he di c a n o r c
00819
La storia del mondo
non è altro che la biografia di grandi uomini Thomas Carlyle
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 19 AGOSTO 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Dopo la commozione di ieri, questa mattina a Sassari si svolgeranno, in forma strettamente privata, i funerali di «Sir Francis»
Un grande uomo di Stato Con queste parole, Giorgio Napolitano ha interpretato il sentimento diffuso degli italiani, rendendo omaggio alla salma di Cossiga. Gente comune e politici in fila per l’ultimo saluto di Pierre Chiartano
Ritratto di un democristiano atipico
ROMA. Giorgio Napolitano è
Il discepolo di Thomas More, che salvò l’Italia dalla guerra civile di Rocco Buttiglione a prima volta lo ho incontrato insieme con don Giussani verso la metà degli anni Settanta. In quel periodo Comunione e liberazione era oggetto di una persecuzione feroce nelle università italiane. Credo che l’incontro sia stato mediato da Aldo Moro, che ci conosceva e ci voleva bene. Le Brigate Rosse cercavano un collegamento stabile con i gruppi violenti della extrasinistra universitaria e avevano trasformato l’Università in un santuario in cui vigeva la loro legge e non più quella dello Stato. Un cardine della loro politica era che ai giovani cattolici dovesse essere negata la “agibilità politica”, il diritto ad una presenza pubblica in università. Le aggressioni contro le persone e gli attentati contro le sedi erano ormai quotidiani.
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segue a pagina 5
Parlano Pombeni e Sabbatucci
L’opinione di Piero Ostellino
Chi ha «ucciso» il cattolicesimo liberale?
«Vi spiego perché era un maestro inascoltato»
Sembra ormai smarrita «Aveva coscienza di quella quella tradizione zona grigia che spesso che prima ha fatto l’Unità caratterizza le persone. e poi ha ricostruito l’Italia Soprattutto in politica» Riccardo Paradisi • pagina 4
Francesco Capozza • pagina 3
stato uno dei primi ad arrivare; Silvio Berlusconi uno degli ultimi. Dalle dieci alle diciotto di ieri, tanti cittadini, tanti politici e tanti protagonisti delle nostre istituzioni si sono alternati davanti al feretro di Francesco Cossiga per rendergli l’ultimo saluto nella Cappella del Policlinico Gemelli di Roma dov’era morto nella tarda mattinata di martedì. Oggi, alle 10,30, la famiglia del presidente celebrerà in forma strettamente privata a Sassari i funerali. La lunga, continua sfilata di autorità e gente comune ieri ha dato il senso concreto della funzione svolta da Cossiga: un tramite costante tra popolo e Stato; un uomo che anzi ha cercato di diminuire il distacco tra queste due entità. E davanti a lui ieri ha sfilato l’Italia, ciascuno con una parola, un ricordo, un ringraziamento. C’erano i protagonisti della Prima Repubblica che egli contribuì ad abbattere, ma anche quelli della Seconda la cui crisi egli vide in anticipo sui tempi fino a maturare una sorta di distacco amaro dalla politica. Insomma: tutta la storia in un giorno. a pagina 2
Bossi continua a chiedere le elezioni: «Fini e il Pd ne hanno una paura boia»
Il Pdl cerca la strategia d’agosto Berlusconi convoca un vertice per difendersi da Colle e finiani di Marco Palombi
A confronto Michele Ainis e Roberto D’Alimonte
ROMA. Almeno in politica, è un
Forma o sostanza: duello sulla Costituzione
agosto rovente: non si spiega altrimenti la fretta con la quale Berlusconi ha convocato per domani, a Palazzo Grazioli, un vertice del Pdl per decidere quale strategia adottare nell’immediato per contrastare gli attacchi dei finiani e per vincere le resistente del Quirinale alle elezioni anticipate. Mentre il Giornale di famiglia continua a manganellare Fini.
Dopo le reciproche accuse tra maggioranza e opposizione su un possibile ritorno alle urne, si è tornati ad affrontare un dibattito che attraversa il Paese da almeno quindici anni: occorre cambiare la Carta Costituzionale? Lo abbiamo chiesto a due esperti
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s eg ue a (10,00 pagina 9CON EURO 1,00
di Pietro Salvatori
I QUADERNI)
• ANNO XV •
NUMERO
160 •
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IN REDAZIONE ALLE ORE
Gli scenari internazionali dopo il “sorpasso” su Tokyo
2020, la Cina conquista il Mondo di Gianfranco Polillo il day after. All’indomani della conquista cinese del secondo posto nel firmamento dei Grandi, iniziano le domande. Si fermeranno o non punteranno ancora più in alto per scalzare dal podio gli Stati Uniti? Le analisi convergono verso un’ipotesi affermativa. Si diverge solo sui tempi. a pagina 20
È
19.30
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la morte di cossiga
Lutti. Per tutto il giorno il Paese si è raccolto intorno a uno dei suoi protagonisti: oggi a Sassari i funerali in forma privata
L’omaggio dell’Italia
Autorità, leader politici e semplici cittadini in fila per l’ultimo saluto a Francesco Cossiga: «È stato un grande uomo di Stato» di Pierre Chiartano
ROMA. Ieri c’è stato l’ultimo saluto degli italiani a Francesco Cossiga, che si era spento martedì al Policlinico Gemelli. L’apertura della camera ardente era prevista per le 10 del mattino, ma il presidente Giorgio Napolitano era lì già diversi minuti prima. Il feretro chiuso del presidente Emerito della Repubblica era davanti all’altare della chiesa attigua al nosocomio, per il saluto di semplici cittadini e di chi lo conosceva. Un picchetto d’onore di Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza salutava le autorità all’ingresso stradale del piccolo parco, intorno al sagrato della chiesa. Pochi scalini poi, sulla destra, il recinto stampa, con decine di telecamere e giornalisti, in attesa di cogliere immagini e qualche commento. Il primo è stato, naturalmente, quello di Giorgio Napolitano che, di fronte a una selva di microfoni e telecamere, ha affermato: «È stato un omaggio a un grande uomo di Stato. Ho salutato un amico». Il presidente ha poi lasciato il Gemelli con un seguito di politici e autorità. Divise e uomini di Stato si confondevano in mezzo alla selva di microfoni e telecamere, tra questi alcuni amici ed ex collaboratori del presidente Emerito, come il generale Carlo Jean e Angelo Sanza. Poi il presidente del Senato, Renato Schifani e Paolo Bonaiuti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Mentre il presidente della Camera, Gianfranco Fini e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio – e gran diplomatico di Silvio Berlusconi – Gianni Letta, dopo aver accompagnato il presidente della Repubblica, rientravano nella cappella dell’ospedale insieme. Si sarebbero appartati in una saletta attigua alla chiesa, per un colloquio durato una ventina di minuti. Ancor prima era arrivato il segretario di Stato Vaticano, monsignor Tarcisio Bertone. Un incontro con i familiari del politico scomparso e poi la benedizione della salma, prima che venisse tolta alla vista dei più. Presenti anche i coniugi Ciampi che hanno voluto porgere le condoglianze alla famiglia. Discreta, ma numerosa la presenza delle forze dell’ordine, molte in borghese. A un certo punto il cordone di sicurezza ha dato il via libera alla gente comune, per l’ingresso nella Chiesa Madre del Policlinico. Non c’era ressa e le persone arrivavano alla spicciolata, ma tra il popolo venuto a rendere omaggio alla salma di Cossiga c’era uno spaccato degli italiani. Alle grisaglie scure e alle cravatte regimental, si mischiavano persone in bermuda e maglietta, anziane signore in veletta e qualche degente dell’ospedale. Molti volevano firmare il registro all’ingresso della chiesa. Poi proseguivano ordinati fino davanti alla bara, in legno chiaro con una croce. Un leggio col Vangelo faceva da spartiacque alla fila. A sinistra il nipote, Piero Testoni, il figlio Giuseppe, più in fondo, seduta su di uno scranno, in mezzo alle navate, c’era la figlia, Anna Maria, un vestito nero di foggia orientale. Elegante e semplice, molti si avvicinavano per farle le condoglianze. Non quelle del Manifesto, che le ha scritte ancora col «K», ieri in prima pagina. Quasi dovesse dimostrare una coerenza che nessuno pretendeva. Ma il presidente Emerito, probabilmente, ne avrebbe riso. All’interno della chiesa si poteva notare una realtà variegata, abiti scuri e maniche di camicia, teste grigie delle autorità e coda di cavallo di Ro-
«Un piccolo omaggio ad un grande uomo di Stato. Ho salutato un amico», ha commentato Napolitano uscendo dalla camera ardente del Policlinico Gemelli. Il presidente è stato tra i primi ad arrivare
«Era un vulcano, non un uomo dei partiti ma delle istituzioni. Ti prendeva per un braccio e stava con te a parlare ore ed ore e nessuno di noi aveva coraggio di staccare quel braccio», ha detto Schifani
berto D’Agostino, che appariva sinceramente commosso per la scomparsa di quello che per lui è il «Gattosardo»: il grande suggeritore di scoop. Sono le 10.50 e continua il via vai di autorità, la gente continua ad affluire in gruppetti. Poco prima era arrivato, con passo veloce e da solo, Marcello Pera, in abito blu chiaro. Molte le divise, mentre le auto blu continuano arrivare alla spicciolata. Giornata calda, ma non troppo, il fresco delle palme richiama giornalisti, qualche poliziotto e un nonno col nipote. Mentre, a destra del sagrato, sono allineate a pettine le auto d’ordinanza. Il flusso di gente continua lento, ma costante. C’è un attimo di pausa, alcuni giornalisti domandano quando arriverà il presidente del Consiglio. «Berlusconi ci sarà nel pomeriggio», risponde una voce rauca dietro una telecamera. Il sole è a tratti coperto dalle nubi e il vento diventa fresco e leggero. Una giornata piacevole, nel torrido agosto romano, per l’ultimo saluto a un whig, come amava definirsi Cossiga, facendo riferimento alla prima corrente liberale inglese, antagonista dei tories, tra il XVII e il XIX secolo. Alle 11.15 arriva il senatore a vita, Giulio Andreotti, con un piccolo seguito. I media si scatenano ed è meglio lasciare il campo libero agli obbiettivi. L’anziano democristiano sale lentamente la scalinata, tra le corone di fiori e il gonfalone granata-oro della città di Sassari, dove oggi si svolgeranno le esequie in forma privata. Dopo circa un quarto d’ora Andreotti esce, curvo e pallidissimo, anche se cammina in maniera autonoma. Si dirige subito verso
Il primo ad arrivare è stato il presidente Napolitano, mentre tra gli ultimi c’è stato Berlusconi, giunto direttamente dalle vacanze in Sardegna l’auto, non risponde a quasi nessuna delle domande fatte dalle poche persone che sono riuscite ad avvicinarlo.Tra i due senatori, mai una parola fuori posto, nonostante posizioni politiche distanti, solo la lama di un gladio li aveva divisi.
Il presidente dell’Antimafia Beppe Pisanu ha ricordato: «Mi avviò alla politica e mi guidò nelle letture più impegnative della mia giovinezza, con una netta predilezione per gli utopisti cristiani»
All’uscita dalla cappelletta, Berlusconi ha salutato alcuni cittadini uno dei quali gli ha fatto dono di un chicco di grano dicendo: «Un chicco da piantare nel terreno ben preparato dal presidente Cossiga»
In mattinata si vede anche Cesare Geronzi, presidente di Mediobanca, che arriva accompagnato dal presidente di Federalberghi, Bernabò Bocca. Dopo le 15 il flusso di gente riprende e arriva la ministro Mara Carfagna, gonna nera lunga e camicia bianca, scambia due parole con Paolo Naccarato, calabrese e segretario da sempre di Cossiga, poi entra. Subito dopo è la volta del rabbino capo della sinagoga di Roma, Riccardo Shamuel Di Segni. Alle 15.30 improvvisamente la scena si anima. L’ingresso si satura di gente e di uomini della sicurezza: è arrivato anche il presidente del Consiglio. La fila di auto si blocca davanti agli scalini della Chiesa Madre. Berlusconi esce accompagnato da Letta, quasi non si vede, indugia qualche momento poi prende la via del portone verso il feretro. Pochi istanti e arriva anche il vicepresidente della Camera, Francesco Lupi, in questa lunga giornata estiva di cordoglio. Alle 15.47 Berlusconi scende gli scalini verso la macchina, non c’è tempo per rispondere alla stampa. La colonna si allontana subito. Ma arriva presto in soccorso alla stampa, rimasta a bocca sciutta, un altro membro del Pdl. «Cossiga aveva un’idea del bene comune, di una politica che dovrebbe torna-
la morte di cossiga
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Il celebre politologo ricorda «l’uomo di cui apprezzavo consigli e riflessioni»
«Un grande maestro. Ma è rimasto inascoltato» Piero Ostellino: «Un campione di cattolicesimo liberale capace di dire le cose come stanno e ammettere i propri errori» di Francesco Capozza
ROMA. «Era un amico. Qualche anno fa mi ha dato l’o-
re» la dichiarazione di Lupi che si concede volentieri ai microfoni. «Quando lo incontravamo era sempre affettuoso, ricordava don Giussani e i cattolici in politica. È un esempio di come servire il Paese che dovremmo seguire» conclude poi il vicepresidente della Camera. E il presidente Emerito era stato uno dei pochi ad aver capito fino in fondo gli arcana del potere. Conosceva bene la società occidentale, la sua genesi e i meccanismi che la governavano. E la storica tendenza di proiettare sugli altri le parti più oscure che la caratterizzavano. Cossiga, da cristiano e cattolico, aveva avuto la lucidità e il coraggio di guardare anche gli angoli più oscuri del potere, senza rimanerne contaminato o affascinato. Parte di queste sue capacità erano state male interpretate e restano alla base di alcuni giudizi controversi che sono stati espressi sulla sua figura, anche in passato. Figura che ieri è uscita dalla storia dell’immanenza, per entrare in quella della speculazione storiografica.
Sull’aspetto umano c’è poco da discutere, per ammissione di tutti coloro lo hanno conosciuto, dagli amici più cari ai nemici giurati. Come l’ex brigatista rossa, Adriana Faranda, protagonista pochi anni fa di un lungo incontro-intervista sulla vicenda Moro, di cui era stata protagonista: fu la postina delle Br durante i giorni del sequestro. Sincerità, comprensione e reale volontà di stabilire un contatto umano era stata la cifra di quello strano incontro. «Voleva la nomina a brigadiere ad honorem», Ignazio La Russa, ministro della Difesa, ha ricordato così l’ex presidente, ieri appena uscito dalla camera ardente. Una delle ultime personalità a rendere omaggio alla salma di Cossiga. «Ignazio fai presto non ho molto tempo, mi disse nel dicembre dello scorso anno – continua La Russa – quando finalmente firmai il decreto per la nomina. Lascia un grande vuoto. Ha cominciato a picconare la cattiva politica e non aveva paura delle parole e delle proprie opinioni». Cossiga probabilmente era consapevole che il suo tempo stava scadendo. Ha lasciato con qualche interrogativo chi non lo ha compreso e con un grande vuoto chi lo ha stimato.
nore della sua amicizia di cui ho ricordi molto belli». E ancora: «Era uno dei pochissimi politici con cui abbia mai scambiato opinioni e da cui abbia apprezzato consigli e riflessioni». È un Piero Ostellino insolito quello che ci risponde al telefono, quasi commosso nel parlare di un uomo a cui era legato da sincero affetto. Un’amicizia di cui sia lui che il presidente emerito Francesco Cossiga erano gelosi. Ostellino non l’ha mai sbandierata ai quattro venti, come invece hanno fatto molti altri e come stanno facendo ora che l’ex capo dello Stato se n’è andato. Dottor Ostellino, vi incontravate spesso lei e Cossiga? I nostri erano colloqui telefonici, io lo chiamavo e parlavamo a lungo della situazione politica italiana. Da alcune riflessioni fatte con lui ho avuto spunto per i miei articoli. Quando l’ha sentito l’ultima volta? Erano diversi mesi che non ci sentivamo. Non l’ho più chiamato da quando aveva deciso di ritirarsi dalla vita pubblica, praticamente da quando anche le sue condizioni di salute erano andate peggiorando. Soprattutto non volevo disturbarlo. Dalle quattro lettere che ha lasciato ai vertici dello Stato traspare sia un grande statista, con un enorme senso dell’unità nazionale ma anche un fervente cattolico. Un uomo che ha donato la sua vita a Dio e allo Stato? Cossiga era un cattolico liberale. Un uomo fortemente credente ma al contempo con fortissime inclinazioni liberali. Io, diversamente da lui, non sono cattolico ma quando mi disse che avrebbe voluto fondare un piccolo partito di ispirazione cattolica e liberale mi promise la tessera numero due. La numero uno sarebbe stata, ovviamente, la sua. Come riusciva a conciliare questi due aspetti? Francesco Cossiga non era solamente un uomo che sapeva coniugare una forte vena liberale alla sua profonda fede, era anche un uomo coltissimo: tra le sue letture preferite Rosmini, Gioberti, Kant. Proprio dallo studio delle opere del filosofo tedesco ha appreso quelle che poi saranno le sue migliori caratteristiche come uomo politico. Quali? Egli aveva delle caratteristiche molto diverse dai politici comuni della prima e della seconda Repubblica. Non era né un conformista né uno che definiremo “politicamente corretto”. Non vedeva nella politica quel “sepolcro imbiancato” come molti dei nostri politici attuali. Il suo altissimo senso dello Stato andava di pari passo alla sua maggiore caratteristica: essere un uomo fuori dagli schemi. Ed è così che ci piace ricordarlo: un uomo schietto, vero, senza timore di dire in faccia le cose come stanno ma allo stesso tempo capace di ammettere i suoi errori. Pensa ai giorni del rapimento e all’uccisione di Aldo Moro? Anche. Quando era ministro dell’Interno, uno dei mi-
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gliori della storia Repubblicana, ha saputo ammettere gli errori suoi e dell’intero sistema. Ha avuto il coraggio di dire «abbiamo firmato la sua sentenza di morte». Un politico eccezionale. Professor Ostellino, Cossiga per sua stessa ammissione ha sofferto molto di depressione. Quella che chiamava, senza troppi giri di parole, la «malattia delle persone intelligenti». Che ricordo ha del Cossiga “depresso”? Cossiga era coltissimo ed intelligentissimo, in questo aveva ragione. Leggeva i classici e da questi traeva linfa vitale. Aveva quel fondamento scettico proprio della cultura liberale che lo faceva estraniare spesso da chi lo circondava. Non credeva nel bene e nel male, ma aveva coscienza di quella zona grigia che caratterizza spesso le persone. Non so se tra le sue letture ci fosse anche David Hume, ma certamente in lui rivedevo molte caratteristiche del grande cattolico liberale, anch’egli fortemente scettico. C’è chi dice che riusciva a prevedere gli avvenimenti politici... Riusciva a capire gli uomini e perciò stesso le loro mosse. L’uomo è più prevedibile di quanto si pensi e spesso i politici hanno un primato in questo. Cossiga si divertiva spesso a sbeffeggiarli. In che senso? Dava consigli a tutti e lo faceva in modo disinteressato ma spesso era consapevole di parlare al vento... In effetti tra le centinaia di messaggi che sono giunti ai familiari in questi giorni moltissimi sono di rimpianto per la perdita di un “grande consigliere”. Ho letto... Molti dicono che non erano loro a chiedere i suoi consigli, ma lui a darli spontaneamente. Tra questi Gasparri, Bonaiuti, Mastella... La sua genialità e la sua grandezza culturale erano pari alla sua suprema ironia. Dava consigli disinteressati al centrodestra pur sapendo che non avrebbe mai avuto ascolto. Era un uomo talmente ironico che sapeva anche che in certi casi perdeva il suo tempo con molti politici cui consegnava i suoi consigli. Sono in molti, purtroppo,quelli che non gli hanno mai dato ascolto. Professore, tra i tanti messaggi mi ha colpito quello del titolare del Viminale, Roberto Maroni. Egli ricorda con affetto l’ex presidente e, ancora una volta, i suoi consigli e le lunghe telefonate tra i due. Ma non era Cossiga che definì Maroni, poco più di un anno fa, un“razzista”e addirittura“nazista”? Maroni è uno dei migliori ministri dell’Interno che abbiamo mai avuto. Pari a lui solo Cossiga. E questo il presidente lo sapeva bene e stimava l’esponente leghista. Però Cossiga era fatto così: empirico in tutto, anche nella politica. I giudizi che diede di Maroni erano circoscritti al momento politico e a certi provvedimenti. Egli aveva la grande capacità di giudicare gli altri giorno dopo giorno, azione dopo azione. Era l’esatto contrario di chi santifica una volta e per sempre questo o quell’uomo politico.
Non credeva nel bene e nel male, ma aveva coscienza di quella zona grigia che caratterizza spesso le persone. Soprattutto in politica
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la morte di cossiga
La parabola del filone culturale al quale Francesco Cossiga apparteneva, ma che oggi non sembra avere eredi politici
Il mistero catto-lib
Nel suo segno prima è stata fatta l’Unità, poi è stata ricostruita l’Italia: Cossiga era l’ultimo maestro di una dottrina politica tanto importante quanto smarrita. Pombeni e Sabbatucci affrontano questa contraddizione di Riccardo Paradisi n interprete anticonformista di quella tradizione liberale e cattolica troppo a lungo minoritaria». Cosi Gaetano Quaglieriallo vicepresidente dei senatori Pdl definisce Francesco Cossiga la cui eredità – continua Quagliariello – «resterà presente e punto di riferimento per quanti svilupperanno il suo tentativo di portare quel patrimonio politico-culturale minoritario del quale è stato alto rappresentante ad ispirare la politica italiana dei prossimi decenni». Già, ma chi sta portando innanzi l’eredità culturale e politica cattolico liberale?
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In quale territorio della politica italiana, su quali gambe, continua a camminare l’accidentato percorso di quel movimento di idee che da Manzoni a Rosmini e dal nostro Risorgimento attraversa la storia del Paese passando per Sturzo e per de Gasperi tornando a scorrere carsicamente lungo il secondo dopoguerra dei governi democristiani e poi riaffiorando come suggestione, provocazione culturale in uomi-
ni di singolare rilievo come Francesco Cossiga? Il presidente emerito in effetti negli ultimi anni martellava sulla necessità d’un cattolicesimo liberale come via maestra per modernizzare il Paese tenendolo nel solco della sua tradizione culturale. Certo, a proposito di eredità, il centrodestra ha difeso i valori cattolici nel campo bioetico ma non si può dire che il personale politico cattolico nel Pdl abbia guadagnato in questi anni di berlusconismo realizzato le prime file della direzione politica. Oggi il presidente della commissione Antimafia Beppe Pisanu per dire, l’allievo di Cossiga, che lo iniziò allo studio di Lord Acton e di Rosmini, nel Pdl è un’isolato così tanto che c’è lo indica come tentato dall’avventura di Futuro e libertà dove sui temi cristianamente sensibili però – bioetica e concezione naturale della famiglia – certo non si troverebbe a casa sua. Del resto, come dice Giovanni Sabbatucci, ordinario di Storia contemporanea alla Sapienza di Roma, questa del cattolicesimo liberale è una vicenda controversa e tormenta-
ta. Lo è stata anche per Francesco Cossiga, tanto che nel lungo periodo della militanza Dc questa sua connotazione non è venuta in primo piano. «Quando si parlava di Cossiga negli anni Settanta e Ottanta lo si faceva in molti modi ma non certo nei termini di un cattolico liberale. Certo, dentro la Dc questa qualifica di cattolico liberale sono in molti a poterla rivendicare nel senso che la Dc, per buona parte, era composta di personale genericamente formato al cattolicesimo democratico e liberale, a parte dossettiani e
Tra suggestioni e prassi, storia di un’idea che resta in cerca d’autore
fanfaniani naturalmente, che non sono stati settori marginali del partito».
Ma il cattolicesimo liberale nella Dc – continua Sabbatucci – è rimasta sempre un’opzione culturale inespressa: «S’è dovuto ricollegare a esponenti lontani, negli anni dell’intransigentismo nella rottura Stato-Chiesa i cattolici impegnati in politica si sono sempre trovati nelle strette delle reazioni papali, da Pio nono a Pio dodicesimo grandi aperture non ci sono state. Il filone cattolico liberale insomma
non ha avuto politicamente un grande vigore, ha vissuto una stagione con la Dc degasperiana ma è rimasto sostanzialmente un orientamento culturale». E oggi chi sono gli eredi del cristianesimo liberale? «Ce ne sono sparsi in tutti schieramenti – dice Sabbatucci – stanno un po’ovunque e non formano una qualche associazione o circolo o gruppo. Ma questo perché continua ad essere una suggestione culturale. Dire che l’eredità della corrente a cui Cossiga diceva di appartenere oggi l’abbia di diritto il centrodestra non si direbbe». D’altra parte è difficile anche definire Cossiga tout court un cattolico liberale come lui amava definirsi: «Cossiga era un ultrarealista, forse considerava se stesso il punto d’equilibrio doloroso e necessario dove tutte possono stare insieme tra il machiavellico, l’iperarealista e il cattolico liberale che crede in alcuni valori. Però insomma tra essere giansenisti come Manzoni ed essere machiavellici ce ne passa». Insomma la corsa nel raccogliere l’eredità del cattolicesimo liberale degasperiano degli scorsi
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Il cardinale John Henry Newman era uno dei pilastri della sua formazione culturale e spirituale
L’erede di Sir Thomas More, che salvò l’Italia dalla guerra civile Ritratto umano e intellettuale di un democristiano atipico, che leggeva l’inglese e il tedesco. E riusciva a non prendersi troppo sul serio di Rocco Buttiglione segue dalla prima La stampa taceva quando non era complice, qualche mostro sacro del giornalismo non escluso. I politici erano defilati. Cossiga aveva un quadro chiaro della situazione e la convinzione granitica che lo stato dovesse mantenere (o riguadagnare) il monopolio della forza e garantire gli stessi diritti a tutti i cittadini. Fu lui a riorganizzare e rianimare le forze dell’ordine che erano oggetto di attentati continui e che non si sentivano politicamente comprese e protette. Cossiga diede loro l’appoggio politico necessario ma fu intransigente nel pretendere il rispetto della legalità. Non era facile. Quando dai cortei non solo si sputava contro i poliziotti ma si lanciavano bombe molotov e si sparava, mantenere il controllo dei nervi era impresa difficile.
Una volta, dopo una manifestazione, Cossiga dovette andare lui stesso alla caserma del Castro Pretorio per calmare i poliziotti sull’orlo dell’ammutinamento. La strategia della Br era chiara: inasprire la lotta, spingere lo Stato (la polizia) al di fuori della legalità, fino alla formazione di squadroni della morte come era successo in Argentina o in Brasile. Volevano costringere tutti a scegliere fra la violenza rivoluzionaria e la violenza reazionaria. Cossiga vide chiaramente che era decisivo mantenere la legalità repubblicana e difendere il ruolo della forza legale. Se in quei mesi abbiamo evitato la guerra civile in buona parte lo dobbiamo a lui. Fu allora che nacque la nostra amicizia. Era un politico di inusuale cultura, curioso di ciò che si muoveva al di là dei nostri confini. Mentre in genere i politici democristiani conoscevano un po’ di cultura francese (in genere avevano letto Maritain) Cossiga parlava sia inglese che tedesco ed aveva conoscenze non di seconda mano soprattutto del pensiero istituzionale e giuridico di quei Paesi. Poi venne il rapimento di Moro. A lui fu subito chiaro che le Br volevano un riconoscimento politico. Riconoscimento politico significava ammettere, almeno parzialmente, che esse fossero in qualche modo una derivazione della sinistra, una versione alternativa della storia del Pci. C’era sempre stata, fra i comunisti, una minoranza che pensava che la resistenza fosse essenzialmente una rivoluzione comunista interrotta per la presenza degli americani e del Vaticano e che un giorno o l’altro avrebbe dovuto essere continuata a portata a compimento. Il Partito Comunista di Berlinguer (cugino di Cossiga) e di Pecchioli era allora impegnato in una lotta a morte per sradicare questa posizione all’interno della classe operaia ed impedire che l’eversione arma-
ta diventasse un fenomeno di massa. Cossiga sapeva che la linea della intransigenza significava la morte di Aldo Moro. Sapeva anche che il cedimento poteva demoralizzare le forze di polizia (molti già pensavano: i nostri muoiono, i politici comunque se la ca-
Dal dramma del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro non si riprese mai del tutto vano) e poteva portare alla saldatura fra le Br e settori consistenti di intransigentismo comunista, cioè alla guerra civile. Dal dramma di quegli interminabili giorni egli non si riprese mai del tutto. Soprattutto gli pesò l’ostilità della famiglia Moro che non poteva comprendere, ed in effetti, non comprese, la sua posizione. Lo ritrovai qualche anno dopo quando era già Presidente della Repubblica. Aveva un programma per istituire cattedre legate alla cultura italiana presso prestigiose istituzioni culturali straniere e metteva grande impegno in questa opera di intelligente mecenatismo. Voleistituirne va una anche presso la Internationale
Akademie fuer Philosophie im Fuerstentum Liechtenstein della quale ero allora prorettore. Con l’occasione riprendemmo a parlare di riforme istituzionali. Lui vedeva chiaramente l’esaurimento del modello che aveva guidato il nostro paese dalla fondazione della repubblica e cercava di anticipare la crisi. Col tempo si angosciava sempre più profondamente davanti alla sordità dei suoi interlocutori istituzionali.
Ricordo in particolare un seminario estivo che tenemmo con Jaroslav Seifert, Michael Novak, Richard Neuhaus e George Weigel. Lui sedeva fra gli ascoltatori fra Paolo Savona e Frank Shakespeare (allora ambasciatore degli Stati Uniti presso la Santa Sede). Si comportava come uno studente discolo facendo palline di carta che lanciava contro i due (diligentissimi) compagni, con grande imbarazzo del docente e grande allegria degli studenti. Andava meglio quando in cattedra saliva lui. Stabiliva subito un forte contatto umano con gli studenti. Sapeva parlare e sapeva ascoltare con vero interesse. Amava molto sir Thomas More ed il cardinale John Henry Newman, e li citava spesso come pilastri della propria formazione culturale e spirituale. Si vedeva che era uomo di fede insieme semplice e dotta. Fu lui, in occasione del Giubileo alla fine del secondo millennio della evangelizzazione, a chiedere a Giovanni Paolo II di nominare san Thomas More patrono dei politici. Gli sembrava esemplare la decisione nella difesa della verità unita alla capacità di non prendersi troppo sul serio ed alla memoria costante della fragilità umana. Lo colpiva anche la capacità di accettare la catastrofe politica ed anche la morte per fedeltà alla coscienza. Offerto a Dio, anche il disastro umano viene capovolto in un’ultima vittoria. Forse non è arbipensare trario che egli vedesse riflessa qui anche la tragedia della sua personale impotenza, nonostante tutto l’impegno profuso, davanti alla morte di Aldo Moro. Il politico cristiano deve fare tutto il possibile ma non dimenticare mai una ultima libertà davanti all’esito, che resta sempre affidato alla misericordia di Dio.
anni e ancora oggi è solo uno dei tanti casi di uso pubblico della storia? Forse le cose sono un po’ più complesse. È che l’integrazione tra cattolicesimo e liberalismo è difficile soprattutto in un paese come l’Italia sempre riottoso a ritrovare il filo di una storia comune. Come fa notare lo storico Emilio Gentile nel suo ultimo libro Né stato né nazione: «Ogni anniversario di unità nazionale ha sempre segnato un momento di polemica più che di unione e la questione cattolica ha sempre pesato molto. È accaduto nel 1911, anno di ”lutto nazionale”per i cattolici (ma anche per i socialisti e i repubblicani, estranei al giubileo monarchico). È accaduto nel 1961, quando «dimenticando l’odio nutrito dalla Chiesa verso la nazione», il pontefice annette l’unificazione come «disegno della provvidenza», tra le proteste di comunisti e socialisti, liberali e radicali».
Il Risorgimento in Italia coincide con la rivoluzione liberale il nemico mortale della tradizionale alleanza tra potere politico e spirituale sanzionata dal Congresso di Vienna. La posizione dei cattolici si divide da una parte gli intransigenti e dall’altra appunto i cattolici liberali e i neoguelfi che accettano e abbracciano i valori portati dalla rivoluzione in Europa. Il «Sillabo» (1864) segna la sconfitta del cattolicesimo liberale sia come progetto politico, sia come sforzo di un rapporto costruttivo con la cultura moderna. Ma si fa presto a dire cattolicesimo liberale. Declinarlo oggi non è così semplice. «Dipende che cosa si vuole intendere con questa definizione – dice Paolo Pombeni – politologo dell’università di Bologna. Non si sarebbero definiti cosi nemmeno Manzoni e Rosmini. Lo stesso de Gasperi non si definiva mai cattolico liberale, il termine democrazia si è sovrapposto al termine liberalismo che ha poi cominciato ad essere un sinonimo di conservazione. Peraltro lo slittamento a destra dei liberali è anche coinciso con il loro progressivo laicismo. La caratteristica del liberalismo occidentale del resto è stato il costituzionalismo. Se invece si fa un discorso sui principi costituzionali anche molti cattolici come i dossettiani, da cui Cossiga proviene, sono liberali. Cossiga – ragiona Pombeni – venendo dopo la morte delle ideologie ha potuto recuperare questo filone culturale come ne ha recuperati altri in una logica libera di contaminazione. Del resto anche i dossettiani che erano keynesiani non immaginavano che Keynes fosse un liberale». Ma oggi dunque? Che futuro ha il cattolicesimo liberale? «Un’ideologia politica cattolica in senso tradizionale non ha più senso, la tradizione del costituzionalismo democratico e liberale è viva invece. Più complesso è capire dove collocarla. Le eredità culturali però sono comuni. Dovrebbero essere di tutti». Di tutti e di nessuno.
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politica
Elezioni. Bossi continua a chiedere il ritorno immediato alle urne: «Fini e il Pd hanno una paura boia del voto»
La strategia d’agosto
Domani a casa Berlusconi summit per decidere come reagire al partito finiano e studiare il nuovo scudo giudiziario per il premier di Marco Palombi
ROMA. Qualcosa si capirà meglio domani, il giorno del consiglio di guerra del Pdl convocato da Silvio Berlusconi a palazzo Grazioli, ma il Cavaliere non sembra avere alcuna intenzione di mollare la presa su Gianfranco Fini: Il Giornale continua nella sua inchiesta sulla casa monegasca di An venduta ad una società off shore e continuano pure gli inviti alle dimissioni dalla presidenza della Camera, da ultimo ieri se ne sono occupati Sandro Bondi e Umberto Bossi. Il premier si presenterà alla riunione con coordinatori, capigruppo e personalità varie del partito con il famigerato programma in quattro o cinque punti che sottoporrà al Parlamento alla ripresa dei lavori, ma dai finiani il nostro ormai non pretende più solo la fiducia politica, vuole un pubblico e non reticente auto da fé. La questione è esclusivamente politica e dunque, da un decennio a questa parte, riguarda i guai giudiziari del presidente del Consiglio e relativi provvedimenti legislativi, l’ultima categoria politica rimasta in vita dall’Alpi al Lilibeo. Del federalismo, della riforma del fisco, di Mezzogiorno e di sicurezza, il Cavaliere potrà parlare anche per due ore di fila ma è la giustizia l’unica cosa che conti e pare che il nostro – coi fidi consiglieri legali, Niccolò Ghedini in testa – abbia tracciato una serie di linee di intervento: la grande riforma punitiva - della magistratura sarà certo il cavallo di battaglia (col pm che deve entrare dal giudice «col cappello in mano», come ripete da anni), ma la ciccia della fase 2 della legislatura dovrà essere uno scudo processuale funzionante per il premier. Processo breve, lodo Alfano costituzionale o un ddl di nuovo conio di cui si parla da giorni ma i cui contenuti restano misteriosi non importa, basta che serva allo scopo. È lì che si giocherà la battaglia, i tempi lo impongono: Berlusconi e i suoi sono convinti che a dicembre la Corte costituzionale boccerà il legittimo impedimento e la magistratura milanese s’affretterà a condannare il premier in primo grado nel processo Mills. Questione simbolica - la prescrizione scatterà comunque – ma che metterà di nuovo il premier sulla graticola della stampa interna e internazionale. Da lì, effetti a cascata su
Ancora polemiche su un presunto viaggio a Monaco con la scorta invisibile
L’ultima smentita di Fini: «Il Giornale inventa» ROMA. Siamo alle comiche finali, disse Fini ai tempi del predellino: frase che si potrebbe ripetere ora pari pari, a proposito della bastonatura quotidiana di Fini medesimo da parte del quotidiano di casa Berlusconi. Ieri, per esempio, Il Giornale ha dato con ampio risalto (più di quello dato alla morte di Cossiga, per intenderci) alla prova provata definitiva del coinvolgimento del presidente della Camera nel presunto scandalo della casa monegasca. Un inquilino del palazzo, il signor Giorgio Mereto, ricorda nitidamente di aver visto arrivare Fini a Montecarlo nel dicembre scorso, «scatenando una gran confusione fuori dal palazzo, in strada e subito dopo fin dentro, nell’androne e sulle scale, con un notevole spiegamento della polizia monegasca a sirene accese». Ma, colpo di scena, questa volta la smentita è parsa più solida dell’accusa. Il portavoce di Fini, Fabrizio Alfano, ha spiegato che «un semplice accertamento presso le autorità monegasche e italiane che registrano i movimenti delle scorte sarebbe sufficiente a dimostrare che la trasfer-
ta a Montecarlo del presidente Fini è frutto unicamente della fervida fantasia del signor Mereto». Piccata e preoccupata la risposta del quotidiano di casa Berlusconi: «La testimonianza non è di un Pinco Pallino qualunque ma dell’ingegner Giorgio Mereto. Non c’è motivo di sospettare che l’ingegnere non abbia detto la verità, visto che si è esposto con tanto di nome e cognome. Quanto alle scorte, tutti sanno che non è obbligatorio per nessuno usarle». Salvo che l’accusa del Giornale e il ricordo del testimone vertono proprio sulla confusione creata dalla scorta fin nell’androne del palazzo. Insomma: le scorte saranno pure «non obbligatorie», ma o ci sono o non ci sono. Morale (del portavoce di Fini): «Dal momento che verificare la falsità di certe dichiarazioni è così facile, c’è da chiedersi per quale ragione chi ha il dovere di riscontrare la veridicità di una notizia prima di pubblicarla trascuri sistematicamente di farlo.Viene quasi il dubbio – conclude Fabrizio Alfano - che vi sia, a monte, la volontà di immettere nel circuito mediatico illazioni, sospetti e accuse anche quando si ha la consapevolezza che basterebbe un controllo di routine a dimostrarne l’infondatezza». In conclusione, il portavoce di Fini annuncia che smetterà di smentire quotidianamente il quotidiano di casa Berlusconi: se ne riparlerà in tribunale.
tutte le Procure, soprattutto quella di Firenze che indaga sulle stragi e avrebbe già iscritto nel registro degli indagati il Cavaliere e Marcello Dell’Utri con gli pseudonimi di Autore 1 e Autore 2. Stante questo scenario, dato per certo a palazzo Grazioli, o si trova una soluzione che blocchi alla fonte l’effetto domino oppure si va a votare prima di dicembre: la finestra utile è già stata individuata, da domenica 14 a domenica 28 novembre. Silvio Berlusconi s’è convinto, anche grazie ai numeri fornitigli dalla fida Alessandra Ghisleri, che le elezioni saranno un plebiscito per lui e Bossi. Il senatur, ormai, lo dice anche apertamente: «Fini, che ha fatto pasticci, e la sinistra hanno una paura boia del voto e quindi fanno di tutto per mettersi di traverso sulla linea delle elezioni. Hanno paura perché i voti li hanno la Lega e Berlusconi». Per «dare stabilità al Paese – ha sostenuto ieri il leader del Carroccio – e uscire dai pasticci occorre avere forze politiche che hanno anche una grande forza in Parlamento: chi non ha i voti non può più stare lì a comandare». Quanto al governo tecnico che agita i sonni del PdL, alle Camere non ci sarà «nessuna maggioranza alternativa» a questa in caso di crisi: «Napolitano non la troverà. Alla fine chiamerà me e Berlusconi e dirà: ho trovato questa soluzione e io gli dirò di no, non c’è nessuno così pirla da fare un governo senza i voti».Traduzione in italiano: Maroni non è disponibile.
Il casus belli nella testa di Berlusconi, fondamentale per addossare la colpa agli avversari, è già stato trovato: la fondazione del partito finiano che dovrebbe essere formalizzata il 5 settembre a Mirabello, provincia di Ferrara, luogo storico di raduni della destra
politica
19 agosto 2010 • pagina 7
Opinioni divergenti, ma la soluzione sembra solo una: fare le riforme ROMA. Provate ad andare in giro per una delle tante affollate spiagge di questo periodo. E chiedete ai villeggianti che incontrate che cos’è la Costituzione. Che essi siano placidi o fastidiosamente rumorosi, tutti vi sapranno accennare a una risposta che centri, almeno in parte, l’argomento di riferimento che la domanda pone. Se invece provaste a chiedere che cosa diamine sia la «Costituzione sostanziale», la percentuale dei «non sa, non risponde» schizzerebbe alle stelle.
Forma o sostanza: duello sulla Carta Costituzione formale o materiale? Ainis e D’Alimonte a confronto
Eppure tutto il dibattito politico di questi ultimi giorni si è concentrato sul quesito: «esiste una Costituzione scritta, di dinamiche che spesso si gioformale, e un’altra praticata cano sulla punta del fioretto nella realtà dei fatti, che la su- dei giuristi. «L’esistenza di una pererebbe al punto tale da ren- Costituzione che non sia il dodere la prima obsoleta?». Ov- cumento scritto, che noi tutti viamente il rincorrersi di di- possiamo leggere, è una sciocchiarazioni tra i vari esponen- chezza bella e buona». ti di partito non ne fa una questione di teoria del diritto o di Michele Ainis, costituzionafilosofia politica. L’accapigliar- lista e editorialista del Sole 24 si è sulle ipotesi di possibili go- ore, respinge con decisione l’iverni alternativi a quello soste- potesi che una fantomatica nuto dall’attuale maggioranza, Costituzione alternativa possa che vengono respinte dagli sostituirsi al testo del 1948. esponenti di Pdl e Lega addu- «Tutt’al più può essere un decendo la motivazione che, se siderio di qualcuno, una spetali scenari si dovessero effet- ranza, quella che esista un tivamente modificare, il man- fantasma del genere». E la dato degli elettori sarebbe tra- faccenda, a sentire il grande dito, e con esso la volontà po- esperto di costituzioni, la si polare. Di contro c’è il parere potrebbe chiudere qui. Ma Rodi molti esponenti dell’opposi- berto D’Alimonte, docente di zione: i parlaROBERTO D’ALIMONTE mentari, sostengono, sono e de«La sovranità vono essere liberi è del popolo: di poter esprimebisogna re la propria fiduandarglielo a cia anche a gospiegare che la verni differenti, legge elettorale anche nel corso attraverso della stessa legila quale si slatura. Ma che la è espressa contingenza polinon conta nulla. tica si intrecci Diventa un bel profondamente problema» con argomentazioni di natura teorica è innegabile. E andare a scandagliare scienza politica a Firenze, riala radice del problema non è pre immediatamente i termini affatto una cattiva idea, consi- della questione: «L’argomento derando che la confusione che è certamente complesso. Non in questi giorni regna sovrana si può negare che non ci sia non facilita la comprensione una situazione di tensione tra
missina che oggi il presidente della Camera ha strappato agli ex colonnelli. L’idea di ritrovarsi con un nuovo partito nella coalizione per il Cavaliere è semplicemente inaccettabile e il tiro al piccione su Fini e il partito è già cominciato: un ruolo da capo partito «è incompatibile con la presidenza della Camera», ha messo a verbale su Repubblica il ministro Bondi; Fini «si prepara a trasferire i voti presi da Berlusconi e dal Pdl in un nuovo partito per andare dove solo Dio lo sa», scandisce invece il vicepresidente dei deputati Osvaldo Napoli, comunque «può fondare un partito, se crede, ma la disinvoltura con cui scioglie e fonda partiti
presente che la sovranità rimane del popolo – replica D’Alimonte – Bisogna andarglielo a spiegare alla gente che la legge elettorale attraverso la quale si è espressa non conta nulla. Diventa un bel problema». Qualcuno, tra i quali l’influente editorialista del Corriere della Sera Piero Ostellino, sembra accennare all’inserimento del mandato imperativo attraverso una norma. Vale a dire, in estrema sintesi, di un vincolo di mandato per chi viene eletto in un determinato schieramento. «Occhio però – avverte Ainis Il divieto di mandato imperativo è roba da regimi liberali. Fu al presidente della Repubblica inserito da Robespierre nella una certa discrezionalità nel- Francia rivoluzionaria. E era l’individuazione e nell’indica- presente anche nella costituzione al Parlamento del capo zione sovietica del 1918. Non proprio moviMICHELE AINIS menti liberali, che Ostellino di«L’esistenza di ce di sostenere». una Costituzione D’Alimonte non che non sia vuole procedere il documento che con forzature: è conosciamo è una situazione una sciocchezza. complessa, è difTutt’al più, che ficile, oltre che esista una cosa inutile, cercare di del genere può capire in modo essere manicheo chi ha il desiderio ragione e chi tordi qualcuno...» to. «Il problema è più generale – ci spiega – ed è dodel governo. Ma, in questo ca- vuto a una classe politica so, tale potere è meramente estremamente irresponsabile. simbolico». Ainis invita a fare Non solo si ostina nel non fare molta attenzione: «Lo scontro le riforme, ma quando prova a si sta spostando dall’applica- farle si muove in modo disorzione della norma alla messa ganico. E le sbaglia, basta vein discussione dell’esistenza dere il sistema elettorale predella norma stessa. E per que- visto per il Senato». sto che la situazione sta diventando gravissima. Già nel Uno scenario tutt’altro che 1994 ci si è incamminati su roseo. «Siamo entrati in una questa china discendente, al- spirale pericolosa – osserva lorché Berlusconi mise in di- preoccupato il politologo fioscussione il governo Dini». Un rentino – la sfiducia nella poliesecutivo da molti definito co- tica aumenta e il Paese divenme tecnico, e dall’allora mag- ta ingovernabile». Come gioranza come illegittimo. «Fu uscirne? «L’unica via è quella un governo politico a tutti gli di riformare il sistema, inieffetti – spiega Ainis – e ha ra- ziando dalla forma di Stato, gione oggi Napolitano a dire per poi passare alla riforma che tutti i governi che ottengo- del modello di governo e della no la maggioranza in Parla- legge elettorale. Ma in modo mento sono governi politici». armonico, non estemporaneo, «Bisogna però tenere sempre come è stato fatto finora».
di Pietro Salvatori la Costituzione formale e la prassi politica». Una tensione, secondo l’illustre politologo, dovuta all’assoluta incapacità della classe politica di interpretare il cambiamento del Paese negli ultimi anni. «Però si deve considerare che la nascita dello Stato di diritto coincide con la stesura di una Costituzione», fa notare Ainis. Che ammette che il dettame cristallizzato in un articolato possa essere oggetto di interpretazioni, «ma solo entro certi limiti». «Certo che si possono dare tante letture dello stesso testo – si spiega – ma è estremamente pericoloso avallare un qualcosa che si proponga quale antagonista della Costituzione formale. Va bene interpretare, ma non è che si possono cavare fuori cavoli da carciofi».
D’Alimonte, tuttavia, fa notare che i punti di lontananza tra la forma e la sostanza sono notevoli, e investono procedure fondamentali delle regole repubblicane. «Faccio un esempio – spiega –. Quando gli elettori vanno a votare, votano un partito o una coalizione, che ha il nome del candidato premier solitamente nel simbolo. Il quale, inoltre, in caso di vittoria, otterrebbe, sicuramente alla Camera e con probabilità al Senato, un premio di maggioranza che lo legittimerebbe a governare senza alcun dubbio. La Costituzione conferisce d’altra parte
come si cambia la camicia sarà severamente punita dagli elettori». Alcuni finiani, d’altro canto, continuano a lavorare allo strappo definitivo: Fabio Granata, per non fare che un esempio, in un alato intervento sul suo blog, tra un riferimento al «pensiero meridiano» e una citazione per le «esperienze deteriorate dalla velocità» (cura dell’altro, riflessione, educazione alla convivialità), ha buttato lì la seguente conclusione: «A settembre costruiremo, attorno a Fini, il profilo di una forza politica modernissima ma intrisa di Memoria Storica. Culturalmente consapevole ma popolare. Una forza in grado di progetti lungimiranti e all’altezza
del Modello Italiano. Un Modello, per nostra fortuna, ben distinto e distante dal berlusconismo privo di anima, dall’affarismo privo di progetto e dal rancoroso “tribalismo” della Lega».
Ufficialmente, però, agli affaristi tribali senz’anima, i finiani continuano a ribadire fedeltà: «Abbiamo detto con chiarezza che garantiremo la fiducia al governo per l’intera legislatura sul programma elettorale», ha ribadito ancora ieri Italo Bocchino, nonostante «Berlusconi abbia violato il patto con gli italiani cacciando dal Pdl Gianfranco Fini, che pure era presente sulle schede elettorali dopo di lui in tutti i
collegi». Certo «se Berlusconi e il Pdl decideranno di aprire una crisi – ha però spiegato il capogruppo di Fli – apriranno la porta alla verifica di una nuova maggioranza in Parlamento». La minaccia, neanche troppo velata, è che alle Camere ci siano i numeri (evidentemente anche grazie a parlamentari attualmente nel Pdl) per costituire un governo di scopo con un nuovo premier. Questa eventualità è esclusa invece dai capintesta berlusconiani, ma circola nei corridoi: quanti onorevoli del partitone berlusconiano perderebbero il posto con gli attuali numeri della Lega? Ufficiosamente si parla di una sessantina di deputati e 25-30 senatori.
economia
pagina 8 • 19 agosto 2010
Numeri. Nel secondo trimestre 2010, il Pil dell’Ocse è salito del 2,8% rispetto al 2009. Ancora deboli Usa e Giappone
Europa, l’economia riparte
La Germania traina la ripresa occidentale. Ma l’Italia resta in coda ROMA. La Germania traina e l’Italia rimane fanalino di coda, mentre gli Stati Uniti continuano a preoccupare. Questo in sintesi il giudizio dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico sulla ripresa economica: il prodotto interno lordo nell’area Ocse è infatti cresciuto dello 0,7% nel secondo trimestre del 2010, come nel precedente trimestre, mentre su base annuale il Pil mostra un progresso del 2,8%. «La Germania e il Regno Unito guidano la maggior crescita nell’Unione Europea mentre la ripresa rallenta nel Giappone e negli Stati Uniti» comunica l’organizzazione con sede a Parigi. Che registra anche una crescita contenuta per l’economia italiana, la quale nello stesso periodo mostra un +0,4%, stessa performance dei primi tre mesi dell’anno. Su base annua, informa il rapporto, dopo la Germania la crescita più elevata è stata realizzata dagli Usa (+3,2%), dal Giappone (+1,9%)e dalla Francia (+1,7%). Chiudono Gran Bretagna (+1,6%) e Italia (+1,1%). L’organizzazione economica sottolinea che nell’area Euro il Pil è aumentato dell’1% trainato dall’espansione del 2,2% dell’economia della Germania, il tasso di crescita trimestrale più elevato dalla riunificazione. Decisa accelerazione del Pil anche in Gran Bretagna con un +1,1% rispetto al +0,3% del tri-
di Alessandro D’Amato mestre precedente. In Francia nel secondo trimestre 2010, rispetto a gennaio-marzo di quest’anno, il Pil è salito dello 0,6% (era cresciuto dello 0,2%, sempre su base congiunturale, nel primo trimestre). Su base tendenziale, il Pil dell’Europa (sia per l’Ue che per Eurolandia) è cresciuto ad aprile-giugno di quest’anno dell’1,7%. Nel complesso dei Paesi del G7 il prodotto interno lordo nel secondo trimestre 2010 ha visto un
aumento del 2,7% rispetto a aprile-giugno 2009. Rallentano invece l’economia americana e quella giapponese. Per gli Stati Uniti nel secondo trimestre la crescita si attesta a un +0,6% dallo 0,9% del trimestre precedente e dall’1,2% dell’ultimo trimestre 2009. Dopo due trimestri brillanti l’economia nipponica registra una variazione quasi nulla (+0,1%) nel secondo trimestre dell’anno portando il tendenziale a un +1,9% rispetto al balzo del
4,4% del primo trimestre. Numeri che vedono il Belpaese ancora in grande difficoltà. Confermati dal leading indicator sul ciclo economico italiano, sempre dell’Ocse, che cede un decimo di punto a giugno per portarsi a 104,1 dal 104,2 rivisto al ribasso di maggio. A fianco della tabella Ocse, l’indicazione per la riga sull’Italia come peraltro quella di Francia, Cina e India, prospetta un rallentamento per i mesi a venire con la dicitura di ”down-
Il Governatore di Bankitalia loda le regole previste da “Basilea III”
E Draghi chiede banche più stabili ROMA. «I costi macroeconomici dei nuovi standard sul capitale bancario previsti da Basilea III sono gestibili, mentre i benefici a lungo termine per la stabilità finanziaria e per una maggiore stabilità della crescita, sono sostanziali». Il presidente del Financial Stability Board e Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi è sceso ufficialmente in campo nella polemica tutta finanziaria rispondendo indirettamente alle previsioni avanzate a giugno dall’Institute of International Finance (Iif), un gruppo di lobby che riunisce i principali istituti del mondo, secondo cui le nuove regole bancarie, in particolare Basilea III, ma anche le nuove tasse a carico del sistema finanziario, minacciano di tagliare del 3% nel prossimo quinquennio la crescita economica degli Stati Uniti, dell’Eurozona e del Giappone provocando la perdita di almeno 10 milioni di posti di lavoro. «L’analisi mostra - ha aggiunto Draghi - che i costi macro associati all’implementazione di standard più
stringenti sono sostenibili, specie se questi standard saranno introdotti con la dovuta gradualità». Il Fsb stima, invece, che ogni aumento di 1 punto percentuale del rapporto fra capitale ordinario e attività commisurate al rischio porterà ad una riduzione del livello di Pil di circa 0,20%. In termini di crescita, questo significa che il tasso annuo si ridurrà in media di 0,04 punti percentuali nell’arco di quattro anni. «I vantaggi economici delle riforme proposte sono sostanziali e devono essere considerati insieme all’analisi dei costi - ha sottolineato Nout Wellink, presidente del Comitato di Basilea e presidente della Banca dei Paesi Bassi - Questi vantaggi derivano non solo da un sistema bancario più forte nel lungo periodo, ma anche da una maggiore fiducia nella stabilità del sistema finanziario». «Ha ragione il governatore Draghi, ma quelle regole vanno anticipate non inseguite. Se il governo non si muove, rischia di vanificarne gli effetti positivi», ha risposto Francesco Boccia, coordinatore economico del Pd, spiegando che «il nodo di fondo resta la liquidità delle imprese, cioè regole per garantire i meccanismi di reperimento dei capitali e per la gestione dei debiti finanziari».
turn” e crescita al di sotto del trend per i prossimi mesi. L’indicatore sugli Stati Uniti scivola inoltre per la prima volta in negativo da febbraio 2009. Ma soprattutto: a parere dell’Ocse giugno potrebbe rappresentare un picco nel ciclo dell’espansione delle economie più sviluppate. Questo significa che d’ora in poi la situazione non potrà che peggiorare. E se questo poco importa per chi è cresciuto di più, potrebbe invece costituire una jattura per chi è cresciuto di meno.
E infatti i consumatori esprimono la loro preoccupazione: «La situazione e le prospettive del nostro Paese non sono affatto positive» sottolineano in una nota i presidenti di Adusbef e Federconsumatori Elio Lannutti e Rosario Trefiletti. Le due associazioni lanciano un allarme: «Le prospettive per l’autunno non delineano alcun miglioramento, anzi, ci aspetta una stagione densa di aumenti e spese. Tutto ciò comporterà, come prima stima, una stangata per le famiglie da 886 a circa 1.100 euro annui». Per il Codacons i dati diffusi oggi dall’Ocse «dimostrano che l’Italia più che locomotiva è la Cenerentola d’Europa. La decisione sciagurata e solitaria del governo italiano di non voler spendere soldi per uscire prima dalla crisi farà retrocedere il nostro Paese rispetto alla posizione internazionale che occupava prima dello scoppio della recessione mondiale. L’Italia con questo basso ritmo di crescita, non potrà tornare ai livelli dei consumi pre-crisi fino al 2015».
L’
otto pagine per cambiare il tempo d’agosto
i m p r e s a
19 agosto (1969)
Jimi Hendrix chiude il grande festival di Woodstock che ne fece una falsa icona del ’68
Non fiori, ma opere di rock di Bruno Giurato
ualcuno dovrebbe tirare fuori Jimi Hendrix dal fango di Woodstock che già faceva schifo all’inizio, e da tutto il bric-à-brac di pace amore e politica che fa un odorino preoccupante adesso. Un esempio: gli attivisti neri che prima dei concerti gli riempivano il camerino chiedendo soldi, appoggio, presenza nella lotta, Hendrix non li poteva soffrire. Lo scrive Sharon Lawrence nella biografia uscita un paio d’anni fa (Jimi Hendrix. L’uomo, la magia, la verità, Mondadori), lo racconta Noel Redding, bassista con lui negli Experience. E verso la fine della parabola Hendrix non sopportava nemmeno la folla dei parassiti flower e power: aspiranti groupie, aspiranti musicisti, aspiranti collaboratori, aspiranti manager, aspiranti righe di coca che lo seguivano in studio di registrazione, in albergo, gli scombinavano l’appartamento di New York, spegnevano le sigarette nelle fette di torta. La mattina dopo, insieme alla domestica ripuliva tutto. Ormai gli hippie sono finiti a lavorare alla Apple (Steve Jobs è un ex figlio dei fiori, quello informatico è il vero “allargamento”della coscienza, la vera ambigua e definitiva rivoluzione che ha avuto origine in quegli anni), hanno fatto camionate di soldi, sono diventati perfetti borghesi col cuore a sinistra e il portafoglio a destra. Ormai il flower power è modernariato, nostalgia e modernariato. Ma Hendrix resta. È quel che si dice un classico. Ha dato origine a una “controcultura”, ma in fondo non le apparteneva, stava dall’altra parte. Forse addirittura da quella della tradizione. E sì. Quando si pensa all’epica rock ormai le possibilità sono due. La prima è cadere nella retorica del modernariato. C’è una Nonna Speranza in agguato nel cuoricino di ognuno, non si tratterà del busto di Alfieri e di tutto il mondo stupido Ottocento, sarà invece una nostalgia di liberazione, di confini caduti di droghe che a rievocarle non fanno male né all’anima né allo stomaco, di sesso letterario e aneddotico, di rock ‘n roll ad usum delphini.
Q
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LA PERDUTA GENTE - CAPITOLO 13
I TESORI DELLE CIVILTÀ - SUSA
CINEMA CALDO - QUANDO LA MOGLIE È IN VACANZA
Il discreto fascino dell’illazione
Tra le rovine della terra di Elam
Colazione da Marilyn
di Carlo Chinawsky
di Alessandro Boschi
di Rossella Fabiani
pagine 12-13
pagina 15
pagina 16 pagina 9 - liberal estate - 19 agosto 2010
La retorica del modernariato è anche perfetta nel postmoderno, permette qualsiasi esaltazione ombelicale in chi ricorda i tempi gloriosi, dà un tocco giovanile alle pagine dei giornali, un po’ come quando vai a comprare una giacca di un bluette un po’ più chiaro e la commessa ti fa: “le sta bene, è giovanile”e ti senti all’istante un vecchio carampano. Buone cose di pessimo gusto. Kitsch istituzionalizzato.
L’altra possibilità a proposito del rock è considerare le cime dell’epoca per quello che sono: un classico. Musica classica. Ed è esattamente quello che ha fatto Gennaro Malgieri a proposito di Hendrix in un suo articolo su liberal di qualche mese fa. Puliamolo dal fango di Woodstock, arieggiamo l’ambiente dagli eventuali effluvi di cannabis. Ascoltiamo i dischi come se fossero di Chopin o Miles Davis. Magari diamo un’occhiata alle trascrizioni degli assoli e delle parti. E alla fine possiamo anche concederci la sentenza finale: Hendrix è un classico. In forza di come suonava, di come ragionava musicalmente, della teatralità delle sue performance, della sua genialità timbrica. Ed è proprio questo aspetto che mette nei guai i critici musicali
italiani. Per lo più sociologi ggiovanili di fiato corto e dalle letture avvilenti, bellamente ignari di tutto ciò che riguarda la musica. Incapaci d distinguere una pentatonica minore da una minore naturale, un accordo da un armonico, un modo lidio da un eolio, un tempo shuffle da uno straight. Completamente ignari delle forme musicali quindi incapaci di distinguere una canzone AABA da una forma sonata-
In queste pagine, alcune elaborazioni del volto di Jimi Hendrix. In alto, il chitarrista con Buddy Miles
Hendrix è un classico. Per come suonava, Per come ragionava musicalmente, per la teatralità delle sue performance e per la sua ineguagliata genialità timbrica
rondò (quella che Hendrix usa nel brano 1983). Invece uno come Hendrix in quanto classico meriterebbe, inaudito, una certa
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profondità formale e storica. Meriterebbe che se ne studiassero le note. Se ne avrebbe magari qualche sorpresa. Prendiamo il suo modo di stare sul tempo, per esempio. Si potrebbero guardare su YouTube i filmati di Little Wing rifatta da Eric Clapton, da Sting, e da Hendrix. Ci si accorgerebbe che Hendrix la porta in modo tutto strano, un po’ in ottavi semplici, un po’ in terstile zinato, jazz. Un’oscillazione del tempo - e del sentimento come se tra l’uno e il due del solfeggio entrasse il tempo del sogno, dilatato, incerto, indefinito, ma coerente con la storia di una fata o un angelo raccontata nel testo. Non a caso Clapton dal vivo dà alla canzone un ritmo reggae, esagerando la tendenza alla terzina, e amplificando la qualità “alterata”della composizione.
Dall’altra parte Sting ci mette in mezzo un fantastico assolo di sax so-
prano di Brandford Marsalis, che dà al tutto una qualità più europea e quasi cameristica. La versione di Gil Evans si prestava invece benissimo agli impasti tra legni e fiati tipici dell’arrangiatore candese, tutto un mondo di mezze tinte sonore perfette per un giro armonico vagamente country. E domandate a Pino Daniele dove ha preso certe sequenze in minore (si ascolti Io vivo come te e infiniti altri lenti del Pinone quando ancora era vivo). Ecco, un brano come Little Wing è né più e né meno che un multum in parvo. Come ogni classico ha dato origine a interpretazioni inesauribili ai più svariati livelli
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o stesso giorno...
Tentò di mediare nella Guerra dei tredici anni tra Polonia e cavalieri dell’Ordine Teutonico, ma fallì e scagliò l’anatema su polacchi e prussiani. di Francesco Lo Dico Fu un papa combattivo ma sfortunato apa numero 210 della Chiesa cat- dell’antipapa Felice V, da
Enea Piccolomini, l’uomo di mondo che diventò Pio II
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di complessità. Tutto ciò da un musicista che, lo ricordiamo, non sapeva leggere né scrivere la musica. O prendiamo ciò che ha fatto Hendrix con il suono della chitarra. La chitarra è uno strumento che per li rami deriva dalla cetra del buon Apollo. Andres Segovia lo definiva lo strumento in grado di far emergere i lati più nostalgici e malinconici. Hendrix invece con l’uso massiccio degli amplificatori l’ha trasformata in un oggetto dionisiaco. Gli amplificatori Marshall, di cui Hendrix era esclusivo utilizzatore, rinforzano il suono aggiungendo distorsione, cioè una sorta di estasi dell’onda sonora che dalla normale sinusoide passa a una forma quadra, avvicinandosi al suono dei fiati - gli strumenti dionisiaci per eccellenza. E infatti i temi e assoli di Hendrix fanno pensare oltre alla tradizione del blues, a certi fiatisti arabi. Una dimensione surreale dovuta al timbro dello strumen-
tolica, sul soglio di Pietro fino al 1464, Pio II venne eletto successore di Pietro il 19 agosto del 1458 nella sorpresa generale. I cardinali riuniti in conclave dopo la morte di Callisto III, puntavano forte sul benestante cardinale di Rouen. E il futuro Pio II, che di nome faceva ancora Enea Piccolomini, non era stato certo clemente con il grande favorito, contro il quale aveva inveito sotto mentite spoglie nei Conclavi de’ Pontifici Romani. Nativo di Corsignano, piccolo borgo oggi inglobato nell’attuale Pienza, studiò all’università di Siena e di Firenze, ma sin da subito i suoi rapporti con il papato non furono certo idilliaci. Fermo contestatore di papa Eugenio IV, che gli negava il cardinalato prospettato da Martino V, lavorò per molto tempo come segretario al soldo dell’arcivescovo Domenico Capranica. Fallita l’elezione
dono del suono naturale che fa pensare alle pennellate violente di un Van Gogh. Anche oggi se ascoltiamo il lavoro di programmazione sui filtri nell’ultimo disco dei Chemical Brothers ritroviamo proprio lui, il nero-pellerossa con la chitarra, che ha inaugurato quel tipo di sensibilità timbrica e materica.
Musicalmente autodidatta, poco scolarizzato, Hendrix ha assorbito la musica afroamericana quella europea nel modo
lui caldeggiata, Enea prese a poetare alla corte viennese di Federico III. Riconciliatosi con il Vaticano, prende i voti e diventa vescovo di Trieste nel 1447. Uomo di mondo, avventuriero, licenzioso scrittore di pamphlet, si servì della sua esperienza secolare per dar vita a un pontificato assai energico, ma avaro di soddisfazioni. Riunì i principi cristiani a Mantova per fronteggiare l’avanzata dei turchi ottomani con poco successo. Tentò di mediare nella Guerra dei tredici anni tra Polonia e cavalieri dell’Ordine Teutonico, ma fallì e scagliò l’anatema su polacchi e prussiani. Perde il sostegno dei francesi che si aspettavano da lui l’appoggio a Napoli, scrive a Maometto II offrendogli il trono di imperatore romano ma non ottiene riscontri dal turco. Accasciato dagli insuccessi, e presentendo la fine, si getta anima e cor-
ficiali ha innovato il rock, ha inventato un modo di stare in scena selvaggiamente teatrale e rituale, ha inventato il look della rockstar: prima di lui i Beatles suonavano in giacchetta. Jeff Beck disse: «Al suo confronto sembravamo dei bibliotecari». Oggi, quarant’anni dopo, una casa di moda si pubblicizza con la foto di Hendrix. Si pensa a Hendrix e si immagina il fracasso a Woodstock, la dissacrazione di The star sprangled banner, intercalata a fischi e
po nella crociata, ma l’esercito si scioglie ad Ancona. Due giorni dopo, spira. È il 14 agosto del 1464 Pio soffriva di febbre quando lasciò Roma, l’esercito crociato si sciolse ad Ancona alla ricerca di un trasporto, e quando infine giunse la flotta veneziana, il Papa morente poté solamente vederla dalla finestra. Pio II spirò due giorni dopo. Era il 14 agosto 1464.
Paesi in cui si esibiva, e fu il primo a far nitrire, fischiare e urlare il violino (a Lucca nel 1801 fece indignare le autorità religiose). Hendrix aveva ascoltato Paganini? Non sappiamo, certi archetipi vengono fuori misteriosamente. In prospettiva storica la performance di Woodstock è una perfetta rilettura paganiniana che lusinga e allo stesso tempo prende a frustate il senso d’appartenenza del pubblico.
Una sorta di scena da giocoliere o giullare ma calata in un contesto d’avanguardia. Una operazione da fool scespiriano sbattuta in faccia al popolo fangoso, a demos nostro signore e padrone, mica solo ai potenti. E anche il lato più rumoroso di Hendrix era premeditato. Ad esempio Hendrix spesso incideva le chitarre con il nastro al contrario. Poi dal vivo imparava nota per nota le melodie rovesciate e le rieseguiva, segno che, almeno musicalmente, era sempre lucido. Sfiniva i tecnici restando ore a regolare chitarra, effetti, amplificatori, eseguendo, da Electric Ladyland in poi, centinaia di sovraincisioni. E poi su
Si potrebbero guardare su YouTube i filmati di “Little Wing” rifatta da Eric Clapton, da Sting, e da Jimi. Ci si accorgerebbe che il genio di Seattle la porta in modo tutto strano, un po’ in ottavi semplici, un po’ in terzinato, stile jazz. Un’oscillazione del sentimento che apre le porte al tempo del sogno
to. E anche il wha wha, un filtro a pedale che modifica la risposta timbrica, gli permetteva di ampliare la tavolozza sonora con mille sfumature. Un abban-
svelto, pratico, imprevedibile, dei geni. È stato definito un incrocio tra Beethoven e John Lee Hooker. In tre anni, dal 1967 al 1970, e quattro dischi uf-
botti ottenuti con l’amplificazione al massimo. Pare fossero le bombe del Vietnam che distruggevano il sogno americano. Ma il fatto ricorda anche, e forse di più, Niccolò Paganini. Il genovese, supremo talento anche del marketing, fu il primo a suonare gli inni nazionali dei
YouTube si trova una sua Hear My Train A-Comin con sola chitarra acustica e voce, in rigoroso stile blues arcaico.
Quindi tiriamo fuori Hendrix dal fango di Woodstock e diciamolo una buona volta: Hendrix era un musicista puro, prima che un simbolo più o meno politico o sociale. Di Hendrix è stato pubblicato di tutto, non siamo arrivati alla riesumazione del cadavere come per Dante, ma succederà. L’estrazione dei denti d’oro da parte dei famelici eredi probabilmente c’è già stata. Ogni “nuovo” disco provoca sentimenti contrastanti, un po’ cinicamente ci piace, un po’ ci fa rannicchiare in posizione fetale aspettando il diluvio di commenti esaltati sull’esaltante stagione hippie, e l’invasione del bric-à-brac. Tutte fesserie, naturalmente. Perché anche le trovate di show più guascone, suonare la chitarra coi denti, dietro la testa o mimare l’amplesso, quello che Carlo Verdone nel film Maledetto il giorno che ti ho incontrato chiamava “questa chitarra stuprata, posseduta, sodomizzata”erano in fondo trucchi teatrali ben presenti nella tradizione dei performer negri. Non parliamo dei centinaia di jazzisti che hanno suonato la sua musica, da Gil Evans a Jaco Pastorius, e dei musicisti classici, come il violoncellista Giovanni Sollima. Forse ce n’è abbastanza per comprare il dvd di Hendrix a Woodstock e ascoltarselo come si deve. Come un magnifico esempio di musica classica.
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IL GIALLO
CAPITOLO 13 Il discreto fascino dell’illazione Un cronista pronto a tutto e una giovane donna perduta: passato e presente che giocano a rimpiattino di Carlo Chinawsky a ambulanza, subito. Poi faccia venire tre nostre macchine. La gente che abita qui va interrogata». Patrizia Jorio era grassottella sui fianchi, ma aveva le braccia magrissime. Mi pareva di avere davanti a me parti di vari corpi, che non c’entravano l’uno con l’altro. Jeans a vita ultrabassa, maglietta con una scritta araba sul davanti, macchiata di unto e di sugo. Aspiravo ondate di cattivo odore. Inevitabile ricordare Marina e i suoi aromi. Poche ore prima avevo accarezzato il suo corpo. Ora ero piegato su un fagotto di carne arresa. Mi venne in mente anche Rosalba, la romena, lesbica per recupero di tenerezza e per delusione. Sarebbe scoppiata a piangere. Proprio lei che le forniva eroina e altre schifezze. Fino a quando era la sua schiava di lusso sopra il Samoa, poteva controllarla.
L
Certamente la puliva, le faceva il bagno, le accarezzava il seno e le parti intime con saponi profumati. Le dosi le faceva lei, forse alzava pure la voce se la fidanzata faceva i capricci. Relegata in casa. Oppure no: magari uscivano come due sorelle. E ora la ragazza aveva occupato uno spazio vuoto e miserevole all’ estrema periferia, Un rettangolino sporco, ma esclusivamente suo. Frugai ne-
gli zainetti. C’erano indumenti maschili. Ma lui dov’era? A rimediare soldi per riempire stomaco e vene. L’ambulanza fece manovra davanti all’ingresso. Ci fu un certo trambusto nel caseggiato e tutt’attorno. Le sirene sollevano il senso di colpa, come le divise. I ragazzi che sostavano da basso si dileguarono, a piedi e con le moto, prima che potessi dare l’ordine di fermarli. La mamma araba con i figli non c’era più. Poi arrivarono i nostri. In quel luogo le giacche blu parevano quelle degli alieni. Salirono tutti a piedi. Molte porte si aprirono per poi chiudersi subito dopo. Calò un silenzio da assedio. Mi sfilarono davanti i ricordi di mio padre sulla guerra, quando i tedeschi irrompevano nelle case a caccia di tutto, non solo di ebrei o Banditen. Avevo ascoltato racconti simili anche a Roma, un fuggi fuggi con la gola secca e gli occhi gonfi di apprensione, oppure l’attesa con la faccia più normale del mondo e qualche donna che stringe il braccio al marito o al fratello, dì de sì, asseconda, magari nun è gnente ma noi che c’entriamo.
Ricordi archeologici mentre i carabinieri in servizio a Milano facevano il loro dovere. Ci doveva essere un battaglione intero. E al debole e arrogante cor-
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Venne infilata nell’ambulanza. Sopra il suo corpo la solita coperta dei paramedici. Il brigadiere Pizzi la guardò con pena. Era uno che non sarebbe mai potuto diventare duro, insensibile, cinico. Aveva la fronte imperlata ma non faceva così caldo teo dell’ordine pubblico si dovevano aggiungere psicologi e assistenti sociali. Almeno per salvare i bambini. Patrizia Jorio venne infilata nell’ambulanza. Sopra il suo corpo la solita coperta dei paramedici. Il brigadiere Pizzi la guardò con pena. Era uno che non sarebbe mai potuto diventare duro, insensibile, cinico. Aveva la fronte imperlata di sudore, e non faceva così caldo. Conforti si guardava attorno, con un’espressione ebete. Incrociammo gli sguardi, alzò impercettibilmente le spalle. Era un giovane uomo che in quel momento avrebbe preferito stare chino sui libri di giurisprudenza. «Che sta pensando Conforti?» gli chiesi. E lui mi spiazzò: «A un vecchio, a un barbone che abbiamo trovato dissanguato in una catapecchia, ovviamente abusiva… vicino alla ferrovia di Lambrate… qualcuno aveva cosparso il suolo di frammenti di bottiglia, quello s’è tagliato, ha
perso sangue ed è morto così, in quel modo incredibile». «E i colpevoli?». «Mai trovati. Ma hanno colpito alla stessa maniera da un’altra parte… la vittima ha reagito ed è stata massacrata di botte… anche quello era un vecchio senza dimora». «Magari domani mi racconterà di quei pezzi di vetro».
Mi guardò stupito: ma come, con l’inchiesta che stavamo facendo? E che c’entrava il barbone? Gli dissi che si doveva fare qualcosa, lui rispose che un po’ era stato fatto, ma poi altre emergenze s’erano presentate. «Conforti, le nuove emergenze spesso ci sono solo per i giornali. Ora rintracci la madre di Patrizia. Faccia alla svelta». «Stauder, io gli uomini te li ho mandati, ma sono operazioni che lasciano il tempo che trovano… ». Il colonnello Boi, dal suo scranno milanese, mi impartiva la lezioncina al telefono. «Questo non serve, quest’altro pure…
’sta frase comincia a starmi sulle palle, caro collega!». «Come sarebbe a dire? Tu vieni da Roma e credi di risolvere tutto… vuoi gli uomini dello sceriffo, mandi in galera i testimoni, vuoi bonificare un intero quartiere… ». «Guarda che l’inchiesta che m’hanno affidato è più difficile delle parole crociate… ». Non mi lasciò finire: «Se mi avessi informato sarebbe stato meglio, colonnello Stauder. E poi lo sappiamo entrambi, le inchieste sono tutte delicate, soprattutto quelle che conduci tu, il Robin Hoood dell’Arma». «Tutto a suo tempo, caro Boi, stai bono e tranquillo. Non ho chiesto i tuoi uomini per una scampagnata… e Robin Hood è un riferimento sbagliato, tanto per precisare. Il bosco di Sherwood è a due passi dalla tua scrivania… ma questo lo sai, no?». «Ci parleremo, spero» e mise giù. Chissà per quali vie era stato confermato l’ordine di far partire le pattuglie, visto che Boi era così irritato. Merito di Conforti, che dietro la sua aria sorniona forse sapeva trovare la furbizia di certi canali. Magari s’era rivolto, con l’alibi dell’urgenza, a un capitano non proprio in linea con lo stratega del suo superiore. Stanza dell’ospedale San Carlo, tubi e tubicini dentro e attorno al corpo fiaccato di Patrizia. Accanto, finalmente, sua madre.
LA PERDUTA GENTE «Una delle ipotesi è che abbia avuto un forte interesse a far uscire quell’articolo. In un certo senso approfittò del fatto che il direttore non c’era e quel giorno comandava un suo vice, che proprio un’aquila non è. Non di certo un complotto»
Nelle puntate precedenti Mantelli telefona a Stauder: il finanziere Alessio Torchini si è buttato dalla finestra. Apparentemente si tratta di un suicidio, ma c’è il dubbio che il gesto sia collegato alla scomparsa di Jorio. Poche ore dopo, giunge la notizia che anche la ex moglie di Torchini si è gettata dalla finestra. Stauder pensa a una macchinazione ordita dall’onorevole Scorrano. Frattanto è stato individuato il cellulare di Patrizia. La ragazza si trova nella periferia di Milano, ma quando l’arma piomba in casa sua, la trovano in stato di overdose.
«Lei sapeva della droga?» le chiesi. Impassibile anche in quel luogo. Imbarazzata davanti alla figlia, poco abituata all’affetto delle mani, delle dita nei capelli, dei baci, delle carezze. Non rispose, nemmeno con le lacrime. «Si vergogni, professoressa». «Lei non si deve permet-
tere!» sibilò. «Non sono uno dei suoi alunni e la società non è una classe dove alzare la voce e dettare le cose da scrivere sul diario. Esca da scuola una volta tanto, viva qualche minuto nel mondo. E ammetta di essere una cattiva madre».
Non rispondeva. Forse non aveva mai risposto alle domande della figlia per il semplice fatto che Patrizia non chiedeva dal banco di scuola, non alzava la mano, non pietiva ascolto. Non era un nome scritto nel registro. A casa la madre non aveva il registro di classe quindi nessuno esisteva. O tutti erano assenti ingiustificati. Prima di andarsene, disse con un filo di voce: «Colonnello, secondo il suo mondo di guardie e ladri c’è sempre un colpevole da arrestare o da mandare al muro… ». «I primi colpevoli sono i genitori, di solito. E non per i brutti voti». «Lei vive di piccoli schemi, di psicologia da manuale per principianti… ». La interruppi dicendo di venire in caserma l’indomani pomeriggio. Mi guardò perplessa e io l’anticipai: «Questo è il mio schemino. O lo schemino dello Stato, se preferisce. Alle sedici l’aspetto, chieda del maresciallo Conforti, troverà anche me». Se ne andò, senza aver sfiorato le mani o la guancia di sua figlia. Pizzi mi guardò:
«Scusi colonnello se mi permetto… ». «Dica». «Ne ho viste tante di madri stronze, ma… ». «Ci sono anche quelle come lei». Quando detti l’ordine al brigadiere Pizzi di pedinare la vedova Jorio, mi sembrò di leggere nei suoi occhi una totale complicità umana prima ancora che professionale. Conforti invece apparve perplesso. Non mi chiese niente. Forse stava pensando che allargassi troppo l’inchiesta. I tanti anni di servizio mi avevano insegnato a procedere a ventaglio. Ma non avevo voglia di spiegarglielo. Il maresciallo, per la seconda volta, sembrò assente. E tutte e due le volte c’erano state di mezzo delle donne. Mi telefonò Bruno Rimi, giornalista della Sera. «Sa, colonnello, ci sono certe cose che rimangono in gola… ». «Quella gola che si può anche chiamare coscienza. È a proposito di Jorio, immagino…». «Sì».
Rimi era un ruminante di pensieri. Quando l’avevo incontrato la prima volta avevo avuto l’impressione che non mi avesse raccontato tutto. Per amicizia e fedeltà verso il suo collega, per diffidenza verso di me. O più semplicemente perché era refrattario ai tempi rapidi. «Eravate amici, mi ha detto lei. Ma appunto per questo qualsiasi informazione, anche se le appa-
re sgradevole, mi può servire per capire come è morto, se si è tolto la vita o gliel’hanno tolta». «Certo, certo…». Certo che sì, ma quando si decideva a entrare in argomento? Aveva bisogno di sorseggiare un aperitivo in qualche boulevard di Parigi, secondo la sua bussola nostalgica, oppure che cosa? «Dottor Rimi, faccio appello alla sua abilità di sintesi giornalistica… ovvio che tutto è confidenziale, strettamente confidenziale, ma questo lei lo sa». E alla fine arrivò alla sostanza delle cose. Mi rivelò che Jorio, nell’ultimo tempo, faceva uso di cocaina. «Malgrado i problemi di cuore», aggiunse con un sospiro. «C’è dell’altro?», chiesi, senza rivelargli del Samoa e di Patrizia. «Quel viaggio-intervista a Parigi, l’incontro con quella donna… ». «Ebbene? Non mi dica che s’è inventato l’articolo!». «No, questo no. Uno come lui non l’avrebbe mai fatto. È che sapeva che era una cosa delicatissima per la proprietà del nostro giornale… tuttavia partì ugualmente. Era un cronista testardo, indubbiamente. Ma credo ci fosse dell’altro dietro. La parola dietro fa parte della mentalità giornalistica. È uno dei primi insegnamenti che fanno ai reporter, quando sono nella sala d’aspetto del mondo che si apprestano a dover raccontare. «Secondo lei aveva un interesse… per così dire personale?». «Gli ero amico, e molto… », Continuava a ruminare. Io volevo un vomito, un chiarimento senza troppa punteggiatura. «Continui». «Insomma, sapeva a che cosa andava incontro. Diciamo che l’allontanamento dal giornale se l’è voluto. Mi chiedo, e non so bene come rispondermi, se fosse davvero consapevole delle conseguenze. O se sì… colonnello, sono illazioni le mie… ». «Confido sempre molto nelle illazioni, vada avanti». «Be’, una delle ipotesi è che abbia avuto un forte interesse a far uscire quell’articolo. In un certo senso approfittò del fatto che il direttore non c’era e quel giorno comandava un suo vice, che proprio un’aquila non è». «Me l’ha detto. Quella che lei chiama la non-aquila e Jorio erano molto amici?». «Be’abbastanza… ma non da pensare a un colpo di mano, a un complotto. No, no… forse Alcide cercava qualcosa su cui giocare da solo, poi… ». «Ricatto?». «Colonnello, è una brutta paro-
la… ». «Lo so. Ma non preoccupiamoci. Usiamole ‘ste parole, sono i soli strumenti che abbiamo per definire gli uomini e le situazioni, altrimenti si perde il filo, non crede?». «Sì, certo… ». «E dunque?». «Io credo che non avesse avuto tempo o modo per usare quel che cercava di fare. Mi fece certe allusioni… ». «A un documento che era a Parigi?». «Esattamente». «In che modo fece allusioni? Dicendo che con quella roba poteva risolvere un po’ di problemi? Lei sa che aveva bisogno di soldi, forse per la figlia, forse solo per la cocaina». «Già… ». «Già cosa?». «Una volta mi chiese un prestito. Poca cosa. Ma appunto per questo mi sorpresi. M’ha restituito tutto, con molto imbarazzo. Era un uomo ordinato, scrupoloso… ». «Ma fece il salto… ». «In che senso?».
Gli spiegai che il salto si doveva riferire al possesso di un documento, o di una lettera. Per farne cosa non sapevo. Certamente se uno è in possesso di una cosa scottante e la tiene nel cassetto vuol dire che questa è merce spendibile. E la eventuale trattativa va sotto il nome, generico ma inesorabile, di ricatto. Al di là dell’ipocrisia lessicale. «Sulla Sera è comparsa l’intervista. Un assaggio. O un segnale. Secondo lei, dottor Rimi, dove voleva far apparire le altre informazioni, quelle più scomode e piccanti? Forse sull’Universo? Non mi risulta che in quel giornale sia apparso qualcosa», «Comunque credo che l’intenzione fosse proprio quella. Ma sa, quelli della sinistra radicale alla fine… ». «C’era e c’è in ballo la tenuta del governo al Senato, lo so bene. Anche un solo voto conta. E un uomo, anche se trafficone, cialtrone e poco stimato tra gli stessi politici, vien sempre utile. O no?». «È successo anche in Francia». Il suo punto di riferimento continuava a essere Parigi. «Ma lei sa qualcos’altro di tutta questa faccenda italiana?». Volevo evitare altre ruminazioni, tardive telefonate, esitazioni filosofiche sul concetto di amicizia e di tradimento. Io non potevo aspettare il lento disbrigo di tormenti etici e professionali. «Quel che mi stava sul gozzo gliel’ho riferito. Sui giochi di potere, qui a Milano e a Roma, non so molto poco, mi creda». «Ha fatto bene a telefonarmi. La terrò informato, lei è stato gentile». «Ci conto, colonnello Stauder. Grazie».
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DIAMO I NUMERI Nell’Annuario Pontificio c’è l’elenco dei Pontefici che si sono succeduti da san Pietro a Benedetto XVI. Si tratta di 265 nomi, che però non corrispondono ad altrettanti vicari di Cristo. Ecco perché... Annuario Pontificio è il volume che ogni anno riepiloga tutti i dati disponibili sulla Chiesa cattolica. Tra questi ovviamente compare l’elenco dei Pontefici che si sono succeduti da san Pietro a oggi. Non è una pagina di routine, ripetuta per inerzia. È invece soggetta ad aggiornamenti, non solo per eventuali nuovi Papi, ma anche per il passato.
Raffiche di mitria
dente, ma poi tutti e tre deposti contemporaneamente dal concilio di Costanza, che elesse ex novo Martino V. Ma ci sono altri casi che in qualche modo alterano l’elenco o almeno la sua linearità. Per esempio il 22 marzo 752 fu regolarmente eletto Papa il sacerdote romano Stefano che si insediò in Laterano. Ma in appena due giorni si ammalò (forse un ictus) e morì prima di essere consacrato. Per questo non è più presente nell’Annuario Pontificio (ma c’era fino al 1964) nonostante ad esempio il suo ritratto compaia nella serie di tondi della Basilica di San Paolo fuori le mura. Per inciso sarebbe uno Stefano II, cosa che ha complicato un po’ la numerazione dei successivi pontefici con lo stesso nome. La cosa è più complessa perché compare anche qualche altro Papa in epoca antica morto prima di essere completamente consacrato, ma in quel caso il suo nome è ammesso nella lista ufficiale.
I molti punti interrogativi sull’esatta cronologia dei Papi
Vero è che le regole per l’elezione a Papa sono molto cambiate diverse volte nei duemila anni di storia della Chiesa, e solo in tempi recenti sono state definite in modo burocraticamente ineccepibile. Comunque c’è da dire che per la lunghezza della storia e la turbolenza di certi periodi, per l’accertamento dei Papi c’è un rigore storico non solo notevole, ma anche ineguagliato per altri personaggi storici loro contemporanei. Ciononostante qualche elemento di confusione rimane, dovuto proprio alle zone d’ombra della storia. Per esempio non è chiara l’esistenza o meno di alcuni personaggi: oggi nell’Annuario compare solo Papa Anacleto, secondo successore di Pietro, ma in passato si riteneva che fossero stati due pontefici distinti Cleto e Anacleto, e ad esempio così sono ancora raffigurati nel Duomo di Siena. C’è poi la sfilza degli antipapi: su questo l’Annuario è preciso, ma ci possono sempre essere ripensamenti. Sono 37 gli antipapi elencati, e per entrare nella lista devono aver avuto un minimo di spessore e di consenso (almeno altri due sono esclusi per irrilevanza). Di questi, alcuni hanno fisicamente occupato il trono di Pietro regnando come pontefici. Alcuni hanno ricevuto sepoltura papale (persino in san Pietro) e uno, il primo, Ippolito, pentitosi della sua azione, ha fatto in tempo a diventare santo e martire.
L’
La ricerca storica infatti non si ferma mai, e ci sono periodi remoti e confusi anche nella storia della Chiesa, così quindi ci può sempre essere qualcosa da chiarire, qualche nuovo elemento. Non succede troppo spesso, ovviamente, ma succede che anche l’elenco dei Pontefici venga aggiornato in base a nuovi studi. Anche nel secolo scorso è successo alcune volte, e non c’è da stupirsi visto che appunto i progressi del metodo storico e la serietà della ricerca sono dati recenti. L’Annuario Pontificio riporta ora 265 Pontefici. Ma ciononostante i Papi non sono stati 265. E non lo sono stati in modo lineare. Parleremo delle controversie su questo e quel pontefice, degli antipapi e di tutto il resto, ma sulla storia dei 265 capi della Chiesa non c’è tanto da filosofeggiare: l’elenco è sotto gli occhi di tutti, riporta 265 nomi ma non 265 persone. Questo primo mistero è abbastanza facile da chiarire, anche se l’episodio non è dei più noti. Siamo nel 1032, non un bel periodo per la Chiesa di Roma. Al soglio di Pietro viene eletto Benedetto IX, al secolo Teofilatto dei Conti di Tuscolo, rampollo di una famiglia che a Roma faceva il bello e il cattivo
di Osvaldo Baldacci tempo. Ha appena 18 anni, addirittura 12 secondo certe fonti. A tutto pensava meno che a fare il Papa. Nel 1044 venne cacciato da una rivolta popolare che mise sul trono Silvestro III (anche lui regolarmente presente nell’elenco dei Papi ufficiali), ma poi riconquistò la città e il 10 aprile 1045 ottenne di
In alcuni periodi ci sono stati più regnanti contemporaneamente in seguito a lotte politiche di vario genere, come nel caso di Giovanni XII, Leone VIII e Benedetto V nuovo il titolo di Papa. Ma poi ebbe un ripensamento. La carica è prestigiosa, e garantisce gli affari di famiglia, ma pare che il giovane proprio non avesse voglia di fare il Papa. Non è questione che non si voleva occu-
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pare degli affari spirituali e dell’amministrazione del suo Stato e delle relazioni internazionali: questo purtroppo in quell’epoca erano in molti a trascurarlo. È che proprio stava seduto scomodo sulla cattedra di Pietro. Dev’essere questo il motivo per cui dopo appena 21 giorni tornò a cederlo, dietro la stipula di un regolare contratto che prevedeva per lui un ricco pagamento in oro, pare la rendita dell’Obolo di San Pietro. Forse per la voglia di sposarsi. L’acquirente fu lo zio Giovanni Graziano, regolarmente considerato Papa come Gregorio VI, che secondo alcuni agì in buona fede per salvare il Papato dall’indegno nipote. Ciononostante o forse proprio per il senso di colpa verso il mercimonio, nel 1046 Gregorio non oppose grande resistenza quando su Roma calò l’imperatore tedesco Enrico III che depose tutti i Papi in giro e impose il suo Clemente II. Alla morte di questo, con i tedeschi lontani, nel 1047 i tuscolani riportarono sul trono papale per la terza volta Benedetto IX (che quindi nell’Annuario risulta eletto tre volte, nonostante altri studiosi considerino un
unico pontificato e altri ancora lo diano per antipapa nei due ultimi mandati), il quale fu infine a sua volta deposto definitivamente l’anno dopo dal ritorno dei tedeschi, e pochi anni dopo morì “spapato”in un convento di Grottaferrata. Con Benedetto IX che compare per tre volte nell’Annuario Ufficiale, ecco quindi che i 265 Papi sono 263. Ma ci sono stati anche altri casi di confusione, in particolare di più Papi regnanti contemporaneamente in seguito a lotte politiche di vario genere: capita che alcuni di questi pontefici siano considerati regolari dall’Annuario nonostante la contemporaneità che solo in parte viene sanata con selezioni temporali artificiose. Un esempio è nel X secolo quello di Giovanni XII, Leone VIII e Benedetto V, eletti mentre gli altri erano regnanti eppure messi in qualche modo in fila dalla lista ufficiale. Anche in altre circostanze i regni si sono sovrapposti, e solo in certi casi alcuni sono considerati antipapi, come nel 1417 per Gregorio XII, Giovanni XXIII e Benedetto XIII, col primo papa regnante e gli altri due antipapi dello Scisma di Occi-
I TESORI DELLE GRANDI CIVILTÀ li antichi Greci conoscevano molto bene Susa: là si trovavano le fastose residenze dei grandi re persiani. Gli autori biblici sapevano, inoltre, che la città era stata la capitale del Paese dell’Elam, «bel nome vago» – aveva scritto Paul Valery – di cui sarebbe poi stato compito dell’archeologia rivelare l’importanza. L’Elam era una pianura che continuava verso Oriente quella di Babilonia e la sua popolazione era composta da montanari scesi dall’altopiano iranico e, in gran parte, da beduini venuti dalla Mesopotamia. Il regno elamita era strettamente collegato con l’Anshan o Anzan, che diventerà poi la terra di elezione dei Persian, l’attuale Fars, di cui Chiraz è la capitale.
SUSA
G
L’attuale località di Susa ha conservato l’antico nome anche nella odierna espressione Shush. I primi viaggiatori europei visitarono l’enorme agglomerato di collinette deserte, che dominavano il cenotafio del profeta Daniele, nei secoli XVIII e XIX. Dal 1884 al l’ingegnere 1886, Marcel Dieulafoy e la moglie, in condizioni rese difficili dal brigantaggio che dilagava nel Paese, esplorarono il palazzo del re di Persia, Dario. Ma soltanto nel 1897 il geologo Jacques de Morgan cominciò a interessarsi alle rovine elamite, cercando anche di scoprire possibili testimonianze sulle di “origini” questa civiltà. Il successore di Morgan, Roland de Mecquenem, estese le ricerche archeologiche all’intero complesso della reggia di Dario e in una vasta zona della città elamita. Più tardi, una prospezione aerea effettuata per cercare il petrolio portò alla scoperta, a trenta chilometri circa da Susa, della città reale di ChogaZambil, interamente esplorata, poi, da Roman Ghirshmann, appena terminata la Seconda Guerra Mondiale. Finalmente, dal 1968, la missione diretta da Jean Perrot ha cominciato a compiere scavi di controllo che sono serviti a precisare alcuni dati incerti. La pianura di Susa è bagnata dai fiumi che scendono dall’altopiano iranico. Fin dall’VIII millennio avanti Cristo, gli uo-
Viaggio nella capitale dell’antico regno distrutto dagli assiri nel 646 a.C. che fu la residenza dei sovrani persiani
Tra le rovine della terra di Elam di Rossella Fabiani
La decadenza cominciò alla fine del IV millennio: la città fu devastata e le colonie vennero abbandonate mini cominciarono a mettere a coltura la parte occidentale della pianura. Il resto del Paese fu poi progressivamente colonizzato e, verso la fine del V millennio, venne fondata una città, diventata poi il capoluogo di una regione agricola molto prospera. Questo insediamento viene indicato con il nome di Susa I. Si trattava, in realtà, di un complesso di molti villaggi, le cui splendide ceramiche, del tutto diverse da quelle contemporanee della Mesopotamia, rivelano le affinità culturali con le genti dell’altopiano. I vasi si trovano nelle tombe, accanto ad asce
di rame puro: la presenza di questi reperti rivela l’importanza del traffico del rame dall’altopiano alla pianura, che era priva di questo metallo. Dopo un certo tempo gli abitanti di Susa costruirono un’enorme terrazza di mattoni destinata a sopportare il peso del tempio del loro dio. Il progresso economico elamita non fu organizzato, come sembra, dallo Stato, come accadeva invece presso i Sumeri, ma da imprese private che dovevano amministrare ricchezze considerevoli all’interno di un reame che inglobava un insieme gerarchico di entità urbane:
metropoli, città, borghi, villaggi. Per queste ragioni nacque l’esigenza di una contabilità regolare, che portò all’elaborazione della scrittura. Gli abitanti di Susa si dedicarono anche ai viaggi per creare colonie commerciali, raggiungendo persino l’Egitto predinastico. La decadenza di questa brillante civiltà cominciò alla fine del IV millennio: Susa fu distrutta e le sue lontane colonie abbandonate. Ma, quasi immediatamente, la città fu ricostruita e passò sotto la dipendenza iranica. Questo fatto, lungi dal comportare un declino per il suo grado di ci-
vilizzazione, favorì la scrittura come pratica corrente e fu allora che si sviluppò un’arte diversa, con altri motivi ispiratori. Sui sigilli cilindrici, formati da piccoli tondi di pietra incisa, quest’arte, caratterizzata da uno straordinario senso del movimento, è illustrata con un’ispirazione legata al regno animale. Il mondo iranico, al quale apparteneva ormai Susa, era quello dell’altopiano meridionale: nel Fars fu fondata la città di Anshan, dove venne costruito anche un edificio per raccogliere gli archivi dei mercanti. Questa civiltà, detta protoelamitica, fu distrutta dalle genti della Mesopotamia e Susa fu nuovamente da queste colonizzata nel 2750 avanti Cristo. Susa, tuttavia, rimaneva la porta dell’altopiano, il crocevia dei mercanti, i quali soprattutto si occupavano del trasporto del metallo e delle pietre rare che mancavano ai popoli della pianura. Questo intenso traffico diede origine al rapido sviluppo di una ricca metallurgia
I primi viaggiatori europei visitarono le collinette deserte nei secoli XVIII e XIX. Ma l’interesse verso la civiltà fiorì nel 1897, su impulso di Morgan presso i nomadi delle vallate del Luristan, a nord di Susa. Inoltre, un’arte molto particolare, ispirata alla mitologia della montagna, sbocciò per opera dei tagliatori di vasi di serpentina dell’Iran orientale.
A Susa, questi vasi furono apprezzati e anche imitati. In seguito, alla fine del III millennio, i laboratori che lavoravano la serpentina e l’alabastro cominciarono a esportare i loro prodotti sia verso Susa e la Mesopotamia sia verso Oriente, dove li si trova fino nella Battriana, ossia nel nord dell’Afghanistan, insieme con oggetti di rame. I più preziosi e rappresentativi sono i sigilli smaltati che portano una croce, un’aquila o una figura mitologica. Questi sigilli devono essere stati diffusi dai mercanti nomadi nelle steppe del Caspio (il Turkmenistan ex sovietico) e anche alle porte della Cina, nella regione dell’Ordos. Insomma, essi indicano un itinerario coincidente, 2mila anni avanti Cristo, con la famosa Via della Seta. La fine di Susa, nel 646, avviene per mano di Assurbanipal. Il vincitore ci ha lasciato la terrificante descrizione della distruzione della città. Il regno elamita non sarebbe mai più risorto.
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QUANDO LA MOGLIE È IN VACANZA DDII BILLY WILDER
CINEMA CALDO
Colazione da Marilyn di Alessandro Boschi er qualcuno è semplicemente il migliore, il numero 1. Di solito, quando si chiede a un addetto ai lavori di indicare cinque registi tra i preferiti, sono due i nomi che non mancano mai: John Ford e Billy Wilder. Due registi straordinari e così distanti che più distanti non si potrebbe, accomunati da quell’afflato divino che ci trasmettono in ogni pellicola, anche nelle meno riuscite. A trovarne. Certo, non sempre ci si imbatte in Sentieri selvaggi o in A qualcuno piace caldo, ma la media di questi due, signori, sfiora sempre la super eccellenza.
P
Come nel caso dell’estivissimo Quando la moglie è in vacanza, film del 1955 tratto da una pièce teatrale di pochi anni prima del commediografo George Axelrod. Il film è una combinazione di erotismo e cinefilia (sissignori) come difficilmente se ne trovano. La storia è davvero semplice: il marito saluta figli e moglie che se ne vanno nel Maine per sopravvivere alla insopportabile calura della città.Torna a casa e scopre
dita vicina sia che non ci sia. Quando scopre che nella stessa località dove si trova sua moglie si trova anche un suo (di lei) vecchio amico, Sherman lo immagina bellissimo e aitante come un divo ovviamente di Hollywood. Non solo, ma anche la situazione attinge dal cinema. I due amanti sdraiati su di un carro che sembra senza guida rimanda a certe scene di Lubitsch, che peraltro non poco in comune aveva con Billy Wilder, compresa la stessa origine europea. Se invece appare una amica di Helen (la moglie del fedigrafo cinematografaro) egli si immagina una inquadratura alla Da qui all’eternità, diretto appena due anni prima da un altro amico di Wilder, Fred Zinnemann. Ma Sherman resiste, ne va dell’onore di un intero genere. Una delle sequenze più divertenti e significative è quella in cui i due vicini vanno insieme al cinema a vedere Il mostro della laguna
Il marito saluta figli e moglie che se ne vanno nel Maine, torna a casa e scopre che c’è una nuova avvenente vicina di casa. Trama irresistibile, che fa della pellicola una gemma della commedia hollywoodiana che la sua nuova vicina di casa è una bellissima ragazza procace, avvenente, sensualissima e (forse) ingenua. Di certo svampita. In una parola, Marilyin Monroe, e ho detto tutto, come avrebbe chiosato Peppino De Filippo alias Peppino Capponi in Totò Peppino e la Malafemmina. Quando ricapiterà un’occasione del genere? Campo libero e match ball sul piatto, difficile chiedere di meglio. Perché se c’è un tipo di vacanza che l’uomo predilige è proprio la vacanza che fa la moglie, meglio se insieme ai figli. Il protagonista Richard Sherman interpretato da Tom Ewell (che aveva ricoperto lo stesso ruolo anche a teatro) ha però un difetto: sogna e immagina, perché lavora nell’editoria e ha una mente in cui si sono sedimentati molti frammenti cinematografici. Così, dopo un primo momento in cui compie esattamente le azioni salutiste e le norme morali che si è imposto come bere solo latte, mangiare vegetariano e andare a letto presto, entra in una seconda molto più complicata fase. Siccome gli si presenta Marilyn, fantasia cinematografica e realtà al tempo stesso, si impone una scelta. Ma Sherman è un personaggio che non può infrangere certe regole e quindi, tornando a John Ford, stabiliamo che quando la realtà incontra il cinema, è sempre il cinema che vince. Tutte le fantasie del protagonista sono“cinematografiche”, sia che ci sia di mezzo la stor-
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nera. Questa visione, se da un lato provoca la compassione e la tenerezza della Monroe nei confronti del vicino solo, timido e mostruoso, dall’altra scatena (scatenerebbe) gli istinti più bassi di Sher-
man, che già si vede in pasto al pubblico ludibrio: un mostro lubrico e laido che si approfitta di una giovane donzella. Anche le fantasie, si sa, scatenano i sensi di colpa. Anzi. Così il povero traditore incompiuto si vede, sempre in maniera cinematografica, scoperto e ucciso dalla moglie che gli scarica addosso l’intero caricatore di una pistola. Il povero Sherman vede così se stesso cadere disteso, morente, proprio vicino a una botola. La quale, si scopre, è un passaggio che comunica con l’appartamento della vicina. Ora, il foro come metafora, è mostrato in maniera debole, appena accennata. Anche perché il film è del 1955 e con il codice Hynes non si poteva ancora scherzare. Anche per questo l’adulterio non avrà mai luogo, ci si dovrà “accontentare” di qualche piccolo accorgimento vagamente trasgressivo come il dito incastrato nel rubinetto e nella bottiglia.
Bei tempi quelli in cui si doveva fare di necessità virtù. Sydney Pollack sosteneva di divertirsi molto di più quando la censura era più rigida perché obbligava gli autori a inventarsi degli escamotage per sfuggire alle sue grinfie. Oggi chi farebbe un discorso del genere? Ma soprattutto, chi fa film come Billy Wilder? Risposte facile in entrambi i casi. Quando la moglie è in vacanza è un film talmente importante che a volte ci si dimentica che contiene, anche, alcune delle battute e delle scene più famose della storia del cinema. Come quelle della biancheria che quando è caldo si conserva in freezer. Quante volte ne avete sentito parlare, e magari, domanda non rivolta a tutti, quante volte l’avete sperimentato? O vogliamo parlare della scena in cui la gonna di Marilyn svolazza? Esiste un trucco più divertente, elegante, intelligente e garbato per far vedere le gambe di una bellissima donna? Senza nessun compiacimento e senza nessuna malizia. Pensate che il suo marito di allora, il celebre giocatore di baseball Joe Di Maggio, pretese che per girare la scena la mogliettina indossasse due paia di mutande. Non c’è dubbio che Billy Wilder sia stato il regista che più di chiunque altro abbia saputo tirare fuori il meglio da una attrice dotata ma complicata come la Monroe. A qualcuno piace caldo non a caso resta un film unico, forse la migliore commedia mai girata. Certo, molto lo si doveva anche a Jack Lemmon e Tony Curtis, ma anche Marilyn era l’ingrediente indispensabile di una ricetta irripetibile. Come disse suo marito Arthur Miller parlando del loro primo incontro: «Si materializzò sulla porta come l’ultimo dei pensieri, quello che non ti capita mai in testa, quello che quando arriva fa ”bang”, e per qualche minuto hai la mente vuota e non sai pensare ad altro».
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g e di cronach di Ferdinando Adornato
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Braccialetti miracolosi? Più che una truffa, un’illusione... In qualità di psicoloco, mi permetto di esprimere il mio parere sui braccialetti “miracolosi”che avrebbero il “potere”di ridurre lo stress, migliorare la concentrazione o aumentare le performance fisiche delle persone. Può un braccialetto risolvere tanti problemi? Un braccialetto può creare un effetto emozionale che ha lo stesso valore di un talismano, come nelle fiabe popolari. Concordo con il ministro della Salute Ferruccio Fazio sulla necessità di effettuare studi medici di sostegno prima di affermare l’esistenza di braccialetti dai poteri miracolosi. Si tratta di prodotti commerciali che rispondono a esigenze non razionali. Un’illusione! Vi ricordate Vanna Marchi e i suoi scioglipancia? Gli obesi preferivano lei ai dietologi. C’è da chiedersi quanto sia potente un messaggio pubblicitario capace di convincere numerose persone a fidarsi del potere di “bilanciamento”di un braccialetto che non obbedisce ad alcuna legge o attività scientifica accertata.
Stefano Benemeglio
L’IMMIGRAZIONE CHE CI PIACE L’immigrazione che ci piace e che vogliamo nei nostri territori è quella dei lavoratori stranieri che lavorano onestamente e sanno dare un contributo importante all’economia. E in Italia le imprese con titolari o soci stranieri sono il 10,99 per cento del totale. È il segnale di un’integrazione che funziona e che non passa solo attraverso la lingua e le tradizioni, ma anche il radicamento nel sistema economico locale, dove le imprese artigiane costituiscono una risorsa strategica. Il lavoro e la legalità devono essere due punti fermi per chi arriva nei nostri territori, e innescare un processo virtuoso che integri in modo sano gli immigrati nel tessuto economico e produttivo del Veneto.
Ellezeta
ARRIVA LA “GUSTOSOFIA” Secondo molti esperti, gli italiani neppure durante le ferie riescono a godersi il meritato riposo e sono vittime, già dalla partenza, di ansia, litigi e insoddisfazione perenne. Ecco le regole della “Gustosofia”, lo stile di vita che insegna ad assaporare al meglio ogni momento della vacanza. Seguendo le piccole ricette degli esperti della Gustosofia (la filosofia del gustarsi la vacanza con più gusto), un mix tra neo nichilismo, buddismo zen e consigli dei nonni, questa estate ci si può regalare un gu-
sto in più alla propria vacanza. In poche parole basta uscire dalla routine lavorativa grazie alla fantasia e alla capacità di stupirsi, e vivere la vacanza con maggiore semplicità, all’imparare a seguire il proprio istinto, senza curarsi troppo di ciò che gli altri pensano di noi, “fuggendo” dal divertimento preconfezionato: ecco alcune delle regole, che vanno applicate in ogni momento e situazione della giornata al mare o ai monti.
Carla Mazzariello
QUESTO È IL GOVERNO DI BOSSI E BERLUSCONI Il voto su Caliendo ha testimoniato che la maggioranza c’è, ed è garantita dall’alleanza fra Bossi e Berlusconi e nei prossimi mesi saprà realizzare le riforme di cui il Paese ha bisogno, a partire dal federalismo, del quale il terzo decreto applicativo è passato in Consiglio dei ministri. Quello espresso dal Parlamento è un voto che può rilanciare la tenuta della maggioranza, che ha saputo mettere in campo misure concrete per il Paese. Sono sicura che il governo saprà dimostrare anche nei prossimi mesi la linea del “fare” che lo ha contraddistinto in questi due anni. E saprà portare avanti le riforme. Il via libera al federalismo municipale è stato un ulteriore passo in avanti in direzione dell’autonomia dei territori.
Patrizia Fiori
L’IMMAGINE
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LE VERITÀ NASCOSTE
È in arrivo il chewing gum che non si attacca BRISTOL. Uno dei grossi fastidi dei chewing gum è dato dai maleducati che, dopo averlo masticato, lo incollano su tavoli o sedie, oppure lo gettano per terra con il risultato che prima o poi qualche malcapitato si ritrova con il chewing gum attaccato alle scarpe. Un’esperienza che almeno una volta nella vita è capitata a tutti, e si sa quanto possa essere difficile poi staccare la gomma. Ma è un problema anche per le casse pubbliche, dato che solo in Italia pulire le strade dai chewing gum costerebbe attorno ai 900 milioni di euro all’anno. Il problema potrebbe essere però risolto da un’invenzione dell’Università di Bristol, che ha sostituito il lattice sintetico tradizionalmente usato (lento nella decomposizione e molto adesivo), con un nuovo polimero, che rende le gomme da masticare meno collose e facilmente rimuovibili con l’acqua. Dopo diversi mesi di test, le nuove gomme da masticare hanno avuto l’autorizzazione alla commercializzazione negli Stati Uniti, e presto dovrebbe arrivare anche quella per i mercati europei: i marciapiedi butterati e le scarpe appiccicaticce potrebbero essere presto un ricordo….
I FUTURI MOSTRI DELLA STORIA La luce di mille soli brillò su Hiroshima e Nagasaki: a 65 anni dalla vaporizzazione delle due città giapponesi, torna l’incubo dell’olocausto termonucleare. A 16 mesi dal disastroso terremoto dell’Aquila del 6 aprile 2009, occorre riflettere sulla storia della bomba e sul futuro dell’umanità. Solo la conoscenza del pericolo può aiutarci a scongiurare l’apocalisse. Grazie anche agli spettacolari film del famoso regista Peter Kuran. In esclusiva i grandi documentari sullo sviluppo e l’uso dell’arma nucleare nel mondo. Quando l’Unione Sovietica sganciò la bomba Tsar Fine del Mondo, la più potente mai costruita, 3.800 volte più distruttiva della testata nucleare di Hiroshima: il 30 ottobre 1961 l’onda d’urto fece il giro della Terra tre volte, lo shock termico colpì a 270 km dall’epicentro, lo shock sismico risultò misurabile al terzo giro del globo. Le detonazioni su Hiroshima e Nagasaki, furono la seconda e terza nella storia delle armi nucleari. La conoscenza è la nostra unica arma di difesa contro i futuri mostri della storia.
Nicola Facciolini
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Per favore, niente risse Dispettoso come una scimmia, si dice, ma a volte a sproposito: alcuni primati sudamericani farebbero di tutto pur di mantenere la pace all’interno del gruppo. Il cebo dai cornetti, per mettere pace tra i suoi compagni, utilizza uno strumento efficacissimo: il grooming, cioè la spulciatina che distende gli animi ed evita le successive zuffe sul cibo
La Consulta dei sindaci del Lazio meridionale invita i comuni del cassinate ad aprire uno sportello di Equitalia presso il proprio comune. Oltre alla gestione di problemi relativi alle previsioni di bilancio, ai dissesti statici delle vie, alle frane sul territorio, alle perdite di acqua, ai rifiuti, alle aree verdi, al territorio, all’ambiente, non sembra così necessario, per risolvere il problema dei tributi, agevolare l’apertura di sportelli di una società privata, il cui compito precipuo è quello di inviare cartelle esattoriali, spesso esose, ai cittadini.
Patrizia e Domenico
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Usa. Per l’azienda si apre un affare pubblicitario da 70 miliardi di dollari e un bacino di utenti in grado di spedire in pensione i principali broadcaster del pianeta
Google accende la Tv Il colosso di Mountain View si lancia sul mercato televisivo. In Europa sbarcherà nel 2011. E Hollywood trema di Luisa Arezzo l pulsante di accensione sarà pigiato soltanto alla fine dell’anno a San Francisco, ma già - nel settore televisivo - non si parla d’altro. Google è pronta a lanciare sul mercato la sua Tv (il nome è top secret, ma alcuni rumors dicono che si chiamerà Dragopoint) mentre da Mountain View - storica sede del colosso, finita la scorsa settimana nell’occhio del ciclone per il suo accordo con Verizon per regolare il traffico su internet - emergono i primi partico-
I
lari. Tanto per cominciare non stiamo parlando del normale elettrodomestico che siamo abituati a vedere, ma di un oggetto di nuova concezione che servirà a visualizzare sullo schermo della nostra televisione i contenuti che siamo solitamente abituati a vedere sui monitor del computer: Youtube e social network in primis. E dunque, dopo aver rivoluzionato la maniera in cui le persone possono accedere alle informazioni, Google vuol fare altrettanto con l’intrattenimento: affrancandolo dalle emittenti televisive convenzionali, mandando in pensione la vecchia idea di palinsesto e consentendo ad ognuno di scaricare i programmi direttamente dalla rete quando vuole e come vuole.
Tutto quel che occorrerà sarà un televisore dotato del software necessario per connettersi a internet e una tastiera per immettere i comandi, sebbene il sistema possa essere controllato anche attraverso un cellulare. «Vogliamo essere ovunque ci sia
Internet», dicono dal quartier generale di San Francisco, alzando il velo sul nuovo gioiello che permette di navigare online e surfare tra i canali contemporaneamente. Google Tv, marchiata Sony, porterà il Web sui televisori sfruttando il sistema operativo Android e basandosi sui processori Atom di Intel. I telecomandi, le tastiere wireless e gli altoparlanti saranno forniti dalla Logitech. «L’idea è di cambiare l’esperienza della tv così come gli smartphone hanno cambiato i cellulari», dice Rishi Chandra, capo degli ingegneri di Google che hanno realizzato un box da abbinare al televisore in un primo tempo e, in futuro, da inserire direttamente dentro l’apparecchio. L’obiettivo di Google è di sbancare il mercato un po’ in calo delle vendite di televisori, ormai detronizzato da quello dei pc.
Negli Stati Uniti, per esempio dove verrà lanciato il servizio - il numero degli abbonati alle tv via cavo è decisamente calato negli ultimi cinque anni, mentre le persone trascorrono la maggior parte del tempo libero davanti al computer e guardano i film via streaming. Lo scopo di Google è ovviamente anche quello di conquistare una larghissima fetta
A fianco, Eric Schmidt, Ceo di Google; a sinistra, la tastiera wireless di Logitech e sotto (foto grande) la tivù Hd di Sony. A destra: Bruno Pellegrini
In vendita a fine anno, offrirà la possibilità di registrare programmi, commentarli in chat, ascoltare le stazioni radio online e collegarsi a Youtube, mandando così in soffitta il palinsesto
del mercato pubblicitario e di strappare il primato nella vendita di televisori alle coreane Samsung e LG. Il progetto non manca di suscitare preoccupazione a Hollywood, che teme l’assalto di Silicon Valley e la perdita del mercato degli abbonamenti via cavo, del valore di 70 milioni di dollari al mese; inoltre, Google si sarebbe rifiutata di bloccare l’accesso ai prodotti “pirata”disponibili in rete. La Google tv, in vendita a fine anno, nelle intenzioni
del Ceo Eric Schmidt offrirà la possibilità di registrare programmi e commentarli in chat, ascoltare le stazioni radio online e interagire in diretta, mandando così in pensione il concetto di palinsesto e dando vita al matrimonio definitivo tra Web e piccolo schermo. Un matrimonio difficile, già tentato da Microsoft e Apple. Il marchio di Steve Jobs ha lanciato negli anni scorsi la Apple Tv, che propone film, musica, radio e filmati YouTube, ma che non ha mai riscosso un grande successo. Ora ci prova la “Grande G”.
La vera incognita è quando tutto questo funzionerà a pieno regime. Durante la prima presentazione di due mesi fa, per intenderci, ci sono stati parecchi problemi tecnici software e hardware, ma a un certo punto è stato chiesto ai presenti di spegnere tutti i cellulari per evitare interferenze al bluetooth integrato. Dare pieno accesso al web, anche a siti non ottimizzati, è un
rischio per le prestazioni. Non è un caso, dunque, che Google abbia annunciato il mese scprso una joint venture con la start up Spectrum Bridge. Questa super innovativa azienda fondata nel 2007 in Florida lavora, in completa sintonia con il suo motto Everyone should be connected, sulle frequenze analogiche la-
sciate libere dal digital switchover delle televisioni americane che si sono trasferite dall’analogico al digitale.
Questo spettro di frequenze è ora molto ampio e gratuito. Ed ecco l’opportunità e l’efficacia del servizio che Spectrum Bridge offre: connessione wireless per tutti, una Tv wireless, ed ora, grazie alla partership con Google, i primi devices dedicati alle smart grids per la gestione integrata dei dati e la loro trasmissione. Insomma, un passo avanti epocale nell’evoluzione verso la Smart Tv. Le televisioni stanno infatti diventando dei dispositivi sempre più avanzati grazie ai microprocessore e a Internet. Perché, come dice Paul Otellini, numero uno di Intel: «Il futuro è la fusione della tradizionale programmazione televisiva con la massa infinita di contenuti di Internet per consentire a chiunque di decidere ciò che vuole vedere, quando vuole».
mondo
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I timori di Bruno Pellegrini, fondatore di TheBlogTv
«La multinazionale del web è inevitabile» di Giovanni Radini un ottimo stimolo per il mondo televisivo, per la creazione di nuovi prodotti e di nuovi contenuti». Bruno Pellegrini saluta così la nascita di Google Tv, un passo avanti non solo per internet, ma per l’intero mondo della comunicazione. Pellegrini è stato l’ideatore di Nessuno Tv, uno dei primi canali televisivi online in Italia. Oggi è amministratore delegato di TheBlogTV, media company da lui fondata nel 2006 specializzata in user generated production. «Era inevitabile che il web cominciasse a fare concorrenza alla televisione usandone gli stessi strumenti». Dottor Pellegrini, qual è la forza di Google Tv? Il fatto di essere una multinazionale del web? Esattamente. Il progetto che si sta realizzando segue il sogno di tanti operatori della rete. La stessa Nessuno Tv aveva avuto, nel suo piccolo, la stessa intuizione. Fare televisione attraverso internet è stato possibile grazie all’immensa libertà offerta dalla rete. Innovazione tecnologica e creatività sono progrediti di pari passo. Quello che cambia, ovviamente, sta nelle misure del progetto. Google è una potenza e saprà dare filo da torcere ai colossi televisivi sia negli Usa sia in Europa. In che modo? Attraverso la pubblicità. Penso che sia quello il campo dove si giocherà la partita. Al di là delle possibilità delle nuove idee che, in termini di argomenti trattati, sicuramente Google saprà offrire, il giro d’affari pubblicitario farà la vera differenza. Gli operatori del comparto sperano che muovendosi Google si trasformi tutto il sistema televisivo mondiale. Il desiderio è quello di offrire a chi si connette e a chi, in maniera più tradizionale, preferisce seguire la televisione, una gamma di prodotti di alta qualità, nati dalla libera e trasparente competizione. I canali televisivi via cavo rischiano di pagare le conseguenze di questa iniziativa... Se non sapranno adeguarsi alla concorrenza del web questo sarà inevitabile. Ma si tratta di un fenomeno spontaneo che avviene in ogni settore dell’economia. La nostra paura non è il mercato, bensì le pressioni esterne che potrebbero impropriamente ostacolare l’innovazione e la creatività. Per esempio? Per esempio per colpa di quei gruppi di influenza capaci di strumentalizzare il mondo politico e limitare la concorrenza. Nel momento in cui un cosiddetto “potere forte” si sente attaccato da una realtà nuova ma capace di scalzarlo, decide di agire non sul merca-
«È
I principali servizi che hanno monopolizzato gli utenti
Big G è ovunque: ecco la sua top ten YouTube Ha circa 350 milioni di utenti mensili e offre contenuti video di tutti i tipi, anche film, serie tv, oltre a clip create da semplici utenti. Google News. Nato nel 2002 raccoglie link ad articoli che appaiono su siti di notizie, di 40 Paesi in 19 lingue. Sono ordinati per data, popolarità e interessi degli utenti. Google Music. È uno degli ultimi potenziamenti del motore di ricerca. Da novembre, se si cerca un gruppo, un album o una canzone, il motore mostra anche un link per ascoltare quella musica e comprarla, tramite siti partner (MySpace, Imeem, Lala, Rhapsody, Pandora etc...). Google Libri. Ha digitalizzato e messo on line 10 milioni di libri. L’utente può sfogliarli in tutto o in parte, a seconda dei casi. L’obiettivo è di arrivare a 15 milioni. Chrome. Nel 2008 Google ha lanciato Chrome, un browser, in concorrenza a Explorer e Firefox. A fine novembre 2009 ha lanciato il proprio sistema operativo, Chrome Os, contro Windows di Microsoft e altri sistemi. Android. Google ha promosso la nascita di Android, sistema open source utilizzato soprattutto su cellulari (Htc, Motorola, Samsung, Sony Ericsson). È fatto per navigare ed è diventato il primo sistema utilizzato dai
cellulari (superando Windows Mobile e Symbian di Nokia). Mappe. Le Google Maps mostrano mappe satellitari del pianeta, fotografie delle strade, immagini della Luna, di Marte e dei fondali marini. Da qualche mese offrono anche per un servizio di navigazione Gps gratuito su cellulari Android. Gmail. La posta Gmail, nata nel 2004, è uno dei primi esempi con cui Google ha alterato gli equilibri del Web. Ha offerto infatti una casella gratis da 1 Gb, molto più capiente rispetto alla concorrenza. Adesso la capienza è 7 Gb e la mail include anche chat, agenda e integrazione con i blog. Google Voice. Il servizio con cui Google fa incursione nel mondo della telefonia: offre un numero unico per tutti i tipi di telefonate (fisse e mobili), via Internet (Voip). Funziona per ora solo negli Usa, dove ha migliaia di utenti. Google Translate. Servizio Web che traduce simultaneamente pagine web o documenti in 57 lingue: dal lettone al persiano, dall’urdu al creolo, oltre alle più famose: inglese, spagnolo, cinese e hindi. Google Apps. Nato nel 2006, è un servizio basato sul Web e concorrente a molte suite per ufficio, come i programmi Office di Microsoft. È gratuito, con una versione più ricca a pagamento.
“
to bensì in ambito politico, affinché le istituzioni si adoperino in suo favore. Nella fattispecie possiamo immaginare leggi che imbriglino il mercato, lo rallentino nella sua attività e ne limitino la creatività. Inseriamo il caso di Google Tv in Italia. Il nostro Paese, nel campo dell’IT, è sensibilmente arretrato. Il mondo televisivo è ancora predominante. Questo è dovuto a un uso improprio o comunque non completo che si fa del web. Non ne vengono sfruttate pienamente le potenzialità, sia da un punto di vista culturale sia in termini commerciali. Inoltre il sistema giuridico non gioca a nostro favore. Anzi. Il Decreto Romani per esempio, che sostanzialmente limita la pubblicazione di video online, impedisce la libera creatività che si può ottenere da internet e agisce in favore proprio delle televisioni via cavo. La speranza, a questo punto, è che con l’ingresso di un colosso come Google anche il nostro Paese sia costretto ad adeguarsi e a mutare direzione in favore delle televisioni online. Non è tutto oro quello che luccica però. Google infatti, in contemporanea alla strada della televisione, si sta impegnando con la compagnia telefonica Usa Verizon, per costruire una cornice legale attorno ai metodi di trasmissione dei dati su internet. Come giudica questo paradosso? Come un pericolo per tutta la rete. Finora la grandezza di internet e di quello che ne è nato è stata il risultato di un’infinita libertà di accesso, creazione e comunicazione. Siamo arrivati dove siamo attualmente e potremmo andare ancora oltre proprio grazie alla libertà. Se il Congresso Usa appoggiasse questo disegno di legge, verrebbe introdotto un sistema di disuguaglianza tra i surfer del web che si possono permettere di accedere ad alcuni siti a pagamento e altri, invece, di serie b. A questo proposito mi vengono in mente due precedenti. Uno, specifico del settore, l’acquisizione da parte del provider America on line, meglio noto come Aol, della Time Warner, colosso cinematografico ed editoriale di Hollywood, nel 2000. A due anni dalla fusione Aol Time Warner ha riportato una perdita di 99 miliardi di dollari. Segno che i tentativi di controllo del mercato non sempre vanno a buon fine. Il secondo esempio è invece tutto nazionale: la privatizzazione della rete autostradale italiana avrebbe dovuto creare concorrenza. Non mi pare che sia successo. La base morale e concreta di internet risiede nella sua assoluta libertà. È per questo che è in lizza per il Premio Nobel per la pace. Una legislazione ne comprometterebbe la sua stessa identità.
L’Italia non è pronta a vivere questa rivoluzione, perché molto arretrata nel campo dell’Information technology
”
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l’approfondimento
La Cina ha sorpassato il Giappone e “punta” gli Stati Uniti. Vediamo come cambiano gli scenari economici e sociali
2020, il mondo diventa cinese L’economia vola ma i conflitti sono dietro l’angolo. Niente welfare, le pensioni non esistono, la sanità è costosa. Contro l’incertezza del futuro, c’è solo il risparmio, favorito dalla mancanza di democrazia. Ma quanto durerà? di Gianfranco Polillo il day after. All’indomani della conquista cinese del secondo posto nel firmamento dei Grandi, iniziano le domande. Si fermeranno o non punteranno ancora più in alto per scalzare dal podio gli Stati Uniti? Le analisi convergono verso un’ipotesi affermativa. Si diverge solo sui tempi. C’è chi – Priceswaterhousecoopers – pensa al 2020; altri – Goldman Sachs – al 2030 o giù di lì. Insomma un’inarrestabile marcia che fa impallidire quella di Mao Tse Tung nella sua corsa solitaria verso la conquista del potere contro i nazionalisti di Chiang kai-shek.
È
Previsioni attendibili? Prudenza vuole sia meglio non fidarsi troppo degli andamenti lineari. Il mondo è zeppo di incognite. Quel che oggi sembra se non certo, almeno probabile, domani può essere facilmente smentito. Del resto basta un nonnulla per invertire tenden-
ze consolidate e mandare al macero certezze ben più solide. Meglio allora riflettere sulle contraddizioni che le cifre del Pil non riescono a nascondere. È tutto oro quello che brilla nell’orizzonte cinese? Veramente l’expo di Shanghai è l’immagine più veritiera della Cina che sarà, nel mondo globalizzato dei nostri giorni? I dubbi sono tanti. Appena mitigati dai risultati conseguiti. Che non sono ipotesi di scuola, ma dati tangibili di una realtà straordinaria, se solo si pensa che dal 1978 ad oggi l’economia di quel Paese è cresciuta di 90 volte. Ad un ritmo di quasi tre volte all’anno. Un primato, tuttavia, che sarà difficile mantenere.
La regola è sempre la stessa da un numero infinito di anni. Durante l’accumulazione primitiva – sia essa capitalista o socialista – il Pil cresce ad un ritmo impressionante. Furono questi calcoli a spingere un economista del calibro di Mau-
rice Dobb ad azzardare la l’ipotesi di una superiorità storica del comunismo di Stalin nei confronti dell’economia di mercato. Passarono gli anni e si vide come finì. Ma la stessa cosa capitò all’Italia nell’immediato dopoguerra: tassi di crescita senza precedenti e una stabilità finanziaria a prova di bomba. Poi fu lo sviluppo stesso a far nascere le prime contraddizioni. L’assottigliarsi dell’esercito di riserva, rappresentato dai
È la casa la prima preoccupazione delle famiglie. Ma i prezzi sono proibitivi
contadini che abbandonavano la loro terra, introdusse elementi di rigidità nel mercato del lavoro. La nascente forza del sindacato fece il resto: impose una diversa redistribuzione della ricchezza. Pose vincoli all’uso delle risorse. Iniziò, in altri termini, quella faticosa costruzione degli istituti democratici che ancora oggi sono il vanto dell’economia sociale di mercato, ma che, in qualche modo, hanno condizionato il
ritmo di crescita del sistema economico. La Cina, almeno nel breve periodo, non sembra correre questi rischi. Il dispotismo del suo sistema politico è in grado – ma per quanto tempo ancora? – di frenare la diffusione della ricchezza prodotta. L’esercito di riserva delle più ancora lontane province, sprofondate in una surreale dimensione semi-feudale, è in grado di ridurre la forza degli occupati. Le grandi ingiustizie sociali, che sono tipiche di questa fase storica, non trovano correttivi nella rappresentanza diffusa degli interessi. E chi si oppone, viene emarginato. Ancora oggi, a distanza di anni, i responsabili dei massacri, come quello di Tienammen, non solo non sono stati perseguiti. Ma non è nemmeno dato di conoscere il numero dei morti.
Non sarà quindi la normale “lotta di classe”a far progredire la Cina sul terreno dei diritti. Probabilmente saranno altre le
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Il generale Fabio Mini analizza la geopolitica futura e gli inevitabili conflitti tra superpotenze
La strategia di Pechino, sulle orme di Gengis Khan
«Una poderosa offensiva finanziaria, affiancata dall’azione diplomatica e dalla cooperazione militare. Senza pestare troppo i piedi a Washington» di Pierre Chiartano rima di parlare di sorpasso servirebbe una riflessione sui parametri economici. Ora sembra che Pechino abbia superato il Giappone, come dati di produzione. E sia cominciata la corsa d’avvicinamento agli Usa. Ma la Cina è un posto molto grande, dove tutto è relativo». Secondo il generale Fabio Mini, esperto di geostrategia, «Pechino vorrebbe giocare un doppio ruolo: farsi considerare una potenza economica e allo stesso tempo godere dello status di Paese in via di sviluppo. Una condizione che da molti vantaggi. Ciò che pochi colgono in questi frangenti è che la Cina sta attraversando un grande momento di euforia popolare. L’antagonismo interno si è affievolito notevolmente. La dissidenza è molto evidenziata dai media occidentali. Ci sono ottocento milioni di persone che non sono assolutamente ricchi, ma stanno certo meglio di come stavano pochi anni fa». Il generale suggerisce come un fenomeno del genere sia in grado di produrre molto più consenso di quanto le forti tensioni sociali possano, al momento, provocare problemi al regime comunista: «Essere diventati la seconda potenza economica è per loro uno stimolo e un premio alla leadership. Molti affermano che uno sviluppo simile non può continuare all’infinito – e sono trent’anni che lo sento dire – e la leadership cinese si sta orientando verso questo modello di sviluppo, vedendo che funziona e crea consenso. Da un punto di vista assoluto sono numeri importanti, da quello relativo sta puntellando il regime. Ci sono delle ribellioni e anche degli scioperi. Ma se guardiamo bene sono stati fatti in fabbriche giapponesi».
«P
Mini dunque suggerisce una matrice nazionalista degli scioperi. «Anche i giapponesi hanno riflettuto su questi avvenimenti. Sono state delle iniautonome, ziative non dei sindacati ufficiali, che comunque non li hanno ostacolati. Hanno voluto lanciare un segnale, con la volontà pedagogica che contraddistingue i cinesi.Volevano insegnare ai giapponesi che non potevano venire in Cina
per speculare impunemente sui bassi salari e sfruttare la manodopera. Lo hanno già fatto abbondantemente durante la seconda guerra mondiale.Vogliono insegnare al mondo che se le pratiche di lavoro sono corrette, l’operaio cinese lavora bene, altrimenti scatta la reazione. Dopo lo sciopero i salari in quelle strutture industriali sono aumentati del 50 per cento. Un tendenza che si sta estendendo un po’a tutti i settori e Pechino sta puntando molto sulla crescita del mer-
«Molti affermano che lo sviluppo non può continuare all’infinito. Ma sono 30 anni che lo sento dire» cato interno, piuttosto che pensare a costruire un predominio militare» con le forze armate che comunque stanno crescendo, spiega poi Mini.
«Pechino si tiene fuori da tutte le grandi crisi internazionali, perché non possiede gli strumenti politici, essendo ancora fuori dai quadri del potere mondiale. Da punto di vista strategico gli americani puntano molto sul discorso del dominio dei mari. Specialmente del Pacifico» spiega il generale. In pratica per Washington è essenziale mantenere il controllo delle vie oceaniche per continuare a garantire i liberi i commerci. «In realtà il mare per la Cina è il Sinkjiiang, la Mongolia interna. Loro si stanno muovendo anche con la potenza militare usando le vie di terra. Tramite la Sco, l’organizzazione di Shangai, si sono mossi seguendo le orme di Gengis Khan. Coinvolgendo gli Stati dell’Asia centrale si sono molto avvicinati alla politica, non di conquista, ma di influenza economico-militare del grande condottiero mongolo. E si è avvicinata alla Russia, dove è Pechino ad aver gli strumenti per essere influente». Per ciò
che riguarda l’aspetto militare la Cina prima o poi capirà che non potrà più continuare con la politica di non-intervento. Quindi è consapevole che debba dotarsi di forze armate più moderne, senza però dare troppa corda ai militari. Nel governo cinese è in atto una specie di lotta tra chi vede di più il pericolo esterno di quello interno. Fuori dai confini guardano i vecchi conservatori radicali. Per loro l’obiettivo non è solo il Pacifico, ma il controllo di tutte le rotte vitali per l’economia cinese. La marina cinese si sta muovendo benissimo. Gli obiettivi sono stati spostati da nord, verso la vecchia Unione sovietica, sia a sud, contro Taiwan che a est, verso Giappone e la Corea del sud. Nel caso Washington dovesse affiancare Seul, Pechino scenderebbe in campo a fianco dei nordcoreani con la deterrenza».
Anche il Medioriente è un obiettivo, ma viene conquistato con dei mezzi peculiari. «Pechino usa tutti gli strumenti di proiezione di potenza in equilibrio fra loro. Quando parliamo di politica economica cinese dobbiamo intendere l’economia e il commercio, affiancati dall’azione diplomatica e da quella di cooperazione militare. La Cina è diventato il maggior competitor del Fondo monetario internazionale e della World Bank». Pechino non ingerisce nella politica, non chiede certificati di trasparenza e di democraticità, non chiede tassi esosi e spesso si fa pagare in materie prime. E dove arrivano i cinesi, inglesi e americani stanno al palo. Ma la vera domanda è quando gli interessi di Pechino e Washington confliggeranno in maniera non più gestibile. Quando la Cina si sentirà pronta al confronto muscolare. «In termini di tempo non è possibile fare una valutazione seria. Perché avvenga una sfida diretta bisognerà aspettare che la Cina si trovi ad un livello non più incrementabile di crescita e miglioramento di qualità della vita. Quando la felicità del popolo celeste sarà saturata e cominceranno i problemi interni. Allora potrebbe esserci un tentativo di farla implodere da parte degli Usa. È uno scenario di medio periodo. Ha un presupposto: che gli Usa riescano a riprendere l’egemonia economica e militare mondiale. Allora Pechino potrebbe scegliere di fare da puntello agli Usa, e molti cinesi sosterrebbero questa politica. Se invece ci fosse un’altra grande crisi globale che coinvolgesse la Cina la situazione cambierebbe. E a qualcuno potrebbe venire in mente di mettere il guinzaglio al Chung Kuò.
contraddizioni che esploderanno prima. Il dato di fondo è l’eccesso di risparmio. Le famiglie cinesi ne risparmiano in media – i dati sono del 2009 – il 52 per cento. I consumi sono contenuti, pari ad appena il 35 per cento. Tutto il resto va in investimenti: a partire dall’immobiliare. È la casa la prima preoccupazione delle famiglie. Ma i prezzi sono proibitivi. Triplicati negli ultimi anni. Un piccolo appartamento a Shanghai costa 200 mila dollari, contro un reddito medio di 4 mila all’anno. I terreni edificabili vicino a Pechino sono cresciuti di prezzo con percentuali da capogiro: del 750 per cento a partire dal 2003. Sono i sintomi di una bolla speculativa che cova, alimentata da un sistema finanziario che ha caratteristiche analoghe a quello che ha preceduto il fallimento della Lehman Brothers. I dirigenti cinesi ne sono, al tempo stesso, consapevoli ed impotenti. È difficile governare un treno che corre ben oltre la velocità consentitegli dalle vetuste traversine, senza farlo deragliare. Comunque finora il sistema non solo ha resistito, ma ha macinato i record che conosciamo. Un miracolo.
Uno Stato che fa molto per il Paese, ma ben poco per le famiglie. È questa la novità sia rispetto ai modelli dell’Occidente sia della vecchia Russia sovietica. Nel primo caso – dai tempi di Bismarck in poi – lo Stato era soprattutto assistenza, redistribuzione di ricchezza attraverso un sistema fiscale più o meno progressivo. In Russia l’obiettivo era la piena occupazione. Che poi quest’ultima fosse anche produttiva era questione secondaria. Dove si poteva lavorare in tre era meglio assumere dieci lavoratori e ripartire tra più persone lo scarso valore aggiunto che si otteneva. In Cina, invece, i ritmi sono elevati. Basta vedere a come si lavora nelle comunità trapiantate in Occidente. Giornate senza fine, spazi angusti, ritmi forsennati. Guadagnano molto di più di quanto hanno voglia di spendere. Ma non lo fanno per rimanere sobri. Vi sono invece costretti. Lì il welfare non si sa nemmeno cosa sia. Le pensioni non esistono. La sanità è costosa. Ed allora ecco che è necessario risparmiare per far fronte alle incertezze della vita. Così la mancanza di democrazia si salda con un costume di vita che questa mancanza ha interiorizzato. Durerà? È difficile rispondere: nel frattempo lo Stato organizza i fattori della produzione, costruisce le infrastrutture che diverranno patrimonio collettivo. La ricchezza non è distribuita, ma è lo Stato che l’accumula e l’investe. Non ci sono le pensioni, ma ponti, strade e ferrovie. Un modo di vivere che in Occidente sarebbe inconcepibile, ma che in Oriente fin’ora ha funzionato. Domani si vedrà.
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Petrolio. Per evitare un tracollo improvviso si diversificano gli investimenti ue anni fa, quanto il prezzo del petrolio raggiunse i 150 dollari al barile, si era pensato che il mercato degli idrocarburi stesse attraversando la peggiore crisi della sua storia, più grave di quelle vissute negli anni Settanta. In realtà le fluttuazioni del valore di vendita dell’oro nero nel 2008 si sono dimostrate legate a filo doppio a una serie di speculazioni che, una volta iniziata la crisi finanziaria globale, sono crollate come castelli di carte e con esse il prezzo del petrolio. Quest’anno il settore è stato messo a dura prova dalla marea nera che ha inquinato le acque del golfo del Messico. L’avvenimento avrà le sue pesanti ripercussioni sulla British Petroleum e sulle altre società ritenute responsabili del disastro ambientale. L’ammontare complessivo del risarcimento dei danni è di circa 20 miliardi di dollari. Nel frattempo si sono consumati altri casi simili, seppure di dimensioni ridotte, nel mar della Cina e in India. In Russia, infine, gli incendi hanno rischiato di compromettere gli oleodotti e gasdotti presenti nel Paese. L’inefficienza dei sistemi di sicurezza e la superficialità nei controlli stanno provocando una crisi nel mercato degli idrocarburi più grave di quelle speculazioni finanziarie di due anni fa. Gli osservatori sono concordi nel sostenere che, dopo il caso Bp, il comparto non sarà mai più come prima. Spaventate dall’esempio della compagnia britannica, si pensa che le cosiddette big oil subiranno una trasformazione di identità e di tipologia dei prodotti offerti. A rinforzare questa tesi, si aggiunge l’intenzione dell’Amministrazione Obama di avviare una rivoluzione del settore energetico degli Stati Uniti. La realizzazione di nuovi impianti nucleari, eolici e solari è tornata alla ribalta sulle pagine dei giornali e nelle riflessioni dell’establishment di Washington, così come in alcuni Paesi d’Europa.
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Tuttavia, è necessario sfatare alcuni miti legati al petrolio e alla possibilità di rinunciarvi in tempi relativamente brevi. Prima di tutto l’affaire Bp. La società britannica non può essere considerata sulla base dello stereotipo del “petroliere-cowboy”, proprietario di immense concessioni in tutto il mondo, dove i suoi pozzi continuano a estrarre oro nero a unico beneficio del titolare. La Bp è una multinazionale quotata su più mercati,
La Marea Nera cambia le Big Oil Company Bp, Exxon Mobil, Shell e Total: dopo il disastro tutte corrono ai ripari di Antonio Picasso mi di tanti elettori del Presidente Usa, i quali - proprio a novembre, in occasione delle mid term election - potrebbero ricordarsi di come sta per essere liquidato il problema.
con un fatturato annuo di quasi 400 miliardi di dollari e 92mila dipendenti. Quando Obama pensa che il colosso di Londra dovrà pagare i danni, costi quel che costi, anche l’eventuale chiusura della società, prende una posizione squisitamente populistica. È impossibile che la Casa Bianca non si renda conto che il fallimento della Bp avrebbe delle ripercussioni a livello micro sociale, sia in Gran Bretagna sia negli stessi Usa. Il maggior numero di titolari delle azioni Bp tra il 5 e il 10 per cento - ma soprattutto delle sue obbligazioni, è composto da piccoli risparmiatori e pensionati della classe media di entrambe le sponde dell’Atlantico. Il 36% delle entrate è generato su suolo statunitense. La bancarotta della compagnia inglese fiaccherebbe i rispar-
La strategia migliore per cautelarsi? Acquistare compagnie leader in altri settori non legati all’oro nero
Come secondo elemento vanno calcolati gli spazi di manovra a disposizione delle società petrolifere nell’investire in comparti per loro unconventional. Gli analisti sono concordi nel sostenere che, in questo caso, si troverebbero ad affrontare ben altri giganti, già consolidati nella ricerca e nella produzione di energie alternative. Enel, Gdf e StatOil Hydro, solo per citarne alcune, hanno ottenuto risultati più che concreti nel nucleare e nell’eolico. Paradossalmente la Bp è già leader mondiale di quest’ultimo settore. Tutto questo porta a pensare che sia difficile che una qualsiasi big oil tenti di competere con chi è già un esperto del mestiere. A questo punto si aprono due strade. Da una parte la necessità di investire meglio e più capitali nei controlli di gestione e nella sicurezza. Dall’altra la capacità di ciascuna compagnia di trasformarsi non in termini produttivi, bensì da un punto di vista finanziario, magari accorpandoci con altre società. Per quanto riguarda il primo percorso, è evidente che il dramma del Golfo del Messico, come gli stessi incendi in Russia nascano da un’inefficienza strutturale di cui sono responsabili non solo le compagnie petrolifere, ma anche la protezione civile di ogni singolo Stato, nella fattispecie quello di Washington e quello di Mosca. La Deepwater Horizon, la piattaforma che ha fatto da casus belli in America, era conosciuta per le condizioni di inefficienza in cui versava dal 2007. Possibile che a Washington nessuno abbia dato ascolto ai campanelli di allarme che venivano suonati? Diverso il caso russo. Ogni
estate infatti le steppe sono vittime di incendi dolosi oppure naturali. È evidente che quest’anno la capacità di pronto intervento sia venuta a mancare totalmente. La seconda opzione invece seguirebbe un esempio già sperimentato proprio negli Usa. Nel 1999 la Exxon ha venduto grosse quantità di azioni, creando così la liquidità necessaria per fondersi con la Mobil. Le due ipotesi non sono reciprocamente esclusive. Tuttavia mentre l’operazione borsistica rischia di assumere i tratti della mera speculazione - ed è esposta ai divieti dell’antitrust - l’incremento di investimenti nella sicurezza ha maggiori possibilità di riuscita. È logico che, in tal senso, sarebbe necessaria una concertazione in termini globali, chiamante in causa le big oil quanto i governi nazionali. Lo stesso Obama ha proposto di creare un fondo internazionale per la gestione di crisi future come quella del Golfo del Messico. La Bp ne ha creato uno autonomo per l’occasione. In realtà, gli interventi di partenariato non dovrebbero limitarsi ai disastri ambientali, ma includere tutte le circostanze in cui il mercato energetico internazionale rischia una crisi.
La lista delle eventualità include anche i potenziali attacchi terroristici. Solo la scorsa settimana se sono stati registrati due: uno in Caucaso e l’altro nel Kurdistan turco, contro due oleodotti che trasportano greggio in Europa occidentale. A conclusione di questo ragionamento, bisogna ricordare che un cambiamento può dirsi davvero rivoluzionario se riesce a penetrare nella mentalità della gente comune. La nostra quotidianità è impostata sullo sfruttamento del petrolio e dei suoi derivati molto più di quanto possiamo immaginare. Dalla plastica di un pc al riscaldamento delle case, dal carburante delle automobili ai materiali acrilici con cui è composto il nostro abbigliamento. Il petrolio fa parte del nostro mondo da circa 110 anni. Ne siamo consumatori indefessi, ma è anche la fonte di lavoro della maggioranza delle categorie produttive. Rinunciarvi significherebbe cambiare in modo strutturale la nostra vita. Vorrebbe dire che il mercato è capace di colmare i vuoti creati dalla sua assenza. Obama sarà capace di convincere l’americano medio a rinunciare a tutti i benefici quotidiani offerti dall’oro nero?
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Il terrorista era il capo dei servizi segreti palestinesi sotto Arafat
Germania: il partito di Gabriel al 32%. La Cdu-Csu al 31%
È morto Hindi, la mente della strage di Monaco ’72
Clamoroso sorpasso della Spd sulla Merkel
DAMASCO. Dove non è arrivato
BERLINO. Il partito socialdemocratico rinasce come l’Araba fenice dalle ceneri dei sondaggi e compie un clamoroso sorpasso sulla Cdu/Csu di Angela Merkel. Lo rivela un sondaggio dell’Istituto Allensbach per il quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung (Faz), dal quale emerge che il partito di Sigmar Gabriel scavalca con il 32% la Cdu/Csu della Markel al 31%, mentre i Verdi sono al 17%, la Linke all’8,5% ed il partito liberale di Guido Westerwelle al 6%. Sulla base di questa rilevazione, se si votasse domenica prossima la Germania si ritroverebbe di nuovo con un governo rosso-verde, che otterrebbe la maggioranza assoluta dei seggi anche senza l’apporto della Linke.
il Mossad, alla fine hanno provveduto le malattie: è morto in Giordania, all’età di 72 anni, Amin Al-Hindi, l’ultimo palestinese ancora in vita legato all’attacco contro gli atleti israeliani a Monaco, nel 1972. Il decesso di Hindi, che fu uno degli organizzatori, è avvenuto a poco più di un mese da quello del cervello dell’operazione, Abu Daoud, spentosi il 3 luglio a Damasco. Una decina di terroristi palestinesi legati all’assalto al villaggio olimpico furono eliminati negli anni successivi dagli 007 israeliani nell’operazione «Collera di Dio”, raccontata in un recente film da Steven Spielberg.
Hindi, membro dell’ala di Gaza di Fatah, aveva fondato e guidato i servizi di sicurezza palestinesi, sotto Yasser Arafat. Sei mesi fa era stato trasferito ad Amman dove era stato operato per un tumore al fegato. La salma è stata trasferita a Ramallah, dove il presidente dell’Anp, Abu Mazen, ha assistito ai funerali, prima della sepoltura a Gaza. L’attacco al villaggio olimpico di Monaco di Baviera scattò nella notte tra il 4 e il 5 settembre, alle 4 del mattino: otto terroristi in tuta sportiva, e con le borse cariche di armi, scavalcarono i cancelli del villaggio e si diressero verso la palazzina israeliana. L’irruzione durò pochi minuti: furono uccisi Moshe Weinberg, allenatore di lotta greco-romana, e il pesista Joseph Romano che aveva tentato di opporre resistenza; nove furono presi in ostaggio, due fuggirono. Dopo il ”no”alle loro richieste, i terroristi chiesero un aereo per trasferirsi al Cairo. All’aeroporto ci fu un blitz della polizia. Morirono i nove ostaggi israeliani, cinque terroristi, due poliziotti e un pilota.
Kabul chiama Mosca e Medvedev risponde Karzai chiede aiuto alla Russia in vista del disimpegno Usa di Laura Giannone abul chiama e Mosca risponde. Il presidente russo Dmitri Medvedev ha promesso il suo sostegno all’Afghanistan in un vertice con il quale Mosca intende rimarcare il ristabilimento della sua influenza nella regione, riunendo - nonostante le recenti polemiche - il presidente afghano Hamid Karzai e quello pakistano Asif Ali Zardari. «Sosteniamo la lotta del governo afghano contro il terrorismo e siamo pronti ad aiutarlo» ha detto Medvedev accogliendo i suoi ospiti, tra cui anche il presidente tagiko Emomali Rakhmon, nella residenza presidenziale di Sochi, sulla rive del Mar Nero. «Viviamo nella stessa regione e questo significa che ci sono problemi comuni e prospettive comuni» - ha aggiunto. «L’Afghanistan ha bisogno del sostegno degli amici e dei grandi paesi come la Russia» ha detto Karzai riferendosi alla collaborazione contro il terrorismo e il traffico di droga (ma rivolgendosi probabilmente anche a Washington affinché qualcuno raccolga l’avvertimento: se ci abbandonate il vostro posto sarà preso dalla Russia). Concretamente, ha spiegato il ministro degli Esteri di Mosca Sergei Lavrov, la Russia donerà «molto presto» alla polizia afghana una fornitura di piccole armi da fuoco e intensificheròà l’addestramento delle forze dell’ordine del paese.
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ne ai terroristi, parole che Islamabad aveva giudicato «incomprensibili». A Sochi ci sarebbe stato anche un faccia a faccia chiarificatore tra Karzai e Zardari, ma per il momento non sono filitrate indiscrezioni. Il vertice, nelle intenzioni del Cremlino, mira a intensificare la cooperazione regionale per collaborare alla stabilizzazione dell’Afghanistan. La Russia vorrebbe che l’Organizzazione di cooperazione di Shanghai e l’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva, due organismi in cui Mosca ha un ruolo di primo piano, giocassero un ruolo nelle regione accanto alla coalizione internazionale impegnata sul territorio afghano.
Le autorità russe in particolare sono preoccupate per la propagazione delle violenze nelle repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale e per la crescita del traffico di droga nella regione. Mosca esclude l’invio delle sue truppe in Afghanistan per combattere l’insurrezione talebana, ricordo dell’umiliante ritiro sovietico dal paese nel 1989 dopo dieci anni di guerra, ma mira a vendere al paese i suoi elicotteri militari, come ha detto ieri il consigliere diplomatico di Medvedev, Sergei Prikhodko. Ma nè Medvedev nè Karzai hanno sollevato - almeno ufficialmente - il tema. È il ritorno dell’ottocentesco “grande gioco”, dove il ruolo di antagonista della Russia svolto all’epoca dall’impero britannico, vede come protagonista una sempre più riluttante America.
Giallo nella capitale russa: la polizia evacua il World Trade Center per un allarme bomba. Ma era uno scherzo
Hamid Karzai, dunque, si prepara al progressivo disimpegno Usa dall’Afghanistan chiedendo aiuto alla Russia. E al vertice di Sochi rimuove i dieci anni dell’invasione sovietica (1979-1989) facendo così il gioco di Mosca, che punta a tornare protagonista della regione. Anche il presidente pakistano, presente a Sochi dopo un vivace scambio diplomatico con Karzai a luglio, ha ogfferto il suo sostegno a Kabul nella lotta contro i talebani. «Possimao farlo tutti insieme, dobbiamo sostenere il popolo afghano» ha detto Zardari. Parole non da poco, visto che Karzai - il mese scorso aveva accusato il suo vicino di dare protezio-
E mentre Medvedev era lontano, un giallo si è verificato nella capitale, quando un allarme bomba ha svuotato gli uffici del World Trade Center che si trova lungo la Moscova, a poche centinaia di metri dalla «Casa Bianca» - la sede del governo russo. A provocare l’evacuazione un telefonata anonima ricevuta dalla polizia moscovita che annunciava la presenza di un ordigno. I sospetti sono immediatamente caduti sugli estremisti caucasici, dopodiché sulla vicenda è calato il top secret.
La lenta ma costante rimonta del partito socialdemocratico, precipitato al 23% nelle ultime elezioni politiche del 27 settembre 2009, rischia di provocare grossi grattacapi al cancelliere, il cui partito deve affrontare nella prossima primavera cinque difficili elezioni regionali. Il test piu’ serio è quello di marzo nel Baden-Wuerttemberg, da sempre governato dalla Cdu con maggioranze schiaccianti e dove da cinque anni è al potere una coalizione con i liberali, che adesso secondo i sondaggi rischia di andare a casa. Esaminando le due parti del Paese, il sondaggio della Faz mette in evidenza che all’ovest il vantaggio della Spd sulla Cdu/Csu è ancora più marcato, con il 33% rispetto al 32%, mentre all’est i due partiti sono in parità con il 26,5%. Quasi abissale è il divario dei Verdi nelle due parti del Paese, con il 18,5% all’ovest rispetto al 10% all’est, mentre inversa è la situazione della Linke di Oskar Lafontaine, che fa registrare il 25% oltre Elba, rispetto al 5% nei laender occidentali.
ULTIMAPAGINA In rete. Il regime della Corea del nord sbarca sui social network
Le meraviglie di Jim Jong-Il in formato di Massimo Ciullo
hi vincerà se Corea del Nord e Stati Uniti scenderanno in guerra?» Se siete interessati alla risposta basta cliccare sul canale web che il regime di Pyongyang ha aperto su Youtube: quello che all’apparenza sembra il titolo di un libro di fantapolitica è, in realtà, il titolo di uno degli ottanta video finora caricati dal governo nord-coreano sul sito di video-sharing, adoperando il nickname di Uriminzokkiri (“Nostro popolo” in coreano). Il filmato magnifica la potenza militare della Corea del Nord, arrivando a sostenere che gli scienziati di Pyongyang siano riusciti a compiere con successo esperimenti sulla tecnologia nucleare a fusione, in pratica energia atomica pulita. Anche se gli analisti dubitano fortemente sull’attendibilità della clamorosa rivelazione, Washington e Seul sono avvisate: non scherzate col fuoco, altrimenti rimarrete scottate! Il regime guidato dal “caro leader” Kim Jong-il, fra i più impermeabili al mondo esterno, ha assunto una decisione storica, decidendo di sbarcare sui siti di proprietà di Google, Twitter e Youtube. Le autorità nord-coreane hanno lanciato il sito ufficiale www.uriminzokkiri.com, collegato ai due account su Twitter e YouTube.
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In un altro video, il ministro degli Esteri di Seul è definito un «leccapiedi» degli Stati Uniti, intento a trascorrere la sua esistenza lavando, con straccio e secchio, «il pavimento del Pentagono». Anche su Twitter si sprecano i complimenti per l’amministrazione sud-coreana guidata dal presidente Lee Myung-bak, definita «la prostituta degli Stati Uniti» e si sprecano le minacce di «spietate rappresaglie» in caso di attacco Usa contro Pyongyang.Tuttavia per gli Stati Uniti l’apertura della Corea del Nord a Internet è un “buon segnale” e l’amministrazione Oba-
ma si è affrettata ad esprimere il proprio apprezzamento per l’iniziativa del regime comunista di Pyongyang. Non è un cambio di rotta né tantomeno un alleggerimento delle pressio-
ni, ma l’apertura della Corea del Nord verso social network come Twitter e Facebook è valso al regime un plauso da parte degli Stati Uniti. L’auspicio degli Usa è che l’accesso a Internet sia gradualmente allargato per permettere alla popolazione di affacciarsi al mondo del web e alle informazioni che vi circolano. Ma soprattutto, ed è questa la vera speranza degli Stati Uniti, Internet può aiutare i dissidenti a diffondere video e messaggi ed eventualmente organizzare manifestazioni contro il regime. Tanto che il portavoce del Dipartimento di Stato americano, Philip Crowley, dal suo account su Twitter, ha in qualche modo manifestato una
l’accesso a Internet è molto limitato ed è rigidamente controllato dal regime. La maggior parte dei 23 milioni di nordcoreani non ha accesso alla rete, e non può quindi aggiornarsi sui siti di social networking del governo di Pyongyang. Secondo alcuni osservatori, invece, la decisione della Corea del Nord potrebbe essere legata alla salute precaria di Kim Jongil e alla sua intenzione di cedere i poteri al figlio più giovane Kim Jung-un, magari sfruttan-
do proprio Internet per far conoscere il futuro leader al popolo nordcoreano. Meno entusiasta la reazione dei sud-coreani: il governo di Seul ha espresso preoccupazione per la propaganda condotta dai siti controllati dal regime del Nord. L’iniziativa nord-coreana è stata salutata con entusiasmo dagli internauti con un boom di iscrizioni all’account su Twitter (www.twitter. com/uriminzok), arrivati a quota 6.803, che ha causato l’irritazione della Corea del Sud.
Anche i video messi su YouTube magnificano la potenza militare del regime, sostenendo che gli scienziati di Pyongyang siano riusciti a compiere con successo esperimenti sulla tecnologia nucleare a fusione, in pratica energia atomica pulita
misurata soddisfazione per quanto avvenuto. «Usiamo Twitter per connetterci, informarci e discutere - ha sottolineato Crowley -, salutiamo con favore l’approdo della Corea del Nord su Twitter». Poi, una provocazione: «Il governo nordcoreano è su Twitter, ma è pronto a consentire anche ai suoi cittadini di connettersi?». Facile indovinare la risposta, ma di sicuro è una piccola rivoluzio-
ne, che potrebbe avere una portata significativa, come già accaduto in contesti dove il web rappresenta l’informazione libera dalla censura.Vedi l’Iran. Resta la grande incognita sul reale utilizzo dei siti che potrà fare la popolazione, visto che
«Gli utenti di Twitter devono essere consapevoli che interagiscono con un sito della Corea del Nord e questo è motivo di violazione della normativa sulla cooperazione e sullo scambio intercoreano», ha spiegato Lee Jong-joo, portavoce del ministero dell’Unificazione di Seul. Secondo la legge in vigore, infatti, coloro che contattano nordcoreani senza preventiva notifica al ministero rischiano una multa fino a 3 milioni di won (2.500 dollari). Ancora più pesante la National Security Law: coloro che comunicano o hanno una corrispondenza con gruppi antigovernativi rischiano una pena detentiva massima di 10 anni, se consapevoli di azioni che potrebbero minacciare la sicurezza nazionale. Seul, dopo l’elezione a presidente di Lee Myung-bak, ha oscurato 65 siti vicini a Pyongyang, bloccando gli indirizzi IP. La questione è molto più complicata con Twitter, per le implicazioni di natura tecnica e giuridica da risolvere.