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Non c’è niente di così facile che non diventi difficile quando si fa controvoglia Terenzio
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MARTEDÌ 17 AGOSTO 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Durissima nota del Colle contro le dichiarazioni di Gasparri e Bianconi che gli contestavano l’eventuale contrarietà al voto
Napolitano sfida il Pdl
«Se pensano che tradisco la Costituzione, chiedano l’impeachment» Gli uomini del Cavaliere alzano il tono dello scontro sulle elezioni anticipate. Ma oltre che pericoloso è insensato, perché nelle urne la Lega «mangierebbe» proprio il loro partito
Il mio Ferragosto insieme ai detenuti Dietro le sbarre, alla scoperta di un’umanità sempre più in affanno
Ma attenti, il Carroccio non è unito
ROMA. Alla fine, Napolitano è sbottato: «Se c’è qualcuno che ritiene che io tradisco la Costituzione, chieda il mio impeachment». La rezione, insolitamente dura, del Colle segue gli attacchi prima di Maurizio Gasparri e poi di Maurizio Bianconi che avevano contestato le parole del Presidente sia a contro le elezioni anticipate sia a sostegno dell’idea che «non esistono governi tecnici ma solo politici».
di Giuseppe Baiocchi
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aceva freddo la sera di Ferragosto in quel di Ponte di Legno. Il freddo climatico con pioggia e umido, ma anche il freddo di una folta platea di militanti e simpatizzanti, una platea poco incline a scaldarsi e a entusiasmarsi per i risultati dell’azione di governo che la nomenclatura schierata in doppia fila sul palco si impegnava ripetutamente a magnificare. In realtà, nell’occasione più tradizionale dell’estate, emergeva sottotraccia una incertezza di fondo sul quadro politico in movimento e altresì, in forma davvero inedita, una mal mascherata divisione di strategia e di prospettiva per una Lega abitualmente presentata come un monolite non scalfibile.
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di Paola Binetti n secondo Ferragosto in carcere per un Parlamento confuso e disorientato davanti ad un futuro nebuloso ed imprevedibile. Avrà certamente fatto bene a tutti quei parlamentari che hanno voluto condividere questa esperienza immergersi nell’atmosfera rarefatta di chi si trova in una condizione di oggettiva fragilità umana. Sono tanti gli obiettivi che questo appuntamento sta assumendo: dalla raccolta dati di una sorta di radiografia nazionale fatta a tutte le carceri della Repubblica, alla testimonianza di solidarietà offerta a chi probabilmente sta soffrendo più di quanto sarebbe giusto ed auspicabile. Soffrono i carcerati, stipati in carceri troppo piccoli per accoglierli tutti; soffrono anche per quei tempi imprevedibili che ha la nostra giustizia; ma soffrono anche le persone che dovrebbero prendersi cura di loro e che sono sotto-organico, mal pagati e privi di quelle risorse materiali che potrebbero permettere loro di svolgere al meglio un lavoro di per sé difficile e faticoso. E soffrono le famiglie, in un quadro sociale in cui la dignità di questo lavoro di rieducazione è spesso ridotta a una dimensione di contenimento. a pagina 22
BOSSI CONTRO CALDEROLI
di Marco Palombi
Una giornata particolare
Le previsioni dei sondaggisti
Le paure di Paolo Pombeni
Sì, alla fine vincerebbe solo Bossi
Ormai siamo alla Repubblica di Weimar
Le intenzioni degli elettori secondo Bressan, Mannheimer e Piepoli
«A forza di evocare la piazza, si trascina il Paese nel caos civile»
Vladimiro Iuliano • pagina 2
Francesco Capozza • pagina 3
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Con 1339 miliardi di dollari in tre mesi, la Cina è la seconda potenza mondiale
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Il sorpasso di Pechino Per la prima volta, il Pil cinese più alto di quello giapponese di Alessandro D’Amato
Il «miracolo» iniziato con le grandi riforme
ROMA. Nell’economia orientale si con-
L’Occidente ormai è accerchiato
suma è una vera e propria rivoluzione: dopo tre decadi di crescita spettacolare, nello scorso trimestre il Pil della Cina ha sorpassato quello del Giappone e il Paese è diventato ufficialmente la seconda economia mondiale dopo gli Stati Uniti. Secondo i dati forniti da Tokyo, la crescita del paese del Sol Levante ha subito un forte rallentamento, registrando appena un +0,1% nel trimestre compreso tra aprile e giugno: un risultato di gran lunga al di sotto delle aspettative. a pagina 6 I QUADERNI)
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di Gianfranco Polillo n anno e mezzo di crisi finanziaria ha prodotto i primi effetti. Il reddito procapite cinese, corretto dalla diversità del potere d’acquisto, ha superato quello giapponese. La Cina arriva cosi al secondo posto nella classifica dietro agli Stati Uniti, ma il divario diminuisce a vista d’occhio. a pagina 7
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WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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Altolà. Il duro comunicato del Quirinale divide ancora il centrodestra, sospeso tra solidarietà e nuovi avvertimenti
Il Colle va alla guerra
Dopo giorni di attacchi, distinguo e suggerimenti, il Capo dello Stato risponde alle provocazioni: «Chi vuole, può sempre denunciarmi» di Marco Palombi
ROMA. «In una intervista apparsa sul quotidiano Il Giornale domenica 15 agosto, l’onorevole Maurizio Bianconi, vicepresidente del gruppo dei deputati del Pdl, si è abbandonato ad affermazioni avventate e gravi sostenendo che il Presidente Napolitano “sta tradendo la Costituzione”. Essendo questa materia regolata dalla stessa Carta (di cui l’onorevole Bianconi è di certo attento conoscitore), se egli fosse convinto delle sue ragioni avrebbe il dovere di assumere iniziative ai sensi dell’articolo 90 e relative norme di attuazione. Altrimenti le sue resteranno solo gratuite insinuazioni e indebite pressioni, al pari di altre interpretazioni arbitrarie delle posizioni del Presidente della Repubblica e di conseguenti processi alle intenzioni». Tradotto: se non sto adempiendo i miei doveri, potete sempre mettermi in stato d’accusa. Questa nota, diffusa dal Quirinale nel primo pomeriggio di ieri, ha avuto un effetto subitaneo: tutti si sono chiesti all’istante, «Bianconi, chi era costui?». Trattasi di un deputato toscano arrivato nel Pdl da Alleanza nazionale, classe 1946, avvocato penalista e di diritto commerciale - si legge nel suo profilo sul sito della Camera - noto per un certo temperamento istrionico che si esplica soprattutto nei comizi che arricchiscono la vita della sua Arezzo e della regione tutta.
Soddisfatta la curiosità biografica, però, una seconda domanda s’è subito affacciata all’immaginario collettivo: “«E che avrà detto mai, Bianconi?». In un’intervista rilasciata evidentemente non pesando le parole, il nostro ha sostenuto che «Napolitano sta tradendo la Costituzione» perché – cosa che evidentemente il deputato toscano sa per vie tutte sue – flirta, per così dire, con l’idea di un governo tecnico. La Costituzione che il capo dello Stato starebbe tradendo, per di più, non è quella vera, ma quella «materiale» costituita da Napolitano stesso all’atto di conferire l’incarico di formare il governo a Silvio Berlusconi: essendo stato, quest’ultimo, scelto dagli elettori fin dalla scheda elettorale, ragiona il Bianconi, allora il premier lo può fare solo lui. «Se tu stesso hai garantito una Costituzione materiale basata sul risultato elettorale – ha spiegato agli ignari lettori del
Tutti i sondaggi evidenziano un travaso di voti verso il Carroccio
Ma se si andasse alle urne oggi a perdere voti sarebbe il Pdl di Vladimiro Iuliano
ROMA. A domanda secca la risposta è unanime: se si dovesse votare oggi, l’alleanza tra il Popolo della Libertà e la Lega Nord si confermerebbe solidamente alla guida del Paese. «La lotta è aperta – spiega il professor Mannheimer – ma sono convinto che si riaffermerebbe nuovamente l’alleanza oggi al governo. Anche se senza Fini, per Berlusconi al sud ci potrebbero essere dei problemi». «Ma l’opinione in questo momento è mobile, estremamente volubile», afferma Nicola Piepoli, direttore dell’omonimo istituto, che però conferma la tendenza: «La maggior parte dei voti in movimento, degli indecisi per capirci, si aggrega oggi intorno ai partiti della maggioranza di governo».
Stessa opinione per Simone Bressan, uno dei responsabili dell’agenzia Spincon.it. «A mio avviso, in questo momento, la compagine governativa avrebbe i numeri per confermarsi anche al Senato, oltre che alla Camera». Il tutto ipotizzando uno scenario che veda il Partito Democratico alleato con Di Pietro e Vendola. «Al Pd, in termini assoluti di voti – ci spiega Bressan – converrebbe allearsi ad un’ipotetica area terzista. Ma probabilmente subirebbe un travaso deciso di voti verso un’aggregazione a sinistra, magari guidata da Vendola, che farebbe rimpiangere una scelta di questo tipo». Musica per le orecchie del Cavaliere. Uno scenario di questo tipo costringerebbe Fini a navigare sul filo dell’irrilevanza politica. I dati di Spincon mostrano come l’«effetto Montecarlo» abbia fatto precipitare di oltre due punti in meno di una settimana le intenzioni di voto nei confronti di Futuro e Libertà: dal
6,6% al 4,2%. Una valutazione coincidente con quella di Piepoli: «Sì, direi che Fini oscilla intorno al 5%. Bisogna però considerare che il suo elettorato si colloca sul centro-destra dell’elettorato. Il dato è più o meno quello se si dovesse presentare con il Pdl, se andasse da solo una stima è del tutto imprevedibile». Ma, di sicuro, la formazione politica che più ha mostrato negli ultimi giorni, almeno apparentemente, di voler andare alle urne è la Lega, che, è opinione diffusa, uscirebbe sicuramente rafforzata dalla prova elettorale. È il parere anche di Piepoli: «Alla Lega conviene sempre andare a votare, perché è un partito che lavora sul territorio, e ci lavora bene. Gli altri dovrebbero imparare dai politici leghisti». I quali veleggiano verso percentuali importanti, dunque. «Sì – conferma il sondaggista – il dato è sicuramente elevato. Essendo un partito legato al territorio dipende certo molto anche dall’affluenza complessiva. Ma direi che ci aggiriamo intorno al 10-12% dell’elettorato del Paese». Conferma questo tipo di lettura Mannheimer: «A via Bellerio non sono preoccupati di andare al voto, anzi. La Lega è oggi un movimento di grande forza, coeso, che attrae nuove fasce di elettorato di ogni estrazione, e che può fare leva su un programma chiaro e preciso, cosa che in pochi oggi possono offrire».
Bressan fa inoltre osservare che è in atto in queste ultime settimane un travaso di voti, lento ma costante, che dal Pdl si spostano proprio verso il partito delle camicie verdi «quantificabile, per ora, in un paio di punti percentuali». Non tantissimi, forse, nel quadro nazionale, ma sufficienti per provocare il sorpasso sul partito di Berlusconi in tutto il Nord. «In Veneto è cosa fatta – dà per scontato Bressan – ed il rischio c’è anche in Lombardia». «Siamo in presenza di un partito che pesca voti ovunque, anche a sinistra, ma che in particolar modo li toglie al Pdl – spiega Mannheimer – Per questo il partito del premier non può dormire sonni tranquilli nemmeno in Lombardia».
quotidiano di Feltri – cercando un governo diverso in Parlamento non stai rispettando la Costituzione, ma solo contraddicendo te stesso». Di qui, la mazzata assestata al nostro dal Quirinale. «Sono rammaricato e stupito», si lamentava lui ieri prima di esercitarsi nella più classica delle toppe peggiori del buco: «Trovo assolutamente sproporzionata la nota del Quirinale in risposta alla mia osservazione che ribadisco tutta intera. Il presidente della Repubblica non può entrare nella polemica politica e lasciarsi andare a provocazioni». Impeachment? «Sono stupefatto, ma non sono deficiente. Né tantomeno ho paura».
Il problema è che il povero Bianconi è stato solo il pretesto per l’intervento del Quirinale o, se si preferisce, la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Ad esempio ie-
Nel mirino, il continuo «processo alle intenzioni» con il quale gli esponenti del centrodestra attaccano le uscite del presidente contro le elezioni anticipate ri mattina, cioè un giorno dopo l’intervista del carneade aretino, Maurizio Gasparri ha rilasciato al giornale online Affari italiani parole persino più dure: «Se viene meno la maggioranza che ha vinto le elezioni, il capo dello Stato - ha dettato il capogruppo Pdl in Senato - deve prendere atto che gli elettori devono decidere quale sia la nuova maggioranza di governo. Non può decidere una congiura di Palazzo. Brunetta ha usato un’espressione molto chiara: se per congiure di Palazzo dovesse nascere in Parlamento un’abborracciata maggioranza contraria alla volontà del Paese... mica si può sciogliere il Paese, si scioglie il Parlamento. Questo lo sanno tutti, anche Napolitano». Non bastasse, l’avvertimento finale: «Ipotesi diverse sarebbero un attentato alla Costituzione e non mi pare che Napolitano sia una persona che si avventuri su percorsi di questa natura contrari alla sovranità popolare». L’ex ministro delle Comunicazioni, peraltro, non è che l’ultimo degli aedi dell’ala più intransigente del centrodestra a mettere nel mirino il presidente della Repubblica.
L’ordine di scuderia, infatti, era partito già da un paio di giorni. I primi mugugni del Cavaliere erano arrivati il giovedì pomeriggio, quando erano state diffuse alcune frasi di un’intervista all’Unità in cui Napolitano si schierava sostanzialmente contro la corsa al voto anticipato e difendeva - assai irritualmente, va detto – Gianfranco Fini dagli attacchi della stampa di centrodestra sulla famigerata casa di Montecarlo. Ma è stato sabato mattina che il premier s’è incazzato davvero, quando ha letto una colloquio tra il
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«Chiunque vinca le prossime elezioni, dovrà fare i conti con la Lega»
«L’Italia è ormai come la Repubblica di Weimar» Pombeni: «Con le minacce di portare la gente in piazza, rischiamo di trascinare il Paese in una guerra civile» di Francesco Capozza
ROMA. «C’è un problema drammatico in Italia. Siamo di fronte ad una classe politica che non sa assolutamente quello di cui parla». Si riferisce agli attacchi del Pdl a Napolitano? Certamente. È una classe politica che non si rende conto che la Costituzione la può cambiare solamente il Parlamento. E siccome questo non è ancora avvenuto, il Presidente della Repubblica, se le forze parlamentari hanno i numeri per dare la fiducia ad un governo differente da quello che abbiamo oggi, non può nemmeno sindacare. Con questi continui attacchi, con le minacce di portare la gente in piazza, si rischia di portare il Paese sull’orlo di una guerra civile. La china intrapresa dall’Italia sembra quella della Repubblica di Weimar negli anni ’20. Ma non trova che la nota di risposta del Quirinale sia irrituale? Lo sarebbe se fosse la risposta ad un deputato isolato. Lo spunto è sì occasionale, ma la risposta è a tutte le forze del centrodestra, che ribadiscono costantemente questa posizione da giorni. Anche la Lega, dunque, che secondo tutti i sondaggisti è l’unica forza politica che non è stata svantaggiata dal collasso della maggioranza e che, se si andasse oggi alle elezioni farebbe il pieno di voti... La cosa non mi stupisce affatto. La Lega è da sempre un partito che ha fatto dell’antipolitica il proprio cavallo di battaglia. In un panorama dove il maggior partito del Paese si è spaccato e il suo diretto competitor non è in grado di fare nulla per conquistare il favore dell’elettorato deluso, l’unica forza che ne trae beneficio è proprio la Lega, che nonostante le sue connotazioni spesso estremistiche ha dimostrato di saper governare bene e di ascoltare i cittadini. Lei quindi ritiene positiva l’esperienza di governo del Carroccio? Non solo io. Maroni è uno dei migliori ministri dell’Interno degli ultimi decenni, e lo pensano tutti, anche molti avversari. Ai toni accesi di alcuni esponenti un po’ più coloriti – vedi certe uscite di Calderoli – si contrappone una base solida di amministratori locali, oltre che di uomini di governo, che sta facendo bene e che è apprezzata dall’elettorato. La gente si è stufata di sentire chiacchiere – come quelle di Di Pietro – e vuole fatti concreti. Pensa che rispetto alle scorse tornate elettorali adesso Di Pietro non farebbe da contraltare alla Lega in termini di preferenze? Credo proprio di no. Di Pietro è bravissimo a
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parlare alla gente con un linguaggio tutto suo, ma poi sembra non arrivare mai al succo della questione: rappresentare davvero chi lo vota. L’Idv catalizza il voto degli antiberlusconiani di ferro ma ha già raggiunto da tempo il suo apice. Direi che Di Pietro ha finito la sua spinta propulsiva e oggi il vero antipolitico vota Lega Nord. Tornando alle dichiarazioni di questi giorni dei maggiori esponenti leghisti, perché vorrebbero elezioni subito, non hanno prima da portare a casa il federalismo fiscale? Nonostante siano i paladini dell’antipolitica i leghisti ci sanno fare. Sanno che al momento porterebbero a casa un bottino di voti eccezionale. Sfruttano, se così possiamo dire, le cattive acque in cui sta navigando il Pdl, alle prese con la frattura interna che ha portato alla fuoriuscita dei fedelissimi del presidente della Camera. Sul federalismo lei ha ragione, è un punto importantissimo, anzi essenziale, dell’esperienza di governo leghista. Io credo che a settembre metteranno l’acceleratore su questo provvedimento per portarlo a casa il prima possibile. Se il governo dovesse cadere prima, però, possono star certi che con nuove elezioni arriverebbero ad avere dei numeri tali nel nuovo parlamento da condizionare l’azione di qualsiasi maggioranza. Quindi lei dice, in buona sostanza, chi vince vince, tanto dovrà fare i conti con la Lega? Direi proprio di sì. Se si andasse alle elezioni Berlusconi rivincerebbe solo grazie all’appoggio della Lega. Insieme sono ancora in grado di conquistare un’ampia maggioranza alla Camera ed una meno certa ma probabile al Senato. Se la Lega andasse da sola come ha fatto l’Udc nella scorsa campagna elettorale vincerebbero senza dubbio le attuali opposizioni che per di più sembrano aver trovano nuovamente un’intesa in nome di un antiberlusconismo che non si vedeva da tempo. Secondo lei il fantomatico “terzo polo” come uscirebbe se si presentasse ad elezioni in tempi brevi? A questo che lei chiama terzo polo devo dire che ci credo poco. L’ho già detto altre volte che non penso che tre personaggi di primissimo livello come Fini, Casini e Rutelli possano mettersi insieme con un’unica leadership. Due di essi si dovrebbero fare da parte e non credo che la cosa sia possibile. Insomma, l’unica forza che al momento uscirebbe avvantaggiata da una campagna elettorale che si annuncia durissima è la Lega.
L’unica forza politica che al momento uscirebbe avvantaggiata da una campagna elettorale che si annuncia durissima è il Carroccio
capo dello Stato e Marzio Breda del Corsera, in cui si chiariva che non esistono esecutivi tecnici che nascano dalla volontà del Quirinale, ma solo esecutivi «che nascono dal fatto che il Parlamento dà loro, a maggioranza, la fiducia». Verificare l’esistenza di una maggioranza alle Camere, d’altronde, è un compito preciso che la Carta assegna al presidente della Repubblica. Berlusconi ha vissuto la precisazione come una minaccia neanche troppo velata di trovargli un sostituto e ha ordinato alla batteria dei dichiaratori di darsi da fare. Giorgio Stracquadanio - il deputato lombardo che pensa come Berlusconi anche quando quest’ultimo non lo fa - aveva già provveduto: «Si tratta di una prassi inedita - metteva a verbale - che rileverebbe un tentativo di indirizzare le scelte istituzionali al di fuori della via maestra che la Costituzione repubblicana indica: le elezioni politiche generali, infatti, sono l’unico rimedio democratico a una eventuale crisi politica». Con la dura nota di ieri, il Quirinale ha voluto segnalare che la misura era colma, che non è normale né sano che politici e dilettanti del diritto d’ogni genere tirino in mezzo alle loro polemiche la suprema istituzione della Repubblica. Un primo effetto il Colle sembra averlo ottenuto: il flusso delle note stampa sembra essersi reindirizzato almeno a livello della buona educazione. «Noi abbiamo il massimo rispetto per il presidente Napolitano», ha fatto sapere ad esempio Fabrizio Cicchitto, ma il no a governi tecnici resta «una valutazione politica di fondo» del Pdl che «sottoponiamo alla riflessione del capo dello Stato». D’altronde, educatamente, in questo Paese si può dire quasi tutto.
Il presidente Napolitano ieri ha diffuso una nota durissima contro il deputato del Pdl Maurizio Bianconi che lo aveva accusato di «tradire la costituziuone». A destra, il politologo Paolo Pombeni. Nella pagina a fianco, gli esperti di sondaggi Renato Mannheimer, Simone Bressan e Nicola Piepoli
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l’approfondimento
Ennesimo comizio del Senatùr che stavolta se la prende con Fini: «Vuole solo soldi da sprecare al Sud»
Lega cannibale
L’«alleato di ferro» (che in realtà è l’unico che abbia fatto il ribaltone) continua a minacciare lo spettro delle elezioni anticipate nella speranza di approfittare del caos interno al partito del predellino e sottrarre voti a Berlusconi di Riccardo Paradisi essuno teme il voto, a parole. La realtà è che le elezioni sono un’incognita per tutti. Berlusconi compreso. Certo, in caso di ricorso alle urne il Cavaliere confida oltre che nella confusione della sinistra nello scandalo monegasco in cui sembra inciampato il presidente della Camera e soddisfatto contempla i sondaggi che segnano un ridimensionamento di Futuro e libertà: dall’accreditato 6 per cento ad un’attuale 3 per cento. Ma anche questa vicenda ha il suo rovescio della medaglia: infatti se il Pdl potrebbe guadagnare qualcosa, come dicono alcuni sondaggi, è anche vero che nell’entourage berlusconiano si teme che il conflitto permanente nel centrodestra apra dei flussi di consenso verso il non voto e soprattutto verso la Lega.
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I sondaggi danno il Carroccio al 12 -13 per cento su scala nazionale ma il rischio avvertito con allarme dal Pdl al nord è proprio il dilagare della Lega in
quelle regioni dove il partito di Bossi è già forte o addirittura maggioritario. È anche per questo, soprattutto per questo, che nel suo comizio ferragostano Umberto Bossi ha promesso che il Carroccio non permetterà un governo tecnico: «I governi tecnici sono come l’anguria, hanno i semi che devi sputare». Bossi ripete il concetto in maniera, se possibile, ancora più colorita: «Un governo tecnico significa mettere in casino i conti del Paese. Più cambia la legge elettorale più cambia la legge sull`immigrazione. È l`inizio di un gran casino». Per Bossi «Il nord deve fare due passi: Il federalismo e il decentramento. E questo prima di pensare a qualsiasi altra soluzione. Sennò sarebbe sprecare tempo e far casino inutilmente». Il senatur torna anche a minacciare adunate oceaniche di piazza: «Milioni di uomini scenderebbero in piazza. Il popolo che elegge i governi e i premier. Non li elegge il palazzo». Certo è la stessa posizione espressa, con toni diversi, dal ministero
della Giustizia Angelino Alfano, ma le incognite per il partito berlusconiano sono appunto maggiori di quelle che potrebbero impensierire la Lega.
Del resto di fronte ai primi scambi dello scontro che ha portato all’espulsione di Fini del Pdl e poi il successivo attacco politico-mediatico da parte della maggioranza per chiedere le dimissioni del presidente della Camera la posizione di Bossi era stata immediatamente chiara: «Sono affari loro, so-
no affari del Pdl». Una posizione pilatesca ma con l’occhio lungo sul patrimonio elettorale di un Pdl che difficilmente, in caso di elezioni, eviterà di pagare un dazio allo scontento e alla stanchezza di una fetta del suo elettorato. Fare futuro, uno degli organi più antiberlusconiani dell’arcipelago finiano, arriva addirittura a dire che «Silvio Berlusconi dovrebbe aver paura delle elezioni. Un eventuale ritorno avventato alle urne rischierebbe di ”forzitalizzare” il Pdl. E lo farebbe tor-
Crosetto e Malan: «A guadagnare dalle urne sarebbe solo la Lega»
nare al massimo alle percentuali che la creatura di Berlusconi otteneva prima della nascita del partito unico».
Il ragionamento del Il web magazine della fondazione finiana è un po’ deterministico visto che non è un’operazione corretta quella di sottrarre i voti della fu Alleanza nazionale al partito unitario del centrodestra: gran parte dei quadri e dei dirigenti di quel partito infatti è rimasta nel Pdl «Forza Italia ottenne all’inizio da sola il 23,7 per cento – scrive Fare futuro – poco più di nove milioni di voti. Se si andasse a votare oggi, con un Fini smarcato e una Lega fortissima, quella cifra potrebbe tornare, rendendo il Pdl un partito come gli altri e soffocando ogni vocazione maggioritaria». E così, «dopo cinque tornate elettorali, il centrodestra si presenterebbe per la prima volta diviso, e con una Lega mai così forte, che rischia seriamente di superare il Pdl al Nord. Il Pdl potrebbe persino scendere sotto il 20%, scivolan-
Calderoli spinge per tornare di fronte all’elettorato, ma il leader sembra molto più prudente
Ma attenti, questa volta il Carroccio non è unito
Mai come quest’estate, Bossi ha voluto tastare in prima persona gli umori della base. E ne ha ricavato molti motivi di preoccupazione di Giuseppe Baiocchi aceva freddo la sera di Ferragosto in quel di Ponte di Legno. Il freddo climatico con pioggia e umido (tanto che lo stesso Senatùr confessava al microfono il suo disagio di vivere nel castello con i muri fatti di pietra), ma anche il freddo di una folta platea di militanti e simpatizzanti, una platea poco incline a scaldarsi e a entusiasmarsi per i risultati dell’azione di governo che la nomenclatura schierata in doppia fila sul palco si impegnava ripetutamente a magnificare. In realtà, nell’occasione più tradizionale dell’estate, (un appuntamento ormai obbligato per gli osservatori della politica) emergeva sottotraccia una incertezza di fondo sul quadro politico in movimento e altresì, in forma davvero inedita, una mal mascherata divisione di strategia e di prospettiva per una Lega abitualmente presentata come un monolite non scalfibile.
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Infatti, mentre il ministro per la Semplificazione, Roberto Calderoli, si affannava a dimostrare che le elezioni anticipate erano uno sbocco ineluttabile e ravvicinato, il leader storico appariva più prudente e tutto sommato meno tranchant delle settimane precedenti. E anche sul federalismo fiscale gli accenti erano di gran lunga differenti. Per Calderoli ormai la via definita dei “decreti legislativi” ottenuta con la delega al governo dal Parlamento aveva già messo in sicurezza il processo riformatore. Infatti, secondo il ministro, dopo il federalismo demaniale e quello comunale, i prossimi decreti sul federalismo provinciale e regionale (con il grosso nodo della Sanità e dei suoi costi) sarebbero comunque passati senza inciampi, perché la delega al governo era piena e valida comunque per qualsiasi governo «anche se dimissionario, perfino se sfiduciato e in carica solo per il disbrigo degli affari correnti». Di conseguenza, con il “tesoro” riformatore già praticamente in cassaforte, il voto anticipato diventava l’epilogo più rapido per superare una fase politica polemica e confusa. Che Calderoli fosse ormai il più “berlusconiano” dei ministri leghisti lo si comprendeva anche dall’aspetto esteriore: dimagrito, abbronzatissimo, di una controllata eleganza (in evidente contrasto con la trasandatezza popolana tipica di
Bossi e dei suoi). E la spinta alla prova elettorale appariva più di marca Pdl che di animo leghista. Per questo, nonostante il duetto recitato sul palco e in molte altre sedi, la propensione dell’ancora leader carismatico del Carroccio verso la fine anticipata della legislatura sembra meno convinta e
La crescita del partito ha stimolato dietro le quinte ambizioni, cordate e congiure
meno determinata di quanto egli stesso abbia finora lasciato credere. D’altronde, non sarebbe la prima volta nella sua ormai trentennale carriera politica che il capo della Lega chiede a gran voce ciò che in realtà non vuole, fingendo di volerlo: in passato gli è spesso servito per coalizzare i dispersi avversari contro di lui, in modo che si dirigessero uniti verso quell’obiettivo minimo che considerava l’unico per lui realisticamente raggiungibile. E, con il fiuto politico che lo contraddistingue, intravede probabilmente più rischi che benefici nell’accelerare la strada per le urne.
A cominciare dalla crisi di sfaldamento (e non solo per la querelle velenosa con Fini) che sembra attraversare le truppe dell’alleato di Arcore.Certo, tutti i sondaggi attribuiscono alla Lega una espansione numerica e territoriale rilevante se si andasse a votare a breve scadenza. E tuttavia le incognite possono apparire ben superiori all’aumento di qualche punto percentuale di consensi popolari. Anche perché, in una normale logica politica, chi ha governato deve presentarsi al giudizio elettorale con il margine sufficiente di tempo perché i cambiamenti operati in sede esecutiva e parlamentare siano penetrati nella vita di tutti i giorni, incidendo di fatto sulla condizione concreta dei cittadini. Come, per restare all’ultimo provvedimento, ad esempio con l’introduzione della cedolare secca sugli affitti degli immobili. E Bossi sa molto bene che questa volta deve presentarsi al suo popolo con le mani colme di qualche realizzazione e non delle rinnovate promesse, per quanto Mai immaginifiche. come quest’estate ha infatti “battuto” tutte le feste della Lega per tastare il polso in prima persona agli umori e alle speranze della sua base popolare. E qualche motivo di preoccupazione ne deve aver ricavato. Non solo: con la presenza capillare e continua ha avvertito che la guida del movimento è saldamente nelle sue mani e che il ruolo del “padre nobile” (imbalsamato ed esibito dagli eventuali successori) non è per niente ancora maturo. Già perché la crescita di ruolo della Lega nello scacchiere politico ha all’interno stimolato dietro le quinte ambizioni, cordate e congiure. Forse al punto da trasformarla in un partito come gli altri...
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do ai livelli di consenso del Pd». Che il Pdl scenda sotto il 20 per cento appare più una speranza dei finiani che un dato realistico visti i sondaggi, ma certo il balzo in avanti della Lega è un’ipotesi che turba i sonni di Berlusconi. Lo ammettono due esponenti settentrionali del Pdl come Lucio Malan e Guido Crosetto. «È chiaro che la Lega sarebbe un concorrente – dice Malan a liberal – ed è per questo che in caso di elezioni anticipate dobbiamo risultare accattivanti verso il nostro elettorato, perché il rischio di pagare il dazio di quello che è accaduto in questi ultimi mesi c’è ed è inutile nasconderlo». Oltre alla Lega infatti il Pdl teme lo spettro in espansione dell’astensionismo: «Ci potrebbe essere nell’elettorato moderato una spinta alla demotivazione per il ricorso alle elezioni anticipate una spinta che la Lega patirebbe di meno avendo un brand molto definito». Ma non è ancora detto che si vada al voto: «Berlusconi andrà in Parlamento su un programma definito e su questo chiederà la fiducia. L’auspicio è che si trovi un punto d’intesa, ma procedere alla giornata senza prospettive chiare è impensabile».
Anche Guido Crosetto non sottovaluta la minaccia leghista sull’elettorato del Pdl. «Esiste questo rischio di erosione leghista, soprattutto al nord. Ma quella delle elezioni anticipate, se dovesse verificarsi questa ipotesi, non sarebbe una scelta ma una necessità di fronte alla minaccia di ingovernabilità permanente. È evidente però che dalle elezioni ci guadagnerebbero solo la Lega e l’Italia dei Valori di Di Pietro. Va detto però che finora la Lega si è dimostrato un alleato serio al contrario di questi finiani che hanno scelto la provocazione come metodo di lotta politica. Non tutti però – precisa Crosetto – ci sono persone in Futuro e libertà che sono in linea col governo, persone responsabili che non se la sentono di affondare il governo». Le dimissioni di Fini non sarebbero poi la priorità di Berlusconi. Anzi «renderebbero irreversibile la crisi e inevitabili le elezioni anticipate» secondo Crosetto. Forse è per questo che l’ultima salva di cannone Bossi la dedica proprio a Fini: «Tremonti ha come nemico il presidente della Camera perché vuole i soldi da sprecare al Sud». Nei confronti del Capo dello Stato Giorgio Napolitano, invece, Bossi, a differenza del Pdl, assume un atteggiamento prudente: «per quanto concerne i tempi del voto è solo il presidente della Repubblica a decidere e io non faccio dichiarazioni contro il presidente della Repubblica. Con Napolitano il rapporto è nato andando là a parlarci. Non è uno che dice no».
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economia
Record. Con 1339 miliardi di dollari in tre mesi, il «capitalismo comunista» trasforma la Cina nella seconda potenza mondiale dietro agli Stati Uniti
Il sorpasso di Pechino Rivoluzione a Oriente: per la prima volta, il Pil cinese supera quello giapponese di Alessandro D’Amato
ROMA. Dopo tre decadi di crescita spettacolare, nello scorso trimestre il prodotto interno lordo nominale della Cina ha sorpassato quello del Giappone, e il paese è diventato ufficialmente la seconda economia mondiale dopo gli Stati Uniti. Come sottolinea il New York Times, sebbene ormai fosse previsto, il sorpasso compiuto in questo secondo semestre certifica ufficialmente che il mondo deve ormai fare i conti con una nuova superpotenza economica. Secondo i dati forniti da Tokyo, la crescita del paese del Sol levante ha subito un forte rallentamento, registrando appena un +0,1% nel trimestre compreso tra aprile e giugno: un risultato di gran lunga al di sotto delle aspettative. Dai calcoli ufficiali, il Pil nominale del Giappone per il primo semestre dell’anno ammonta a 2.578,1 miliardi di dollari, contro i 2.532,5 miliardi di dollari di quello cinese. Ma il governo di Tokyo ha riconosciuto che il Pil nominale della Cina ha superato quello del Giappone nel corso del secondo trimestre. Il Pil nominale cinese in questo periodo ammonta infatti a 1.336,9 miliardi di dollari, mentre quello giapponese ammonta a 1.288,3 miliardi di dollari. Questo sorpasso assume «un importante significato», ha commentato Nicholas Lardy, economista al Peterson Institute for International Economics: «Si tratta di una conferma di quanto avvenuto per buona parte del decennio: la Cina sta eclissando il Giappone economicamente. Per chiunque (in Estremo Oriente) è la Cina il principale partner commerciale piuttosto che gli Stati Uniti o il Giappone». Per il 2 010 gli analisti si attendono per la Germania il quarto posto, il quinto per la Francia, il sesto per il Regno Unito. Al settimo posto l’Italia seguita all’ottavo dal Brasile.
L’economia del Sol Levante, ha reso noto l’Ufficio di gabinetto giapponese, potrebbe essere vicina al punto di stabilizzazione visto che il Pil è cresciuto solo dello 0,4% annualizzato e dell’0,1% su base trimestrale. «Si può dire sia già entrata nella fase di stabilizzazione», ha detto in conferenza stampa Keisuke Tsumura, segretario parlamentare dell’Ufficio di gabinetto. Ragione per cui anche il sorpasso su base annua è più che probabile, considerando l’intero 2010. E, ha scritto il Wall Street Journal, costituirebbe un fatto storico per un’economia emergente. «Sarebbe una pietra miliare: è impressionante il fatto che la Cina sia riuscita a mantenere elevati tassi di crescita anche quando molti paesi si trovavano ad affrontare tempi duri», osserva Bruce Kasman, capo economista di JPMorgan Chase. Una volta che i dati definitivi per il 2010 saranno diffusi, «molti economisti si attendono che la Cina sorpassi il Giappone come seconda economia al mondo. Il gap fra i 5.000 miliardi di dollari dell’economia cinese e i quasi 15.000 miliardi
Un sistema economico vincente che però corre sempre molti rischi
Ma cambio e banche sono ancora deboli ROMA. Non è tutto oro quello che luccica. Sotto la guida del Partito Comunista cinese, la Cina è oggi leader del commercio globale, ma anche maggior detentore mondiale del debito pubblico statunitense (l’incremento più grande è avvenuto proprio durante la crisi economica, e ciò ha permesso agli Usa di trovare un sostenitore della propria spesa pubblica per sostenere l’economia, e ai cinesi di assicurare i propri surplus di bilancio e sostenere il dollaro nel cambio con lo yuan, continuando a essere competitiva). La Cina è anche un vorace consumatore di materie prime, dal petrolio al ferro: una necessità che l’ha spinta a stringere accordi di partnership privilegiata in Asia ma anche in Africa e in Sudamerica, e l’influenza da economica ci sta mettendo poco a diventare anche geopolitica. Con tutto quello che questo significherà in termini di contrasti pronti a scoppiare, sia con le potenze regionali che con quelle mondiali. Il sistema bancario costituisce ancora un’incognita piuttosto grossa: il crollo della Borsa di Shanghai nell’epoca pre-crisi testimonia la fragilità di un sistema nel quale la politica allegra del credito ha sostenuto la crescita tumultuosa negli anni belli, ma è continuata anche nell’epoca della crisi finché il Partito Comunista non ha cominciato a sostenere la stretta del credito, mandando in fallimento molte imprese appena nate e sostenute soltanto dal capitale preso in prestito. Un altro punto di criticità è il cambio: l’accusa che proviene da Stati Uniti e Unione Europea è quella di tenere artificialmente basso il cambio del renmibi per favorire l’export. Una decisione che ha già portato a numerosi cambi di policy, l’ultimo appena qualche settimana fa con la promessa di uno sganciamento dal dollaro e una
maggiore capacità di fluttuazione. Ma c’è poco da illudersi: «La Cina deve tenere lo yuan sostanzialmente stabile come parte della strategia per sostenere i propri interscambi commerciali», ha scritto proprio ieri il viceministro del Commercio Zhong Shan nella rivista ufficiale del partito comunista cinese Qiushi. Secondo Zhang la Cina deve anche mantenere in vita le agevolazioni fiscali per gli esportatori. I commenti del viceministro sembrano confermare come vi siano ben poche intenzioni a Pechino di pilotare un reale apprezzamento dello yuan sui mercati valutari. Dal 19 giugno, quando è stato annunciato lo sganciamento dal tasso di cambio fisso rispetto al dollaro, lo yuan si è apprezzato in termini reali di meno dello 0,4%.
E nel 2006 la Cina ha anche sorpassato gli Usa per numero di emissioni inquinanti, o meglio: di gas che gli scienziati ritengono legate al riscaldamento globale. Tra agricoltura e – soprattutto – industria, oggi il gigante cinese puzza e rischia di puzzare ancora di più con la crescita dei prossimi anni. Per questo il governo ha varato un piano di taglio di emissioni del 20% da mettere in atto già nel 2010; ma per ora non ha nessuna intenzione di accodarsi ai piani mondiali, e non lo farà finché non avrà trovato il modo di effettuare i tagli senza mettere in pericolo una crescita che ha ancora bisogno di tecnologie di per sé inquinanti. Infine, c’è il maggior punto dolente: in vendita a Hong Kong un libro che mette sotto accusa il premier cinese Wen Jiabao. Il suo autore,Yu Jie, rischia ora l’arresto.Yu era stato già fermato a Pechino dalla polizia per quattro ore, e avvertito che rischiava il carcere se non avesse ritirato il volume. Quanto può durare la pace sociale in un paese che gestisce così il dissenso? (a.d’a.)
La crescita forsennata ha molte controindicazioni: prima fra tutte, il costo ambientale per il Pianeta
di dollari di quella americana resta ampio, e anche mantenendo gli attuali tassi di crescita - spiega il Wall Street Journal - ci vorrà molto tempo per Pechino per raggiungere gli Stati Uniti».
Per gli esperti la data del sorpasso degli Usa è già segnata: il 2030. Il risultato odierno non è una sorpresa per gli esperti: l’economia giapponese è stagnante ormai da una decade, nonostante si parlasse anche per il paese di un sorpasso agli Usa negli anni Ottanta, quando era in piena espansione dal punto di vista economico e il paese leader dell’elettronica globale. Ma tra i due paesi asiatici permangono molte differenze di sviluppo: mentre l’economia giapponese è matura e la popolazione in costante invecchiamento, quella cinese è ancora in tumultuosa crescita, e nel paese permangono zone di sottosviluppo assai ampie. Appena cinque anni fa il Pil cinese era la metà di quello giapponese. Senza contare che la popolazione cinese, che insiste su un territorio grande quanto quello degli Usa, equivale a un quinto di quella mondiale: per questo il pil per abitante annuo è di 3600 dollari, pari a quello di nazioni come l’Algeria e l’Albania, mentre quello statunitense è di 46mila dollari. E mentre Usa e Unione Europea arrancano nella crisi, cercando di trovare le risorse per sostenere una crescita stagnante e a rischio “double dip”, ha varato un piano di infrastrutture di 586 miliardi di dollari negli anni più bui della crisi, per migliorare i propri servizi e alimentare le sue capacità di commercio. È di ieri anche la notizia della firma di un accordo con l’Agenzia internazionale per l’Energia Atomica: secondo la bozza dell’accordo, le due parti aumenteranno la cooperazione nella sicurezza nucleare e nella formazione del personale specializzato sul nucleare nell’Asia dell’Est e nel resto del mondo. Quest’anno la Cina crescerà del 10%, secondo le stime internazionali. Il tasso di crescita dell’economia dovrebbe invece rallentare nel corso del 2010: secondo quanto dichiarato da Fan Jianping, direttore della divisione di ricerca congiunturale del Centro statale di informazione, al quotidiano cinese People’s Daily, il tasso di crescita sarà del 9,2% nel terzo trimestre, ma frenerà in seguito a un ritmo dell’8-8,5% nel quarto trimestre (+10,3% nel secondo trimestre e
economia
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I numeri della crescita hanno radici nella svolta degli anni Novanta
Dalle grandi riforme alla sfida all’Occidente
Il miracolo iniziò con Deng Xiaoping, ma ora rischia di diventare un modello (illiberale) per gli emergenti di Gianfranco Polillo n anno e mezzo di crisi finanziaria ha prodotto i primi effetti. Il reddito pro-capite cinese, corretto dalla diversità del potere d’acquisto, ha superato quello giapponese. La Cina si colloca, cosi al secondo posto nella classifica dei Grandi. In testa restano gli Stati Uniti, ma il divario diminuisce a vista d’occhio. Prima della crisi si ipotizzava, per il 2020, una posizione di partita. Oggi è tutto più incerto e i tempi dovranno essere rivisti a favore di quello che solo qualche anno fa era considerato un continente addormentato. Imprevisti della storia. E non è questo l’unico paradosso. Negli anni Settanta, il pericolo giallo era rappresentato dal Giappone. Economisti di valore, come Kindleberger, preconizzavano l’inevitabile sorpasso e, con esso, la perdita di un primato. Poi la lunga crisi degli anni ’90 – da cui il Paese degli antichi samurai non si è ancora ripreso – ristabilì un più giusto equilibrio. Oggi quel baricentro si è spostato solo verso nord ed è la Cina a incutere timore. Rispetto al suo potente dirimpettaio le preoccupazioni sono minori. La sua potenza tecnologica non è quella del Giappone, ma i passi verso questa stessa direzione sono da gigante. C’è da dire che la storia è anche diversa. La Cina, almeno finora, non ha mai avuto tendenze imperialiste. Le basta il suo immenso territorio, per secoli e secoli considerato l’ombelico del mondo e la culla della vera civiltà. Ma non si può mai dire, come mostrano le concitate osservazioni degli analisti indipendenti. Solo qualche mese fa, l’Economist riferendosi a quel grande risveglio, parlava dei nuovi “colonialisti”, dopo aver esaminato l’andamento degli investimenti esteri: dagli Stati Uniti all’Africa, per non parlare dei paesi satelliti – dal Laos al Vietnam – che ne sono la naturale appendice.
U
Qui accanto, il primo ministro giapponese Naoto Kan, al vertice del Paese dal giugno scorso. Sotto, il presidente cinese Hu Jintao: le due economie asiatiche sono in conflitto da secoli, anche per antiche ragioni storico-poliche. A sinistra, Deng Xiaoping
+11,9% nel primo). L’anno prossimo il ritmo di crescita non terrà il passo con il 2010, ma «resterà almeno intorno all’8%», ha detto l’economista.
Gli economisti internazionali dicono invece che l’economia è ancora troppo dipendente dall’export, e che il paese ha una grande necessità di incrementare il consumo domestico per togliersi l’immagine di gigante dai piedi d’argilla. Ma anche sul fronte domestico si stanno realizzando passi in avanti molto significativi tanto che lo scorso anno, per la prima volta nella storia, la Cina ha superato gli Stati Uniti come primo mercato dell’auto al mondo. Anche qui la ragione da una parte è la saturazione del mercato americano, aggravata peraltro dalle politiche di incentivi degli ultimi due anni, ma dall’altra riflette la fame di benessere che ormai domina le menti di milioni di cinesi sempre più desiderosi di colmare il gap con i consumatori del resto del mondo. Pechino peraltro è chiamata a giocare partite difficili sul fronte dei rapporti commerciali con gli altri paesi dopo essere diventata nel 2009 il primo paese esportatore del mondo scavalcando la Germania. Anche perché, come ricorda Lardy, oggi il governo cinese può essere decisivo nell’allocazione delle risorse globali, e nel determinare il prezzo delle materie prime. Molto più di paesi con un Pil pro capite superiore al suo.
tata: non più la lotta di classe contro gli uomini della borghesia o contro i contadini ricchi, secondo gli slogan delle “guardie rosse”; ma una grande alleanza nazionale per imprimere al Paese un balzo in avanti, capace di abbattere, nel più breve tempo possibile, fame, inedia e sottosviluppo. Poi il regime, con il suo autocratico dispotismo, avrebbe fatto la differenza. Nessuna contraddizione, quindi, tra la sfera economica e quella politica. La democrazia – che oggi preme alle porte della Città proibita – poteva essere sacrificata in nome di un interesse superiore. E, oggi, di quella strategia si colgono i primi successi straordinari. Un valore simbolico, che va ben oltre gli importanti risultati economici, pure, conseguiti.
Quali riflessi internazionali? Parlare di scontro di civiltà sarà pure politicamente scorretto, però sta di fatto che l’Occidente è sempre più accerchiato. Da un lato il fondamentalismo islamico, con i suoi venti di guerra ed il volto assassino del terrorismo. Dall’altro una potenza – quella del continente asiatico – che cresce a passi da gigante e si congiunge con i nuovi soggetti della scena internazionale: l’India, il Brasile, la Russia di Putin. Un coacervo di forze che l’Occidente – con le sue grandi filiere finanziarie – ha contribuito a far nascere e consolidare. Dall’altro Stati Uniti ed Europa Occidentale che, nonostante la forza messa in campo – militare, economica e finanziaria - non riescono a trovare un denominatore comune che vada oltre la frammentazione statuale. Manca un’idea unificante: quel riferimento più esplicito alle comuni radici cristiane che è stato il faro che ha illuminato il cammino degli uomini. Nessun confessionalismo, per carità. Ma senso della storia. Si può essere laici, eppure riconoscersi in valori comuni, fecondati da un percorso millenario. Sempre da laico non si può non apprezzare il fondamento delle preoccupazioni di Benedetto XVI quando dice che «l’Europa rischia di congedarsi dalla storia». Del resto, per tornare alla Cina, è stata una corrente, seppure minoritaria e sconfitta del socialismo europeo, a guidare la sua rinascita. C’è quindi un giacimento culturale del tutto trascurato, che si dovrebbe riscoprire e rivalutare, emarginando coloro che vivono nel passato nella presunzione che quello sia un futuro da far ritornare. In Italia questa è la contraddizione di fondo che ha ucciso, finora, ogni speranza di rinascita. Il riformismo è stato ibernato in un bozzolo quasi liturgico.Tutti, a parole, sono riformisti; ma gratta gratta e ritrovi i fondamentalismi del passato e la spocchia di chi non vuole accettare le lezioni della storia. Oggi non si può più temporeggiare.
Parlare di scontro di civiltà sarà pure politicamente scorretto, ma sta di fatto che l’Occidente è sempre più accerchiato
Ma come si spiegano questi successi tanto eclatanti, quanto accelerati? Questo è il secondo paradosso della storia del ‘900. La Cina è uscita dallo stato di letargo in cui il maoismo l’aveva confinata facendo leva sulla sua più antica tradizione culturale – il confucianesimo – e sul lato storicamente più debole della tradizione socialista dell’Europa occidentale. Merito soprattutto di Deng Xiaoping, il riformista. L’uomo ch’era riuscito a sopravvivere alle purghe del precedente regime. Giunto al potere, riscoprì quei classici – da Bernestein a Bucharin – che la Terza Internazionale prima e lo stalinismo poi avevano condannato come nemici del popolo, fino a determinarne l’eliminazione fisica, dopo i processi farsa del regime. Era invece la NEP – la nuova politica economica dei primi anni della rivoluzione sovietica – che doveva essere rivalu-
società
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Polemiche. La proposta del ministro Frattini cade nel vuoto: mancano i fondi e il sostegno degli altri Paesi europei
La libertà religiosa? Costa troppo C’è la crisi. E il governo taglia la Conferenza internazionale niziative dell’Italia per la libertà religiosa e i cristiani nel mondo: un tema “sensibile” per il quale abbiamo una notizia buona e una cattiva. Quella cattiva è che non si farà – per mancanza di fondi – la Conferenza internazionale sulla libertà religiosa che era stata proposta dal ministro Franco Frattini all’inizio dell’anno. Quella buona è che il nostro Governo sta preparando una risoluzione sul diritto della libertà religiosa nel mondo da portare a settembre all’assemblea dell’Onu.
I
Giusto sette giorni addietro commentando la strage di otto medici protestanti –tra i quali tre donne – avvenuta in Afghanistan e rivendicata dai talebani, chiedevo dove fosse finita la Conferenza internazionale proposta dal nostro Governo e che
di Luigi Accattoli rebbe stata una spesa aggiuntiva, impensabile a questi chiari di luna. Ma non è stata solo questa ragione interna a bocciare la conferenza. Come si usa, l’Italia aveva chiesto ai partners dell’Unione Europea e ad altri che ne pensassero di quel progetto e se fossero disposti a contribuirvi. L’interesse non era negato da nessuno, ma un contributo non era promesso da alcuno. Da qui la decisione di soprassedere, presa in maggio. C’è da sperare che l’idea sopravviva ai tagli e che possa essere ripresa quando sarà superata la congiuntura economica italiana e planetaria. Sarebbe bene che intanto fosse diffuso un qualche rapporto – sia pure minimale – su quanto si è elaborato sul tema nei mesi in cui
L’esecutivo sta preparando un documento sul tema dei diritti e delle tutele necessarie all’esercizio della fede nel mondo, e contro la cristianofobia, da presentare all’Onu avrebbe dovuto tenersi entro l’anno in Italia. Non se ne aveva più alcun riscontro pubblico e quello che temevo è risultato con chiarezza a un rapido giro di indagine: i tagli di Tremonti e la congiuntura economica internazionale l’avevano tagliata dall’agenda. Più volte nei mesi scorsi il ministro Frattini si è scontrato con il ministro Tremonti per le sforbiciate al bilancio della Farnesina che l’ha costretto a ridurre la previsione di spesa, già magra per tagli intervenuti negli ultimi anni. La Conferenza internazionale sa-
il progetto ebbe vita in modo che ne resti traccia e domani non si debba ripartire da zero. Vanno poi incoraggiati – il ministro Frattini e i suoi collaboratori – nel lavoro che stanno affrontando in vista dell’assemblea generale delle Nazioni Unite, che avvierà i suoi lavori a settembre. Si tratta di presentare la bozza di una nuova risoluzione più concreta rispetto a quella che fu approvata nel dicembre 2009, sempre su proposta italiana. La risoluzione dell’anno scorso condannava tutte le forme di intolleranza e di di-
scriminazione basate sulla religione o sul credo e denunciava l’aumento di episodi di intolleranza nei confronti delle comunità religiose nel mondo, tra le quali anche quelle cristiane. La nuova risoluzione dovrebbe fare un riferimento più esplicito alla “cristianofobia” che va montando in tanti paesi e che andrebbe ormai considerata alla pari della islamofobia e dell’antisemitismo. Per presentare una tale proposta, la nostra diplomazia dovrebbe avere – come l’ebbe l’anno scorso – il sostegno dei 26 partners dell’U-
nione Europea. Anche su questa materia, come su quella della Conferenza internazionale e del “protocollo comune” al quale dovrebbero attenersi le ambasciate europee per “monitorare” il trattamento delle minoranze religiose in ogni parte del mondo (su questa materia una prima verifica si è avuta in luglio), sarebbe bene disporre di qualche riscontro pubblico.
Il 20 luglio si è avuta la prima riunione della “Task Force sulla Libertà di religione o di culto” prevista dal “Piano d’A-
L’omelia di Ferragosto di Tettamanzi
No alla politica egoista MILANO. «L’egoismo e l’individualismo sono gravi e devastanti quando vengono da chi dovrebbe ”dare un contributo decisivo alla costruzione del bene comune». Ha usato parole dure, l’Arcivescovo di Milano Dionigi Tettamanzi, durante l’omelia di ferragosto in Duomo. Al centro dell’omelia un invito a guardare agli altri senza rinchiudersi nell’individualismo, nell’egoismo, nell’io diffuso nella politica come nella famiglia, nel sindacato, nell’impresa, nella società: «Il rischio che tutti corriamo è di guardare in basso, solo in basso, imprigionati e rovinati come siamo dal nostro io. Un io - ha proseguito - che ripiegandosi su se stesso tende ad assolutizzarsi, a configurarsi
come un “idolo” da adorare e per il quale si è disposti a sacrificare tutto. Ma un io così inquina il rapporto essenziale che ciascuno di noi ha con gli altri: siamo fatti per l’incontro e la relazione. Quando però prevale l’affermazione del proprio io, la sensibilità verso l’altro diviene indifferenza, l’impegno verso l’altro non è più percepito e vissuto come responsabilità». Tettamanzi ha parlato di «famiglie che vivono isolate tra le proprie mura» spiegando che «lo stesso purtroppo capita in alcuni gruppi, dove il bene dei singoli non è perseguito in relazione al bene comune dell’intera società, ma ricercato contrapponendosi ad altri, non di rado a scapito e a danno del bene altrui».
zione” in tale materia elaborato su prevalente proposta italiana dagli esperti dei diritti umani dell’Unione Europea. La Task Force ha il compito di supervisionare l’attuazione delle varie azioni previste nel piano e, in generale, della strategia complessiva dell’Unione in questo settore. Si tratta di una strategia che prevede una duplice azione, bilaterale e multilaterale. A livello bilaterale, l’Unione Europea avvierà una campagna di sensibilizzazione da realizzarsi entro la fine del 2010 presso alcuni Paesi “prioritari” individuati per la loro lontananza dal criterio europeo di libertà religiosa (Paesi da richiamare al rispetto di quel diritto), o per la loro conformità a esso (e che potrebbero collaborare con noi su tale tematica). A livello multilaterale, l’Unione Europea continuerà a lavorare in ambito Nazioni Unite, sul controverso tema della “diffamazione delle religioni” e in vista della risoluzione da proporre all’assemblea generale, alla quale si è già accennato.
Il ministro Frattini è il primo tra i ministri degli Esteri italiani a tracciare un programma di interventi – bilaterali, europei e in sede Onu – a difesa dei cristiani perseguitati. La sua azione andrebbe sostenuta e incalzata dall’opinione pubblica. Andrebbe anche finanziata, si capisce. Ma se la crisi economica non lo permette, lo si aiuti almeno nelle iniziative che non comportano nuova spesa. Egli intanto informi di più, perché l’appoggio esterno possa essere più costruttivo. www.luigiaccattoli.it
L’
otto pagine per cambiare il tempo d’agosto
i m p r e s a
17 agosto (1982)
La Philips lancia sul mercato “ The Visitors” , il primo compact disc
L’AbbAndono del vecchio disco di Alfonso Francia
uando si dice nascere sotto una cattiva stella. Dopo anni di studi, alleanze fallite e false partenze, la Philips era riuscita, all’inizio degli anni Ottanta, a produrre il compact disc nel suo aspetto definitivo. Quell’oggettino circolare era il risultato di almeno dieci anni di sperimentazioni, condotte parallelamente alla giapponese Sony. Le due aziende avevano deciso di unire le forze nel 1979, per evitare di doversi dare battaglia promuovendo due prodotti diversi nella nascente industria discografica digitale. Inizialmente la Philips aveva lavorato a un prototipo di dieci centimetri di diametro, capace di registrare 66 minuti di musica. Nella fabbrica di Hannover, in Germania, era già stato messo a punto un macchinario in grado di produrre questi dischetti. Tanta rapidità non andava a genio alla Sony, che non possedeva ancora un’apparecchiatura pronta a lavorare e non intendeva lasciare al suo “partner” un simile vantaggio. Così i giapponesi imposero un nuovo prototipo, leggermente più grande, che costrinse la Philips a costruire delle nuove attrezzature produttive. La decisione venne poi mascherata con una storiella che gira tuttora: si raccontò che a volere il cambiamento di dimensioni fosse stato il vicepresidente della Sony Norio Ohga, grande appassionato di musica classica. Desiderava che il cd fosse in grado di contenere 74 minuti di musica, esattamente la durata della Nona sinfonia di Beethoven. In ogni caso, questo ampliamento delle dimensioni si rivelò presto un grave errore: il dischetto era diventato troppo grande per le esigenze degli appassionati di jogging e di chi amava ascoltare musica in strada o sull’autobus; questo tipo di clientela continuò quindi a preferire gli agili walkman a cassetta agli ingombranti lettori cd portatili. Nell’aprile 1982 le sperimentazioni furono dichiarate concluse e il cd venne presentato ufficialmente alla stampa; in quell’occasione il direttore tecnico della divisione audio della Philips annunciò con orgoglio che «da ora in avanti, il tradizionale giradischi è da considerarsi obsoleto». continua a pagina 10
Q
LA PERDUTA GENTE - CAPITOLO 11
I TESORI DELLE CIVILTÀ - PETRA
CINEMA CALDO - PRANZO DI FERRAGOSTO
Cronache di giovani amanti
Capolavoro scolpito nella roccia
Getta le nonne nell’afa
di Carlo Chinawsky
di Alessandro Boschi
di Rossella Fabiani
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pagina 16 pagina 9 - liberal estate - 17 agosto 2010
A sinistra, la cover di “The Movie” , album degli svedesi Abba (a destra e in basso, nelle foto)
A quel punto si poneva il problema del lancio sul mercato. Le strade di Philips e Sony dovettero separarsi, perché erano proprietarie di etichette discografiche concorrenti: gli olandesi possedevano la Polygram, mentre i giapponesi pubblicavano in proprio con il loro marchio. Urgeva trovare un album da pubblicare nel nuovo formidabile formato, un titolo che garantisse un successo di vendite tale da trainare subito la nuova meraviglia digitale. In quell’estate del 1982, parecchi giganti della musica pop si davano battaglia: lo Sheffield sound era padrone delle classifiche con Abc e Human League, il cui album Dare restò in classifica per due anni, mentre i Duran Duran cominciavano a imporre un’egemonia che sarebbe durata fin quasi alla fine del decennio. Ma invece di affidarsi alle nuove leve, alla Philips preferirono puntare sicuro su un gruppo che ormai era considerato un’istituzione, gli Abba. Il primo cd destinato alla commercializzazione, fu quindi The Visitors, l’ultimo lavoro del quartetto svedese: uscì dagli stabilimenti Philips di Langenhagen, a pochi passi da Hannover, in Germania, il 17 agosto del 1982.
La scelta sembrava un colpo sicuro: il gruppo aveva praticamente monopolizzato le classifiche dalla metà degli anni ’70 con album sempre più svergognatamente smielati, sdoganando orchestrazioni sintetiche contro le quali i tre accordi in croce del punk potevano poco o nulla. Tra lp, ep e singoli avevano già venduto un centinaio di milioni di dischi. Persino l’Inghilterra si era fatta ammaliare da questa doppia coppia di svedesi dalle pettina-
ture improbabili, e aveva decretato un successo commerciale da capogiro. La patria dei Beatles fu ben lieta di tributare ai conquistatori vichinghi, tra il 1975 e il 1980, ben dieci numeri uno nella classifica dei singoli e sette in quella degli album. Secondo i calcoli di svariati economisti, alla fine degli anni ’70 gli Abba erano la seconda industria del loro paese natale dopo la Volvo. Sembrerebbe logico, in teoria, che alla Philips abbiano pensato di affidarsi a loro per battezzare quel piccolo disco che prometteva meraviglie. Guardando alla data di uscita dell’album però si scopre un particolare inatteso. Nella versione in vinile The Visitors era uscito già da quasi un anno, precisamente dal novembre del 1981: non era quindi una novità. Il modernissimo cd esordiva così con un titolo che saerano oggettivamente sorpassati. Per di più, quel disco aveva venduto sensibilmente meno dei precedenti, e anche dal punto di vista artistico non era sembrato granché. Intendiamoci, per la critica, che li ha rivalutati solo di recente, gli Abba producevano canzoncine senza pretese artistiche, ma se non altro si riconosceva loro un gusto innato per la melodia appiccicosa e facile da ricordare. Peccato che in Visitors di canzoni a presa immediata non ce ne sia neanche una.
Lo scioglimento degli Abba non giovò alle vendite dei primi cd: un esordio poco entusiasmante per il nuovo prodotto, che restò per molto tempo un oggetto misterioso
peva già di vecchio, per di più per un gruppo che era sul punto di sciogliersi e apparteneva inequivocabilmente alla generazione passata. Rispetto a gente come Duran Duran e Michael Jackson, che stava preparandosi a conquistare il mondo con Thriller, gli Abba
pagina 10 - liberal estate - 17 agosto 2010
Registrato in un periodo di tempo lunghissimo per i loro standard, quasi nove mesi, l’album fu il parto di un gruppo umanamente allo sfacelo. Le coppie Benny Andersson e Frida Lyngstad e Bjorn Ulvaeus e Agnetha Faltskog si erano appena divise, e la convivenza nello studio non era facile. Non c’era però aria di rottura, perché nessuno aveva intenzione di abbandonare un gruppo capace di vendere milioni di dischi a ogni uscita. I quattro lavorarono quindi da separati in casa, cercarono di trovare una via d’uscita ai loro malumori scrivendo canzoni per la prima volta pensose, introspettive, colte a riflettere su temi difficili. Addirittura si tentò una sorta di denuncia politica con la titletrack, che narra di oppositori alle prese con
un non meglio definito regime dittatoriale (l’Urss, che su certi temi era parecchio sensibile, si sentì messa in mezzo e decise di proibirne la vendita. Chissà come ci sarà rimasto male un loro fan diventato poi parecchio celebre, un allora trentenne ufficiale del Kgb che rispondeva al nome di Vladimir Putin). I let the music speak cercava invece di battere nuove strade in campo melodico sperimentando delle sonorità che sarebbero state adatte per uno spettacolo di Broadway; ma i tempi del musical Mamma mia! erano ancora di là da venire, e nessuno sembrò apprezzare l’esperimento. Il resto delle scaletta rifletteva amaramente sulle delusioni d’amore che i quattro stavano vivendo (When all is said and done, Slipping through my fingers), oppure cercava di scrollarsi di dosso la malinconia senza troppa convinzione (Two for the price of one). Persino la copertina sottolineava il clima dimesso e crepuscolare dell’album. I quattro, ritratti all’interno di una stanza illuminata solo dalla luce delle candele, sono lontani tra loro e tengono lo sguardo fisso su punti diversi. Le ombre che si allungano alle loro spalle sembrano anticipare il futuro deludente che li aspetta. Stranamente la critica apprezzò questa versione sommessa e intima del gruppo: il Los Angeles Times parlò di “crescita impressionante”, Billboard addirittura lo considerò “il primo vero capolavoro del gruppo”. Solo il tradizionalmente snob e acido Creem sbeffeggiò il nuovo stile con una recensione irridente: «Gli Abba hanno dei sentimenti. Gli Abba sono socialmente coinvolti. In effetti, gli Abba
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o stesso giorno...
«Fu una spedizione straordinaria in tutti i sensi – raccontò anni dopo il capitano Yuri Kuchiyev – Ero felice e orgoglioso di aver realizzato di Francesco Lo Dico il sogno dei navigatori di tutti i tempi» ra il 17 agosto del 1977, quando ebbero una forte accelera-
L’impresa di Arktica, la prima nave all’orizzonte del Polo
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prendono le cose così seriamente e reagiscono alla vita e all’amore con tale insostenibile intensità che Ingmar Bergman farebbe bene a scritturarli per una colonna sonora». Anche senza aver letto certe prese in giro, il pubblico abituato alle rinfrescanti spensieratezze di Gimme gimme e di Waterloo, non gradì eccessivamente. Se in Inghilterra l’ultimo numero uno in classifica non venne negato, negli Stati Uniti il singolo estratto, When all is said and done, arrivò stentatamente alla 27esima posizione. Era l’inizio della fine. Proprio in quell’estate
sul grande proscenio di ghiaccio del Polo Nord fece apparizione Arktica. La nave nucleare rompighiaccio della flotta sovietica, raggiunse il settentrione del mondo attraversando per intero la superficie della banchisa artica. «Fu una spedizione straordinaria in tutti i sensi – raccontò anni dopo il capitano dell’impresa, Yuri Kuchiyev, che oggi viaggia al largo degli ottanta anni – Ero felice e orgoglioso di aver realizzato il sogno dei navigatori di tutti i tempi e di tutti i popoli». Prima di lui, qualcun altro aveva raggiunto il Polo, ma alla guida di un sottomarino. Nel 1958, il sommergibile statunitense Nautilus, a propulsione nucleare, navigò per primo sotto l’oceano Artico dallo stretto di Bering all’Islanda, passando sotto il Polo Nord, in circa dieci giorni. E a quel punto, le ricerche scientifiche nelle regioni artiche
giunse la vetta nelle classifiche di vendita in nessun Paese e nella loro seconda patria, l’Inghilterra, si fermò al numero 32. Fu questo disastro commerciale a convincere i quattro che il tempo degli Abba era finito, che era insomma arrivato il momento di separarsi anche artisticamente. L’inatteso scioglimento certo non giovò alla sorte della
zione che portò alla creazione di oltre trecento stazioni di ricerca da parte di numerosi Paesi competitor nella corsa ai ghiacciai. Orgoglio russo, l’imbarcazione rompighiaccio condotta con feroce determinazione Yuri Kuchiyev, era dotata di un motore di 75mila cavalli di forza ed era in grado di triturare in mille pezzi il ghiaccio fino a una profondità di cinque metri. Proseguendo verso il 90° Nord, la flotta dell’Arktica si imbattè nel pack, un caleidoscopio di banchi di ghiaccio alla deriva con piscine naturali e canali, lasciando sulla propria scia grandi blocchi di ghiaccio blu. La nave artica non frantumava le lastre di ghiaccio direttamente con la prua, bensì sfruttava la sua inerzia e la spinta propulsiva per sollevare la prua sopra il ghiaccio. Grazie al suo peso, Arktica provocava cioè la rottura del
in vendita nell’autunno del 1982, i primi lettori in grado di farli ascoltare arrivarono nei negozi statunitensi e in quelli europei solo nella primavera del 1983. Così i primi acquirenti tennero i loro cd in casa per mesi prima di poterli sentire. Ma i problemi non finivano qui: pubblicizzato come il mezzo del futuro, il cd manifestò agli appassionati un gran numero di difetti. Progettato per contenere 74 minuti di dati audio, sfruttava solo una
canzoni non incluse nella versione su disco, come lati B e brani originariamente scartati. Inoltre l’aspetto estetico dell’oggetto, racchiuso in una scatolina di plastica, lasciava molto a desiderare. Il contenitore, battezzato jewel case, pesava ben 100 grammi, era fragile e soprattutto difficile da aprire. I testi delle canzoni stampati nel libretto interno erano così piccoli da essere praticamente illeggibili. Come se non bastasse, i negozianti non sembravano affatto entusiasti del nuovo prodotto. Molti si lamendelle tarono sue dimensioni ridotte, che lo rendeva facile da rubare e suggeriva un’idea di scarso valore. Inoltre ben presto si diffuse la voce che gli “indistruttibili” cd erano destinati a rovinarsi e diventare inascoltabili nel giro di pochi anni, nonostante le pubblicità della Philips che garantiva “un suono puro e perfetto per sempre”. Ma il vero dramma era la qualità audio; i primi strumenti utilizzati per digitalizzare il segnale analogico erano ancora rudimentali, così il suono registrato era di qualità scadente. Nella versione in cd di Visitors
I 33 giri duravano all’incirca 40 minuti, ma nessuno aveva pensato di incoraggiare i potenziali acquirenti del nuovo prodotto offrendo canzoni non incluse nella versione su vinile, come lati B e brani scartati. Inoltre l’aspetto estetico lasciava molto a desiderare. E poi era fragile e poco pratico del 1982, con la versione in cd di Visitors che si preparava a uscire nei negozi (per comprarlo bisognò attendere l’autunno), il gruppo pubblicò un ultimo singolo, The day before you came, che si rivelò un fiasco clamoroso. Non rag-
versione in cd di Visitors, che infatti passò quasi del tutto inosservato. Un esordio ben poco entusiasmante per il nuovo prodotto, il quale restava una sorta di oggetto misterioso. Se infatti i primi cd furono messi
piccola parte dello spazio disponibile.
I dischi di musica leggera duravano all’incirca 40 minuti, un minutaggio standard per i dischi in vinile. Nessuno aveva pensato di incoraggiare i potenziali acquirenti offrendo
ghiaccio che aprendosi lasciava tornare la prua in mare. Un sistema di avanzamento, che creò molti pericolo al sistema di propulsione. Costruita appositamente per la storica spedizione, Arktica è ancora oggi in servizio. Decana delle flotte russe, rotta a ogni pericolo ma sempre indenne, corre solenne nel porto di Murmansk, dove scorta petroliere e navi cargo attraverso i ghiacci.
le percussioni sembrano di cartone e il suono è piatto e spento. Così, in quel tribolatissimo 1982, la fabbrica di Hannover produsse appena 400mila cd, in buona parte titoli di musica classica che non richiedevano il pagamento di diritti particolarmente onerosi.
La situazione non migliorò molto tra il 1983 e il 1984. I cd costavano tanto, molto più dei tradizionali vinili, e per di più non sembravano attrarre i veri appassionati, quelli che avevano l’abitudine di comprare dischi a manciate. In molti cominciarono a pensare che la tanto decantata rivoluzione digitale fosse arrivata troppo presto, o che non sarebbe arrivata mai. Alla Philips tuttavia non si persero d’animo, e lavorarono per rendere disponibili nel nuovo formato quanti più dischi possibili. Finché, nel 1985, Brothers in arms dei Dire Straits riuscì a vendere oltre un milione di copie in formato cd. Il gruppo di Mark Knopfler aveva accettato di pubblicizzare massicciamente il cd e di magnificarne le doti, e riuscì a convincere il pubblico americano. Da allora il formato prese una crescita inarrestabile culminata nel 2000, quando si vendettero oltre due miliardi e mezzo di cd musicali. Ma in quell’anno era arrivato Napster, la piattaforma che offriva musica in formato digitale senza supporti fisici e soprattutto senza spesa. Il cd si preparava ad affrontare un rapido declino, ma questa è un’altra storia.
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IL GIALLO
CAPITOLO 11 Cronache di giovani amanti Due personaggi in cerca di amore e un racconto da leggere a fondo: nella finzione si cela la verità di Carlo Chinawsky
A
vevo poggiato sul tavolo alcuni fogli. C’era un racconto di Jorio. Glielo lessi perché a Marina piaceva sentirmi parlare. S’intitolava Dalla finestra. «Walter è convalescente e divide il tempo libero fra lettura, televisione, rare passeggiate. Ha ripreso la passione di quand’era ragazzo: guardare dalla finestra. Misura e controlla le abitudini della gente, è molto attratto dai vecchi. Il balcone della cucina di Walter si affaccia in un piccolo rettangolo erboso dove alberelli fiacchi illudono sulla primavera. Quella dove lui abita è una di quelle case venute su con il gusto orrendo degli anni Sessanta. Forma una Elle con le facciate interne dei due edifici alla sua sinistra».
Marina mi chiese se potesse corrispondere a quel che si vedeva dalla finestra di Jorio. «Ci stavo pensando». «Dai Nico, continua». «Al secondo piano della casa più prossima all’angolo retto vive la famiglia Colomba: un uomo, una donna e un bambino di otto-nove anni. Alle sette e dieci di ogni mattina la donna spalanca le persiane attenta a non impolverarsi le dita, che poi si strofina accompagnando il gesto con una smorfia di disappunto. Qualche minuto dopo appare la schiena del marito: camicia a righe o a
quadrettini, spesso sul beige. Walter conosce ormai molte cose: tutte le sere mangiano alle otto meno un quarto, nel fine settimana se ne vanno con macchina più grande, quella di lui. Di tanto in tanto c’è una signora anziana. È la nonna. Fine giugno, verso le sei di sera Walter nota movimenti che non rientrano nella routine. Va sull’altro balcone e capisce che stanno partendo per le vacanze. Sul tetto dell’auto ci sono i remi di un canotto e una piccola bicicletta. Diretti al mare, quindi. Tutti salvo lei. Walter la ritrova dopo mezz’ora in un’altra cornice, quella del vetro smerigliato del bagno. Con i movimenti di un’ombra cinese si lava, si trucca, si pettina. Perché a quell’ora? Va in cucina. Prima aveva un vestito a fiori, ora ne indossa uno nero, elegante, aderente. Walter pensa che sia profumata. Chiude le imposte, sempre con due dita, ma prima guarda il cielo. S’affaccia sulla strada, allora. E nota una cabriolet amaranto in doppia fila. L’uomo al volante spegne il motore e inserisce i lampeggiatori della sosta. Con la mano sinistra sistema il retrovisore, con la destra stringe il bordo del sedile in pelle, poi si tocca il naso e se lo guarda nello specchietto. Lei sale sulla cabriolet. Capelli gonfiati dal pettine, con qualche ciocca che ca-
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de con studiato disordine, sandali con tacco alto e lacci attorno alle caviglie. L’uomo ha pochi capelli, scurissimi, forse tinti. Il rombo dell’auto rotola per la strada. Walter s’intristisce. Pensa all’uomo semi-calvo e decide di essere dalla parte di lei e delle sue abitudini quiete. Malgrado alcune marginali occupazioni è stata una giornata di noia. La sua vita è svuotata. La riempie con le vicende di quella donna. A mezzanotte e mezza spegne il televisore e va a prendere un po’ di fresco sul balcone di cucina.
Vede la finestra buia e Walter si chiede dove lei sarà. La pensa in una sala da ballo o in un motel vicino alla tangenziale; sa che ce n’è uno in via Corelli, ricorda di aver letto cartelloni affissi sopra le arcate dei “Tre ponti” là dove s’imbocca il viale Forlanini. Malgrado non ci sia mai stato, pensa all’odore del disinfettante e della plastica, ai cassetti vuoti che fanno un rumore secco se li apri e li chiudi. Dopo mezz’ora la finestra si illumina. Quella luce è la fine dell’avventura. Costruisce uno scenario, quasi un fumetto in bianco e nero: scambi di battute, la mano del semicalvo che sfiora quella di lei sulla tovaglia, cautela ammiccante nel proporre il prolungamento della serata alla solita maniera.
Alle sette e mezza della mattina dopo, Walter è davanti al portone della signora Columba. La vede uscire, la fissa guardandola dritto negli occhi. È sorpreso dalla facilità con cui le chiede di poterla accompagnare alla macchina Tutto questo la lusinga, ma solo per un attimo, poi si ricorda dei telefilm visti in cucina, allora arrossisce e lui capisce una cosa per un’altra. Si alza, va alla toilette. Le viene da piangere davanti allo specchio, che ha un gancio arrugginito come quello di casa sua. Ha un conato di vomito guardando le macchie giallastre del cesso, sente il vociare della sala da pranzo, fissa di nuovo lo specchio e ha la tentazione di salutarsi alzando la mano come se fosse alla stazione. Le piacerebbe in quel preciso momento essere su un treno che va lontano, seduta su una poltrona di prima classe. La signora Columba appoggia sul tavolo un sacchetto di plastica dura, forse di una boutique, nel quale probabilmente aveva messo una camicia da notte, lo spazzolino da denti, un deodorante, una boccetta di profumo. E Walter le attribuisce un pensiero: non sta bene essere uscita così, già pronta.
Poi la luce della cucina scompare. Nelle due serate successive la stessa cabriolet amaranto si accosta alle auto parcheggiate. Lei sale portando con sé lo stesso sacchetto di plastica dura. La terza sera, forse per prudenza, la scena cambia: l’uomo l’aspetta un po’ più in là, quasi all’angolo col viale. Magari perché lei si era accorta dello sguardo di Walter». «Che squallore» fece Marina. «E se avesse descritto una scena vera?». «Penso di aver capito». «Walter è l’autore del racconto e quella esiste davvero». Afferrandole la mano le dissi che gli amori degli altri sono sempre ridicoli a osservarli bene. Annuì. Aveva un lieve baffo di yogurt sopra le labbra, stava bene così. Le ricordai una frase di Colette: «L’amore è una cosa poco rispettabile». «Quella la sapeva lunga. Ma si sarà comportata anche lei come la Columba. La differenza è che Colette scriveva. Vai avanti, Stauder».
LA PERDUTA GENTE Accetta il trasferimento in un’altra città. Torna alla sua terra e siccome non sa come dirlo a Susanna decide di non dirglielo. Fa già freddo. Susanna apre le imposte e volge lo sguardo al balcone. Stavolta fa una cosa che non ha mai fatto: allarga le braccia
Illustrazione di Michelangelo Pace
Nelle puntate precedenti Mantelli confida al colonnello Stauder che forse il finanziere Torchini, di recente scarcerato, era a conoscenza del documento compromettente che avrebbe potuto inchiodarlo. Poi Stauder va a fare visita a Marina, dottoressa con la quale intrattiene una relazione amorosa. L’uomo le racconta della liaison tra Patrizia e Rosalba, e comincia a leggere alla donna un racconto di Alcide Jorio, che è intitolato “Dalla finestra”.
«Dopo cinque sere c’è una variante, non di poco conto. Sulla cabriolet che aspetta la donna è seduto anche un altro uomo, più giovane. Nella testa di Walter si accavallano brutte ipotesi. È l’aspetto del secondo uomo che gliele suggerisce: uno che vince a poker, uno spudorato. Si siede sul bordo del letto, è sudato. Poi si al-
za e va in cucina a bere un po’ d’acqua. Walter parla da solo: vorrei essere io a sfilarle i sandali coi laccetti. L’auto amaranto torna quasi alle tre di notte. Lei dunque dorme pochissimo visto che continua a lavorare. Lui la vuole assolvere, immaginandola vittima. E vorrebbe salvarla. Ha ormai saltato il fosso: prima osservatore, ora attore. Alle sette e mezza della mattina dopo, Walter è davanti al portone della signora Columba. La vede uscire, la fissa guardandola dritto negli occhi. È sorpreso dalla facilità con cui le chiede di poterla accompagnare alla macchina. Gli piace molto il modo in cui lei gli chiede perché, la bocca che si piega all’ingiù. Pensa che le sue labbra siano belle. Risponde: «Così». Lei pare rassegnata. S’irrigidisce quando lui accenna all’uomo della notte. La tensione cala quando le spiega di non essere un poliziotto o un detective privato. Poi aggiunge che l’uomo semicalvo gli è parso di poca classe, non alla sua altezza. Si avviano uno accanto all’altra. «Parla di classe e non sa che il ricatto è l’opposto della classe, ma come si permette!». Ribatte lei. «Parliamo un po’. Fino a quando arriva al suo posto di lavoro». Lei fa sì col mento. In macchina lei non fa domande, ha una guida a scatti. Lui guarda il profilo del seno e gli piace l’idea di essere il suo amante estivo. Lei probabilmen-
te intuisce e a un semaforo abbassa la gonna. Parcheggia in un viale periferico, dietro la stazione di Lambrate. Una donna anziana con le scarpe da ginnastica cammina facendo dondolare i due sacchetti del supermercato con la scritta gialla, un uomo col cappello fuma fissando un citofono. Walter le tocca lievemente la spalla e le dice di essere dispiaciuto e la prega di non fraintendere. Un caffè? Entrano in un bar dove c’è puzza di vino e il bancone è sporco. Non si scambiano una parola e quando escono le chiede di aspettarlo solo un momento.
Due minuti più tardi Walter torna con una rosa gialla, col gambo avvolto per metà dalla stagnola, lei dice grazie, con gli occhi sul fiore. Poi guarda l’orologio. Walter pensa che qualcuno potrebbe osservarli da una finestra. La storia si è capovolta. L’accompagna fino all’ingresso di una ditta di trasporti. «Come ti chiami?». «Susanna», e s’avvia tenendo in alto la rosa. Tornato a casa, Walter fa una doccia poi si decide a leggere il giornale. Molte ore dopo il trillo del campanello: è Susanna con un abitino a fiori, semplice e fresco come quello che indossava alla partenza della sua famiglia per il mare, sandali marroni con i tacchi bassi. Mangiano in soggiorno e lei lo guarda divertita mentre lui va e viene dalla cucina coi piatti in mano. Non
vuole che lei lo aiuti a sparecchiare. Allora Susanna si siede sul divano e fuma una sigaretta. Si guarda i piedi, si accorge che lo smalto non è uniforme. Walter accende la televisione e ridono assieme davanti a un comico americano che fa le boccacce e gesticola con le mani grandi. Dopo un’ora sistemano le sedie sul balcone della cucina. C’è un accenno di brezza. Susanna racconta di quando era bambina in un paese del Piacentino, della nonna che l’accompagnava tra i filari di pioppi, in mezzo alla nebbia, e lei aveva paura di incontrare elfi e gnomi.Walter le fa molte domande. Vorrebbe che il racconto durasse tutta la notte. Lei ha il viso contento, come se fosse ancora nella nebbia del Po ma senza gnomi e senza elfi in agguato. È l’una di notte.Walter si alza e, accarezzandole la guancia, le dice «Sei stanca, ora vai a dormire». «Grazie Walter, è stato molto bello». La sera dopo vanno al cinema, poi in pizzeria dove ridono tanto. A Walter piace vederla così e glielo dice. E poi e poi. S’incontrano tutte le sere e anche nella pausa dell’una quando lei esce dall’ufficio. Una sera passeggiano in centro, sotto i portici di corso Vittorio Emanuele, si tengono per mano e Walter si chiederà per molto tempo chi dei due abbia stretto per primo l’altra mano. Una sera, quando la luce del lampione entra in casa e si sbriciola sui loro corpi sudati, lui le fa altre domande e lei risponde sdraiata su un fianco con la testa appoggiata sul palmo della mano. Il seno segue il ritmo del respiro. Gli chiede: «Che cosa faremo in autunno?».«Vedremo». Poi l’agosto, Walter continua a guardare quella finestra. Si telefonano spesso. Un giorno Susanna lo informa che va al mare col bambino. In settembre Walter si sottopone a una lunga serie di esami medici che confermano la sua completa guarigione. Ha però nostalgia della convalescenza.
Continua a incontrare Susanna nell’intervallo della colazione in un albergo, una stanza con il lavandino che si vede dal letto, un particolare che non piace a nessuno dei due. Susanna ha sempre una borsa piuttosto grande dove tiene due panini e una lattina di Coca Cola. Mangiano sul letto dopo aver fatto l’amore, poi spazzano via le briciole e ridono. Lo chiamano «il nostro pic nic». Un giorno lei accenna all’uomo con la cabriolet
amaranto, ma Walter le fa una carezza, le preme il dito sulle labbra e scuote la testa: è una cosa di nessuna importanza. Verso la fine di ottobre Walter riceve la notizia alla quale non pensava più e risponde di essere disponibile.Accetta il trasferimento in una città del centro Italia: la banca lo ha favorito, forse anche per le sue condizioni di salute. Torna alla sua terra e siccome non sa come dirlo a Susanna decide di non dirglielo. Fa già freddo. Susanna apre le imposte e volge lo sguardo sorridente al balcone di Walter. Di solito lo vede sempre lì, ad aspettare, per poi grattarsi la testa: un gesto buffo, convenuto, a significare ti penso, ti bacio, ti aspetto nella camera d’albergo col lavandino in vista. Stavolta non si gratta la testa ma fa una cosa che non ha mai fatto: accosta le dita alle labbra e poi allarga le braccia. Susanna pensa a un bacio e a un abbraccio, sorride all’imprudenza, si sente ragazza coi calzettoni bianchi davanti al bar del paese. Il giorno dopo un macigno le schiaccia il petto, si sente distrutta, ha voglia di gridare. Non si trattiene e a tavola piange davanti al figlio che la guarda spaventato.Walter ferma la macchina in un punto dove il cielo appare immenso e gli alberi dorati gli ricordano i capelli di Susanna. Tra poco sarà a casa dei genitori e parlerà molto di lei. Decide, prima di addormentarsi nella sua camera di ragazzo, di far passare alcuni giorni prima di telefonarle perché vuole indagare sul significato di un’assenza. Quando compone il suo numero dell’ufficio s’accorge di avere le mani sudate. Le dice «ti aspetto, ti piacerà il cielo che guardo ogni giorno» e le ricorda gli gnomi e gli elfi. Poi aggiunge: «I miei genitori ti aspettano, sanno di te». Susanna piange, con la testa piegata sulla cornetta del telefono. Una collega la guarda con aria stupida. Al computer Susanna digita Trenitalia.it. Per il resto della giornata lavora in modo svogliato. Pensa alle parole da dire al marito». «Io avrei fatto morire Walter», disse sbadigliando Marina. «Mi verrebbe voglia di andare su quel balconcino, a casa di Jorio». «Se vuoi…». «Ma va. Dormiamo, Marì, è tardissimo». «Mi sposeresti? Come Walter farà con Susanna… ». «Se tu fossi infelice». «Ho voglia di dormire a casa tua, a Roma». «Ci penseremo». «Sì, amore. Ma continua ad abbracciarmi». Era la prima volta che diceva amore.
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DIAMO I NUMERI Gesù non morì trentatreenne, o almeno non è certo. Il tradizionale riferimento risulta direttamente da un dato evangelico preso troppo alla lettera. Giuseppe Flavio, ad esempio, scrive che Erode il Grande morì nel 4 a.C... li anni di Cristo, 33. Tombola! Complimenti, ma mi sa che bisogna accontentarsi della cinquina. Gli anni di vita di Gesù non sono stati infatti 33, o almeno è tutt’altro che certo che lo siano stati. Questa età risulta direttamente da un dato evangelico, ma preso troppo alla lettera: Luca 3,23 infatti dice che all’inizio del suo ministero Gesù aveva circa trenta anni (cifra che peraltro richiama simbolicamente re Davide), e dai Vangeli risulta che l’attività pubblica di Gesù durò circa tre anni. Calcolo facile, e forse, per essere onesti, non è neanche un elemento che si distanzia tanto dalla realtà, però non si può assolutamente dare per certo. Sono troppi i circa, infatti, e circa trent’anni può valere 27 come 34. Anche perché c’è un piccolo problemino. Se infatti la storicità di Gesù, della sua vita, delle sue opere, e dell’impatto che ha avuto è accertata addirittura ben oltre quello che forse pensa una persona comune, sulle esatte date di nascita e di morte invece non c’è sicurezza. E se mancano quelle, evidentemente è un po’ complicato stabilire l’età esatta di una persona.
G
Sulla data di morte di Gesù le indicazioni antiche sono più ricche e il calcolo un po’ più facile, anche se senza portare a un risultato definitivo. Comunque le fonti danno indicazioni attendibili: i Vangeli, gli Atti degli apostoli, Flavio Giuseppe e Tacito (due stimati storici l’uno ebreo e l’altro romano) concordano sul fatto che Gesù fu messo a morte sotto Ponzio Pilato, il quale fu governatore romano della Giudea, come è anche archeologicamente attestato, dal
Gli anni di Cristo
La storicità non si discute, ma i dati anagrafici sono un rebus di Osvaldo Baldacci 26 al 36 d.C. Sulla base dei successivi viaggi di san Paolo gli studiosi concordano sul fatto che Gesù non morì negli ultimissimi anni del governo di Pilato. L’evangelista Luca poi dà un altro elemento interessante, collocando con precisione, da storico quale si considerava, l’inizio della predicazione di Giovanni il Battista, elencando tutti i regnanti di quel tempo, e citando esplicitamente il 15° anno di regno di Tiberio (imperatore dal 14 al 37). Sembra tutto facile ma c’è una piccola complicazione: prima di diventare imperatore, Tiberio è stato per tre anni correggente di Augusto proprio per l’oriente, quindi la data che ne risulta per il Battista si colloca tra il 26 e il 29.
L’apologeta cristiano Tertulliano, giurista romano, senza altri riscontri colloca la nascita durante il censimento di Senzio Saturnino, legato in Siria tra il 9 e il 6 a.C. prima di Quirinio Un elemento aggiuntivo, ma non sicurissimo, ci viene da un passo di Giovanni (2, 13-21), in cui Gesù dice che il tempio è stato costruito in 46 anni: siccome Erode lo iniziò nel 20/19 a.C., si ricava che l’episodio
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della cacciata dei mercanti si dovrebbe collocare in una primavera tra il 26 e il 28. Da questi calcoli incrociati con altri dati la morte di Gesù si può quindi collocare tra il 28 e il 33, con il 30 come data più probabile. Gli studiosi a questo punto, basandosi sul racconto della Pasqua fatto nei Vangeli, si sono impegnati a cercare quando in quell’arco di tempo il venerdì santo cristiano si collocasse a ridosso della pasqua ebraica, e il risultato è che gli anni si riducono al 27, 30, 33 e 34, con le due date estreme che – oltre a derivare da un conto leggermente diverso dalle altre due (c’è una discrepanza sulla Pasqua tra i vangeli sinottici e quello di Giovanni) – sembrano un po’ fuori tempo, restano in ballo l’anno 30, il favorito, e l’anno 33 (che è quello utilizzato nella tradizione della Chiesa). Qualcosa che sembra avvicinarsi alla tradizione, ma i calcoli non possono essere validi senza la data di partenza. Ed è quella, come peraltro nel caso anche di molti altri personaggi antichi, che non è certa. L’unica certezza è che quello che verrebbe istintivo dire è sbagliato: Gesù infatti non è nato nell’anno 0, perché l’anno 0 non esiste. E allora quando? Dionigi il Piccolo, il monaco che ha “inventato” il computo degli anni dell’era cristiana, aveva stabilito l’1 a.C. Ma il suo calcolo incontra dei problemi. In molti, quasi tutti, pensano che si sia sbagliato. I Vangeli non danno la data di nascita di Gesù, danno delle indicazioni importanti,
ma purtroppo non univoche. L’elemento costante è che Gesù nacque negli ultimi anni del regno di Erode (come anche Giovanni il Battista pochi mesi prima), probabilmente almeno un paio di anni prima della sua morte (considerando i due anni stabiliti da Erode per la strage degli innocenti). La maggior parte degli studiosi basandosi su Giuseppe Flavio e sulle monete dei successori concorda al momento che Erode il Grande morì nel 4 a.C., e quindi è impossibile che Gesù nasca dopo. Anche se per onestà alcune nuove e interessanti teorie affermano che c’è la possibilità che Erode non morì in quell’anno, ma soltanto si vide associare al trono i figli, spirando poi forse nel 4 d.C., e così rivaluta i calcoli di Dionigi, ma senza per ora consenso della comunità scientifica. Si tenga presente che la probabile morte di Erode non mette in fuorigioco solo Dionigi, ma anche la maggior parte dei più antichi scrittori cristiani, che collocavano la nascita di Gesù tra il 3 e il 2 a.C. (in contrasto quindi con Dionigi che ha ignorato questi pur illustri predecessori), ma forse lo facevano semplicemente calcolando a ritroso da quel riferimento di Luca ai trent’anni di Gesù all’inizio del suo ministero. Un altro elemento cronologico importante è il riferimento di Luca al primo censimento di Quirinio. Anche qui sorgono problemi. Flavio Giuseppe, unica fonte, fa riferimento a un censimento di Qurinio nel 6 d.C. Si potrebbe
allora datare a quest’anno la nascita di Gesù ma pare improbabile. Piuttosto ci sono altre soluzioni. Come quella che ipotizza un primo censimento di Quirinio in anni precedenti. Quando? Luca parla di un decreto di Cesare Augusto, ed è noto che l’imperatore prestava una grande attenzione all’amministrazione dei suoi domini, e pianificò grandi censimenti, magari svolti in periodi diversi nelle diverse province. Augusto nel Monumentun Ancyranum (ritrovato ad Ankara) afferma di aver fatto tre censimenti generali dei cives romani, nel 28 a.C., nell’8 a.C., e nel 14 d.C.. La data dell’8 interessa molto, perché coincide con gli ultimi anni di Erode.
A questo si aggiunga che l’apologeta cristiano Tertulliano, giurista romano, senza altri riscontri fa riferimento alla nascita di Gesù durante il censimento di Senzio Saturnino, legato in Siria tra il 9 e il 6 a.C. prima di Quirinio che a sua volta potrebbe in precedenza aver collaborato con lui. Insomma, questi dati, salvo ulteriori scoperte che riabilitino la tradizione, ci indirizzano soprattutto verso il 7-6 a.C. come data di nascita di Gesù. Anno che ritroviamo anche per un’altra circostanza, sebbene questa sia ancora più fragile delle precedenti: chi ha preso per storica la vicenda della stella dei Magi, in gran maggioranza tendono a identificarla con il triplice allineamento di Giove (pianeta dei dominatori del mondo) e Saturno (protettore di Israele) nei Pesci (segno della fine dei tempi e quindi dell’era messianica) nel 7 a.C. Insomma, stabilire gli anni di Gesù è complicato, magari alla fine dei giri erano davvero 33, ma per ora il conto prevalente fa pensare che ne avesse probabilmente qualcuno di più.Tombola permettendo.
I TESORI DELLE GRANDI CIVILTÀ ocalità che sembravano essere state create per respingere l’uomo l’hanno invece trattenuto contro ogni previsione e sono diventate poi esse stesse, quasi per miracolo, sedi di grandi civiltà. Questo è stato il destino di Petra, una città sorta in un paesaggio lunare, tra gli anfratti di monti rocciosi, proprio nel deserto giordano. Si è preteso che Petra non fosse altro che la famosa “roccia” di Edom di cui parla la Bibbia, ma oggi questa tesi è stata abbandonata. Lo scenario fantastico, adatto a esaltare l’immaginazione, ha fatto nascere molte leggende. E così lo wadi che l’attraversa è chiamato Wadi Musa, perché lo si è creduto alimentato dalla sorgente fatta sgorgare da Mosè.
L
PETRA Gli splendori della capitale dei Nabatei costruita tra le montagne della Giordania
Un capolavoro scolpito nella roccia di Rossella Fabiani
Se questa strana città è stata una delle più fortunate e una delle più splendenti dell’antichità, fu grazie alla sua posizione geografica. A metà cammino dal Mar Morto e dal Golfo di Aqaba, controllava due grandi piste carovaniere. Una collegava l’Arabia e il Golfo Persico al Mediterraneo; l’altra, di direzione nord-sud, il Mar Rosso alla Siria. Gli abitanti di Petra, i Nabatei, si erano assicurati il monopolio del traffico. Trasportatori nello stile dei Re magi, portavano principalmente verso il Mediterraneo incenso, mirra e aromi preziosi. Secondo il geografo greco Strabone, costoro ricevevano dalla costa, in cambio, cuoio e ferro, abiti di porpora, zafferano, spezie e anche oggetti d’arte. Si può facilmente immaginare il valore delle ricchezze accumulate assai rapidamente. Ma questi viaggiatori non si accontentarono del solo trasporto delle merci.Piuttosto attinsero alla civiltà dei Paesi dell’Oriente e del Mediterraneo con i quali erano in contatto.Fondendo questi apporti, diedero vita a una propria cultura profondamente originale. Chi erano i Nabatei? Erano nomadi venuti dal nord dell’Arabia. Le conquiste di Alessandro Magno, favorendo gli scambi tra l’Oriente e l’Occidente, avevano fatto sì che essi diventassero grandi carovanieri. Costoro assunsero connotati storici alla fine del IV secolo avanti Cristo, quando, alla morte di Alessandro Antigone, che si era impadronito di una gran parte dell’impero macedone, volle conquistare Petra. Uno dei suoi generali riuscì nell’impresa, ma, sulla strada del ritorno, mentre, carico di bottino, trascinava lunghe file di prigionieri, fu attaccato dai Nabatei che gli tagliarono la strada e massacrarono i suoi soldati. Allora Antigone affidò al figlio il comando di una seconda spedizione. E fu un nuovo scacco. Chi mai sarebbe riuscito a sottomettere questa popolazione raccolta fra montagne massicce
colpo di grazia. Nei primi anni del XII secolo, i crociati s’impadronirono di Petra. Subito dopo aver fondato il regno di Gerusalemme, vollero impossessarsi dell’antica città, onde assicurarsi le comunicazione con il Mar Rosso. I cavalieri del Medioevo rivivevano i sogni di potenza dei Nabatei. Costruirono, a poca distanza l’una dall’altra, un po’ alla volta, due possenti fortezze. I resti di queste opere di difesa sono una durevole testimonianza dell’audacia di questi Franchi, spintisi dall’Europa in terre così lontane e dimenticate dagli uomini. Dopo di loro Petra sarà abbandonata a se stessa fino all’inizio del XIX secolo. La scoperta della località è merito di uno svizzero, Johan Ludwig Burckhardt, nato a Losanna nel 1784. Dopo aver studiato profondamente l’arabo e il Corano, cominciò a viaggiare in Siria e in Palestina, visitò Petra nel 1812 e si recò al Cairo con la speranza di organizzare una spedizione alla sorgenti del Niger. Nell’attesa di poter penetra-
La sua scoperta si deve a Johan Ludwig Burckhardt che a lungo, dopo aver studiato l’arabo e il Corano viaggiò in Siria e in Palestina re nel Sahara e nel cuore dell’Africa, riuscì a raggiungere La Mecca. Tornato al Cairo, vi morì nell’ottobre del 1817 e fu sepolto in un cimitero musulmano con lo pseudonimo di Cheikh Ibrahim ibn Abdallah. Nessuno sospettò mai che non fosse arabo e fedele dell’islam, ma esposto com’era sempre al rischio di essere scoperto dalle guide e dai compagni di viaggio, prendeva gli appunti di nascosto, quando poteva, al passo del cammello. Per questo aveva potuto portare da Petra solo notizie sommarie. Però cominciava ad alzarsi il velo sull’antica città.
che costituivano un baluardo naturale? Petra, però, ogni volta che le era possibile, non si lasciava sfuggire l’occasione di estendere il suo dominio. E ci fu anche un tempo in cui i Nabatei controllavano persino la Palestina. Erano loro i signori di Damasco al tempo del celebre episodio di San Paolo che aveva oltrepassato le mura per fuggire dalla città: le guardie nabatee che sorvegliavano le porte cercarono di catturare l’apostolo, che dovette essere calato in una cesta dall’alto della cinta. Intanto, però, l’ombra di Roma si al-
A metà cammino dal Mar Morto e dal Golfo di Aqaba, la città prosperò in virtù di una posizione favorevole lungava sulle terre del Vicino oriente. Per andare incontro ai desideri di Cleopatra (e che cosa avrebbe potuto rifiutarle?), Antonio le promise la regione di Petra, abitata dai Nabatei. La regina tenterà, dopo la battaglia di Azio, di far passare navi dal Mediterraneo al Mar Rosso, ma il
prezzo sarà altissimo, i Nabatei le bruceranno. Finalmente Traiano annette all’Impero romano quel territorio che formava da due secoli un brillante regno, e intanto Palmira incominciava a far concorrenza a Petra, che decadrà a poco a poco e alle quale la conquista araba darà poi il
Toccherà poi a un giovane francese, Léon de Laborde, farla conoscere al mondo occidentale. De Laborde tentò di raggiungerla prima dalla Siria, poi, non essendovi riuscito, preparò una spedizione partendo dall’Egitto. Si unì a lui un giovane compatriota, Linant de Bellefonds, che sarebbe più tardi diventato ingegnere capo nei lavori del canale di Suez. Nel 1926 Laborde potè finalmente visitare senza difficoltà la città nabatea. Aveva soltanto diciannove anni. Da quel viaggio ritornò con una serie di eccezionali disegni, che apparvero nel 1830, in una raccolta diventata celeberrima: Viaggio nell’Arabia petrea.
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PRANZO DI FERRAGOSTO DDII GIANNI DI GREGORIO
CINEMA CALDO
Getta le nonne nell’afa di Alessandro Boschi ranzo di Ferragosto, diretto da Gianni Di Gregorio e presentato alla 23^ Settimana internazionale della critica di Venezia nel 2008, è probabilmente il film meno film tra quelli che abbiamo scelto per parlare in maniera più o meno diretta dell’estate. Ma non c’è dubbio che un posto se lo meritava, se non altro per il titolo che più estivo non si potrebbe. Accolto come il salvatore della patria cinematografica, Di Gregorio in realtà ci regala un film piccolo piccolo. Con un pregio però davvero grande: non avere nessuna pretesa se non quella, a volte forse un po’ furbetta, di raccontare il Ferragosto stanco e assolato di quattro simpaticissime vecchiette e del figlio di una di loro, che le accudisce per estinguere un debito accumulato con l’amministratore del condominio.
P
In verità le donne avrebbero dovuto essere solo due, la madre di Gianni, il protagonista, e quella dell’amministratore interpretato dall’altro unico attore professionista oltre Di Gregorio, Alfonso Santagata. Quest’ultimo, infingardo, si presenterà però con un ulteriore pacco dono rappresentato da una zia, anch’ella over novanta. In seguito, forse per il caldo, forse per lo stress da custode di novantenni, Gianni si sente male. Chiama un medico, che lo cura e gli lascia, infingardo pure lui, un’altra madre, la sua: «Sono di turno in ospedale», si giustifica. Ed eccoci con le quattro dell’Ave Maria, forse più difficili da gestire dei quattro terribili pistoleri di colizziana memoria. Gianni, interpretato dallo stesso regista, è oramai un uomo di mezza età, senza particolari tentazioni, tiranneggiato dalla madre nobildonna decaduta e naturalmente vedova che gli concede solo un piccolo spazio di autonomia. Autonomia che peraltro egli gestisce passando dalle mura domestiche alla trattoria e viceversa. Stante questa indolenza riuscirà ad adattarsi alla nuova situazione con una certa facilità. Non solo, ma preparerà anche un fantastico pranzo di Ferragosto con i pochi soldi di cui dispone. La scena in cui insieme al Vichingo (al secolo Luigi Marchetti) si procura il pesce pescato nel non molto biondo Tevere da un pescatore romeno è un po’ la cartina tornasole del film. In positivo. Un’occasione del genere, con un emarginato che per sopravvivere pesca e vende pesce molto verosimilmente in maniera illegale, sarebbe stata l’assist perfetto per dare alla storia un magari innocua coloritura sociale. Intelligentemente Di Gregorio rimane invece sul pezzo, non esagera, e torna a ciò che l’interessa, al cuore del film, le sue vecchiette. Questo è il vero pregio della pel-
licola, raccontare, partendo pare da una storia vera e dalla stessa esperienza del regista di figlio maturo con madre anziana, uno dei tanti frammenti di vita che di solito i produttori rifuggono. Non è infatti un caso che ci sia volu-
to l’impegno di Matteo Garrone perché il film, grazie alla Fandango, si realizzasse. Secondo noi il merito di Garrone (e della Fandango che si è fidata), è stato l’avere creduto in questo piccolo progetto a dimensione umana, e gli oltre due milioni incassati al botteghino, del tutto non preventivati e non preventivabili, sono solo la giusta ricompensa per il rischio assunto. Peccato che questo non accada più spesso. A ben vedere il racconto, che davvero sembra un cortometraggio allungato, ha il suo punto di forza nel costante rallentamento emotivo e dinamico delle scene. Tutto è ovattato, tutto procede a passo d’uomo, o di donna, purché novantenne. Anche il giorno, Ferragosto, è perfetto, perché è notoriamente il giorno più “lento”
dell’anno. E Roma, il suo centro storico, è naturalmente il luogo ideale per accogliere ciò che procede a passo di lumaca. Pranzo di Ferragosto piace perché commette pochissimi errori. Non vuol essere un altro film. Svolge il suo compitino senza invasioni di campo. Oggi il cinema dà spesso l’idea di onniscienza, di essere in grado di parlare di tutto. E certi registi, oddio come ci piacerebbe farne il nome, fanno film che ti strizzano l’occhio e dovrebbero farti dire: «Però, certo che questo è molto intelligente, pensavo che fosse bravo solo a fare lo scrittore...». È un po’ il male del nostro cinema, non solo due camere e cucina. Un male peraltro spesso assistito da qualcuno che è sempre pronto a darti una mano anche se il tuo film fa schifo, ad assegnarti un premio purché sia, a patto che tu dica qualcosa di. E qui mi fermo, perché come cantava Giorgio Gaber “a noi ci viene la malinconia”che nemmeno gli ultimi mondiali di calcio in Sudafrica. Per questo, nonostante tutto il film scritto e diretto da Gianni Di Gregorio ha tutta la nostra simpatia. Purché fare film così debordanti di semplicità e garbo non diventi un vizio. Diciamo che Pranzo di Ferragosto è una eccezione, fino in fondo. Perché, nonostante la non più verdissima età, Di Gregorio è un esordiente, e a Venezia si è aggiudicato il Leone del futuro, Premio Opera Prima Luigi De Laurentiis. Stessa categoria ai David di Donatello e ai Nastri d’argento.
Pluripremiate anche le straordinarie interpreti, di cui ci perdonerete se faremo i nomi: la mamma di Gianni (personaggio, non attore), Valeria De Franciscis, la madre di Alfonso, Marina Cacciotti, Maria Calì, che interpreta zia Maria, e Grazia Cesarini Sforza, la madre del dottore. Un cast di prim’ordine, credeteci. Chissà se verrà mai in mente a qualcuno, così, per simmetria, di fare lo stesso film al maschile. Fermo restando che le donne, ahinoi, vivono più degli uomini, sarebbe divertente trovare quattro signori almeno ottuagenari, che vengono accuditi da una signora di mezza età figlia di uno di loro. Ma mi sa che cambierebbe il film. Come Billy Wilder fa dire a Jack Lemmon (mentre con Tony Curtis guardano il didietro della Monroe alla stazione) «it’s a whole different sex!» (“sono due sessi troppo differenti!”). E poi una signora di mezza età, una Gianna tanto per intenderci, diventerebbe solo una zitella, triste e inacidita. Certe cose è ancora meglio lasciarle fare agli uomini. Come bamboccioni sono molto più bravi.
Nel film d’esordio del regista tutto è ovattato e procede a passo di novantenne. Anche il giorno è perfetto, perché è il più lento dell’anno. Roma è il set ideale per esprimere il clima tipico del pranzo di mezz’estate
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o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g e di cronach di Ferdinando Adornato
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Smettiamola di creare false illusioni di ricchezza: a chi giova? In Italia l’opposizione agli ogm è economica e per nulla ideologica. Il nostro ministro All’Agricoltura sembra quasi che stia facendo da sponda a chi (le multinazionali straniere), dopo che i contadini si sono appropriati della terra che lavoravano, vuole togliere loro la proprietà della materia prima, cioè della semente,“costringendoli”a produrre non ciò che può dare loro più reddito, ma ciò che viene determinato da interessi altrui. Le leggi vietano in Italia di coltivare gli ogm, ma poi spalanca la porta a falsità economiche che possono interessare solo chi di terra ne possiede tanta e la coltiva per telefono, e a illusioni che hanno spinto qualcuno a commettere reati fidando in una impunità, questa sì, ideologica. Il ministro si sta rivelando centralista in assoluto, quando vuole imporre alle regioni di presentare piani di coesistenza come li vuole lui: l’Ue ha demandato le scelte ai singoli Paesi membri.Vogliamo correre il rischio di contaminare e di devalorizzare un’agricoltura di qualità e di territorio che crea ricchezza alle imprese? E si smetta di minacciare sanzioni di Bruxelles, che in questo caso non ci sono proprio: questa sì è una grossa balla.
Franco Manzato
LA NOSTRA BATTAGLIA CONTRO L’ATTACCO ALLO STATO SOCIALE Bisogna a tutti i costi difendere le fasce più deboli così drammaticamente colpite dalla crisi economica. Ci batteremo contro lo smantellamento del trasporto pubblico, rilanciando la gestione diretta e pubblica del servizio. Chiediamo di rendere semestrale la dichiarazione Isee per i lavoratori in cassa integrazione, licenziati o in mobilità, in modo da poter immediatamente usufruire dell’esenzione dal pagamento per alcuni servizi pubblici. Proponiamo non solo di annullare il taglio di 15 milioni di euro al fondo per il reddito minimo garantito ma di incrementarlo e di ripristinare le risorse destinate all’emersione del lavoro nero. Per quanto riguarda la sanità, chiediamo un finanziamento di 3 milioni di euro finalizzato all’abbattimento delle liste di attese. Con queste proposte daremo il via alla nostra battaglia sull’assestamento di bilancio. Una battaglia che, fuori dalle aule del consiglio regionale, condurremo al fianco delle realtà locali e dei movimenti.
Ivano Peduzzi e Fabio Nobile
FINANZIAMO IL MUSEO DI VIA TASSO Il Museo storico della Liberazione sopravvive economicamente con un finanziamento statale di soli 50mila euro. Una
somma che, ormai da anni, si è rivelata insufficiente a garantire anche solo la gestione ordinaria dell’istituto, visitato da un numero sempre maggiore di visitatori. Il Museo dovrebbe essere ristrutturato, andrebbero revisionati gli impianti elettrici e modernizzati gli allestimenti con delle istallazioni multimediali: lavori necessari che allineerebbero la struttura agli standard europei ma che rimangono in sospeso a causa della mancanza di fondi.
Lettera firmata
RIEQUILIBRARE IL MERCATO INCENTIVI PER IL SOLARE Riscontriamo un elevato ritardo negli usi termici delle fonti rinnovabili, mentre sta rapidamente crescendo - anche se a caro costo - la quota di generazione elettrica. È doveroso colmare il ritardo e rivedere in aumento il peso degli usi termici delle rinnovabili nel soddisfare quella quota del 17% al 2020 che la Commissione europea ci ha assegnato. Questo vuole anche dire una riduzione della pressione sugli usi elettrici, che renda gli obiettivi più realistici e meno costosi. Dal momento che il settore del solare termico ha visto negli ultimi anni uno sviluppo significativo, con un incentivo di 19 miliardi di euro alle applicazioni termiche dell’energia solare si raggiungerebbe l’obiettivo di 1 mq instal-
L’IMMAGINE
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minazioni ha toccato i limiti dell’insensatezza in Inghilterra. La signora Mamo, titolare di un’azienda di pulizie, si era recata presso un ufficio di collocamento della zona per effettuare una richiesta di lavoro: l’annuncio, tra le altre cose, chiedeva persone affidabili e impegnate. Con sua grande sorpresa, però la signora si è vista rifiutare la richiesta perché era discriminatoria nei confronti delle persone inaffidabili e di chi non aveva voglia di darsi da fare. Anche la richiesta che il candidato parlasse inglese era stata valutata inizialmente come discriminatoria, anche se poi questa clausola è stata inserita giustificandola con esigenze di sicurezza. «In 15 anni che assumo personale, non ho mai sentito nulla di così ridicolo», ha raccontato la signora Mamo, «io ho bisogno di gente che si dia da fare, e sono ben felice di discriminare in base a questo, altrimenti non potrei far lavorare chi assumo». Questo eccesso “antidiscriminatorio” sarebbe dovuto a un moltiplicarsi di cause contro molti uffici di collocamento che per alcune proposte di lavoro sono state accusate di essere discriminatorie. E quindi ci sarebbe ora una tendenza a prevenire ogni possibile rischio di contestazione.
lato per abitante, con conseguente risparmio di 3.6 MTep (milione di tonnellate equivalenti di petrolio/anno) da fonti fossili. I benefici socio-economici derivanti dalla realizzazione di tale ipotesi comprenderebbero, oltre al raggiungimento a un minor costo degli obiettivi imposti dalla comunità europea, la creazione di occupazione e ricchezza nonché una significativa riduzione di costi per i cittadini.
Ferruccio e Vanni
SENTENZA TAR SMASCHERA LA POLITICA ILLEGITTIMA DEL GOVERNO
FINI SI GUARDI DALL’AMMICCANTE INVITO DI PIETRO
Registrazione La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc
Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30
BOREHAMWOOD. La lotta alle discri-
Francesca Puglisi
Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 18278817
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Cercasi persone (affidabili e non)
La riforma della scuola, così come il resto della politica di centrodestra si regge sulla illegittimità. Come il Pd aveva denunciato più volte con la propria dura opposizione in Parlamento e nel Paese, il riordino delle superiori è stato fatto dal ministro Gelmini contro ogni regola e con circolari illegittime. Il Tar del Lazio, nonostante non abbia accolto formalmente la sospensiva, ha ritenuto illegittimo ogni provvedimento. Ora il ministro rimandi di almeno un anno ogni atto, altrimenti una pioggia di ricorsi individuali sui trasferimenti del personale scolastico impedirà il sereno svolgimento delle lezioni il prossimo anno.
Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747
e di cronach
LE VERITÀ NASCOSTE
A mollo tra i grattacieli Siete rimasti a festeggiare il ferragosto in città? Quello che ci vuole è una bella piscina, magari come quella recentemente inaugurata in cima al Marina Bay Sands Hotel di Singapore. Lunga 150 metri, la vasca non è però adatta a chi soffre di vertigini, si trova infatti su una piattaforma sospesa a 200 metri d’altezza
Se fossi Fini, respingerei con forza l’ammiccante invito di Di Pietro a fare il “partito delle persone per bene”. Ci sono differenze abissali fra le cordate per gli affari e le cospirazioni contro lo Stato. Lo capirebbe anche un bambino dell’asilo. Il governo Berlusconi è un buon esempio di lotta contro tutte le mafie. È auspicabile che si trovi al più presto un linguaggio comune e che si fermino i proclami belluini di certi finiani.
Margherita
mondo
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Afghanistan. Il Comandante delle Forze Usa si riserva il diritto di decidere. E il Segretario alla Difesa annuncia le sue dimissioni
Il caso Petraeus Duro scontro tra il generale e Robert Gates sulla data del ritiro. Ma Obama: «Luglio 2011» di Luisa Arezzo a polemica è andata avanti per qualche ora. Poi le parole di Obama hanno messo - per il momento - tutti a tacere. «La data del primo luglio 2011 per l’inizio del ritiro degli Usa dall’Afghanistan non è negoziabile». Punto. Una risposta secca al manifesto dubbio del comandante in capo delle forze Nato, David Petraeus, affatto certo che quella scadenza possa essere rispettata. Resta invece sicuro che ad andarsene, per quella data, sarà Robert Gates, ministro della Difesa degli Stati Uniti. La divergenza di vedute fra il comandante in capo della guerra in Afghanistan - il generalissimo David Petraeus (subentrato da poco al posto del silurato McChrystal, che dal 2011 insegnerà a Yale) e il segretario della Difesa americana Gates, aveva ieri alimentato l’ipotesi di aver indotto quest’ultimo a un’uscita di scena anticipata (anche se non è la
L
forze Usa e Isaf in Afghanistan, ha rilasciato ad alcuni organi di stampa americani. Intervistato dalla Nbc, dal Washington Post e dal New York Times. Nel primo approfondito incontro con la stampa da quando ha assunto l’incarico, il generale ha infatti detto ieri di appoggiare pienamente la strategia voluta dal presidente degli Stati Uniti, Barack Obama. Ma che quest’ultimo gli ha chiesto «di consigliarlo nel modo professionalmente migliore dal punto di vista militare. E di lasciare a lui le decisioni politiche». Esattamente quello che Petraeus ha intenzione di fare. «Quando le condizioni lo permetteranno, ci sarà la
Il Capo di Isaf ha aperto a sorpresa anche ai negoziati con i talebani che hanno «sulle mani il sangue» delle truppe americane: «Perché c’è la forte possibilità di reintegrarli a diversi livelli» prima volta che il ministro adombra tale ipotesi). Il motivo era sotto gli occhi di tutti: il generale Petraeus ha infatti detto di volersi «riservare il diritto» di giudicare prematuro un disimpegno delle truppe l’anno prossimo. Disimpegno sul quale Gates non è disposto a cedere: «Il ritiro da Kabul comincerà come previsto il prossimo luglio - ha ribadito ieri il capo del Pentagono al Los Angeles Times - e nessuno può mettere in dubbio che ciò avverrà».
Ma anche se Obama gli ha infine dato ragione qualcuno invece c’è. Eccome. È Petraeus. Che dice: «L’inizio del ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan è programmato per il mese di luglio 2011, ma non è un dogma scolpito sulla pietra: se potrà cominciare per quella data oppure no dipenderà dalle condizioni sul terreno, e affermarlo ora con certezza sarebbe prematuro». È questo il passaggio chiave di una serie di interviste che il comandante delle
transizione con le nostre controparti afghane nel governo e le forze di sicurezza, e questo permetterà un responsabile ritiro delle nostre forze», ha spiegato. I militari stanno cercando di agire «il più rapidamente possibile, ma senza affrettarsi verso un fallimento», ha poi messo in guardia il generale, che ha assunto il comando solo sei settimane fa. La guerra è inziata nove anni fa, ma è solo da un anno e mezzo che è stata messa in atto una strategia adeguata, ha dichiarato il generale, riferendosi ad un periodo che coincide con l’arrivo di Obama alla Casa Bianca. Di parere opposto - anche qui - Robert Gates, che invece si dice certo che «nel corso del prossimo anno» si realizzeranno le condizioni per un passaggio di consegne. «L’andamento dell’addestramento delle truppe afghane, condizione per il trasferimento a Kabul del controllo della sicurezza, è addirittura in anticipo rispetto ai tempi previsti. Con un maggior numero di forze af-
Uccisi in piedi dalla folla
Lapidata una coppia di amanti
In alto: il generale Petraeus. A sinistra: militanti islamici durante una lapidazione. A destra: Robert Gates. In basso, dei contractor Dopo la fucilazione di una vedova incinta, colpevole di aver avuto una relazione, la follia talebana si è ieri accanita su due giovani: 28 anni lui e 23 lei. L’orrore si è consumato nella provincia di Kunduz, dopo un processo sommario e la successiva lettura della sentenza. Raccapricciante la descrizione di un testimone, che ha raccontato che circa 100 persone, la maggior parte dei quali insorgenti talebani, si sono radunate sul posto, dove è stata letta una dichiarazione in cui i due confessavano la loro relazione. Secondo questa, l’uomo era spostato con un’altra donna, mentre la ragazza era fidanzata. «I talebani hanno condannato i due a morte, e qualcuno dalla folla ha iniziato a tirargli pietre fino a quando non sono rimasti uccisi», ha detto il residente del villaggio. «La coppia aveva le mani legate ed è stata obbligata a rimanere in piedi in mezzo a un campo vuoto fino a quando non sono morti entrambi».
ghane, possiamo avviarci alla transizione in un maggior numero di aree del paese», ha affermato, anticipando che la transizione potrebbe cominciare già nella prossima primavera. Una considerazione che si basa sul recente annuncio della Nato che l’obiettivo per il 2010 di addestrare 134mila soldati afghani è stato raggiunto con due mesi di anticipo. Sempre ieri, giornata decisamente “calda”sul fronte afghano, il sito in-
dipendente icasualties.org ha pubblicato il tragico bilancio delle vittime: sono 2.002 i soldati stranieri morti dal 2001 nella guerra in Afghanistan: 1.226 gli americani. Dall’inizio del 2010 sono in tutto 434 i soldati morti, contro i 521 di tutto il 2009, anno in cui
si è registrato il più alto numero di decessi.Tra gli italiani, dal 2004 a oggi, sono 27 i soldati caduti in Afghanistan, oltre all’agente del Sismi Lorenzo D’Auria e al funzionario dell’Aise Pietro Antonio Colazzo. Incerta invece, la conta delle vittime civili.
E così, nel giorno in cui giunge sia la notizia dell’uccisione per lapidazione da parte dei talebani di una coppia di giovani afgani accusati di adulterio, sia la conferma della morte di Abu Baqir, descritto dal comando Isaf come un «comandante taliban e un leader di al Qaeda», gli studenti coranici si sono dichiarati pronti a cooperare con le forze internazionali dell’Onu per condurre un’inchiesta sulle perdite civili in Afghanistan. Il comando dei talebani ha proposto la formazione di una «commissione, composta dai rappresentanti speciali della Conferenza islamica e delle agenzie dell’Onu per i diritti dell’uomo, e dai rappresentanti delle forze della Nato e dell’emirato islamico d’Afghanistan». Tuttavia, secondo un rapporto dell’Onu pubblicato martedì scorso, proprio i guerriglieri afghani sarebbero responsabili di tre quarti delle azioni che causano vittime ci-
mondo
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Il generale Carlo Jean non dà alcun credito ai fondamentalisti islamici
La politica di Washington non funziona. Per niente La Casa Bianca ha puntato troppo in alto. E dopo il licenziamento di McChrystal non è cambiato nulla di Pierre Chiartano i talebani non sono piaciute le conclusioni del rapporto della missione Onu di assistenza all’Afghanistan (Unama), reso noto tre giorni fa, in base al quale l’aumento del 31 per cento delle vittime civili nel primo semestre 2010 è loro responsabilità. Il Paese resta diviso e gli obiettivi di Obama lontani, a meno di un anno dal paventato ritiro delle forze internazionali. Sembra che gli studenti coranici abbiano imparato il valore della guerra via etere oltre che sul campo. Ne è convinto anche il generale Carlo Jean, esperto di affari internazionali e attento osservatore delle vicende afgane, che ha risposto ad alcune domande di liberal. «A mio avviso i talebani stanno sfruttando la situazione per farsi propaganda. Questi morti civili in gran parte sono stati provocati da loro, non dalla forze della Nato o dalle truppe americane. Mi sembra che ci sia una certa ipocrisia da parte degli studenti coranici. Il popolo afgano e i signori della guerra sono abituati a convivere con la morte e non penso che si siano impressionati per qualche migliaio di vittime». È dunque difficile valutare il concetto di opinione pubblica in Afghanistan. Non si avvicina lontanamente neanche a quella mediorientale, che già è assai edulcorata rispetto a quella cui siamo abituati in Occidente. E il cinismo alle volte è inevitabile. «Ogni famiglia fa sei o sette figli» e sembra poco “politicamente corretto” doverlo ammettere: le perdite si rimpiazzano subito. La settimana scorsa lo Stato maggiore afgano aveva dichiarato prematura l’uscita di scena delle forze occidentali per il prossimo anno. Qualcuno aveva parlato del 2020 come orizzonte possibile.
A
vedev e a quello del Tagikistan, Emomali Rakhmonov) sia il presidente afgano Hamid Karzai che il leader pachistano Asif Ali Zardari. A dirlo, una nota del Cremlino. Prima della partenza per la Russia, però, il presidente Karzai ha lanciato “un’anatema” alle società di contractor che lavorano in Afghani-
I terroristi hanno proposto una commissione d’inchiesta sulle vittime civili composta dai membri della Conferenza islamica, dell’Onu, della Nato e di un fantomatico “emirato afghano” vili nel paese, oltre 1.200 nel primo semestre del 2010, il 25% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
Una proposta simile a quella avanzata dagli studenti coranici è stata già respinta quattro anni fa, eppure per l’Ong afgana di difesa dei diritti dell’uomo, Afghanistan Rights Monitor (Arm), la proposta è lodevole, e governo afgano e Nazioni Unite dovrebbero accettarla, chiedendo però ai talebani «reali garanzie per la sicurezza dei membri della commissione». La proposta, dovrebbe essere rilanciata «ma con qualche modifica» al vertice sulla sicurezza regionale che si aprirà domani a Sochi, in Russia. Summit dove interverranno (oltre al presidente Med-
stan, concedendogli quattro mesi di tempo per sciogliersi e andarsene. Lo ha detto il suo portavoce, Waheed Omer. Circa 40mila persone lavorano in Afghanistan nel remunerativo settore della sicurezza. I contractor, più di 50 società, metà afghane e metà internazionali, impiegano dai 30mila ai 40mila soldati armati (perlopiù afghani) che lavorano con le forze internazionali, il Pentagono, l’Onu, le società incaricate di gestire gli aiuti internazionali, le ong e i media occidentali. Tanto che Karzai li ha spesso accusati di duplicare il lavoro delle forze afghane togliendo fondi preziosi alla formazione dell’esercito e della polizia. Su questo possibile smantellamento, il comando militare Usa al momento tace.
dando contro anche l’avviso del vicepresidente, Joe Biden, che avrebbe voluto eliminare solo i residui di al Qaeda». E tra un’azione antiterroristica e una antinsurrezionale passa la difficoltà che stanno vivendo le operazioni in Afghanistan. Per Jean si è voluto fare un passo eccessivo. Le critiche al generale Stanley McChrystal erano dunque una conseguenza di questa politica. Ma c’è di più «McCrystal voleva ridurre i danni collaterali, diminuendo l’appoggio aereo e dell’artiglieria, provocando subito un aumento delle perdite tra i militari sul campo» e che l’ex comandante Isaf non fosse amato dalle truppe è cosa nota, sia in ambito americano che in quello delle forze della coalizione.
«E con l’arrivo di Petraeus non è cambiato nulla» anche perché la strategia di Obama decisa nel marzo del 2009 continua a dare forma alle operazioni militari.Tra chi ci guadagna per
«La soluzione più logica sarebbe la divisione in due del Paese. Una parte in mano ai taleban e un’altra all’Alleanza del nord»
Il comandante di Isaf, il generale David Petraues, ha invitato a riflettere su di un’uscita troppo anticipata da quello scenario. Anche perchè non c’è un solo conflitto. «In Afghanistan si stanno combattendo due guerre. Una contro al Qaeda e un’altra contro i talebani. Il contrasto contro i terroristi sta funzionando: l’organizzazione ha perso capacità operative e strategiche. Non riesce più coordinare i vari nuclei della rete terroristica. La guerra contro i talebani, invece, sta andando proprio male. Non funziona perché è molto difficile riuscire a trasformare uno Stato pre-moderno, tribale, con divisione etniche e abitudine alla violenza, in uno Stato moderno e democratico. Pensare di riuscirci rimanendo ancora un anno poi». E l’errore per il generale italiano è stato fatto a monte, a livello politico. «È stato Obama a voler estendere enormemente i compiti delle forza Usa, rispetto al tempo di Bush. An-
la presenza occidentale in Afghanistan, Jean mette in primis l’Iran «per tenere sotto controllo i radicali sui propri confini» e «la Russia che non vuole rischiare infiltrazioni islamiste». Non manca la Cina che «sfrutta una delle più grandi miniere di rame al mondo», protetta dalle truppe Nato. E poi l’India. «È sempre stata una sostenitrice dell’Afghanistan in quanto Kabul non riconosce la linea Durand, che divide le tribù pashtun. New Delhi è il più importante donatore per l’Afghanistan dopo gli Usa. L’India non vuole che Islambad conquisti una profondità strategica, controllando parte dell’Afghanistan». Infatti New Delhi e Mosca stanno pensando di ricostituire l’Alleanza del nord. «Tagiki, hazara e uzbeki limiterebbero così l’occupazione del Paese da parte talebana». Se Obama dovesse mantenere la data del ritiro - a metà del 2011 - «la soluzione più logica sarebbe la divisione in due dell’Afghanistan - se non di diritto, di fatto». Una parte in mano ai talebani e un’altra all’Alleanza del nord. In realtà è un po’ già così, ricorda Jean.
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Affari. Volano gli scambi con Iraq (+121%), Arabia Saudita (54,2%) e Siria (35%) ISTANBUL. Ormai che la Turchia guardi più a est che a ovest è diventato una specie di tormentone estivo. Quello di cui ci si rende conto molto meno spesso è che l’unico paese della Mezzaluna a vocazione europea si rivolge verso l’oriente ormai da diverso tempo e per motivazioni molto più pratiche delle strategie geopolitiche. E il merito, manco a dirlo, è dell’esecutivo islamico-moderato guidato da Recep Tayyip Erdogan, portato avanti, almeno nella sua prima fase, dal ministro al Commercio estero Kursad Tuzmen, che per primo ha avviato una politica di riavvicinamento commerciale, per poi favorire anche quello politico, con stati con cui i rapporti non erano particolarmente idilliaci, in testa la Siria. La tendenza va avanti da almeno 3 anni a questa parte. Le imprese turche - sostenute apertamente da un’aggressiva politica di ”supporto governativo” - stanno conseguendo ottimi risultati soprattutto sui mercati mediorientali, nonché centro-asiatici. L’Istituto al Commercio Estero italiano a Istanbul ha monitorato con attenzione questo fenomeno e, anche grazie ai dati resi noti dal sottosegretariato al commercio estero turco. Se si esaminano i dati sull’interscambio del 2009, le merci turche che hanno raggiunto i paesi mediorientali sono stati pari a circa 20 miliardi di dollari in crescita di oltre il 12% rispetto al 2004/2005 e negli ultimi tre anni, nonostante la grave crisi congiunturale attraversata, in quasi tutti i paesi che vanno geograficamente dal Marocco all’Iran, passando per il Golfo, gli incrementi percentuali dell’interscambio o spesso del solo export, sono risultati in doppia cifra.
Vecchia Europa bye bye, la Turchia investe a est Ufficialmente Erdogan ha preferito altri Paesi «per non rischiare» in caso di nuova crisi di Marta Ottaviani
sembra iniziare a ricoprire, almeno nei contratti sull’industria di Difesa, un ruolo sempre più importante per la Mezzaluna. Negli ultimi tre anni i rapporti fra i due Paesi si erano già rafforzati dal punto di vista politico, economico e commerciale, adesso sono arrivate anche le armi. È stato il Capo di Stato Maggiore dell’esercito
Sono almeno tre anni che l’asse degli scambi si è spostato. La meta preferita? Medioriente e Asia centrale: +42 per cento rispetto al 2009 Nei primi quattro mesi del 2010 l’andamento è stato ancora maggiore. Secondo i dati rilasciati all’inizio di luglio dal Tuik, l’istituto di statistica turco, il commercio estero in questa fase di ripresa economica per Ankara galoppa, segnando il + 40,2% rispetto all’anno scorso. E a volare in particolare modo sono le relazioni con alcuni paesi come l’Iraq, con il +121,5%, l’Arabia Saudita, +54,2%, l’Iran +29,5%, la Siria, +35,7%. Proprio l’Arabia Saudita
turco, Ilker Basbug, pochi giorni prima dell’ennesima crisi con Israele, a firmare con il principe saudita Khalid Bin Sultan Bin Abdulaziz Al Saud, un accordo di collaborazione, addestramento e ricerca congiunta in campo militare. Se la passano bene anche Giordania, Libano e Siria. Proprio nei giorni dell’attacco alla Mavi Marmara, la Turchia era impaegnata in un forum econocomico turco arabo per creare zone di libero scambio fra i paesi ap-
Casa Bianca: «Ankara cambi linea con Iran e Israele»
In forse le armi di Obama Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha «personalmente avvertito» il premier turco Recep Tayyip Erdogan che se Ankara non cambierà posizione su Israele e Iran ben difficilmente otterrà le armi americane che intende acquistare. Un monito che il Financial Times definisce «particolarmente significativo» visto che Ankara vorrebbe comprare droni americani da impiegare in attacchi contro le basi irachene dei separatisti curdi del Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan) dopo il ritiro Usa dall’Iraq alla fine del 2011. «Il presidente ha detto ad Erdogan - ha riferito una fonte di alto rango dell’Amministrazione - che alcune delle azioni della Turchia hanno suscitato interrogativi che saranno sollevati al Congresso. Il principale? Se possiamo avere o meno fi-
ducia nella Turchia come alleato». Un dubbio che renderà più diffivile qualsivoglia richiesta di Ankara, come gli armamenti che vorrebbe avere per combattere il Pkk. La Casa Bianca non ha scordato la «profonda delusione» del suo comandante in capo qando la Turchia, lo scorso giugno, ha votato all’Onu contro le nuove sanzioni imposte all’Iran. E già allora era arrivato il primo monito di Obama, che durante un colloquio con Erdogan al G20 di Toronto - lo aveva invitato ad abbassare i toni nei confronti di Israele dopo il sanguinoso raid contro la flottiglia di aiuti alla striscia di Gaza. La legge americana richiede che l’Amministrazione notifichi al Congresso con 15 giorni di anticipo importanti vendite di armamenti ad alleati in seno alla Nato.
pena citati. Interscambio già superiore ai 3 miliardi di dollari. La creazione della zona di libero scambio consentirà loro di esportare a dazi zero in tutta l’area dei tre paesi. Interessante anche osservare come va il settore appalti, in cui negli ultimi anni gli stati a est della Turchia hanno vissuto una vera e propria primavera. L’andamento positivo delle esportazioni turche è stato accompagnato da un iperattivismo dei costruttori della Mezzaluna. Il risultato è stato un vero e proprio boom delle commesse, con un aumento medio del 30% in Medioriente. I turchi sono andati a costruire un po’ di tutto, in testa infrastrutture come porti, aeroporti, strade, sistemi idrici e ferrovie. Il Golfo Arabico non è certo stato a guardare e nel 2008 ha riversato nella Mezzaluna qualcosa come 2 miliardi di dollari di soli investimenti diretti. Il dato si è arrestato causa crisi nel 2009, ma quest’anno sta tornando a salire a livelli record. I settori dove si sono concentrati gli investimenti sono quello finanziario, sanitario, agricolo, immobiliare, alberghiero.
Fra gli investimenti più interessanti in prospettiva c’è quello della Placet Food, saudita, pronta a investire 5 miliardi di dollari per acquisire 200 chilometri quadrati di terreni per uso agricolo ed effettuare investimenti in campo agro-industriale, come anche dal Bahrein ed Abu Dhabi, sono previsti ingenti investimenti in questo comparto, probabilmente nell’ambito per il progetto per il sud-est dell’Anatolia (Gap). La Dubai Emaar Properties ha pronto un ampio investimento da circa 500 milioni di dollari nella parte asiatica di Istanbul, oltre a detenere già il 46% della proprietà della catena ospedaliera Acibadem, una delle più gettonate della Turchia. L’esecutivo islamico-moderato non ha dubbi. La strategia turca è la migliore per trovare un’alternativa al mercato europeo e quello americano, anche se ancora oggi rappresentano il grosso dello scambio economico della Mezzaluna. I Paesi arabi insomma rappresenterebbero un’eccellente “terza via” nel caso in cui, come è successo in occasione della grande crisi, i mercati occidentali vengano a fare mancare la loro presenza nel paese. Senza dimenticare, che le alleanze economiche favoriranno ancor di più lo spostamento dell’asse di Erdogan.
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17 agosto 2010 • pagina 21
Solo Jerrold Nader e gli ex adviser di Bush difendono la Casa Bianca
Continua l’emergenza umanitaria a causa delle inondazioni
Moschea a Ground Zero: Obama è sempre più solo
Il Pakistan è pronto a trasferire dieci milioni di persone
WASHINGTON. «Obama ha per-
ISLAMABAD. Circa 3 milioni e
so il contatto con l’America». È l’accusa che i Repubblicani, forti di un recente sondaggio diffuso dalla Cnn secondo il quale il 68 per cento degli americani è contrario «alla moschea di Ground zero», rivolgono al presidente Usa che ne ha difeso invece la costruzione. Con l’obiettivo di farne uno dei temi centrali della campagna elettorale per il rinnovo di parte del Congresso a novembre. Consapevoli dell’orientamento dell’opinione pubblica tuttavia, i leader democratici sono rimasti perlopiù silenziosi, prendendo posizione a fianco di Obama solo se necessario. Intanto, secondo il sito Politico.com, la posizione repubblicana sulla moschea «segna una netta svolta nella posizione del partito verso l’Islam».
mezzo di bambini potrebbero morire in Pakistan per l’inquinamento dell’acqua dovuto alle inondazioni che hanno flagellato il Paese. L’allarme è stato lanciato dall’Onu. «Non c’è acqua potabile per cinque milioni di persone, e non abbiamo i soldi per assisterne otto milioni. Dai sei agli 8 milioni di persone non hanno cibo», ha spiegato il portavoce dell’Ocha in Pakistan, Maurizio Giuliano, «in un’area che equivale alla Svizzera e all’Austria messe insieme. Se non si interviene immediatamente, avremo una seconda ondata mortale». Le condizioni meteorologiche sono migliori dei giorni scorsi. Il quadro peggiore riguarda il
Se prima gli elettori musulmani venivano apertamente corteggiati per il loro atteggiamento socialmente conservatore, dopo l’11 settembre sono stati tollerati, e ora vi è verso di loro «un aperto sentimento di sfiducia». George W. Bush, anche per ragioni geopolitiche, aveva più volte definito l’Islam «una religione di pace», e ora i suoi ex collaboratori sono gli unici repubblicani a difendere Obama. «Un presidente è un presidente per ogni cittadino, anche per i
Hollywood in campo per salvare Sakineh L’Iran rinvia la sentenza definitiva al 21 agosto di Massimo Ciullo akineh Mohammadi Ashtiani, la donna iraniana condannata alla lapidazione per adulterio il cui caso è balzato all’attenzione della comunità internazionale, conoscerà la sua sorte il prossimo 21 agosto. Il tribunale iraniano incaricato di decidere il suo caso ha deciso di prendere tempo e ha rinviato la sentenza definitiva a sabato prossimo. La notizia è stata diffusa dal Comitato internazionale contro la lapidazione. L’organizzazione non ha fornito ulteriori dettagli sulla decisione, limitandosi a spiegare che la sentenza attesa per lo scorso fine settimana è ora prevista per il 21 agosto. Restano pochi giorni quindi, per salvare la vita a Sakineh e si moltiplicano le iniziative per operare pressioni a favore del suo rilascio sul regime di Teheran. Ieri, il quotidiano francese Liberation ha ripreso in prima pagina l’appello lanciato dal filosofo Bernard-Henri Levy, sul suo sito web. Scrittori, attori, intellettuali hanno subito aderito alla petizione firmata dal filosofo francese. Il documento, intitolato «Bisogna impedire la lapidazione di Sakineh», è stato tra l’altro sottoscritto dallo scrittore ceco Milan Kundera, dal premio Nobel della letteratura nigeriano Wole Soyinka, dalla disegnatrice di fumetti Marjane Satrapi (Persepolis), dalle attrici Juliette Binoche e Mia Farrow, dal cantante Bob Geldof, dal Premio Nobel per la pace Jody Williams e da Simone Veil. Anche il mondo politico transalpino ha aderito all’iniziativa in maniera bipartisan: l’appello di Levy è stato firmato sia dall’europarlamentare neo-gollista ed ex ministro della Giustizia, Rachida Dati, sia dalla leader socialista Segolene Royal. I firmatari chiedono che «non si faccia alcuna esecuzione, che la donna sia rimessa in libertà senza indugi e che la sua innocenza venga riconosciuta». Parigi si è schierata in prima linea contro la sentenza capitale, anche a livello istituzionale. Il ministero degli Esteri ha annunciato ufficialmente che «La Francia, con i suoi partner europei, sta esaminando attualmente tutti i mezzi che possono essere attuati per evitare che la condanna di
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Sakineh Mohammadi Ashtiani sia messa in esecuzione». La presa di posizione arriva dopo che il vice portavoce del Quai d’Orsay, Christine Fages, è stata interpellata proprio in merito alla petizione lanciata da Bernard-Henri Levy (e pubblicata da liberal in Italia). Fages ha spiegato che è in corso una concertazione tra Paesi europei per studiare «i mezzi che possono essere messi in atto» per evitare la pena di morte per lapidazione inflitta alla donna iraniana. La viceportavoce ha espresso anche estrema preoccupazione per le «dichiarazioni di Mohammad Mostafaei, l’ex avvocato di Sakineh Mohammadi Ashtiani», secondo il quale la sua assistita sarebbe stata vittima di torture finalizzate ad estorcere una pubblica confessione per un reato (l’omicidio del marito) di cui non era stata accusata durante il primo processo.
«La Francia chiede alle autorità iraniane di stabilire una moratoria generale sulle esecuzioni in vista di un’abolizione della pena capitale» ha aggiunto Christine Fages. Sakineh Mohammadi Ashtiani, 43 anni e madre di due bambini, ha confessato alla televisione di stato iraniana che un uomo con il quale aveva avuto una relazione aveva ucciso il marito in sua presenza. La rivelazione a inizio luglio dell’imminente esecuzione per lapidazione di questa donna ha scatenato un’ondata di indignazione nel mondo. La magistratura iraniana aveva in seguito annunciato l’11 luglio la “sospensione per ragioni umanitarie” del verdetto. Secondo le autorità iraniane, la donna era stata condannata nel 2006 per adulterio e complicità nell’omicidio di suo marito. La difesa e Amnesty International affermano che è stata inizialmente condannata solo per aver avuto una relazione illegale con due uomini dopo la morte del marito, e che l’imputazione di omicidio è stato aggiunta in seguito dalle autorità iraniane per giustificare la condanna a morte della donna, una pena prevista anche in alcuni paesi occidentali (come gli Usa) in caso di omicidio.
La donna di 43 anni e madre di 2 bimbi, ha confessato alla tv di stato iraniana di aver avuto una relazione extraconiugale
musulmani», ha sottolineato l’ex speechwriter di Bush, Michael Gerson, mentre l’ex consigliere Mark McKinnon ha lodato «la coraggiosa e decisiva leadership» dimostrata da Obama. Liberi dai condizionamenti di chi si trova a governare, gli altri repubblicani hanno scelto di cavalcare i sentimenti della “pancia” degli americani, sempre più diffidenti verso i musulmani. La difesa più forte alla moschea è venuta da Jerrold Nader, il deputato democratico che rappresenta la circoscrizione dove si trova Ground zero. «È un errore fondamentale opporsi alla moschea - ha dichiarato - è stata al Qaeda ad attaccarci, non l’Islam».
Punjab, dove i livelli del fiume Indus si sono abbassati. Potrebbero aumentare, invece, nella provincia di Sindh. «Nei prossimi 4-5 giorni vi saranno piogge sparse, ma non in grado di causare inondazioni», prevede Qamar-uz-Zaman Chaudhry, direttore del Dipartimento di Meteorologia. È la situazione umanitaria a preoccupare, soprattutto dopo che è stato registrato il primo caso di colera .
«La velocità con cui il quadro peggiora», ha spiegato Neva Khan, direttore di Oxfam in Pakistan, «è paurosa. I villaggi hanno un disperato bisogno di acqua pulita, latrine e forniture igieniche, ma le risorse attuali coprono solo una frazione di quanto richiesto». La comunità internazionale ha stanziato 460 milioni di dollari per la prima emergenza, «e non bastano», ha aggiunto Giuliano. Di questa somma sono arrivati a destinazione solo 125 milioni di dollari. Il ministro degli Interni della provincia meridionale del Sindh, Zulfiqar Mirza, citato da Dawn News Tv, ha affermato che «se necessario, le autorità locali sono pronte a trasferire dieci milioni di persone a Karachi e a Hyderabad», città che sono state per ora risparmiate dalle inondazioni.
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Emergenze. Un Ferragosto vissuto in mezzo ai detenuti: «C’è bisogno di penitenziari migliori, perché occorre migliorare la qualità della vita»
Dei delitti e delle pene Cronaca di un giorno di festa trascorso in un carcere, alla scoperta di un’umanità sospesa tra colpa e speranza di Paola Binetti n secondo ferragosto in carcere per un Parlamento confuso e disorientato davanti ad un futuro nebuloso ed imprevedibile. Avrà certamente fatto bene a tutti quei parlamentari che hanno voluto condividere questa esperienza immergersi nell’atmosfera rarefatta di chi si trova in una condizione di oggettiva fragilità umana. Sono tanti gli obiettivi che questo appuntamento sta assumendo: dalla raccolta dati di una sorta di radiografia nazionale fatta a tutte le carceri della Repubblica, alla testimonianza di solidarietà offerta a chi probabilmente sta soffrendo più di quanto sarebbe giusto ed auspicabile. Soffrono i carcerati, stipati in carceri troppo piccoli per accoglierli tutti; soffrono anche per quei tempi imprevedibili che ha la nostra giustizia; ma soffrono anche le persone che dovrebbero prendersi cura di loro e che sono sotto-organico, mal pagati e privi di quelle risorse materiali che potrebbero permettere loro di svolgere al meglio un lavoro di per sé difficile e faticoso. Soffrono le famiglie degli uni e degli altri, in un quadro sociale in cui la dignità di questo lavoro di rieducazione è spesso ridotta ad una dimensione di prevalente contenimento.
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Il bisogno di sicurezza sembra moltiplicare le procedure di controllo e finisce con l’assorbire la maggioranza delle risorse disponibili. In tempi di crisi questo si traduce in un irrigidimento delle procedure che mortifica ancora di più la dignità di tutte le persone coinvolte in questo delicato processo di riparazione e di reintegrazione di chi ha commesso errori, a volte anche molto gravi, per una infinita complessità di ragioni. Le storie di queste persone non sono mai storie facili e se ne coglie sempre un senso profondamente drammatico, ascoltandole attraverso la narrazione che anche domenica scorsa ce ne hanno fatto alcune delle guardie penitenziarie, quelle che preferiscono vegliare su di loro e non si limitano a sorvegliare. Ma oggi era una giornata speciale.
La coincidenza di questa data con una antica festa dedicata alla Vergine forse è casuale e forse no. Chissà… Certamente quest’anno era anche domenica e la visita alla Casa circondariale di Como è cominciata con la santa messa in onore della Madonna. Alle 10 del mattino la cappella era già piena e i canti che hanno accompagnato la liturgia avevano quel carattere popolare che si riesce ad ottenere solo quando c’è una certa consuetudine a cantare e a pregare insieme. Evidentemente tra don Giovanni e molti dei carcerati ci deve essere un buon rapporto personale e il frate francescano sa trovare gli accenti giusti per giungere al cuore di molti di loro, che lo trattano con quella affettuosa familiarità che non possono permettersi con il personale.
È un rapporto intensamente umano, a cui non sono estranei i riferimenti alle rispettive famiglie e a un certo punto ci siamo trovati tutti a pregare per Graziella, la madre di Giovanni di cui ieri erano stati celebrati i funerali. Dopo tutto, ferragosto è una antica ricorrenza mariana e tra il cappellano e la direttrice ce l’hanno messa tutta per dare un tocco di normalità a questa giornata. C’era un tono più che dignitoso, quasi festoso, nella cura dell’abbigliamento di tutti i partecipanti alla Messa, ma anche nella serena confusione con cui ognuno ha voluto salutare la maggioranza
dei suoi vicini al momento del segno della pace. E c’è stato un che di commovente quando alla fine della messa molti di loro si sono accostati alla statua della Madonna che stava in fondo all’altare. Una lunga fila, totalmente spontanea, in cui ognuno ha pazientemente aspettato e rispettato i tempi di chi stava davanti, senza minimamente interferire con la sua devozione personale. Una preghiera silenziosa, intensa, uguale a quella che tantissime altre persone oggi avranno rivolto alla Madonna nei vari santuari a Lei dedicati nel nostro Paese. Dopo la messa è cominciata la nostra visita. I carcerati di Como sono 488, di cui 58 donne: forse è proprio vero che le donne commettono meno reati! Nelle diverse sezioni, ognuna delle quali dispone di 25 celle, i carcerati sono quasi sempre in due, solo in alcuni casi arrivano a tre. Molti sono lì per reati variamente connessi al consumo di droga: quasi un 50% e molti sono immigrati con reati di piccola criminalità: un terzo circa. Ci sono persone che hanno commesso violenze sessuali di vario tipo, in 4 rientrano nell’articolo 21: tre uomini e una donna. Un quadro complessivo tutto sommato sovrapponibile a quello di molti altri carceri, che pone però due problemi importati rispetto alla presa in carico dei tossicodipendenti e al trattamento del disagio sociale di molte persone che si trovano in condizioni di preca-
In queste pagine: alcune immagini d’archivio di istituti penitenziari italiani. Solamente in quello di Como, che siamo andati a visitare, vi sono stipati 488 detenuti, di cui 58 donne
rietà e finiscono con lo scivolare velocemente verso forme di povertà sempre più pesanti.
La frequenza con cui molti di loro tornano in carcere mostra l’inadeguatezza della funzione rieducativa con cui la struttura risponde ai loro bisogni ed esprime bene il senso di frustrazione che colpisce il personale, che ha volte ha proprio la sensazione di cucire con un ago senza filo. Ma colpisce ancor più quanto siano pochi coloro che lavorano fuori: sono solo due, e altrettanto limitato è il numero di licenze: due persone, mentre sono solo quattro le persone che il 15 agosto godevano di un permesso. Nel complesso sembra che ci sia una attenzione fortemente concentrata sulla struttura interna del carcere, sulle sue condizioni di vivibilità, sul clima generale che si crea tra i carcerati, in particolare tra i concellini, come si chiamano coloro che condividono al stessa cella e tra i carcerato e il personale. A loro la attuale direttrice sembra riservare un particolare interesse per comprenderne le motivazioni personali e le storie familiari. Quasi tutti vengono dal sud, dalla Puglia, dalla Calabria e dalla Sicilia. Sperimen-
tano al nord almeno inizialmente un senso di disagio e di solitudine, che in molti casi li rende inclini a comprendere meglio gli stessi carcerati e dà al loro rapporto una sfumatura in più di umanità.
Accanto ai carcerati infatti ci sono anche coloro che se ne prendono cura giorno per giorno, che ne ascoltano le difficoltà, che si riempiono dei loro lamenti, ne raccolgono le richieste, per poi trasmetterle alla direzione, laddove si possono prendere decisioni, grandi e piccole, su ciò che si può fare e ciò che per qualsiasi motivo non si può fare. Gli uni e gli altri, chiedono alla classe politica di aiutarli a ritrovare il senso di una vita che sembra sprecata. Per alcuni sprecata perché è stata buttata via per un errore più o meno grave, più o meno isolato, ma sprecata anche per chi non riesce ad assolvere il proprio compito come vorrebbe. Ciò che colpisce nelle persone che si incontrano in queste visite sono gli sguardi feriti, quei corpi un po’ ripiegati su di sé, quell’espressione malinconica, che solo a tratti si rianima per fare una richiesta, per chiedere un colloquio: solo una manciata di minuti per ri-
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mente con la mancanza di libertà interiore. Per chi non ha saputo rispettare le regole che la nostra società impone ad ognuno di noi, c’è la soffocante necessità di rispettare una congerie di piccole regole che servono a garantire i livelli essenziali di sopravvivenza all’interno della propria cella e all’interno del carcere. A volte si soffre perché non si può orga-
dolente sensazione di chi si sente ingiustamente discriminato, di chi non vede nessuna proporzione tra la pena che sta subendo e la colpa commessa.
cordare che vogliono giustizia. Non la giustizia che, nel caso di un carcerato, siamo abituati a collegare alla naturale esigenza di un processo sufficientemente rapido, in modo che l’accertamento dei fatti consenta di evitare inutili e pesanti lungaggini, tanto più dolorose quanto più percepite come ingiuste. Ma la giustizia del quotidiano: quella possibilità di parlare con chi dirige, di poter contare su di un dialogo con il medico, con lo psicologo, di poter ottenere un permesso o più semplicemente di potersi lamentare delle micro-tensioni di una convivenza che può essere particolarmente difficile. Spazi angusti, rapporti limitati, prospettive fumose, e quella
Il senso della colpa commessa sfuma abbastanza facilmente davanti alla concentrazione di punizioni piccole e grandi che il carcere comporta, a cominciare dalla perdita di libertà che si attualizza e materializza in ognuna delle circostanze della vita ordinaria. I tempi della doccia, rigorosamente contingentati, gli spazi per le proprie cose, assolutamente compressi nelle celle condivise abitualmente con una o due persone, fino ad arrivare in tempi di affollamento fino a quattro persone. L’impossibilità quasi assoluta di un tempo e di uno spazio per sé, perché oltre alla segregazione rispetto al mondo esterno, anche nello spazio interno al carcere non c’è quasi nulla di cui si possa rivendicare la proprietà in termini di spazio e tempo. Il disporre di sé diventa di fatto impossibile pur nel lungo trascorrere di un tempo vuoto: è ciò che manca di più, la possibilità di riconoscere un signi-
ficato a quello che accade. Quando qualcuno si ferma a parlare con l’uno o con l’altro, tutto il quadro della sezione si anima. Quando questo qualcuno ha il profilo quotidiano di un personale più amabile e disponibile, di un volontario più affidabile, perché mantiene le promesse fatte, allora l’atmo-
Il caso difficile del reclusorio di Como, dove sono stipati addirittura 488 detenuti: la metà ha commesso reati legati alla droga sfera diventa meno carica di tensione. Si riescono a smaltire le contrarietà, se ne può parlare e lo stress claustrofobico scende sotto la soglia di pericolosità. Poter raccontare il proprio disagio significa in definitiva mettere l’accento sui più elementari diritti umani: non è solo la mancanza di libertà rispetto al mondo esterno ciò che costa, ma anche la mancanza di libertà rispetto al mondo interno del carcere, che finisce col configgere facil-
nizzare il proprio tempo neppure per svolgere uno di quegli incarichi, che dovrebbero migliorare la qualità di vita dei compagni di carcere, non si può accedere ad un laboratorio interno quando e come si vorrebbe e tanto meno si può realizzare un lavoro esterno, cosa che di questi tempi è sempre più difficile ottenere, perché in tempi di crisi sono sempre meno le offerte.
Eppure il carcere di Como: per meglio dire la casa circondariale, ha un personale di polizia penitenziaria giovane e motivato; ci sono dei laboratori abbastanza attrezzati, anche se avrebbero bisogno di un aggiornamento tecnologico adeguato; c’è un gruppo di volontari che organizzano attività musicali ed attività sportive, capaci di rompere la monotonia di una vita fin troppo ripetitiva. Dalla parte femminile ci sono gli spazi per un nido sufficientemente dotato di quanto occorre a bambini fino a tre anni; c’è un laboratorio di sartoria che riesce ad organizzare delle sfilate, grazie alla qualità professionale di chi lo dirige e ai tessuti di cui le vicine seterie lo riforniscono gratuitamente. Da Cantù hanno promosso un laboratorio per mantenere viva la tradizione del pizzo che ha lo stesso nome della città: un progetto europeo che coinvolge molte altre città con tradizioni analoghe in fatto di ricamo. C’è un cappellano capace di creare un gruppo di preghiera grazie anche al centro di ascolto interno portato avanti con i suoi volontari. Un carcere in
cui nonostante tutto ciò all’inizio di maggio un detenuto si è impiccato, andando ad incrementare il numero dei suicidi delle nostre carceri superaffollate. La direttrice, sollecitata a spiegarci perché possano accadere queste cose e soprattutto a fare delle possibili previsioni, ha ammesso accoratamente che niente avrebbe fatto pensare ad un possibile epilogo di questo tipo per quel paziente. Ci sono tentativi di suicidio che si possono gestire meglio, perché hanno il valore di gesti puramente rappresentativi di un disagio che resta pesante, ma poi quando meno si aspetta che accada, qualcuno decide che ormai l sua soglia di tolleranza ha raggiunto un limite insopportabile. Solo un rapporto costante con ognuno di loro, un ascolto attento, un rispetto reale per la loro dignità può permettere di comprendere il rischio e può quindi aiutare a reagire tempestivamente, evitando che il rischio si trasformi in tragedia. E’ la qualità della trama dei rapporti ordinari quella di cui hanno oggi più bisogno che mai le nostre carceri e questo ridimensiona molto l’ipotesi che si possa risolvere l’emergenza carceri costruendone di più grandi … Certamente occorrono carceri migliori: sotto il profilo logistico: più spazio, più intimità, più bagni e sotto il profilo rieducativo: più laboratori e più opportunità di lavoro, dentro e fuori, più educatori, un personale meno stressato… Un investimento realistico nella qualità del quotidiano e non una proiezione nella irrealtà di un progetto che, nonostante le promesse del Ministro, in tempi di crisi è abbastanza dubbio che possa vedere la luce. Se da questa seconda iniziativa del Ferragosto in carcere, partiranno alcune iniziative concrete a favore del personale e dei carcerati, andando oltre il livello di pura denuncia, allora sarà stata utile ed efficace, altrimenti ancora una volta avremo l’ennesima raccolta dati a cui non segue nessun miglioramento concreto.
Il diritto dei carcerati che ci hanno incontrato e ci hanno esposto le loro esigenze concrete, il diritto del personale che ci ha accompagnato in una domenica di ferragosto, è quello di sapere che i politici non si limitano ad un ascolto fine a se stesso. Ma sono impegnati a mettere insieme le loro osservazioni per produrre dei cambiamenti oggettivi, capaci di tradurre in atto la comune tensione verso la realizzazione di un maggiore bene comune. Parlamentari di destra, di sinistra e di Centro capaci di trovare soluzioni condivise: anche questa per loro è buona politica.
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Società. Lo storico marchio inglese Compagnia delle Indie passa nelle mani di Sanjiv Metha
Adesso Londra diventa una di Antonio Picasso opo oltre un secolo dalla chiusura, la Compagnia delle Indie Orientali riapre i battenti. Questa volta però il verso del colonialismo non è più dalla Gran Bretagna all’India, bensì contrario a questo. Sabato l’imprenditore indiano residente a Londra da oltre vent’anni, Sanjiv Mehta, ha inaugurato il primo store di una catena di punti vendita che avranno proprio l’antico e blasonato marchio dell’impresa commerciale inglese. La prima licenza esclusiva per l’import-export dall’Asia su suolo britannico venne concessa alla Compagnia da Elisabetta I. Era il 1600. Londra si stava affacciando alle lunghe spedizioni navali transoceaniche con i porti extra-europei. L’attività si sarebbe poi dilatata a tal punto da fare della Gran Bretagna la più grande potenza marittima di tutti i secoli. La Compagnia delle Indie Orientali, insieme alla sorella attiva nelle Indie Occidentali, rappresentò fino al pieno dell’Ottocento in tutto e per tutto il governo britannico. Fu la prima multinazionale, in termini globali, della storia. Si accaparrò un potere politico tanto pesante da influenzare i maharaja indiani e i regni dell’Estremo oriente. Per questo, al momento della sua liquidazione nel 1875, la stessa Londra trasse un sospiro di sollievo. L’Impero britannico e con esso le sue colonie si erano liberati di un potere forte troppo ingombrante.
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La regina Vittoria venne incoronata Imperatrice delle Indie proprio per desiderio dei principi indiani, i quali preferirono assoggettarsi al potere di uno Stato costituito, invece che subire le angherie di una public company. La neonata Compagnia delle Indie Orientali, però, non ha nulla a che vedere con i trascorsi coloniali e con lo sfruttamento a senso unico del subcontinente indiano da parte degli inglesi. Anzi, il fatto che l’iniziativa sia stata promossa da una cordata di imprenditori di New Delhi potrebbe far pensare il contrario. L’obiettivo di Mehta e dei suoi consoci, che hanno eletto quest’ultimo Amministratore delegato dell’azienda, è quella di promuovere a livello commerciale i più classici dei pro-
dotti indiani (tè, seta e cotone). Successivamente le attività imprenditoriali coinvolgeranno altri settori tradizionali del commercio indiano (spezie e artigianato locale), fino a giungere al real estate e al luxury. L’iniziativa ha mosso i primi passi cinque anni fa. Fin da subito Mehta ha nutrito il sogno di rispolverare il brend dell’East India Company (Eic), in parte per consolidare la partnership commerciale fra il suo
l’impresa prima ancora che decollasse. «Quando ho acquisito i diritti sul marchio - ha detto il businessman indiano - mi sono sentito come colui che entra in possesso di qualcosa che, in passato, ha condizionato enormemente la propria vita». Mehta, con un investimento iniziale di 15 milioni di dollari, si è circondato di un team di storici dell’economia ed esperti di marketing proprio per riprodurre in fotocopia la società
COLONIA L’imprenditore indiano, con un investimento di 15 milioni di dollari, si è circondato di un team di storici dell’economia per riprodurre la società britannica
Paese d’origine e quello di adozione, ma anche per un senso di romantico tradizionalismo. Chiamando la società proprio con il nome di quella che riuscì a sottomettere l’Impero moghul a Londra, Mehta si è guadagnato la stima degli alfieri del nazionalismo indiano. L’idea infatti è stata interpretata proprio come una beffa all’ex colonizzatore.
L’Amministratore delegato della Eic ha assecondato in maniera esplicita queste posizioni di polemica, ben conscio comunque che avrebbero rischiato di danneggiare l’immagine del-
britannica di un tempo. Ne ha studiato le tappe evolutive, i metodi di acquisto dei prodotti in India e della successiva vendita a Londra. In questo modo ha clonato una multinazionale del passato, trasportandola ai nostri giorni. Mehta è riuscito ad acquistare anche la vecchia sede della compagnia, nel quartiere di Mayfair, nella capitale britannica. «Quello che ho realizzato è un sogno», ha aggiunto. «Ho portato avanti questo progetto con un forte senso di responsabilità storica, nei confronti di entrambi i Paesi».
Tutto questo avviene a neanche un mese dalla visita ufficiale in India da parte del primo ministro britannico, David Cameron. L’occasione era servita a Londra per invitare gli imprenditori indiani a investire sui propri mercati, sia finanziari che industriali. Il ministero delle attività produttive inglese sta battendo su questo sentiero ormai da anni. L’iniziativa di Mehta va ad aggiungersi ad altre, sicuramente di maggior spessore in termini di capitali. Il colosso automobilistico Tata, per esempio, non ha ancora pari.Tuttavia il fatto che sulle coste britanniche sbarchi una società con lo stesso nome di quella che fece da apripista per l’impero coloniale è un evidente smacco storico. Londra sembra non voler attribuire un peso moralmente eccessivo all’evento. L’ingresso di ulteriori capitali non può che tornarle vantaggioso, soprattutto ora che l’economia nazionale sta cercando di uscire dalla crisi. Anzi, Cameron è proprio alla ricerca di questi slanci imprenditoriali. Ciò non toglie che si tratti di un chiaro esempio di colonialismo a senso contrario.