda carica dello Stato Maggiore, è scoppiato il caos. Tutto è cominciato la settimana scorsa quando il premier turco Recep Tayyip Erdogan ha posto il veto sulla nomina (proposta dall’Esercito) di Hasan Iosyz a capo delle Forze di terra, perché sospettato di attività diffamatorie ai danni del governo via internet. L’esecutivo ha poi fatto sapere che avrebbe gradito la nomina di Atila Isyk per la stessa carica, ma qui è arrivata una sorpresa. Il generale del “Piano B”ha rinunciato alla promozione chiedendo di andare in pensione. Media filo-governativi hanno avanzato l’ipotesi che abbia chiesto il prepensionamento perché spinto dall’Esercito, ma Isik in una nota stampa ha fatto sapere che si trattava di una sua libera scelta. Finalmente ieri la soluzione e la nomina di Erdal Ceylanoglu e Izik Kosaner. Classe 1945, nativo dell’ultra laica Izmir, Kosaner ha iniziato la carriera nelle forze armate nel 1965, dopo essersi diplomato all’Accedemia militare. Nel 1974 comandava già le operazioni per l’occupazione della parte nord di Cipro.
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appiglio contro di lui per poterlo silurare. Non solo, il comandante è chiaramente a favore della Nato, e un suo rigetto avrebbe provocato un insaprimento delle tensioni con l’America in primis e l’intero occidente poi. Avvalorando così la tesi, condivisa da molti, che la Turchia stia mirando a mollare l’Unione Europea al suo destino e diventare il vero baricentro dell’intero Medioriente. La diplomazia, insomma, era tutta a favore di Kosaner. Ma non è tutto: il 12 settembre i turchi saranno a chiamati alle urne per un referndum di riforma della Carta costituzionale fortemente voluto dal partito di Erdogan, l’Akp.
Il pacchetto di emendamenti sulla legge madre del Paese della Mezzaluna verrà sottoposto a verifica referendaria in una data affatto casuale: il 12 settembre, infatti, sarà il trentesimo anniversario del golpe militare del 1980. Sembra quasi uno scherzo del destino. La Costituzione attualmente in vigore infatti è datata 1982 ed è figlia proprio del golpe del 1980. Secondo la maggioranza la nuova legge madre dello stato turco innalzerà considerevolmente gli standard democratici del Paese. Secondo l’opposizione invece è fatta solo per indebolire l’esercito e la magistratura, tradizionalmente esponenti della parte più laica dello Stato turco e che con l’attuale esecutivo islamico-moderato non hanno esattamente rapporti sereni. Anche qui, la nomina di Kosaner è utile ad evitare una campagna denigratoria contro l’Akp. Che però non ha “mollato” completamente l’osso e ha preteso che il numero 2 delle Forze Armate fosse un fedelissimo del premier Erdogan. Erdal Ceylanoglu classe 1945, sembra essere fra questi. E adesso, in sordina, parte l’ultimo braccio di ferro fra laici e islamici più o meno moderati: quello sulle nomine dei rispettivi staff dei generalissimi. Contando che molti militari kemalisti sono stati silurati nell’operazione Ergenekon e sono in attesa di processo, non sarà una sfida semplice.
L’annuncio dopo quattro giorni di crisi fra l’esecutivo islamico e i militari, custodi della dottrina kemalista
bero arrivare alla cintura di mangrovie lungo la costa. Il porto di Mumbai è stato chiuso ed è stato chiesto ai pescatori non uscire. A causa della precaria posizione della nave, pericolosamente inclinata sul suo lato sinistro, le squadre di emergenza non riescono a salire a bordo per individuare il punto di fuga. Intanto il traffico nel porto è stato sospeso perché i container rendono pericolosa la navigazione nel canale. Nel frattempo, la British Petroleum ha annunciato la chiusura del tappo sulle coste della Louisiana e ha staccato il primo assegno per iniziare a riparare i danni: 3 miliardi di dollari sul fondo indennizzo per le vittime.
La sua nomina non era affatto scontata. Erdogan non lo ama affatto, ma - come hanno notato molti analisti militari ed editorialisti turchi - il generale sarebbe stato volontariamente “tenuto in caldo”dal mondo militare affinché il premier non potesse trovare nessun
Geologi e artificieri stanno studiando come fare per svuotare un lago che si è creato a causa dei detriti e delle frane. Con le piogge che si attendono nelle prossime 24 ore c’è il rischio che un nuovo fiume di fango invada l’area a valle. Due giorni fa il premier Wen Jiabao ha visitato la zona promettendo aiuti e consolando i sopravvissuti.
I due terzi della contea non ha elettricità. Il ministero delle finanze ha stanziato 500 milioni di yuan (circa 55,6 milioni di euro) per l’emergenza nella regione. Il ministero dell’agricoltura ha inviato materiale di protezione e disinfettanti: nell’area - dove vivono molti tibetani nomadi - vi è un gran numero di animali d’allevamento e di teme la diffusione di epidemie causate dagli animali morti. Nelle scorse settimane le forti piogge in Cina hanno prodotto disastri in Shaanxi, Sichuan, Hubei e Anhui, provocando 1250 morti e danni per oltre 14 miliardi di euro. Ma le alluvioni non smettono di colpire anche il resto dell’Asia: secondo l’Onu, ci vorranno miliardi di euro per riparare i danni causati dalle peggiori inondazioni della storia pakistana. I profughi sono oltre 15 milioni, i morti almeno 1500 e il bilancio continua a peggiorare.
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Cartolina da Roma. Scongiurati i tagli annunciati nelle scorse settimane, fervono i preparativi della V edizione del Festival del Cinema della Capitale
Una festa Extra-ordinaria Tutte le novità della sezione di Mario Sesti. Che assicura: «Sarà originale, pop e funky» di Vladimiro Iuliano
ROMA. Al Festival del Cinema di Roma si possono imputare una serie di mancanze che hanno contribuito a un decollo della manifestazione più lento di quanto speravano gli organizzatori. Troppi soldi investiti per invitare le star a scapito della qualità di prodotti, anteprime che spesso precedono la distribuzione in sala solo di qualche giorno, o che, peggio, oltreoceano sono già state viste nei cinema da mesi, un concorso confuso, senza strutturazione né anima, che non appassiona neanche un pò.
Dall’anno scorso Gian Luigi Rondi, anziano nume tutelare della critica cinematografica italiana, ha preso in mano le redini della manifestazione: è atteso alla prova del tappeto rosso, in scena dal 28 ottobre al 5 novembre all’Auditorium di Renzo Piano. La tribolata gestazione della manifestazione che fu voluta da Veltroni, ha avuto negli anni il trait d’union dell’eccellente qualità della sezione “Extra-L’altro cine-
previste a sole 12, subendo una riduzione di un terzo della potenzialità sviluppata negli anni precedenti. Il tam tam su facebook e la mobilitazione della stampa di settore, hanno fatto rientrare questa eventualità. Lo conferma un comunicato conciliante dello stesso Cda, che annuncia, tuttavia, che qualche cambiamento è comunque in vista. Ma sembra in positivo: «La sezione L’Altro Cinema-Extra, oltre all’organizzazione di duetti con personaggi internazionali e alla definizione del Premio alla Carriera, d’intesa con il presidente, punta nell’edizione 2010 a valorizzare l’importante concorso di documentari, giudicato per la prima volta da una giuria internazionale, e affiancato fuori concorso da film lungometraggi con caratteristiche di grande sperimentazione». Sesti, che fino a ieri si era chiuso in un sereno quanto severo no comment, si apre con liberal. «Ho rischiato di finire sul Guinness dei Primati per essere il primo responsabile di una sezione che per essere potenziata viene dimezza-
scrive per Liberazione e Rolling Stones. Stesso parere per Gabriele Niola, di Wired: «Extra piaceva al pubblico e agli addetti ai lavori, che di questo tipo di prodotti spesso fruiscono più del pubblico stesso, e un suo ridimensionamento non è sembrato accettabile a nessuno». Un piccolo appunto, per un esperto come Niola di tecnologia dell’audiovisivo, è d’obbligo: «La sola cosa che in questi anni di spettatore e giornalista accreditato al Festival mi ha deluso è stato il comparto tecnologico, cioè quelle sezioni dedicate all’esplorazione delle tecnologie del cinema. Fortunatamente la direzione sembra pensarla come me». Per Sollazzo se qualcosa va tagliato non è di certo Extra: «Eliminerei il budget monstre e il concorso. Roma può essere un’ottima vetrina di anteprime glamour e di bei film indipendenti con grandi nomi». Anzi, Sollazzo rilancia: «Extra è l’unica grande novità, per forma, contenuti e taglio cinematografico proposta dalla Festa-Festival di Roma. Proprio per
direttore - Ma credo, dopo 5 anni, di aver sviluppato qualche robusto anticorpo per evitare gli psicofarmaci!». Sollazzo invita tuttavia a stare all’erta: «Vigiliamo: in Italia si spara a salve per vedere l’effetto che fa e poi, quando tutti pensano che il pericolo sia scampato, si prende bene la mira e si fa fuo-
Al via a partire dal prossimo 28 ottobre, la kermesse guidata per il secondo anno consecutivo da Gian Luigi Rondi promette maggiore qualità rispetto agli anni precedenti, caratterizzati per lo più da polemiche sugli sprechi dei finanziamenti e sulla malagestione delle anteprime ma”. La rassegna guidata da Mario Sesti si è rivelata la sezione più interessante e appassionante di tutto il Festival, sin dalle sue origini. Sostenuta da una precisa idea di cinema, di buon cinema, è riuscita a entrare in rapporto diretto con il pubblico, raccogliendo e assemblando attorno a sé le più disparate minoranze silenziose di cinefili, ma facendo anche incontrare la settima arte anche a chi del cinema di solito non importa più di tanto. Nelle scorse settimane il Cda della manifestazione è stato investito dalle polemiche dopo la diffusione della notizia che i tagli al budget del festival avrebbero riguardato proprio Extra, che sarebbe dovuta passare dalle 26 pellicole attualmente
ta», scherza il direttore di Extra, che si mostra molto positivo per il futuro e riconosce i meriti del Cda. «In realtà - ci dice - ho sperimentato, grazie a questo infortunio, che in questo Paese l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica, l’equilibrio e la correttezza delle istituzioni - in questo caso il Cda di una Fondazione che vede rappresentate le istituzioni locali - fanno ancora la differenza». Compatto il mondo degli addetti ai lavori. «Squadra che vince non si cambia. Extra è una sezione che ha mostrato qualità e quantità, è la parte più viva e vivace di un Festival di Roma che altrimenti replica schemi già morti e sepolti alla sua nascita», è il commento tranchant di Boris Sollazzo, che
questo potrebbe divenire il concorso vero e proprio». Claudia Catalli, di DNews, difende il Festival tout-court: «Eliminare, tagliare, tutti verbi che accostati alla cultura e al cinema stridono, anche se ultimamente vanno molto di moda. Da spettatrice preferirei rinunciare a pompose anteprime italiane pur di veder valorizzate le sezioni che meglio funzionano, su tutte Extra. Tagliare quella equivale a mozzare l’anima di un festival. Il buon Sesti ha mai pensato di esportarla? Ecco, il Festival di Roma dovrebbe pensare a questa opzione, perché potrebbe addirittura avere più successo». Un’altra estate di lavoro aspetta dunque a Sesti e collaboratori: «Un inferno - spiega ancora il
ri chi è scomodo. Quindi teniamo la guardia ben alzata, cosa che ai giornalisti con la schiena più o meno dritta, in Italia, non riesce quasi mai».
Sappiamo già che Sesti rimarrà abbottonatissimo, ma ci proviamo. Che cosa ci aspetterà a ottobre all’Auditorium? «È davvero prematuro e, per correttezza con il direttore del Festival, non potrei rivelare davvero alcunché. Diciamo però che chi ama gli incontri di Extra dovrà tenere l’agenda più sgombra del solito». Segnamo dunque le date sull’agenda, perché, come dice il buon Mario, ci aspetterà «l’esperienza di cinema più originale, pop e funky che c’è in giro».
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L’architettura è maggiormente strutturata e le varie sezioni più indipendenti fra di loro
«Il nostro red carpet? Quest’anno può “insidiare” quello di Venezia» Chiacchierata su novità e retroscena della rassegna capitolina con alcune fonti della macchina organizzativa
l massimo riserbo ammanta ancora la V edizione del Festival internazionale del film di Roma. Dopo aver scongiurato i sostanziali tagli che avrebbero mortificato eccessivamente la manifestazione capitolina, gli organizzatori hanno tirato un sospiro di sollievo e si sono rimessi al lavoro. Quest’anno, per la prima volta, sotto l’egida di Gian Luigi Rondi, che l’anno scorso prese le redini troppo a ridosso dello srotolamento del tappeto rosso per poter rivoluzionare completamente l’impostazione del festival. «La nuova edizione è sicuramente la migliore di quelle che si sono svolte finora», ci ha confidato un membro della macchina organizzativa che, per esigenze contrattuali, ha preferito rimanere anonimo. «L’architettura è maggiormente strutturata, più definita. Le varie sezioni sono più indipendenti fra di loro, godranno di una maggiore autonomia». Pronti per sfidare Venezia? «Ma no continua la nostra fonte - non siamo in concorrenza con la Mostra del Cinema». Ma come, e tutto il rimpallare di
avanti delle ricerche sulle energie rinnovabili. A Roma, con tutta probabilità, vedrete un’inchiesta durissima su come la ricerca in questo campo sia enormemente più inquinante delle fonti petrolifere». Spazio anche alla cinematografia italiana, in particolar modo quella locale. Un gruppo di cineasti del Lazio ha proposto al Festival il loro primo lungometraggio. Realizzato a costo zero, è uno dei più bei lavori finora visti nel panorama nazionale del 2010, e i selezionatori non hanno alcuna intenzione di lasciarselo sfuggire.
dichiarazioni degli anni precedenti? Lo stesso direttore del Lido, Marco Muller, è sembrato tirare una stoccata al Festival romano nel presentare il programma veneziano. «Guardi, non so se loro sono in concorrenza con noi. Questo non glielo so proprio dire. Ma per noi sarebbe impossibile entrare in competizione con loro». È un’ammissione di inferiorità? «Sarebbe come se io scendessi su un ring di pugilato e volessi combattere con Tyson, non so se mi spiego. Sia il target che il taglio con cui sono pensate le due manifestazioni sono completamente diverse».
famose. Ma il mito dell’attore rivivrà in particolar modo nelle immagini del documentario Ritratto di mio padre, firmato dalla figlia Maria Sole. Completa l’en plein l’anteprima mondiale dell’ultimo film di Ricky, Il padre e lo straniero, con Alessandro Gassman, altro figlio d’autore, e Xenia Rappoport. Altro ricordo commosso, fortemente voluto dallo stesso Rondi, quello che vedrà al centro Suso Cecchi D’Amico, che verrà insignita del Marco Aurelio d’Oro alla memoria. Il premio verrà consegnato nelle mani dei figli. Ancora non è chiaro, ma sembra che anche Corso Salani, attore e regista scomparso lo scorso 16 giugno, completerà il quadro degli omaggi di scena all’auditorium il prossimo autunno. Oltre a quella riservata alla D’Amico, la giuria di esperti che consegnerà gli altri premi sarà presieduta da Giuseppe Tornatore, che ritorna sul tappeto rosso romano dopo averlo già calcato da concorrente nel 2006 con la sua pellicola La sconosciuta. Annunciata inoltre una prestigiosissima collaborazione. La Fondazione Cinema per Roma ha concluso infatti un accordo con il prestigiosissimo festival del cinema indipendente ideato da Robert Redford, il Sundance film festival. Per quest’anno la collaborazione prevederà lo scambio di due o tre pellicole, per il futuro, si vedrà. La partnership si aggiunge a quella già in essere con il Tribeca film festival, inaugurato da Robert De (v.i.) Niro nel 2002.
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All’interno di “Extra”, oltre all’organizzazione di duetti con personaggi internazionali, è stato inserito il concorso di documentari giudicato da una giuria internazionale, e affiancato fuori concorso da film di grande sperimentazione
Nella pagina accanto: Mario Sesti e Gian Luigi Rondi. In questa pagina: Ugo Tognazzi e Giuseppe Tornatore
L’organizzazione ha riservato uno spazio speciale al ricordo di alcuni artisti che hanno reso grande il cinema italiano. Già annunciato il tributo a Ugo Tognazzi, scomparso il 27 ottobre di vent’anni fa. L’anniversario, che cade esattamente il giorno che precederà il via della manifestazione capitolina, verrà celebrato prima della proiezione di ogni film della selezione ufficiale attraverso alcune brevi pillole estratte dalle sue interpretazioni più
«Non siamo davvero in concorrenza con il Leone d’oro», dicono, «però stiamo puntando sulle novità più nascoste del panorama internazionale, scandagliando con curiosità i quattro angoli del globo»
Un segnale in questa direzione arriva anche dalle prime indiscrezioni che trapelano sul programma. Mentre Venezia punta sui nomi più in voga al momento, a Roma si cercano le novità più nascoste del panorama internazionale, scandagliando con curiosità i quattro angoli del globo. «In arrivo un documentario sul cinema hard giapponese», ci informa un’altra fonte dell’organizzazione. Come scusi? «Ma no, nulla di vietato ai minori. È un documentario sulla storia di uno dei più grandi autori del cinema erotico mondiale. Si racconta la vita personale e professionale, un mondo, quello del cinema di genere, tutto da scoprire. Pensi per esempio a Tinto Brass, solo di livello enormemente più alto». Cinema di genere, dunque, ma anche denuncia sociale. «Gli Stati Uniti stanno portando
ULTIMAPAGINA Liberia. Al processo dell’Aja l’attrice, in prima fila nelle battaglie umanitarie, giura sulla Bibbia e smentisce la top model
Naomi e i diamanti, la parola a di Roselina Salemi iamanti insanguinati, il sequel. Riassunto della puntata precedente: eravamo rimasti a Naomi Campbell, top model quarantenne sul punto di accasarsi con Vlad Doronin, che dichiarava al Tribunale dell’Aja di aver ricevuto da sconosciuti («Toh, chi bussa alla mia porta?») due o tre pietruzze sporche (ma non di sangue) dopo un ricevimento organizzato a Città del Capo dall’ex presidente sudafricano Nelson Mandela. Correva l’anno 1997. Ne aveva parlato il giorno seguente all’attrice Mia Farrow e all’ex agente Carol White, e aveva deciso di devolvere le pietre al “Nelson Mandela Children’s Fund”(che però nega di averli mai ricevuti), consegnandole subito a uno dei fiduciari, l’amico Jeremy Ratcliffe. L’autore del dono era, con ogni probabilità, l’allora presidente liberiano Charles Taylor, sotto processo dal 2008 per crimini di guerra. I diamanti gli sarebbero serviti per finanziare la guerriglia in Sierra Leone tra il 1991 e il 2001.Tutti sanno com’ è finita: 120 mila morti, un lungo elenco di violenze, mutilazioni, orrori. Lui si dichiara non colpevole. L’accusa cerca le prove che le pietre incriminate siano davvero passate dalle sue mani e non le trova. Finchè non si scopre l’affaire Naomi, e lei se la cava con innocente noncuranza: non sapeva, dormiva, e in ogni caso ha dato subito via le pietre.
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Poteva finire lì, se nel frattempo Mia Farrow, cattolica irlandese, madre adottiva seriale, paladina dei diritti civili, in prima fila contro il genocidio in Darfur, ex moglie di Frank Sinatra e Andrè Previn, nonché nevrotica ex compagna di Woody Allen, non avesse reso sotto giuramento una testimonianza che fa dubitare della buona fede di Naomi. Ed ecco il colpo di scena. Non c’erano solo «due o tre pietruzze sporche», ma «un enorme diamante», mandato, appunto, da Charles Taylor (nessuno è così masochista da regalare una pietra importane mantenendo l’anonimato: ci si aspetta, di solito una qualche gratitudine) e Naomi lo sapeva, anzi era abbastanza eccitata dall’avvenimento, al punto da offrire il racconto a colazione. Sulla questione della beneficenza le due versioni coincidono, ma Jeremy Ratcliffe, che si è fato vivo con un comunicato, dichiara di aver davvero ricevuto tre piccoli diamanti grezzi, («Naomi Campbell me li ha dati il 26 settembre del 1997 sul Blue Train, con il quale si spostavano Mandela e gli ospiti») e di non averli girati subito alla Fondazione «per non coinvolgerla in attività illegali» (allora la provenienza era chiara?).Visto il putiferio, però, si è affrettato a metterli le nelle mani della polizia sudafricana. Sappiamo così che trattasi effettivamente di diamanti, non è certo di quale valore. Il guaio è che, tra la top model e l’attrice pluripremiata, tutti si sono dimenticati di Charles Taylor, della guerriglia in Sierra Leone, del processo, e guardano metaforicamente negli occhi Naomi Campbell. Tutti avrebbero voglia di farle la stessa domanda: dov’è finito “l’enorme diamante?”. Si accettano ipotesi. L’interrogativo, lasciato sospeso da Mia Farrow, aleggia nell’aula del tribunale assediata dai media, mentre le immagini dell’udienza fanno i il giro del mondo. L’attrice, bionda, capelli lunghi, tailleur maschile molto severo, completo di gilet, giura sulla Bibbia. E quanto a credibilità, ne ha da vendere. Che abbia a cuore l’Africa, è fuori discussione. Nel
MIA FARROW Che l’ex compagna di Woody Allen abbia a cuore l’Africa, è fuori discussione. È stata più volte in Darfur e ha collaborato a lungo con l‘Unicef. Ha scattato fotografie, scritto articoli e fatto uno sciopero della fame di tre settimane nel 2009
2004 e nel 2006 è stata in Darfur con il figlio Ronan Seamus, l’unico avuto da Woody Allen, e ha collaborato a lungo con l‘Unicef. Ha scattato fotografie (il reportage è stato pubblicato da People Magazine) e scritto articoli. Nel maggio del 2009 ha documentato su “You Tube” uno sciopero della fame di tre settimane, perché ogni tanto l’opinione pubblica si distrae e dimentica che lì la gente continua a morire. Lei e il figlio sono spaventosamente seri. Lui, (che si chiamava Satchel e ha cambiato nome in Seamus per protesta contro il padre) è un ragazzo prodigio: altissimo quoziente di intelligenza, un genio, laureato a quindici anni, accettato a sedici è alla Yale Law School, ha interrotto la frequenza per lavorare sui diritti umani con l’Unicef e con l’ex ambasciatore americano Richard Holbrooke.
In alto: Mia Farrow, in Uganda lo scorso maggio come ambasciatrice dell’Unicef, indossa un abito tradizionale delle donne del Karimojong. La sua credibilità come testimone è altissima, al contrario di quella della Venere nera
È stato nel Darfur, in Nigeria e Angola. Ha le idee chiare su tutto e scrive concettosi articoli sull’International Herald Tribune. Col padre ha chiuso da un pezzo, liquidandolo senza remissione: «È un amorale, ha sposato mia sorella Soon Yi e mi ha reso al tempo stesso suo figlio e cognato». Lei, tre figli suoi e sei adottivi, è una massimalista, e si vede. Perciò siamo a questo punto: la parola dell’attrice impegnata, dell’intellettuale wasp, un pochino rigida, un pochino snob (basta leggere il suo nome completo: Maria de Lourdes Villeirs-Farrow), tenacissima nelle sue battaglie, contro quella della top model capricciosa, la “Venere nera” dal carattere impossibile, abituata a flirtare con i potenti di varie latitudini. Non c’è storia. E soprattutto non c’è verso di archiviare la questione. Aspettiamo avidamente il seguito.