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Ogni uomo è una successione di idee che non si vorrebbe interrompere
he di cronac
Montesquieu 9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 18 AGOSTO 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Il valore della sua lezione
Francesco Cossiga scompare con un’ultima sorpresa: quattro lettere alle più alte cariche dello Stato
Un testimone scomodo della nostra arretratezza politica
Addio, Sir Francis
di Enzo Carra e n’erano accorti in molti. Francesco Cossiga da un giorno all’altro aveva smesso di intervenire sui fatti scottanti dell’economia e della politica internazionale. E questo già di per sé era un’amputazione per la nostra vita pubblica, in un panorama così variopinto di zombie, come li definiva lui, che entrano ed escono dalla scena politica e di cui il giorno dopo nessuno si ricorda più, le cui facce sono difficili da ritrovare, non dico su un’enciclopedia ma anche su facebook, e che hanno fatto la loro comparsa dal ’92, da quando lui ha lasciato il Quirinale. In tutta questa successione di elfi da saga nordica o forse da opera dei pupi, in tutto questo lui ha rappresentato – pur con i suoi enormi limiti che ha voluto in maniera shakespeariana esasperare – un punto di riferimento, rispetto a un passaggio d’epoca e al suo fallimento. Perché Cossiga per primo ha posto tutti i problemi che abbiamo ancora sul tavolo, dalla riforma istituzionale alla riforma del Csm, a quella della giustizia, ai vari conflitti di interesse.
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Pretendeva che lo chiamassimo così, in omaggio alla comune passione per la cultura anglosassone. Se n’è andato un maestro di politica, che ha insegnato a molti quei principi di cattolicesimo liberale che ancora stentano ad affermarsi nel nostro Paese
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Una secca nota firmata da Cicchitto e Gasparri
Sessanta morti in un centro di reclutamento
Le polemiche sulla moschea a Ground Zero
Il Pdl risponde al Colle: Attentato a Baghdad «O Berlusconi o il voto» alla vigilia del ritiro Usa
Anche i democratici lasciano Obama solo
di Marco Palombi
di Antonio Picasso
di Massimo Ciullo
ROMA. Giorgio Napolitano lo ha sfidato politica-
ROMA. Alla vigilia del passaggio di consegne tra
mente e Silvio Berlusconi non ha alcuna intenzione di tirarsi indietro. Quel che la Costituzione dice o non dice riguardo alla formazione dei governi, lo scioglimento delle Camere e le nuove elezioni non è un problema per lui: il Cavaliere vuole ribadire che di fatto lui è il dominus della legislatura e il capo dello Stato dovrà farsene una ragione.
statunitensi e iracheni (che dal prossimo primo settembre prenderanno il controllo della sicurezza del Paese), un attentato kamikaze in un centro di reclutamento dell’esercito locale ha fatto sessanta vittime a Baghdad. C’è grande preoccupazione in Iraq: basteranno 660mila uomini a traghettare definitivamente il Paese verso la democrazia?
ROMA. La querelle sulla moschea a Ground Zero rischia di assestare un colpo mortale alla popolarità del presidente statunitense Barack Obama. A ritenere inopportuna la costruzione non sono solo i membri della destra reazionaria, ma anche intellettuali liberal, il governatore democratico dello Stato di New York, David Paterson e il Henry Reid, leader dei senatori democratici.
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I QUADERNI)
• ANNO XV •
NUMERO
159 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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Lutti. Il cordoglio unanime dell’Italia che piange uno dei protagonisti di alcuni dei suoi conflitti politici più significativi
L’ultima sorpresa
Francesco Cossiga «saluta» le istituzioni e professa il suo amore per il Paese in quattro lettere indirizzate alle alte cariche dello Stato ROMA. «Invano cerco, con passo malfermo, di evitare la fossa che mi attende». Così Francesco Cossiga soleva apostrofare chi gli capitava di incontrare negli ultimi tormentati mesi. Il presidente emerito della Repubblica ha tenuto duro fino alle 13.18 di ieri, quando si è spento nel suo letto d’ospedale, stroncato dall’ennesima crisi cardiocircolatoria. Il picconatore, che aveva da poco meno di un mese compiuto 82 anni, era ricoverato da lunedì 9 agosto nel reparto di rianimazione all’ospedale Policlinico Gemelli di Roma per un’insufficienza cardio-respiratoria. La salma del presidente sarà oggi espo-
un cinquantennio della vita politica del nostro Paese, che avrà luogo domani a Cheremule, paese natale dei genitori del presidente, o nella stessa Sassari. Inoltre, avrebbe indicato proprio nella città sarda il luogo di sepoltura, accanto alle tombe nelle quali riposano il padre e la sorella. Al segretario generale del Senato, poi, il presidente ha lasciato quattro lettere, perfettamente sigillate, redatte nel settembre 2007 ma da consegnare alle cariche più alte dello Stato solo dopo la sua morte. Un commosso commiato al mondo politico e istituzionale, nel quale BENEDETTO XVI Cossiga ha rinnovato la propria Papa Ratzinger prega incrollabile fiduper il presidente cia. È stato Fini a emerito e suo amico ricevere per pripersonale. Lo ha detto mo il ringraziaufficialmente Radio mento del presiVaticana precisando dente emerito a che Benedetto XVI tutti i parlamendopo aver avuto tari che ne hanno la triste notizia, condiviso i suoi «profondamente mandati da depuaddolorato si è tato, carica che raccolto in preghiera» ricoprì fino al 1983. Analoga testimonianza desta presso la chiesa centrale positata nelle mani di Schifani: dell’ospedale romano fino alle Cossiga ha manifestato il la sei del pomeriggio. soddisfazione per il «privilegio altissimo» che ha avuto nel A stringersi negli ultimi gior- servire lo Stato nella corso delni intorno alla stanza nella la sua lunghissima carriera. Al quale il picconatore ha trascor- presidente del Senato ha anche so i suoi ultimi istanti di vita, esplicitato l’intenzione di non seguito costantemente dal pri- ricevere da parte dello Stato mario Massimo Antonelli coa- esequie ufficiali. Al presidente diuvato dal suo staff, i figli Giu- Napolitano, infine, Cossiga ha seppe e Anna Maria, i parenti, indirizzato un «fervido augurio gli amici più stretti e gli uomi- per la sua missione al servizio ni della scorta, che il presiden- del popolo italiano». Se il prite chiamava i suoi «angeli cu- mo a riceverla, nel pomeriggio stodi». Già nella notte le condi- di ieri, è stato Fini, a Schifani, zioni di Cossiga si erano note- che ha dovuto interrompere le volmente aggravate. Dopo un vacanze, è stata invece conselieve miglioramento nei giorni gnata in serata, al suo rientro scorsi, si era reso necessario il nella Capitale. In realtà anche ripristino di tutti i supporti vi- la lettera destinata a Berluscotali. Fino all’ultima, fatale crisi, ni dovrebbe contenere semplipreannunciato in qualche mo- cemente una sorta di testamendo dall’andirivieni nervoso e to politico. preoccupato della figlia Anna Maria nei corridoi dell’ospeda- Intanto, nella giornata di iele, gli occhi cerchiati, lo sguar- ri, le agenzie hanno subito dato do stanco e addolorato. Cossi- notizia del cordoglio del Vaticaga ha lasciato precise istruzio- no. La segreteria di Stato ha reni per le proprie esequie. Nes- so noto che il Papa è stato sun funerale di Stato, solo il informato tempestivamente del picchetto dei bersaglieri della precipitare della situazione. «Il brigata Sassari dovrà essere pontefice è profondamente adpresente per l’ultimo saluto al- dolorato – si leggeva in una nol’uomo che ha contraddistinto ta – e assicura preghiere per il
di Pietro Salvatori defunto e vicinanza alla famiglia». Il cardinal Bagnasco, segretario della Conferenza episcopale italiana, si è aggiunto al pensiero del Papa, ricordando la figura di un politico che «ha servito il Paese in momenti delicati». Commosse le parole di Napolitano, che ricordando il primo incontro in Parlamento avvenuto nel 1958, ha sottolineato «la ricchezza umana, l’animo estroverso e cordiale e il senso dell’umorismo che sempre hanno accompagnato il lungo servizio nella vita pubblica» del suo predecessore. Il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi ha detto di piangere «un amico carissimo, affettuoso, generoso». «Mi mancheranno – ha aggiunto Berlusconi - il suo affetto, la sua intelligenza,
La lettera a Napolitano
ignor Presidente, le confermo i miei sentimenti di fedelta’alla Repubblica, di devozione alla Nazione, di amore alla Patria, di predilezione della Sardegna, mia nobile Terra d’origine. Fu per me un grande onore servire immeritatamente e con tutta modestia, ma con animo religioso, con sincera passione civile e con dedizione assoluta, lo Stato italiano e la nostra Patria, nell’ufficio di presidente della Repubblica. A Lei, quale Capo dello Stato e Rappresentante dell’Unita’ nazionale, rivolgo il mio saluto deferente e formulo gli auguri piu’fervidi di una lunga missione al servizio dell’amato Popolo italiano. Con viva, cordiale e deferente amicizia. Francesco Cossiga
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Sacconi, suo collega in Consiglio dei ministri, ha ricordato la sua ironia, il suo sostegno». un «leader coraggioso», riserFini, apprendendo la notizia vando una stoccata a «coloro con profondo dolore, ha ricor- che farisaicamente lo celebredato «un vigoroso e coerente ranno dopo aver promosso contro di lui una proPIER FERDINANDO CASINI cedura di impeachment». «Perso«In lui, come in pochi nalità anticonforaltri, si sono mista, coraggiosa sintetizzate le alterne e anticipatrice, un vicende della politica: amico scomodo, ha avuto grandi ma affettuoso e soddisfazioni e leale» lo ha defiinfinite amarezze. Si è nito il leader deldimesso ed è risorto l’Udc, Pier Ferdipoliticamente più nando Casini, che volte. Era coraggioso, ha condiviso un anticonformista lungo pezzo della e anticipatore» propria strada politica al fianco di Cossiga. «La sua interprete dei principi della Co- scomodità è stata coerentemenstituzione». A porgere le pro- te preservata in tutto il corso prie condoglianze al presidente della sua vita – ha continuato emerito anche il ministro delle Casini - È stato un grande deInfrastrutture, Altero Matteoli mocratico cristiano e ha picco«Sono rattristato per la morte nato come pochi altri la Demodel presidente Cossiga – ha crazia cristiana, di cui percepicommentato - uomo politico di va l’afasia degli ultimi anni; nelgrande spessore che seppe an- la fase del bipolarismo ha certicipare il cambiamento». Insie- cato generosamente e senza me a Matteoli, tutto il centrode- successo di limitarne le degenestra ha speso paSILVIO BERLUSCONI role di stima profonda per il «Piango un amico presidente scomcarissimo, parso. Il ministro affettuoso, degli Esteri Frangeneroso. co Frattini lo ha Mi mancheranno definito «un insoil suo affetto, stituibile punto di la sua intelligenza, riferimento, che la sua ironia, ha illuminato con il suo sostegno. il suo cattolicesiAi suoi figli, mo liberale gli l’impegno anni tormentati e della mia vicinanza» bui della storia della Repubblica». «Una voce libera e anticonformista» secon- razioni che tutti constatiamo». do le parole di Fabrizio Cicchit- Angelo Sanza, esponente delto, un «inestimabile patrimonio l’Unione di Centro, rimpiange politico» per il vicepresidente «la sua intelligenza e la sua della Camera Maurizio Lupi. profonda ironia». L’onorevole Adornato lo ha definito «l’ulti«Con la scomparsa di Cossi- mo maestro del cattolicesimo ga, l’Italia perde non solo un liberale in quella che fu la granprotagonista di un cinquanten- de storia della Democrazia crinio di storia politica, ma una stiana. Cossiga insegnò a molti voce libera, mai conformista, i principi della filosofia politica mai omologata alla banalità o liberale, che purtroppo ancora al politically correct», ha com- stentano ad affermarsi davvero mentato il portavoce del Popolo nel nostro Paese».Profondi atdella Libertà, Daniele Capezzo- testati di rispetto e vicinanza ne. Angelino Alfano, ministro umana sono arrivati anche da della Giustizia, ha sottolineato avversari che nell’agone politiche il Paese perde «un uomo co hanno sempre combattuto delle istituzioni prima ancora tenacemente l’ex presidente. che un politico di riferimento «È stato un grande protagoniper i cattolici italiani». Maurizio sta della vita democratica del
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Francesco Cossiga è morto ieri a Roma, poco dopo le ore tredici. Ha lasciato una lettera con le disposizioni per i suoi funerali: oggi sarà aperta la camera ardente al Gemelli. Domani si terranno le esequie in forma privata in Sardegna: o a Cheremule, il paese natale dei suoi genitori, o a Sassari
E l’enigma politico diventò un gioco Nel suo ultimo libro, una lunga carrellata di ricordi dedicati ai grandi segreti dello Stato uattro lettere alle maggiori cariche dello stato. S’è pensato per qualche ora a un testamento spirituale, a rivelazioni dell’ex ministro degli Interni Cossiga riguardo segreti italiani mai chiariti: Ustica, la strage di Bologna, gli anni delle stragi. È stata la sua ultima sciarada. In quelle lettere c’è solo il formale congedo di Cossiga dalle istituzioni. E comunque il suo testamento umano e politico Francesco Cossiga lo ha già lasciato in un libro intervista con Andrea Cangini dal titolo Fotti il potere (Aliberti editore) arrivato in libreria proprio alla vigilia della sua morte.
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Un testamento a tutto tondo politico perché in fondo questo è stato Cossiga, un politico puro, un politico di razza al quale si riconosceva l’aura di un sopravvissuto nell’epoca della grande mutazione, dove la politica è ridotta a teatrino e i politici a comparse. Un politico che ha vissuto, pensato, patito con la politica e per la politica. Un uomo di potere, un uomo di potere cattolico, studioso conseguente della grande tradizione del realismo politico: da Tucidide a Schmitt passando per Niccolò Machiavelli. Fotti il potere contiene la storia di Cossiga finalmente raccontata dal didentro, libera da quella maschera ora provocatoria ora grottesca che Cossiga s’era messo a protezione del suo volto, di quel potere che ha detenuto in Italia per alcuni decenni e dei segreti, degli arcana di quel potere. «È evidente – dice Cossiga – che il potere presenta sempre un volto demoniaco, ed è caratterizzato da un istinto ferino». Cossiga va oltre: «le dinamiche mafiose sono tipiche di qualunque organizzazione di potere. Si tratta di un problema di natura umana. Le regole sono nient’altro che una cornice impo-
nostro paese – ha affermato Massimo D’Alema - Con lui abbiamo avuto momenti di incontro così come di aspro conflitto, vissuti sempre con rispetto reciproco e lealtà. In questi ultimi anni ci ha unito un’intensa amicizia, della quale gli resterò
di Riccardo Paradisi sta dal quadro e la morale è sempre quella del più forte». È il contesto democratico che fa economia della brama di potere di ogni vero politico specifica Cossiga, precisando però che in realtà ogni democrazia risponde sempre alla ferrea legge dell’oligarchia. «Il potere – riassume Cossiga – è istintivamente antidemocratico. Tende naturalmente a concentrarsi, a raggrumarsi e ad escludere chi non ne fa parte. Io, per esempio, fui indicato dalla Democrazia cristiana come possibile capo dello Stato solo perché nel partito non contavo nulla e si poteva presumere che avrei continuato a contare nulla anche dall’alto del Quirinale...». Invece Cossiga entra in sintonia con gli umori degli italiani e contribuisce a picconare la Prima repubblica. Della Seconda però Cossiga vede lo scadimento della funzione politica a strumento ancillare della finanza: «I politici sono ormai marionette nelle mani dei banchieri. Nella cosiddetta Prima repubblica, comunque, la politica non aveva ancora smarrito la propria autorità e il fatto che il motore dell’economia fosse l’industria, e che l’industria fosse in buon parte pubblica o comunque finanziata dallo Stato, consentiva un certo margine di autonomia rispetto a quelli che abitualmente vengono chiamati “poteri forti”». Tra i poteri forti, si torna sempre ad annoverare la massoneria. E Cossiga non ha mai smentito di essere anche un massone. E alla domanda se la massoneria è in grado di influenzare la politi-
grato». «Una notizia molto triste» per il segretario del Pd Bersani, «se ne va una persona singolare e straordinaria e una parte della nostra storia», mentre a Anna Finocchiaro, capogruppo dei democratici al Senato, «mancheranno i suoi pen-
ca Cossiga dice: «Le risponderò con un motto, poco noto, di Alcide De Gasperi: “Sapere che esiste, ma non parlarne mai e avere almeno due ministri massoni nei governi che si formano. Perché la massoneria può sempre tornare utile». Ma in Italia è difficile parlare di massoneria senza parlare di P2Un altro dei presunti misteri italiani. «Quando gli americani videro che i comunisti si stavano avvicinando troppo all’area del potere fecero della P2 un’associazione iperatlantista» racconta Cossiga che dunque afferma essere la P2 un’organizzazione precedente a quella nota. «Diciamo la verità, si immagini cosa poteva fregargliene a certi banchieri o a certi capi di Stato maggiore di forza armata di Licio Gelli... Aderire alla P2 per molti è stato solo un modo per avere buoni rapporti con gli Stati Uniti, i quali incaricarono appunto Gelli, che io conosco bene, di organizzare la cosa». In politica, le informazioni sono importanti. Se ne ricava che altrettanto importante è il lavoro di chi quelle informazioni deve produrle: i servizi segreti. «Che non sono» dice Cossiga, «la creazione di un qualche oscuro e malefico potentato, ma essenziale al servizio dello Stato».
«I politici sono ormai marionette nelle mani dei banchieri. Nella Prima repubblica la politica aveva ancora una sua autorità»
Del resto è all’interno dei servizi la vera o presunta regia dei maggiori segreti italiani, tra cui il rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro. «Quella del sequestro di Stato è tesi da dietrologi – dice però Cossiga – lo Stato parallelo, la
sieri attenti, ricercati, a volte volutamente provocatori, ma sempre di grande lucidità politica e permeati dal profondo senso dello Stato». Una voce fuori dal coro è quella di Gianni De Michelis, che ricoprì importanti incarichi ministeriali
Cia, la P2, il complotto tra Kissinger e Schmidt... tutte balle». Ma ciò non toglie che con Moro ormai nelle mani dei brigatisti l’istinto politico abbia spinto molti leader a utilizzare quella situazione a loro vantaggio: «Qualcuno lo fece ma nessuno arrivò a sacrificare consapevolmente la vita di Aldo Moro. Tanto meno io» – garantisce Cossiga allora ministro dell’Interno – che da quella vicenda uscì psicologicamente distrutto «i capelli precocemente imbiancati e delle macchie sulla pelle che per sempre mi ricorderanno il fallimento personale e dello Stato intero». Ma dov’è il confine tra realismo politico e cinismo, tra ragion di Stato nella criminalità politica? «L’unico limite è quello segnato dalla moralità dello statista che deve decidere». La politica non potrà mai essere insomma il palazzo di vetro sognato da alcuni virtuosi: «Ha bisogno di una certa quota di silenzi e zone d’ombra. Di arcana, appunto. Se venissero messi in piazza i reali contenuti di ogni incontro politico o diplomatico sarebbe la fine». Molti sono convinti che Cossiga porti nella tomba verità indicibili: «Sono balle: è che molta gente vuole credere che ci siano verità più vere di quelle che si conoscono e che ogni fatto sia parte di un’unica grande trama. Purtroppo, non è così. Con mio grande stupore, l’unico segreto che in Italia è rimasto tale a lungo è stato Gladio». Difficile pentrare tra le maglie della stringente e spesso scioccante logica gesuitica di Francesco Cossiga. Aldo Moro nell’ultima lettera dalla prigione delle Br diceva che se oltre la soglia ci fosse stata la luce “sarebbe bellissimo”. Se quella luce ci fosse è con lei che Cossiga dovrà confrontarsi. Lì sarà tutto chiaro. Di qua restano silenzi, zone d’ombra e arcana.
nel periodo della presidenza Cossiga, si dice convinto che Cossiga non fosse depositario di tutti i misteri la cui conoscenza gli veniva attribuita. Parole di encomio anche dalle ali estreme dell’arco politico. «Anticomunista convinto, ha però
sempre sinceramente rispettato i comunisti». Così Oliviero Diliberto, segretario dei Comunisti italiani, mentre Francesco Storace, leader de La Destra gli ha riconosciuto di essere stato il «primo sdoganatore del Movimento Sociale Italiano».
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la morte di cossiga
Dall’infanzia vissuta con il cugino Enrico Berlinguer al “colpo” con cui nel 1998 sdoganò gli ex comunisti
L’unico whig italiano
Amava le istituzioni anglosassoni, ma in Italia riuscì a raggiungere le più alte cariche del Paese. Ritratto di Francesco Cossiga, l’uomo che ha attraversato (e condizionato) l’intero secondo Dopoguerra italiano di Maurizio Stefanini ossìga con l’accento sulla “i” viene da Còssiga con l’accento sulla “o”, e indica in sardo la Corsica. Si usa cioè per una famiglia originaria dell’isola vicina, così come del resto l’altro diffuso cognome di Cossu: “corso”. Ma la denominazione della terra piuttosto dell’aggettivo ha una sfumatura nobiliare: anche se meno importante rispetto all’altra famiglia sassarese dei Berlinguer, che è invece nobilità di toga di provenienza catalana. Anche se la prima a passare alla storia è la casata dei Cossiga, per via di Bainzu: un medico vissuto tra 1809 e 1855, e che è ancora ricordato come Su Poeta Christianu per i suoi ispirati versi religiosi in sardo.
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«Deus ti salvet, Virgine Maria,/ Sa de gratias piena et adornada;/Su Signore est cun tegus; Tue ebbia/ Benedica inter totu ses istada». «Babbu nostru de paghe et non de gherra,/ Q’istas in su piùs altu firmamentu,/ Quantos amore veru in coro inserrant,/ Laudent su nomen tou
ogni momentu». A metà ’800, però, i ceti medio-alti sassaresi scalpitano, per sentirsi esclusi dalla nobiltà sabauda. Quasi tutti si affiliano alla massoneria, e parecchi si riconoscono nell’ideario mazziniano e garibaldino. E a fine ’800 partecipano alla fondazione del nuovo Partito Radicale, che tra 1890 e 1904 fa eleggere deputato di Sassari Filippo Garavetti. Tra i giovani dirigenti che accompagnano Garavetti c’è un avvocato che si chiama Enrico Berlinguer, che per diffondere le idee del gruppo fonda il giornale La Nuova Sardegna. E c’è Antonio Zanfarino, la cui figlia Maria sposa Giuseppe Cossiga: nipote di Bainzu; figlio dell’altro medico Francesco Maria, che fu tra i primi militanti del Partito Sardo d’Azione di Emilio Lussu; e dipendente del Banco di Sardegna, di cui diventerà direttore generale. La madre di Antonio Zanfarino aveva però avuto anche un figlio di secondo letto: Giovanni Loriga. E sua figlia Maria Loriga sposerà il figlio di Enrico Berlinguer, Mario: avvo-
cato a sua volta; collaboratore e comproprietario della Nuova Sardegna; interventista e volontario nella Prima Guerra Mondiale; deputato nel 1924 con l’Unione Nazionale Democratica di Giovanni Amendola; aventiniano; massone clandestino durante il fascismo; membro del secondo governo Badoglio per il Partito d’Azione come Alto commissario aggiunto
deputato dal 1968; vicesegretario del Pci; poi segretario dal 1972 alla morte, avvenuta a Padova l’11 giugno 1984 durante un comizio. Giuseppe Cossiga e Maria Zanfarino sono i genitori di Francesco Cossiga, nato a Sassari il 26 luglio 1928: dirigente dei giovani Dc e della Federazione Universitari Cattolici di Sassari; docente di Diritto Costituzionale a Sassari; deputato a
malgrado l’avo poeta, il matrimonio con i Cossiga fosse stato giudicato declassante dai Berlinguer, a dispetto di tutto il loro pedigree progressista.
Una volta Berlinguer, a chi gli chiedeva se la parentela lo avrebbe portato a trattare il governo del cugino, Cossiga con un filo di riguardo rispose sprezzante: «Coi parenti si mangia il capretto, non si fa politica!». Al che Cossiga avrebbe commentato: «Ma a me neanche quello!», ricordando di riunioni familiari in cui lo avrebbero mandato a mangiare in cucina come “parente povero”. Ma chissà se è vero: in altre occasioni ha invece raccontato che «il padre di Enrico, rimasto vedovo molto presto di zia Mariuccia, portava sempre i bambini a casa nostra». E anche che Berlinguer avrebbe usato più volte il rapporto di parentela per inoltrare messaggi alla Dc. Malgrado i sei anni di differenza tra Enrico e Francesco, per
È stato il più giovane sottosegretario alla Difesa, il più giovane ministro dell’Interno, il più giovane presidente del Senato e il più giovane presidente della Repubblica italiana all’epurazione; membro ancora per il Partito d’Azione della Consulta Nazionale, e vice-presidente della Commissione giustizia; infine deputato socialista fino al 1963.
Mario Berlinguer e Maria Loriga sono i genitori di Enrico Berlinguer, nome del nonno: fondatore della sezione sassarese del Pci nel 1943; segretario dei giovani comunisti tra 1949 e 1956;
trent’anni nel 1958; sottosegretario alla Difesa nel 1966; ministro dell’Interno tra 1976 e 1978; presidente del Consiglio tra 1979 e 1980; presidente del Senato tra 1983 e 1985; presidente della Repubblica tra 1978 e 1985. Il più giovane sottosegretario alla Difesa, il più giovane ministro dell’Interno, il più giovane presidente del Senato e il più giovane presidente della Repubblica della storia italiana. Sembra che,
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«Mi ha sempre colpito il suo aspetto religioso, in lui fortissimo. Su questo abbiamo sempre avuto un grande dialogo»
Lo scomodo testimone della nostra arretratezza Intuì per primo l’assoluta necessità di riformare il sistema politico, dopo la fine di Yalta e della contrapposizione tra l’Ovest e l’Est di Enzo Carra segue dalla prima Essendo uomo che veniva dalla Prima Repubblica, nella seconda parte del settennato - prevedendo più lucidamente di altri quello che sarebbe avvenuto con la fine della contrapposizione in blocchi e quindi con la fine di Yalta - ha posto con grande anticipo problemi che riguardavano innanzitutto la tenuta dei partiti tradizionali. Le sue “picconate” iniziano a partire dal verificarsi di una disgregazione che certo non lo vedeva attore. Andrebbe però anche notato che da un certo momento in poi Francesco Cossiga non ha avuto più fiducia in una possibilità di rinnovamento, di riforma, non semplicemente della classe politica ma del sistema politico italiano. Aveva vissuto sulla sua pelle tutte le reazioni, anche violente – compreso l’impeachment voluto da Occhetto, che poi non ci fu – per la sua azione sul Csm, e poi per i suoi appelli sulla riforma dei partiti e sulla riforma istituzionale. E la sfiducia sopravvenuta a un certo punto dentro di lui, si spiega.
Intanto se si considera, da una parte, che le sue non erano provocazioni, per lungo tempo sono state proposte, che dovevano essere assecondate, seguite, discusse, sulle quali lui stesso sarebbe stato pronto a confrontarsi; e che, dall’altra, a un certo punto si è accorto che non se ne voleva nemmeno parlare. È così che andò per il messaggio alle Camere del 1990, come per le cosiddette picconate, che riguardavano in realtà la vita stessa della Repubblica. Quando tutto questo si è vanificato e si è tradotto in una critica verso di lui, in un vililpendio continuo, in attacco forsennato addirittura alle sue capacità, alla sua testa, dall’impeachment alle ipotesi di una sua follia, quando si è trovato di fronte a tutto questo, non si è fatto più troppe illusioni su quello che poteva succedere. Forse si era stancato, ed è solo a quel punto che molte di queste iniziative sono diventare provocazioni. L’ultimo tentativo di intervenire in modo diretto lo ha fatto nel 1998, quando con il suo movimento si è trovato, sull’errore di calcolo di Parisi, a patrocinare il governo D’Alema. Esperienza che però lo ha presto deluso, nonostante si trattasse anche di una sua creatura politica, di una manovra in cui aveva investito un’energia, se vogliamo, giovanile. Ecco, a mio giudizio lui aveva una voglia infantile di assoluto. Di assoluto nella politica, di assoluto negli affetti, di assoluto nei rapporti umani. Andava dall’amore a odio, dalla vita alla morte, pur non avendo odiato mai nessuno, ma almeno a parole sembrava cedere facilmente all’ostracismo
e alla condanna. In realtà aveva un desiderio inappagato, derivato dal fatto che si sentiva depositario di una verità colta in anticipo sugli altri, e che aveva detto prima degli altri, nell’89, quello che sarebbe successo in Italia, e, ancora, che aveva fatto scontare gravi conseguenze ad alcuni partiti e alla Democrazia cristiana. A più riprese, a partire dagli anni Ottanta, aveva tentato di dare degli scossoni, per consentire alla Dc di riprendersi, di rinnovarsi, di rimettersi in carreggiata e diventare il par-
L’ultimo tentativo di intervenire in modo diretto fu quello del 1998, patrocinando il governo D’Alema tito di cui aveva bisogno il Paese dopo la fine del comunismo. Ne ebbe per tutta risposta solo insulti. Gli amici in quel frangente furono pochissimi. Non siamo riusciti a seguirlo sulla sua capacità di anticipare e innovare, lo dimostra il fatto stesso di essere fermi sulle questioni da lui poste. Siamo a discutere delle cose di fondo di cui già si ragionava nell’89, nel ’90. Ci diciamo sempre che c’è una sordità del sistema: bene, ma tutto questo agiva sulla carne, sulla persona, sull’essenza stessa della vita di Francesco Cossiga. Non si trattava di un discorso politico o di una provocazione. Lui era il rivelatore del fatto che una stagione era finita, che avrebbe dovuto trasformarsi. Cossiga era servito da traghettatore, aveva innescato un allarme, e contava di poter controllare la stagione successiva: invece, dopo, la stagione è andata per conto suo. Perciò c’è da credere che in lui ci sia anche un po’ di rimorso per l’aver insistito su trasformazioni che non solo non sono avvenute, ma che hanno lasciato spazio a un esito, di fatto, opposto. Sarebbe stato meglio se il sistema si fosse, per così dire, fermato, invece tutto ha finito per rotolare fino al punto che vediamo adesso. La grande sua delusione era questa. E così anche per quel desiderio di assoluto di cui si diceva. È una delle poche persone la cui
dimensione si esprime davvero anche in una grandissima fede, una fede venata di giansenismo, di un rigore e di una carica particolare, segnata da un crocifisso con le braccia non spalancate ma, piuttosto, chiuse. Questo aspetto religioso, spirituale, in lui fortissimo, mi ha sempre colpito e su questo abbiamo sempre avuto un grande dialogo, amichevole, direi fraterno.
Vorrei dire infine qualcosa sul Cossiga cattolico in politica. E possiamo parlare di un Cossiga-uno e di un Cossiga-due. Nel primo c’è tutta l’esperienza democristiana, della Dc fondativa, degli anni della Fuci, fino a tutta la trafila parlamentare e di governo. Poi progressivamente lui si accorge di non avere una grande voglia di stare dentro la Democrazia cristiana. Non dico che perda le speranze nella Dc, ma probabilmente comincia a pensare che non sia più quello lo strumento del futuro. Accade più o meno quando diventa presidente della Repubblica. Nella seconda parte del suo mandato presidenziale, quella delle picconate, è chiaro che lui non crede più in quella Democrazia cristiana come veicolo, e si pone delle domande. Avrebbe fatto qualunque cosa per ricostruire una qualche rete cattolica: dopo la grande crisi degli anni Novanta, dopo Tangentopoli, dopo quella fase in cui ci si chiedeva come mai alcuni non si fossero accorti di non poter andare avanti come se niente fosse mentre lui si era accorto di tutto, dopo Cossiga si comincia a chiedere cosa si può fare per ripartire. Non so se pensi a un’unità politica dei cattolici, forse è troppo, ma di certo pensa a varie ipotesi analoghe a quelle primordiali della presenza dei cattolici in politica. Dall’opera dei congressi all’unione cattolica, tutte quelle forme di riunificazione dei cattolici sul territorio in vista di un eventuale soggetto politico. Quando a fine anni Novanta dà vita all’Udr, e vede che sta diventando una specie di Dc, con un altro nome e piccolo formato, se ne distacca subito, perché anche lì si sente tradito dall’azione di quelli che stanno dietro e che pensano semplicemente di occupare degli spazi. Se mai avesse voluto fare qualcosa avrebbe cercato di farla in grande, secondo un disegno, magari titanico, di riprendere con tutti i vari ambienti cattolici in Italia – culturali, produttivi, oltre che politici – un discorso comune e arrivare a una nuova forma di unità; certo non pensava al piccolo cabotaggio. Nonostante quella dell’Udr fosse anche una idea di successo, avesse determinato la nascita del governo D’Alema, la considerava niente rispetto a quello di cui aveva bisogno l’Italia, e rispetto anche a quello di cui aveva bisogno lui stesso. Uno che era stato per tanti anni nella Democrazia cristiana di Antonio Segni, Aldo Moro, Amintore Fanfani, e che era stato presidente del Consiglio, ministro degli Interni in una fase così drammatica, e poi presidente della Repubblica, aveva tutto il diritto di non accontentarsi.
un anno i due cugini saranno anche in classe assieme: da una maestra privata che si chiama Ottavia Mossa e che i genitori dei due hanno scelto perché ecletticamente repubblicana, radicale e cattolica allo stesso tempo, è comunque antifascista, e non fa cantare né la Marcia Reale, né Giovinezza. Francesco in prima, il futuro ministro Giovanni Berlinguer in terza, Enrico e la sorella di Cossiga in quinta. Enrico crescendo passerà poi dall’antifascismo direttamente al comunismo. «Leggendo i libri e girando le osterie», ha raccontato Cossiga. «Beveva, giocava a scopone, verificava le cose che leggeva con i vecchi comunisti di Sassari. I quali erano lusingati che il figlio di don Mario, figura epica dell’antifascismo, li frequentasse». Resterà però in lui quell’interesse per il mondo cattolico da cui la strategia del Compromesso Storico. Cossiga, invece, dall’influenza congiunta della madre, della maestra e di quel don Giovanni Masia parroco della chiesa di San Giuseppe svilupperà un peculiare cattolicesimo democratico con curiose venature radicali. Lui stesso racconterà che da piccolo, durante la Guerra Civile Spagnola, lo facevano pregare non per i preti spagnoli massacrati dai “rossi”, ma per quelli baschi fucilati dai franchisti.
Forse è questa abitudine agli studi da privatista acquisita da piccolo che spiega il perché, quando si rompe una gamba cadendo dalla bicicletta, decide di impegnare i mesi che è bloccato a letto per prepararsi gli esami di maturità con tre anni di anticipo. Iscritto all’Università a 16 anni, in questo modo riesce a laurearsi a vent’anni. Quando i suoi coetanei si iscrivono a loro volta, lui è già in cattedra a insegnare loro diritto costituzionale regionale. Ma, come si è ricordato, a 17 anni si è pure iscritto alla Dc, dove guida una rivolta di giovani contro il boss locale Antonio Segni: futuro presidente del Consiglio e della Repubblica, e a sua volta suo parente, anche se più alla lontana dei Berlinguer. Per ottenere sostegno in questo braccio di ferro nel 1954 invita a Sassari il nuovo vicesegretario nazionale Mariano Rumor, che nel 1951 ha fondato la corrente di Iniziativa Democratica con gli ex-dossettiani, tra cui Fanfani. Rumor gli dice di “resistere”, proprio nel momento in cui l’uscita di scena di De Gasperi sta cambiando tutti gli equilibri del partito. Nel 1956 il 28enne Cossiga diventa segretario provinciale. Nel 1958 è eletto per la prima volta deputato.Troppo giovane per poter al momento fare un passo ulteriore, approfitta della pausa per farsi una famiglia. Nel 1960 si sposa con Giuseppa Sigurani, detta Geppa. «Bionda con gli occhi azzurri, bellissima, altera di grande e forte carattere, molto colta», nella descrizione di BrunoVespa.
la morte di cossiga
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Farmacista, è figlia di possidenti molto in vista originari del Goceano, una zona di mezza montagna bagnata dal fiume Tirso e nota sin dai tempi dei romani. Malgrado i due si siano frequentati da quando erano ragazzi, l’unione non sarà felice. Quando lui è eletto Presidente della Repubblica tornando a casa troverà tutte le luci spente come segno di totale indifferenza se non di irritazione verso quella nomina. Poi lei rifiuterà di abitare al Quirinale. L’anno dopo la fine del suo mandato i due si separano. Nel 1998 arriverà poi il divorzio, e nel 2005 addirittura l’annullamento della Sacra Rota. Il bello è che, secondo gli intimi, era stato proprio per la fede cattolica dei due, oltre che per l’immagine pubblica di lui, se quell’unione infelice era sopravvissuta per 33 anni. Anche se per tutta la fase finale da separati in casa. Comunque, questi sviluppi sono futuri. Nel 1961 nasce intanto Anna Maria Cossiga: oggi archeologa, residente tra Londra e New York. Del 1963 è invece Giuseppe: ingegnere aeronautico, appassionato come il padre di cose militari, già presidente dell’Istituto di Studi e Ricerche per la Difesa, dopo aver lavorato in Francia presso l’Aerospatiale di Tolosa dal 2001 è deputato di Forza Italia e dal 2008 sottosegretario alla Difesa. La passione militare di Francesco Cossiga è tanto più singolare se si pensa che nelle maglie di quel particolare momento storico non fece il servizio di leva. In quei momenti di particolare allarme per la possibilità che i comunisti potessero ripetere il colpo di Praga come tutti i dirigenti dc tra fine anni ’40 e inizio anni ’50 si trovò a nascondere «mitragliatrici e bombe a mano». Per lo meno, così ha raccontato: «alla vigilia delle elezioni del 1948 ero armato fino ai denti. Mi armò Antonio Segni. Non ero solo, eravamo un gruppo di democristiani riforniti di bombe a mano dai carabinieri. La notte del 18 aprile la passai nella sede del comitato provinciale della DC di Sassari... Prefettura, poste, telefoni, acquedotto, gas non dovevano cadere, in caso di golpe rosso, nelle mani dei comunisti». E quando Andreotti rivelerà l’esistenza di Gladio, si autodenuncerà come referente politico dell’organizzazione e frequentatore della sua base di capo Marrargiu. Per Stay Behind dirà anche di essere stato addestrato all’uso di armi automatiche e plastico: un’attività poi coperta con la nomina a Capitano di Corvetta della Marina Militare Italiana e “operatore” del Goi di Comsubin, su decreto presidenziale.
Un grado poi elevato a quello di Capitano di Fregata, che nelle altre Forze Armate corrisponderebbe a Tenente Colonnello. Altra competenza apparentemente da apprendista guerrigliero è quella di radioamatore. Ma Cossiga ha raccontato che in realtà quell’hobby nacque dopo un incidente stradale, i cui postumi lo tennero sveglio la notte per parecchio tempo. Un tempo per ingannare il quale si mise appunto a navigare nell’etere. Sia per queste competenze o per altro, proprio dallo stesso incarico di sottosegretario alla Difesa oggi detenuto dal figlio, come ricordato, nel 1966 Cossiga inizia il suo cursus honorum al governo, otto anni dopo l’elezione a deputato. L’anno dopo il X Congresso della Dc vede la frammentazione della vecchia sinistra dc tra dorotei, morotei e fanfaniani, mentre si organizzano a parte anche gli andreottiani. Ma c’è anche un gruppo che si autodefinisce dei “pontieri”perché vuole fare da strategico raccordo tra maggioranza e sinistra.
L’UOMO DI STATO TRA POLITICA E SOCIETÀ
Francesco Cossiga con (da sinistra a destra): la regina Elisabetta II d’Inghilterra, sua santità Giovanni Paolo II,
Gli anni del Picconatore «Non mi avete messo paura nel 1977, non mi metterete paura adesso» orte del 12%, guidata da Taviani e Sarti, ha dentro anche Cossiga. E nel 1974 lo stesso Cossiga diventa per la prima volta ministro, sia pure senza portafogli: della Pubblica Amministrazione, che riguarda dunque la sua competenza accademica. Due anni dopo, la promozione a più giovane ministro dell’Interno della storia d’Italia mette certamente assieme la sua competenza militare con quella accademica. Ma è difficile non leggervi anche un segno di attenzione verso il Pci del cugino Berlinguer, che sostiene dall’esterno il governo Andreotti III con la formula della non sfiducia. Non è un momento dei più facili. Proprio l’opposizione al Compromesso Storico scatena da una parte le Brigate Rosse, dall’altra l’ultrasinistra delle piazze, e nel contempo anche l’ultradestra si agita. Particolarmente gravi le polemiche quando l’11 marzo del 1977 un attacco di militanti dell’estrema sinistra a una manifestazione di Comunione a Liberazione a Bologna si trasforma a una battaglia con la polizia in cui viene ucciso il militante di Lotta Continua Francesco Lorusso, con conseguenti nuovi scontri cui Cossiga rispopnde mandando gli M113 nella zona dell’Università. Il 21 aprile un poliziotto è ucciso e 5 sono feriti in scontri a Roma. Cossiga vieta allora il successivo 12 maggio una manifestazione del Partito Radicale nell’anniversario del referendum sul divorzio. I radicali organizzano allora un sit-in attorno al quale si accendono nuovi scontri, in cui è uccisa Giorgiana Masi. Sui muri iniziano a comparire scritte in cui il nome di Cossiga è scritto con la k e una doppia esse gotica da SS naziste, mentre all’estrema destra modificano invece la g in una falce e martello. Cossiga procede comunque alla
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riforma dei servizi segreti del gennaio 1978, e crea i reparti speciali dei Carabinieri Nocs e della polizia Gis: mosse che nel lungo periodo si riveleranno fondamentali per la sconfitta del gterrorismo. Ma nel periodo brevissimo il 16 marzo del 1978 arriva il rapimento di Aldo Moro, e il 9 maggio successivo la sua uccisione. Cossiga, che ha cercato di affrontare la crisi con due comitati a hoc, è costretto alle dimissioni. «Se ho i capelli bianchi e le macchie sulla pelle è per questo», confesserà Cossiga a Paolo Guzzanti. «Perché mentre
munque i due governo Cossiga ad aver fatto da ponte verso la costituzione di quello che verrà chiamato Pentapartito.
A questo periodo risale la gravissima rottura col cugino Berlinguer, quando il Pci chiede la sua messa in stato d’accusa. L’accusa: aver rivelato al compagno di partito senatore Carlo Donat Cattin che suo figlio Marco era indagato e prossimo all’arresto per terrorismo, suggerendone l’espatrio. Ma la maggioranza del Parlamento in seduta comune ritenne inaffida-
Dopo cinque anni al Quirinale, all’improvviso dice di volersi togliere qualche «sassolino dalla scarpa». E giù critiche alla Rai, all’invadenza dei partiti, alla corruzione. Poi si scatena del tutto lasciavamo uccidere Moro, me ne rendevo conto. Perché la nostra sofferenza era in sintonia con quella di Moro».
Eppure, la carriera politica di Cossiga supera anche quel colpo che per altri sarebbe stato micidiale.Terminata la formula della’unità nazionale, dopo le elezioni del 1979 è lui il 4 agosto che diventa Presidente del Consiglio di un governo neocentrista con Psdi e Pli. L’anno dopo la vittoria del cosidetto “Preambolo” nella Dc contro la segreteria Zaccagnini e il prevalere di Craxi nel Psi contro Lombardi permette il ritorno a una collaborazione diretta tra Dc e Psi, e così il 4 aprile del 1980 nasce il governo Cossiga II, che è invece un tripartito Dc-Psi-Pri con Psdi e Pli all’opposizione. Cadrà il 18 ottobre del 1980, quando otterrà la fiducia a voto palese per poi vedere subito bocciare il proprio pacchetto economico a voto segreto. Sono co-
bile la notizia, risalente al pentito Roberto Sandalo. Nel 2007 Cossiga rivelerà che in effetti l’accusa, intanto caduta in prescrizione, era in parte vera, e che era stato lui a rivelarla al cugino Berlinguer: cercandone comprensione, e ottenendone invece una dichiarazione di guerra. Eppure, anche stavolta Cossiga cade in piedi. Dopo le elezioni del 1983, infatti, la maggioranza di Pentapartito lo elegge Presidente del Senato. E di lì, il 24 giugno del 1985 è proiettato alla Presidenza della Repubblica in successione di Pertini, con la proporzione di consenso più alta di tutti gli inquilini del Quirinale: 752 voti di 977 al primo scrutinio. Anche il Pci post-berlingueriano lo ha ormai perdonato, anche perché per le regole consociativistiche della Prima Repubblica dopo un laico tocca a un cattolico. L’idea è che dopo il sanguigno Pertini ci potrà anche essere un Presidente più tranquillo, e in effetti nei
UNA STORIA DENSA DI ALLEANZE E AMICIZIE
Francesco Cossiga con: il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini, Massimo D’Alema, il pontefice Benedetto XVI,
la morte di cossiga
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l’ex presidente della Repubblica francese Valéry Giscard d’Estaing, il cugino Enrico Berlinguer, Silvio Berlusconi e Vittorio Foa
primi anni Cossiga continua con lo stile assolutamente notarile in cui ha già guidato il Senato. I suoi principali interessi sono per un ripristino filologicamente corretto delle uniformi dei Granatieri, e i vignettisti lo rappresentano abitualmente mentre dorme in piedi. Inizia però a chiedere insistentemente di chiarire il ruolo del Capo dello Stato nel caso di conferimento dei poteri di guerra al Governo: una preoccupazione di cui deriva la nomina della Commissione Paladin. È dopo cinque anni al Quirinale che all’improvviso Cossiga inizia a dire di volersi togliere qualche «sassolino dalla scarpa». E lì critiche alla Rai, all’invadenza dei partiti, alla corruzione. I vignettisti lo rappresentano ancora in catalessi, ma da cui si sveglia ogni tanto per attaccare i politici. Ancora un po’, e si scatena del tutto.
Il ministro dell’Interno della solidarietà nazionale e il Presidente del Consiglio che ha preparato il Pentapartito si trasforma in un “picconatore” arrabbiato a demolire tutti i tabù della Prima Repubblica. I vecchi avversari missini vanno in estasi, e qualcuno adotta addirittura un picconcino all’occhiello come simbolo. La sinistra, dopo che per un po’ Scalfari su Repubblica ha cercato di ascrivere le sue esternazioni al suo mulino, gli dichiara guerra, dandogli del golpista e chiedendone l’incriminazione, con una mozione respinta dalla Pricura di Roma. Giorgio Bocca lo definisce un “pazzarellone”, alcuni analisti si interrogano seriamente su un ruolo di psicofarmaci o dei dissapori con la moglie. Retrospettivamente, Cossiga assieme a Mariotto Segni e a Leoluca Orlando può essere ascritto a un trio di“democristiani suicidi”che percepì il catafascio del sistema politico che sarebbe seguito alla caduta del Muro di Berlino e cercò in qualche modo di accelleralo per incalanarne gli esiti. Dopo essere arrivato a sfidare i contestatori da un balcone, «non mi avete messo pau-
ra nel 1977, non mi metterete paura adesso»; dopo essersi autoaccusato per partecipazione a Gladio dopo la rivelazione dell’esistenza dell’organizzazione; dopo aver dato a Occhetto dello “zombie”, da cui un
cartone animato in cui lo si vede prendere a picconate sul cuore lo zombie-Occhetto sull’aria di un rap costruito sulle sue“esternazioni”, Cossiga esce però di scena il 28 aprile 1992: dimettendosi anticipatamente
a due mesi dalla scadenza naturale del mandato, in modo che fino all’elezione il 25 maggio di Oscar Luigi Scalfaro il ruolo presidenziale fu svolto dal presidente del Senato, Giovanni Spadolini.
L’anticomunista che sdoganò il Pci La fondazione dell’Udr e l’appoggio al governo D’Alema on l’inizio della Seconda Repubblica Cossiga per un po’ decide di fare l’osservatiore esterno, deludendo anche quei fans che vedono in lui il possibile sponsor di vari progetti in corso: dalla“Cosa Azzurra”a quella che poi diventerà Alleanza Nazionale. E nel 1993 alle comunali di Roma vota Rutelli al primo turno, Fini al secondo. Ma nel 1998 decide che Berlusconi è inadatto a guidare il polo moderato, e scende clamorosamente in campo con l’Udr: un’Unione Democratica per la Repubblica che rastrella un bel po’di ex-democristiani, allude con la sigla a De Gaulle e punta a qualificarsi come terzo polo. E quando Rifondazione comunista fa mancare il suo appoggio al governo Prodi, proprio l’Udr è determinante per la formazione del governo D’Alema I, cui partecipano anche i Comunisti Italiani di Cossutta, staccatisi da Rifondazione in polemica con Bertinotti.
tinopoli dove vivevano i pisani... Il governo D’Alema-Cossutta-Cossiga sdoganerà ex e neo-comunisti, rinnovando in cambio gli accordi sulle basi Usa e consentendo l’uso delle stesse basi per la guerra del Kosovo. Per cui qualcuno osserverà che Cossiga ha svolto fino all’ultimo la sua missione di uomo della Nato.
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Qualcuno parla di governo CossuttaCossiga. In conferenza stampa Cossiga spiegherà di aver voluto sancire irrevocabilmente la fine della conventio ad excludendum nei confronti del Pci, e regalerà a D’Alema un bambino di zucchero, ironizzando sui «comunisti mangiatori di bambini». Sarà quella anche l’occasione di una famosa polemica con Marcello Pera:
Quasi a voler confermare questa ipotesi, dopo un anno Cossiga si disamora del suo nuovo partito, che si sfascia, mentre nasce un governo D’Alema II con il nuovo partito dei Democratici. Dalle ceneri dell’Udr nasce l’Udeur di Mastella, di cui il senatore a vita Cossiga aderisce pro forma fino al 2003, quando aderisce al Gruppo delle Autonomie. Negli ultimi anni di vita Cossiga è tornato in effetti a esaltare l’au-
In conferenza stampa spiegherà di aver voluto sancire irrevocabilmente la fine della conventio ad excludendum nei confronti degli eredi del Partito comunista italiano che gli dà del «discendente di barbaricini, briganti e rapitori», e a cui rispondeva ricordando le proprie origini familiari «contrariamente a chi ha un cognome di cosa, come si usava dare alle famiglie la cui origine era ignota». Al che Pera a sua volta tirerà in ballo il quartiere di Costan-
il presentatore televisivo Pippo Baudo, i presidenti Ciampi, Scalfaro e Napolitano e il politologo Giovanni Sartori
tonomismo sardista e basco, continuando comunque a fare il picconatore a colpi di editoriali giornalistici, e provando anche invano a dare le dimissioni da senatore a vita, anche se ha votato la fiducia sia a Prodi che a Berlusconi. Lo scorso settembre aveva invitato Fini a andarsene dal Pdl.
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politica Diplomazie. Dopo la nota del Quirinale di lunedì, un secco comunicato
ROMA. Giorgio Napolitano lo ha sfidato politicamente e Silvio Berlusconi non ha nessuna intenzione di tirarsi indietro. Quel che la Costituzione dice o non dice riguardo alla formazione dei governi, lo scioglimento delle Camere e l’indizione di nuove elezioni non è un problema per il presidente del Consiglio: il Cavaliere vuole ribadire che di fatto lui è il dominus della legislatura e il capo dello Stato dovrà farsene una ragione. Dopo la nota del Quirinale in cui si invitava ad una formale azione di messa in stato d’accusa chiunque parlasse di «tradimento» della Carta da parte del presidente della Repubblica, il premier ha deciso di uscire allo scoperto facendo mettere nero su bianco la sostanziale messa in mora del Colle dai capigruppo del PdL di Camera e Senato: «Il confronto di lunedì dimostra che si è trattato di polemiche senza fondamento», hanno scritto in una nota, ma senza spiegare perché, Maurizio Gasparri e Fabrizio Cicchitto: «Nessuno sta forzando e nemmeno pensa di forzare la mano al capo dello Stato – sostengono i due - Ma è indubbio che nel nostro sistema bipolare i cittadini trovino sulla scheda anche il nome del premier. E ipotizzare governi tecnici o di transizione senza consenso elettorale sarebbe vista come una manovra di palazzo lontana dal mandato del popolo. Per questo è importante fare chiarezza». Segue il diktat: «Deve esserci da parte di tutti un tentativo positivo di riprendere con incisività l’azione di governo, ma qualora non vi fossero i numeri per consentire alla maggioranza di procedere su 4-5 punti, allora la soluzione dovrà essere quella di ricorrere alle urne». Almeno stavolta, a differenza di quanto fatto assai sconvenientemente addirittura dal Guardasigilli e dal ministro dell’Interno, non si è parlato di governi alternativi a quello attuale come di esecutivi «incostituzionali» (chissà perché, poi), ma la sostanza politica resta: gli specifici poteri del capo dello Stato – verificare l’esistenza di una maggioranza parlamentare, assegnare un mandato esplorativo come peraltro già accadde con Franco Marini nell’immediato dopoProdi – dovrebbero piegarsi ad una “Costituzione materiale”che pare disegnata sui momentanei desideri di Silvio Berlusconi. Giorgio Napolitano deve limitarsi a ratificare le decisioni prese a palazzo Chigi, custode mistico della volontà nazionale grazie al responso delle urne. Almeno la situazione adesso è chiara: non sono i Bianconi e gli Stracquadanio ad essere usciti di senno, l’unica loro colpa è di dire con chiarezza, e l’italiano che possono, quel che il capo pensa e va dicendo in giro. Ulteriore prova ne sia l’esercizio di manganello con
Il Pdl al Colle: «Berlusconi o il voto» Cicchitto e Gasparri: «Qualunque altra soluzione sarebbe una trama di Palazzo» di Marco Palombi
«La politica “contra personam” sarà un boomerang»
E «Famiglia cristiana» attacca Feltri ROMA. «Il Paese che si avvia a celebrare l’Unità d’Italia è stufo di duelli, insulti e regolamenti di conti». Così si esprime Famiglia Cristiana nel Primo Piano che sarà pubblicato nel numero 34, in edicola da questa mattina e anticipato ieri sul sito Internet www.famigliacristiana.it. «Una politica responsabile, che miri al bene comune - si legge nell’editoriale dedicato alla situzione politica italiana - richiederebbe oggi, da tutti, un passo indietro, prima che il Paese vada a pezzi, e un’intesa di unità nazionale (e solidale) che restituisca ai cittadini il diritto di eleggersi i propri rappresentanti. Anche la questione morale è ormai arma di contesa. Dalla politica ”ad personam”siamo al ”contra personam”. Ma la giusta esigenza di chiarezza vale per tutti. Sia per chi ha la pagliuzza che per chi ha la trave nell’occhio. La clava mediatica (o il ”meto-
do Boffo”) contro chi mette a nudo il re è un terribile boomerang»: lo stesso concetto, insomma, espresso nei giorni scorsi da Gianfranco Fini a proposito dell’attacco che da settimane sta subendo da parte di Vittorio Feltri. E ancora, con evidente riferimento al presidente della Camera, il giornale avverte: «Disfattista non è chi avverte il pericolo e fa appello al senso etico, ma chi è allergico al rispetto di regole e istituzioni». E conclude: «Con politici lontani dai problemi delle famiglie, che stentano a vivere, ogni giorno alle prese con povertà e disoccupazione, soprattutto giovanile, settembre riserverà un brusco risveglio. La ripresa è debole, soggetta alla pesante concorrenza dei nuovi mercati dell’Estremo Oriente. A scuola, anche quest’anno, la campanella suonerà a vuoto per decine di migliaia di docenti precari».
cui Vittorio Feltri, sul Giornale di ieri, ha accolto la sortita del Quirinale: «Con quale coraggio si potrebbe mandare all’opposizione chi ha vinto le elezioni e affidare l’esecutivo a chi le ha perse? Un’operazione del genere, architettata appigliandosi alle regole del sistema parlamentare, sarebbe forse formalmente corretta, ma nella sostanza rappresenterebbe uno sfregio alla sovranità popolare». E dunque, scrive il direttore berlusconiano, «il presidente della Repubblica farebbe meglio a non irritarsi se in questi giorni si discute molto su cosa accadrebbe qualora il governo non avesse più la maggioranza e cadesse».
«È grave che si continui a parlare di una Costituzione che non esiste, e su questa base si cerchi di forzare la mano al Capo dello Stato», è il parere del presidente dell’Udc Rocco Buttiglione: «Alcune critiche politiche alle ipotesi di soluzione sono da noi condivise, altre no. Il pallino è in mano al governo e alla maggioranza che ha vinto le elezioni, se esiste ancora». Il Pd ha invece affidato la sua reazione ad una nota congiunta dei capigruppo, Anna Finocchiaro e Dario Franceschini: «Il presidente del Consiglio e il governo possono rassegnare le dimissioni o chiedere la fiducia al Parlamento, ma tutto ciò che avviene un minuto dopo le dimissioni o dopo la mancata fiducia da parte delle Camere è, secondo la Costituzione del nostro paese, nelle mani del capo dello Stato». Posizioni legittime, anzi corrette in termini di diritto, che forse hanno il limite di non tenere nella dovuta considerazione a che livello di scontro sarebbe disposto ad arrivare il Cavaliere se non dovesse essere “accontentato”: Paolo Pombeni ha parlato ieri su questo giornale di un «rischio di guerra civile» e di «un’Italia ormai sulla china della Repubblica di Weimar». Cosa pensare d’altronde quando un governo nella pienezza delle sue funzioni minaccia di portare milioni di persone in piazza davanti ad una crisi politica che non s’è ancora nemmeno manifestata? L’atteggiamento di una parte dell’opposizione, per di più, non è che induca all’ottimismo: «Il paese attraversa da tempo un periodo molto buio. Devo dire che Napolitano fino ad oggi non è stato all’altezza del compito. Troppe leggi ordinarie che modificavano l’impianto costituzionale sono state fatte passare frettolosamente e con errori». Parola di Luigi De Magistris, ex pm, oggi eurodeputato di Idv. Paradossale che sia Umberto Bossi - che pure controlla da anni un’armata di 300mila bergamaschi in armi e pronti a tutto a fare la parte del leader responsabile: «Napolitano sta bene dove sta.Tutti hanno una virgola di ragione, ma è meglio non esacerbare lo scontro».
L’
otto pagine per cambiare il tempo d’agosto
i m p r e s a
18 agosto (1903)
Karl Jatho costr uisce il primo aeroplano quattro mesi prima dei fratelli Wright
Primi passi tra le nuvole di Massimo Tosti
l suo nome non compare nella Treccani, e neppure nei vari almanacchi e dizionari che raccolgono le storie delle invenzioni. È il destino dei precursori, i pionieri ai quali non arrise un successo pieno, tale da consegnarli alla memoria dei posteri. Il 18 agosto del 1903 Karl Jatho, un trentenne di Hannover, salì su un velivolo di sua costruzione, a doppia ala, equipaggiato con un motore da 10 cavalli, e si sollevò dal suolo fino ad un’altezza massima di 3 metri. Percorse in aria appena 60 metri, ricadendo a terra dopo un pugno di secondi. Poteva essere considerato un successo, da iscrivere nel Guinness dei primati (se fosse già esistito) se – appena quattro mesi più tardi – il sogno del volo a motore non avesse trovato altri due eroi, capaci di ottenere un risultato ben più sostanzioso. Furono i fratelli Wilbur e Orville Wright (americani, della zona vicina ai grandi laghi) a cancellare il nome di Jatho. Il 17 dicembre di quello stesso anno, sulle dune sabbiose di Kill Devil Hills (nel North Carolina) il loro aeromobile (il Flyer) percorse in aria 852 piedi (circa 260 metri), restando sollevato per quasi un minuto. Al timone sedeva (o, meglio: era sdraiato) il fratello maggiore Wilbur. Ma quel risultato fu un premio alla tenacia. Il colpo riuscì al quarto tentativo. Nel primo, Orville non andò meglio di Jatho. Steso bocconi, di traverso su un’ala del Flyer (una posizione buffa, se non decisamente indecorosa per un evento storico), Orville non andò oltre il record del pioniere tedesco. Lo raccontò lui stesso nel suo diario: «Il vento, secondo i nostri anemometri in quel momento, stava soffiando a poco più di 20 miglia, a 27 secondo gli anemometri statali di Kitty Hawk. Mollata la fune la macchina partì accelerando probabilmente fino a 7 o 8 miglia di velocità. La macchina si sollevò dal carrello proprio quando giunse alla quarta traversa. continua a pagina 10
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LA PERDUTA GENTE - CAPITOLO 12
DIAMO I NUMERI - I SETTE COLLI DI ROMA
CINEMA CALDO - UN MERCOLEDÌ DA LEONI
Due suicidi fanno un indizio
Colli tempestosi
I principi delle maree
di Carlo Chinawsky
di Alessandro Boschi
di Osvaldo Baldacci
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pagina 16 pagina 9 - liberal estate - 18 agosto 2010
Qui sopra, e accanto, le foto del velivolo progettato da Karl Jatho agli inizi del ’900. Nella pagina a fianco, l’ingegnere tedesco ritratto nel suo studio. Sperimentò il primo volo con quattro mesi di anticipo sui Wright Trovai il controllo dell’equilibratore piuttosto difficile a causa del suo bilanciamento troppo vicino al centro: aveva la tendenza a ruotare appena azionato, cosicché si girò troppo da una parte e poi troppo dall’altra. Di conseguenza la macchina si sollevò improvvisamente a circa 10 piedi e poi altrettanto improvvisamente, ruotando l’equilibratore, si diresse verso terra. Un’improvvisa caduta quando era a circa 100 piedi dal termine dei binari mise fine al volo. La leva del freno si ruppe, e il pattino sotto il timone s’incrinò».
Circa dodici secondi, a tre metri d’altezza. Saltellante, traballante, oscillante. Come un moscone. O come un giocattolo a molla, di quelli fatti di legno e di latta, che nessun bambino apprezzerebbe più. Ci fu un secondo tentativo, poi un terzo, e infine il quarto: quello decisivo che li consegnò alla storia. I due fratelli si alternarono regolarmente ai comandi. Il giorno prima si erano giocati i turni a testa e croce: il quarto volo toccò, quindi, a Wilbur. «La macchina – racconta Or-
ville – partì con le sue salite e discese come aveva fatto precedentemente, ma, dopo aver percorso trecento o quattrocento piedi, Will la controllava molto meglio, riuscendo a imprimerle un percorso abbastanza rettilineo. Procedette in questo modo finché
di, in 59 secondi. Il regime di rotazione del motore era 1071». Prima di allora molti altri uomini d’ingegno si erano misurati con lo stesso obiettivo, ma senza risultati apprezzabili. Nel 1890 il francese Clement Ader aveva messo a punto un apparecchio che somigliava a un pipistrello, spinto da un motore a vapore di 20 cavalli, che si sollevò da terra di appena 20 centimetri, e ricadde al suolo dopo 50 metri. L’ingegnere americano Samuel Langley, pur avendo ottenuto nel 1898 dal ministero della Guerra un finanziamento di 50mila dollari, fallì più volte l’obiettivo e – alla fine – rinunciò al progetto del volo umano.
Poco tempo dopo fu il turno dei fratelli Wright: circa dodici secondi sospesi per aria. Ci fu un secondo e un terzo tentativo, e infine il quarto che li consegnò alla storia
raggiunse un piccolo rilievo che distava circa 800 piedi dal punto di partenza, ed allora iniziò nuovamente il suo beccheggio e precipitò improvvisamente al suolo. L’equilibratore si ruppe malamente, ma la struttura principale non ebbe assolutamente danni. La distanza coperta fu di 852 pie-
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Il tedesco Otto Lilienthal morì in un incidente con un aliante (di voli del genere ne aveva sommati circa duemila) mentre si prepara-
va a sperimentare un aereo a motore da lui stesso costruito. Nel 1894 l’inglese Hiram Maxim (inventore della mitragliatrice) lanciò su un binario un biplano con tre persone a bordo spinto da un motore a vapore di 180 cavalli. L’aereo “deragliò”, rimanendo completamente distrutto: i tre passeggeri se la cavarono. Ancora prima (nel 1877), l’ingegnere italiano Enrico Forlanini aveva fatto sollevare in volo, in piazza della Scala a Milano un modello d’elicottero propulso da un motore a vapore. Il volo era durato 20 secondi, ma non c’erano persone a bordo. Nei primi anni del Novecento l’ingegneria aeronautica era persuasa che le macchine volanti sulle quali puntare per il progresso dell’umanità fossero di altro genere. Gli aerei a motore erano uno strumento adatto a pochi temerari: il trasporto dei passeggeri doveva essere affidato ai dirigibili. Mezzo secolo prima un dirigibile, costruito dal francese Henri Giffard, aveva percorso oltre 30 chilometri, partendo da Versailles. L’introduzione del motore a scoppio e l’impiego delle leghe di alluminio consentirono di
sviluppare enormemente le potenzialità del mezzo. Nel 1900 un ufficiale tedesco, il conte Ferdinand von Zeppelin, costruì un dirigibile lungo 128 metri, spinto da due motori di 14 cavalli. Il successo ottenuto dai fratelli Wright entusiasmò progettisti e piloti. Si moltiplicarono i temerari, e l’ingegneria aeronautica compì in pochissimi anni progressi giganteschi. Nel 1905, Gabriel e Charles Voisin (i fratelli andavano di gran moda nell’aviazione) costruirono il primo idrovolante. Nel 1909 Louis Blériot, a bordo di un aereo da lui stesso costruito, sorvolò la Manica.
Poi ci fu la guerra, che dette un impulso decisivo all’aeronautica. Le “macchine volanti” – quando esplose il conflitto – erano ancora in rodaggio. Gli impieghi civili erano ancora di là da venire. I comandi militari, viceversa, si resero conto che gli aeroplani potevano tornare utili per le ricognizioni sul terreno, favorendo il lavoro dell’esercito e delle artiglierie. In un secondo momento compresero che gli aviatori potevano svolgere anche un ruolo attivo di combattimento. E la guerra aerea scrisse capitoli memorabili. Due esempi su tutti: Francesco Baracca e Manfred von Richthofen. Francesco Baracca (una medaglia d’oro e tre d’argento) fu il più valoroso fra i piloti italiani: nell’arco di due anni riuscì ad abbattere 34 aerei nemici. Il 19 giugno 1918 fu abbattuto sul Montello: i suoi resti furono trovati dopo quattro giorni. La sua insegna personale, un cavallino rampante, fu adottata da Enzo Ferrari come emblema della scuderia
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o stesso giorno...
Janssen, l’astronomo che scoprì l’elio senza passare dalla Terra di Francesco Lo Dico i chiamava Pierre Jules César Janssen, l’astronomo francese che insieme all’inglese Joseph Norman Lockyer, scoprì l’elio nel 1868. Nato a Parigi nel 1824, Janssen studiò matematica e fisica alla facoltà di Scienze. Insegnante al liceo e alla scuola di architettura tra il 1853 e il 1871, la sua vera passione fu la ricerca scientifica. E così, dopo numerosi esperimenti sul magnetismo, e l’osservazione di eclissi solari e fenomeni naturali in giro per il Pianeta, dal Giappone all’Algeria, non si fece mancare neanche un volo su un pallone aerostatico che lo issò sui tetti della Villa Lumiere. L’esperienza che lo lega definitivamente alla storia, la vive però il 18 agosto del 1868, quando lo scienziato escogita il modo di osservare le protuberanze solari anche in assenza di un’eclisse. Quella cui assiste a Guntur, nell’India britannica, gli frutta un’inte-
S
di automobili da corsa. Von Richthofen – il “barone rosso” – fu un’autentica leggenda. Da solo mise in scacco tutta l’aviazione nemica.Vinse ottanta duelli aerei. Gli Alleati istituirono una squadriglia che aveva il compito specifico di eliminare il “barone rosso”. Il 21 Aprile 1918 il Fokker di von Richthofen fu abbattuto dalla contraerea australiana sulla Somme. Dopo la sua morte, la guida dello squadrone fu affidata a un altro giovane pilota, Hermann Goering, futuro braccio
destro di Hitler. Snoopy, il cane dei Peanuts, sognava di essere il “barone rosso”. Nel 1918 (a guerra non ancora conclusa: era il 9 agosto) Gabriele d’Annunzio sorvolò Vienna, lanciando manifestini da un velivolo (fu il Vate, manco a dirlo, a coniare il neologismo, che ancor oggi si usa). Così riassunse l’impresa: «Gettare il fegato al di là delle Alpi e andare a riprenderselo». S’era infatuato del nuovo
mezzo nove anni prima, quando era salito su un aereo la prima volta: «È una nuova ebbrezza, un nuovo bisogno. Non penso che a volare ancora!.
Prima dell’epoca dei pionieri, l’aviazione aveva vissuto il tempo dei sognatori. Primo fra tutti Icaro. La mitologia greca racconta che, insieme a suo padre Dedalo, era stato imprigionato dal re Minosse nel Labirinto di Cnosso. Per riconquistare la libertà, Dedalo costruì due paia di
ali che saldò con la cera alle spalle del figlio e alle proprie. Icaro – nonostante le raccomandazioni paterne (angosciato all’idea che la cera, avvicinandosi al sole, potesse sciogliersi) – volò felice sempre più in alto, inebriato dalla velocità che le grandi ali imprimevano al suo corpo. A un tratto Dedalo, guardandosi alle spalle, non vide più suo figlio, ma soltanto delle piume sparse che galleggiavano sulle onde sotto di lui.
L’elemento fu utilizzato nei palloni aerostatici, in campo medico e in ambito militare. Gli scienziati ritengono che la maggior parte di questo gas si formò nei tre minuti successivi al big bang
ressante scoperta: nella cromosfera nota una scia generata da un elemento non ancora noto sulla Terra. Le prime reazioni della comunità scientifica ondeggiarono tra l’incredulità e l’aperto scherno. Janssen non demorde, continua i test e ipotizza che quello strano elemento possa essere una qualche variante d’idrogeno. E alla fine arrivò il verdetto: lo strano elemento, il primo a essere stato scoperto nella realtà extraterrestre, era nuovo di zecca agli occhi dei mortali. In onore del sole, e della divinità greca che lo incarnava, Janssen lo battezzò Elio. Gas nobile e incolore, con il più basso punto di ebollizione tra tutti gli elementi, fu indicato con il numero atomico due, e si rivelò il più diffuso componente di tutto l’universo dopo l’idrogeno. Più avanti, quasi trent’anni dopo la sua scoperta, l’elio venne isolato da Sir William Ram-
Il calore del sole aveva sciolto la cera e Icaro era precipitato in mare, annegandovi. Dedalo volò a lungo in quel luogo, finché il cadavere di Icaro riemerse. Lo portò allora in un’isola vicina, chiamata ora Icaria, dove lo seppellì. Agli albori del XVI secolo, Leonardo da Vinci (e chi altro?) si mise a studiare gli uccelli per catturare il segreto del volo. Ecco una sua considerazione: «Quando l’uccello ha gran larghezza d’ali e poca coda, e che esso si voglia innalzare, allora esso alzerà
schi. I suoi disegni più antichi fanno pensare a una libellula, o a un pipistrello. Progettò una carlinga articolata di pezzi di cuoio cuciti insieme che l’uomo-uccello avrebbe dovuto indossare: l’aviatore si sarebbe sistemato bocconi nel telaio, remando nell’aria con le ali. Pare che un tentativo fu effettuato, non si sa se personalmente da Leonardo o da un suo assistente. Fallì miseramente, e non ci fu una replica. In seguito progettò un vero e proprio aeroplano mosso da un’elica che girava in senso orizzontale (come le pale di un elicottero). S’arrese soltanto all’incapacità di realizzare un apparato motore leggero. Passarono quasi duecento anni fino a quando – il 5 giugno 1783 (sei anni prima della Rivoluzione) – un paesino della Francia meridionale, Annonay, fu testimone di un evento che è legittimo definire storico. Due distinti gentiluomini, quel giorno, riuscirono a far levare da terra un pallone gonfiato. Non nel senso figurato del termine (un presuntuoso supponente e borioso, per intenderci): un vero pallone, gonfiato ad aria calda. I due signori si chiamavano Joseph Michel e Jacques Etienne Montgolfier, e la loro creatura fu
I comandi militari si resero conto che gli aeroplani potevano tornare utili per le ricognizioni sul terreno, favorendo il lavoro dell’esercito e delle artiglierie. Compresero che gli aviatori potevano svolgere un ruolo attivo di combattimento. Due esempi su tutti: Francesco Baracca e il “Barone Rosso”
forte le ali, e girando riceverà il vento sotto l’ali, il qual vento facendosegli intorno lo spingerà molto con prestezza». Facendo esperimenti con modellini di carta, previde gli avvitamenti e le cadute a foglia morta, i tuffi in picchiata, le scivolate d’aria e delineò i rimedi per evitare questi ri-
say dalla clevite e definitivamente classificato, al contrario delle prime ipotesi, come non metallo. Grazie alle sue caratteristiche, venne poi utilizzato all’interno di palloni aerostatici e dirigibili, nella ricerca atmosferica, in campo medico e in ambito militare. La sua abbondanza fece pensare che la maggior parte dell’elio si formò nei tre minuti successivi al big bang. L’insostenibile leggerezza delle stelle.
battezzata – con scarsa fantasia – Mongolfiera. I due non erano nuovi a colpi di genio. Il primogenito (Joseph Michel) aveva già inventato un calorimetro, un paracadute e una pressa idraulica; il secondogenito aveva inventato la carta velina. Pare che pensarono alla mongolfiera, osservando i detriti che salivano nella cappa del camino trascinati dal fumo. Riguardo al primo volo esistono due versioni discordanti: secondo la prima, gli unici passeggeri a bordo furono un gallo, una pecora e un’oca; in base alla seconda, risulterebbe che sul cesto salì anche Jacques Etienne (probabilmente spinto dal fratello maggiore). Luigi XVI nominò i due fratelli membri dell’Accademia delle Scienze. Nel 1797, un altro francese, André-Jacques Garnerin, sperimentò il primo paracadute della storia, lanciandosi da una mongolfiera.
Karl Jatho, dopo il fallimento del suo primo tentativo, fondò una scuola di volo e fabbricò altri velivoli, ma senza grande successo. Morì nel 1933 a sessanta anni appena compiuti. L’aviazione era allora già adulta. Nel 1919 era stato istituito il primo servizio aereo regolare fra le città di Berlino, Lipsia e Weimar (Germania) e fra Londra e Parigi. Nel 1927 l’americano Charles Lindberg volò da solo da New York a Parigi. Fu quella la prima trasvolata atlantica. Fra il 1930 e il 1933, Italo Balbo organizzò e diresse personalmente due crociere atlantiche, dando all’aeronautica italiana un ruolo di primo piano nel mondo.
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IL GIALLO
CAPITOLO 12 Due suicidi fanno un indizio Un finanziere caduto giù dal quinto piano, l’appartamento rovistato: c’è l’ombra dei servizi segreti di Carlo Chinawsky
a telefonata arrivò verso le nove, quando Marina imburrava i panini al latte. «Nicola… ». Dall’esitazione, capii che Mantelli stava per comunicarmi cose urgenti. Era quello il suo modo: silenzio rabbioso o parole stentate quando scattava un’emergenza. Lo faceva anche con i terroristi. «Alessio Torchini, sai… il finanziere, ecco… si è buttato dalla finestra… quinto piano… ». «O l’hanno buttato. Era solo o c’era pure la bellona dei telefilm?». «Lei era via, su un set in Puglia». «E tu non credi che… ». Situazione ingarbugliata, disse. E non mi aiutò certo a capire di più. «E la votazione in Parlamento com’è andata?». «La maggioranza s’è parata il culo. Anche se per poco. Il nostro senatore vagabondo si è schierato con il governo. E pure un suo compare, in bilico fino all’ultimo. Ma mi chiedo: eliminare Torchini era così necessario?». «Ne avevamo viste tante, Andrea». «Capito. E non sappiamo che dire. Tanto vale sentirci n’artra volta, Nicò». L’onorevole Augusto Scorrano poteva essere capace di tutto. Lui e decine di altri come lui. Ma se fosse stato come pensavo io significava che la segreta scalata all’azionariato della Sera non era la sola cosa infetta in quel groviglio. Ma soprattutto mi chiesi come mai le
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cose erano precipitate - sì, precipitate proprio come il corpaccione di quello dal quinto piano - poco dopo che avevo messo piede a Milano.
C’era un nesso o mi consideravo troppo importante? Marina masticava e mi guardava: «Problemi?». «Sai, c’è un documento in ballo che potrebbe dar fastidio alla politica… ». «Collegato alla morte del giornalista?». «Sì. E non escludo che ne abbia una copia anche lui. Chissà dove l’ha messa». «Io insisto: dovresti scrivere libri gialli». «Mah». «A Parigi ho conoscenze nell’editoria». «Col mio cognome austriaco forse avrei qualche chance». «Potrei tradurtelo io. Molto chic pubblicare in Francia, non trovi?». Alcuni passettini attorno all’idea di matrimonio. Era pericolosamente tenera. Quando entrai in caserma, Conforti mi guardò con apprensione. «Che c’è?». Mi disse che dovevo telefonare al colonnello Mantelli. E aggiunse: «Ma non col suo cellulare». Ancora lui, a distanza di meno di due ore. Si sospettava quindi il peggio: intercettazione. Alla domanda se ci fossero altre notizie sul Samoa e su Rosalba Korete, Conforti mi disse che avrebbe incontrato il magistrato l’indomani. Telefonai a Mantelli. Un’altra notizia. Che
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aumentava il tasso di complicazione della mia indagine sull’uomo morto con la testa nel forno. A quel punto diventava secondario, se non addirittura lezioso, interrogarsi sulla porta solo accostata e sul rubinetto del gas trovato chiuso? Sì e no. La notizia era la fotocopia francese di quella italiana. Simmetria criminale. Luisa Jaluna, ex moglie di Torchini, la donna che Jorio aveva intervistato a Parigi, s’era buttata dalla finestra. Dal quarto piano, caduta fatale.
Stesso gesto del marito, a poche ore di distanza. A quel punto sarebbe stato da idioti, vista la coincidenza, immaginare una duplice pulsione di morte come si dice accada ai gemelli. «Stessa mano: prima spinge lui e poi spinge lei. Mi sembra più che chiaro», dissi a Mantelli. «Cercano il documento. Ma perché solo ora?». «Questa è la domanda. Non a caso ho chiesto che non mi chiamassi col cellulare». Il timore, più che fondato, è che fosse stato il mio viaggio a Milano, con relativi incontri e telefonate, a smuovere le acque e a confermare l’esistenza del documento compromettente. Come dire: se quelli di Roma mandano un colonnello dei carabinieri significa che non si deve far chiaro soltanto sul finto suicidio di un cronista
«Stessa mano: prima spinge lui e poi spinge lei. Mi sembra più che chiaro», dissi a Mantelli. «Cercano il documento. Ma perché solo ora?». «Questa è la domanda. Non a caso ti ho chiesto di non chiamare col cellulare. Hanno rovistato la casa» di seconda fila. «Hanno rovistato l’appartamento?». «Tutto per aria – spiegò Mantelli – parrebbe una cosa da gente molto decisa. Questo è il parere della Sûreté». «C’è da aspettarsi che facciano la stessa cosa da Jorio, non credi?». «Se non l’hanno già fatto – disse lui sbadigliando – Oppure non esitano perché sanno che ci possiamo arrivare facilmente. E potrebbero essere incastrati». «A meno che abbiano già frugato dappertutto e senza lasciare tracce quando Jorio è morto. Questo spiegherebbe, anche se solo in parte, la porta trovata socchiusa». «Già, già… evidentemente non hanno trovato una mazza». «Non è detto. Faccio fare un controllo: metti che il giornalista abbia avuto una cassetta di sicurezza in qualche banca… ». «Vabbè, ma è difficile andare in banca, mostrare la chiavetta e fare quel che si vuole. Quelli vogliono i documenti e fanno firmare moduli». «Li sottovaluti, parlan-
do sempre al plurale come fai tu. Che ci vuole a mettersi una divisa e dire che ci sono indagini per la morte di Jorio?». «Ma che stai a di’?».
Non so che avesse in mente. Probabile che gli facesse schifo pronunciare la parolina magica della storia d’Italia: «Servizi segreti». «Be’, visto chi c’è di mezzo… ». «Andrea! – alzai la voce – Lascia stare Scorrano come persona e pensa alla sua utilità per il governo! Se lui avesse garantito il voto in cambio di… ». «Della sparizione del documento?». «Appunto». «Li mortacci. Sono passati tanti anni dalle piste rosse, dalle piste nere, dai depistaggi… e siamo di nuovo da capo… due morti, però… ». «Vanno per le spicce quelli. L’hanno capito anche a Parigi», feci. Mantelli era sfiancato delle situazioni che si ripetono, della stessa merda calpestata dalle stesse scarpe, anno dopo anno. «Ma io me ne torno in Tuscia, a
LA PERDUTA GENTE Volevo chiederle se il suo ex marito le avesse consegnato una busta. E comunque lei mi avrebbe ascoltato con la sua solita aria da santa infilzata. Anni prima avevo messo il naso in crimini di famiglia: due separati possono creare una zona grigia
Nelle puntate precedenti
Illustrazione di Michelangelo Pace coltivare pomodori, lattuga e melanzane, caro il mio Nico’», aveva borbottato una sera, con lo sguardo della moglie addosso, una donna che si riteneva fortunata perché insegnava ai bambini raponzoli (così li chiamava lei) in un’elementare dell’Olimpico. E ancora: «Sai che te dico? Mi compro un cane e parlo solo con lui, meglio pestare lo sterco di vacca che quello che per troppo tempo ci è arrivato fino al naso, alla gola e alle orecchie… ». Mantelli sapeva a memoria parecchie poesie di Trilussa. La sua passione. Un verso adatto al momento lo scovava sempre: «…devi considerà che, se domani ognuno se mettesse a fa’ un’inchiesta su quello che cià in core e che cià in testa, resteno più pupazzi che cristiani… ». «E tu vai», gli avevo detto, «io poi ti vengo a trovare». «A venimme a trovà lo spero, anzi so’ sicuro. Ma non credo che tu vivrai in campagna. Sei come Woody Allen che si struscia su Manhattan… eppure hai una sorella che vive in Romagna… io sarei già là, a correggere i temi delle tue nipotine… nun ce pensi proprio?».
Certamente. Ma avevo sempre messo da parte quella tentazione, per il fatto che era mezza e mai intera. La casa di mio padre mi ricordava la sua mor-
te. Quella di Roma mi ricordava mia moglie. Delle due morti volevo essere più vicino alla seconda. E poi mi piaceva stare a Roma, da quarant’anni la mia città, con quel lunatico ammasso di cose vecchie. Il delicato Mantelli pure quella sera non aveva fatto cenno alla mia vita sentimentale. Sospettava, ma non chiedeva. Aveva conosciuto Catherine qualche mese prima dell’attentato. «Me pare ’na bona sposa, sta francèsa». Telefonai a Jole Santilli vedova Jorio. Squilli a vuoto. Che stupido: la mattina lo stoccafisso era in cattedra. Volevo chiederle se il suo ex marito le avesse consegnato una busta. E comunque lei mi avrebbe ascoltato con la sua solita aria da santa infilzata. Anni prima avevo messo il naso in crimini di famiglia. Qualcosa avevo imparato. Due persone che si sono separate possono creare una zona grigia. Nell’ombra ad altri non confessabile possono cercarsi col corpo, ma assomigliano a palloncini a mezz’aria: in nome di quel che c’è stato e non di quel che potrebbe accadere. Liberi e tristi, come se sopportassero il vizio di aggrapparsi a un brandello di esistenza, burocraticamente cancellato eppure ancora lì, uno stupirsi che si fa odore acre. Tuttavia: nei quaderni del cronista non c’era al-
cun accenno alla moglie. A meno che sia stata messa dietro la maschera di qualche personaggio. «Conforti, abbiamo una foto decente di Patrizia?».
Una ragazza solo belloccia, Un po’sfrontata a guardarla bene negli occhi. Stesso distacco ironico del padre, ma più accentuato. Appartenevano a generazioni diverse, è chiaro. Il rancore silenzioso di lui si allargava a macchia nel viso ovale della figlia, come per trovare lì, finalmente, canale di scolo. Ruminavano la stessa erbaccia amara: lui la sputava sulla macchina da scrivere, lei su una vita deragliata. Entrò il brigadiere Pizzi seguito da un suo parigrado: un giovanotto arrogante, schiacciato dalla sua competenza elettronica. «Colonnello, ci siamo», disse Pizzi. E fece un cenno all’altro. Detti un’occhiata al computer e ci capii poco. Quello se ne accorse. Tenne subito a spiegarmi che quei segni strani indicavano la presenza del cellulare di Patrizia. «È come un radar, insomma… un localizzatore… », azzardai. «Un radar direi di no». «Brigadiere, eviti l’accademia informatica e mi dica come si fa ad arrivare alla ragazza». Pizzi, imbarazzato: «La possiamo trovare, anche se non al primo colpo… ». «Sappiamo comunque dove è? Co-
Il racconto di Alcide Jorio narra le vicende di Walter, un uomo assai attratto dalla vicina e misteriosa signora Columba, che la notte raggiunge in strada una cabriolet amaranto. Incuriosito da lei, Walter un mattino decide di darle un passaggio. È l’inizio di una relazione clandestina che sembra interrompersi quando l’uomo accetta un trasferimento a lavoro. Ma Walter contatta Susanna pochi giorni dopo, e le dice che la aspetta da lui
nosciamo la città, la zona, il quartiere… è così o no?». «Certo – rispose l’esperto – La possiamo beccare». «Bene, andiamo noi quattro», ordinai. Conforti si sistemò la pistola sul fianco, col cinturone in diagonale. Poi s’infilò un giubbotto leggero. Magro com’era non si vedeva alcun gonfiore. Pizzi l’arma doveva già avercela addosso. Auto di servizio, correttamente anonima. Come avevo chiesto. Non conoscevo quell’orrendo quartiere vicino a Rozzano. Mi avevano detto che lì facevano paura anche certe donne che andavano in giro vestite di cuoio nero e scarponcini militari. Se a Roma la periferia spesso ha l’odore della terra e magari dello sterco di cavalli o vacche, lì dominava un puzzo da tubi di scarico, di mani coperte d’olio di fabbrica, di focacce rancide, di plastica bruciacchiata. Ecco l’inferno metropolitano, terra di insonnie, di occhi stravolti dal neon dei bingo, dai bowling, dalle televisioni. La macchina rallentò a una curva. Vidi un ragazzetto sui vent’anni col cappello alla cow boy e gli stivali a punta e borchiati. Fumava tenendo la sigaretta tra il pollice e il medio come i duri dei western. Era davanti all’entrata di una sala-giochi. Dietro a lui una coetanea in minigonna e calze color carne
sino al ginocchio, seduta su un panettone di cemento: si guardava le unghie con smalto scuro e faceva dondolare la testa seguendo la musica che usciva dai fili dell’iPod. Arrivammo all’interno di un agglomerato di casermoni in stile sovietico. Uno dopo l’altro, parevano messi lì da una gru comandata da un pazzo ossessivo. Mandai in avanscoperta il brigadiere Pizzi. Era quello che più ci sapeva fare. L’informatico era rimasto in macchina, col computer sulle ginocchia. Conforti s’era messo poco distante dall’entrata del caseggiato. Ma aveva la faccia troppo da bravo ragazzo per mimetizzarsi tra i ragazzi che sostavano sotto portici scrostati e luridi, alcuni in sella di moto e motorini, altri seduti su un muretto.
Su una parte della facciata la scritta con lo spray nero:“Principessa ti amo”. Pochi metri più in là: “Loredana è una puttana”. Mi sedetti su una panchina. Con il giornale aperto sembravo un pensionato che controlla i necrologi e si beve tutta la cronaca nera. La giacca l’avevo messa nel bagagliaio della macchina. Davanti a me c’era l’idea di un praticello. A una ventina di metri un’altalena e uno scivolo arancione. Una donna mediorientale col vestito lungo e il velo che le lasciava scoperto l’ovale del volto sorrideva guardando i suoi due bambini. Dopo qualche minuto vibrò il cellulare: era Pizzi. «Signore, ci siamo… terzo piano a sinistra… tengo la porta aperta». Feci un cenno a Conforti e insieme salimmo le scale. Non presi l’ascensore di proposito, volevo vedere e sentire quelli che parcheggiano le loro vite ai bordi della città. Musica dalla radio, risate, parole sconce, porte che sbattevano, organi genitali disegnati sui muri, qualche lattina di birra, cicche di sigarette, pezzi di stagnola. Il corpulento Pizzi ci aspettava con il braccio appoggiato allo stipite della porta, colorata di rosso. Pareva un buttafuori di un locale per puttanieri. Due materassi per terra, tre zainetti, un fornello con bomboletta grigia, vetri della finestra per metà spaccati. Patrizia era riversa su un lato. Vidi la siringa. Il laccio di gomma era ancora all’ avambraccio, dove c’erano parecchie zone bluastre. Mi chinai, le toccai la vena del collo, poi guardai Pizzi, che capì la domanda. «È viva, ma… ».
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DIAMO I NUMERI oma. Sette Colli fatali. Fatali senza dubbio, colli del destino. Si può ben dire che gli eventi verificatisi su quelle alture sulle rive a est del Tevere sono stati decisivi per la storia umana, quasi una nuova creazione. Perché lì è nata Roma, e Roma ha forgiato la cultura del mondo. Non è retorica, sono dati di fatto: ancora oggi la gran parte di ciò che caratterizza la cultura occidentale viene da Roma, dalle sue proprie istituzioni e da quanto ha saputo prendere, riplasmare e trasmettere da altre culture, come quella greca e quella ebraica. E poi tutto quello che viene dal cristianesimo. E sappiamo bene che se questo vale per la cultura occidentale, la cultura occidentale è quella che ha pervaso il mondo intero.
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Non a caso a quei sette colli hanno cercato di rifarsi in molti, anche simbolicamente, e con qualche forzatura.Tanto che ad esempio sono molte le città che si dicono distese su sette colli, da Costantinopoli a Praga a Lisbona. Ciononostante, c’è qualche problema. Se quei colli sono fatali, infatti, non sono però sette. E in realtà non sono neanche colli. Se infatti nell’antichità erano rilievi molto più marcati e scoscesi di oggi, resta il fatto che in realtà sono i resti del tavolato laziale scavato dalle acque del Tevere e degli altri corsi. Sono quindi colli solo se visti dalle vallate. Ma nonostante questo e nonostante la loro limitata altezza, poche decine di metri sul livello del mare (dai 46 dell’Aventino ai 60 dell’Esquilino) che diventano la metà come dislivello rispetto al fondovalle, nell’antichità la maggioranza dei colli era chiamata “monte”, e colli sono fin dal principio solo il Quirinale e il Viminale. Una distinzione non da poco, vedremo subito, perché ha un importante risvolto storico, che incide sul fatto che i sette colli non erano in realtà sette. Palatino, Aventino, Esquilino, Celio, Campidoglio, Viminale e Quirinale. Questi i nomi dei sette colli fissati dalla tradizione. Una tradizione antica, ma non univoca né originaria, e frutto di una semplificazione. Chiariamo subito una cosa: che Roma fosse la
Colli tempestosi Palatino, Celio, Esquilino, Viminale, Aventino, Campidoglio e Quirinale. Sono questi i nomi delle alture che secondo la tradizione punteggiano la Città Eterna. Una leggenda antica che è frutto di semplificazioni
Ecco perché non sono sette le colline su cui sorge Roma di Osvaldo Baldacci
città dei sette colli è una definizione che viene fin dalla stessa antica Roma. Cicerone (Lettere ad Attico) definì Roma la “città dalle sette alture”, Virgilio (Georgiche ed Eneide) la città delle “sette fortezze”, Orazio (Carmen Saeculare) parla dei “sette colli cari agli dei”, Marziale racconta che dal Gianicolo «puoi godere la vista dei sette colli sovrani e abbracciare
La suddivisione classica descrive una realtà che si può identificare con quella all’interno delle mura serviane, risalenti al IV secolo a.C. ma ricalcanti il perimetro rifondato da Servio Tullio tutta Roma», Properzio dice la “città delle sette alture perenni”, Stazio (Silvae) la “settigemina”. La testimonianza più antica e decisiva è quella dell’erudito Varrone, nel De Lingua Latina, V, 41: «Dove adesso si
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trova Roma c’era un tempo il Septimontium così chiamato per il numero di montes che in seguito la città incluse all’interno della sue mura». Come dicevamo prima parla di montes, ma dice anche altre cose fondamentali su cui torneremo. Per ora sottolineiamo che dice che la realtà del Septimontium prende il nome dai sette colli che in seguito saranno inclusi nelle mura.“In seguito”: come è possibile che una realtà prenda il nome da qualcosa che succede secoli dopo? Qualcosa non torna. A questo punto è il caso di precisare che la struttura classica dei sette colli descrive una realtà che si può identificare con quella all’interno delle mura serviane, risalenti al IV secolo a.C. ma ricalcanti il perimetro cittadino del pomerium rifondato da Servio Tullio, il sesto re. Sono quelle mura a circondare più o meno i sette colli che si studiano alle elementari. Ma quali fossero davvero questi sette colli è un dato che è cambiato nel tempo, e addirittura potrebbe esso potrebbe nascere da un clamoroso equivoco o forse da una forzatura simbolica. Cominciamo
dalle varianti. Servio, il commentatore di Virgilio, toglie dalla lista il Campidoglio e inserisce il Gianicolo, mentre due repertori del IV secolo, il Curiosum e la Notitia, escludono Aventino e Viminale e inseriscono Gianicolo e Vaticano. In effetti le alture sulla sponda destra del Tevere svolgono fin dall’inizio un ruolo importante nella storia di Roma, specie il colle di Giano. Un altro colle illustre escluso dalla serie classica è il Pincio. Ma tornando ai sette colli classici, non è irrilevante ricordare che per i romani più antichi essi erano in realtà cime distinte, per un totale di vette quindi ben superiore a sette.
Il solo colle Quirinale (diventato solo di recente il Colle per eccellenza) era diviso in Latiaris, Salutaris, Quirinalis e Sanqualis o Mucialis; l’Esquilino aveva almeno tre punti storicamente rilevanti, Fagutal, Oppius e Cispius; il Campidoglio (in antico Mons Tarpeius) si divideva tra Capitolium e Arx; il Palatino aveva Palatium e Cermalus, più la Velia; l’Aventino (anticamente Murcus) era suddiviso in piccolo e grande; come il Celio (all’origine Querquetulanus) cui si affiancava un Caeliulus. C’erano poi cime scomparse, co-
me la sella che univa Quirinale e Campidoglio, spianata da Traiano, e soprattutto la storicamente più importante Velia, colle di collegamento tra Palatino ed Esquilino, definitivamente scomparso con la realizzazione di via dei Fori Imperiali. Siamo quasi a venti. Ma non è nozionismo erudito quanto noioso. Questo elenco c’entra davvero molto con i sette colli e con la storia stessa di Roma. Per capirlo dobbiamo tornare a quel Septimontium di cui abbiamo parlato prima. Era un’antichissima cerimonia lustrale celebrata l’11 dicembre. Oltre a quell’accenno di Varrone, il riferimento più prezioso viene da Festo che cita Antistio Labeone e Verrio Flacco. In quel passo si racconta della processione che tocca queste tappe: Palatium col sacrificio del Palatuar,Velia con un altro sacrificio, poi Fagutal, Subura, Cermalus, Caelius, Opius, Cispius. Ricontrolliamo. Sì, sono proprio otto, e poco hanno a che fare con i sette colli classici: Palatium e Cermalus (sul Palatino),Velia (stranamente rimasta fuori dagli elenchi successivi), Celio, poi Fagutal, Opius e Cispius (tre cime dell’Esquilino), Subura, che non è un colle ma un avvallamento. Otto, e solo ristretti a una zona specifica. Restano fuori ben quattro dei colli tradizionali: Aventino, Campidoglio, Viminale e Quirinale. Ecco, questo frammento è forse la traccia di una Roma prima di Roma, di un villaggio che ha preceduto la fondazione della città. Un villaggio dei montes che era limitato a una zona più ristretta, e che forse era persino rivale di un probabile altro villaggio collocato sui colles del Quirinale e del Viminale (spesso ricondotti dalla tradizione ai sabini). Un insediamento che rivela quali sono i veri colli originari di Roma. E che forse – secondo molti studiosi però duramente contestati da altri illustri storici – è persino all’origine di un clamoroso equivoco che fatto nascere i “sette colli”. Dato che i toponimi sono otto, e per regioni grammaticali, qualcuno pensa che Septimontium non abbia a che fare col numero sette, ma con saepti, che vuol dire “recintati”. Il ricordo confuso di questo antico nome avrebbe poi portato alla definizione del numero che per millenni ha spinto a semplificare a sette le alture di Roma.
I TESORI DELLE GRANDI CIVILTÀ el 607 dopo Cristo Ono no Imoko, primo ambasciatore ufficiale del regno di Yamato, lasciò le isole del Giappone per recarsi alla corte cinese, a Luoyang. Impresa coraggiosa, tenuto conto dei pericoli che presentava a quell’epoca una tale traversata. Lo accompagnava un interprete di origine cinese, Kuratsukuri. Le credenziali di cui era portatore lasciarono perplesso il sovrano cinese Sui. C’era infatti scritto: «L’imperatore del Sol levante scrive all’imperatore del Sole che tramonta». Questo voleva dire per il signore della Cina sentirsi trattare alla pari del re del “Paese dei nani”. Ma, con l’aiuto della diplomazia, tutto si sistemò e relazioni ufficiali si stabilirono presto tra i due Paesi e Ono no Imoko ritornò a Yamato con due messaggeri cinesi.
N
L’anno dopo, Ono no Imoko ritornò in Cina, scortato nel suo nuovo viaggio non soltanto dai due messaggeri cinesi, ma anche da un gruppo di studiosi, monaci buddisti e funzionari incaricati di raccogliere tutte le informazioni possibili, concernenti tanto le lettere e le arti quanto l’amministrazione del grande vicino. In seguito, le relazioni tra il regno diYamato e la Cina diventarono sempre più strette e la civiltà ancora un po’“barbara”delle isole del Sol levante cominciò a modellarsi prima sull’esempio dei Sui e poi su quello dei T’ang. Alcune missioni cinesi dirette a Yamato erano composte da oltre 500 persone sistemate su quattro navi che trasportavano gli ambasciatori, i segretari e un gran numero di medici, astrologi, indovini, scultori, pittori, carpentieri, vasai, fabbri, monaci e tanti altri, tutti assistiti da numerosi interpreti. Questi “esiliati” rimasero nell’orbita della corte reale di Yamato, seguendola anche nei cambiamenti di residenza, determinati dalla morte dei sovrani e dall’ascesa al trono dei successori. Il Giappone cominciò da quegli anni a manifestare un ardente desiderio di conoscere tutto ciò che proveniva dalla Cina. La Corea, già dal 538, gli aveva portato i primi insegnamenti del buddismo e gli aveva fatto dono di valenti artisti e architetti. Sotto l’impulso del principe Shotoku, al quale viene attribuita la redazione del primo codice di leggi giapponesi in diciassette articoli, l’amministrazione centrale fu riorganizzata secondo il modello cinese. Questo codice, modificato poi molte volte, costituì la base della struttura del governo e del comportamento individuale giapponese.
NARA Viaggio nell’antica Heijo-kyo, capitale giapponese dell’ottavo secolo ispirata a Ch’angan
Il Sole d’Oriente che venne dalla Cina di Rossella Fabiani
si liberamente su vasti territori ma, fatta eccezione per i suoi prodotti, era completamente ignorata tanto dai nobili quanto dai monaci buddisti. Non se ne parla mai nelle cronache se non per qualche allusione. Soltanto alcuni poemi di epoca anteriore, raccolti nella grande antologia di Man’yoshu (libro dei Dieci Mila Fogli) lasciano intravedere qualche aspetto della sua esistenza. Presto Nara divenne una capitale uguale a quella cinese. E, senza dubbio, l’orgoglio della città era il Todaiji, un’immensa struttura che accoglieva il Buddha Vairocana in bronzo, alto 18 me-
Strutturata a scacchiera, sede di palazzi e uffici amministrativi, la città fu residenza fissa dell’imperatore e della sua corte tri, fatto costruire dall’imperatore Shomu. Al Todaiji venivano portati i doni destinati alla corte imperiale e la sua decorazione durò oltre trenta anni.
Ma il monumento
L’orgoglio degli abitanti era il Todaiji, un’immensa struttura che accoglieva un Buddha in bronzo alto 18 metri Mancava ancora al Giappone una grande capitale. Avendo sentito vantare gli splendori delle città cinesi di Luoyang e di Ch’angan, i sovrani giapponesi cominciarono, dal 646, a pensare alla creazione di una capitale che avesse lo stesso stile. Poterono costruirla però soltanto nel 710. Strutturata a scacchiera, sul modello delle città cinesi, Heijokyo, chiamata più tardi Nara – che comprendeva palazzi, uffici
amministrativi, case della nobiltà, granai, mercati, monasteri, alte pagode – divenne la residenza fissa dell’imperatore e della sua corte. La vita in Giappone cambiò completamente, almeno negli ambienti aristocratici e religiosi, quelli che a quell’epoca contavano veramente. I contadini, invece, considerati dagli abitanti della città alla stregua degli animali, continuavano a vivere come sempre erano vissuti per
secoli. Abitavano in capanne di argilla e paglia, penavano tutto il giorno a lavorare nelle risaie o ad allevare bachi da seta. Andavano a caccia nelle foreste, pescavano nel mare e nei fiumi, ma ciò non bastava a sfamarli, continuavano a vestirsi di stoffe grossolane ricavate dalla cortecce e, totalmente ignoranti, veneravano, come in passato, le loro divinità dei campi e delle montagne. In una sola cosa la loro vita era cambiata: le imposte riscosse dai funzionari per costruire la nuova città i cui templi diventavano ogni giorno più pesanti. Relativamente poco numerosa (la popolazione del Giappone allora non superava i sei milioni), la gente del popolo poteva spostar-
più sbalorditivo che stupisce ancora oggi i visitatori, rimane il favoloso museo di Shosoin, di sicuro il più antico del mondo. L’insieme dei tremila oggetti illustra molto bene la vita materiale della corte nell’VIII secolo. L’imperatore riceveva infatti, da parte di molti viaggiatori che tornavano dalla Cina o dalla Corea, regali di grande valore per l’epoca: piante medicinali, manoscritti religiosi o tecnici, pitture buddistiche, strumenti musicali, armi, oggetti di culto, utensili diversi. A questi regali venuti dall’estero si aggiungevano i doni fatti all’imperatore dagli alti funzionari della capitale e delle province. Si possono ammirare soprattutto oggetti di origine cinese, introvabili altrove, una tazza di vetro venuta dalla Persia, tessuti dell’Asia centrale, un bassorilievo in marmo di ispirazione bizantina, il ritratto di una donna in costume persiano. Tutto a testimoniare gli stretti legami esistenti a quell’epoca tra il continente e il Giappone e il grado di maturità raggiunto dagli artisti e dagli artigiani del Sol levante.
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CINEMA CALDO
UN MERCOLEDÌ DA LEONI DDII JOHN MILIUS
I principi delle maree di Alessandro Boschi ohn Milius è un omaccione corpulento la cui attività principale è guardare in loop Sentieri selvaggi di John Ford. Film che, qualche anno fa, diciamo una decina, aveva dichiarato di avere visto almeno una sessantina di volte. Adesso dovremmo essere sul centinaio, più o meno come i suoi chili. Ma Milius sa fare anche un’altra cosa benissimo, sa dirigere e soprattutto scrivere bellissime storie. Da sceneggiatore tre titoli: Lo squalo (Steven Spielberg), Corvo Rosso non avrai il mio scalpo (Sydney Pollack), L’uomo dai sette capestri (John Huston). Facciamo quattro: Apocalypse now (Francis Ford Coppola). Da regista vediamo un po’: Dillinger, Addio al re (sottovalutato, bellissimo), Conan il Barbaro. Basta e avanza per farne uno dei grandi, se non altro considerando i registi succitati che si sono affidati a lui. E poi Un mercoledì da leoni, in originale Big Wednesday.
J
Scritto e diretto da Milius nel 1978, Un mercoledì da leoni seguì il destino di molte altre pellicole a motore diesel, partenza lenta e arrivo trionfale. Quella storia che sembrava una sfilata di modelli e belle ragazze a spasso per le spiagge della California non piaceva proprio. Non si capiva la forza del film, la sua simbologia. O forse la si capiva e la si rifiutava. Non c’era abbastanza “impegno”, ecco. I surfisti non erano ragazzi comuni, erano esseri da adorare, belli e irraggiungibili come solo gli dei sanno essere. La voce fuori campo, che nella versione originale è dello stesso Milius, così ce li presenta: «Era il loro momento, erano veramente sulla cresta dell’onda, erano i re di un regno particolare». Su tutto, incombente, la guerra del Vietnam, lo scandalo Watergate, l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy e il tempo che passa. Il film si sviluppa in quattro gigantesche mareggiate, quelle del 1962, del 1965, 1968 e 1974.Tutto è vissuto in attesa del “grande giorno”. La novità del film di Milius, e l’elemento che ha rischiato di farlo naufragare, è stato quello di raccontare attraverso una gioventù diversa da quella cittadina o rurale, la sospensione del vivere e dell’attendere non si sa bene cosa. Non è un caso che il regista sia stato argutamente definito un “fascista zen” proprio per i suoi punti di contatto con il pensiero nietzschiano, che insegna che “dopo”non c’è altro che una confusione da mare in tempesta. Per questo ci si può solo aggrappare a un’asse da surf e sperare che vada bene. L’asse, quindi, diventa fondamentale, vitale. Il personaggio che le costruisce, Bear, è un essere mitico, che predica l’attesa e confeziona non semplici pezzi di legno levigati e colorati. Bear consegna ai suoi discepoli dei lasciapassare per una dimensione altra. Per capire l’importanza del surf per Milius, che qualche decina di chili fa ha pure praticato, è sufficiente ritornare a uno dei capolavori poco fa citati e da lui sceneggiati: Apocalypse Now di Francis Ford Coppola. Una delle scene entrata giustamente nella storia del cinema di ogni tempo è
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quella interpretata dal colonnello pazzo cui dà le proprie sembianze Robert Duvall. «Charlie don’t surf!», grida incurante delle bombe che gli esplodono accanto. I gialli, i vietcong, non fanno surf. Quasi che questo fosse un motivo sufficiente per sterminarli. Il surf come la vita, l’attesa del grande giorno come la vita. Tutto sommato Un mercoledì da leoni, la cui importanza è stata paragonata a quella de Il cacciatore di Michael Cimino, è una interessante rilettura del ’68, fatta senza banalità e soprattutto senza la paura di essere etichettati “di destra” a causa di certe derive su cui a volte la sceneggiatura indugia, come quando un cameriere hippy, e in quanto hippy disordinato, viene duramente apostrofato da uno dei protagonisti. Ma forse solo da noi si cercano di evitare certi rischi. Se si è disciplinati, vagamente esoterici, refrattari alla mancanza di stile, si
surfisti. Gary Busey, proprio in virtù dei tanti rimandi che il cinema ci offre, interpreterà molti anni dopo, esattamente nel 1991, Point break. Diretto dalla regista recente premio Oscar Kathryn Bigelow, è la storia di una banda di rapinatori con la passione per il surf. Busey è un poliziotto che con l’aiuto di Keanu Reeves tenterà di catturarli. Ma proprio in pieno stile Big Wednesday il surf la spunterà ancora una volta. Gli altri due biondi. William Katt continua a lavorare tantissimo ma noi ce lo ricordiamo soprattutto per le sue straordinarie performance nei panni del bislacco Ralph Supermaxi Eroe e come l’assistente di Perry Mason nelle ultime puntate della serie interpretata da Raymond Burr. Katt impersona, e anche per questo entrerà nella leggenda, Paul Drake junior, figlio del leggendario Paul Drake, l’assistente di Mason che riusciva a parlare solo stando seduto sulla scrivania del suo capo. Jean – Michael Vincent, nome da pilota di Formula 1, da qualche anno lavora un po’ meno del collega ma ha comunque al suo attivo una ottantina di produzioni.
L’asse da surf è la chiave del film. Il personaggio che le costruisce, Bear, è un essere mitico, che non consegna ai suoi discepoli dei semplici oggetti, ma dei lasciapassare per un’altra dimensione è solo disciplinati, esoterici e refrattari alla mancanza di stile. Non c’è mai una lettura dei film che non derivi dal racconto nei film, negli Stati Uniti. I tre protagonisti erano stati scelti accuratamente dal casting e solo uno di loro, Gary Busey che interpreta Leroy, si dovette sottoporre a un corso intensivo di surf. Gli altri due, William Katt e Jean- Michael Vincent, rispettivamente Jack e Matt, erano già provetti
Lo stesso anno di Un mercoledì da leoni spopolavano nelle sale filmetti come Guerre stellari di George Lucas e Incontri ravvicinati del terzo tipo di Steven Spielberg. Forse anche per questo motivo la partenza al botteghino del film di Milius fu decisamente scoraggiante. Inoltre il fatto che il regista definisse il surf come un nuovo mezzo per attuare la selezione naturale non giovava certo a un prodotto che come abbiamo visto poteva in effetti avere i presupposti per essere tacciato di fascismo. Ma a essere sinceri tutto ciò ci fa solo ridere. Per noi Un mercoledì da leoni è e resterà per sempre un grandissimo film sulla crescita, un vero e proprio rito di passaggio. Se poi credete che sia di destra allora guardatevi Surf Nazist Must Die, e di sicuro avrete pane e onde per i vostri denti.
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g e di cronach di Ferdinando Adornato
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La Fiat in Serbia. Quell’indignazione ipocrita dei sindacati italiani Marchionne non sembra voler cambiare idea: la nuova monovolume della Fiat si costruirà in Serbia. Gli operai iscritti alla Fiom, il sindacato di estrema sinistra, che a Termini Imerese ha fatto impazzire le parti sociali e l’Italia intera, si sono detti indignati e dispiaciuti. D’altra parte, come dare torto a un amministratore d’azienda che vede in pericolo la produzione, “grazie” alle pretese di un manipolo di operai comunisti che vorrebbero contare quanto il “padrone”? Se il modello sindacale italiano (giudicato da opinionisti di fame internazionale il peggiore in assoluto nel mondo), non sarà in grado di svecchiarsi e tenersi al passo con i tempi, molti altri imprenditori italiani seguiranno le orme della Fiat. Circa il “dolore” dei militanti Fiom, potranno sempre consolarsi sapendo che altri operai (infinitamente più poveri di loro), sfameranno finalmente le loro famiglie. Famiglie che, le tute rosso blu marxiste se lo dovrebbero ricordare, sono diventate povere in virtù di quell’ideologia (in cui essi credono) che nei Paesi dell’Est e in mezzo continente, ha prodotto miseria e morte.
Gianni Toffali - Verona
FITTO E IL PDL SPIANANO LA STRADA A VENDOLA Paradossalmente Fitto e il Pdl di Puglia, complice il ministro Tremonti, stanno spianando la strada a Vendola per la candidatura a premier. Come già accaduto con l’esclusione di Adriana Poli Bortone e la scelta di Rocco Palese a candidato presidente per le regionali, anche questa volta le scelte del ministro, la cui unica preoccupazione pare sia quella di assicurarsi la leadership del centrodestra pugliese, rischiano di trasformarsi in un boomerang. Il vuoto politico e culturale creato dal ministro di Maglie ha favorito e continua a favorire l’avanzare del suo antagonista, che trova terreno fertile nella mancanza di una proposta politica concreta da parte del Pdl. Così, mentre il governatore è accolto e osannato nelle piazze di Puglia, Fitto e i suoi rischiano di vedersi additati dall’opinione pubblica come i responsabili della mancata stabilizzazione dei cinquemila precari della sanità, che vuol dire addebitarsi il malumore di cinquemila famiglie. Al contrario, forse la firma del Piano di rientro sanitario da parte del ministro Tremonti, avrebbe addossato a Vendola la responsabilità della chiusura di ospedali in tutta la Puglia, del taglio di 2100 posti letto e dell’introduzione del ticket sui medicinali. Mentre Vendola continua ad entu-
siasmare le folle (sia pure a parole), ridando speranza a un territorio esasperato, il Pdl di Puglia continua a contrastare il suo avversario con la logica dei numeri, delle fredde leggi e delibere, con un tecnicismo esasperato che non può produrre risultati utili né in termini di consenso popolare né in termini elettorali. L’errore (politico) del ministro è quello di continuare a pensare di mettere in difficoltà il suo avversario con sgambetti politici e pigiando i bottoni delle stanze romane del potere, facendo apparire Vendola come la vittima; ignorando che tutto questo avvantaggia il suo avversario e favorisce la crescita del consenso intorno a lui.
Salvatore Negro
IL NUMERO VERDE ANTITRATTA DELLA PROSTITUZIONE CHIUDE Il dipartimento per le Pari Opportunità ha comunicato ai gestori del numero verde Antitratta che non ci sono più i fondi per rinnovare il finanziamento. Le associazioni On the Road, Certi Diritti e il Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza dovrebbero quindi far fronte da soli a questa iniziativa di lotta alla tratta della prostituzione... ma non avranno alternative alla chiusura, con effetti devastanti per la difesa delle persone sfruttate e obbligate a prostituirsi nelle strade italiane. Non
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YORK. Il reverendo Tim Jones di York in Inghilterra è finito al centro delle polemiche quando, durante un sermone, ha detto che è accettabile che i poveri e i bisognosi si dedichino al taccheggio, rubando il cibo dai negozi per sfamare le loro famiglie, sostenendo che è molto meglio che finire in giri peggiori come lo spaccio di droga o la prostituzione. Nel sermone, ha portato ad esempio anche una catena di negozi della zona, come obiettivo di taccheggio. La polizia, ma anche i vertici della Chiesa anglicana, non hanno apprezzato particolarmente queste parole che giustificano quello che comunque è un reato. Anche un certo Martin Stot ha deciso una personale forma di protesta: è andato nel negozio che aveva citato il reverendo Jones durante il sermone, ha comprato una decina di confezioni di ravioli in scatola, e le ha lanciate al prete alla fine della messa. Stot ha spiegato che le parole del reverendo rischiano di essere un incoraggiamento per i giovani a entrare nell’illegalità, rendendo i furti “giustificabili”, e indirizzare quindi le future generazioni su una pessima strada.
solo, la manovra ha tagliato fondi anche all’attività di primo contatto, in strada e indoor, per far emergere i fenomeni della tratta e del grave sfruttamento e alla pronta assistenza di tre mesi per le vittime che decidono di uscire dalla loro condizione di assoggettamento. Sono anche stati ridotti i fondi destinati ai progetti di inserimento sociale a favore delle vittime. Chi aiuterà queste persone?
D.P.
CHE FINE HA FATTO BIN LADEN? Colpisce la capacità di autoironia con la quale gli Usa riescono a tanti anni di distanza dall’11 Settembre, a realizzare un film Che fine ha fatto Bin Laden, perché l’icona del terrore è realmente per molti un personaggio immaginario, talmente irreale che sembra che qualcuno se lo sia inventato. Diversamente si può dire per le vittime del terrore mondiale, quelle credo proprio che siano reali.
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e di cronach
È giusto che i poveri taccheggino
Tiziano Luppoli
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LE VERITÀ NASCOSTE
Santi in terra Interrompere il ciclo delle reincarnazioni e fondere la propria anima con la coscienza cosmica: per raggiungere più velocemente questi obiettivi, fulcro dell’induismo, i sadhu (uomini di bene, sant’uomini, in sanscrito) rinunciano a casa, beni e legami e si mettono in viaggio per le strade di India e Nepal, vivendo delle offerte di cibo che ricevono dai devoti
Il governo sta elaborando una nuova tassa sugli immobili, una tassa globale affidata ai comuni. La cedolare secca pari al 25% sugli affitti. Ai comuni arriverebbe un gettito di 4 miliardi di euro l’anno, che compenserebbe la perdita che hanno avuto dall’abolizione dell’Ici sulla prima casa di abitazione, che ne valeva 3. Secondo alcune stime, l’aliquota al 20% sugli affitti non creerebbe un buco nel gettito dello Stato, anzi favorirebbe l’emersione del nero e una riduzione degli attuali canoni di affitto. Affidare la tassa sulle locazioni ai comuni consentirebbe inoltre una lotta più efficace contro l’evasione fiscale. Non vorremmo però che questa cedolare secca che dovrebbe sostituire le attuali imposte sulla casa, sia un ulteriore balzello a carico dei soliti noti, ossia i piccoli proprietari di casa.
Angelo De Nicola, vicepresidente Uppi
mondo
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Medioriente. 660mila uomini, tra poliziotti e militari, dovranno difendere la svolta verso la democrazia e la pacificazione
Countdown per l’Iraq Dal primo settembre Baghdad assumerà il pieno controllo della sicurezza del Paese di Antonio Picasso er il ritiro delle truppe Usa in Iraq è cominciato il countdown. Il 31 agosto l’ultimo Gi dell’operazione United States forcesIraq (Usf-I) decollerà alla volta degli Stati Uniti. Dal giorno dopo, il governo di Baghdad assumerà il pieno controllo della sicurezza del Paese. Ad affiancare le forze irachene resterà il contingente della Nato Training Mission in Iraq (Ntm-I), composto da consiglieri militari privi di potere decisionale politico e di autorità operativa. La loro responsabilità si limiterà all’addestramento dell’apparato di sicurezza iracheno e crearne uno nuovo chiamato “Oil police”, atto esclusivamente alla protezione delle infrastrutture petrolifere. In particolare, con-
P
conflitto in Iraq ha assunto connotati decisamente impopolari. Per ragioni di sostegno politico intero, Obama ha preferito non compromettere la sua immagine con la “guerra dei Bush”. Inoltre, ha scelto di consegnar finalmente l’Iraq alle autorità di Baghdad, nel rispetto del loro potere.
Gli osservatori più critici dell’attuale amministrazione statunitense sostengono che questa exit strategy avrebbe potuto essere procrastinata. L’instabilità politica in cui versa il Paese, accompagnata da una difficile ripresa industriale e soprattutto da una rinnovata violenza avrebbero dovuto convincere Washington che Baghdad non è ancora in grado di
Secondo il generale americano Barbero, «il ministero della Difesa ha approntato un budget per il 2011 di 500 milioni di dollari». «Non c’è forza armata al mondo così in crescita come quella irachena» tinua riscuotere forti apprezzamenti presso il Pentagono il contributo italiano. Recentemente il generale Micheal Barbero, attuale responsabile dei sistemi di addestramento dell’esercito e della polizia iracheni, nonché vice-comandante di Raymond Odierno, non ha lesinato i propri elogi nei confronti dei Carabinieri.
L’Italia ha dispiegato nell’area un complessivo di 90 uomini, dei quali 80 sono dell’Arma. Il 10 giugno scorso il generale di divisione Giuseppe Spinelli ha passato il comando al suo parigrado Antonio Angelelli. Al di là dei risultati positivi che sta raccogliendo la Ntm-I, resta in sospeso il dubbio se gli Usa facciano bene o meno a ritirarsi ora dall’Iraq. La deadline del 31 agosto nasce da un accordo preso tra il premier iracheno, Nouri al-Maliki, e l’allora presidente Usa, George Bush, nel momento in cui la surge del generale Petraeus aveva fatto auspicare la pacificazione del Paese in tempi brevi. Entrato alla Casa Bianca, all’inizio del 2009, Obama non ha voluto cambiare la decisione presa dal suo predecessore. Da almeno due anni, negli States il
camminare con le proprie gambe. Della stessa opinione sono i rifugiati iracheni all’estero che abbiamo sentito: testimoni di uno scenario nazionale critico sotto ogni punto di vista. All’inizio di marzo di quest’anno, l’Iraq è stato chiamato a rinnovare i 275 membri del Consiglio dei Rappresentanti. Per la seconda volta dalla caduta del regime di Saddam Hussein, l’Iraq ha celebrato le sue elezioni in modo libero e democratico. Tuttavia, la campagna elettorale, i giorni del voto e le settimane successive sono stati caratterizzati da un sensibile incremento di attentati. I gruppi armati di confessione sunnita, ancora vicini ad al-Qaeda, hanno cercato di boicottare l’espressione della popolazione irachena. Contestualmente i risultati emersi dalle urne non sono apparsi del tutto trasparenti. La Corte suprema di Baghdad ha quindi provveduto al riconteggio delle schede. Ne è emerso che molti dei candidati non avrebbero potuto essere nemmeno iscritti alle liste elettorali in quanto ex membri del Partito Baath, quindi “complici” di Saddam. Infine, dalla corsa al voto è risultato un al-Maliki
vincitore di pochissime lunghezze sul suo diretto sfidante, Iyad Allawi, sunnita ed ex primo ministro. Le immediate conseguenze di questo caos elettorale sono state da un parte l’ostinazione del premier uscente a non lasciare il potere, dall’altra il tentativo dei suoi concorrenti, compresi gli altri movimenti sciiti dello Scii e di Mutada al-Sard, di creare un governo di unità nazionale, con a capo lo stesso al-Maliki. Quest’ultimo però non ha accettato il compromesso.
A metà luglio, con straordinario ritardo, si è insediato il nuovo parlamento. A questo spetterebbe la nomina delle massime autorità dello Stato: lo speaker della stessa assemblea, l’intero esecutivo e il Presidente della Repubblica. Cariche, queste, che dovrebbero rispecchiare la distribuzione etnico-religiosa del Paese, sull’esempio di quanto avviene in Libano. Il primo incarico dovrebbe essere ricoperto da un sunnita, il secondo da uno sciita, il terzo da un kurdo. Dal Risiko delle nomine verrebbero lasciati fuori le minoranze degli yazidi e le congregazioni cristiane (armeni, assiri, caldei, gregoriani siriaci, eccetera), che comunque sono elementi storici del composito panorama sociale nazio-
Il generale statunitense Raymond T. Odierno. Nella pagina a fianco, monsignor Jean Benjamin Sleiman, arcivescovo latino di Baghdad
nale. Tutto questo non è avvenuto. L’Assemblea nazionale infatti, una volta aperta la seduta, ha aggiornato i lavori sine die. Oggi quindi l’Iraq è governato da un establishment il cui mandato elettorale è scaduto con il voto del 7 marzo. Dal punto di vista economico, il
Attentato kamikaze: almeno 60 morti BAGHDAD. Sono almeno 60 le vittime accertate (oltre ai 125 feriti) causati da un attentato kamikaze che ieri mattina ha colpito il centro addestramento delle reclute dell’esercito iracheno nel centro di Baghdad. La maggior parte delle vittime sono reclute, ma secondo fonti della polizia vi sarebbero anche soldati che erano di guardia davanti all’edificio. Le fonti ospedaliere hanno confermato il bilancio delle vittime. In base alla testimonianza di alcune reclute, oltre al kamikaze sarebbe en-
trata in azione un’autobomba. Questo spiegherebbe l’alto numero di vittime dell’esplosione davanti all’ex sede del ministero della Giustizia iracheno, che ospita l’11esima divisione dell’esercito. Qui, ogni settimana, arrivano circa 250 reclute per rafforzare il sistema di sicurezza nazionale anche in vista dell’annunciato ritiro di 50mila soldati americani previsto per la fine del mese. Ieri, insomma, come hanno confermato anche fonti militari, nella struttura vi erano almeno un migliaio di reclute.
Paese ha chiuso il 2009 con una crescita produttiva poco superiore al 4%. Un dato positivo, in termini assoluti, ma non in confronto con il +9,5% del 2008. Anche l’Iraq subisce i rallentamenti dovuti alla crisi globale. D’altra parte, solo il settore degli idrocarburi può dirsi virtuoso a tutti gli effetti. Mentre il Kurdistan resta l’unica provincia che, grazie alla sua autonomia, vanta una completa solidità economica.
In termini generali, dei 30 milioni di cittadini iracheni, circa un quarto vive al di sotto della soglia di povertà. Le stime più recenti indicano un’inflazione al 15%. All’inizio dell’anno il Business Intelligence Middle East, osservatore delle fluttuazioni economiche nella regione di base ad Abu Dhabi, ha pubblicato un sondaggio dal quale emergeva che il 36% degli iracheni intervistati considerava l’arretratezza economica del Paese prioritaria rispetto alle condizioni di sicurezza. In dettaglio, il 21% vedeva nella mancanza di lavoro come il primo problema che il nuovo governo avrebbe dovuto affrontare. È stato calcolato inoltre che
mondo
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Parla monsignor Sleiman: «La priorità è evitare la guerra civile»
«La normalizzazione è un problema politico» L’arcivescovo della Capitale: «Speriamo in un futuro di libertà e diritti, senza alcuna differenza religiosa» a normalizzazione dell’Iraq è un problema politico, soprattutto a livello internazionale, e come tale va trattato». Monsignor Jean Benjamin Sleiman, arcivescovo latino di Baghdad, ha una visione del ruolo che spetta alla Chiesa differente da quella di altri esponenti del clero in Medio Oriente. Qui spesso il pulpito di una basilica è adottato come proscenio per un’intensa attività politica. È così in Libano e presso le comunità cristiano-palestinesi. Sleiman, alla guida della diocesi di Baghdad, preferisce mantenere le distanze dai problemi di amministrazione del Paese. «C’è una classe politica eletta. È giusto che se ne occupi lei». La sua missione è di portare conforto ai pochi cristiani cattolici che abitano a Baghdad e nel resto dell’Iraq. L’arcivescovo Sleiman, nato a Jbaïl (Libano) nel 1946, è di origine maronita. Indossato il saio dei carmelitani scalzi, si è trasferito in Iraq dieci anni fa. La sua diocesi è stata creata nel 1632. Nel 1848 viene elevata ad arcivescovado. Oggi i cristiani di questo Paese stanno attraversando la fase più drammatica della loro storia. Dopo aver vissuto una condizione di isolamento sotto il regime di Saddam Hussein, pagano lo scotto di essere una minoranza in un contesto di conflitto religioso. Monsignore, come valuta la situazione odierna del Paese? Le elezioni si sono tenute ormai cinque mesi fa, il Parlamento si è riunito solo per rimandare i lavori a data da destinarsi e non è stato ancora capace di formare un nuovo governo. È un quadro preoccupante, non crede? Il vuoto politico venutosi a creare in questi lunghi mesi è effettivamente molto pericoloso. Peraltro l’auspicata intesa fra le parti sembra non essere per nulla vicina. L’assenza delle istituzioni è stata colmata con una nuova ondata di violenza. L’Iraq sta cadendo nell’incubo di quattro anni fa, questo perché le strutture politiche del Paese si sono rivelate altamente inefficienti. Corruzione, rivalità tribali e religiose, mancanza di coordinamento fra le autorità locali e quelle della Capitale. I mali dell’Iraq odierno sono ormai ben conosciuti. È triste constatare che siano sempre gli stessi. Lei fa riferimento alla situazione del 2006, l’anno di maggiore intensità del conflitto. Teme una seconda esplosione della guerra civile?
«L
nel 1990, prima delle due guerre del Golfo e delle sanzioni Onu inflitte al regime, il reddito pro capite iracheno era in media di 3.500 dollari. Oggi, dopo un lungo tracollo, il dato è tornato lo stesso di allora.Tuttavia il valore reale di 3.500 dollari attuali non è pari a quello di vent’anni fa.
Il Paese è caduto in un circolo vizioso. Più ristagna l’econo-
ciato a lamentare l’insolvenza dei propri stipendi. Oggi si pensa che solo il 4% dei Figli dell’Iraq sia ancora alle dipendenze delle autorità nazionali. Che fine ha fatto il resto? È assai probabile che le tribù sunnite un tempo qaediste, che poi si erano dissociate dal terrorismo, siano tornate a contrapporsi al governo. Nonostante tutto questo, gli Usa non hanno cambiato idea e il 31 agosto lasceranno l’Iraq.
A marzo l’Iraq è stato chiamato a rinnovare i 275 membri del Consiglio dei Rappresentanti. Ma la campagna elettorale è stata caratterizzata dagli attentati dei gruppi vicini ad al-Qaeda mica e più i disoccupati sono esposti al rischio di essere reclutati come mujaheddin e terroristi. All’inizio di questo mese, l’Institute for the study of war, think tank indipendente di Washington, ha ricordato come l’esempio dei Figli dell’Iraq (Sons of Iraq, Soi) fosse stato un elemento importante per la ritrovata sicurezza del Paese, oltre che per la sua ripresa economica. Nel 2008, il reclutamento dei Soi, ex combattenti sunniti vicini ad al-Qaeda in Mesopotamia, rientrava nella surge. Si trattava di un contingente nazionale composto da circa 100mila uomini, pagati e addestrati dagli Usa. Ognuno riceveva circa 300 dollari al mese. Non tanto, ma abbastanza per togliere “forza lavoro”al terrorismo. Il Pentagono si era comprato i mujaheddin. Tuttavia, nel momento in cui la responsabilità del pagamento dei Soi è passata nelle mani di Baghdad, i miliziani hanno comin-
All’irremovibilità di Obama hanno fatto seguito le dichiarazioni del generale Barbero. «Il ministero della difesa iracheno ha stilato un budget per il 2011 pari a 500 milioni di dollari», ha detto. «Non c’è forza armata al mondo così in crescita come quella irachena». Effettivamente con i suoi 660mila uomini, fra poliziotti e militari, l’Iraq non ha eguali nel settore. Si tratta di un uomo in uniforme ogni cinquanta abitanti.
In India, dove la sicurezza è nelle mani di 3,7 milioni di unità, il rapporto è 1 a 297. Evidentemente il Pentagono crede che, con queste risorse, Baghdad sia autosufficiente nel gestire le proprie criticità. Se poi a questo si associa, in ambito civile, il 65% circa di affluenza alle urne alle elezioni di marzo, si arriva alla sbrigativa conclusione che il Paese abbia inforcato la strada della democrazia e della pacificazione. Ne siamo sicuri?
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Il rischio esiste. La struttura sociale è talmente frammentata in clan, mafie locali, gruppi armati che si presta ai conflitti interni. Come altrettanto può essere strumentalizzata da soggetti stranieri interessati a mantenere instabile questa vasta area del Medio Oriente. Bisogna dire però che la popolazione è esausta e non desidera altro che pace, stabilità e ordine. Pensa che gli Usa facciano bene a ritirarsi ora? È una domanda da fare ai politici, non a noi che siamo vittime della loro inattività. Quello che risulta evidente è che il Paese non ha raggiunto quel benessere sociale ed economico che si sperava. È deludente costatare che le grandi promesse di qualche anno fa adesso si stiano rivelando come sogni. Non bastano due turni di elezioni per stabilire la democrazia in una cultura dove il gruppo è più importante della persona e dove l’identità nazionale resta segmentata in tribù e clan. Le istituzioni statali e governative rifondate necessitano di molta volontà politica e di tempo per trovare autonomia, efficienza, ma soprattutto peso rispetto alle istante localistiche. È precoce parlare di vera pace se gli atti di violenza diminuiscono ma non spariscono. Chi prevede che sarà il prossimo Primo ministro iracheno? Questa è una domanda che ogni iracheno si sta ponendo da quasi sei mesi. Tutto questo incide negativamente sulla condizione dei cristiani. Cosa possono fare per contenere i pericoli e partecipare alla ricostruzione del Paese? La violenza incide sulla condizione di tutti gli iracheni, non solo sulla nostra comunità. Purtroppo le conseguenze sui cristiani, così fragili nell’Iraq di oggi, sono drammatiche. L’emigrazione sembra ai più l’unica soluzione possibile. In realtà, sarebbe più utile integrarsi e prendere iniziative nel campo del sociale, dell’educazione e della cultura per collaborare alla ricostruzione. Quello che dobbiamo evitare è una ricaduta nello status di dhimmi (i cittadini dell’Impero ottomano non musulmani, soggetti comunque alla legge islamica, ndr). La shari’a ispirava solo in parte il regime di Saddam. Abbastanza però da farci vivere in condizioni di minoranza dimenticata. Noi speriamo che l’Iraq del domani sia sufficientemente democratico da garantire libertà e uguali diritti a tutta la popolazione, senza alcuna differenza religiosa. (a.p.)
L’assenza delle istituzioni è stata colmata con una nuova ondata di violenza. Torna l’incubo di 4 anni fa: corruzione, rivalità tribali, mancanza di coordinamento fra le autorità locali
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Caucaso. Il governo di Tblisi vuole fare controinformazione nell’area russofona TBILISI. Pervyj Kavkazskij significa letteralmente Primo Caucasico. Così si chiama il canale satellitare in lingua russa, finanziato dal governo georgiano dedicato agli abitanti di tutto il Caucaso, ma non solo. Secondo un recente annuncio, infatti, nei prossimi mesi riprenderanno a tutti gli effetti le trasmissioni del canale PK, ormai interrotte dal mese di maggio. L’obiettivo della rete non è comunque cambiato: fare informazione su quello che succede in Georgia e nel Caucaso non solo per chi abita nella regione, ma anche per tutti i Paesi dove ci sono persone che parlano russo. La convinzione della necessità di un canale in lingua russa indirizzato al pubblico straniero aveva preso definitivamente forma dopo il conflitto russo-georgiano del 2008. Tbilisi non aveva avuto particolari problemi con l’opinione pubblica occidentale: i grandi media internazionali presentavano infatti anche il punto di vista georgiano, che in un modo o nell’altro aveva raggiunto il pubblico sia europeo che americano. Le cose erano andate molto diversamente nello spazio post-sovietico che, con l’eccezione dei Paesi baltici, è dominato dai canali russi. Le regioni russofone hanno grande importanza per la Georgia, si tratti di Ucraina e Bielorussia, Asia Centrale o Caucaso meridionale. E a Baku e Yerevan, a raccontare ciò che si svolgeva in Georgia erano i canali russi Ntv e Ort. Inizialmente si era pensato semplicemente di estendere il segnale e portare sul satellite il preesistente canale Alanija (attualmente Region Tv). Invece, su indicazione della dirigenza della radiotelevisione nazionale, si era poi deciso di creare una nuova rete che sarebbe diventata il terzo canale (dopo i due georgiani) dell’azienda televisiva statale. Indubbiamente l’obiettivo di questa operazione era una forma morbida, ma non per questo meno cristallina, di contro-propaganda (nonostante la direzione del nuovo canale abbia preso una netta posizione contro lo stesso termine “propaganda”). Così testimoniavano anche i programmi condotti da oppositori del potere russo, come il giornalista Oleg Panfilov e la moglie dell’ex-presidente ceceno Alla Dudaeva. In realtà, i programmi di entrambi erano di carattere umanitario-culturale e del tutto apolitici. Tuttavia, la loro stessa apparizione sugli schermi ha suscitato l’irritazione dei deputati della Duma. Le spiegazioni da parte georgiana non hanno pro-
La Georgia sfida il Cremlino in tv Il canale volerà sul satellite grazie anche all’intervento degli inglesi di Tengiz Ablotia
La Gazprom media ha fatto pressioni su Eutelsat per far chiudere il canale georgiano, in cambio di un contratto molto più conveniente dotto alcun effetto: anzi, in Russia si è rafforzata l’idea che PK sia un canale anti-russo, interamente dedicato a sabotare la pace inter-etnica e religiosa nel Caucaso del nord. Dopo l’avvio di Pervyj Kavkazskij il 4 gennaio, a partire dal 15 del mese erano iniziate anche le trasmissioni di prova sul satellite francese Eutelsat. Ma la prova non è durata molto: alla fine di gennaio, la direzione di Eutelsat ha deciso di chiudere PK che, assicurano i francesi, non aveva ancora firmato l’accordo per le trasmissioni permanenti. Motivazioni formali a parte, non vi è dubbio che sia stata la pressione esercitata dalla holding russa Gazprom Media a convincere la piattaforma europea a chiudere il canale
georgiano in cambio di un contratto molto più conveniente. Per la rete georgiana, la diffusione del segnale su Eutelsat aveva un significato fondamentale: poiché i canali russi trasmettono sullo stesso satellite, gli spettatori di lingua russa avrebbero trovato il segnale di PK senza alcuna difficoltà e senza bisogno di reimpostare l’antenna. Inoltre, le tariffe offerte da Eutelsat erano più convenienti rispetto a quelle offerte da altri operatori satellitari.
La contesa giuridica fra la radio-televisione georgiana e Eutelsat si è conclusa il 12 luglio a Parigi, con la vittoria della compagnia francese. Di conseguenza, ora la rete georgiana sta cercando un nuovo
satellite che, a parità di condizioni tecniche, sarà comunque più costoso. Inoltre, a PK sono sorti seri problemi organizzativi e di palinsesto: dopo il successo iniziale, la programmazione è diventata sempre meno convincente, soprattutto perché in Georgia la tradizione giornalistica in lingua russa è praticamente sparita e il management soffre di un grave deficit di quadri qualificati. In conclusione, a maggio si è deciso di sospendere le trasmissioni fino all’insediamento di una nuova direzione. Formalmente la rete continua a
lavorare con un piccolo gruppo che realizza montaggi d’informazione sul web, ma senza un vero pubblico.Al momento, la rete si trova in una fase di risoluzione di problemi tecnici e organizzativi. La direzione è passata in mano alla privata K1, fondata dall’attuale direttore generale, il giornalista britannico Robert Parsons. Fra i dirigenti ci sono altri due inglesi e un emigrato georgiano con cittadinanza britannica che ha lavorato 18 anni alla Bbc.Tutto fa sembrare che la direzione britannica abbia preferito che la gestione del canale georgiano fosse in mano a una compagnia privata per ottenere la massima indipendenza dall’azienda televisiva statale: agli inglesi, infatti, poco è piaciuta l’antica abitudine dei dirigenti televisivi georgiani di immischiarsi nell’attività redazionale. Ad oggi, l’iniziativa rientra ancora ufficialmente all’interno delle strutture della televisione pubblica, che però nei fatti non ha voce in capitolo.
Fino a questo momento, il governo georgiano ha stanziato circa 4 milioni di dollari per il canale. I lavori di preparazione dovrebbero cominciare entro settembre, ma le trasmissioni vere e proprie, anche sul nuovo satellite, andranno probabilmente in onda verso fine anno. Il problema principale della rete è la sostenibilità economica nel momento in cui, prima o poi, finiranno i 4 milioni già stanziati. Già ora l’opposizione e le ong protestano contro questi investimenti in un canale che, secondo loro, non è indispensabile. Con un deficit pari al 12 per cento del pil, non è un’obiezione irragionevole. Il secondo problema è la mancanza di quadri qualificati di lingua russa, lacuna che certo non sarà colmata dal management inglese. Le spese per PK saranno giustificate solo se il canale godrà di popolarità presso il pubblico a cui è destinato: gli abitanti del Caucaso del nord, delle altre regioni della Russia, dei Paesi della Comunità Stati Indipendenti e la popolazione russofona in Europa e America. Tutti questi sono problemi che emergeranno senza dubbio più avanti. Ciò che è chiaro, per il momento, è che il canale andrà in onda non appena saranno risolte una serie di questioni tecniche e amministrative, a partire da sede, studi, attrezzature e giornalisti.
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Oggi, intervista su Vanity Fair del governatore di Helmand
Il ministro Kouchner ha attivato tutti i dispositivi di sicurezza
Il fratello di Karzai ammette i suoi rapporti con Cia
Francia: allarme per le minacce di al Qaeda nel Maghreb
NEW YORK. Il fratello del presidente afghano Ahmid Karzai, governatore di Kandahar, in un’intervista esclusiva a Vanity Fair, in edicola oggi, ammette di collaborare con la Cia. «Io aiuto loro, loro aiutano me. Stiamo dalla stessa parte», afferma Ahmed Wali Karzai, accusato da stampa e diplomatici occidentali di avere legami con narcotrafficanti locali. E finito sugli altari dei media già diverse volte per i suoi poco trasparenti rapporti con i signori dell’oppio. Il primo a scriverne fu il giornalista James Risen del New York Times.
PARIGI. Il ministero degli Este-
Ahmed Wali Karzai, fratello minore del presidente, è convinto che quando le forze della Nato lasceranno l’Afghanistan «le cose si metteranno male, molto male. Sarebbe un disastro» perché la guerra «non è finita» e «Al Qaida è ancora lì». Il tempo starebbe finendo per il parente del presidente afghano che governa una delle province più calde del Paese. Ma sembra che sia più una difesa dei propri interessi che la preoccupazione per il futuro della nazione. Alcuni alleati, come gli olandesi, e anche, alla fine dell’anno prossimo i canadesi, hanno già deciso di lasciare il Paese. E se se ne va la Nato? «Le cose si metterebbero male, molto male. Sarebbe un disastro. Non è finita. Al Qaeda è ancora lì». Secondo il governatore di Helmand – che è scampato a numerosi attentati organizzati dai talebani – se le truppe internazionali se ne andranno, «saranno costrette a tornare... l’intera regione andrebbe ai talebani. Per il mondo, e per noi, sarebbe un disastro... Abbiamo bisogno che almeno un certo numero di soldati resti a darci una mano. Così l’abbiamo vinta la guerra, nel 2001» ha concluso il governatore.
Obama sempre più solo per la moschea Anche i democratici abbandonano il presidente Usa di Massimo Ciullo
NEW YORK. La querelle sulla moschea a Ground Zero rischia di assestare un colpo mortale alla popolarità, già in forte calo, del presidente statunitense Barack Obama. L’inquilino della Casa Bianca si è ritrovato tra l’incudine della difesa della libertà religiosa, diritto fondamentale sancito dalla Costituzione Usa, ed il martello delle critiche dell’opposizione repubblicana che sta cavalcando l’ondata di sdegno popolare che ha contagiato ampi settori della società americana. Qualcuno grida allo scandalo e si indigna per la mancanza di sensibilità verso i parenti delle vittime degli attentati. A ritenere inopportuna la costruzione non sono soli i membri della destra reazionaria, ma anche intellettuali liberal e lo stesso governatore democratico dello Stato di New York, David Paterson. Come se non bastasse, infatti, anche all’interno dei democratici – il partito di Obama – le voci di dissenso iniziano a diventare sempre più numerose ed autorevoli. Lunedì, una netta posizione contraria al centro islamico è stata espressa anche dal senatore Harry Reid, leader al Senato dei democratici. Secondo il senatore del Nevada, più alto esponente dell’amministrazione Obama ad essersi finora espresso sulla vicenda, l’edificio religioso non dovrebbe essere costruiti nelle vicinanze del sito degli attacchi terroristici alle Twin Towers. Andando in controtendenza rispetto a quello che lo stesso Barack Obama aveva affermato. Il presidente, venerdì, si era detto favorevole alla costruzione della moschea, in virtù della libertà di culto negli Usa. Reid ha dichiarato, in una nota, che il Primo emendamento della Costituzione tutela la libertà di religione ma, pur nel rispetto della legge, l’edificio dovrebbe essere costruito altrove. «Come ha affermato il presidente, venerdì notte, egli rispetta gli Americani di ogni tendenza politica che sulla questione hanno un’opinione differente» ha replicato il portavoce della Casa Bianca, Bill Burton, commentando la posizione di Reid. «Questa è una dimostrazione della forza del nostro Paese e del
Partito democratico», ha aggiunto Burton, cercando di far rientrare la polemica nell’alveo della normale dialettica politica. In realtà, il confronto sulla moschea a Ground Zero sta infiammando la campagna elettorale di metà mandato, con Reid, considerato un big dei democrat, alle prese con Sharron Angle, una combattiva outsider repubblicana.
Il portavoce della candidata conservatrice ha spiegato che la posizione della Angle è molto chiara e netta: i musulmani hanno il diritto di costruire ovunque i loro luoghi di culto, ma il placet di Obama alla moschea a Ground Zero «non tiene conto dei sentimenti del popolo americano» più incline a tutelare il ricordo delle vittime degli attentati terroristici di matrice islamica che all’ossequio, a tutti i costi, della libertà religiosa. Venerdì scorso, partecipando al pranzo annuale alla Casa Bianca che celebra l’inizio del mese sacro islamico del Ramadan, Obama aveva cercato di spiegare i motivi del suo consenso alla costruzione della moschea: «come cittadino, e come presidente, credo che i musulmani abbiano lo stesso diritto di praticare la loro religione come qualsiasi altra persona in questo Paese». «Ciò comprende anche il diritto di costruire un luogo di culto e un centro comunitario su una proprietà privata a Manhattan, in conformità alle leggi e alle ordinanze locali», aveva ribadito il presidente. Sulla stessa lunghezza d’onda di Obama, il sindaco di New York, Michael Bloomberg, indipendente che ha abbandonato il partito repubblicano nel 2007. Anche le gerarchie cattoliche statunitensi sono favorevoli alla costruzione della moschea. Il cardinale Sean O’Malley, frate cappuccino e arcivescovo di Boston, ha confermato il sostegno della Chiesa cattolica alla costruzione del luogo di culto islamico. «Una moschea vicino al sito dell’attacco può essere un simbolo molto importante del valore che diamo alla libertà religiosa in questo Paese» ha affermato l’arcivescovo.
La repubblicana Sharron Angle: «Il placet di Obama non tiene conto dei sentimenti del popolo americano»
ri francese ha confermato la «mobilitazione totale» del dispositivo di sicurezza francese dopo le rinnovate minacce da parte di al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi). Nel timore di azioni violente e attentati, il Quai d’Orsay ha invitato turisti e residenti francesi nei Paesi del Nord africa alla massima prudenza: la sezione «Consigli ai viaggiatori» del sito internet del ministero degli Esteri transalpino è aggiornato in tempo reale per fornire ai cittadini francesi «informazioni affidabili e complete». Quando, a fine luglio, il capo della diplomazia francese Bernard Kouchner si era recato in Mauritania, Mali e Niger «si era assicurato presso le massime autorità locali, oltre che con gli ambasciatori e i nostri compatrioti sul posto, della massima mobilitazione del nostro dispositivo di sicurezza», ha spiegato il protavoce del Quai d’Orsay, Bernard Valero, confermanto la massima attenzione di questi giorni.
«Si tratta di minacce proferite da assassini», ha ricordato il portavoce. Uno dei dirigenti di al Qaeda nel Maghreb, Abu Anas al-Chanqiti, aveva lanciato delle provocazioni sui forum islamici, invitando le tribù cui appartenevano i militanti di Aqmi uccisi nel corso di un raid delle forze armate franco-mauritane il 22 luglio scorso a «condurre rappresaglie contro i traditori apostati, i figli e gli agenti della Francia cristiana». Ricordiamo che nella lingua araba l’Occidente è identicato con il popolo dei franchi.«Al nemico di Dio, Sarkozy, dico: avete perso la vostra opportunità e aperto la porta a guai nel vostro Paese», aveva concluso il leader islamico. Nel corso di un raid contro una base di al Qaeda nel Mali, per liberare l’ostaggio francese Michel Germaneau, erano stati uccisi sei militanti islamici. il cittadino francese venne poi ucciso per vendicare la loro morte.
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Letture. Si può partire per un tour come per un sogno: ma spesso le parole aiutano a scoprire i luoghi. Così la pensano Dino Dibona e Gabriele Mazzoleni
Le vacanze da leggere Leggende di mare e leggende di montagna: due libri ci guidano nei meandri della «filosofia del viaggiatore» di Dianora Citi gosto, “sol leone”, tempo di vacanze, tempo di riposo, dicono (e sperano) i più. Sì, ma … cosa intendono per riposo? Sintetizziamo con due tipologie di vacanzieri: tra gli uni, c’è chi, pur distratto o frettoloso, riesce a infilare nella valigia uno o due libri e, costi quel che costi, sa che si fermerà ovunque, sulla spiaggia o sotto un albero, a leggere, centellinandosi uno scritto di Camilleri piuttosto che di Lucarelli. Per fortuna la scelta è ben più ampia: sugli scaffali ci sono fior fiore di autori, anche a torto considerati di second’ordine, che meritano l’applicazione (e sarebbe corretto non solo estiva) nella lettura da parte della nostra mente. Questi sono gli amanti del riposo “stanziale”. Poi ci sono gli altri, gli agitati, gli attivi, i dinamici, gli energici, come possiamo ancora definirli?, quelli in perenne movimento, che si riposano “lavorando” di più. Cercando di individuare i facenti parte di quest’ultima categoria, possiamo dire di ritrovarli, ormai più o meno equamente divisi, o tra le montagne o nell’acqua. I campagnoli, una minoranza, o sotto l’albero a leggere o nell’acqua delle piscine. Dunque rientranti nelle già dette classificazioni. Insomma: dalle vette alpine alle profondità marine.
A
Montagna. Per gli amanti delle vette, dell’aria fina e del fresco estivo, Dino Dibona, nato e vissuto a Cortina d’Ampez-
zo (la perla delle Dolomiti!), profondo conoscitore della montagna, laureato in scienze forestali, ha scritto una bellissima Guida insolita ai misteri, ai segreti, alle leggende e alle curiosità delle Dolomiti (Newton Compton Editore, pp. 345, 12,90 euro). Ritornare in tutti i luoghi da lui descritti o ripercorrere tutte le valli individuate nel volume richiederebbe non un’estate ma tutte le estati della nostra vita. Pur avendo già pubblicato con lo stesso editore altri volumi dedicati alle Dolomiti, in questo saggio Dibona mette il cuore della loro storia, della loro unicità. Innanzitutto
L’Unesco ha dichiarato le Dolomiti patrimonio dell’umanità, mentre il nostro governo le «vende» per pochi euro la loro particolare colorazione: brillano come cristalli alla luce del sole, splendono di un biancore diafano sotto i raggi della luna e al tramonto «quando i monti assumono i magici colori dell’enrosadira si tingono di un colore così vivo e intenso da sembrare un immenso giardino di rose». Il fenomeno, osservabile in particolar modo sul alcune cime, come il Catinaccio o la Croda Rossa di Sesto e quella d’Ampezzo, è associato ad una antica leggenda creata dalla fantasia dei montanari, che hanno così tentato di spiegare il “miracolo”. L’articolata leggenda narra del bel Laurìn, re di
un popolo di pacifici e laboriosi nani, che abitava su una montagna completamente coperta da roseti. Innamoratosi di Tarina, bellissima figlia del saggio e prudente re Leander, la chiede in moglie, suscitando l’invidia di Vitege, cavaliere ambizioso e malvagio, che pure la voleva. Laurìn rapisce con la violenza Tarina, ma si fa poi perdonare sia dal re Leander che da Tarina stessa; essa riconosce di essere stata trattata bene nel regno delle rose e chiede al saggio padre di graziare Laurìn, di lasciarla vivere con il generoso e amabile re dei nani, che ha dimostrato grande forza e coraggio. Ma Vitege non accetta l’accordo: con l’inganno strappa la magica cintura e il magico mantello al re nano e lo fa prigioniero rinchiudendolo nelle prigioni di un lontano castello. «Dopo molti mesi il re dei nani riesce a liberarsi».Tornato nel suo regno ormai distrutto, dà la colpa delle sue disgrazie e delle ingiustizie subìte al giardino delle rose e alla sua grande bellezza: questo ha richiamato l’invidia dei malvagi che hanno distrutto la sua vita. Laurìn decide di eliminare il suo giardino e lancia un incantesimo. «O giardino bello e profumato, tu diventerai di duro macigno e le tue rose non si vedranno più, né di giorno né di notte». E così fu.
All’istante apparve la roccia nuda di montagne dalle guglie aguzze. Laurìn aveva dimenticato il tramonto: in quel momento non è né giorno né notte. Da quella volta, proprio nel momento del tramonto e solo allora, la montagna si illumina di rosso come se le rose del giardino di re Laurìn fossero ancora al loro posto. Le leggende fanno sognare mondi di nani e incantesimi, ma la scienza
Mare e montagna tra fari e scogli, rocce e laghi alpini: la vacanza talvolta si trasforma in un’occasione per scoprire qualcosa di sé attraverso il confronto con la natura. L’importante è volerlo fare
geologica ci riporta alle rocce dolomitiche, al signor Déodat Tancrède Gratet de Dolomieu, membro dell’Institut de France, che nel 1789 studiò e scoprì i contenuti chimici di «une pierre calcaire», più precisamente un «carbonato doppio di calcio e magnesio», cui dette il nome. La storia geologica, l’esame delle forme del paesaggio dolomitico e la storia della loro formazione preistorica, i primi abitanti impiantatisi nel II secolo a.C., la cristianizzazione, la fauna e la flora, compongono la parte introduttiva comune a tutte le valli ai piedi delle montagne. Il libro, poi, per ognuna delle dieci valli (esaminate una dopo l’altra partendo geograficamente dalla Val Badia e seguendo un senso antiorario, «facendo “perno” sul Gruppo del Sella che funge, quindi, da centro del quadrante», come spiega Dibona in una utile nota al testo) fornisce una più che esauriente serie di notizie sulle montagne che la circondano (in tutto sono descritte ben 231 tra cime, guglie, becchi, crode, sassi, punte, piz), sulla storia locale (etimologie comprese), su personaggi noti e meno noti, sui comuni con la loro storia e gli abitanti (sapevate che chi abita a Vigo di Fassa è un viga-
no?). Alla fine di ogni capitolo le curiosità: modi di dire, proverbi, superstizioni locali, folclore religioso e gastronomico, alberi e animali particolari, fiori e piante medicinali presenti, per terminare con le immancabili leggende. Certo Dibona, quando ha scritto, non poteva pensare che le sue montagne potevano essere in pericolo. In vero sul sito dell’Unesco recante la lista dei luoghi considerati “patrimonio dell’umanità” e definiti “in pericolo” sono elencati 34 nomi di altrettante località del mondo: tra Colombia, Costa d’Avorio, Iran, Iraq, Serbia, Senegal e molte altre, l’Italia non appare. Cioè, per l’Unesco, in Italia, nessuno dei suoi 44 luoghi dichiarati patrimonio naturale dell’umanità è in pericolo. Ottimo. Se lo dicono quelli dell’Unesco, vuol dire che i nostri allarmismi di questi giorni per le Dolomiti sono fuori luogo. Le nostre montagne “rosa” erano state dichiarate patrimonio naturale dell’Umanità il 27 giugno 2009. Nella lunghissima motivazione (vedi sul sito http://whc.unesco.org/en/list/1237) sono definite come uno dei paesaggi montani più belli del mondo e la loro intrinseca bellezza deriva dalla multiformità delle cime e dai colo-
cultura
18 agosto 2010 • pagina 23
vo? Meno dell’affitto di una bella barca per 6 persone con equipaggio per una settimana d’agosto? No, meno male che l’Agenzia ha pubblicato il codicillo! Ma come faranno a vendere quelle Dolomiti che stanno a metà tra il Veneto e l’Alto Adige (che non ha diritto a niente, essendo regione a statuto speciale)?.
Mare. Lasciando perdere i siti marini in vendita (e ce ne sono diversi, in effetti), riflettiamo invece sulla proposta “estiva”di Gabriele Mazzoleni (Mollo tutto e vado via. «Come organizzare un anno sabbatico in barca a vela», Mursia editore, pp. 284, 17 euro). Non è uno scher-
Andare per mare non è più un modo per scoprire luoghi sconosciuti: spesso è un bel trucco per ritrovare se stessi
ri delle rocce, nonché dalla particolarità della geomorfologia dovuta al tipo di formazione e di erosione. «La catena montuosa delle Dolomiti […] conta 18 cime oltre i 3.000 metri. Ricopre una superficie di 141.903 ettari [più aree limitrofe per altri 90 mila ettari] e costituisce uno dei più bei paesaggi […] caratterizzato da muraglie verticali o falese scoscese e una serie notevole di valli lunghe e profonde. Il bene comprende 9 elementi rappresentativi della diversità di questi paesaggi spettacolari – picchi, pinnacoli e muraglie – che sono di importanza internazionale per la geomorfologia. Ci sono anche dei ghiacciai e dei sistemi carsici. […] Il bene presenta inoltre uno dei migliori esempi di sistemi di piattaforme carbonate del mesozoico preservate, con incluse cavità di fossili».
Dunque l’Unesco considera “il bene” unico e irripetibile. Cataloga nove “montagne”prototipo situate soprattutto in provincia di Belluno, Trento e parzialmente Bolzano (dunque Veneto e Alto Adige), più altre in provincia di Pordenone e
Udine (Friuli Venezia Giulia). I nomi, così a caso, non sono nomi “qualunque”: Marmolada, Dolomiti bellunesi, friulane e cadorine, Scilliar-Catinaccio, Dolomiti di Brenta. Una bella lista! E poi c’è il Pelmo e la Croda da Lago, al passo Giau, a Cortina. Ma questo è in vendita! Eh sì, l’Agenzia del Demanio il 27 giugno 2010 (che coincidenza, un anno dopo la “proclamazione” a patrimonio dell’umanità da parte di tutti i membri del consiglio mondiale dell’Unesco) ha avvertito i cittadini italiani: lo Stato ha deciso di disfarsi di 12 mila beni che potranno essere trasferiti agli enti locali in base al federalismo demaniale. C’è di tutto, dalle caserme alle strade, dalle scuole ai canali di scolo delle acque, dai poligoni di tiro alle montagne, appunto. Per il momento, avverte l’Agenzia, sono esclusi i beni di Roma (un trattamento speciale per il federalismo della capitale) e i beni delle regioni a statuto speciale. Con la pubblicazione gli enti locali si fanno un’idea del patrimonio di cui po-
tranno entrare in possesso e eventualmente vendere per migliorare i loro conti.
A fine anno la presidenza del Consiglio stilerà la lista definitiva. Comuni, provincie e regioni hanno 60 giorni per fare richiesta di acquisto del bene. In un piccolo codicillo da qualche parte si specifica che il valore per ora indicato è “inventariale”, cioè non aggiornato agli attuali valori di mercato. La reale valutazione sarà effettuata nel momento in cui il bene viene richiesto. Meno male! Questo codicillo, dico la verità, ha rilassato l’animo: come si poteva dire a Dino Dibona che una delle “sue” montagne, il Pelmo-Croda da Lago, al passo Giau, schedata dall’Unesco al numero 1237rev-001, coordinate N46 26 52 E12 06 49 , ha un valore di 13.274,50 euro? Meno di una Fiat 500 nuova? Meno di quanto spende una coppia per sposarsi, tra vestiti, pranzo, bomboniere e viaggio di nozze? Meno della tasse di iscrizione ad un buon circolo sporti-
zo. Gli strumenti per fare una autovalutazione realistica se in presenza di una boutade del genere (che sfido chiunque a negare di aver mai pensato, magari non con la barca a vela, ma genericamente un “mollo tutto”, sì!) siamo sognatori o meno, ci sono, e sono strumenti che costringono a meditare sulla differenza tra fuga e viaggio, tra mito e realtà, tra fascino dell’ignoto e concreto realismo. L’umano desiderio di concedersi una pausa (dalla vita quotidiana, non dalla suocera, dal coniuge o dal capufficio, naturalmente!!!) è esaminato dal punto di vista della fattibilità: questo nostro sogno o fantasia non è davvero alla nostra portata o giochiamo con degli alibi, ritenendoci indispensabili alla famiglia, insostituibili sul lavoro, non all’altezza economicamente?
Mazzoleni ci conduce per mano per arrivare alla soluzione: perché vuoi partire? chiede. Lo sai che devi tornare? Una partenza “definitiva” è altra cosa rispetto ad una legittima parentesi all’interno della normale vita lavorativa. «Non c’è nulla
di male a partire mossi da una débâcle professionale, da una delusione amorosa o altro: basta esserne consapevoli. Il problema [ricordatevi!] non si risolve, ma si ricaricano le batterie e al ritorno tutto apparirà sotto un’altra luce. […] Chi cerca risposte esistenziali definitive rischia di rimanere deluso». Altro avviso “ai naviganti”: scordatevi di trovare parti del mondo sconosciute. La globalizzazione c’è, è tangibile. Anche nell’atollo di Rangiroa alle Tuamotu nel Pacifico le ragazze vedono Beautiful alla tv, e «difficilmente si faranno una ragione del perché un occidentale si sia allontanato da un modello di vita al quale loro tendono costantemente». Dunque niente “comprensione” e “accoglienza”: nessuno è più un Dio che arriva dal mare accolto dagli indigeni con l’anello al naso. La successiva riflessione è sulle proprie potenzialità. Un buon marinaio sa fare tutto e da solo, cerca la perfezione e odia la superficialità, non ha fretta e affronta con lucidità e tenacia ogni imprevisto o avversità. È resistente fisicamente e psicologicamente, è modesto ma ha anche fiducia in se stesso, si sa adattare alla vita semplice e cura l’essenzialità. Questo il primo basilare capitolo. Gli altri sette compongono uno splendido manuale (scritto da chi alle domande precedenti ha sempre saputo rispondere positivamente) che permetterà a chiunque avesse mai voglia, davvero, di mollare tutto e partire in barca a vela, di farlo con grande cognizione di causa, sapendo consapevolmente con esattezza a quali splendori o meno andrà incontro, da solo o in compagnia della famiglia o degli amici. Durata del viaggio e destinazioni, compagnia o solitudine, scelta e preparazione della barca, norme di una navigazione sicura, lato burocratico ed economico, suggerimenti di siti informativi: questi gli elementi del testo fino al capitolo finale sul ritorno, narrato empiricamente con le storie di Massimo, Angiolo, Paolo e Francesca. A ciascuno il suo rientro alla propria casa.
ULTIMAPAGINA Reportage. Che cos’è rimasto della Sanremo del grande romanziere?
La Città dei fiori raccontata dal giardiniere di di Marco Ferrari
he cosa resta della Sanremo di Italo Calvino? A 25 anni dalla scomparsa dello scrittore, avvenuta il 19 settembre 1985 all’Ospedale di Siena a causa di un ictus che lo aveva colpito qualche giorno prima nella sua villa di Roccamare, ripercorrere i luoghi calviniani è come superare la soglia invisibile del nostro paesaggio perduto. In una regione dove sono colati tre milioni di metri cubi di cemento non vi è più traccia della Sanremo di Calvino come della Alassio di Ernest Hemingway, della Rapallo della Ortese e tra poco con vi sarà quasi più traccia della Bocca di Magra di Vittorini, Sereni, Mary Mc Carthy e Marguerite Duras.
C
La Sanremo elegante e cosmopolita di un tempo ha lasciato il posto a quella spendacciona e chiassosa dominata dal Casinò e dal Festival della Canzone. Eppure qualche minima traccia, a fatica, si può rintracciare. Per raggiungere l’ingresso di Villa Meridiana, dove vivevano i Calvino, da Via Volta si deve girare in Via Meridiana: al numero 82 si può intravedere quello che è rimasto del parco di acclimatazione di piante tropicali voluto da Mario Calvino e da Eva Mameli, genitori dello scrittore. La villa, oggi rosa, è irriconoscibile. Tra sospiri di vite e odori perduti, qui aleggiano fantasmi di riviera in un’oasi che non c’è più, un pizzico di Caraibi piantato nel cuore della città, ma soprattutto il pozzo della fantasia di un grande scrittore. A Villa Meridiana non si captano più i profumi sprigionati del mango e delle prugne, dalla malva e dalla boungavillea. I fiori parlavano, le piante respiravano, gli uccelli si riposavano, arcobaleni tropicali salivano improvvisamente tra le foglie. L’edera rimasta ha i colori stinti dallo smog e il terreno è sovrastato dall’asfalto.Tra i palazzi stentano a rimanere in vita una pianta di pepe, una di avocado drinifoglia, una araucaria excelsa e tre palme. Buonanotte Calvino, anche lui vittima consapevole della speculazione edilizia che descrisse in un mirabile racconto uscito nel 1957, prima che la culla della sua fantasia fosse venduta e poi ristrutturata. Unico testimone di quell’epoca è rimasto Libereso Guglielmi, 85 anni, figlio di un anarchico tolstoiano, esperantista, vegetariano, il giardiniere di Calvino: «Oltre il muro c’erano una pasticceria – racconta – e io lanciavo dall’altra parte dodici susine e ricevevo in cambio un pezzo di cioccolata». Il lavorante anarchico e ribelle («Il nuovo giardiniere era un ragazzo coi capelli lunghi e una crocetta di stoffa in testa per tenerli fermi» scrisse
Calvino) entrò nella Stazione sperimentale di floricoltura “Orazio Raimondo”di Sanremo all’età di 14 anni e nelle stesse ore entrò nella letteratura grazie a Italo Calvino che gli dedicò, allora diciassettenne, il suo primo racconto: «Un pomeriggio, Adamo».
A scovarlo era stato Mario Calvino, direttore della Stazione di floricoltura di Sanremo con la moglie Eva Mameli, la prima botanica italiana ad ottenere la libera docenza. «Un giorno – spiega Libereso – il professore passò davanti a casa e vide me e mio fratello che stavamo lavorando nell’orto. Allora chiese a mio padre se noi due volevamo far parte alla Stazione sperimentale come borsisti. Accettammo ed entrammo nel regno tropicale di Calvino
tropicale nel cuore di Sanremo, una festa di sapori in un’utopia quotidiana. Svoltando a sinistra, in Via Volta, si incontra Salita San Pietro: da poco più su, dal retro della Meridiana, comincia il percorso emotivo descritto dallo scrittore ne La strada di San Giovanni che, attraverso Via Borea,Via Dante Alighieri e la mulattiera, portava all’orto che il padre Mario coltivava con passione. L’Ospizio Giovanni Marsaglia e il Palais d’Agra sono ancora come ai
CALVINO Si chiama Libereso Guglielmi, ha 85 anni e per anni ha curato le piante della villa-vivaio sulla Riviera. Ora ha deciso di compilare un curioso almanacco culinario-floreale che mette a confronto sapori e profumi del passato con quelli del presente
che aveva lavorato in Messico, dove era stata chiamato da Porfirio Diaz e a Cuba, dove Italo era nato nel 1923, due anni prima di far rientro a Sanremo». Il suo vocabolario culinario-floreale, Libereso lo ha pubblicato nel libro Oltre il giardino: Le ricette di Libereso Guglielmi. (Socialmente editore di Bologna) dove apre lo scrigno di conoscenze botaniche e gastronomiche, traducendo la sua immensa sapienza agricola in ricette fantastiche e gustosissime. Dal suo infaticabile racconto attorno al mondo vegetale nasce così un universo che travalica la botanica e la gastronomia diventando, come il suo indimenticabile e irripetibile giardino
tempi di Calvino mentre dove c’era l’orto ora ci sono i piloni dell’autostrada.
In quella Liguria “a scale, tagliata a terrazze”, come la definiva lo scrittore, non ci sono più “sentieri dei nidi di ragno”. I piloni occultano la visione del mare, villette a schiera hanno sostituito i casolari, al posto delle creuse imperano cancelli, antenne paraboliche e statuine di nanetti in attesa di un liberatore. Verso San Giovanni, verso il rifugio della collina, verso la luce e gli angeli c’erano cedri e limoni, aranci e fichi. Ripassando di qui, il fantasma del Barone Rampante si è fatto mistral e ulula nella notte per sconfiggere i simboli della speculazione edilizia che, dopo Sanremo città, hanno raggiunto il presidio della poesia . «Ombrosa non c’è più, – ha scritto Calvino, a proposito dei luoghi del Barone Rampante, - guardando il cielo sgombro mi domando se davvero è esistita». Le stesse domande se le pone Libereso, ultimo testimone della toponomastica calviniana: «I boschi sono tutti bruciati, sulle colline non si vedono altro che rocce scheletriche». Nell’orto del Barone Rampante nessuno salta da un albero all’altro per raccogliere bacche, castagne e pigne come a Sanremo città nessuno sente più gli effluvi delle piante e gli aromi della riviera verdeggiante.