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Il coraggio è la prima

delle qualità umane, perché è quella che garantisce le altre Winston Churchill

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 11 AGOSTO 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Le alluvioni colpiscono il Sud-Est asiatico e provocano veri e propri fiumi di fango, che travolgono tutto

Ancora Apocalisse in Asia Ma stavolta i nostri aiuti non finiscano in mano ai terroristi Pakistan: 13 milioni di sfollati. Cina: 1.300 vittime. Kashmir: migliaia in fuga, muore un italiano. Intanto Islamabad denuncia: «Nel 2005 i fondi occidentali sono diventati armi per i talebani» Continua lo scontro tra berlusconiani e finiani

Ormai nel Pdl la regia è dei Vanzina Farefuturo: «Ormai siamo ai manganellatori per garantire il potere personale del premier». Cicchitto: «Non siamo stati noi a dare il via a questa spirale» L’accusa del direttore del Daily Times

L’analisi del generale

L’allarme della Farnesina

Al Qaeda aspetta i nostri soccorsi

Ma la colpa è di Zardari

In trappola nel fango

di Vincenzo Faccioli Pintozzi

di Mario Arpino

di Pierre Chiartano

li aiuti internazionali destinati al Pakistan, colpito dalle peggiori alluvioni della propria storia, rischiano di divenire il secondo e insperato aiuto alla guerriglia islamica dell’area.

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iove sul bagnato, si dice quanun cataclisma di dimensioni do una serie di disgrazie si acbibliche, che ha fatto anche cumulano una sull’altra accauna vittima italiana. Le cifre nendosi contro chi è già nei guai per sono di quelle che lasciano senza altri motivi. Il Pakistan di motivi per parole. E sta accadendo in Pakiessere nei guai ne aveva a iosa. stan, India e Cina.

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Mentre il cardinale Bagnasco lancia un duro monito sull’immoralità dell’agire pubblico di Enzo Carra cominciato come un film di Elio Petri. Sta finendo come uno di quei panettoni natalizi di Vanzina. Era una storia di denuncia sociale, coi deboli e onesti da una parte e i padroni corrotti dall’altra. Finisce con una schifosa caccia all’uomo nel fango della seconda repubblica. Era stata una tragedia biblica, e c’era il capro espiatorio che si chiamava Bettino Craxi. Oggi va in onda una replica di Vacanze a Santo Domingo e non c’è neanche una star. La situazione, direbbe Flaiano, è grave ma non seria. Il box office è una belva affamata. Le avete dato Noemi e ora assale la compagna di Fini. Non è mai sazia. Il pubblico non si accontenta.

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SERVIZI A PAGINA 6 E 7 seg1,00 ue a (10,00 pagina 9CON EURO

I QUADERNI)

Due schiaffi dal mondo cattolico Attacco di Famiglia Cristiana: «Italia senza leadership» di Andrea Ottieri

ROMA. Due richiami forti. Uno rivolto allo spirito degli uomini pubblici e alla funzione propria della Chiesa, che arriva dal presidente della Cei Angelo Bagnasco. L’altro più duro, severo, contenuto nell’editoriale dell’ultimo numero di Famiglia Cristiana, in cui si denuncia l’assenza di una guida, di una leadership capace di indicare «obiettivi condivisi e condivisibili» al Paese. Due segnali che arrivano evidentemente in modo non casuale, in una delle fasi più difficili mai vissute dal dibattito pubblico negli ultimi anni. segue a pagina 8 • ANNO XV •

NUMERO

154 •

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• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Le alluvioni che hanno colpito il Pakistan hanno dato un assist insperato ai terroristi, fermando le operazioni dell’esercito regolare

«L’amore diventa terrore» Il direttore del più influente quotidiano pakistano lancia l’allarme: «I fondi internazionali per gli sfollati finiranno in mano talebana» di Vincenzo Faccioli Pintozzi li aiuti internazionali destinati al Pakistan, colpito dalle peggiori alluvioni della propria storia, rischiano di divenire il secondo e insperato aiuto alla guerriglia islamica dell’area. Il rischio, concreto, è quello di vedere gli aiuti “sparire” subito dopo la consegna sul territorio nazionale: troppe le connessioni fra esercito, servizi segreti e talebani per non temere che i fondi divengano armi e rifugi sicuri per l’estremismo. La denuncia viene da Syed Mohammad Ali, direttore dell’influente quotidiano pakistano Daily Times, che prosegue: «Non possiamo permetterci un altro scandalo come quello del 2005, quando i fondi post-terremoto nel Kashmir sono divenuti fucili per gli studiosi del Corano». D’altra parte, da giorni è l’associazione Jamaat-ud-Dawa (JuD) il braccio umanitario dell’organizzazione fuorilegge Lashkar-e-Taiba (LeT), ritenuto responsabile degli attentati di Mumbai del 2008 - a prestare soccorso con la distribuzione di acqua e viveri nelle province nord orientali. Lo Swat, il Punjab e il Sindh sono isolate. Milioni di acri di terreno agricolo sono stati distrutti. I danni più ingenti sono stati registrati nella provincia di Khyber Pakhtunkhwa. E l’emergenza diventa terreno fertile dove piantare i semi del consenso tra una popolazione già diffidente verso il governo di Islamabad per l’alleanza degli Stati Uniti nel contrasto al terrorismo di matrice islamica. In molte delle zone colpite i pri-

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Pesa anche la preoccupazione dell’America per il comportamento dell’esecutivo

Nel Paese piove sul bagnato e la colpa è del presidente Zardari di Mario Arpino iove sul bagnato, si usa dire quando una serie di disgrazie si accumulano una sull’altra accanendosi contro chi è già nei guai per altri motivi. Il Pakistan di motivi per essere nei guai ne aveva a iosa - paradossalmente, oltre ai talebani ancora oggi la mancanza d’acqua e quindi di energia elettrica è uno dei problemi più gravi - e questa alluvione che da giorni colpisce tutte le regioni davvero non ci voleva. La situazione è precipitata nel Sindh e nel Punjab, ma ora l’emergenza si va estendendo anche al contestato Kashmir, sia sul versante pachistano che in quello indiano, dove nell’area di Ladakh sembra siano rimasti bloccati anche 200 italiani. Esercito, aviazione e polizia sono fortemente impegnati nell’opera di soccorso, badando bene però a non indebolire lo sforzo in atto contro talebani ed estremisti religiosi: si può dire che in questo momento le forze armate stiano combattendo su due fronti. Il Pakistan non è l’unico Paese che in questi giorni è colpito da inondazioni. In Cina sembra ci siano 12 milioni di sfollati con un milione e mezzo di abitazioni distrutte, e l’Europa centrale, nel suo piccolo, ha avuto diversi danni ed una decina di morti nella Repubblica Ceca, in Lituania, in Germania e in Polonia. Della Cina, nonostante le proporzioni, della tragedia si sa poco o nulla, mentre della situazione in Pakistan si parla molto ma, secondo alcuni commentatori, si sta al momento facendo abbastanza poco.

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in promesse ed annunci di aiuti, fino a questo momento non sembra aver dato seguito concreto. Ciò desta forte preoccupazione soprattutto negli americani, che su Zardari, dopo aver malauguratamente lasciato cadere Musharraf, hanno puntato tutto. Prova ne è che lunedì scorso, per bocca dell’inviato speciale per l’Afpak Richard Hollbroke, hanno inviato al mondo un appello pressante, ritenendo quella che sta occorrendo al loro “principale alleato” nell’Asia del Sud una vera e propria catastrofe umanitaria.

«Sono preoccupato - ha detto l’inviato - perché sinora non siamo riusciti a raccogliere nemmeno il denaro che avevamo ricevuto per l’esodo della popolazione nel corso delle operazioni del 2009 nella valle dello Swat». Ha anche rammentato con quale generosità e tempestività il mondo aveva reagito nel 2005, in occasione del terremoto, senza però ricordare, ovviamente, che allora i fondi andavano direttamente al “dittatore” Musharraf, che della lotta alla corruzione - in parte riuscendoci - aveva fatto la propria bandiera. Nei siti si può anche leggere che Hollbroke, per la destinazione degli aiuti, «è in costante contatto con l’ambasciatore pachistano negli Stati Uniti Husain Haqqani». Zardari e Haqqani, quindi, della tribù degli Haqqani, la più potente del Paese, che può contare nella zona di confine di circa 20mila miliziani armati…. Se il mondo non si fida e nicchia, forse qualche ragione ce l’ha. La Casa Bianca lo sa, ed è corsa ai ripari, cooptando per gli aiuti le lobbies industriali americane che hanno sostenuto l’elezione e istituendo un numero verde – il 50555 – dove, digitando la parola SWAT, al popolo è possibile contribuire alla causa con 10 dollari, che saranno amministrati dall’Onu, organizzazione per i rifugiati. Dalla reazione dell’America, sembra proprio che il mondo, pur dispiaciuto per l’alluvione, la consideri quasi con fastidio come una della tante disgrazie di questo tormentato Paese, tanto più che del governo Zardari non si fida. L’ultimo dossier pubblicato, quello sulla doppiezza dell’Esercito e dei Servizi, non ha molti crismi di credibilità. Certo è che, in questo momento, non aiuta l’opinione mondiale ad avere fiducia.

Manca la fiducia in un governo debole, che più volte dimostra di non riuscire nella lotta alla corruzione, fondamentale per gestire le donazioni

Il fatto è che il Pakistan, sempre e comunque faccia notizia è ovviamente dovuto al timore che ogni turbamento - anche se, come in questo caso, di origine atmosferica - possa immediatamente alterare quei delicati equilibri che rendono in qualche modo possibile la sopravvivenza del governo Zardari, amico (o presunto tale) dell’America e dell’Occcidente. Per il vedovo di Benazir Bhutto, infatti, una dimostrazione di insufficienza potrebbe in questa circostanza dimostrarsi esiziale, gettando benzina sul fuoco di quegli innumerevoli focolai di rivolta - non solo degli estremisti religiosi - che giorno dopo giorno stanno minando una già stentata sopravvivenza. D’altra parte, il nostro non gode di ottima fama nemmeno all’estero, ragione per cui il mondo, se pur si spreca

mi aiuti ad arrivare sono stati proprio quelli del JuD. Benché sia dotata di risorse limitate, l’associazione ha salvato molta gente dalle acque e dal fango che hanno sommerso interi villaggi e spazzato ogni via di comunicazione. Donne in burqa distribuiscono pasti caldi, acqua e medicine e alla gente tanto basta. «Sono stati i primi ad arrivare con i trattori e i camioncini e ci hanno portato in salvo. Se non fosse stato per loro molti di noi sarebbero morti», racconta Shafaatullah. Gli fa eco l’agricoltore Mohammad Ali: «Hanno fatto a tutti una buona impressione. Stanno facendo la loro parte». Per Gul Mohammad, un poliziotto in pensione, sono addirittura degli angeli: «Non ci interessa quali siano i loro scopi, noi eravamo in pericolo e loro sono stati i primi ad aiutarci». Ma è forte il timore che la presenza dell’associazione si trasformarsi in una occupazione di parti del territorio pachistano dove sono già attive le milizie islamiste e i talebani. Ma d’altra parte l’inadeguatezza della rsposta del governo centrale è sotto gli occhi di tutti. E l’intervento umanitario dei gruppi radicali non è una novità nel Paese: nel 2005 il JuD prestò soccorso ai terremotati del Nord del Paese. Le vittime del sisma furono 73mila. L’associazione, nata 25 anni fa a Lahore, ha sempre negato ogni legame con il LeT e di fare proselitismo. «Il nostro lavoro è esclusivamente umanitario», ha spiegato il portavoce Yahya Mujahid. Ma non ha voluto dire da dove vengano i soldi per finanziare queste meritorie, ma costose, opere.

E molti vedono la mano dell’Arabia Saudita, da tempo impegnata nel sostenere economicamente attività “benefiche”, scuole coraniche e centri di sostegno per i musulmani di altri Paesi arabi. A questo va poi aggiunto che, per i talebani, le piogge sono state un aiuto insperato anche per motivi più pratici. Le operazioni anti-terrorismo sono state infatti sospese dal governo di Islamabad, e questa tregua potrebbe rappresentare un momento irripetibile per rimettere in piedi le milizie para-militari vicine ai talebani e ad al Qaeda. Il governo ha stanziato nell’area colpita (le province nord-occidentali del Punjab e del Khyber Pakhtoonkhwa) oltre 30mila soldati, impegnati in operazioni di recupero e di messa in sicurezza dell’area. Allo stesso tempo il mullah Fazlullah, leader del Tehreek-e-Taliban del Pakistan (i talebani locali) ha annunciato che i suoi uomini stanno tornando nell’area. Il problema si pone negli spostamenti.


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Parla Maurizio Giuliano, portavoce degli Affari Umanitari dell’Onu

Ma a Islamabad servono miliardi di dollari

«Raccolti finora poco più di 149 milioni. Ma nelle zone colpite manca tutto: tende, medicinali, acqua e cibo» di Luisa Arezzo na catastrofe senza proporzioni, senza precedenti. Le cifre sono enormi». A dirlo è Maurizio Giuliano, portavoce dell’Ufficio per il Coordinamento degli Affari Umanitari dell’Onu, in Pakistan già da una settimana. Che snocciola cifre purtroppo da capogiro. «Stiamo parlando di 14 milioni di persone colpite dalle alluvioni. Questo disastro è peggiore dello tsunami, del terremoto del 2005 e della tragedia di Haiti». Le cifre parlano chiaro: il terremoto del 2005 ha colpito 3 milioni di persone, lo tsunami 5 milioni di persone, e il sisma di Haiti 3 milioni. Nulla di paragonabile a questi 14 milioni di disperati. Alle vittime delle piogge monsoniche, si aggiungono di ora in ora gli effetti mortali delle frane. Oltre che in Pakistan, anche nel Kashmir, in India. Le prime stime pakistane parlano di oltre 1600 vittime. Ma con 14 milioni di persone colpite è lecito immaginare che la cifra sia destinata ad aumentare... Non è detto. In un terremoto la conta delle vittime è quasi immediata. L’alluvione ha tempi diversi. Ma l’intensità della tragedia è uguale. Quello che è certo è il numero di persone colpite - 14 milioni - e il numero degli sfollati - circa 4 milioni. La cosa più importante è portargli nel più breve tempo possibile acqua, tende, medicine, generi alimentari. Quello che temiamo è la seconda ondata di vittime. Le persone più deboli, anziani, bambini, donne incinta, malati, potrebbero morire in un secondo momento per epidemie, malattie, fame». Qual è la situazione oggi? Nel nord del Paese la crisi si sta stabilizzando, anche se il rischio di nuove pioggie è dietro l’angolo. Nelle provincie del Sud invece la realtà è più che critica. Le alluvioni non danno tregua, le dighe sparse per il aese potrebbero cedere.. Come procedono gli aiuti? Per quanto riguarda l’Ocha (Un Office for the Coordination of Humanitarian Affairs, ndr.), siamo finora riusciti a portare acqua

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Secondo un funzionario dell’antiterrorismo, infatti, «le infrastrutture della Swat e della zona di Malakand sono state colpite in maniera durissima. Ci potrebbe volere persino un anno per rimetterle in piedi. I ponti sono tutti crollati, e per le truppe è molto difficile muoversi: ovviamente per gli estremisti questo problema non si pone». Anche per le truppe della Nato si pongono diversi problemi: i rifornimenti destinati all’Afghanistan, che passano proprio per il nord del Pakistan, saranno rallentati in maniera significativa. Un altro insperato aiuto ai talebani, che nello scorso mese hanno ucciso 63 soldati americani: il peggior risultato dai tempi dell’invasione dell’Afghanistan del 2001.

Ma è da sempre che l’attività degli insorti, in particolare nelle province meridionali e orientali, si concentra anche per impedire alle agenzie di aiuti e umanitarie di svolgere le loro operazioni. Gli attacchi contro operatori umanitari da parte dei talebani e di altri gruppi armati sono aumentati considerevolmente, anche nel nord del Paese. Sono stati registrati 172 attacchi contro Ngo e operatori umanitari in cui sono morte 19 persone, 18 sono rimaste ferite e 59 sono state rapite. Il conflitto ha pregiudicato l’accesso agli aiuti umanitari ad alcune delle zone maggiormente colpite, impedendo la fornitura di materiali essenziali e le cure mediche per milioni di persone. Nel solo mese di marzo, i gruppi armati hanno attaccato e saccheggiato 13 convogli umanitari. Il rischio è che, ora, queste piogge diano lo slancio per una nuova ripresa. Con i soldi dell’Occidente.

Scene di soccorso alla popolazione civile del Kashmir. Un volontario della Croce Rossa internazionale prende in braccio un neonato per portarlo in salvo dal fiume di fango che sta per travolgere la sua casa. In basso, estremisti islamici vicino ai talebani. A destra, sfollati scappano dalle frane nella provincia cinese del Gansu. Nella pagina a fianco, il contestato presidente pakistano Asif Ali Zardari: sotto accusa la lentezza degli aiuti governativi

a un milione di sfollati, abbiamo dato rifugio a 300mila persone e portato cibo a 400mila. Ma la gravità del disastro rende difficile una risposta adeguata. Non ci sono tende per 4 milioni di persone. I nostri colleghi lavorano 24 ore su 24 per garantire una produzione celere, ma ci vuole tempo. In quanti siete ad occuparvi dell’emergenza? Qui in Pakistan qualche decina di persone. Ma come Onu siamo qualche centinaio. E presto arriveranno esperti in disastri, risorse idriche, inondazioni. Proprio oggi il presidente Zardari ha ringraziato l’Italia per una prima tranche di aiuti economici. Molti sono governi pronti a inviare altri aiuti. Quanti ne avete ricevuti fino adesso? Al momento, tra risorse arrivate e promesse, abbiamo raccolto aiuti per un totale di 149 milioni di dollari. Ma a quanto ammonta, secondo i vostri calcoli, una cifra congrua per rimettere in piedi il Pakistan? Siamo nell’ordine di centinaia di milioni di dollari. Una cifra utile solo agli aiuti umanitari a breve termine. Se invece vogliamo parlare di ricostruzione, i costi lievitano a miliardi di dollari. La comunità internazionale teme che, come nel 2005, dopo il terremoto devastante costato la vita a 60mila persone, gli aiuti finiscano nelle tasche sbagliate. Come rispondete a questo timore? Io posso parlare solo per le Nazioni Unite e quindi il cosiddetto canale multilaterale (il canale bilaterale è quello diretto governogoverno, ndr.). I nostri meccanismi di trasparenza sono severissimi, tanto che spesso dobbiamo fare i conti con problemi burocratici molto seri, in grado di bloccare l’arrivo del denaro. Non tanto nell’emergenza vera, ma successivamente. Il presidente Zardari è molto criticato, sia in casa che all’estero, per la lentezza con cui ha risposto all’emergenza. Condivide queste posizioni? Il governo si è mosso celermente e davanti a una catastrofe di queste proporzioni non si ha certo il tempo di mettersi a criticare. Una risposta diplomatica la sua.. Ripeto. Non è il momento di mettersi a litigare.

Abbiamo portato l’acqua a un milione di sfollati, dato rifugio a 300mila persone e portato cibo a 400mila. Ma è difficile dare una risposta adeguata


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In fuga 14 milioni di persone, centinaia di vittime nel Gansu per le frane, emergenza alluvioni nel sub-continente

L’Apocalisse e l’Esodo

Un italiano è morto e almeno otto sono intrappolati dal fango del Kashmir, tra le valli himalayane. Allarme dell’Onu che teme una catastrofe umanitaria in Pakistan, India e Cina. Mancano energia e acqua potabile di Pierre Chiartano un cataclisma di dimensioni bibliche, che ha fatto anche una vittima italiana. Le cifre che si aggiornano di ora in ora sono di quelle che lasciano senza parole. Ciò che sta accadendo in Pakistan, India e Cina a causa delle piogge monsoniche è difficile da tradurre in cifre. Ma ci proviamo. Fonti Onu parlano di quasi 14 milioni di sfollati. Un disastro peggiore dello tsunami, del terremoto del 2005 e della tragedia di Haiti. Le cifre parlano chiaro: il terremoto del 2005 ha colpito 3 milioni di persone, lo tsunami 5 milioni di persone, e il sisma di Haiti «solo» 3 milioni di abitanti dell’isola caraibica. Niente che possa essere paragonato ai milioni di disperati che, oggi, non hanno più un posto dove vivere, cibo e acqua potabile. Alle vittime delle piogge, si aggiungono, di ora in ora, gli effetti mortali delle frane. Oltre che in Pakistan, anche nel Kashmir indiano. Ci sarebbe anche una vittima italiana in India, nella regione del Ladakh colpita da devastanti

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alluvioni. L’Unità di crisi della Farnesina e l’Ambasciata a Nuova Delhi «hanno consistenti informazioni circa l’esistenza di una vittima italiana e sono già in contatto con i familiari». Da accertamenti condotti, si legge in una nota, si è anche verificato che non sono presenti stranieri nell’ospedale di Leh. Altri otto connazionali sarebbe rimasti intrappolati dal fando nelle valli himalayane. Secondo fonti governative del Kashmir, 4 uomini e 3 donne di nazionalità italiana, tra i 26 e i 43 anni, sarebbero bloccati a Pang, a circa 4.400 metri di quota; un’italiana si troverebbe invece a Biamah.

La Farnesina ha reso noto che Gianluca Brusco, funzionario diplomatico dell’ambasciata, inviato nella città di Leh, si sta adoperando da due giorni presso le autorità militari e civili indiane per facilitare la localizzazione e il recupero dei turisti italiani che si trovano nella regione. Il funzionario ha incontrato i connazionali per rassicurarsi sulle loro condizioni di sa-

lute e tenerli informati sullo sviluppo della situazione; inoltre, si mantiene costantemente in contatto con le autorità indiane per favorire la partenza degli italiani dall’aeroporto di Leh per Nuova Delhi, dove la nostra Ambasciata è pronta a gestire il rientro in Italia anche di coloro che hanno perso i documenti di riconoscimento. La Farnesina informa che è anche in corso un intenso lavoro a livello europeo per coordinare le attività di as-

La Farnesina ha attivato un’unità di crisi per aiutare i nostri connazionali

sistenza. Intanto sarebbero circa 200 gli italiani rimasti bloccati nella regione del Ladakah, nel Kashmir indiano a nord del subcontinente. I connazionali sarebbero in buone condizioni, e alcuni sarebbero riusciti già a rientrare a Nuova Delhi autonomamente. Altri gruppi si starebbero spostando invece a Leh, e da qui saranno poi trasportati a Nuova Delhi, ha precisato la Farnesina. Le autorità diplomatiche italiane sono riu-

scite a contattare la gran parte degli italiani bloccati. Intanto, mentre continuano le operazioni di soccorso, il numero delle vittime delle inondazioni nel Kashmir è salito a 165. I dispersi sono circa 200. Per gli aiuti umanitari è una corsa contro il tempo.

La pioggia da ieri batte forte nel nord della valle di Swat, provincia di Khyber Pakhtunkhwa, in Pakistan. La regione, a vocazione agricola e popolata dalle tribù talebane che combattono in Afghanistan, è stata investita in pieno dalle inondazioni. Il fiume Swat è tracimato e 22 ponti dello stesso corso d’acqua sono stati inghiottiti dalla furia delle acque che stanno scorrendo giù verso i fiumi Kabul e Indo. Per l’Alto Commissariato per i rifugiati c’è carenza di cibo e medicine. Mancano l’energia elettrica e il gas. L’acqua potabile non è disponibile: i pozzi sono pieni di fango. Anche la capitale del Pakistan, Islamabad, è sommersa dalla pioggia. L’Unhcr sta


prima pagina Il declino è iniziato quando ha preso il potere la prima giunta militare, quella del generale Ne Win

«È la dittatura, non le alluvioni a distruggere la Birmania» Il ministro dell’Informazione del governo di Aung San Suu Kyi denuncia: «Tra cicloni e carestie, il nostro Paese rischia di scomparire per sempre» di Tint Swe disastri naturali sono inevitabili, e incidenti sfortunati capitano in ogni parte del mondo. Molte persone puntano il dito contro il cambiamento climatico e il riscaldamento globale, oltre ad accusare le enormi nuove costruzioni che sorgono ovunque. Ma sarebbe più opportuno puntare il dito contro le autorità, per le tragedie causate dall’uomo che stanno avvenendo in Birmania. Il Programma alimentare mondiale ha infatti individuato, correttamente, la vera causa della mancanza di cibo in Birmania: le eccessive restrizioni imposte dalla giunta militare. Ma questo avviene sin dal 1988, anno in cui i militari si sono presi il potere con la forza. I gruppi internazionali di aiuto, incluse le agenzie delle Nazioni Unite, sono viste come minacce alla sicurezza. E per sicurezza si intende non l’interesse nazionale, ma potenziali sfide alla presa del regime sul potere. Il popolo birmano, una volta, era fiero della ricchezza di risorse e dall’abbondanza del benessere comune. Un proverbio tradizionale del Paese dice (più o meno) che la Birmania ha tanto olio per cucinare da potercisi fare il bagno, e che i cumuli di riso sono alti come montagne. Ma questo era vero prima che i militari prendessero il potere, mettendo le mani anche sull’economia. La prima generazione di generali, guidati da Ne Win, nel 1987 fece in modo di portare il Paese nelle nazioni meno sviluppate del mondo. La generazione successiva, guidata dai generali Saw Maung e Than Shwe, portarono la Birmania al terzultimo posto nella classifica dello sviluppo mondiale. Il regime attuale ha aperto le porte all’economia di mercato e agli investimenti stranieri diretti. Il sito web ufficiale del ministero degli Affari esteri riporta un miglioramento della situazione intera, e nel 1999-2000 il Pil è aumentato del 10,9%. Questo ha fatto schizzare il valore degli affari di investimenti permessi fino alla cifra record di 7 miliardi e mezzo di dollari. Gli indicatori della Banca mondiale per lo sviluppo, il 27 luglio 2010, dicono che la Birmania ha un giro di investimenti stranieri diretti pari a 283 milioni di dollari. Sfortunatamente, un rapporto Onu del 2009 - intitolato “Missione di sicurezza e assestamento per le coltivazioni e il cibo in Myanmar” – riporta che 52 città degli stati Shan, Chin e Kachin sono indicate come estremamente vulnerabili in termini di sicurezza alimentare. Una persona su dieci nel Paese – ovvero cin-

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que milioni di persone – rischiano la fame ogni giorno. I bisognosi sono concentrati anche a Rangoon e nelle aree dell’Irrawaddy, Arakan e Chin. Secondo l’ultimo rapporto del Programma alimentare mondiale, gli stati Arakan, Chin, Kachin e Shan (e le divisioni di Magwe e dell’Irrawaddy) hanno urgente bisogno di assistenza alimentare. Eppure il delta dell’Irrawaddy era considerato la ciotola di riso del sud-est asiatico, quando c’era la democrazia. Nel maggio del 2008 il ciclone Nargis ha colpito quella zona, uccidendo 140.000 persone: il regime, nel momento di massimo bisogno, ha

La resistenza armata delle etnie cerca di aiutare la popolazione. Ma i soldati non lo permettono mai

bloccato in maniera deliberata ogni aiuto internazionale. Alla fine, i pacchi inviati dalla comunità internazionale sono stati politicizzati: la televisione statale ha mostrato in maniera continua le immagini dei generali che distribuivano quegli aiuti, come se fossero un loro regalo.

Secondo i dati raccolti dal Programma alimentare mondiale nel giugno del 2008, la popolazione dello stato settentrionale di Arakan ha iniziato a soffrire di malnutrizione a causa dell’aumento improvviso del prezzo del riso, schizzato del 75% in più rispetto all’anno precedente. Al 25 giugno di quest’anno, almeno 63 persone sono morte dopo che le piogge torrenziali hanno scatenato nella zona alluvioni e smottamenti. Nello stato Chin, invece, è stato l’arrivo dei ratti a far diminuire le scorte di cibo. Secondo un gruppo di informazione locale, i ratti stanno devastando le piantagioni di almeno 20 villaggi della zona. La crisi alimentare nel distretto di Pa’an – stato Karan – è emersa nel marzo 2005. Prima di questa data, nel marzo 2004, è stato invece pubblicato “Ricca periferia, centro povero: l’economia rurale del Myanmar”. Il 4 agosto del 2010, un’Organizzazione non governativa che lavora nella zona Kachin ha scoperto che il tasso di infezione del virus hiv nell’area – controllata dai militari dopo il cessate il fuoco con gli indipendentisti – è 16 volte maggiore rispetto alla media del Paese. Un altro testo del gennaio 2006 – “Campi deserti: la distruzione dell’agricoltura a Mong Nai, stato Shan” – ha sottolineato le politiche sbagliate (sia di sviluppo che rurali) e le attività contro gli indipendentsti, così come la corruzione cronica del regime. Ma c’è un’altra crisi in Birmania, legata alla gestione sbagliata dei fondi da parte delle autorità militari. Ogni statistica attendibile mostra che il tasso di mortalità infantile arriva a 76 ogni mille nascite; il 31,8% della popolazione sotto i 5 anni è malnutrita e il governo spende non più del 2,8% delle proprie risorse per la sanità, una delle spese minori di tutto il mondo. Tutto questo dimostra come le catastrofi naturali colpiscono alcune zone del Paese; altre sono afflitte dalla resistenza armata; altre ancora subiscono i danni di tragedie compiute dall’uomo. Ma non c’è metro quadro del Paese in cui non ci sia il controllo dei nostri dittatori.

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chiedendo più di 21 milioni dollari per rispondere ai bisogni urgenti della popolazione, compresi i rifugiati afghani e le comunità pachistane di accoglienza. Ovunque, fango, frane e detriti rendono difficili i soccorsi. Il premier Yusuf Raza Gilani ha visitato le zone inondate della provincia di Sindh e da lì ha rivolto un appello accorato alla comunità internazionale affinché stanzi nuovi aiuti per far fronte alla «alla peggiore catastrofe umanitaria della storia del Pakistan». Secondo la Federal Flood Commission, più di 248mila case sono state distrutte e 558.000 ettari di terreni coltivati sono stati inondati. Più di 10mila vacche sono morte nel corso degli ultimi otto giorni. La Samaa tv ha ricordato che oltre 1500 persone sono morte a causa di alluvioni e smottamenti del terreno e che le perdite sono state pesantissime per piantagioni, bestiame, infrastrutture stradali, telecomunicazioni, elettricità e acqua. Nelle province del Khyber Pakhtunkhwa e di Baluchistan, in Pakistan, sonho state finora distribuite oltre 12mila tende dell’Acnur insieme a migliaia di altri articoli: teloni, coperte, taniche. Per salvare il salvabile.

Dal fronte cinese delle inondazioni l’elenco delle vittime cresce ogni ora. I soccorritori lavorano senza sosta nella provincia cinese di Gansu, nel nord ovest del Paese, dove interi villaggi sono stati sommersi da acqua, fango e massi. Il nuovo bilancio delle vittime, ieri, era di 702 morti e 1.042 dispersi. Per la maggior parte causate dalle frane. L’evento più grave è avvenuto nella notte di sabato e domenica, nella prefettura autonoma tibetana di Gannan. Intanto, gli ingegneri cinesi hanno lavorato senza sosta per drenare un lago creato dagli smottamenti e hanno abbassato il livello delle acque grazie a un’esplosione controllata. Anche l’Europa era stata investita, nei giorni scrosi, da piogge che gli esperti definivano di tipo monsonico. A riprova, ce ne fosse ancora bisogno, di quanto il clima stia cambiando la struttura metereologica dei continenti. In Europa, l’hanno chiamata «burrasca Viola»: le piogge cominciate l’8 di agosto e proseguite per 48 ore. Parliamo dunque di una vera anomalia termica su scala globale, come l’hanno definita gli esperti. Ricordiamo che i monsono soni dei venti ciclici causati dalla differenza di temperatura tra la terra e il mare, tanto più alta è questa differenza accompagnata dalla prtesenza di una forte umidità tanto più potenti sono i fenomeni atmosferici che li accompagnano. Nell’Oceno indiano sono tipici i tifoni, la cui forza e intensità si è ora spinta all’interno del continente asiatico. E in questo caso la misura della pioggia caduta non viene espressa più in millimetri all’anno, ma in metri.


società

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Scontri. Continuano le polemiche tra gli esponenti del Pdl e di Futuro e Libertà sulle dimissioni di Gianfranco Fini da presidente della Camera

Pdl, volano gli stracci Farefuturo: «Siamo ai manganellatori», Cicchitto: «Non siamo stati noi a dare il via a questa spirale» di Franco Insardà

ROMA. Il portone di via dell’Umiltà chiuso farebbe pensare a un Pdl in vacanza, ma così non è. E la stessa cosa vale per gli altri partiti, Futuro e Libertà in testa. Silvio Berlusconi aveva dato i compiti per le vacanze ai suoi, Gianni Letta è stato precettato e tutti sono reperibili al bisogno. Anche Pier Ferdinando Casini e Lorenzo Cesa hanno inviato, prima dello sciogliete le righe, a tutti i parlamentari e amministratori dell’Udc un sms molto chiaro: «Cari amici, non possiamo riposarci. C’è un rischio fortissimo di elezioni anticipate alla ripresa di settembre. Utilizzate l’estate per mobilitarvi sul territorio. I dirigenti nazionali sono disponibili a presenziare alle vostre iniziative».

Nella settimana di ferragosto tra Pdl e finiani la tensione resta molto alta, nonostante qualche timida richiesta di tregua caduta nel vuoto. L’obiettivo da una parte è quello di costringere Gianfranco Fini alle dimissioni, dall’altra quella di rintuzzare qualsiasi attacco. Il portavoce del partito del Cavaliere, Daniele Capezzone, ha rilanciato la richiesta di dimissioni, sostenuta mediaticamente dal Giornale con una raccolta di firme contro Fini, alla quale hanno replicato gli esponenti di Futuro e Libertà, definendola un’aggressione e ritenendola “irricevibile”. I finiani hanno provato a chiedere una smentita da parte del Cavaliere, senza ottenere alcuna risposta. Secondo Italo Bocchino «Berlusconi nel momento in cui chiede le dimissioni del presidente della Camera rischia di aprire una crisi istituzionale senza precedenti di non sappiamo quali possano essere le conseguenze». A questo punto il capogruppo di Fli bisogna: «ripartire da un vertice di maggioranza». Ieri il duello avuto due protagonisti principali: il webmagazine Farefuturo e il portavoce del Pdl Daniele Capezzone. Il primo è tornato alla carica con un durissimo editoriale del direttore Filippo Rossi, secondo il quale «l’Italia sta rischiando di precipitare in un baratro senza fine». Rossi definisce gli attacchi a Fini

«squadrismo mediatico, con un susseguirsi di manganellate contro il «traditore”Fini». Secondo Farefuturo il Pdl «non è più la casa degli italiani. A guardare in azione i manganellatori di professione sembra quasi che la “filosofia politica” del Pdl sia solo e soltanto quella di garantire un potere tutto personale: politico, aziendale, economico».

ca: «Le dichiarazioni nervose oppure offensive di alcuni esponenti finiani rappresentano una prova di debolezza e il segno di una perdita di contatto con la realtà. A chiedere le dimissioni di Gianfranco Fini non è più solo Il Giornale, o altre testate libere, o numerosi dirigenti del Pdl. Ormai siamo dinanzi a una vera e propria ondata popolare».

Capezzone non ha perso tempo

Ma Farefuturo, smentendo Capezzone sul nervosismo, anzi giocando sul filo dell’ironia, ha diffuso online, le critiche pronunciate dall’allora esponente radicale contro Silvio Berlusconi negli anni dal 2004 al 2006. «In nessun Paese al mondo avremmo un premier così. Per essere chiaro, voglio prescindere dall`esito dei processi di ieri e di oggi, e perfino, se possibile, dalla rilevanza penale dei fatti che sono emersi. Ma è però incontrovertibile che Silvio Berlusconi (prescrizione o no) abbia pagato o fatto pagare magistrati; così come da Palermo (ripeto: quale che sia la qualificazione giuridica di questi fatti) emergono fatti e comportamenti oscuri, di cui qualcuno (Berlusconi in testa) dovrà assumersi la responsabilità politica». I redattori del webmagazine hanno“chiarito”che si è trattato di un errore: «Nel prendere con decisione le distanze dalle pesanti dichiarazioni del portavoce del Pdl sul premier, da lui addirittura fastidiosamente appellato “lo sciancato di Arcore”, chiediamo scusa per l’imbarazzante errore informatico in cui siamo incorsi, che ha fatto sì che, al posto delle più recenti affermazioni di Capezzone, siano andate inopportunamente online quelle evidentemente superate risalenti al 2004 e al 2006». Per il capogruppo alla Camera, Fabrizio Cicchitto «chi è causa del suo mal deve piangere se stesso. Italo Bocchino non può dare tante lezioni, perchè nell’arco di questi ultimi mesi è stato protagonista di polemiche violentissime che

per mantenere alti i toni della polemi-

Anche Pier Ferdinando Casini e Lorenzo Cesa hanno invitato, via sms, i parlamentari e gli amministratori dell’Udc a «mobilitarsi sul territorio. C’è un rischio fortissimo di elezioni anticipate alla ripresa di settembre. Non possiamo riposarci»

Nel pomeriggio di ieri la visita al Gemelli di Gianni Letta

Cossiga in condizioni critiche, ma stabili» ROMA. «Attualmente le funzioni sono critiche ma stabili». È questo il testo del bollettino medico, diffuso intorno alle 15 e 30 dal policlinico Gemelli, sullo stato di salute del presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga, ricoverato da lunedì pomeriggio in rianimazione. I medici hanno reso noto che a causa di «uno stato di insufficienza cardiorespiratoria» è stato necessario «ricorrere a procedure di supporto vitale». Dalle prime ore di ieri mattina Cossiga è circondato dall’affetto dei suoi cari e degli amici più intimi. Migliaia di messaggi con gli auguri di pronta guarigione continuano ad arrivare dall’Italia e dal mondo. Il vicesindaco Mario Cutrufo si è infatti recato in mattinata al Policlinico Gemelli per informarsi sulle condizioni del Presidente emerito e portare gli auguri della città di Roma. Durante la visita il vicesindaco della Capitale si è intrattenuto con i familiari del senatore Cossiga, in particolare con il figlio, Giuseppe, sottosegretario alla Difesa. Nel pomeriggio anche il sottosegretario Gianni Letta ha fatto vista al Gemelli, fermandosi a parlare con i familiari, Anna e Giuseppe, mentre il direttore del Gemelli Cesare Catananti lo ha aggiornato sulle condizioni del presidente. Letta, manifestando la volontà di seguire costantemente l’evoluzione dello stato di salute del presidente, ha porto alla famiglia gli auguri di pronta guarigione per il presidente non solo suoi personali, ma anche da parte delle istituzioni e del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, esprimendo la speranza di poterlo invitare al più presto a Palazzo Chigi. Subito dopo Letta è arrivato anche Mauro Leone, figlio del presidente della Repubblica Giovanni Leone. Tra le persone che si sono recate al policlinico anche il rosminiano don Claudio, che si intrattenuto a lungo con i familiari di Cossiga.


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Però, come direbbe Flaiano, la situazione è grave ma non seria

Ormai sembra di vivere in un film di Vanzina L’attuale modo di fare politica ha trasformato l’Italia in una (seconda) Repubblica fondata sulla parolaccia di Enzo Carra cominciato come un film di Elio Petri. Sta finendo come uno di quei panettoni natalizi di Vanzina. Era una storia di denuncia sociale, coi deboli e onesti da una parte e i padroni corrotti dall’altra. Finisce con una schifosa caccia all’uomo nel fango della seconda repubblica. Era stata una tragedia biblica, e c’era il capro espiatorio che si chiamava Bettino Craxi. Oggi va in onda una replica di Vacanze a Santo Domingo e non c’è neanche una star. La situazione, direbbe Flaiano, è grave ma non seria. Il box office è una belva affamata. Le avete dato Noemi e ora assale la compagna di Fini. Non è mai sazia. Il pubblico non si accontenta. È passato velocemente al canale del wrestling nel fango e pretende sempre nuovi scontri. E altre vittime. Perché pagato il biglietto d’ingresso, le monetine davanti al Raphael, ha diritto a sempre nuovi sacrifici umani. Chi mal comincia... È una seconda repubblica fondata sulla parolaccia. Il cast è di quelli che non sfondano nel mercato estero. Ma tanto che fa? Prima o dopo anche gli altri scopriranno la genialità italiana. È stato così anche per gli “spaghetti western”. Questa è l’ora della politica nuda. Giunti al colmo, secondo il dizionario di Bouvard e Pécuchet, non c’è più limite. Infatti, il limite l’abbiamo oltrepassato e c’è la speranza di risalire. Il passaggio dal gioco a zona a quello a uomo è stato esiziale per il nostro sistema che non aveva mai goduto di grande salute. Le grandi questioni poste alla fine degli anni Novanta, quando tutto era cambiato e non per nostro merito o per nostra responsabilità, giacciono davanti a noi: irrisolte. Volevamo la democrazia all’inglese e ci ritroviamo in mezzo alle faide tra vecchi compagni d’arme. Dal grande afflato maggioritario al sudore delle sezioni di partito.

È

Sopra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini; a sinistra il capoguppo del Pdl a Montecitorio, Fabrizio Cicchitto e a destra Elisabetta Tulliani hanno portato a questa situazione di crisi politica e alla formazione di due gruppi parlamentari. Una vera spirale di giustizialismo ai danni di cariche istituzionali in cui è rischioso infilarsi». Sul ruolo istituzionale di Fini ieri si è registrato l’intervento del senatore della Lega Massimo Garavaglia, ospite di un Filodiretto con Radio Radicale, secondo il quale «il fatto che si possano chiedere le dimissioni al presidente della Camera è dubbio, dal punto di vista costituzionale. Il presidente della Camera ha il dovere di essere super partes, e speriamo che continui ad esserlo. Un conto sono le dichiarazioni e gli atti politici, altro la gestione dell’aula. Noi dal Senato abbiamo la sensazione che il presidente abbia mantenuto l’equilibrio nella gestione dell’Aula, e speriamo che questo equilibrio non si rompa».

Dal fronte interno al Pdl, dopo la lettera che Berlusconi ha scritto ai Circoli della Libertà per lanciare una grande“mobilitazione”a difesa dell’operato del governo per “contrastare i disfattismi e i personalismi di chi antepone i propri particolari interessi al bene di tutti”, si registra qualche malumore. Lo stesso Cicchitto, richiamando in pratica il ruolo del partito e dei suoi dirigenti, ha scritto in una nota che «bisogna evitare di cadere in errori del passato, come quelli commessi nel 2006». Una prima risposta alla chiamata alle armi da parte di Berlusconi ai club, che richiama quella della campagna elettorale dalla quale il centrodestra uscì sconfitto, preceduta da un movimentismo simile culminato con la costituzione del

“Motore azzurro”e dei circoli affidati a Maria Vittoria Brambilla. Per Cicchitto è necessario «combinare insieme i “nuclei di base” da costruire a partire dalle sezioni elettorali con le organizzazioni territoriali a livello comunale, provinciale, regionale, fino a quelli nazionali. Comunque non bisogna dimenticare che ai livelli locali, come ci insegna anche l’esperienza della Lega, la politica cammina sulle gambe delle donne e degli uomini che lavorano quotidianamente sul territorio». Il capogruppo del Pdl alla Camera ha evidenziato che «compito principale del Pdl è quello di assicurare la governabilità e il consenso nel Paese, sia che la legislatura dura sia che si vada a elezioni anticipate. Per questo siamo impegnati a definire quanto prima i punti programmatici e a raccogliere su di essi il necessario consenso parlamentare, innanzitutto da parte dei deputati e senatori eletti nel 2008 da una maggioranza assai precisa. A quel punto verrà l’ora della verità, in Parlamento si vedrà se c’è una maggioranza. Qualora non ci fosse non apriremo la strada a governicchi o operazioni di palazzo, la legittimità democratica richiede che si torni alle urne».

Con l’aria che tira alcune dichiarazioni da politico navigato di Fabrizio Cicchitto, che ha tentato di riportare la vicenda su binari meno tortuosi, sembrano cadere nel vuoto. Per Cicchitto «una riflessione sull’acutizzazione dello scontro all’interno del centrodestra doveva essere aperta precedentemente. Adesso la parola alle polemiche, poi credo che a fine agosto faremo il punto su queste questioni e vedremo cosa abbiamo sul tavolo». Della serie la guerriglia continua, vedremo chi rimarrà in piedi e che cosa bisognerà fare.

ganesi, non c’era scritto, sul tricolore, “tengo famiglia”? E Longanesi è pur sempre un punto di riferimento per la destra italiana.

Chi guarda impassibile a ciò che sta accadendo è Silvio Berlusconi. Scommettiamo che tra qualche giorno tesserà l’elogio dei giornali a lui vicini perché, finalmente, hanno riscoperto la gloriosa arte del giornalismo d’inchiesta per troppo tempo abbandonata? Sì, perché le ricorrenti inchieste sul suo conto, le lunghe puntate sulle indagini giudiziarie che lo riguardano, non erano esattamente giornalismo ma verbali di procu-

Bisognerebbe cambiare pagina, riprendere il discorso a partire dagli anni Novanta, fare un po’ d’ordine e, soprattutto, mettere in moto la macchina delle riforme

Fini, che è stato tra i protagonisti del nuovo che avanza, adesso deve difendersi dalle più vecchie e stantìe accuse di favoritismo familiare. Un suo nuovo accusatore, Mario Landolfi, uno di quelli che stavano con lui fino a ieri, benedice la lottizzazione Rai contro la quale faceva fuoco e fiamme allora. Lo fa perché dalla lottizzazione siamo arrivati alla parentopoli. Ma, come scriveva Lon-

ra. Questa volta, invece, si tratta proprio di inchieste, coi giornalisti che si fanno sbattere la porta in faccia dall’inquilino dell’appartamento monegasco ereditato da An. Roba d’altri tempi! Sarà bene cambiare pagina, a questo punto. Riprendere il discorso da dove, negli anni Novanta, era iniziato. Fare finta che non è successo niente. Niente conflitto d’interessi, niente appartamenti, niente trasformismi, niente ti sogno California. Elezioni, o no. Fare un po’ d’ordine sulle cose più urgenti. Tra le quali non ci sono davvero quelle proposte dal radicale futurista Benedetto Della Vedova, persona peraltro stimabile. Il fatto è che tra le cose più urgenti non ci sono quelle proposte da lui (testamento biologico compreso: ma perché, le leggi che già ci sono non bastano ad assicurare una morte decorosa?). Della Vedova è il radicale di turno: ogni partito, movimento, formazione e pure il governo ne hanno uno. Inutile stilarne l’elenco, perché li conosciamo bene. Marco Pannella, erano tutti figli tuoi! Riprendili con te!


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segue dalla prima Il cardinale Bagnasco parla in una circostanza particolare qual è la festa di San Lorenzo, patrono della cattedrale di Genova, città di cui Bagnasco è arcivescovo. Particolare, giacché San Lorenzo nel terzo secolo scelse di non cedere all’ordine dell’imperatore Valeriano, che aveva deciso di confiscare i beni della Chiesa minacciando di morte chi non avesse obbedito. San Lorenzo consegnò ogni possedimento ai poveri e li presentò all’imperatore con la frase: «Ecco i tesori della Chiesa». Premessa necessaria a comprendere lo spirito di autonomia con cui il presidente della Cei rivolge il suo messaggio, durante l’omelia nella cattedrale: «Alla radice di tanti mali e tante povertà c’è il sottosviluppo morale», dice, «di cui parla il Santo Padre nella Caritas in veritate. Per questo la Chiesa non cessa di servire il mondo, nella persona amata dei poveri e nella figura delle istituzioni che presiedono il bene comune, anche con il richiamo alla dimensione etica della vita personale e sociale». Dimensione che non può essere smarrita, pena la perdita di senso per qualunque cosa abbia un rilievo pubblico. Quindi il passaggio sui beni della Chiesa che «non sono fini a se stessi ma al servizio della comunità, dei poveri e dei bisognosi». Aspetto che spesso «la mentalità del mondo non riesce a comprendere». Ma un senso diffuso di aridità nella vita sociale richiama, secondo Bagnasco, anche la necessità di lasciare che «il nostro spirito sia purificato dalle brutture e dalle oscurità interiori, e così intravvedere la luce di Dio, anche attraverso la bellezza». Entrare nel mondo del bello «solleva l’anima, purifica i sentimenti, provoca domande e riporta alla nostra origine».

Tanto è elevato il piano scelto dall’arcivescovo di Genova quanto spietata è l’accusa di Famiglia Cristiana: «Ha sollevato grande

«C’è un vuoto di leadership», denuncia il giornale dei paolini, «e questo federalismo sa di secessione» bagarre la recente denuncia della Chiesa circa l’assenza in Italia di una classe dirigente all’altezza della situazione. In una stagione densa di sfide e problemi», la Chiesa «lamenta un vuoto di leadership». Quindi l’affondo più pesante: «Mancano persone capaci di offrire alla nazione obiettivi condivisi. E condivisibili. Non esistono programmi di medio e lungo termine. Non emerge un’idea di bene comune, che permetta di superare divisioni e interessi di parte. Se non personali». E ancora: «Un Paese maturo, che deve mirare allo sviluppo e alla pacifica convivenza dei cittadini, non può continuare con uomini

Misura colma. Duro monito di Bagnasco sull’immoralità dell’agire pubblico

«Disgusto per i politici che difendono se stessi» Duro attacco di Famiglia Cristiana: «Basta con chi cura solo le proprie pendenze» di Andrea Ottieri

Esultano i sindacati. “No comment” da parte della Fiat

Melfi, reintegrati gli operai ROMA. Erano stati prima sospesi e poi licenziati ai primi di luglio. Ma il giudice del lavoro ha dato loro ragione, e ora potranno tornare in fabbrica. Tre operai dello stabilimento di Melfi, in provincia di Potenza, (due erano delegati Fiom), sono riusciti a farsi annullare il provvedimento, ritenuto «antisindacale», ed il giudice ha ordinato l’immediato reintegro dei tre nelle rispettive mansioni professionali. I tre furono licenziati perché durante un corteo interno bloccarono un carrello robotizzato che portava materiale ad operai che invece lavoravano regolarmente. Ai licenziamenti seguirono scioperi, proteste e una manifestazione della Fiom, con i tre che occuparono anche un monumento di Melfi. Ora la sentenza, che è stata accolta con giubilo dal mondo sindacale e da un gelido “no comment” da parte della Fiat. Secondo il segretario regionale Fiom della Basilicata, Emanuele De Nicola, «la decisione del giudice indica che ci fu da parte della Fiat la volontà di reprimere le lotte a Pomigliano d’Arco e a Melfi e di “dare una lezione” alla Fiom». «La sentenza - De Nicola - dimostra che le lotte democratiche dei lavoratori non hanno nulla in comune con il sabotaggio. Il teorema “lotte uguale eversione o sabotaggio” è stato di nuovo smontato e ci aspettiamo le scu-

se di quanti vi hanno fatto riferimento, a cominciare da personalità istituzionali o rappresentanti degli imprenditori». «La condanna della Fiat - afferma Giorgio Cremaschi, segretario nazionale della Fiom Cgil è la dimostrazione che la Fiat sta agendo in violazione delle leggi e dei contratti». «A questo punto è chiaro che la linea della Fiat in Italia deve cambiare - prosegue Cremaschi - visto che, per fortuna, l’ordinamento costituzionale italiano è ancora in vigore. A tutti coloro che hanno supinamente sposato le posizioni dell’azienda è rivolto l’invito a cambiare posizione». In particolare, secondo il sindacalista, «sarebbe un fatto di buon gusto se il ministro Sacconi, la presidente della Confindustria Marcegaglia e il segretario della Cisl Bonanni chiedessero scusa per le loro dichiarazioni ai lavoratori licenziati che oggi vengono reintegrati». «Prendiamo atto con soddisfazione che i diritti dei lavoratori licenziati dalla Fiat di Melfi sono stati garantiti e tutelati. Dal giudice del lavoro giunge una decisione che nessuno può e deve dimenticare. Restiamo tuttavia ancora in attesa di capire quali siano le intenzioni della Fiat. Da tempo chiediamo al ministro Sacconi di riferire in Parlamento», dichiara invece il deputato dell’Unione di Centro Savino Pezzotta.

che hanno scelto la politica per “sistemare” se stessi e le proprie “pendenze”».

È una critica senza sconti che non sembra risparmiare l’attuale governo e lo stesso premier. Non a caso uno il ministro Gianfranco Rotondi ribatte alla accuse sostenendo che «alcuni editorialisti di Famiglia Cristiana devono sempre dipingere un’emergenza diversa che giustifichi la loro militanza contro Berlusconi, reo come la gran parte dei dc di essere un cattolico non di sinistra». Ne viene fuori una polemica a distanza con il portavoce dell’Idv Leoluca Orlando: «Definire cattolico il presidente del Consiglio è un atto di coraggio oltre che un insulto ai valori cattolici espressi dalla Chiesa», secondo il dipietrista, «Berlusconi frequenta minorenni». Nell’editoriale di Famiglia Cristiana compare anche un esplicito passaggio sul federalismo: quello che viene proposto, si legge, «sa di secessione. Senz’anima e senza solidarietà». Peraltro la denuncia sul vuoto di leadership non riguarda solo la classe politica. «Analoghe carenze si riscontrano nel mondo imprenditoriale, nella comunicazione e nella cultura. Persino nella società civile e nell’associazionismo». Non è difficile immaginare come il settimanale dei paolini abbia tratto ispirazione dallo spettacolo triste di questi giorni. Il disgusto, secondo Famiglia Cristiana, assale ormai la stessa «opinione pubblica» pur «narcotizzata dalle tv» È uno spettacolo poco edificante quello «offerto da una classe politica che litiga su tutto, lontana dalla gente e impotente a risolvere i gravi problemi del Paese». Ed è per questo che «la richiesta della Chiesa di “uomini nuovi» trova ampi consensi, si legge ancora nell’editoriale: «Anche il mondo cattolico deve fare la sua parte. E assumersi di più i ruoli che contano. Da tempo Papa e vescovi hanno lanciato l’appello: “Giovani politici cattolici cercansi”per invitare i credenti più impegnati a misurarsi con il destino della nazione».


L’

otto pagine per cambiare il tempo d’agosto

i m p r e s a

11 agosto (1929)

Babe Ruth è il primo giocatore di baseball a battere 500 home-run in carriera

Il mito del Bambino d’oro di Guglielmo Malagodi

un caldo pomeriggio di baseball, quello dell’11 agosto 1929 al League Park di Cleveland, in Ohio. A sfidarsi sono i New York Yankees e i Cleveland Indians. A battere, di fronte al pitcher degli Indians Willis Hudlin, c’è l’esterno George Herman Ruth, detto “Babe”, il Bambino. Babe Ruth ha già battuto 499 fuoricampo in carriera. E da un momento all’altro potrebbe diventare il primo giocatore nella storia del baseball professionistico a battere 500 home-run. Questo è quel momento. Come ricorda il Cleveland Plain Dealer del giorno successivo, il Bambino deve sborsare la ragguardevole (almeno per l’epoca) cifra di 20 dollari (oltre a un autografo) per portarsi a casa la pallina del record, trovata da un giovane teppistello nel parco oltre lo stadio di Cleveland. E soltanto l’intervento immediato della polizia (allertata per tempo) permette al campione di conservare il prezioso cimelio. Ruth aveva 34 anni, all’epoca, e quello del League Park – che comunque non impedì la vittoria per 6 a 5 degli Indians – era il suo 30° home-run della stagione. Il Bambino avrebbe poi battuto il 600° fuoricampo due anni più tardi. E avrebbe dovuto aspettare fino al 1934 per arrivare al 700°. Ma fu quello di Cleveland a restare nella storia, come è restata nella storia la carriera di uno dei più forti giocatori di baseball di sempre. George Herman Ruth nasce al 216 di Emory Street, nella periferia meridionale di Baltimora, nel Maryland. È la casa presa in affitto dal nonno materno, Pius Schamberger, un immigrato tedesco che si guadagna da vivere facendo il tappezziere. I genitori del bambino, Kate e George Sr., abitano al piano superiore del loro saloon in Camden Street, ma Kate preferisce partorire a casa di suo padre. Dire che il piccolo George è un birichino è soltanto un pallido eufemismo. Marina la scuola, bighellona per strada, commette piccoli furti. A sette anni beve, mastica tabacco, ed è ormai del tutto sfuggito al controllo dei genitori.

È

continua a pagina 10

DIAMO I NUMERI

I TESORI DELLE CIVILTÀ - PAZYRYK

CINEMA CALDO - ESTATE VIOLENTA

Note a margine

Le meraviglie dell’Altai

Ultimo lento a Riccione di Alessandro Boschi

di Osvaldo Baldacci

di Rossella Fabiani

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pagina 16 pagina 9 - liberal estate - 11 agosto 2010


Qui sopra, e a sinistra, il campione di baseball Babe Ruth, che fu il primo a battere 500 fuori campo in carriera l’11 agosto del 1929

Il padre lo picchia, nel tentativo disperato di farlo rigare dritto, ma senza riuscirci. Alla fine il bambino viene mandato in una scuola gestita da frati, la St. Mary’s Industrial School for Boys. L’incontro con Padre Matthias cambia la vita di George: l’uomo, a cui spettava il compito di imporre e far rispettare la disciplina nella scuola, diventa la figura più influente della sua vita, la persona che Babe rispetta più di ogni altra. È Padre Matthias che gli insegna a giocare a baseball, lavorando per ore su battuta, difesa e, in seguito, i lanci.

Vista la sua grinta, George diventa il ricevitore della squadra. Quel ruolo gli piace, perché è coinvolto in ogni giocata. Un giorno, mentre la sua squadra viene sommersa dalle battute valide degli avversari, comincia a prendere in giro il suo lanciatore. Padre Matthias decide di dargli una lezione, e inverte i ruoli dei due giocatori, mettendo George sul monte di lancio. Ma quella che doveva essere una punizione ha un risultato inaspettato: George non fa vedere

palla all’altra squadra. Padre Mathias segnala il ragazzo a Jack Dunn, proprietario e manager dei Baltimore Orioles, una squadra delle leghe minori. A Dunn viene spesso attribuito il merito di aver scoperto Babe Ruth. Nel 1914 Dunn ingaggia il diciannovenne Ruth come lanciatore, e lo invia allo spring training (gli allenamen-

da professionista, in International League contro i Buffalo Bisons: la sua squadra vince 6-0. Nella prima metà della stagione gli Orioles sono la migliore squadra della lega: arrivati al 4 luglio, hanno all’attivo 47 partite vinte e 22 perse. Ma la situazione finanziaria non è buona. In quell’anno la Federal League, una lega maggiore “ribelle” che sarebbe durata solo due anni, ha piazzato una squadra a Baltimora. La concorrenza riduce drasticamente gli spettatori degli Orioles. Per far tornare i conti, Dunn è obbligato a vendere i suoi giocatori migliori, e cede Ruth e altri due a Joseph Lannin, proprietario dei Boston Red Sox, per una cifra (mai dichiarata) che si aggira tra i 20mila e i 35mila dollari.

Nel 1914 Dunn ingaggia il ragazzo come lanciatore, e lo invia allo spring training in Florida. Il talentuoso Ruth ottiene il posto in squadra e il soprannome “Dunn’s Babe”

ti primaverili che precedono la stagione agonistica) in Florida. Il ragazzo si guadagna il posto in squadra, e il soprannome “Dunn’s Babe” (il bambino di Dunn) per il suo talento precoce e gli atteggiamenti infantili. Il 22 aprile 1914 “The Babe” lancia nella sua prima partita

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Ruth è un ottimo lanciatore, ma la rotazione dei partenti dei Red Sox è già piena di mancini (come lui, che scrive con la destra ma lancia e batte con la sinistra), così all’inizio è utilizzato con il contagocce. Rimane in panchina per settimane prima di essere mandato nell’International League a giocare con i Providence Grays di Providence, nel Rhode Island. A fine stagione i Red Sox lo richiamano, sancendo così il ritorno definitivo di Babe Ruth

nelle major leagues. Poco dopo, Ruth si fidanza con Helen Woodford, una cameriera che ha conosciuto a Boston, e i due si sposano il 14 ottobre 1914 a Baltimora. Durante lo spring training della stagione seguente Ruth si guadagna un posto come lanciatore partente. Con talenti come Rube Foster, Dutch Leonard e Smokey Joe Wood, il parco lanciatori porta i Red Sox al titolo. Ruth vince 18 partite e ne perde 8, e si mette in luce anche in attacco, con una media battuta di .315 e i suoi primi quattro fuoricampo in major league. I Red Sox vincono le World Series del 1915 4 a 1, ma Ruth è impiegato solo in battuta e non sul monte di lancio, perché il manager Bill Carrigan preferisce utilizzare lanciatori destri. Nel 1916 Ruth rientra nella rotazione dei lanciatori, anche se in attacco la squadra si è indebolita dopo la cessione di Tris Speaker ai Cleveland Indians. Pur non avendo brillato nel pre-campionato, si rivela il miglior lanciatore dell’American League. La sua media Pgl (punti guadagnati sul lanciatore) di 1,75 è la migliore della lega, inferiore di oltre un punto alla media di lega.

Vince 23 partite, ne perde 12 e tira 9 shut-out (partite lanciate dal primo al nono inning senza prendere punti), che è tuttora il record per un lanciatore mancino e per i Red Sox. Con un attacco che batteva poco, sono di nuovo i lanciatori a portare i Sox alle World Series contro i Brooklyin Robins, in cui Ruth lancia una completa di ben 14 inning che consegna a Boston la vittoria nella serie per 4 a 1. Babe Ruth si ripete sugli stessi livelli nel 1917, con 24 vinte e 13 perse, ma i Red Sox non riescono a tenere il passo dei Chicago White Sox (100 par-

tite vinte) e mancano l’accesso alla post-season. È questa, però, la stagione in cui inizia a emergere il talento di Ruth come battitore, con una media battuta di .325 e 11 extrabase su 40 valide.

Diventa evidente che Ruth sarebbe più utile alla squadra in un ruolo diverso dal lanciatore, che gli permettesse di giocare tutte le partite. Nel 1918 comincia a giocare di più all’esterno e a lanciare meno. A quei tempi sembra una cosa ridicola: il suo ex compagno di squadra Tris Speaker pronostica che il cambio gli avrebbe accorciato la carriera. Nel 1919 Ruth diventa in pratica un esterno a tempo pieno, con appena 17 apparizioni sul monte di lancio nelle 130 partite da lui giocate. Quell’anno stabilisce il suo primo record di fuoricampo in una sola stagione (29), con una media battuta di .322 e 114 punti battuti a casa. Le sue imprese in battuta diventano ben presto famose. E grandi folle accorrono per vederlo giocare. Non è solo la sua notorietà a crescere, anche il suo girovita. Sin dai tempi dei Baltimore Orioles i suoi compagni di squadra rimangono meravigliati dalle quantità di cibo che Ruth era capace di mangiare. Il


fisico alto e atletico del 1916 si è già trasformato nel 1919 nella forma rotonda che da allora viene tradizionalmente associata a Babe Ruth. Le sue gambe possenti e muscolose, sotto una figura così appesantita, sembrano stranamente magre, ma Ruth rimane un buon esterno e un buon corridore sulle basi. Il suo contemporaneo Ty Cobb spiega tutto con una frase: «Ruth corre bene, per essere un uomo grasso».

Nonostante Ruth richiami molta gente ai botteghini, i Red Sox attraversano una difficile situazione finanziaria. Il proprietario Harry Frazee aveva pagato salari relativamente alti per attirare i migliori giocatori. Alla fine del 1919, dopo la mancata qualificazione per le World Series e gli insuccessi personali di Frazee come impresario teatrale, la società ha bisogno di un’iniezione di contanti per rimanere a galla. L’unica fonte disponibile sono i giocatori, così Frazee offre i migliori ai New York Yankees, che fino ad allora erano sempre stati una squadra di seconda divisione. Per la somma di 125mila dollari e un prestito di oltre 300mila dollari (con un’ipoteca sullo stadio Fenway Park), il 3 gennaio 1920 Babe Ruth viene ceduto agli Yankees. Ruth inizia subito a ripagare l’investimento fatto su di lui. Contrariamente alle sue abitudini, si allena molto durante l’inverno, e si presenta allo spring training già in buona condizione. Soffia il posto di esterno a George Halas, un giocatore modesto, che si risente del taglio e lascia il baseball; per dedicarsi poi al football americano, fondando i Chicago Bears e la Nfl. Quando il campionato comincia, si capisce subito che lo stadio Polo Grounds, più favorevole ai battitori, gli andava a genio, e che presto avrebbe superato il suo precedente record di fuoricampo. Ruth è ormai diventato il terrore dei lanciatori, con ottime statistiche d’attacco stagionali, tra le migliori mai registrate: la sua straordinaria media bombardieri di 0,847 rimane record imbattuto per più di ottant’anni, per essere superata solo nel 2001 da Barry Bonds. L’anno seguente si ripete. Su 152 partite, ottiene .376 di media battuta, 171 punti battuti a casa e 177 punti segnati; nelle medie bombardieri e arrivi in base finisce di poco sotto ai valori del 1920. Per il terzo anno consecutivo stabilisce un nuovo primato di fuoricampo (59). Grazie ai lanciatori Carl Mays, Waite Hoyt e Bob Shawkey, e alle mazze di Ruth e Bob Meusel, gli Yankees arrivano per la prima volta alle World Series, ma perdono 5 a 3 dai rivali New York Giants. In gara 4 Ruth batte il suo primo fuoricampo in post-season. Nel 1921 Babe

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o stesso giorno...

Partirono alle 3 del pomeriggio da Wengen. Raggiunsero la vetta a mezzogiorno. Lo scalatore descrive così lo storico momento: «Le due guide mi diedero l’onore di Francesco Lo Dico di essere il primo a solcare la cima» uasi 4mila metri di altezza che Christian Almer e Peter

Charles Barrington, il “ragno bianco” che si prese l’Eiger

Q

svettano sulle Alpi Bernesi, una parete nord che si staglia nel cielo come un inoppugnabile bastione di roccia e calcare. L’Eiger accese gli eroici furori degli uomini sin dall’antichità. Merito dello straordinario panorama che dal ghiacciaio si spingeva un tempo fino al fondovalle, dove il Grindelwald accolse i primi ospiti a partire dalla fine del XVIII secolo. Meraviglioso agli occhi, e colmo di vertigini metafisiche, furono Charles Barrington e le guide Christian Almer e Peter Bohren a conquistare per primi la vetta dell’Eiger, l’undici agosto del 1858. Prima di loro, numerosi scalatori avevano lasciato le penne, sull’inaccessibile massiccio. Le autorità svizzere avevano proibito qualunque tentativo di ascesa. Alpinista irlandese di vaglia, tentò l’impresa anche Charles Barrington e gli assistenti

Ruth viene invitato alla Columbia University per sottoporsi a una serie di test. I risultati sono strabilianti. I dottori scoprirono che il lancio che riusciva a colpire con la massima potenza era appena sopra al ginocchio, sull’angolo esterno. E quando centrava il colpo, in assenza di vento,

con la mazza che si muoveva ad una velocità di 34 metri al secondo, la palla arrivava a 140150 metri. I suoi occhi rispondono agli impulsi luminosi in una stanza buia 20 millisecondi più velocemente della persona media, il che è molto utile per individuare la palla non appena lascia il guanto del lanciatore. La scienza conferma quello che gli appassionati di baseball già sapevano: Babe Ruth era nato con doti soprannaturali. Per dirla con le parole del suo compagno di squadra Joe Dugan: «Nato? Diavolo, Babe Ruth non è nato! Quel figlio di puttana è caduto da un albe-

Bohren. Partirono alle 3 del pomeriggio da Wengen, con direzione il fianco ovest dell’Eiger. Ne raggiunsero la sommità a mezzogiorno. Barrington descrive così lo storico momento: «Le due guide mi diedero il grande onore di essere il primo a solcare la cima». Almer, Bohren e lo stesso Charles, restarono ad ammirare la valle del Grindelwald per dieci minuti, e poi discesero la china in circa quattro ore. La loro scalata fu seguita da molti che videro levarsi una bandiera piantata dalla spedizione sulla vetta. L’impresa valse a Barrington il soprannome di “Il Ragno Bianco”. Da indomito irlandese, avrebbe voluto scalare anche il Matterhorn. Pochi anni dopo, nel 1864, l’inglese Lucy Walker fu la prima donna a conquistare l’Eiger. Nel 1921 Fritz Amatter, Fritz Steuri e Samuel Brawand e il giappone-

ro!». Sospeso per sei settimane all’inizio del 1922, al rientro dopo la squalifica Ruth, nominato

infastidisce. Gli viene ritirata la nomina a capitano. E viene sospeso altre tre volte nel 1922,

Quando centrava il colpo, in assenza di vento, la mazza si muoveva a una velocità di 34 metri al secondo e la palla arrivava a 140-150 metri. I suoi occhi rispondevano agli impulsi luminosi 20 millisecondi più velocemente della persona media: la scienza confermava che era nato con doti soprannaturali

dalla dirigenza degli Yankees, diventa il primo capitano in campo della squadra. Cinque giorni più tardi, il 25 maggio, viene espulso per aver contestato la chiamata dell’arbitro di terza base, e peggiora la situazione salendo sugli spalti per affrontare uno spettatore che lo

se Yuko Maki, scalarono per primi l’inaccessibile cresta nord. La stessa che l’americano John Harlin, mostrò al mondo intero nel 2007 in The Alps, straordonario documentario realizzato in condizioni impossibili. Ci vollero molti sacrifici, infausti morti e infiniti incidenti. Ma all’alba del terzo millennio, l’uomo aveva sfatato il Mito dell’Eiger: la montagna imprendibile e spietata era stata finalmente domata.

sempre per discussioni con gli arbitri. Mentre Ruth attraversa la prima crisi professionale, nel privato la situazione è addirittura peggiore. La moglie Helen non ama lo stile di vita da celebrità e vive in una fattoria vicino a Boston assieme la figlia adottiva Dorothy. Lontano dagli occhi della moglie, Ruth si lascia andare ancora di più. L’amore per il buon cibo, che con gli anni non è diminuito, va di pari passo con la passione per gli alcolici (al tempo illegali), la vita notturna e le donne. La

moglie muore nell’incendio della sua casa l’11 gennaio 1929. La coppia era separata già da alcuni anni, ma, essendo cattolici, non avevano mai divorziato. In quel periodo Ruth si lega a Claire Merrit Hodgson, cugina di Johnny Mize, il fortissimo battitore inserito nella Baseball Hall of Fame. Una signora sofisticata, che frequenta il bel mondo, ma anche una donna dura, a cui riesce ciò che nessuna prima di lei era stata in grado di ottenere: tenere al guinzaglio quel farfallone del re dei fuoricampo. Si sposano il 17 aprile 1929, e il matrimonio dura fino alla morte di Ruth.

L’esuberante vita sociale, ma anche le mancate presenze in campo, influiscono negativamente sul suo rendimento. L’ultimo exploit memorabile è quello in “gara 3” delle World Series del 1932, che vedono gli Yankees contro i Chicago Cubs: Ruth realizza uno dei fuoricampo più celebri della storia del baseball, su una palla che sembrava Ruth avesse “chiamato”in anticipo. In un’intervista del 1945 racconta di aver preso i primi due strike, alzando un dito dopo il primo («Questo è uno») e due dopo il secondo («Fanno due»). Poi aveva puntato alla staccionata all’esterno, e al lancio successivo spediva la pallina sugli spalti. Al Forbes Field di Pittsburgh, in Pennsylvania, il 25 maggio 1935, Babe Ruth batte il suo 714° fuoricampo, l’ultimo in carriera, stabilendo un record che sarebbe durato per 39 anni.

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IL GIALLO

CAPITOLO 7 Fase due, la strategia del ragno A casa della vedova Jorio. Tra mezze ammissioni e forti resistenze, è scattata la caccia alla verità di Carlo Chinawsky

ole Santilli vedova Jorio abitava in una traversa di via Stelvio. In un palazzone costruito alla fine del Ventennio, con caricature di colonne romane e atrio inutilmente ampio. Facciata di colore severo, ma anche sporca. Rispetto a quella dell’ex marito pareva una bella casa: effetto del revisionismo architettonico fascista. Aprì la porta e fece “ah”, come dire: sbrighiamo ‘sta rottura di scatole. «Siamo qui per la morte di suo marito… ». «Ex marito», precisò. Prima presa di distanza. Il salotto dava sulla strada, molto rumorosa. Lei chiuse una finestra, poi si sedette su un divano rosa antico, lezioso e rigido. «Non so che dirvi», ci anticipò. «Da quanto non vedeva Alcide?», iniziai senza dare importanza a quelle mani messe avanti. «Anni. Perché?». «Perché il mio lavoro è fare le domande, signora Jorio». «Santilli, se non le spiace». Seconda presa di distanza. «Va bene, signora Santilli. Le chiederei di essere più precisa sui rapporti col suo ex marito». «Ma che cosa c’è da spiegare? Non lo vedevo da anni e non sentivo proprio il desiderio o il bisogno di incontrarlo. La mia risposta è esauriente, non crede?». Conforti aveva l’aria di uno che sta a teatro, a saggiare le battu-

J

te del primo atto, senza intuire il dipanarsi della trama. Rigido anche lui in quella poltrona coi braccioli di legno ottocentesco. I suoi occhi ora fissavano la donna, ora vagavano tra i quadri, tutti smorti, e i ninnoli alloggiati in una vetrinetta. Erano tantissimi. Jole era minuta. Aveva un naso affilato ed elegante,labbra sottilissime, quasi inesistenti, pallore accentuato e senza alcun rimedio cosmetico visibile, gonna di pochi centimetri oltre il ginocchio, golfino di cachemire, seno poco accentuato o comunque era umiliato da chissà quale museruola di cotone. Una professoressa di liceo che stanga gli alunni, che sale in cattedra e lì ci rimane per l’eternità, nella sua epifania giudicante. «L’ultima volta di solito uno se la ricorda… ». «Francamente io no. Ma se mi chiede se sono giorni, settimane, mesi… le rispondo no. Sicuramente anni». «Quando e come ha saputo della morte di Alcide?». «Mi ha telefonato Patrizia, mia figlia… lei era stata avvisata dalla donna che faceva le pulizie nella casa di Alcide».

La Santilli accennò ad accavallare le gambe, ci ripensò e rimase suorescamente coi piedi paralleli. Con movimenti rapidi

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Illustrazione di Michelangelo Pace della mano distese la stoffa della gonna, come per eliminare qualsiasi piega. La sua vita non doveva alcuna grinza. Di fronte a persone così legnose ho sempre la tentazione di spezzare il loro punto di equilibrio, di infilare sabbia nell’ingranaggio dell’intimità. Curioso degli effetti, infantile nell’aspettarmi un’esplosione o una metamorfosi. Ricordo di aver provato lo stesso desiderio con quel vizioso di Casal Bruciato, Andrea Malvasi. Era ormai disteso a terra, un rettile gonfio. Il tacco della scarpa sul cranio e si sarebbe rotta quella piccola noce infetta. «Lei sapeva che padre e figlia si vedevano e si sentivano, vero?». «Nemmeno questo so», e spostò rapidamente lo sguardo dalla mia faccia alla punta delle sue scarpe. «Comunque a lei faceva piacere che si vedessero… ». «Perché me lo chiede, scusi? Dottor Stauder, forse dovrebbe contenere un poco le sue deduzioni. O meglio: le illazioni». E i suoi occhi tornarono sopra i miei. Inaspettatamente intervenne Conforti: «Il signor colonnello gliel’ha già spiegato, signora: noi facciamo domande, abbiamo bisogno di informazioni… per chiudere un caso, non per scrivere un libro». Poi mi guardò, in attesa di un qualche avvallo.

Jole era minuta. Aveva un naso affilato ed elegante, labbra sottili, il viso pallido senza alcun rimedio cosmetico visibile, gonna di pochi sotto il ginocchio, golfino di cachemire, seno poco accentuato o forse umiliato da qualche museruola di cotone Glielo diedi: «Il maresciallo le ha ripetuto con molto garbo lo stesso concetto. Mi rifiuto di credere che lei non capisca… ». «Per capire capisco alla perfezione, colonnello», si stizzì la vedova pacatamente allegra o solo indifferente, ignorando del tutto Conforti. «E allora mi risponda». «Se lei mi chiede delle cose… nomi, date, fatti insomma, io sono disposta a collaborare… anche se per un suicidio faccio fatica a capire cosa cercate… ma fa niente… se invece volete conoscere i miei pensieri… ». «Appunto», la interruppi, «i pensieri sono dietro ai comportamenti… lei è insegnante, lo sa meglio di me». «Eh no, colonnello, io non ci sto. I pensieri sono i miei pensieri. E francamente non riesco a capire a che cosa le possano servire… ». «Quel che mi serve e quel che non mi serve lo giudico io, se permette», obiettai con un tono di voce più alto rispetto a

quello mio solito. M’ero piazzato, stavolta, dall’altra parte della cattedra. Lei sulla seggiolina piccola, più in basso. E questo non lo doveva proprio sopportare. «Rispetto i suoi meccanismi di inchiesta. Ma posso farle io una domanda?». Era un modo per sviare il discorso. «Dica pure, signora». «Se è stato suicidio che c’è da preoccuparsi tanto?». Non male il verbo che aveva scelto. Ovviamente lei non s’era affatto “preoccupata”. Quindi: perché dovevano farlo gli altri? Alcide era morto e tutto finiva lì. «Ci sono cose che non tornano», dissi pacatamente. «Noi sappiamo che qualcuno è stato da lui, quella sera». «Affari suoi». «No, signora, affari nostri. E quindi anche suoi visto che è la ex moglie». «Come sarebbe a dire? Io non lo vedevo da anni, eravamo divorziati da più di dodici anni». «Ma siccome io non conosco, perché lei non vuole che io cono-


LA PERDUTA GENTE Era una che divideva la gente in due categorie: gli alunni e gli altri. I primi voleva governarli, gli altri li ignorava. «Lei è troppo giovane per capire… », disse. Conforti mi dette un’occhiata e rispose: «Troppo giovane per giudicare. Ma non per capire»

Nelle puntate precedenti Il colonnello Stauder si reca al bar Samoa in cerca di risposte, e dopo aver interrogatorio il barista apprende che il luogo era frequentato dalla figlia del giornalista scomparso. Patrizia sembra invischiata in storie di droga. Frattanto, il maresciallo Conforti avvisa Stauder di essere riuscito ad avere un appuntamento con la vedova Jorio. Ernesto Corradi, giornalista dell’“Universo”, si mostra per telefono alquanto reticente: preferisce un colloquio di persona

sca, i suoi pensieri, chi mi dice che non vi vedevate di tanto in tanto… ». Improvvisamente si alzò, come per schivare il sasso del mio dubbio.

Il fastidio per le mie congetture stava montando. Qualcuno s’intrufolava nella sua vita intima. Ma di che pasta era fatta la sua vita intima? Le consigliai di non agitarsi. E fu peggio. Mise le mani sui fianchi, come si fa con scolari turbolenti, da minacciare con sanzioni. Poi dovette rendersi conto che non era in classe, quindi doveva evitare il ridicolo. Dalla sua bocca appena abbozzata in un ovale delicato non uscì una parola, solo un leggero sibilo. Infine riprese la posizione di prima. Con una variante: incrociò le braccia, come se volesse trattenere un palpito, e le braccia rimasero così, avvinghiate al busto. S’abbracciava da sola, con una forza che poteva farle male. «Colonnello, come riesco a convincerla che tra me e Alcide era tutto morto e sepolto?». «Per esempio rivelandomi quel che pensava sugli incontri tra Alcide e sua figlia». «Ci risiamo». «Mi sembra di capire che lei era contraria». «Lo dice lei». «Certo che lo dico io. Ma ci prende per cretini? Noi non siamo venuti qui per scassinare la sua

anima… se la tenga pure chiusa la sua anima… siamo qui per sapere, per mettere insieme dei tasselli… un uomo è morto… quell’uomo è stato per tanti anni suo marito, è il padre di Patrizia… ». «Lasci fuori Patrizia da tutta questa faccenda, per favore», reagì gelidamente. «Patrizia è stata arrestata tempo fa per droga e prostituzione… e io dovrei lasciarla fuori?… Queste cose lei le sa almeno?». Un sorriso a metà tra il perfido e l’amaro, che riuscì a dischiudere le sue labbra, anche se solo di poco. «Mi dica: queste cose lei le sa?». «Sì e no. Patrizia ha la sua vita, ha venticinque anni». «Quindi sono fatti suoi… è questo che vuol dire?», intervenne Conforti. Per la prima volta lei lo guardò in faccia. Ma come?, doveva pensare scandalizzata, uno che ha più o meno l’età di mia figlia mi viene a fare la predica?

Jole Santilli doveva essere una che divideva la gente in due categorie: gli alunni e gli altri. I primi li voleva governare, gli altri li ignorava. E Patrizia in quale delle due categorie l’aveva collocata? Ammesso che si fosse posta il quesito, con la figlia. «Maresciallo», disse, «lei è troppo giovane per capire… ». Incompetenza dovuta all’anagrafe, ecco fatto.

Conforti mi dette un’occhiata e, senza aspettare un mio assenso, disse: «Troppo giovane per giudicare, signora, non per capire». Bel colpo. Bravo lo studente in legge, magari lettore del Maigret di Simenon. E lei mandò giù. Ma quante cose aveva mandato giù nella sua vita? Ho conosciuto molte persone che non fanno che ingoiare. Gli ingoiatori garantiscono l’ordine del mondo. Sempre lontani dall’eresia, dalla bestemmia e anche dalla dignità, personale e collettiva. All’interrogatorio feci cambiare percorso, anche se di poco: «Vede spesso Patrizia?». «Ci sentiamo al telefono». «Sua figlia le chiede soldi?». «Normale tra genitori e figli, non crede?». «Per lei tutto è normale o scontato… oppure non si deve dire… le domando di nuovo: Patrizia le chiede regolarmente soldi?». «Una ragazza ha i suoi bisogni». «Patrizia ha un lavoro?». «Lavori saltuari». «Conosce questi lavori?». «Mi dice sempre poco. È una ragazza chiusa». «È chiusa o è stata chiusa da lei, signora?». «Non faccia lo psicologo, colonnello, la prego. Il rapporto tra madre e figlia è così complicato e non sono certo i carabinieri a poter spiegare certi legami profondi… sa, di solito io sono molto franca… ». «Vero quel che dice, probabilmente. Ma mi augu-

ro che sia lei a incominciare a chiarire quei rapporti. In ogni caso ora le togliamo il disturbo, visto che disturbo è stato… ma ci vedremo ancora» dissi, alzandomi da quella poltroncina da dentista dei primi del secolo. «Ah, una cortesia, signora: mi dia il numero di cellulare di sua figlia». Jole Santilli parve disorientata. In fondo la mia era una richiesta semplice. Ma dalla sua reazione, semprechè fosse possibile individuarla dietro lo scudo macedone che la riparava dal mondo, era facile capire che le comunicazioni genitoriali non seguivano proprio quel solco ideale cui vagamente aveva accennato. «Dunque, signora… ». «Quello vecchio non funziona più… Patrizia ha cambiato numero… me lo deve dare, ovviamente. È distratta, a volte». «Appena conosce il numero ce lo comunichi», le dissi fissando i suoi occhi, «oppure preferisce che le telefoniamo noi ogni giorno o magari due o tre volte al giorno?». «Ma è una persecuzione!». «No, solo la richiesta di un’informazione importante. Non siamo venuti qui per prendere il tè, ma per svolgere un’indagine. Questo non lo dimentichi mai». «Va bene, se è così… ». «Ci rivedremo, in ogni caso». «Lo ritiene necessario?». «Se non altro per comunicarle i risultati dell’indagine. Non crede che sia giusto farlo?». Abbassò lo sguardo: «Vi accompagno alla porta».

Conforti mi aveva portato in macchina fino a via Palermo. Dovevo leggere ancora parte degli appunti di Jorio, e magari anche i suoi racconti. Al maresciallo dissi che l’indomani sarebbe venuta in caserma Rosalba Corsetti nata Korete, moglie dell’uomo del “Samoa”, la lumaca in piedi. C’era in ballo Patrizia Jorio, la droga e chissà cos’altro. «Lei ci sarà, colonnello?». «Sì. Ma sarà lei stavolta a condurre il gioco. Io me ne sto accanto a lei». «Una specie di interrogatorio con l’esaminatore a fianco?». «Io metto in imbarazzo solo gli idioti o i mascalzoni. E lo faccio sempre con tanto gusto. Quindi non abbia timore». Una risatella nervosa. Sapeva che sarebbe comunque stata una prova. Presi le cartelline dove Jorio aveva infilato i suoi racconti. Iniziare dalla fantasia di una persona poteva sembrare spiazzante o sbagliato. Ma ero curioso della traccia letteraria. E anche stanco di una realtà che, sinceramente, s’era dimostrata fino a quel momento fiacca. Anche se, lo dovevo pur ammettere, poteva servire. Se non altro per limitare il numero delle strade da percorrere. Ma no: era la solita illusione che compariva all’inizio di ogni caso che mi capitava sulla testa. Dietro a ogni fattaccio c’era sempre una ragnatela di vie. Erano quasi le otto e pensai di andare a cenare in uno dei tanti ristoranti o pizzerie della zona Garibaldi. C’era solo l’imbarazzo della scelta. Il quartiere si stava animando, cominciava l’assembramento serale. Accanto a dove una volta c’era un cinema vidi un raduno di ragazzi in motorino. Si somigliavano tutti. Potevo trovarmi a in piazza d’Italia a Sassari come in piazza Euclide a Roma, dove ronzano i fighetti della capitale. Una volta di destra estrema, oggi risciacquati dal disinfettante del consumismo griffato. Stavo quasi uscendo quando ricevetti una telefonata. Un detective americano avrebbe esclamato “bingo”. Visto che non parlo mai quando sono solo, e nemmeno in inglese, mi limitai sporgere in avanti le labbra, come faceva mio padre. Al telefono era Ernesto Corradi, giornalista di Universo. Dunque qualcosa da dirmi ce l’aveva. E in privato. Ci mettemmo d’accordo sul dove incontrarci. Anche lui doveva cenare, mi disse. Gli proposi di aspettarlo davanti al Piccolo Teatro, poi avremmo deciso dove andare.

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DIAMO I NUMERI e canzoni spesso si assomigliano perché in fondo le note sono solo sette. Ma le sette note in realtà sono almeno dodici, come ben sa ogni appassionato di dodecafonia. In particolare sono dodici i suoni sulla scala di ottava, quella fondamentale della nostra tradizione musicale. Perché se poi si vuole essere pignoli le note sono in realtà infinite, passando nelle varie ottave. Come infiniti sono i suoni. Per nota si intende infatti sia il segno grafico tradizionale, sia il singolo suono stesso, la tonalità.

L

Le note si identificano anche in base alla frequenza, e le note che hanno frequenza pari a multipli interi rispetto alle altre sono simili, e l’ottava è l’intervallo tra questi suoni, in modo tale che conseguentemente le due note di simile frequenza sono chiamate con lo stesso nome e sono identificate dall’ottava di appartenenza. Ragioni storiche e abitudine acustica hanno portato a usare questo intervallo dell’ottava come la struttura portante della musica occidentale e nella scala diatonica si è diviso questa ottava in toni e semitoni. Quest’ultimo elemento è quello decisivo per mostrare che le note non sono poi solo sette. Le famose sette note che compongono l’ottava, infatti, non sono separate da

Note a margine Ragioni storiche e abitudine acustica hanno portato a identificare gli elementi base della musica nei classici Do-Re-Mi-Fa-Sol-La-Si anche se l’ottava si divide in toni e semitoni. Basta osservare un pianoforte, per capire che sono almeno 12

I greci non conoscevano una vera notazione, e si limitavano a indicare i gradi della scala diatonica con le prime lettere dell’alfabeto. Le stesse ancora in uso nei Paesi anglosassoni un’uguale misura: cinque sono intervallate da un tono, e le altre due da un semitono. Prova ne siano i tasti che compongono l’ottava del pianoforte: sette bianchi e cinque neri. Le note di un tono si dividono in due semitoni, a questo servono diesis (note più alte di un semitono rispetto a quella di cui si prende il nome) e bemolle (per note più basse di un semitono), e quindi le sette note ineguali di un’ottava in realtà sono costituite da dodici semitoni uguali. Che sono i veri suoni, cioè le vere note.Tra l’altro ci sono note che a causa del sistema di diesis e bemolle possono essere chiamate in diversi modi, a seconda se vengono viste in scala ascendente o discendente, ma che in realtà rappresentano lo stesso suono. Le classiche sette note, Do Re Mi Fa Sol La Si, sono gli elementi tradizionali solo della scala diatonica, quella tradizionale e la più usata, peraltro utilizzata come base per creare le formule di numerose

Secondo la vulgata i suoni sono sette, ma è solo un luogo comune di Osvaldo Baldacci scale musicali, ma in qualche modo, come abbiamo visto, è la più imprecisa sotto diversi punti di vista, da quello matematico a quello delle frequenze. La scala cromatica invece si divide in dodici elementi equidistanti fra loro, ed è per questo perfettamente simmetrica e rimane identica a se stessa a prescindere dalla nota di partenza, mentre la scala diatonica ha numerose trasposizioni possibili, chiamate modi. Tra l’al-

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tro la storia di questo rapporto tra le sette note e i dodici semitoni è lunga e risale a ben prima dell’inizio della dodecafonia del XX secolo, che non rappresenta tanto la scoperta delle dodici note quanto piuttosto è il risultato di questo processo. Si trovano facilmente fra diverse note della scala diatonica passaggi cromatici. Questi passaggi chiamati cromatismi cominciarono ad apparire nel Medioevo, sviluppandosi nel

XVI secolo per entrare abitualmente nel sistema musicale cento anni dopo, per assumere grande importanza nella musica tardo romantica, come ad esempio in Wagner. Per tornare alle“sette note” tradizionali, esse hanno in realtà una storia davvero lunga, anche se non è poi così chiaro com’è che appunto si fissò il numero di sette utilizzando misure diverse. Come è noto la musica e la cultura musicale erano già ben

sviluppate nelle civiltà più antiche, dall’Egitto alla Mesopotamia (con splendidi ritrovamenti di immagini e reperti di strumenti musicali che testimoniano quanto il campo fosse già avanzato e complesso almeno due millenni prima di Cristo), e si sa quanto la musica fosse sviluppata nella cultura ebraica della Bibbia (i Salmi ad esempio erano canzoni, Davide era un ammirato musicista, e agli ebrei in esilio a Babilonia veniva chiesto di mostrare la loro vena artistica). Non si può poi prescindere dall’antica Grecia: la scala diatonica prende il nome da uno dei tre generi della musica greca antica, e la prima scuola a studiarne la struttura fu quella di Pitagora. I greci, la cui lingua era di per sé molto musicale e la lunghezza delle vocali e il tipo di accento servivano proprio a modulare questa musicalità, non conoscevano una notazione musicale propriamente detta ma si limitavano a indicare i suoni della scala diatonica con le prime lettere dell’alfabeto. Nei Paesi anglosassoni ancora si usa tale notazione, partendo dal nostro La indicato con la A, e finendo con la G per il Sol. Anche nei Paesi di lingua tedesca si usa tale notazione letterale, ma la B viene usata per indicare il Si bemolle, e la nota Si corrisponde all’acca. Cosa che peraltro porta a otto le note, invece che sette.

Nel Medioevo, per memorizzare melodie più difficili, si cominciò a “notare” alcuni segni sopra il testo da cantare, per aiutare a ricordare se rendere la tonalità ascendente o discendente. Da lì si passò verso il XII secolo all’invenzione del tetragramma (antenato del moderno pentagramma) attribuita a Guido d’Arezzo, lo stesso che avrebbe dato un “nome proprio” alle sette note diatoniche. Costui utilizzò a scopo mnemonico l’inizio dei versi dell’inno a San Giovanni Ut queant laxis attribuito a Paolo Diacono: “UTqueant laxis / RE sonare fibris / MIra gestorum / FAmuli tuorum / SOLve polluti / LAbii reatum / Sancte Iohannes (Affinché i tuoi servi, a gola spiegata, possano della tua vita esaltare i fasti, togli dalle loro labbra ogni impurità, o Santo Giovanni). Per la verità è solo nel XVI secolo che l’ultima nota riceve il suo nome definitivo di SI dalle iniziali di Sancte Iohannes. Mentre nel XVII l’UT venne sostituito dal DO su iniziativa di Giovanni Battista Doni, che diceva di aver preso la prima sillaba di Dominus perché riteneva (il Signore) troppo difficile l’uso dell’ut, ma è sospettato di aver in realtà tenuto conto del suo proprio cognome. In Francia si usa ancora l’ut come prima nota.


I TESORI DELLE GRANDI CIVILTÀ el cuore del continente asiatico, nella Siberia del sud, ai confini del Kazakhistan, della Cina e della Mongolia, si estende il vasto massiccio dell’Altai. A più di 4mila metri si erge un rilievo tormentato da creste separate da valli profonde. Ancora oggi è abitato soltanto da pochi allevatori che si spostano con i loro greggi, e la sola traccia di una antica presenza umana in quei luoghi, che non sono molto cambiati dall’antichità, sono le tombe, nascoste sotto cumuli diseguali di pietre sparsi qua e là a gruppi. Queste sepolture, alcune grandi altre piccole, sono i kurgan, uguali a quelli che punteggiano tutta la steppa verso occidente, dall’Altai al Danubio.

N

Dalla metà del XIX secolo, l’archeologo tedesco W. Radloff aveva esplorato due delle colline più grandi. Aveva avuto la sorpresa di trovarvi vestiti e pellicce che il freddo aveva preservato. Furono però alcuni studiosi russi a fare, un secolo dopo, scoperte sensazionali, portando alla luce, a 1600 metri di altitudine, nella località di Pazyryk, un gruppo di cinque enormi kurgan, circondati da altri più piccoli. Quando gli archeologi, sotto la direzione di S. I. Rudenko, il quale pubblicò i risultati della scoperta, ebbero finito di asportare l’enorme massa di pietre e di terra della prima collinetta, si accorsero che più sotto, in profondità, il suolo era gelato. Con grande fatica riuscirono a scavare una specie di pozzo profondo 4 metri e incontrarono un ostacolo imprevisto, una struttura di grossi tronchi, saldamente uniti, che formavano le pareti di una vasta stanza. Quando riuscirono a penetrarvi e il ghiaccio sciogliendosi lasciò scoprire il contenuto, ciò che si presentò ai loro occhi superava l’immaginazione. La sorpresa venne senza dubbio dalla scoperta del secondo kurgan. La camera era interamente tappezzata di feltro scuro, orlato di vivi colori. Un angolo era occupato da un sarcofago lungo più di 4 metri, scavato interamente nel tronco di un larice. I resti di due corpi, di un uomo e di una donna, giacevano un po’ più in là. Il freddo e l’imbalsamatura avevano mantenuto inalterati i tratti del viso, i capelli e persino le loro carni. Oggetti, sparsi qua e là in gran numero, li avevano seguiti nella morte e i ricercatori sbalorditi vedevano apparire a poco a poco, nel ghiaccio che si scioglieva, tappeti, arazzi, vestiti, pellicce, mobili di legno, borse e astucci di cuoio, piccoli oggetti di osso e di corno, quasi intatti. A nord della camera, dietro una parete, giacevano 7 cavalli. Le criniere erano state tagliate e rinchiuse in una custodia, le code

PAZYRYK Nel cuore del continente asiatico alla scoperta dei “kurgan”, antiche sepolture ai confini del Kazakhistan

Le meraviglie dell’Altai di Rossella Fabiani

fago, ad amputare loro piedi e mani per arraffare bracciali e braccialetti, a tagliar le dita per rubare gli anelli e a staccare le teste per portare via il collare. Poi se erano andati portandosi via il loro prezioso bottino e mai più nulla era venuto a turbare queste dimore silenziose. L’acqua delle piogge d’autunno scendeva facilmente lungo il passaggio scavato dai ladri e l’inverno siberiano, anno dopo anno, aveva trasformato l’acqua in ghiaccio, che, protetto dalle pietre del kurgan, non poteva più venire sciolto dal sole dell’estate. Così rimase preso in una morsa di ghiaccio tutto ciò che i ladri avevano dimenticato, oggetti che per loro era senza valore, mentre per noi sono inestimabili. Le tombe di Pazyryk ci offrono l’immagine inversa di quello che ci hanno rivelato i kurgan sciti dell’Ucraina e delle rive del Mar Nero. In quelle regioni le tombe erano rimaste intatte ma il tempo aveva compiuto la sua opera distruttrice, annientando i carri e i tessuti, lascian-

A suo tempo, i sarcofagi erano stati depredati dai ladri subito dopo i funerali, per impadronirsi degli oggetti più preziosi, metallo e gioielli do solo gli scheletri dei corpi e i rivestimenti delle cose, rivestimenti spesso sontuosi ma ormai senza anima. A quel mondo metallico e quasi sbiadito, nonostante la patina dei bronzi e lo splendore degli ori, si contrappone in quella località dell’Altai, l’impressionante presenza fisica dei corpi, la morbidezza dei vestiti, la pastosità dei tappeti, la cedevolezza delle pellicce alla carezza della mano, il calore vivo del legno venato e dappertutto una straordinaria festa di colori.

Protetti dai ghiacciai, vestiti e tappeti riaffiorano da tombe che raccontano un popolo vissuto ormai 25 secoli fa intrecciate con cura.Vicino a loro erano state disposte parti di bardature lussuose: ricchi tappeti per la sella, cuscini di cuoio su arcioni di legno, cuffia, morsi, briglie, cinghie, dalle quali pendevano molti ornamenti di legno scolpito ricoperto da una

lamina d’oro. Un tappeto da sella era fatto di seta grezza, la seta cinese più fine, con fagiani ricamati che compiono evoluzioni in mezzo ad arabeschi multicolori. Sete di questa qualità erano eccezionali nella stessa Cina e costituivano il

corredo delle dame di corte. Non è azzardato pensare che quel tappeto possa essere stato la dote di una principessa cinese, data in sposa dall’imperatore a uno di quei “barbari del nord”, contro le incursioni dei quali fu costruita la Grande Muraglia. Ma gli archeologi non erano stati i primi a violare quelle sepolture. Tutte le tombe erano state già state visitate da ladri entrati subito dopo i funerali, per impadronirsi degli oggetti più preziosi, metallo e gioielli. Non avevano esitato a portar fuori i defunti dal sarco-

Gli Sciti e le popolazioni dell’Altai appartengono a uno stesso universo. Non solo sono contemporanei, ma hanno uno stesso modo di vita dettato dalla necessità dell’allevamento che impone un continuo nomadismo a cavallo. A migliaia di chilometri di distanza gli Sciti del Dniepr sono assai più affini ai loro cugini iranici dell’Altai che ai Greci delle città del Mar Nero, che sono i più diretti vicini. Ciò che Erodoto ci racconta sui costumi degli Sciti che lui era venuto a studiare nella regione del Ponto, nel V secolo avanti Cristo, è spesso meglio illustrato dagli scavi dell’Altai che da quanto è stato rinvenuto nei kurgan propriamente sciti.

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ESTATE VIOLENTA DDII VALERIO ZURLINI

CINEMA CALDO

L’ultimo lento a Riccione di Alessandro Boschi

a storia si svolge sulla riviera romagnola, a Riccione, nel 1943. C’era già viale Ceccarini, presumiamo, ma il film del quale vogliamo parlarvi ha un glamour che non ha niente a che vedere con quello rappresentato e ostentato dal suddetto celeberrimo viale. Estate Violenta, diretto da Valerio Zurlini nel 1959 (anno de La Grande guerra, Il Generale Della Rovere e di Brevi amori a Palma di Majorca) è uno dei migliori film del regista bolognese di cui rimpiangiamo la modesta produzione, nel senso che i suoi film, bellissimi, sono davvero troppo pochi.

L

Riccione, dicevamo, 1943. Si cerca di dimenticare la guerra in corso. Così per lo meno vorrebbe fare Carlo Caremoli, ventenne figlio introverso di un potente gerarca che proprio grazie agli uffici del padre è riuscito a evitare la ferma. Finché un problema si staglia all’orizzonte. Come cantava John Fogerty dei Creedence Clearwater Revival, Vedo una luna cattiva che sorge, vedo problemi sulla strada. Ed infatti, mancando pochi giorni al fatidico 25 luglio e quindi alla caduta di Benito Mussolini e del fascismo, il potere del padre di Carlo è sul punto di finire. Per cui la Bad Moon Rising arriva davvero e Carlo dovrà fare i conti con la vita. Anche se in realtà lui questi conti aveva già iniziato a farli quando una sera, durante una festicciola in una abitazione privata, aveva conosciuto Roberta Parmesan.Vedova e bella. Molto bella. E anche molto vedova, in quanto il marito era un ex combattente caduto in guerra. Figurarsi quindi i sensi di

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colpa del Caremoli. Il quale, in un singulto di patriottismo, o più precisamente perché vigliacco sì ma non fino a questo punto, rinuncerà a rifugiarsi (leggi nascondersi) in una remota villa nel profondo veneto insieme alla sua bella e alla di lei (ma soprattutto del padre) bambina. Estate violenta appartiene a quella categoria di film che sarebbe sempre buon esercizio vedere e far vedere, almeno una volta all’anno. Quando Valerio Zurlini lo realizzò aveva al suo attivo solo Le ragazze di San Frediano, tratto dal romanzo di Vasco Pratolini, e alcuni cortometraggi. Il che significa che non è affatto necessario dirigere chissà quanti film per farne uno bello (o almeno passabile). Se sei bravo, e Zurlini, Maestro con la “M” maiuscola e non maestro minore come molti vorrebbero farlo passare, bravo lo era davvero. Ci sono almeno un paio di scene che ci sentiamo di segnalarvi, una legata a uno degli snodi più importanti del film. Che è il momento in cui avviene il mitragliamento sulla spiaggia, durante il quale sembra quasi che il regista voglia sottolineare con forza che non si può sfuggire all’irrompere del tempo che passa, della guerra e probabilmente anche del progresso, pernicioso o meno che sia, rimanendo chiusi in un microcosmo sociale anestetizzato e alieno a qualsiasi rivolgimento. La seconda scena invece è legata al lunghissimo “lento” ballato da Roberta e Carlo. E non solo per la straordinaria costruzione della scena con i movimenti degli attori (e dei loro sguardi) dosati con il bilancino in una perfetta sincronia di tempi. È un motivo più per-

uno slow era davvero qualcosa di speciale. E poteva anche significare l’inizio di una relazione. Come infatti avviene per i due protagonisti, con la giovane ma antipatichella Rossana, di fatto dopo quel ballo ex di Carlo, che resta con un palmo di naso. D’altra parte la pur bella Jacqueline Sassard che Rossana interpretava, ben poco avrebbe potuto con la più matura ma fascinosissima Eleonora Rossi Drago che dava il volto e non solo a Roberta. Ecco, gli interpreti, altro asso nella manica del film, a partire da Jean-Louis Trintignant. Il suo Carlo fa parte di quella categoria di personaggi “apparentemente impassibili che però riescono a mostrare in modo sofferto i propri sentimenti”. Probabilmente fu anche in virtù di questo film che Dino Risi lo volle pochi anni dopo per Il sorpasso, che decretò il successo dell’attore francese. Tutto sommato il compagno di viaggio di Bruno Cortona non è molto differente da Carlo Caremoli: un giovane raggrumato in se stesso che subisce il fascino di tutto ciò che è diverso da lui. C’è almeno un altro grandissimo attore nel film di Valerio Zurlini, vale a dire Enrico Maria Salerno.

Curiosamente nella storia Salerno interpreta il padre di Trintignant. È un gerarca sull’orlo di una crisi di nervi, e per meglio esplicitare la sua colorazione politica viene reso calvo come il suo importante mentore. Dicevamo curiosamente, perché se infatti controllate le loro carte di identità vi accorgerete che tra “padre”e “figlio”corrono solo quattro anni. Peraltro regista e sceneggiatori (Valerio Zurlini, Giorgio Prosperi e Suso Cecchi D’Amico) avevano pensato che anche la differenza di età tra Eleonora Rossi Drago e Trintignant dovesse essere più marcata di quello che appare in realtà. Anche perché lui è uno studente mentre lei una donna matura, con una bambina, e con un recente dramma vedovile alle spalle. Come appare evidente ci sarebbero davvero molti elementi da soap, eccezione fatta per l’aspetto omosessua-

Mancano pochi giorni al fatidico 25 luglio e Carlo, giovane sfuggito alla leva grazie ai buoni uffici del padre, si gode il mare al riparo dalla guerra. Ma l’“Estate violenta” del cineasta bolognese non lascia scampo sonale che ci fa scegliere questo passaggio. Per chi i lenti li ha ballati davvero (sigh) sa bene che un ballo del genere non è mai soltanto un ballo. Certo, oggi ci saranno salsa e merengue, ma allora stringere dolcemente una donna al ritmo sincopato di

le che nelle succitate soap non manca mai. Ma per fortuna Estate violenta è di tutt’altro spessore. Se vi dovesse ricapitare di “beccarlo” anche a orari impossibili non fatevelo scappare. Un po’ perché alcune delle scene più importanti si svolgono sulla spiaggia, come ad esempio quella che “racconta”tutto il film: quando il militare scova i due appartati sulla spiaggia e dice loro: «Ma vi siete accorti che c’è una guerra in corso e che la situazione è seria, molto seria?». Poi perché, e sappiamo di dirla grossa, se vi piacciono Antonioni, Visconti e Rossellini, vi piacerà anche, e molto, Valerio Zurlini. Che forse avrebbe solo avuto bisogno di un migliore ufficio stampa.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g e di cronach di Ferdinando Adornato

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FondiFas: da Fitto tormentone per espropriare le Regioni Dopo aver utilizzato i Fas come il bancomat per finanziare varie altre attività, il governo ora ha deciso di svaligiare la cassa, mettendo su un tormentone estivo fondato su malevoli inesattezze, che vedono le Regioni incapaci di spendere quei soldi. Le Regioni hanno respinto tale tesi in modo unitario, contestando i dati forniti dal ministro, che, del resto, lo stesso Cipe non osa definire più che «una prima approssimazione in via di verifica». Ma di fronte a un quadro che rassomiglia più a un’ipotesi che a un fatto, il ministro fa affermazioni perentorie che non riescono a celare la vera intenzione: continuare l’esproprio a danno delle Regioni. Del resto, se il problema era quello di disincagliare i fondi bloccati, le Regioni avevano accettato la sfida, proponendo la costituzione di un fondo unico alimentato dalle risorse regionali e nazionali provenienti dalla ricognizione sul mancato utilizzo da usare mantenendo il vincolo della destinazione territoriale e previa intesa in Conferenza Stato Regioni. Ma il governo non ha accettato questa ipotesi e, a livello di ministeri e direzioni centrali, si accontenta di verificare l’esistenza dei soli impegni di spesa a cui, spesso, non non è seguita alcuna attività.

Vito De Filippo

GENERAZIONE ITALIA Gianfranco Fini è decisamente cresciuto. Politicamente, si intende. Non è più il vecchio missino e postfascista che conoscevamo sino a qualche anno fa, ma il portavoce di una destra che mira ad essere moderna, europea, laica, liberale e forse anche un tantino libertaria. Una destra che guarda a David Cameron e Nicolas Sarkozy: aperta verso le minoranze, gli omosessuali, disposta a dare il voto agli immigrati regolari, ad abolire finalmente le Province e a ridurre la spesa pubblica improduttiva. I sassolini dalle scarpe, Fini ed i suoi di Generazone Italia, se li sono finalmente tolti al punto che sono stati espulsi dal Partito di cui è “padre padrone” il Cav. Silvio Berlusconi, sostenuto dai cortigiani Bondi, Capezzone e Cicchitto. Un partito, il Pdl, che non rappresenta più gli interessi della collettività e che ha rotto da tempo il mandato con i suoi stessi elettori.Tutto come previsto per un partito che, come il suo omologo Pd, non è altro che un cartello elettorale senza storia e cultura. E così ecco aprirsi un varco per i finiani. Un varco che potrebbe vedere la nascita di un nuovo e diverso centro-destra (con il trattino, ben intesi!). Una coalizione che potrebbe vedere protagonisti i finiani, l’Udc, l’Api di Rutelli e Tabacci e noi laici, liberali, repubblicani, radicali e

socialisti sparsi. Una coalizione che potrebbe unirsi da subito attorno a pochi, ma necessari punti programmatici: abolizione delle Province, riforma elettorale con il ritorno alle preferenze, riduzione della spesa pubblica improduttiva e conseguente abbassamento delle imposte ed innalzamento della soglia della no-tax area per favorire i redditi più bassi. Quanto ai temi laici e di diritto civile, si lasci a ciascuno libertà di coscienza in Parlamento: che i laici facciano i laici e che i cattolici giochino la loro parte conservatrice. Ora tutto si giocherà sui numeri e io penso che una coalizione di questo tipo, vista la crisi endemica del Pd e del Pdl, non possa raccogliere meno del 20-25%, e giungere finanche a condizionare gli equilibri politici.

PEDAGGI: LA DECISIONE DEL TAR È UNA BOCCATA D’OSSIGENO La decisione del Tar del Lazio di bloccare l’aumento dei pedaggi autostradali è una boccata d’ossigeno per i cittadini della nostra regione. Il presidente della Regione e il sindaco di Roma avrebbero potuto dimostrare una ben più ferma autonomia rispetto alla folle decisione del governo di tassare migliaia di pendolari. Invece, anche in questa occasione, si sono inginocchiati al volere di sua maestà Tremonti, su-

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e di cronach

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Rascone: uno strano collaudatore SANTIAGO. Un certo Jamie Rascone, ex disc jokey e saltuariamente modello, è stato assunto per fare un lavoro decisamente insolito. Si occupa infatti del “controllo di qualità” in un bordello vip di Santiago in Cile, dove la prostituzione è legalizzata. Rascone è entrato in contatto con la proprietaria della casa di tolleranza, una certa Fiorella Companions, mentre stava scrivendo una storia sulla rivoluzione sessuale nel Paese, quando gli è stato offerto di occuparsi del “colloquio finale” con le ragazze che si propongono per un lavoro. Perché entrare a fare parte delle lavoratrici del bordello di Madame Fiorella sembra tutt’altro che semplice: le candidate sono accuratamente selezionate tramite colloqui, test psicologici, oltre che selezione fotografica. Le cinque o sei che passano queste selezioni vengono poi “testate” da Jamie, che esegue poi un dettagliato e minuzioso rapporto scritto a Madame Fiorella. Naturalmente i test che Jamie Rascone effettua sono tutt’altro che teorici: l’ex modello è sempre attorniato da belle ragazze e, mentre usufruisce delle loro “attenzioni”, prende appunti e dà voti.

Luca Bagatin

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LE VERITÀ NASCOSTE

Nazroo e l’elefante Nazroo, un mahout (“guidatore di elefante”) indiano posa insieme al suo Rajan, sulla spiaggia di Radha Nagar nelle Isole Andaman, un arcipelago che si trova nella Baia del Bengala, tra l’India e il Myanmar.

perministro e nuova bussola politica del centrodestra, senza alzare un dito. I cittadini del Lazio si rincuorino sapendo che a difendere i loro portafogli e i loro diritti non ci sono Polverini e Alemanno ma il Tribunale amministrativo, almeno fino a quando nel nostro Paese sarà garantito lo stato di diritto.

Fabio Nobile

PRIVATIZZAZIONE DI TIRRENIA E SIREMAR Quanta confusione e disinformazione sta caratterizzando il processo in atto di privatizzazione di Tirrenia e Siremar. L’on. D’Agostino, vicecapogruppo all’Ars, accusa il presidente di Confindustria di Palermo, Albanese, di essere in malafede e disinformato, e che farebbe bene a a informarsi meglio prima di affermare che Tirrenia non la vuole nessuno per i suoi debiti e per l’abbondanza di personale. In verità Tirrenia non la vuole nessuno, tranne Mediterranea Holding, il cui azionista di riferimento è la Regione Siciliana, a causa di una gara sbagliata che ha messo assieme due aziende che svolgono tipologie di trasporto completamente diverse tra loro, quali quello esercitato da Tirrenia che svolge collegamenti nazionali e internazionali e può quindi competere nel mercato, e quello di Siremar che invece svolge un servizio di trasporto pubblico locale che deve essere sovvenzionato. D’agostino farebbe meglio a spiegare la ragione per cui il presidente della Regione ha rifiutato di acquisire gratuitamente la Siremar e di volerla invece acquisire, in blocco con Tirrenia, a titolo oneroso. Vale comunque la pena evidenziare che nella new-co appositamente costituita per questa acquisizione non c’è traccia di imprenditori siciliani. L’attuale quota del 37% del pacchetto azionario detenuto dalla regione siciliana potrà scendere per l’interesse già manifestato di imprenditori tunisini, libici e marocchini ad entrare nella cordata.

Marianna Caronia


mondo

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Corruzione. Dalla Fifa agli sponsor: tutti hanno guadagnato dalla World Cup. Ma non gli organizzatori. O meglio, non in via ufficiale

La festa è finita Un mese fa la finale dei Mondiali. Spente le luci, il Sudafrica fa i conti. E non sono buoni di Antonio Picasso n mese fa si chiudevano i mondiali di calcio in Sudafrica e le conclusioni “a caldo”era quasi tutte positive. Oggi, decantata l’euforia delle notti magiche africane, si può tracciare una stima iniziale di quello che la World Cup ha lasciato nel Paese africano. Si può dire chi ci ha guadagnato e chi dall’evento invece non ha tratto i benefici sperati. Nel primo gruppo rientra sicuramente l’intero circo calcistico mondiale. Gli incassi della Fifa hanno superato sensibilmente i 3 miliardi di dollari. È probabile che nemmeno il presidente della federazione, Joseph Blatter, si aspettasse un successo così redditizio. Il bilancio della Coppa del mondo in Germania, nel 2006, si era fermato a 2 miliardi. A Zurigo avevano pensato che ci si sarebbe attestati su quella cifra. L’utile maggiorato è giunto grazie a un’accorta politica di accorpamento degli sponsor, distinti in tre gruppi: Fifa partners, World cup sponsors e National sponsors. I primi sono stati limitati a un massimo di sei (Adidas, Coca Cola, Hiunday, Emirates Airlines, Sony eVisa), non più quindici come quattro anni fa. Da soli hanno sostenuto la manifestazione investendo ciascuno tra i 24 e i 44 milioni di dollari.

U

totale di 647 milioni. Sky e la China Central Television hanno fatto da padroni. Da questo iperbolico giro di affari hanno tratto guadagno anche le singole squadre nazionali. Francia e Italia, eliminate ancora ai gironi, sono tornate a casa con 6,4 milioni di dollari. La Spagna si è accaparrata la coppa e 25 milioni. La torta di benefit non finisce qui. Le squadre di club infatti - le prime a lamentarsi delle competizioni internazionali in

in pieno contrasto con la crisi della finanza globale. Per il Sudafrica invece lo scenario si presenta incerto. A margine della finale Spagna-Olanda, Blatter aveva dichiarato: «La Fifa non è un circo. Non siamo venuti in Sudafrica a montare lo spettacolo, a divertirci, e poi tanti saluti. No, la Fifa non si comporta così. Non dimenticheremo il Sudafrica». Parole che dovrebbero far sperare in un sostegno da parte delle autorità calcistiche internazionali in favore della città di Durban candidata alle olimpiadi del 2020. Una competizione che si presenta difficile già ora. La città sudafricana si confronterà con “mostri sacri” dei grandi eventi, quali Roma e Tokyo, ma anche con new entry che non vogliono lasciarsi sfuggire un’occasione del genere per rifarsi il trucco, è il caso di Istanbul, Madrid e New Delhi. La coppa del mondo è stata fortemente voluta nel Paese di Mandela per celebrare i vent’anni dalla fine dell’apartheid e, in proiezione futura, per lanciare il continente nel circuito della globalizzazione.Tuttavia, al di là del tormentone di Shakira, Waka

Il regalo più bello, in termini di introiti, è arrivato dai diritti televisivi, venduti per un totale di 647 milioni. Sky e China Central Television hanno fatto la parte del leone

Nelle altre categorie erano classificati i finanziatori disponibili per cifre relativamente minori: dai 7 ai 25 milioni di dollari a testa. Il regalo più bello per il calcio mondiale è arrivato però dai diritti televisivi, venduti per un

quanto metterebbero a rischio le gambe dei propri giocatori - hanno ottenuto un cachet di 41mila euro per ogni singolo “dipendente”convocato. La Juventus, con i suoi 15 giocatori reclutati nelle varie federazioni, è il club che ha dato il maggior contributo ai mondiali e per questo ha ricevuto una copertura di 615mila euro. Altro che crisi del calcio, quindi! Il suo stato di opulenza è

Waka - This time for Africa», dice la cantante colombiana - sembra che Johannesburg non stia cogliendo l’opportunità per consolidare la sua posizione economica e fare da traino all’intero continente. Già due anni fa, la Fifa aveva mostrato l’intenzione di togliere il progetto “World cup 2010” al Sudafrica e assegnarlo all’ultimo minuto alla Germania, oppure alla Gran Bretagna. Gli osservatori stranieri criticavano la lentezza dei lavori nella costruzione dei cinque stadi che poi hanno ospitato il torneo.

Il governo di Johannesburg ha mantenuto gli impegni presi con la federazione, a costi inimmaginabili però. Le casse dello Stato sono state svuotate di 4,3 miliardi di dollari, una spesa pari all’1,7% del pil nazionale. La storia del calcio non annovera un precedente così oneroso per un Paese ospitante. Peraltro gli investimenti inizialmente previsti erano sei volte inferiori a questi. Evidentemente Johannesburg ha sbagliato i calcoli sia nello sforzo economico sia nella tempistica. Le sue speranze di colmare le spese erano riposte nella vendita dei gadget durante la manifestazione. Gli spettatori negli stadi sono stati però solo 3,1 milioni, contro i 3,3 di Germania 2006. I prezzi dei biglietti, delle strutture alberghiere e del

materiale venduto sono apparsi eccessivi. Le vuvuzela, sulle quali Johannesburg ha anche cercato di porre il brevetto internazionale, costavano ben 7 dollari al pezzo. Troppo, se si considera che la medesima trombetta, seppure made in China, si trovava allo stesso prezzo anche in Italia. E nemmeno il mercato nero dei “bagarini” è riuscito a colmare il buco nelle vendite. Il regime di sicurezza prevedeva infatti non solo il controllo per i possibili attentati, ma anche il divieto di circolazione di venditori ambulanti non autorizzati. Turisti e osservatori stranieri si sono lamentati anche della totale inefficienza nei trasporti pubblici e nel contenimento del traffico. Per i tifosi europei, abituati a uscire dallo stadio e tornare velocemente a casa, è apparso inconcepibile il fatto che il terzo fischio conclusivo di ogni match segnasse l’inizio di un viaggio della speranza, per raggiungere gli alberghi. Molti turisti hanno affittato una macchina, per sentirsi liberi di circolare anche a notte fonda per le strade di Johannesburg. Dopo ogni singola partita però è stata calcolata una media di quattro ore di coda per uscire dalla zona degli stadi e raggiungere gli hotel. Peraltro, considerando l’elevato tasso di criminalità che grava sul Paese, le notti brave sognate da ogni singolo supporter sono rimaste


mondo

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Jackie Salebi è stato condannato a 15 anni per tangenti

E il capo della polizia finisce in prigione iolenza e corruzione sono le due piaghe che il Sudafrica post-apartheid sta affrontando. All’inizio di agosto l’ex comandate della polizia sudafricana, Jackie Selebi, è stato condannato a 15 anni di carcere per aver accettato tangenti dal boss mafioso Glenn Agliotti. Selebi è stato uno dei più stretti collaboratori di Mandela. Impegnato nella campagna dei diritti umani già dall’inizio degli anni Ottanta, ha vissuto in esilio fino al 1991. Eletto in Parlamento per l’Anc, ha scalato la china del potere della sicurezza nazionale. Nel 2000 è stato nominato alla guida dell’Interpol. Nel frattempo non ha rifiutato amicizie compromettenti. Così come non ha saputo contenere la violenza dilagante nel Paese. Da un recente rapporto della Polizia di Johannesburg è emerso che il Sudafrica sarebbe fiaccato da cinquanta omicidi al giorno. Il tasso di criminalità è legato alla mancanza di controllo da parte delle autorità e al sistema di giustizia personale adottato ormai da molti cittadini. «Stiamo lavorando su entrambi i fronti», ha dichiarato il procuratore Kevin Malunga, dopo la sentenza inflitta a Selebi. Con il passaggio di consegne dal governo razzista di eredità boera a quello guidato dall’Africa National Congress (Anc) di Nelson Mandela, il Paese ha subito una radicale mutazione. Sono venuti alla luce i mali che il prece-

V

insoddisfatte. Si era pensato poi che il know how fornito dalla Fifa per l’organizzazione avrebbe sopperito alle mancanze del Paese. In realtà lo sbarco di consulenti stranieri è stato accolto come l’ennesimo tentativo di colonizzazione economica del Sud Africa. Il governo di Johannesburg aveva sperato in un generoso appoggio da parte della BpAfrica, la filiale della compagnia petrolifera britannica operativa sul continente. Adesso però si teme che la crisi della marea nera giunga anche in Africa e provochi un taglio radicale alle spese

“non essenziali”. In tal caso la coppa del mondo, a giochi fatti, si troverebbe orfana di un importante National sponsor. Dal momento dell’assegnazione dei mondiali al Sudafrica, nel maggio 2004, sono stati realizzati cinque nuovi stadi - due a Johannesburg e uno rispettivamente a Città del Capo, Durban e Pretoria. Gli impianti sono stati aggiunti ai sette già esistenti. Con questi progetti fra le mani, si era sperato di porre un freno al tasso di disoccupazione nazionale.

Tuttavia, mentre questa nel 2008 era pari al 22,9%, l’anno successivo è arrivata al 24%. Nel solo mese di luglio 2010 pare che sia aumentata ancora dello 0,1%, in seguito alla chiusura della manifestazione e alla mancanza di utilità dei servizi offerti. Ne è conseguito un clima di insoddisfazione generale, dovuto anche all’insolvenza degli stipendi da parte delle numerose società impegnate nell’avvenimento. L’insoddisfa-

dente regime era riuscito a tenere nascosti. L’indigenza della popolazione sub-urbana e la generale arretratezza economica sono apparse improvvisamente agli occhi del mondo occidentale.

Il Sudafrica dell’apartheid non era quella Svizzera africana che, pur ingessata nel suo turpe razzismo, era apparsa per decenni. Probabilmente nemmeno Mandela e la sua corte si aspettavano tante difficoltà. Il

problema non va visto come la conseguenza della emarginazione della minoranza bianca e la presa di potere di un establishment incompetente. L’Anc era composto, come lo è tuttora, da validi elementi, educati e forgiati alla amministrazione di uno Stato secondo i canoni occidentali. Tuttavia così come sono state trasmesse le buone istruzioni, altrettanto sono sbarcate a Johannesburg le pessime abitudini. (a.p.) A sinistra: donne sudafricane in vestito tradizionale durante i mondiali sudafricani; foto grande: la Spagna alza la coppa del mondo dopo aver vinto la finale contro l’Olanda. È l’11 luglio 2010. Foto piccole, in senso orario: Joseph Blatter, padre padrone della Fifa; Nelson Mandela nella sua apparizione allo stadio di Johannesburg e Jackie Salebi, l’ex comandante della polizia

zione è degenerata in uno sciopero di massa il 16 luglio scorso. Almeno 15mila ex responsabili della sicurezza hanno sfilato nelle vie di Johannesburg accusando Blatter e la federazione di sfruttamento del lavoro. Il loro slogan è stato semplicemente «Fifa Mafia!». La protesta è stata organizzata con il placet del Congress of South African Trade Unions e del South Africa’s Transport and Allied Workers’Union, i due maggiori sindacati del Paese, peraltro vicini al partito di governo, l’Africa National Congress. I manifestanti hanno contestato all’organizzazione il fatto di essere stati costretti a turni di lavoro superiori alle 15 ore, per una paga mensile di 24 dollari circa. «Il contratto firmato invece ne prevedeva 194!» Hanno dichiarato alcuni scioperanti.

Resta da chiedersi allora se il campionato in Sudafrica non sia stato un buco nell’acqua, un po’ come Italia ’90. La differenza è che nel nostro Paese il calcio ha conservato quella sacralità collettiva che invece è difficile da riscontrare presso l’opinione pubblica sudafricana. Qui, per quanto gli sprechi e il giro di corruzione fecero da volano per Tangentopoli - scattata solo due anni dopo - gli stadi non si sono trasformati in cattedrali nel deserto. In Sudafrica questo rischio c’è, eccome. Lo sport nazionale è il rugby, per il quale le strutture del Paese sono più che efficienti. E, sebbene venga visto come l’ultimo retaggio dell’apartheid, la nazionale sudafricana di rugby a 15 ha vinto due delle sei edizioni svolte della coppa del mondo, nel 1995 e nel 2007. Superando i confini dello sport, si è detto che il calcio dovrebbe fare da volano per il Paese, il quale a sua volta potrebbe trainare l’intero continente verso un livello di sviluppo mai vissuto dall’Africa prima d’ora. Il progetto appare difficile però. Sono molte le nazioni che hanno sperato di risolvere i propri problemi lasciandosi prendere dall’entusiasmo di una manifestazione sportiva. Italia ’90 e Atene 2004 insegnano. Johannesburg, prima di dichiararsi economicamente in crescita e accollarsi la responsabilità di traghettare l’Africa verso un futuro migliore, deve risolvere la questione di un 50% della sua popolazione che vive sotto la soglia di povertà. Deve creare una classe dirigente nazionale che sia immune dal circuito di corruzione in cui sta affondando. Infine bisogna che blocchi la violenza che permane nelle bidonville.Tutto questo non perché Durban possa ospitare le olimpiadi fra dieci anni, bensì per dimostrare che il nuovo Sudafrica di Nelson Mandela non si è limitato a emancipare la popolazione di colore. Il passo di allora fu storico, senza dubbio. Doveva essere il primo di tanti però. I mondiali invece sembrano aver celato un sostanziale immobilismo del Paese.


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Bulgaria. È scontro aperto fra potere esecutivo e potere giudiziario SOFIA. In Bulgaria «lo stato è impotente contro il suo stesso sistema giudiziario». Questo l’amaro commento del ministro degli Interni Tzvetan Tvetanov all’annuncio che il tribunale di Sofia ha deciso in appello di liberare quattro dei cinque arrestati durante l’operazione “i killer”, realizzata da polizia e procura il 23 luglio. L’operazione, con arresti e perquisizioni a tappeto in tutto il paese, aveva portato dietro le sbarre i presunti responsabili di almeno sei omicidi eccellenti. Tra questi quello del controverso businessman e presidente del “Rilski Sportist Football club”,Yuri Galev, freddato a fine giugno. Per la prima volta «assistiamo ad un’operazione in grado di sgominare un gruppo criminale dal mandante all’esecutore», aveva dichiarato con orgoglio alla stampa il premier Boyko Borisov. «È un successo che dà speranze», frutto del lavoro «giorno e notte» degli inquirenti e della «buona coordinazione tra le istituzioni», aveva aggiunto Boyko Naydenov, vice capoprocuratore. Nei giorni seguenti erano addirittura circolate voci secondo cui “i killer” stavano preparando un attentato allo stesso Borisov, su richiesta del narcoboss serbo Sreten Josi\u0107, arrestato in Bulgaria quando l’attuale premier era a capo della polizia. Nonostante tutto, però, i magistrati del tribunale di Sofia hanno ritenuto gli indizi collezionati dalla polizia assolutamente insufficienti a provare il castello accusatorio e a giustificare la detenzione degli accusati. Uno solo tra i sospetti, nella cui abitazione la polizia ha rinvenuto un kalashnikov, è rimasto in carcere. Borisov ha criticato aspramente la decisione del tribunale, chiedendo di accelerare sulla riforma del sistema giudiziario. «Non ci fermeremo», ha detto il premier, annunciando poi che tutta la documentazione sui casi viene tradotta in inglese per essere spedita all’Europol e all’FbI «per sapere se, secondo loro, le prove raccolte sono sufficienti o meno». I magistrati non hanno tardato a rispondere agli attacchi dell’esecutivo. «Durante l’indagine non è stata trovata l’arma dell’omicidio. Mancano riscontri materiali. L’unica prova addotta sono conversazioni telefoniche da schede di cui non è stata provata la proprietà da parte degli accusati», ha dichiarato Hristina Mihova, uno dei giudici responsabili della decisione del tribunale. Le polemiche sull’operazione “i killer” riacutizza lo scontro tra potere esecutivo e giudiziario in Bulgaria. Da anni polizia e giudici si accusano a vicenda della scarsa efficacia della lotta

«Uccideremo il premier» ma vengono liberati L’ira di Borisov contro i magistrati, che dicono: «Qui la mafia non c’è» di Francesco Martino

L’operazione, con arresti in tutto il Paese, aveva portato dietro le sbarre i presunti responsabili di almeno sei omicidi eccellenti alla criminalità organizzata. Fu proprio Boyko Borisov, ai tempi del suo mandato come capo della polizia a denunciare: «Noi (la polizia) li prendiamo, loro (i giudici) li rilasciano». I magistrati, a loro volta, accusano la polizia di raccogliere indizi scadenti, spesso violando le norme.Tutte prove deboli o inutilizzabili in tribunale.

Oggi, però, lo scontro assume un significato ancora più vasto, vista la centralità delle operazioni di polizia per il governo Borisov. Il “generale” (uno dei soprannomi del pre-

mier) ha vinto le elezioni dell’anno scorso promettendo lotta senza quartiere alla criminalità e alla corruzione. E in questi mesi la pressione sul ministero degli Interni per ottenere risultati tangibili si è fatta sentire. Alcuni successi sono innegabili. Dopo l’operazione “gli sfacciati”il fenomeno dei rapimenti a scopo di estorsione sembra essere scomparso. Per la prima volta sono arrivate dure condanne a responsabili di truffe sui fondi comunitari, come quella al businessman Mario Nikolov, condannato in primo grado a do-

dici anni di reclusione. Tutti elementi colti dal rapporto semestrale dell’Ue pubblicato a luglio, in cui si sottolinea che «per la prima volta si registrano azioni efficaci contro la criminalità organizzata». Il ministro Tzvetanov, anche lui cresciuto politicamente all’ombra di Borisov nelle fila della polizia, raccoglie costantemente i maggiori indici di gradimento nell’opinione pubblica. A un’analisi più approfondita, però, la linea dura del governo presenta molti punti deboli. Le numerosissime azioni di polizia, sempre contrassegnate da fantasiosi nomi in codice (“gli sfacciati”, “la piovra”, “i coccodrilli”) spesso sembrano essere realizzate più a beneficio dei media che della legalità. L’esempio più lampante risale al-

lo scorso aprile, ad esempio, quando l’ex ministro della Difesa Nikolay Tzonev, accusato di corruzione, veniva arrestato in ospedale e trascinato via in manette, mentre un poliziotto puntava la pistola e il procuratore a capo dell’operazione gli gridava «In ginocchio, sei un criminale!». Tzonev, in attesa di giudizio, ha intanto deciso di fare ricorso al tribunale di Strasburgo per il trattamento subito durante l’arresto.

Altre operazioni di polizia hanno mostrato un atteggiamento a dir poco superficiale. Come quella dello scorso 23 luglio a Kardzhali, nel sud-est del paese, quando una squadra speciale fa irruzione “per sbaglio” (e senza mandato) in casa della famiglia Mustafov, in cerca di prostitute, picchiando alcuni membri della famiglia. «Nelle indagini più complesse, mancano spesso una direzione chiara e un obiettivo definibile, le procedure sono formali, lunghe e spesso naufragano in tribunale», recita un altro passaggio del recente rapporto semestrale Ue, mettendo in luce un giudizio complessivo fatto non solo di luci, ma anche di ombre. Non che il sistema giudiziario sia al riparo da critiche, anche pesanti. L’anno scorso l’enorme scandalo sorto intorno alla figura di Krasimir Georgiev (meglio noto come Krasjo “il Nero”), lobbysta oggi sotto processo per falsa testimonianza, ha posto seri dubbi che giudici presenti negli organismi direttivi della magistratura bulgara abbiano potuto comprare le proprie posizioni. Anche dichiarazioni come quella del giudice Maria Miteva, uno dei magistrati responsabili della scarcerazione dei “killer” lasciano perplessi. «Ritengo che in Bulgaria non esista alcuna mafia», ha dichiarato la Miteva. «Siamo una nazione troppo piccola, non ci sono le risorse per creare una vera criminalità organizzata». Una teoria sorprendente, vista la lunga scia di omicidi e reati commessi nel paese dall’inizio della transizione. In ogni caso, il governo non può agire al di fuori della legalità, e la risposta non può venire da pressioni dirette sul potere giudiziario. La tanto attesa riforma giudiziaria è una necessità reale, sottolineata anche dai rapporti dell’Ue. Nel frattempo, però, polizia e procura non possono agire al di fuori del quadro della separazione dei poteri. Altrimenti, come ha scritto recentemente l’Economist, i cittadini bulgari potrebbero davvero pentirsi di aver ottenuto lo “stato forte” che avevano chiesto col loro voto a Boyko Borisov. © Osservatorio Balcani e Caucaso


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11 agosto 2010 • pagina 21

Battaglia per togliere dal sito i nomi dei collaborazionisti afghani

Russia, l’emergenza continua. Danni per 15 miliardi di dollari

Wikileaks: la strana alleanza fra Amnesty e il Pentagono

Mai così bassa la popolarità di Putin e Medvedev

KABUL.

Cinque Ong si sono unite alla richiesta del Pentagono e hanno scritto una lettera al fondatore di Wikileaks chiedendo di rimuovere dalla documentazione segreta sull’Afghanistan pubblicata online i nomi degli afghani che hanno collaborato con gli occidentali, la cui vita potrebbe essere ora a rischio. Amnesty International, Campaign for Innocent Victims in Conflict, Open Society Institute, Afghanistan Independent Human Rights Commission e il Kabul office of International Crisis Group, stanno facendo pressioni su Julian Assange perché cancelli dalle migliaia di documenti pubblicati i nomi di altrettante migliaia di persone di nazionalità afghana che hanno collaborato con le Ong stesse o i soldati della coalizione internazionale. Svelandone l’identità, si mette evidentemente a repentaglio la loro vita. Anche perché gli stessi Taliban, attraverso i loro portavoce, hanno fatto sapere pubblicamente che sono alla ricerca dei documenti e pianificano di punire i “collaborazionisti”.

La lettera inviata dalle 5 organizzazioni a Wikileaks ha innescato un teso scambio con il fondatore del sito, Julian Assange, che a sua volta ha sfidato le Ong chiedendo loro di dargli una mano a rimuovere i nomi dalle mi-

MOSCA. La nuvola di fumo che

Tutte le feste (e le fiction) del Ramadan Il mese sacro è anche un volano per il turismo di Rossella Fabiani edici ore al caldo senza mangiare né bere per 28 giorni: anche per questo, secondo un’espressione in voga tra i musulmani, digiunare al caldo di agosto vale doppio. È tempo di Ramadan e dall’Iraq alla periferia della Cina, passando per il Nordafrica, il Medio Oriente e il Golfo e senza dimenticare l’Europa e le Americhe, milioni di fedeli quest’anno faranno uno sforzo maggiore per assolvere uno dei cinque pilastri della loro fede. «Abbiamo esaurito ogni tipo di condizionatore d’aria e stiamo aspettando nuove forniture», ammettono sconsolati da Khoury Home, una delle catene di negozi di elettrodomestici più diffusa in Libano. Nel Paese dei Cedri, così come in tutto il Medio Oriente, l’inizio di agosto è coinciso con l’arrivo di un’ondata di calura con temperature che nelle località più fresche hanno superato i 40 gradi. Oggi è previsto l’inizio del Ramadan, ma bisogna attendere il verdetto degli imam-astronomi che scruteranno di nuovo il cielo, per sapere con certezza se gli sciiti e i sunniti cominceranno il sacro mese nello stesso giorno oppure, come spesso accade, con circa 24 ore di differenza. In ogni caso, per quattro settimane, nelle sedici ore che separano l’iftar (la quotidiana rottura del digiuno al tramonto) e l’imsak (la quotidiana ripresa del digiuno all’alba), i fedeli dovranno astenersi non soltanto da cibo e acqua, ma da ogni attività considerata illegale: avere rapporti sessuali, fumare, discutere in modo violento o volgare, avere pensieri maliziosi. E se si ha caldo sarà vietato persino tuffarsi al mare e in piscina, perchè l’acqua potrebbe entrare nel corpo dalle orecchie. Rinfrescata la casa con ventilatori e condizionatori, per un mese si potrà invece fare festa dal tramonto all’alba, ingozzandosi di dolci e di pietanze tradizionali, scambiandosi regali, ricevendo e facendo visite a familiari ed amici, ma anche gustandosi le attese nuove serie televisive che da anni sono trasmesse dalle tv satellitari arabe proprio durante il Ramadan. Bab al Hara, sceneggiato a sfondo storico ambientato nella Siria sotto mandato francese, è forse il sequel

S

più seguito che da quattro anni tiene incollati agli schermi milioni di persone, dalle baracche dei campi profughi palestinesi ai più esclusivi club di Dubai. Gli farà concorrenza la terza stagione di Sharr an Nufus, mentre su Dubai tv torneranno le puntate dell’animazione per grandi e piccoli Freej ambientata in un quartiere della metropoli del Golfo.

Per chi spera che le ore notturne siano rinfrescate da brezze provenienti dal mare, le principali capitali arabe propongono un ricco panorama di festival culturali: al Cairo, il ministero del Turismo ha promosso quest’anno il Festival delle Lanterne, simbolo del mese sacro perché ricorda la lanterna usata da coloro che erano un tempo addetti a svegliare, a colpi di tamburo, i fedeli prima dell’alba. Dai fuochi d’artificio e dalle danze folcloristiche lungo il Nilo ai concerti e alle rappresentazioni teatrali del festival di Sharja, negli Emirati Arabi Uniti, che si svolgerà interamente in locali al chiuso e rinfrescati. Il Ramadan non è però soltanto un momento di riflessione e di condivisione, ma anche un’occasione per rilanciare il turismo. Ed è proprio per attirare cittadini arabi in Egitto durante il mese sacro di digiuno che il ministero del Turismo ha lanciato il Festival del Fanous (la tradizionale lanterna che in questo periodo non manca mai nelle case e per le strade egiziane). I festeggiamenti sono stati inaugurati da feluche adornate dalle tradizionali luminarie che hanno invaso il Nilo oltre che da fuochi d’artificio di benvenuto al “giorno del dubbio”, il giorno in cui viene avvistato il primo quarto di luna crescente che dà inizio al mese di digiuno. Tra le tante iniziative previste per convincere i turisti arabi - in particolare provenienti dal regno saudita, gli Eau e il Kuwait - a scegliere di passare nel Paese un periodo come questo considerato di festa: danze, spettacoli ambientati tra l’altro nella Cittadella di Saladino, ma anche decine di manifestazioni all’aperto e iftar luculliani.

Per sostenere i più poveri, privati e associazioni egiziane, hanno previsto 14mila iftar per 2 milioni di indigenti

gliaia di documenti in suo possesso. Mossa poco intelligente, secondo gli osservatori, perché rischia di isolare Wikileaks dai suoi più naturali alleati nella scottante vicenda. In ogni caso, Amnesty ha risposto all’invito, ma con un secco «No» in nome delle risorse limitate della Ong. Ad oggi, Wikileaks ha pubblicato 76mila documenti e ha in programma di tirarne fuori altri 15mila sulle attività militari e civili in Afghanistan. E ieri ha postato su Twitter una piccata nota: «Il Pentagono vuole la nostra bancarotta rifiutandoci assistenza nella redazione dei documenti. I media non se ne prendono la responsabilità. E nemmeno Amnesty. Che fare?».

ha asfissiato Mosca per una settimana è stata leggermente dissipata dal vento che ha migliorato la visibilità, mentre la temperatura è scesa di qualche grado, attestandosi però sempre sopra i 30 gradi. L’aria, ricordano le autorità sanitarie, resta tuttavia fortemente inquinata e l’emergenza è tutt’altro che finita. Il bilancio delle vittime si aggrava e le autorità temono epidemie. Emergenza terminata, invece, all’impianto di trattamento e stoccaggio di rifiuti nucleari di Mayak, vicino alla città di Ozyorsk, dove i pompieri sono riusciti a domare le fiamme che da ieri minacciavano la centrale. La situazione nel paese rimane però ancora molto difficile con

550 incendi ancora in corso, di cui 70 di grande entità, secondo i dati dell’agenzia stampa Interfax. Ieri sono morti un volontario e un soldato mentre tentavano di spegnere le fiamme attorno all’impianto di ricerca nucleare di Sarov, a 500 chilometri a est della capitale, dove sono impegnati ancora 800 uomini.

Cominciano intanto a cadere le prime teste: dopo il siluramento dei vertici militari, ieri il ministro dell’Agricoltura ha licenziato Sergei Gordeichenko, capo dell’amministrazione forestale di Mosca, fortemente criticato dal presidente Medvedev. Che certamente non se la sta passando bene: la sua popolarità, assieme a quella del premier Vladimir Putin, è in caduta libera. Solo il 52 per cento degli intervistati in una ricerca dell’istituto Fom di cui dà notizia Vedemosti si dicono soddisfatti del lavoro svolto dal capo del Cremlino (erano il 62 per cento lo scorso gennaio) mentre ad apprezzare l’opera del premier sono il 61 per cento (erano il 69 per cento all’inizio dell’anno). Sono i peggiori dati negli ultimi quattro anni. Per l’istituto di ricerca Wziom, l’indice di popolarità di Medvedev è sceso dal 44 per cento al 39 per cento nello stesso periodo, e quello di Putin dal 53 per cento al 47.


cultura

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Versi in rosa. Quello che le donne dicono: da Iman Mersal a Joumana Haddad, passando per Maram al-Masri

Velo, amore e fantasia Viaggio letterario nel mondo delle scrittrici e delle poetesse arabe contemporanee di Francesco Napoli irginia Woolf in fatto di scrittura al femminile un po’ se ne intendeva. Nel cuore dell’Inghilterra vittoriana era l’anima gentile del cosiddetto gruppo di Bloomsbury, a prevalente se non esclusivo dominio maschile. Ebbene, tra il serio e il faceto, era solita affermare che una donna per scrivere aveva bisogno di un luogo a parte che non fosse la sua abitazione. E forse perché anche nell’avanzata e civilissima Inghilterra di allora bisognava scindere la figura sociale più solitamente riconosciuta della donna con quella comunque un po’ stravagante della intellettuale e scrittrice.

V

Oggi spesso nel mondo musulmano questo luogo differenziato le donne lo trovano all’estero, lontano dalle più retrograde abitudini dei loro Paesi d’origine. Ma allora le donne arabe scrivono? Stando allo studio del 1999 di Joseph Zeidan, Bibliografia della letteratura femminile nel mondo arabo moderno. 1880-1996, si contano ben 1271 voci, alias 1271 scrittrici. Ma al di là del numero, è il ruolo femminile nella letteratura a essere alquanto sorprendente. A cominciare da quella che, almeno per il mondo occidentale, può essere considerata la prima narratrice di cultura araba: Shahrazad che con il suo racconto a catena riesce ad avvincere il sovrano e così a scampare da morte sicura. All’eroina femminile delle Mille e una notte s’approssima Lilith, figura della tradizione mesopotamica, la prima ribelle di quel mondo, nella tradizione ebraica cacciata dal Paradiso terrestre e trasformata in demone che tormenta il sonno dei bambini maschi, e simbolo della rivoluzione femminile allo strapotere dell’uomo. Mi permetto un piccolo intermezzo,

seppur tutto maschile, ricordando come a una sorta di Lilith si sia richiamato di recente Adonis, uno dei più grandi poeti siriani viventi, con il suo Storia lacerata nel corpo di una donna (Guanda). Dal tono epico e drammatico, quest’opera si anima nella voce di una donna, Hagar, schiava e concubina poi ripudiata di Abramo, che eleva il suo canto parlando di sé con una energia lirica straordinaria. Persuasivo Adonis nell’incarnarsi nel cuore della donna e nello scrivere versi al femminile che glorificano l’amore come potenza eversiva contro ogni rigidità di poteri, religioni e dogmi. Ma lo so, alle scrittrici arabe tutto questo non piace. Hanno lottato per far sì che dei sentimenti femminili fossero le donne stesse a scriverne, così come ha saputo rilevare Valentina Colombo in due importanti antolo-

gie: di poetesse arabe (Non ho peccato abbastanza) e di scrittrici della medesima area culturale (Parola di donna, corpo di donna). Il ritorno di Lilith (L’asino d’Oro edizioni) è l’emblematico titolo dell’ultima raccolta di versi di Joumana Haddad, giovane ed emergente poetessa di Beirut, apparsa in Italia. Il tema è analogo a quello riscritto da Adonis, ma la Lilith di Joumana Haddad viene ad assurgere a massimo emblema dell’emancipazione femminile, della donna che prende in mano il proprio destino a dispetto dell’oligarchia maschilista della cultura araba. «Hanno costruito per me una gabbia affinché la mia libertà/ fosse una loro concessio-

Troppo spesso, nel mondo musulmano, anche le più brillanti autrici trovano l’affermazione personale per lo più all’estero, cioè molto lontano dalle più retrograde e per loro frustranti abitudini dei propri Paesi d’origine

ne/ e ringraziassi e obbedissi». Ma a ringraziare e obbedire la Lilith della Haddad neppure ci pensa, va per la sua strada, fino all’inferno demoniaco se si vuole, ma non si assoggetta in nessuna maniera all’uomo. Chi conosce la personalità prorompente di Joumana Haddad comprenderà come l’io poetico così prevalente nella sua poesia altro non sia che il rispecchiamento delle sue ferme convinzioni circa il ruolo femminile nel mondo arabo. Oltre a Joumana Haddad a farsi paladine di questa lettura di Lilith sono l’egiziana Iman Mersal e la siriana Maram al-Masri. Nella prima, residente in Canada, per non

smentire l’assunto della Woolf, si può ritrovare una scrittura che si svincola dall’oppressione prestabilita sublimando sul piano linguistico una morale mai accettata: «Mi sembra di avere ereditato i morti/ E un giorno/ Siederò da sola al caffè».

Quando poi indugia sulla relazione tra uomo e donna, Iman Mersal lo ritrae con una connotazione violenta e negativa quasi come se fossero ormai distanti il femminile e il maschile di un mondo in disgregazione nonostante le apparenze: «Della nostra giornata insieme,/ metto il cestino fuori della porta/ per dimostrare ai vicini che ho una famiglia tranquilla». Al pari anche Maram al-Masri (1962), siriana, non vive più nel suo Paese bensì in Francia. Con Ciliegia rossa su una piastrella bianca del 1977 ottiene anche nel pigro occiden-

te editoriale un successo di rilievo. Il linguaggio, diretto e sensuale, è la cifra più evidente dei suoi versi. Non rinuncia a certe atmosfere tutte orientali o a ritratti lievi e densi di sensualità; non rinuncia alla passionalità della poesia d’amore chiudendo la raccolta con scabri quanto sintomatici versi di gioiosa perentorietà («ogni volta che un uomo/ mi abbandona/ divento più bella»). Ma è il suo procedere per immagini talvolta stranianti che ne fanno una delle voci più interessanti e in maggior evidenza della poesia araba tout court. «Abbiamo volti/ che portiamo sulle spalle/ sulle carte d’identità/ nelle foto ricordo». Principia con la quartina appena citata Ti guardo, l’ultima raccolta apparsa in Italia per la meritevole azione di Multimedia edizioni, tradotta dall’arabo da Marianna Salvioli e impreziosita proprio dai caratteri arabi a pie’ di pagina, e introdotta da Giuseppe Conte che di poesia orientale se ne intende. Conte invita il lettore «a immergersi in questo libro come se fosse una fontana, una di quelle fontane sacre in cui gli antichi amavano pensare di potersi purificare e di celebrare un rito di rinascita» per affrontare, spogli d’ogni prevenzione, versi di suadente quanto naturale essenzialità. Detto qui a parte dell’al-


cultura

11 agosto 2010 • pagina 23

La prosa ritmicamente persuasiva della famosa poetessa sirio-libanese

Il “tempo” senza fine di Etel Adnan

Arriva da Multimedia edizioni la raccolta di pensieri e suggestioni “Nel cuore del cuore di un altro paese” eirut e Damasco, paesaggi della mia infanzia, rappresentano due poli, due culture, due mondi diversi, e io li amo entrambi». Così in una recente intervista Etel Adnan, scrittrice e pittrice, nativa della capitale libanese, con padre siriano musulmano e madre greca cristiana: come dire un laboratorio di cultura dal vivo tutto mediterraneo. E sulla dualità sembra costruirsi buona parte del suo percorso artistico: adozione bilingue, francese e inglese, per la scrittura, fatto salvo poi la convinzione di dipingere in arabo; Parigi, dove completa nell’immediato secondo dopoguerra la formazione universitaria, e California, a Sausalito, dove risente in qualche misura della poetica della Beat Generation, subendo anche lei il fascino della commistione parola-musica di un Allen Ginsberg e riprendendo da quell’area culturale anche un’accentuata predisposizione all’autoironia; due le sue residenze, Parigi e California, per l’appunto, fatto salvo un cordone ombelicale mai spezzato con la nativa Beirut.Vi tornerà infatti negli anni Settanta, giornalista culturale, vivendo nel suo paese un clima del tutto particolare. Beirut, infatti, ai tempi aveva una sua immagine ben affermata nel mondo, anche in occidente. Una realtà, quella libanese di allora, fatta di contraddizioni fortissime, eccitante e dolorosa come l’ha definita la stessa Etel Adnan, paradiso per tanti faccendieri, rifugio per ogni sorta di ideologia politica e, allo stesso tempo, crogiuolo esplosivo di ogni tensione allora pronta ad esplodere. «Ero abituata a un mondo ora remoto e, allo stesso tempo, mi stavo abituando a un mondo nuovo che era anche il mio vecchio mondo, e da qualche parte, nel profondo, ero estranea ad entrambi», e proprio per ritrovare una smarrita dimensione d’appartenenza, seppur al minimo livello, che Etel Adnan ha rimesso ordine nel suo animo ricomponendo una sorta di zibaldone di pensieri che nei suoi tanti anni raminghi è andato liberamente componendosi. Nasce da questa spinta Nel cuore del cuore di un altro paese (Multimedia edizioni, 120 pp., 15 euro), tradotto con scrupolosa attenzione da Raffaella Marzano che firma con Sergio Iagulli anche la curatela del volume. E zibaldone appare certo la definizione formale più adatta a questo quaderno in sette parti dove la poetessa sirio-libanese ha appuntato riflessioni e considerazioni delle più varie con una prosa ritmicamente persuasiva.

«B

tra siriano-libanese, Etel Adnan, c’è da osservare come in queste aree del mondo arabo appena ricordate nella voce di alcune poetesse ci si può attendere anche in Occidente una spinta in controtendenza rispetto la tradizione anche letteraria dei loro paesi.

Appare invece più importante la lotta condotta da Fawziyya Abu Khalid nell’Arabia Saudita di ideologia wahhabita, una terra, quella saudita per l’appunto, nella quale si può anche dire che le donne non esistono. Ha dovuto pubblicare le sue prime raccolte a Beirut e non nel suo Paese natale, ma la sua azione poetica e sociale si è spinta fino al punto di essere duramente attaccata dalla letteratura ultraconservatrice dell’Arabia. Non solo non poteva e non doveva scrivere versi, ma non doveva minimamente pronunciarli in pubblico. Né più né meno delle anacronistiche accuse rivolte poi a Rajaa al-Sanea e al suo bestseller mondiale Ragazze di Riad: aver osato alternare all’arabo classico, lingua sacra, i dialetti sauditi e perfino l’inglese. La Abu Khalid dimostra grande forza quando non teme di prendersi gioco del maschio e di considerarlo poco più di un «cane fedele». Ma come le altre poetesse arabe è semiclandestina in patria soltanto perché ha «stracciato il contratto di eredità con il passato/ sradicando gli alberi della mia tribù/ abbracciando la libertà dei fuorilegge».

assillante di tracce ormai evanide e che pure ritornano a tormentare anche quando questa chiave trasmuta dal piano più squisitamente cronologico a quello meteorologico, anzi arriva a diventare un tutt’uno se «con l’età arriva l’inverno», stagione poi opposta alla «primavera letale come le rose rosse». Il pensiero di Etel Adnan sul tema Tempo sembra instradato su un percorso di tipo memoriale, una memoria sempre pronta a ricondurre davanti a sé il passato anche più remoto in una continua distorsione del presente per l’influenza di ciò che è stato: se non è Eliot e il suo passato e presente protesi nel tempo futuro dell’Essere poco ci manca.

Si spiega forse anche così il continuo riaffiorare della dimensione meteorologica del tempo, «si torna sempre al mio soggetto preferito: il tempo. Fin dall’infanzia ho ascoltato il tuono perché è la meraviglia stessa». Alla dimensione Tempo difficile da ingabbiare fa da contraltare quella del Luogo, il secondo tema per ricorrenza nelle pagine di questo libro. E per chi non ha una terra d’appartenenza unica e univoca come Etel Adnan, ogni luogo può essere quello proprio, fatto di persone e avvenimenti, di

Le pagine di questo diario rivelano la storia lunga e profonda della donna, qui ricapitolata attraverso parole chiave:Tempo, Luogo,Affari, Politica, Fili, Chiesa, La prima persona e altre ancora

A sinistra, Iman Mersal, Maram al-Masri e Joumana Haddad”. Sopra, le copertine dei libri “Il ritorno di Lilith”, “Ti guardo”, “Ragazze di Riad”. A destra, Etel Adnan. In alto, un disegno di Michelangelo Pace

Le pagine di questo diario poetico rivelano la storia lunga e profonda di Etel Adnan, una storia qui ricapitolata attraverso parole chiave (Tempo, Luogo, Affari, Politica, Fili, Chiesa, La prima persona e altre ancora) spesso ricorrenti che originavano nella scrittrice sviluppi sempre nuovi, come se andando al cuore della questione ogni volta questo cuore pulsava in altro modo. È “Tempo” la parola chiave più ricorrente, sia nell’accezione squisitamente meteorologica che in quella più filosoficamente cronologica. L’insistenza sul tema è notevole, con un che di proustiano, «La memoria fa sì che la consapevolezza (…) crei nella nostra mente la nozione - e dunque la natura - del Tempo», per quella ricerca quasi

sensazioni e pensieri che si agganciano alla propria esistenza. Ma poi è con il suo luogo natìo che più e più volte l’autrice fa i conti. E il suo Libano è ancora nel cuore del cuore di un’instabilità profonda che mina la pace di popoli contrapposti. La guerra allora serpeggia nel suo pensiero e nelle sue riflessioni e contro di questa l’autrice alza la sua voce. Soprattutto nell’ultima delle parti di questo zibaldone,“Essere in tempo di guerra”, originato all’indomani dello scoppio del conflitto iracheno del 2003. «La storia stava di nuovo portando insopportabili tensioni» scrive Adnan, e così imbraccia la sua penna per stilare queste ultime considerazioni del libro, dense di attenzione verso «la lunga e stretta strada che porta il mondo al mattatoio» e provando per l’ennesima volta ad «alzare di nuovo il grande canto» della parola poetica. (f.n.)


ULTIMAPAGINA Stati Uniti. Il pollo fritto non è compreso nel menù: scatta la follia. Come nel film con Michael Douglas

Un McChicken di ordinaria di Guglielmo Malagodi ettetevi comodi. Sdraiatevi sul vostro asciugamano sotto l’ombrellone. Caricate la pipa e accendetevela sotto la frescura dei pini. Scansate per un attimo il cappuccino dal tavolo del vostro bar. Questa è una storia che merita attenzione. C’è questa signora. Capelli biondi, lunghi fin sotto le spalle, viso pulito, acqua e sapone.Vive a Toledo. In Spagna, direte voi, la antica e nobile città castigliana, che profuma di terra arsa dal sole e di pinchos appena sfornati. La città che fu la capitale dell’impero immortale di Carlo V, che fu… No, no. Fermatevi. La nostra signora non abita nella penisola iberica, non parla spagnolo, non ha appena vinto i campionati del mondo. La nostra signora con i capelli biondi è una dei 300mila abitanti di Toledo, questo è vero, ma della Toledo che sta dall’altra parte dell’oceano, in Ohio, negli Stati Uniti. Nel 1833 qualche emigrante ispanico chiamò così la sua piccola colonia, i cui grattacieli si riflettono oggi sul lago Eire, che ha dato i natali a Katie Holmes, la compagna del divo Cruise. E questa non è nemmeno la stranezza più insolita della storia.

M

State a sentire. Insomma, la nostra signora bionda, ieri mattina, si è infilata un paio di jeans, un felpone rosa, e è andata al suo solito lavoro, nella periferia industriale della città. Ore di lavoro, una pausa pranzo volante. Una diet coke, una ciambella al massimo, o un boccone di tofu, la pietanza alla soia che oltreoceano fa impazzire le donne dai dodici ai novantadue anni. Prima di tornare un’altra volta in ufficio. E la sera, ovviamente, come si fa a non avere fame? Infilate le chiavi nella serratura della sua berlina bianca, ha puntato un fast-food, in cerca di un pasto. Un banalissimo menù, di quelli che chiunque di voi potrebbe acquistare dal McDonalds all’angolo della strada. La nostra eroina arriva gongolante allo sportello per il take-away, abbassa il finestrino, e chiede il menù con il pollo fritto. Dovremmo immaginarci il dialogo svoltosi tra di lei e l’inserviente, dato che le immagini della telecamera di sicurezza, che sono girate ieri per ogni angolo della rete, sono prive dell’audio. Ma la sostanza la nostra bionda signora l’ha raccontata alla polizia. Come alla polizia?, direte voi. Eh sì, perché la malcapitata inserviente ha dovuto rispondere, come da politica aziendale, che il pollo fritto non era previsto nei menù della catena. Cosa priva di ogni logica, secondo l’affabile cliente, che ha provato a reiterare la domanda più e più volte. Ma che di fronte all’ennesimo diniego ha smarrito quasi completamente la propria affabilità, passando direttamente agli insulti. Non c’era nulla da fare, però, proprio il pollo fritto in quel maledetto menù non ci poteva entrare. Così la signora ha fatto l’unica cosa che, a suo avviso, c’era da fare. Ha aperto lo sportello, è scesa dalla macchina, e ha iniziato a percuotere la commessa, che così ostinatamente si era incaponita a farle pagare il pollo a parte. Una scena, molti di voi ci avranno già pensato, che non può non far venire in mente il mitico Michael Douglas di Un giorno

FOLLIA

vento del direttore del locale poteva nulla per sbloccare l’impasse. Così, nel film, Bill, per risolvere la situazione, tirava fuori un simpaticissimo mitragliatore, minacciando una strage se la sua colazione non gli fosse stata portata nel giro di qualche secondo. Il pasto, ovviamente, arrivava in men che non si dica. Sì, va bene, ma è un film, direte voi. Ok, ma quello usava il mitra, e la nostra signora di Toledo ha mollato al massimo due sberle, ci farete notare. E avete ragione, in fin dai conti, ma solo in parte. Perché dopo avere mollato i suoi bei ceffoni alla malcapitata commessa, alla nostra eroina non è andato giù il fatto che le avessero chiuso in faccia il vetro scorrevole dello sportello (operazione per la quale sono dovuti intervenire in due, tale era l’intensità della furia). Il video infatti mostra chiaramente come la signori prima abbia cercato di sfondarlo prendendolo a pugni e a gomitate. Poi, non riuscendoci, si è rinfilata in macchina, per uscirne armata di un crick, con il quale ha distrutto il vetro, prima di risalire tranquillamente in macchina ed andarsene.

Incredibile nell’Ohio: una signora non ottiene il pasto desiderato: percuote la malcapitata commessa poi, con un crick, sfonda il vetro del locale. Una scena già vista in ”Un giorno di ordinaria follia”, film di Joel Schumacher dei primi anni ’90

di ordinaria follia. Il film, per quei tre o quattro che non lo conoscessero (e che aspettate a comprarvi il dvd e tirare su il morale di una sonnecchiosa sera d’estate?), raccontava del sogno dell’impiegato medio: sfogare la propria frustrazione affettiva e lavorativa distruggendo tutto quello che capitava a portata di mano. Anche Bill Foster, il protagonista, ad un certo punto entrava in un fast food. «Vorrei fare colazione», domandava. «Non serviamo più la colazione dalle 11.30, ma se vuole possiamo farle un menù del pranzo». Erano le 11.33. Chiunque si sarebbe aspettato un minimo di elasticità mentale, ma niente, nemmeno l’inter-

Un mitra e un crick segnano la differenza tra il film e la realtà. Qualche maligno potrebbe anche suggerire che mentre Michael Douglas, nel film girato nel 1993 da Joel Shumacher, riusciva nell’intento di papparsi il sospirato pasto, la bionda dell’Ohio alla fine si è arresa, senza poter addentare il proprio cibo preferito non pagando la differenza di prezzo dovuta. La storia è finita esattamente come doveva finire. Intorno ai polsi della signora, della quale ancora oggi non sono state diffuse le generalità, si sono strette le manette della polizia locale. Dovrà rispondere di aggressione e danneggiamenti. E chissà se nelle carceri di Toledo, servono il pollo fritto. In caso contrario, magari sarebbe meglio avvertire i secondini.


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