Non puoi gambizzare la gente con un fucile a canne mozze solo perché sei arrabbiato con loro
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Billy Ray Valentine
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 25 AGOSTO 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
AFGHANISTAN
A Villa Campari, sul Lago Maggiore, il premier e il Senatùr cercano la strategia di settembre
Una poltrona per due Bossi e Berlusconi si incontrano per vedere chi la spunta tra elezioni e no. E si capirà chi comanda davvero nel governo e nel Paese PARLA SAVINO PEZZOTTA
LE URLA DELLA VIGILIA
Il Cavaliere apprendista stregone
Sul match lo spettro degli ultras
C’è una terza via per l’exit strategy occidentale: dividere il potere afghano tra le varie province Mario Arpino • pagina 20
di Francesco Lo Dico
di Riccardo Paradisi
econdo Savino Pezzotta, il vertice di oggi sarà una resa dei conti tardiva: «Berlusconi si è allevato una serpe in seno per anni. L’ha nutrita, poi vezzeggiata e coccolata ma ora si è accorto che è una serpe famelica. Ecco perché noi moderati non saremo un puntello per questa maggioranza: il nostro spazio è al Centro».
a vigilia del vertice di oggi a Villa Campari, sul Lago Maggiore nei pressi di Como, tra Berlusconi e Bossi, risuona delle urla degli ultras leghisti. È tutto un fuoco di sbarramento (da Cota fino al redivivo Speroni) contro un eventuale accordo con i centristi di Casini per dar vita a una nuova maggioranza di governo.
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Il federalismo funziona. Soprattutto a Kabul
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ISRAELE
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Nei giorni scorsi le milizie di Al-Shabab avevano annunciato la ripresa di una nuova offensiva
Attacco alla Somalia A Mogadiscio al Qaeda assalta l’hotel dei deputati e fa una strage: sono almeno quaranta i morti, tra loro anche molti esponenti politici STRATEGIE DEL TERRORE
LA TECNICA QAEDISTA
Ma il futuro di Osama è in Africa
Questa volta i terroristi fanno la guerra
di Enrico Singer
di Antonio Picasso
attacco degli shabab contro l’hotel Muna, a Mogadiscio è soltanto l’ultimo anello di una catena molto lunga. La nuova strategia dell’attacco di al Qaeda all’Occidente passa ormai per il continente nero che è stato retrovia e serbatoio di combattenti per le guerre in Afghanistan e in Iraq e adesso è diventato prima linea.
rano settimane che a Mogadiscio si viveva nell’attesa di un attacco: già all’inizio di agosto, i guerriglieri shabaab erano tornati a minacciare i pochi quartieri della capitale somala ancora sotto il controllo delle truppe regolari. Il bilancio dell’attentato all’hotel Muna è pesante: almeno 60 morti, tra i quali una decina di parlamentari.
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I QUADERNI)
• ANNO XV •
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Caro Obama, il problema è l’Iran, non la Palestina L’ex ambasciatore Usa all’Onu critica la decisione di investire ulteriori risorse diplomatiche nel “processo di pace”
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WWW.LIBERAL.IT
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IN REDAZIONE ALLE ORE
John R. Bolton • pagina 18
GERMANIA
Salvare il fiume o la movida? Berlino contro la speculazione Nella capitale tedesca infuria la polemica su un grande progetto urbanistico di bonifica e di rilancio della Sprea Andrea D’Addio • pagina 22 19.30
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Vertici. Il presidente del Consiglio e il leader leghista sul Lago Maggiore. Ci sarà anche il ministro dell’Economia Tremonti
Silvio e Umberto sul ring Nuovo esecutivo con i moderati o elezioni subito? Scontro finale, oggi, tra Berlusconi e Bossi per decidere quale sarà la strategia futura di Riccardo Paradisi al vertice di oggi sul Lago Maggiore tra il premier Silvio Berlusconi il ministro dell’Economia Giulio Tremonti e il leader della lega Umberto Bossi si attende una sola risposta: la disponibilità della Lega a un’ipotesi di intesa tra il centrodestra e l’Udc, a un’allargamento della maggioranza che nei piani del premier dovrebbe procedere gradualmente, a tappe, senza traumi. Certo che a giudicare dal fuoco di sbarramento preventivo aperto all’intendenza leghista alla vigilia dell’incontro viene difficile pensare che l’esito del summit possa essere positivo.
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Roberto Cota, presidente della Regione Piemonte chiude ogni porta: «Se questa maggioranza non c’è più, allora bisogna andare a votare. Riprende voce anche l’ala più oltranzista del Carroccio: l’augurio di Mario Borghezio è che «i problemi interni al Pdl e quindi al grup-
po del Partito popolare europeo, a cui aderiscono oltre agli europarlamentari del Pdl anche quelli dell’Udc, non influenzino in modo negativo i lavori comunitari con il gruppo Europa della Libertà». La strategia di Silvio Berlusconi di voler trovare un accordo con l’Udc di Pierferdinando Casini «è sbagliata completamente», incalza il capodelegazione della Lega all’Europarlamento Francesco Speroni che vuole proprio stroncare ogni apertura del Cavaliere ai centristi. «L’Udc è gente di cui non ci si può fidare, sono come la D’Addario: vanno con chiunque. Poi sono gli unici che hanno votato contro il federalismo. C’è un’incompatibilità di base tra la Lega e l’Udc». Per la verità non sembra crederci troppo nemmeno Berlusconi alla volontà di Bossi di superare questa pregiudiziale anticentrista. Del resto ancora lunedì scorso il capo leghista ricorreva addirittura agli in-
IL CAMPIONE
sulti per polemizzare con l’Udc. Il portavoce del Pdl Daniele Capezzone avverte infatti che «È definitivamente scaduto sia il tempo delle avventure, delle soluzioni parlamentari costruite alle spalle della volontà popolare, dei retropensieri, delle mezze fiducie come premessa per una ripresa della guerriglia». Il piano del Cavaliere è sempre quello insomma della fiducia
chiuse comunque a ogni ipotesi di governi cosiddetti tecnici o istituzionali.
È la linea che ribadisce il capogruppo del Pdl alla camera Fabrizio Cicchitto che invita a guardare solo in direzione di iniziative politicamente serie e possibili: «L’unica via politicamente e costituzionalmente seria per salvare la legislatura è quella di fare uno sforzo per
essi che viene silurato o incagliato provoca come conseguenza il fatto che si deve passare ad una fase diversa, che è il ricorso al corpo elettorale». Però le cose come sempre sono più complicate di come le si dicono. Perché è facile dire andiamo al voto, più difficile poi i voti prenderli concretamente e, nel caso in questione per Berlusconi continuare a prendere i voti al nord senza emorragie a vantaggio della Lega. La quale evoca le elezioni politiche prima delle amministrative. È l’analisi che fanno i centristi per battere il Pdl in tutto il Nord. Così, poi Bossi – è il ragionamento – potrà pretendere la guida di tutte le più importanti città nelle quali si voterà in primavera. Bossi, quindi insulterebbe l’Udc «perché essergli d’intralcio, ma il vero obiettivo é quello di poter annientare il suo principale
Si cerca l’intesa col Carroccio per allargare la maggioranza ma il Pdl sembra ormai scaldare i motori in vista del voto. «È finito il tempo delle alchimie parlamentari» dice Daniele Capezzone piena della maggioranza sui cinque punti usciti dal vertice del Pdl della scorsa settimana a palazzo Grazioli: o la fiducia piena, con la piena possibilità per il governo di continuare a lavorare in modo sicuro senza patire gli stenti provocati dalla guerriglia interna quotidiana o in alternative le urne. Porte
riaggregare in modo reale la maggioranza uscita dalle elezioni del 2008, o larga parte di essa, sui 5 punti proposti qualche giorno fa dal Presidente Berlusconi, sulla loro traduzione in una mozione da presentare in Parlamento e poi in conseguenti disegni di legge nella consapevolezza che il primo di
Sul tavolo, il rischio di un governo bloccato dai veti incrociati degli alleati in rivolta
Il Cavaliere deve vincere per governare di Gabriella Mecucci on quale proposta Berlusconi andrà all’incontro con Bossi? Il premier è finito in una strettoia politica dalla quale spera di uscire trattando con Casini. Sembra questa – a ben guardare – l’unica via d’uscita. Le tanto sbandierate elezioni anticipate presentano infatti parecchi rischi. Innanzitutto c’è la condotta accorta e prudente del presidente Napolitano impegnato ad evitarle. Non tenerne conto potrebbe costringere il premier a qualche pesante sgarbo istituzionale. Meglio evitarlo. E poi, ammesso che Berlusconi arrivi senza troppi danni alle urne, quale sarebbe il risultato? Pdl e Lega magari le vincerebbero, ma mentre la maggioranza alla Camera sarebbe certa quella al Senato – così dicono diversi sondaggisti – potrebbe traballare. Il Cavaliere si troverebbe dunque nella non invidiabile posizione che fu di Prodi. Per uscire dunque dall’attuale vicolo cieco, Berlusconi entrebbe in un secondo e più pericoloso vicolo cieco. Dietro l’angolo della con-
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sultazione elettorale c’è poi il rischio Lega. Bossi prenderebbe molti voti (12-13 %, si dice), mentre il Pdl ne perderebbe un bel po’. La maggioranza che uscirebbe dalle urne sarebbe dunque, ancor più di quella attuale, a trazione leghista. Il ministro del Tesoro Tremonti ne diventerebbe il dominus e potrebbe persino puntare alla premiership. La litigiosità all’interno di un siffatto centrodestra aumenterebbe, con catastrofiche ricadute sull’esecutivo. E il governo di larghe intese, o tecnico, o di responsabilità nazionale, uscito dalla porta, rientrerebbe rapidamente dalla finestra.
La sequenza potrebbe essere questa: elezioni, vittoria risicata, instabilità politica con la Lega a farla da padrone, nuova possibile crisi al cui sbocco ci sarebbe un governo Tremonti. Roba da far venire i brividi prima di tutto agli italiani. Ma anche a Berlusconi. Una strada, dunque, da evitare. C’è un secondo percorso che il premier potrebbe intraprendere: lasciare le cose così come sono e tentare di tirare avanti il più a lungo possibile sperando in tempi migliori. Un governo che galleggi fra mille difficoltà in attesa di uscire dal tunnel della crisi economica. Poi si vedrà. Prospettiva niente affatto tranquilla nem-
meno questa: con i finiani che continuerebbero la loro “guerriglia”inchiodando il cavaliere nel ruolo di pungiball. Il Presidente della Camera ha poi il potere di rendere più o meno rapidi i percorsi delle leggi, di gestire il dibattito parlamentare in modo da favorire o complicare la vita del governo. Insomma, tirare avanti così per Berlusconi sarebbe molto logorante. Per uscire da questo cul de sac, il premier è dunque sempre più tentato dall’intavolare una trattativa con Casini. Proposta di ingresso dell’Udc nel governo? E come? I centristi hanno chiarito che una simile ipotesi passa per la crisi e per il reincarico. Oppure avanzerà l’idea di una collaborazione parlamentare con i centristi? Quello che ha in testa Berlusconi non è del tutto chiaro. È chiarissimo invece che un nuovo rapporto con Casini è visto come il fumo negli occhi da Bossi, che ha intrapreso la strategia dell’insulto. Dimezzerebbe infatti il potere del Carroccio e le sue rendite di posizione. Insomma, Berlusconi oggi deve tentare di uscire dall’angolo in cui si è cacciato. Bossi conosce bene i propri interessi e li sa fare. Difenderà quindi la posizione di favore che gli è stata irresponsabilmente regalata. Questa volta trovare la “quadra” sarà parecchio complicato.
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con diverse finalità non ci riguarda e non va avallato con dichiarazioni superficiali. Il Paese aspetta che questi signori si decidano a risolvere i problemi che interessano gli italiani. Dopo la sceneggiata di questa estate, per quanto ci riguarda, continuiamo a lavorare al progetto del Partito della Nazione». A proposito di progetti di nuovi partiti è peraltro sempre all’ordine del giorno Futuro e libertà, per ora gruppo parlamentare dei finiani. Il vicemini-
Bossi attacca l’Udc ma il vero obiettivo é quello di poter ridimensionare il suo principale concorrente in Lombardia e nel Nord, il Popolo delle libertà
concorrente in Lombardia e nelle altre regioni del Nord, cioè il Pdl». L’Udc da parte sua ufficialmente sta a vedere, attende, al di la delle schermaglie tattiche che
la fase di studio entri nella dimensione operativa della politica e le forze in campo scoprano le carte. «È fin troppo chiaro che la crisi della maggioranza, da noi am-
piamente prevista – dice il segretario dell’Udc Lorenzo Cesa – è un problema tutto interno alla maggioranza stessa. Il tentativo di coinvolgere l’Udc nelle loro discussioni o di usarci
stro Adolfo Urso, leader dei moderati finiani, rialncia la sua proposta di mediazione: «Se nel Popolo delle libertà decidessero di annullare la riunione dei probiviri sarebbe un ottimo segnale per cominciare ad avviare una ricomposizione». Una scelta che potrebbe appianare molto le cose «purché si vada davvero verso un percorso congressuale chiaro e si gettino le basi per un dialogo corretto tra maggioranza e minoranza». La riunione dei probiviri però è fissata per il 16 settembre e non è stata cassata. Il collegio dovrà valutare la com-
La strategia del Carroccio è bloccare il bipolarismo e condizionare sempre di più il governo
Ma il Senatùr punta al «regicidio» di Giancristiano Desiderio mberto Bossi ha inventato Alberto da Giussano, la Padania, Roma ladrona. Nato da una costola della Prima Repubblica, l’ha ricoperta di insulti ma ne ha conservato il peccato originale: il potere partitico. Critico populista dei democristiani è a sua volta un democristiano che ha fatto del territorio la sua bandiera ideologica e pragmatica. Il capo della Lega è un barone meridionale capovolto: ha utilizzato la“questione settentrionale”non per dare uno Stato al “popolo delle partite Iva”ma per darsi un partito che ha nelle sue ragioni la divisione politica del Paese. Con questa strategia Bossi è da tre lustri al centro della scena pubblica italiana, tanto che Massimo D’Alema arrivò a definirlo “una costola della sinistra”. Peccato che con questa costola, che una volta sta a destra e una volta sta a sinistra, l’Italia sia giunta alla vigilia dei 150 anni dell’Unità con l’idea di essere un agglomerato di aree urbane e rurali e il rimpianto di una nazione. Poi, Bossi è anche l’inventore di Berluskaiser e di Berluscàz. Proprio lui che sbraita contro inesistenti ribaltoni è il padre dell’unico ribaltone che nel 1994 capovolse il verdetto popolare. Il ri-
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corso all’insulto e alla parolaccia diretta, ma anche al gesto che fornisce la fotografia della frase «la Lega ce l’ha duro» non è folklore ruspante, ma il linguaggio di un capopopolo che è spregiudicato nel creare il mito del Nord e giocarlo contro il mito del Sud. Per dare dignità al suo populismo nordista Bossi arruolò Gianfranco Miglio e quando il costituzionalista disegnò la nuova geografia politica italiana con tre macroregioni Bossi lo liquidò dicendo che Miglio era «una scoreggia nello spazio». Bossi è fatto così: populismo e parolacce per tutelare l’identità leghista del territorio. La colpa più grave di Berluskaiser non è l’alleanza con Bossi ma l’aver accettato il primato leghista del territorio. Quello che era un problema amministrativo è ora un problema politico.
Che cosa si diranno Berlusconi e Bossi nel loro incontro per salvare il governo? Il capo del governo non si fida più del capo della Lega. È il limite del leghismo nordista che mostra la corda. Dopo averne adottato la linea, ora Berlusconi teme che Bossi non abbia più bisogno di Berluskaiser: può prendersi direttamente il governo con Tremonti. È il risultato più conseguente della fine della Casa delle
libertà e la nascita (finta) del Popolo della libertà. Berlusconi senza Casini e senza Fini è semplicemente nelle mani di Bossi che dopo essere cresciuto grazie al paraleghismo berlusconiano ora non può non compiere l’ultimo atto: sostituire Berlusconi. Varrebbe la pena parafrasare D’Alema: Berlusconi è una costola della Lega che a sua volta è un’invenzione di Bossi. Resta da capire se l’anima ragionante del Carroccio - il ministro Maroni - abbia una carta da giocare o se asseconderà l’uomo di Gemonio. Il Cavaliere al termine della sua non breve stagione politica è ritornato alla casella iniziale: fare finta di governare con la Lega o governare senza la Lega? Si dice che Bossi da ottimo giocatore alzi solo il prezzo. In realtà, i due non possono più fidarsi fino in fondo l’uno dell’altro: Berlusconi sa che senza i moderati la sua corsa è giunta al termine, Bossi vuole il voto perché il regolare funzionamento delle istituzioni nazionali è fatale per il suo populismo nordista. Comunque vada, l’uomo che inventò Alberto da Giussano, Roma ladrona, la Padania e creò Silvio Berlusconi ha già iniziato a correre da solo. Il centrodestra è solo un ricordo.
patibilità tra l’appartenenza al Pdl e la costituzione di gruppi parlamentari autonomi, ma è evidente che se a Mirabello – dove si terrà la festa nazionale di Futuro e libertà – Fini lancerà un nuovo partito «ai probiviri, non resterà che prendere atto e assumere i provvedimenti conseguenti». Ma nel Pdl la volontà di farla finita coi finiani sembra definitiva e anche tra gli uomini del presidente della Camera – a parte Urso – non sembrano particolarmente dialoganti in queste ore. In merito all’attacco di Famiglia Cristiana contro Berlusconi accusato d’essere ormai l’autocrate della politica italiana i finiani solidarizzano col settimanale cattolico definendo di ”basso stile” gli attacchi che vengono dal Pdl.
Anche un moderato come Maurizio Lupi, che pure chiede ai leghisti di abbassare i toni nell’Udc, quando si tratta di Fini e dei suoi diventa particolarmente duro: «Abbiamo fatto la scelta dolorosa di proporre una mozione di fiducia per evitare di tornare alla vecchia politica. Quella che si riaffaccia nella proposta di Bocchino, che non parla di contenuti ma di alchimie e accordi fatti non con gli elettori ma nei palazzi del potere. Ma noi non andiamo dietro a ipotesi fantasiose: ai finiani abbiamo chiesto di dimostrare lealtà al governo e alla maggioranza che li ha eletti. Se c’è la maggioranza, non c’è bisogno di nessun allargamento. Se non ci sarà, la sola strada è il ritorno agli elettori».
LO SFIDANTE
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l’approfondimento
Le dispute di oggi su federalismo e sicurezza non fanno che allargare la frattura fra i centristi e i leghisti
La vipera del Cavaliere
«Berlusconi si è allevato una serpe in seno per anni: Bossi. L’ha nutrita e coccolata ma ora si è accorto che è famelica. Ecco perché noi moderati non saremo un puntello per questa maggioranza». Il futuro secondo Savino Pezzotta di Francesco Lo Dico utto si gioca oggi sullo sfondo lacustre di villa Campari. Da una parte l’amico Umberto, invelenito come un carpione di fronte alla prospettiva di riabbracciare i centristi all’interno di una nuova maggioranza che già in passato ha sfoggiato umori non troppo conviviali alla variopinta tavolata del Cavaliere. Dall’altra lui, il premier dimezzato, che sulle sponde del lago Maggiore proverà a tornare all’originaria vocazione che ne ha fatto un pescatore di uomini, a volte senza troppo talento. In mezzo la lenza del leader, che pregusta un rimpasto in salsa udiccina per assicurarsi un’altra sfavillante crociera al largo della giustizia. C’è da convincere il riottoso Senatùr, ma non solo. Perché all’idea di insediarsi al governo, alcuni centristi doc come Savino Pezzotta non fanno certo capitomboli di gioia. «Non possiamo reggere il moccolo a questo governo senza forma nè sostanza – spiega a liberal il deputato dell’Udc – sarebbe
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come arrendersi alla sindrome di Stoccolma. Ci hanno ripetuto che non contavamo nulla e che non c’era alcun bisogno del nostro contributo perché c’era la vocazione maggioritaria. E adesso che il Pdl è al collasso, viene a offrirci qualche poltrona per sperare di continuare a differire i processi del premier. Sembra una commedia all’italiana, ma fa piangere per quanto è ridicola». Onorevole, nella strenna confezionata per voi dal premier sembra esserci anche il quoziente familiare. E poi ironizzano sul partito dell’amore. Di solito si dice che non si accettano caramelle dagli sconosciuti, ed è un sano consiglio. In questo caso invece partiamo avvantaggiati, perché sappiamo già chi ce le offre. Come ci si può ricordare solo adesso del quoziente, dal momento che sono anni che la nostra battaglia per applicarlo è rimasta inascoltata? Questi ed altri preziosi messi sul piatto dal Cava-
liere, hanno fatto storcere il naso all’amico Umberto. Basterà il federalismo, per convincerlo ad accogliervi nella maggioranza? Il premier si è allevato una serpe in seno per interi lustri. Se l’è coccolata, nutrita e vezzeggiata e ora si è accorto che la creatura è diventata un po’ troppo famelica anche per i suoi gusti. Ma i problemi che ha Berlusconi con la Lega non ci riguardano, e per quanto mi riguarda non c’è nessuna intenzione di risolverli.
Ora che il Pdl è in crisi, ci offre le poltrone. Ma i nostri ideali non sono in vendita
Un eventuale turnover tra finiani e centristi eviterebbe l’avvento di un’altra quarantina di padani aggiunti alla Camera. Proprio sicuro che non vuole sacrificarsi? Niente affatto. Un’eventuale accordo con Berlusconi sarebbe un suicidio politico. Credo che Cesa e Casini condividano il mio pensiero e non scenderanno a patti. Non possiamo dilapidare anni di lavoro spesi a conquistare la fiducia degli elettori in nome della terzietà e
della lotta a questo bipolarismo limaccioso che affonda la politica vera. A proposito di futuro. Che cosa pensa che ne sarebbe del terzo polo, se tornaste al capezzale del premier? Non accadrà. Ma semmai dovesse accadere, avremmo perso l’opportunità di raccogliere in un grande rassemblement tutti i moderati che in questi anni hanno cercato di costruire un’alternativa di saggezza a questo teatrino bicefalo senza capo nè coda. La gente è stanca. E vuol sapere una cosa? Ci mancherebbe. Sono stanco anch’io. Lo dico a tutti i miei colleghi. Dobbiamo recuperare la capacità di indignarci, e andare avanti con coraggio, così come ci chiedono i nostri elettori nella vita quotidiana, quella al di fuori di palazzi e beghe ridicole. Proviamo in un altro modo. Che ne sarà di questo governo? Quello che so è quello che è oggi: un sistema di potere al col-
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Dal cappio in Parlamento ai processi: promemoria sul passato del Carroccio
Quella volta che la Lega ebbe 200 milioni da Ferruzzi...
Il ruolo di Bossi e dei suoi uomini nel carosello Mani Pulite è sempre rimasto nell’ombra. Come quella tangente scoperta dai giudici nel 1993 di Alessandro D’Amato
ROMA. Due immagini, l’una l’opposto dell’altra, raccontate da Adalberto Signore ed Alessandro Trocino nel loro Razza Padana, testimoniano il contraddittorio rapporto della Lega Nord con il fenomeno Mani Pulite. La prima è una foto che ha fatto il giro del mondo, e ritrae l’allora onorevole Luca Leoni da Orsenigo che sventola un cappio da impiccagione verso l’allora presidente del Consiglio Giuliano Amato, mentre sta replicando nel dibattito sulla questione morale seguita allo scoppio di Tangentopoli: «Ladri, ladri», urlano i leghisti insieme agli allora fiancheggiatori del Movimento Sociale Italiano verso democristiani, socialisti e tutti gli altri responsabili di un sistema che sta crollando sotto i colpi delle inchieste di Mani Pulite. La seconda immagine risale ad appena nove mesi dopo e ritrae il segretario della Lega Umberto Bossi che si presenta alla procura di Milano sventolando un assegno da duecento milioni. Li vuole restituire, dice, perché la Lega non fa di queste cose. Che cosa? Ma incassare tangenti dalla Montedison, che diamine! Alessandro Patelli, ex tesoriere dei lumbard è stato arrestato il 7 dicembre 1993 e dopo due giorni di carcere, davanti ad Antonio Di Pietro e al gip Italo Ghitti per oltre tre ore ha confessato quella macchia nera nella coscienza della Lega: 200 milioni incassati dalla Ferruzzi per le elezioni 1992. Patelli ammette di avere conosciuto sia Carlo Sama, amministratore delegato della Ferruzzi, sia Marcello Portesi, l’ ambasciatore della famiglia ravennate nel mondo politico. Alle 22.05 l’ex tesoriere e segretario organizzativo della Lega lascia la prigione per gli arresti domiciliari. In silenzio, lo sguardo fisso sull’asfalto, sale su una delle sette auto di ”militanti leghisti” che ”proteggevano” l’uscita. I cronisti sussurrano indiscrezioni su indiscrezioni sul contenuto dell’interrogatorio, ma soprattutto si fanno domande su domande. Cosa ha raccontato ai giudici? Quali personaggi ha coinvolto? E, soprattutto, è stato fatto il nome di Bossi? «Bossi? Ci mancherebbe altro, no!» esclama l’avvocato Giovanna Andreoni, terrorizzata per l’assedio dei giornalisti, come racconta il Corriere dell’epoca. Passano altri tre giorni e davanti ai militanti riuniti ad Assago, Patelli fornisce la sua versione dei fatti: «Porte-
si (responsabile dei rapporti dei Ferruzzi con la politica, ndr) mi telefonò per darmi un appuntamento al bar Doney di via Veneto a Roma. Io non sapevo dove fosse, nemmeno conosco Roma. Mi diede una busta, erano duecento milioni, non mi disse nulla: mai visti tanti soldi tutti assieme. Preoccupato, rientrai a Milano e li nascosi in un cassetto del mio ufficio, in attesa di capire come regolarizzarli». Ma il destino ci mette lo zampine, anzi lo
In manette finì il tesoriere del partito Alessandro Patelli che però scagionò subito il Senatùr zampone e un ladro, provvidenzialmente entrato in sede e pronto a perquisire solo gli uffici di Patelli, se ne porta via 150 (gli altri vengono regolarmente spesi dal Carroccio). «Perdonami, Umberto, sono stato un pirla!», esclama il povero Patelli davanti alla platea, che alla fine applaude con con-
vinzione il reprobo come in uno Stranamore ante-litteram. Poi però, qualche giorno dopo, tocca a Bossi presentarsi davanti a Di Pietro: «Non so, forse, non ricordo», esordisce il Senatùr quando gli chiedono dei suoi rapporti con il gruppo Ferruzzi. Poi l’Umberto ammette un paio di incontri con Carlo Sama, ma nega di sapere dei soldi dati a Patelli. Con i giornali è ancora più baldanzoso, e a voce
roca e minacciosa, ripete: «Chiedevamo lavoro, noi. Questi ci vogliono incastrare con una legge ipocrita. Comunque, sia chiaro, la Lega non ha mai chiesto soldi». L’ agenzia Agi pubblica un’indiscrezione: secondo i giudici fu proprio Bossi a chiedere i soldi. E il Senatùr risponde duramente: «Chiederemo dieci miliardi di danni, come a tutti quelli che si azzarderanno a scrivere una simile balla. Certo, me lo hanno chiesto in tanti, anche in questi giorni a Ponte di Legno: vi vogliono incastrare? Io non so che cosa rispondere esattamente. Comunque, se qualcuno pensa di averci procurato un danno di immagine, ha sbagliato i suoi calcoli». Se non che, il diavolo – sotto forma di Gianfranco Miglio, un tempo ideologo leghista poi entrato in rotta di collisione con il Senatùr – ci mette la coda: «Patelli è stato un martire che si è dovuto prendere la colpa per coprire Bossi. Umberto mi disse: “Ho stabilito buoni rapporti con il gruppo Ferruzzi, ci aiuteranno”. Intendeva dire che aveva avuto dei segnali per cui il gruppo Ferruzzi avrebbe versato denaro alla Lega», dice l’ideologo dei lumbard senza scomporsi ai giudici. E così il capo della Lega non riesce a evitarsi la condanna a otto mesi, poi confermata fino alla Cassazione.
Patelli, invece, rimane in carica come segretario amministrativo fino ad agosto. E qualche tempo fa, in un’intervista, rievoca i brutti momenti dell’inchiesta di Di Pietro, ma soprattutto le stranezze del furto subito nella sede della Lega nel frattempo: «Bossi è a un comizio a Cremona. A tarda notte rientra in sede la Pivetti e trova tutto sottosopra. Chiama Bossi, che dopo pochi minuti, stranamente, è già lì. I ladri avevano cercato il denaro solo nei tre punti precisi dei miei tre uffici in cui sarebbe potuto essere…». E dice ancora Patelli che la soffiata a Di Pietro sulla tangente di Montedison proveniva da area leghista, ovvero da qualcuno che aveva interesse a fare fuori Bossi tramite lui. Ma soprattutto, nell’intervista rilasciata ad Alessandro Dell’Orto per Libero, dice qualcosa di molto significativo. Il giornalista gli chiede: «In quanti sapevate di quella somma?». «In due». «Lei e Bossi?». «Non glielo posso dire. Lo deduca lei». Chissà che cosa c’è da dedurre…
lasso nutrito a forza da un leader che ordina lodi, scudi e processi brevi à la carte mentre tutto il Paese gli crolla intorno. Un governo che discute di probiviri ed epurazioni, e non muove un dito a favore della gente comune, dei disoccupati, dei cassintegrati e dei giovani. Proviamo a immaginare per un momento una convivenza con la Lega. Che cosa vede davanti a sè? Vedo ad esempio i nostri elettori delusi dopo aver creduto a una corsa autonoma, controcorrente rispetto a questa maggioranza. E vedo anche Maroni, che appare lusingato dall’operazione xenofoba messa in piedi in Francia da Sarkozy. Per non parlare del paradosso temporale in cui vive l’èlite leghista: mentre la Fiat si internazionalizza, chiede come un sol uomo la secessione della Padania. E c’è poi quel simpatico guazzabuglio alchemico chiamato federalismo. Noi siamo per il federalismo, solo se inteso in senso solidale, nell’idea di bilanciare le sperequazioni sociali. Il federalismo fatto di competitors che si sbranano in nome del proprio business non ci interessa ed è contrario alla nostra ispirazione cristiana. In effetti la mattanza dei poveri non è tra i punti più rilevanti del Vangelo. Bene comune, solidarietà, aiuto concreto ai bisognosi non sono semplici mantra da omelia della domenica. Le radici cristiane che ispirano la nostra formazione sono congenitamente avverse all’egoismo territoriale di questo o quel podestà locale. Ma come si fa a pensare di dialogare con la Lega che promuove qualcosa come lo Statuto Veneto di Zaia? Il problema è che in politica ci sono valori non negoziabili, che oltre a definire il politico, definiscono l’uomo e la sua idea di mondo. Come le sembra, ad esempio, l’idea di un Nord Italia consegnato alla Lega, dopo un’eventuale alleanza con il Cavaliere? Credo sarebbe un grave errore, perché il Centro, pur non possedendo numeri grandiosi, al Settentrione ha saputo rappresentare l’espressione di un’alternativa credibile, sulla quale si è lavorato con passione e pazienza per tentare di arginare il trionfo dei municipalismi più beceri. E per passare dall’ideale al pratico, c’è poi qualche autorevole sondaggista, che parla di uno spazio al Centro sempre più ampio. La verità è che si vive da tempo una crisi politica e strutturale, che non si risolve con un giro di valzer, un paio di poltrone e due tappeti colorati. Non è giusto tenere in piedi questo governo, che invece di interessarsi al 30 per cento di disoccupazione giovanile, discute degli appartamenti di Fini a Montecarlo.
mondo
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Terrorismo. Da retrovia delle guerre in Afghanistan e Iraq, il continente nero è diventato centrale nell’attacco all’Occidente
Osama l’africano Dalla Somalia al Maghreb, dalla Nigeria al Kenya, ecco il nuovo fronte di al Qaeda di Enrico Singer attacco degli Shabaab contro l’hotel Muna, a Mogadiscio, e il massacro di deputati del Parlamento somalo, è soltanto l’ultimo anello di una catena molto lunga. È l’ennesima battaglia - di sicuro una delle più sanguinose - della campagna d’Africa di Osama bin Laden. La nuova strategia dell’attacco di al-Qaeda all’Occidente passa ormai per il continente nero che è stato retrovia e serbatoio di combattenti per le guerre in Afghanistan e in Iraq e adesso è diventato prima linea. Seguendo un copione già sperimentato: il collegamento, prima, e l’unificazione, poi, di diversi gruppi terroristici locali. Così, al-Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi) è nata sulle ceneri del Fronte di salvezza islamico (Fis) algerino e del Gruppo salafita per la preghiera e il combattimento (Gspc) che agiva anche in Marocco e in Mauritania. I quaedisti, in Somalia, hanno saldato l’azione dei pirati che infestano il Mar Rosso e lo stretto di Hormuz con gli integralisti delle Corti islamiche reincarnatesi nel movimento degli Shabaab. Che guarda anche all’altra sponda del Corno d’Africa - allo Yemen - per completare il disegno di Osama di prendere il controllo del Bab el Mandeb, il tratto di mare largo soltanto 30 chilometri che separa il continente africano dalla penisola arabica. Al-Qaeda nella penisola arabica (Aqpa), nata un anno fa dalla fusione delle cellule ye-
L’
menite e saudite dell’organizzazione terroristica è guidata personalmente dall’ex segretario di Osama bin Laden, AbdelKarim Wahishi.
La spinta islamista non è un fenomeno limitato alla regione del Corno d’Africa. Somalia, Sudan, Tanzania, Nigeria, Senegal, Sudafrica, Ciad, Niger, Etiopia, Uganda, Kenya sono stati già contagiati dal terrorimo di matrice fondamentalista attraverso un processo segnato da tre punti-chiave. La rivoluzione islamica di Khomeini, l’a-
zione dei predicatori musulmani itineranti - con Ahmad Hussein Deedat in prima linea - e i movimenti musulmani, in modo particolare il Fronte Nazionale Islamico (Nif) di Assan elTurabi. La fondazione della Repubblica Islamica dell’Iran, nel 1979, è il vero punto di partenza di un cambio di rotta. In Africa l’Islam era considerato, fino ad allora, come la religione e la civiltà di un altro popolo: gli arabi. Come ha scritto proprio su queste colonne Justo Lacunza Balda, già rettore del Pontificio istituto di studi arabi
Riesplode la guerra a Mogadiscio: fondamentalisti islamici contro il governo provvisorio
Anche dieci deputati tra le vittime I miliziani Shabaab attaccano un albergo, almeno quaranta morti di Antonio Picasso rano settimane che a Mogadiscio si viveva nell’attesa di un attacco degli Shabaab come quello che ieri ha colpito l’hotel Muna. Già all’inizio di agosto, i giovani guerriglieri islamici erano tornati a minacciare gli ormai pochi quartieri della capitale somala che restano sotto il controllo delle truppe regolari. Il bilancio dell’attentato è risultato subito pesante: almeno 40 morti, tra i quali una decina di parlamentari. L’episodio sembra la copia esatta di quello del dicembre 2009, quando, sotto i colpi dei Kalashnikov e delle bombe fatte esplodere dagli attentatori suicidi, rimasero sul terreno 57 persone. Nella lista delle vittime, anche allora, comparivano tre membri del governo di transizione.
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L’escalation di ieri ha avuto come preciso obiettivo quello di recuperare le misere risorse monetarie presenti nel Paese. Agli Shabaab, per combattere
il loro jihad - sempre più impopolare in Somalia - serve un’ingente liquidità che in questo momento è difficile farsi “spedire” dall’estero.
La Somalia si avvia al ventennale del suo fallimento politico. Era il 1991 quando cadeva vittima dei signori della guerra, tra cui Siad Barre. I tentativi di porre un freno al vortice di violenza, da parte delle Nazioni Unite, sarebbe crollato con una disonorevole exit strategy. Evacuata la comunità internazionale, il Paese non è stato più capace di risollevarsi. A nord il
L’esercito regolare ormai controlla soltanto alcuni quartieri della città e l’operazione di pace delle forze inviate dall’Unione africana non riesce a contenere l’azione dei gruppi terroristici Puntland e il Somaliland si sono autoproclamati indipendenti. Mogadiscio si è trasformata in un fronte di guerra aperto. Soltanto l’Unione africana si è mossa per cercare di contenere i danni all’interno dei confini somali. La sua operazione di peacekeeping (African Union Mission in Somalia - Amisom) è iniziata quasi quattro anni fa, finora però non ha ottenuto alcun risultato positivo. Oggi le forze fedeli
al governo di transizione - opportunamente distaccato a Nairobi, in Kenya riescono a controllare soltanto alcuni quartieri della città. Il resto è territorio di nessuno, dove gli abitanti sono facile preda dei mujaheddin, mentre questi ultimi cercano di raggiungere il pieno controllo del Paese; quando già sono nelle loro mani le province meridionali.
La lotta degli Shabaab però costa, in termini economici e di sostegno da parte della popolazione. Nel 2006, i giovani guerriglieri erano stati accolti come una forza di liberazione che affiancava le Corti islamiche, le quali intendevano fare della Somalia una repubblica fondata sulla shari’a, la legge islamica. Nel Corno d’Africa, però, la legge coranica non è mai stata accolta come una fonte giuridica primaria. Tuttavia, le tribù somale, dopo tanti anni di guerre intestine, videro nel progetto delle Corti e degli Shabaab l’unica soluzione per la pacificazione del Paese. Questa valutazione, nutrita di speranze, si scontrò con gli obiettivi di al Qaeda e delle altre forze jihadiste, che non hanno mai fatto propria la necessità di rendere stabile la Somalia. Al contrario, per il terrorismo di matrice fondamentalista islamica mantenere alto il livello di allerta sulle coste del Mar Rosso - quelle della Penisola arabica, ma soprattutto quelle africane - è sempre apparso come un’occasione tattica.
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p r t d U c m
Ne è maturato uno scollamento fra la
popolazione locale e i miliziani, i cui ranghi oggi risultano costituiti prevalentemente da mujaheddin stranieri, giunti dall’Afghanistan oppure dal Maghreb. Un’ulteriore conferma si riscontra nel crescente gap tra gli Shabaab e gli altri movimenti jihadisti: “al-Ittihad al-Isla-
mondo
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e d’islamistica - che è uno dei massimi esperti di islam - «la rivoluzione khomeinista arriva in un momento cruciale nella storia africana, legato alla delusione verso gli arabi: i capi religiosi erano alla ricerca di un modello di islam africano, ed ecco che dall’Iran arriva un modello da seguire». È quello che Abdullah Saleh al Farsy (1912-1982), scrittore, traduttore del Corano in lingua swahili e poeta, chiamava «scuotere la polvere del colonialismo degli arabi», quando scriveva della ricerca di una identità dei musulmani africani.
Da Teheran gli uffici della propaganda s’incaricano di produrre e di distribuire documenti e publicazioni per rispondere alle aspettative dei leader musulmani africani. La rivista Umma (Comunità) pubblicata in lingua swahili viene diffusa in Somalia, Kenya, Uganda, Burundi, Rwanda, Repubblica Democratica del Congo, Mozambico, Zambia, Malawi e Sudafrica. Le sedi diplomatiche iraniane propagandano i risultati politici e culturali della rivoluzione. È allora che nascono le prime formazioni politiche per contrastare l’ere-
mi” (Aiai), “al-Itisam” e “Hizbul-Islam”. I quattro gruppi, tutti di orientamento salafita, sarebbero costituiti da una forza variabile fra i seimila e gli ottomila membri. Gli Shabaab però si sono sempre mossi in autonomia, escludendo, a differenza degli altri, un progetto politico di ricostruzione nazionale. Solo in alcune circostanze, dettate più dall’opportunismo, i mujaheddin hanno creato insieme all’Aiai, al Itisam e a Hizbul-Islam una forza d’urto omogenea.
Scene di guerra anche ieri a Mogadiscio. In alto, una donna ferita nell’attacco degli shabaab e, a sinistra, Osama bin Laden
Le agguerrite m i l i z i e degli shabaab, finora, hanno dimostrato una capacità operativa superiore a tutte le altre componenti armate presenti sul territorio somalo. Questo è dovuto al contributo monetario e umano da parte di al Qaeda. Tuttavia la tempistica e l’attuale congiuntura strategica si stanno rivolgendo contro la guerra in Somalia. Il jihadismo preferisce concentrarsi sull’Af-Pak war e sul Maghreb, dove al-Qaeda sta perdendo consensi, invece che sprecare risorse in un conflitto dimenticato. Peraltro, con la stagione dei monsoni, raggiungere il Corno d’Africa via mare con armamenti e importanti quantitativi monetari appare difficile. Le stesse attività di pirateria sono ridotte al minimo. La strada via terra da nord è altrettanto impervia e lunga. L’Etiopia rappresenta un ostacolo quasi invalicabile. L’Eritrea è l’unico corridoio che permette agli Shabaab di restare in contatto con il jihadismo del nord Africa. Tuttavia si sta rivelando insufficiente. Per i combattenti somali, quindi, non resta che la depredazione sul posto di quel poco che si può ancora saccheggiare in un Paese in guerra da vent’anni. Fare cassa per gli Shabaab significa, però, aumentare il livello di violenza e inimicarsi ulteriormente le tribù locali.
ne di predicatori. I loro insegnamenti si fondano sul ritorno all’Islam delle tradizioni e della sfida alle comunità cristiane e ai governi africani filo-occidentali. L’Arabia Saudita, l’Egitto e la Libia hanno appoggiato la diffusione di questo islam conflittuale che s’intreccia con la terza componente dell’islamismo radicale: l’attività dei gruppi estremistici musulmani. Il Fronte nazionale islamico (Fni), ispirato dai Fratelli musulmani egiziani di Hassan al Banna (1906-1949), è uno dei referenti principali degli islamisti africani. Il Fni fu fondato dal giurista e politico sudanese Hassan al Turabi.
È senza dubbio l’intellettuale che ha avuto maggiore influenza negli ambienti islamisti africani. Le sue le rivendicazioni sono arrivate oltre oceano, negli Stati Uniti e in Canada, nelle file dei musulmani in Europa e in movimenti come Hamas e i talebani. Il testo di al Turabi Lo Stato Islamico è stato tradotto in molte lingue, perfino in malayo, idioma colombiano e di alcune regioni del Pacifico. Ma qual è la teoria di al Turabi? Sono due le idee centrali del suo discorso. La prima è che la leg-
Lo sceicco del terrore insegue l’antico disegno del Califfato: controllare le due sponde del Bab el Mandeb dallo Yemen alle coste somale dità delle potenze coloniali occidentali. Sono molti i leader religiosi, gli insegnanti delle scuole coraniche e i politici musulmani che cominciano a reclamare la creazione di uno Stato islamico nei loro Paesi sul modello iraniano. Le più importanti confraternite musulmane sunnite (i Muridi, la Qadiriyya, la Shadiliyya, la Tijaniyya) avevano già avuto un’influenzato politica. Ma con l’Iran khomeinista, però, si rafforza il concetto di mujahidin, il combattente islamico. Migliaia di credenti africani sono reclutati per il jihad in Afghanistan, le Filippine, la Cecenia e i Balcani.
Il secondo fattore della penetrazione dell’integralismo è l’insegnamento dei «predicatori di strada», figure molto importanti nella società africana dove il mercato ha una dimensione culturale oltreché economica. Fa parte del tessuto della vita, crea rete di communicazione, sistema di influenza ed equilibri di potere. L’esempio più evidente è la presenza di migliaia di rifugiati somali nei Paesi dell’Africa orientale che controllano il commercio del bestiame, le macellerie e il commercio del qat (la droga tipica di quelle zone). Il grande promotore di questa categoria di «predicatori itineranti» è stato Ahmad Hussein Deedat (morto nel 2005) che dal suo centro islamico di Durban, in Sudafrica, aveva ispirato deci-
ge islamica è il fondamento delle leggi dello Stato e la seconda ne è la conseguenza: la necessità di riscrivere le Costituzioni nazionali in base alla Shari’a. Ma al Turabi ha preso anche due decisioni che hanno avuto una influenza decisiva nello sviluppo dell’islamismo in Africa. Ha collegato le sue idee a al Qaeda, ha accolto Osama bin Laden in Sudan nel 1991 ed è diventato il coordinatore del movimento islamista con la Conferenza Araba Popolare (Cap), che riunì a Khartum, negli anni Novanta, i rappresentanti dei movimenti islamici mondiali. Le delegazioni più numerose furono quelle afghane. La visione islamista di al Turabi, che vive ancora oggi in Sudan, ha avuto molta influenza sul movimento dei Janjaweed nel Darfur, sul gruppo dei difensori della Shari’a in Nigeria, su quello del Maghreb islamico in Africa occidentale e quello dell’Unione delle Corti islamiche in Somalia. Ecco che il cerchio si chiude. È su questo tessuto ideologico-religioso che s’innesta l’attività politico-terroristica delle formazioni che sono direttamente, o indirettamente, controllate da al Qaeda e dallo sceicco del terrore che rinnova, in fondo, l’antico disegno del Califfato che voleva estendere il suo controllo sulle due sponde del Golfo di Aden, dove lo Yemen (terra natale della famiglia di Osama, poi emigrata in Arabia Saudita) e la Somalia si fronteggiano.
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economia
Respingimenti. Cresce l’imbarazzo nel governo e nel sindacato per la decisione del Lingotto di non reintegrare i tre lavoratori
Melfi, Matteoli sgrida Marchionne Il ministro: «Rispettare la sentenza». Ma l’Ad deve prima occuparsi di Chrysler di Francesco Pacifico
ROMA. Quello che 24 ore prima Maurizio Sacconi aveva fatto soltanto intendere, l’ha esplicitato il suo collega Altero Matteoli. Cioè che il governo auspica da Fiat un veloce ritorno al lavoro di Giovanni Barozzino, Antonello Lamorte e Marco Pignatelli, i tre operai della Sata di Melfi licenziati a luglio con l’accusa di boicottarne la produzione, e reintegrati dal giudice del lavoro.
A riprova che le scelte di Sergio Marchionne stanno creando imbarazzo nell’esecutivo come nel sindacato (Cisl e Uil) che ha sempre dialogato con Torino, forse la scelta del ministro delle Infrastrutture di non misurare le parole. Infatti non fa accenno alle «provocazioni della Fiom», leit motiv delle prime dichiarazioni di Sacconi, Bonanni e Angeletti. «Le sentenze», ha affermato Matteoli, ospite del Meeting di Rimini, «vanno rispettate anche quando non fanno piacere. Il nostro è uno stato di diritto e non lo può essere a fasi alterne. A Melfi c’è una sentenza e la sentenza deve essere rispettata». È difficile che questo richiamo – come la denuncia penale presentata dalla Fiom o l’appello dei tre a Giorgio Napolitano – spinga l’Ad a cambiare idea. Soprattutto in questi giorni, nei quali è impegnato a Detroit a ridefinire la rete commerciale che assieme ai marchi Chrysler dovrà commercializzare negli Usa Fiat e Alfa Romeo. Fino al 6 ottobre, quando la commissione del Lavoro discuterà del ricorso presentato dalla Fiat, l’azienda permetterà a Barozzino, Lamorte e Pignatelli soltanto l’ingresso ai locali destinati all’attività sindacale. E pur pagandoli regolarmente, li terrà lontani dalla produzione. Ieri questi lavoratori hanno deciso di non varcare i cancelli, preferendo conoscere la decisione del giudice sulla denuncia presentata dalla Fiom contro l’azienda per inottemperanza alla sentenza di reintegro del 9 agosto. Ma se tutti sono d’accordo che un ritorno al lavoro dei tre calmerebbe le acque, le parti – sindacato in testa – sono divise su come gestire la vicenda. Anche perché a
Male i listini europei dopo il crollo delle vendite immobiliari in America
Usa: rallentano le Borse ROMA. Lo spettro del double-dip, di una ricaduta nella recessione, negli Stati Uniti affonda le Borse europee e americane e mette a dura prova la credibilità delle loro economie. A spingere i listini del Vecchio Continente ai minimi da un mese a questa parte il crollo, registrato a luglio; nelle vendite di case: -27,2 per cento. L’ennesimo campanello d’allarme dopo che a inizio mese Ben Bernanke ha espresso dubbi sulla crescita Usa. E non hanno aiutato le parole di Martin Weale, membro della Banca di Inghilterra: «Ci sono significativi rischi di una doppia recessione». Così a Londra il Ftse 100 ha ceduto l’1,51 per cento, a Parigi il Cac 40 l’1,75 e a Francoforte il Dax 30 di Francoforte arretra dell’1,26 per cento. A Wall Street, dopo un’ora dall’apertura, il Dow Jones era già a -1,06 e il Nasdaq a -1,51. Sulla stessa scia Piazza Affari, dove pure è stata gradita la maxioperazione della Finanza, che ieri ha scoperto capitali evasi verso San Marino pari a miliardo. Milano ha chiuso in calo dell’1,58 per cento: male i bancari dopo un report di Goldman Sachs e i titoli del cemento. Uno dei colossi del settore, l’irlandese Chr, ha annunciato ricavi
core inferiori al 10 per cento a causa del rallentamento della ripresa Usa.
Sono tanti i segnali che dimostrano le paure degli operatori. Intanto la caccia ai bund tedeschi, titolo di Stato sicuro per eccellenza, che ha portato il suo rendimento decennale al minimo storico del 2,25 per cento. Di converso i futures sugli indici azionari Usa viaggiano in profondo rosso. Cosa di cui beneficia l’euro, a 1,27 sul dollaro.
Olli Rehn, commissario europeo agli Affari economici e monetari, ha smentito rischi di default, ma ha ammesso che «siamo nella stessa barca perché un double-dip negli Usa avrebbe ripercussioni anche nella Ue». Questo stato di cose finisce per indebolire anche il Giappone. Gli investitori hanno deciso di rifugiarsi nella moneta nipponica, che appare più sicura dopo che il governo ha garantito di guardare «con molta attenzione allo squilibrio del mercato dei cambi». E tanto è bastato perché lo yen volasse ai massimi sul dollaro e sull’euro. Inutile dire che la cosa non aiuta le esportazioni di un Paese con la capitalizzazione di Borsa ai minimi.
I mercati temono una recessione bis e si rifugiano in Bund tedeschi e yen. Scoperta maxi evasione verso San Marino
settembre si dovrà discutere del futuro di Mirafiori, sito del quale non si conosce il destino dopo la decisione di trasferire in Serbia la produzione del monovolume. Emblematico quanto avvenuto ieri mattina durante la trasmissione di Radiouno, “Radio Anch’io”. Dopo che il sottosegretario allo Sviluppo economico, Stefano Saglia, aveva sottolineato che Fiat, «per continuare a rimanere dalla parte della ragione debba applicare le sentenze della magistratura», la leader in pectore della Cgil, Susanna Camusso, è sbottata. E ha spiegato: «Non è che c’è qualcuno che siccome investe ha diritto di violare le regole. Con una logica così si va all’infinito». Parole che non sono piaciute al segretario della Cisl, Raffaele Bonanni: «Chi non rispetta le regole è la Fiom. La Fiat non deve fare il suo gioco. E non deve perdersi in rincorse deleterie per noi ma anche per l’azienda stessa e l’opinione pubblica. La quale deve avere al centro l’importanza di un investimento da 20 miliardi di euro in sei anni, con una delocalizzazione al rovescio». Non da meno la controreplica: «Sono stupita di come un grande sindacato come la Cisl non capisca che se non si rispettano quelle forme basilari che stanno all’origine delle relazioni sindacali non si può andare avanti».
Se in Italia si litiga, in America il manager italo-canadese non sembra avere non meno grattacapi. Certo, ha incassato i complimenti del vicepresidente Usa Joe Biden in visita allo stabilimento Chrysler di Toledo e dei maggiori sindacati americani. Eppure deve fare i conti con due problemi complessi: l’allungamento dei tempi nel turnaround della piccola di Detroit e il riassetto della rete commerciale in attesa dello sbarco della 500. Sul primo versante ha dichiarato che per il costruttore Usa «potrebbe essere difficile tornare all’utile entro il 2010». Sull’altro, e stando al New York Times, i concessionari temono che piazzare anche le vetture Fiat e Alfa possa levare energie alla vendita delle auto marcate Chrysler. In una fase, poi, nella quale i concorrenti Gm e Ford provano a ridurre i brand.
L’
otto pagine per cambiare il tempo d’agosto
i m p r e s a
25 agosto (1718)
I fratelli de Bienville fondano New Orleans, la futura patria del jazz
E il cielo è sempre più blues di Massimo Tosti a voce fuori campo recita il prologo, nel primo quadro del primo atto. Una voce impostata, come richiedono le circostanze. È un brano che – con le pause giuste – intrattiene gli spettatori in platea per meno di due minuti, con il compito di coinvolgerli nell’ambiente nel quale maturerà il dramma. Ecco il testo, come fu scritto (e messo in scena) sessantatre anni fa: «L’esterno di una palazzina a due piani all’angolo di una via di New Orleans che si chiama Campi Elisi e va dalla Ferrovia Louisiana Nord, al fiume. È un quartiere povero, ma, al contrario di analoghi quartieri di altre città americane, ha un suo fascino colorito. Gran parte delle case sono di legno bianco, ingrigite dal tempo, con traballanti scalette e ballatoi e abbaini curiosamente adorni. La casa è composta di due appartamenti: pianterreno e primo piano. Scalette di un bianco smunto salgono ai due ingressi». Si abbassano le luci sul palcoscenico, per raccontare al pubblico che sta scendendo la sera. La voce continua: «I primi giorni di maggio. Il cielo che fa da corona alla casa biancastra è di un azzurro particolarmente tenero, un turchese, che infonde alla scena una sorta di lirica grazia e ne attenua la desolazione. A tratti vaghi sentori di banane e di caffè, par di respirare il fiato caldo del nume che scorre bruno dietro i depositi della riva. Un’atmosfera simile è evocata dalla musica dei suonatori di un bar dietro l’angolo. Da questa parte di New Orleans; c’è sempre, a qualche porta di distanza, e dietro l’angolo, un pianoforte che dita brune scorrono con soavità. Questo Blue Piano è l’espressione della vita che si svolge qui. Due donne, una bianca e una negra, prendono il fresco sulla scala della casa. La bianca è Eunice, che abita al piano di sopra, la negra è una vicina, giacché New Orleans è una città cosmopolita che mantiene, nel quartiere antico, una bonaria e relativamente libera promiscuità di razze.
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LA PERDUTA GENTE - CAPITOLO 17
I TESORI DELLE CIVILTÀ - ANI
CINEMA CALDO - FERIE D’AGOSTO
Carabine di carta e vecchi fucili
Le mille e una chiesa armena
La Seconda Repubblica di Virzì di Alessandro Boschi
di Carlo Chinawsky
di Rossella Fabiani
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In alto, da sinistra Dalla storia del jazz e del suo a destra, lo scrittore Wiliam legame con New Orleans si scoFaulkner, pre che questa città è anche un uno squarcio d’epoca di po’italiana: a partire dal 1880 vi si New Orleans, stabilì una numerosa comunità di emigrati della Sicilia, giunti per e una jazz band cittadina. coltivare i territori della LouisiaQui accanto, un ensemble na, offerti gratuitamente a coloro locale. Nella pagina a fianco, Louis che erano disposti a coltivarli. Il primo disco di musica jazz è staArmstrong e Dylan
Alla musica del Blue Piano, si intrecciano le voci della strada». Quattro anni dopo, il dramma fu riproposto sullo schermo, con la regia di Elia Kazan, e un cast di attori che comprendeva Vivien Leigh, Karl Malden e un giovanissimo Marlon Brando. Il film – Un tram che si chiama desiderio – ripropose in tutto il mondo il fascino misterioso, a tratti sordido ma incorruttibile, di New Orleans, la città più francese degli Stati Uniti, ma anche la più nera (per il colore della pelle di una percentuale consistente dei suoi abitanti), la più chiassosa, la più rissosa, la più musicale dell’America del Nord.
Uno dei figli più celebri di New Orleans, Louis Armstrong, il re del jazz, la raccontò in modo molto simile, in un libro autobiografico. “Satchmo” (come lo chiamavano tutti) nacque nel 1900 nel quartiere di Back o’ Town, uno dei quattro spicchi di New Orleans (gli altri sono Uptown, Downtown e Front o’ Town). La strada in cui nacque Armstrong, «si trova nel cuore della zona soprannominata il ‘Campo di Battaglia’ per via dei suoi rissosissimi abitanti che si azzuffavano e sparavano in continuazione. In quell’unico isolato stretto fra Gravier e Perdido Street viveva stipata più gente di quanta ne possiate vedere mai in
vita vostra. C’erano uomini di chiesa, biscazzieri, imbroglioni, ladruncoli, papponi, prostitute e sciami di bambini. C’erano bar, honky tonk e saloon e un sacco di donne che battevano il marciapiede a caccia di clienti da portarsi nella ‘tana’, come chiamavano la loro stanza». Nella notte in cui Satchmo nacque ci fu, stando a un racconto della madre, «una sparatoria furibonda nel vicolo e i due si ammazzarono a vicenda. Era il quattro di luglio, festa grossa per New Or-
viò agli strumenti musicali. «Per tutto il periodo di Natale e Capodanno New Orleans è in festa», racconta Satchmo in La mia vita a New Orleans, «ci sono i fuochi artificiali e i cortei che percorrono la città al lume delle torce. All’epoca sparavamo con fucili e pistole o con qualsiasi cosa facesse più rumore possibile. L’uso delle armi da fuoco era ufficialmente proibito e bisognava evitare di farsi sorprendere dalla polizia con l’arma addosso per non finire in gattabuia. E questo è quanto mi capitò, col risultato peraltro che imparai a suonare la tromba».
I primi coloni arrivarono dalla Francia, dal Canada e dalla Germania. I francesi deportarono molti africani per impiegarli come schiavi, e la città si popolò di disperati
leans, un giorno in cui può succedere di tutto. Quasi tutti festeggiano la ricorrenza con pistole, fucili o qualunque arma ci fosse a portata di mano». Un’abitudine alla quale non fu estraneo neppure lui, il trombettista più famoso del mondo.Anzi: proprio l’uso scellerato delle armi, lo av-
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Lo beccarono
con una calibro 38 in mano. Aveva tredici anni. Il giorno dopo lo rinchiusero nel riformatorio per i ragazzi di colore. E lì entrò a far parte della brass band dei piccoli carcerati, dimostrando la sua vocazione e il suo talento. Ma questa sarebbe un’altra storia, se non si intrecciasse a filo doppio, con quella che è la maggiore risorsa naturale di New Orleans: la musica, il jazz, la gioia di vivere e la gioia di mori-
re, raccontate sempre con il ritmo, il calore e il colore della musica. I funerali sono accompagnati sempre da un’orchestra. Appena la salma è sotterrata, «tutti i pensieri tristi svaniscono»: la musica riprende e «tutti si mettono a ondeggiare da una parte all’altra della strada, specialmente quelli che si inseriscono nel corteo e seguono quelli che tornano dal funerale. Questi sono noti come ‘seconda fila’, costituita da tutti i passanti occasionali che hanno semplicemente voglia di ascoltare un po’di musica.Vengono coinvolti dalla forza della situazione e si uniscono agli altri per vedere cosa sta succedendo. Alcuni seguono il corteo solo per un certo tratto di strada, ma ci sono altri che vanno dietro all’orchestra fino alla fine».Torna in mente un vecchio modo di dire romano. Riferito a chi non sceglie mai la strada più breve per raggiungere una qualsiasi destinazione, si dice che ha fatto «il giro di Peppe appresso alla Reale», alludendo a un qualche giovanotto sfaccendato che non si privava del piacere di seguire la Banda Reale nelle sue peregrinazioni nel centro cittadino. Renzo Arbore, uno che di musica se ne intende (e che ha ricevuto la cittadinanza onoraria di New Orleans) ha detto una volta che la città (che lui ama immensamente) è «diventata molto turistica, ma quando la conosci meglio ti restituisce un “sapore particolare”che è francese e americano allo stesso tempo, e che soprattutto “è nero”, in quanto ha ospitato per primo i neri provenienti dal Senegal», che hanno contribuito moltissimo alla nascita e allo sviluppo della musica jazz.
to inciso da un gruppo di origine italiana, la Original Dixieland Jazz Band (senza dimenticare la famosissima Roman New Orleans Jazz Band di Carlo Loffredo che ha importato in Italia il jazz e il gospel, riscuotendo grandi successi, anche all’estero, negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta). New Orleans è stata, fin dalle sue origini, un magnifico esempio di melting pot, un crogiolo e un miscuglio di razze e tradizioni. Furono i francesi a fondarla. Due fratelli, Pierre e Jean-Baptiste Le Moyne de Bienville, erano stati i primi (nel 1699) a risalire il Mississippi dal Golfo del Messico. Quasi venti anni più tardi – il 25 agosto 1718 posarono la prima pietra di Nouvelle Orléans (chiamata così in onore del duca Filippo d’Orleans, reggente a Parigi in attesa che il re Luigi XV raggiungesse la maggiore età. I primi coloni arrivarono soprattutto dalla Francia, dal Canada e dalla Germania. I francesi deportarono molti africani per impiegarli come schiavi. La Louisiana (il nome fu scelto in onore del re di Francia Luigi XIV) non si rivelò un buon affare politico e commerciale. La fonte principale di guadagno era il contrabbando, mentre New Orleans si affollava di delinquenti di ogni risma. La Francia cedette la proprietà agli spagnoli, ma poi la riacquistò per cederla definitivamente agli Stati Uniti nel 1803 dietro un compenso di 15 milioni di dollari. Il passaggio all’amministrazione americana non venne affatto accolto con entusiasmo. Per i creoli francesi gli americani erano l’espressione di una cultura dominante fracassona e volgare. Le convinzioni degli americani di fede protestante e il loro sostegno al diritto consuetudinario inglese
L
o stesso giorno...
Il cannocchiale da cui prese spunto trova le sue origini nell’Olanda del 1604. Lo scienziato ne intuì subito il grande potenziale e lo adattò di Sabrina de Feudis all’osservazione dei corpi celesti pur si muove». Celebre fra- sentò al doge di Venezia il
Tutti a rimirar le stelle In Laguna sbarca il telescopio di Galileo
«E
erano percepiti come una minaccia allo stile di vita creolo.
Nel 1808 la legislatura territoriale prese provvedimenti tesi a preservare la cultura creola introducendo elementi di diritto spagnolo e francese, in particolare il codice napoleonico, che si ritrovano in certa misura ancora oggi. Nel corso del XVIII e del XIX secolo New Orleans fu devastata dalle epidemie di febbre gialla. Malgrado ciò, nel 1840 era la quarta città degli Stati Uniti con più di 100mila abitanti. Nel 1852 gli americani ottennero l’amministrazione della città e poco dopo erosero il potere creolo sospendendo il Code Noir (Codice Nero), un documento del 1724 che aveva regolamentato il trattamento degli schiavi e delle persone di colore libere. Nel 1850 New Orleans era diventato il maggior centro del commercio degli schiavi del Sud. Dopo l’elezione di Abramo Lincoln alla presiden-
se che lo scienziato Galileo Galilei, mormorò mentre abiurava. Accusato di voler sovvertire la filosofia naturale aristotelica e le Sacre Scritture, fu per questo condannato come eretico dalla Chiesa cattolica e costretto, il 22 settembre 1633, all’abiura, nonché a trascorrere il resto della sua vita in isolamento. Il suo peccato più grande fu quello di aver esposto come tesi scientifica (e quindi assoluta) la teoria copernicana, fino ad allora considerata solo un’ipotesi. Fisico, filosofo, astronomo e matematico, considerato il padre della scienza moderna. Il suo nome è legato a importanti contributi in dinamica e astronomia, fra cui il perfezionamento del telescopio, che gli permise importanti osservazioni astronomiche e all’introduzione del metodo scientifico. Il 24 agosto del 1609, pre-
dagli inizi dell’epoca della schiavitù, tutte le domeniche i neri si riunivano in Congo Square, l’unico luogo nel Sud in cui ciò era permesso, per ballare e suonare accompagnati dalla musica delle percussioni. In seguito, il genere musicale indigeno, chiamato jazz, cominciò a prendere forma, e molti musicisti della prima ora si esibivano nel quartiere a luci rosse di Storyville (che prese il nome dall’assessore Albert Story, che si adoperò per confinare il vizio all’interno di questa piccola
suo primo telescopio, con il quale fece importanti osservazioni. In realtà Galileo perfezionò in maniera magistrale uno strumento già esistente. I primi cannocchiali risalgono al 1352. Lo stesso Leonardo da Vinci, intraprese nel suo periodo veneziano studi approfonditi sulle lenti. Ma il cannocchiale da cui prese spunto Galileo per creare quello che noi oggi chiamiamo telescopio trova le sue origini nell’Olanda del 1604. Un suo amico gliene mostrò uno e lo scienziato intuì subito che dietro quel tubo poteva nascondersi qualcosa di importante, quindi lo perfezionò, adattandolo ai suoi studi sull’osservazione dei corpi celesti. Il suo cannocchiale era formato da due lenti di vetro, una concava e l’altra convessa. L’occhio osservava dalla parte della lente concava che gli permetteva di vedere le cose più vicine. Più tar-
morti continuano a vivere. «Il passato non si cancella presto in questo luogo. Qui potete sopravvivere, da morti, per molto tempo». Le sfide sono dietro ogni angolo a New Orleans. «C’è qualcosa di oscenamente gioioso dietro ogni porta, persino dove qualcuno sta piangendo con la testa fra le mani. Un ritmo pigro pervade l’aria sognante e l’atmosfera è carica di duelli passati, di storie d’amore di una vita passata, di compagni che chiedono ad altri compagni di essere aiutati. Non pote-
di i cannocchiali di Galileo consentirono di vedere gli oggetti a una distanza ravvicinata di 30 volte. Grazie ai suoi cannocchiali scoprì: l’esistenza delle macchie solari e 4 dei 12 satelliti di Giove. Tutto ciò gli permise di confermare l’esattezza della teoria eliocentrica di Copernico, rivoluzionando la storia del mondo.
quartieri, ci sono sfilate in maschera: è d’obbligo indossare qualcosa di viola, oro e verde che rappresentano la giustizia, la forza, la salute. In una città che è anche (in virtù del miscuglio e del crogiolo) simbolo di libertà. Se ne accorse un altro scrittore che trascorse alcuni mesi nella città (nel 1925), quando non era ancora famoso. In una raccolta di racconti (New Orleans Sketches) propose questo rapido schizzo, degno di un pittore: «Passammo sotto le immacolate forme dei lampioni,
gente sostava a bocca aperta e una voce stava dicendo: `Il più gran pezzo di statuaria del mondo: tutto in bronzo, del peso di due tonnellate e mezzo, in equilibrio sulle zampe posteriori’. E meditai sugli oltraggi inflitti dai nostri governi municipali ai grandi uomini che lottarono per renderli possibili; osservai come erano verdi gli alberi, e l’erba, e come narcisi e giacinti sembrassero danzatori in posa; benedissi quel genio che aveva immaginato un parco
Fin dagli inizi dell’epoca della schiavitù, tutte le domeniche i neri si riunivano in Congo Square, l’unico luogo nel Sud in cui ciò era permesso, per ballare e suonare accompagnati dalla musica delle percussioni. In seguito, il genere musicale indigeno, chiamato jazz, cominciò a prendere forma za degli Stati Uniti la Louisiana fu il sesto Stato schiavista del Sud a proclamare la secessione, anche se tre quarti degli elettori di New Orleans avevano votato a favore dell’Unione. E New Orleans fu la prima città confederata a cedere le armi. Nei primi anni del XX secolo tutti gli elementi culturali erano maturi per dar vita alla rivoluzione musicale che a sua volta diede origine al jazz. Fin
zona). Cinque anni fa la città fu devastata dall’uragano Katrina, che provocò un elevato numero di vittime in tutto il delta del Mississippi. Venticinque giorni dopo la tragedia, l’International Herald Tribune pubblicò un articolo firmato da Bob Dylan (che aveva trascorso un lungo periodo a New Orleans all’inizio degli anni Ottanta), dedicato ai “fantasmi della città”. Ai cimiteri nei quali i
te vedere tutto questo, ma sapete che esiste». Atmosfere magiche, che si rinnovano nelle grandi feste popolare, come nel Carnevale (che richiama moltissimi turisti) e vive il suo culmine nel “mardi Gras” (che si celebra il 16 febbraio, ma si protrae fino alla fine del mese. Per le strade dei vari
fra vetusti cancelli d’un verde tenue, ed ecco Jackson Park.
C’erano rondini posate sulla testa di un Andrew Jackson che, come concepito da un bambino, cavalcava un arcuato destriero immobilizzato in uno slancio terrificante. Sotto lo sguardo lontano del generale la
senza cartelli di divieto, dove è lecito ai vagabondi starsene sdraiati al sole, e bambini e cani possono impunemente spassarsela sull’erba». La città nella quale – ancora oggi – è possibile immaginare la presenza del grande Satchmo, che a passo di danza, alla testa della sua band canta “When the Saints go marching in”.
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IL GIALLO
CAPITOLO 17 Carabine di carta e vecchi fucili Calcoli spregiudicati, strani azzardi: c’era stata una partita a scacchi e qualcuno aveva perso di Carlo Chinawsky ignora, ha ancora voglia di raccontarmi qualcosa? Sul letto accanto a una donna da interrogare. Lei in accappatoio, io assonnato. Forse avrei dovuto descrivere una scena simile in un romanzo. Col rischio d’essere poco credibile. «Di Alcide so poco, molto poco» aggiunsi. «Non mi chiami signora. Facciamo Jole. Va bene oppure è un modo per inquinare le prove, come dite voi?». «Non sono un magistrato. Il tu o il lei cambiano poco, l’importante è capirci. Magari anche fidarci. Lei… ». «Sì lo so, devo averle dato l’impressione di essere stronzissima». Espressione usata dai suoi alunni, evidentemente. «In effetti sì. E ora siamo nello stesso letto… ». Lei rise. Era la prima volta che lo faceva da quando c’eravamo incontrati. Un suono limpido, da trentenne.
S
Comunque non smettevo di pormi la solita domanda: può una persona cambiare così repentinamente, solo per essere stata scoperta nella sua vita segreta? Forse doveva riscattare la rispettabilità dell’“altra” Jole, capace di citare brani di Catullo sull’amore e dimenticare la sguaiata offerta del suo corpo nell’ombra dei
privé. Credo che ogni uomo sia attratto dall’osceno: da solo o mischiato all’intellettualità. E non mi reputo un’eccezione. Mi afferrò la mano e si avvicinò a me. Aspirai l’odore di umido e di bagnoschiuma prima di accettare il rischio vero di inquinare le testimonianze. Quel che accadde tra me e lei fu qualcosa di simile a un file da riporre nella memoria oceanica di un computer. Pensai ancora una volta, col peso lieve del suo capo sulla mia spalla, allo sforzo titanico di dare spiegazione a tutto o a quasi tutto. Tuttavia mi è sempre capitato di gonfiare l’archivio dei ricordi non tanto con immagini e particolari, quelli sgambettano come formiche opportuniste e ingovernabili, ma con punti interrogativi. Come se sul fascicolo “La mia notte con Jole”la cosa più importante e più vistosa fosse il titolo: “Perché è accaduto questo?”. Tutta la mia memoria è fatta di domande. A cominciare dalla morte di mia moglie. E prima ancora quella di mio padre.
In mezzo a noi c’era un silenzio animalesco. O una specie di bestia dal fiato pesante ma non indecente. Era come
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se tastassi le linee del suo corpo anche se non le ero addosso. «Quindi non sai niente di Alcide… ». Jole tolse le mani da dietro la nuca e le posò appena sotto il seno. Respirava lentamente, non s’avvertiva quasi il movimento del busto. Notai alcuni minuscoli nei poco sopra la caviglia destra. Era il Cristo morto di Mantegna, oppure un cadavere all’obitorio. Le unghie erano smaltate di rosa pallido. Quelle di Marina di rosso fuoco. La donna di una sola notte aveva piedi piccoli e paffuti, la donna di tante notti li aveva più lunghi e magri. «Conosco ciò che gli stava attorno. Ho vangato il terreno, ma mi è ancora sconosciuto l’albero che sta in mezzo», risposi. Doveva e voleva recuperare le forze, malgrado il sonno. Mi parlò di lui, senza alcuna commozione. Sapevo che se avessi rinviato il colloquio, tutto poteva rientrare nello scrigno dell’“altra” Jole. S’erano incontrati nella città dove entrambi erano nati, Perugia. Si frequentarono all’università. Jole, per le sue tristi vicende familiari, si aggrappò a quel ragazzo severo che certi compagni, per scherno, chiamavano l’allegrone. «Mi attrasse la
Mi parlò di lui senza alcuna commozione. Sapevo che se avessi rinviato il colloquio, tutto poteva rientrare nello scrigno dell’altra Jole. S’erano incontrati a Perugia. Si era aggrappata a quel ragazzo severo che molti chiamavano “l’allegrone” sua vitalità nascosta – raccontò – sai, io non ne potevo più di esibizioni, di teatro clandestino… con mio padre, te l’ho detto prima…
Alcide lo vidi subito come una barchetta che ha una sola destinazione, il porto riparato, in acque quasi immobili… io volevo una tranquillità noiosa che assomigliasse a uno di quei conventi dove non succede mai niente, dove il mondo esterno non trova interstizi e non vi entra, dove si devono seguire le regole, dove sei quello che fai ogni giorno con la garanzia che quel che fai è corretto… sì, corretto è la parola giusta». «Niente amore…». «Non ho mai saputo che cosa sia veramente. Non posso che andare per esclusione: con Alcide niente palpiti del cuore, sesso raro, di quello che non mi alzava mai
da terra, che non mi trasformava mai in un gabbiano… il sesso era come una digestione lenta, legata alle regole del mio convento. Dirai: ma che tristezza… lo so, è per questo che… ». «I club privé – l’aiutai – Ma dimmi, hai cominciato a frequentarli anche prima… insomma, quando eri con lui?». «Ebbene sì. Non subito, è ovvio. Quei locali non c’erano, oltretutto. O forse sì, non so. Uscivo dal mio speciale convento, ma non per prendere un caffè o guardare le vetrine o per andare al cinema, no… sarebbe stato da cretini infrangere le regole per così poco. Quando uscivo, certe sere, dopo aver inventato le solite scuse, mi sembrava di aprire la porticella oltre la quale si apriva un inferno divertente… e visibile solo a me. Non so se capisci… ». «Credo di sì. Ma Alcide venne a sapere?». Mi
LA PERDUTA GENTE Forse aveva calcolato male la dimensione dello scandalo. O perlomeno aveva compiuto l’errore più grossolano: tenere in un cassetto per troppo tempo certe carte buone per un ricatto, sottovalutando la reazione di quello che credeva il suo bersaglio
Nelle puntate precedenti Pizzi e Stauder intercettano la Santilli all’uscita del locale osè da lei frequentato. La vedova invita il colonnello a casa sua, dove confessa come l’enorme solitudine e un’infanzia difficile l’abbiano sospinta verso la trasgressione. Spiega di aver sposato Alcide senza amore, nella speranza che lui potesse colmare i suoi vuoti. Poi la donna va a fare una doccia, e si sdraia sul letto accanto ,al colonnello Stauder.
Illustrazione di Michelangelo Pace disse, con un sorriso stentato, che la scoperta avvenne proprio come in un romanzo di quart’ordine. Il caso volle che s’incontrassero nella stessa dark room. Allora di quei locali non ce n’erano poi tanti. «E che hai fatto?». «In teoria poteva essere l’occasione per stare vicini, per la prima volta. In fondo eravamo nella stessa stanza della fantasia. Perché non approfittare? Fu lui ad andarsene per primo. Non accettò. Fatto sta che il giorno dopo non dormii più con lui. Se n’era andato, tutto qui. Senza spiegare niente alla bambina. Patrizia aveva otto anni ma era capace di capire tutto. Passarono anni e anni prima che chiedesse di rivederla. Bastano pochi anni per diventare estranei… non si recupera più». Sulla figlia non feci domande. M’era bastato osservare Jole davanti a lei in ospedale. Poteva anche darsi che la sua indifferenza, che tanto aveva scandalizzato sia me che il brigadiere Pizzi, non fosse altro che un modo di proteggersi o di rinviare lo scoppio di un dolore a un dopo che ovviamente nessuno era in grado di collocare nel tempo. Senza che la sollecitassi, tornò lei sull’argomento
Alcide e mi rivelò alcuni particolari della sua vita, prima del trasferimento a Milano.
A Perugia insegnavano in due licei differenti. Lui, che coltivava in silenzio ambizioni artistiche, cominciò a collaborare a riviste letterarie di modesta tiratura e dopo qualche anno, per una serie di combinazioni fortunate, iniziò a fare corrispondenze per un giornale milanese e per uno romano. La sua ambizione era quella, l’insegnamento gli andava stretto. Diceva che «non era lavoro» spiegare a ragazzi annoiati quel che lui sapeva bene per averlo appreso con entusiasmo». Nello stesso anno in cui nacque Patrizia, accadde un fatto destinato a sconvolgere la sua vita, e quella della sua famiglia. Suo padre, Ernesto Jorio, venne ucciso sotto casa. Con tre proiettili, uno alla testa e due al petto. «Un’esecuzione in piena regola», scrissero i giornali locali. Fu un cronista anziano e meticoloso a rispolverare il passato della vittima indicando quindi la ragionevole causa dell’attentato. Ernesto Jorio durante il ventennio fascista era stato funzionario del partito e cancelliere
del tribunale. Nel 1939 un tale Giuseppe Landi, ambulante di generi alimentari già processato per rapina, si trovò davanti al giudice per rispondere di associazione sovversiva. Il Landi era uomo dai pensieri disordinati e si sarebbe opposto a qualsiasi ordine costituito, di destra o di sinistra. Frequentava un gruppo anarchico nella cui sede clandestina la polizia aveva trovato indizi sufficienti per dedurre che stavano preparando un attentato bombarolo davanti alla casa del podestà o nella sede del Pnf. Tutti scapparono, salvo Giuseppe Landi. Che pagò per gli altri, ovviamente.
Al momento della sentenza, urlò a squarciagola: «Me la pagherete». Siccome il giudice morì nell’immediato dopoguerra, il cronista che si documentò su questi avvenimenti pensò che il Landi se la fosse presa con il cancelliere Jorio, presente al quel processo. Anche un uomo con un ruolo laterale rappresentava sia la giustizia togata che il regime fascista. Una vendetta consumata dopo così tanti anni? Questo è il punto debole della ricostruzione un po’ romanzesca dell’attentissimo cronista
perugino. Ma molto verosimile se si dovevano tenere in conto certe voci. Queste: Ernesto aveva corteggiato, con assiduità lasciva, Rita Landi, senza sapere che era la figlia dell’anarchico ormai più pazzoide che confuso. Poteva anche darsi che proprio per questa circostanza il sogno violento di Giuseppe si fosse calcificato in una sorta di obbligo morale. Il Landi fu processato ancora una volta, e poi assolto per insufficienza di prove. Era alcolizzato, conduceva una vita da sbandato, eppure aveva un alibi che reggeva bene: pare si trovasse, al momento degli spari, in un dormitorio pubblico per poveri. Era lì che passava molte notti. Ma c’era davvero la sera dell’attentato? In quella folla di derelitti si poteva facilmente trovare un testimone compiacente. Ma il drammone di provincia era destinato ad avere un seguito. L’ex ambulante, e padre di quella Rita che finì poi a battere sui viali tra Perugia e Foligno, fu trovato all’alba su una panchina. Con un coltello nel petto. «Vuoi dirmi che Alcide c’entrava… », chiesi a Jole. «Sono sincera, non lo so. Certo, l’ho sospettato. Sai, c’era una parte di lui che mi sfuggiva sempre. Ogni uomo ha delle possibilità, alcune tremende. Basta
qualcosa che improvvisamente emerge dal nostro personale buio, la cosiddetta occasione, e queste possibilità si fanno azioni, il seme diventa subito pianta carnivora». Poteva essere una frase di Shakespeare, magari dell’Enrico III. Glielo dissi, lei sorrise. «Alcide venne inquisito?». Jole scosse il capo, impercettibilmente. Spiegò che fu comunque interrogato dagli uomini della Questura. Nessuna conseguenza. Tre mesi dopo la famiglia Jorio partì per Milano. «Alla ventura?» chiesi. «Eh no. Non era da lui. Aveva scovato tra le carte del padre fascista alcuni documenti che compromettevano personaggi in vista della Perugia di allora, gente che aveva compiuto ogni sforzo immaginabile per porre sotto silenzio la vicinanza o addirittura la collusione con il regime. Alcide, con un suo articolo, pose una carica di dinamite sotto la carriera di almeno tre notabili, che nel dopoguerra, e con tessere di partito, avevano fatto carriera. Non solo a Perugia, anche a Roma. «Merito giornalistico o carta da giocare per un’assunzione?». «Ci sei arrivato, colonnello… », sbadigliò Jole.
Quindi non era la prima volta che Alcide Jorio, severo e moralista fin che si vuole ma anche cinico, usava certi documenti o certe testimonianze per mettersi in mostra. La prima gli fruttò il posto alla Sera, la seconda, ossia il viaggio e l’intervista a Parigi, lo portò alla morte. Forse aveva calcolato male la dimensione dello scandalo. O perlomeno aveva compiuto l’errore più grossolano: tenere in un cassetto per troppo tempo certe carte buone per un ricatto, sottovalutando la reazione o la potenza di fuoco del gruppo che lui credeva fosse bersaglio immobile dietro la sua carabina di carta. «Quindi era un uomo così… », riflettei ad alta voce. Jole fu sarcastica: «Colonnello caro, tu cerchi colpevoli, lo so. Ma faresti più fatica a trovare innocenti». «Non è la prima volta. Non sai nulla di me come indagatore». «Questo è vero. Non conosco nulla di te. Proprio nulla. Chissà se è fortunata la donna che ti conosce a fondo… ». «Perché dici questo?». «Pensieri di una donna stanca morta. Tutto qui».
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DIAMO I NUMERI I comandamenti sono scolpiti nella pietra, fondano la morale comune e ci sono stati insegnati a catechismo. Ma nella Bibbia la situazione è intricata: innanzitutto perché le Tavole della Legge erano doppie... dieci comandamenti sono scolpiti nella pietra. I più sofisticati giustamente sorridono quando vedono il continuo abuso della parola decalogo utilizzata spesso per indicare un regolamento anche quando non è composto da dieci punti. Eppure per essere sinceri il primo e più famoso “decalogo” in realtà non è fatto da dieci regole. Perché i dieci comandamenti non sono dieci, e non lo sono mai stati.
I
Si tratta di una semplificazione tarda, quasi simbolica, che trova una intera serie di smentite su vari fronti. È un altro discorso che poi sia enorme l’efficacia della sintesi che ha portato ai dieci comandamenti mnemonici che fondano la morale comune e ci sono stati insegnati a catechismo. Ma nella Bibbia la situazione è ben più complessa. Intanto, giusto per ricordarlo, le Tavole della Legge erano doppie, in quanto Mosè distrusse la prima versione della legge divina irritato con il popolo ebraico che nella sua attesa si era messo ad adorare il Vitello d’oro («E avvenne che quando Mosè si avvicinò all’accampamento e vide il vitello e le danze, si adirò e gettò le Tavole dalle sue mani, spezzandole ai piedi del monte», Esodo 32,19). Certo, più che immaginare che le regole fossero venti (dieci più dieci) o un altro ipotetico numero, è più opportuno ritenere che la seconda versione fosse identica alla prima. Però la Bibbia è chiara sul fatto che Mosè distrusse le prime leggi. I primi a riportare l’espressione dèka lògous (dieci parole), da cui deriva il termine Decalogo o Dieci Parole, sono i Settanta
Dieci non posson bastare
Mosè ha ricevuto più di un Decalogo. Parola di Esodo di Osvaldo Baldacci
nella loro versione ellenistica della Bibbia in greco, fine terzo secolo a.C. In realtà le esortazioni date da Dio sono più di dieci, e comunque non c’è accordo sulla versione ridotta a decalogo. Infatti il testo è presente in due versioni leggermente diverse in Esodo e Deuteronomio, due libri della Bibbia, il secondo dei quali vuol dire proprio“seconda legge”. Inoltre nonostante la base comune utilizzata per il testo, le diverse
Le regole hanno due versioni leggermente diverse in Esodo e Deuteronomio. Nonostante la base comune le varie religioni interpretano in modo differente la loro suddivisione religioni e confessioni interpretano in modo diverso la suddivisione delle regole. Per spiegare questo, occorre ricordare che il testo biblico non riporta la numerazione dei comandamenti, né l’originale ebraico cono-
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sce punteggiatura né ha gli “a capo”. Inoltre bisogna tenere presente che di conseguenza anche la suddivisione in versetti non è nel testo originale, ma è stata formulata nel secondo millennio cristiano. Per chi avesse un momento di smarrimento sarà bene ricordare che i dieci comandamenti classici della cultura cattolica sono stati spesso sintetizzati in questo modo: 1) Non avrai altro Dio fuori di me; 2) Non nominare il nome di Dio invano; 3) Ricordati di santificare le feste; 4) Onora il padre e la madre; 5) Non uccidere; 6) Non commettere atti impuri; 7) Non rubare; 8) Non dire falsa testimonianza; 9) Non desiderare la donna d’altri; 10) Non desiderare la roba d’altri. In realtà esiste anche la versione ebraica del decalogo, che è leggermente diversa e segue più da vicino il testo dell’Esodo mentre cattolici e luterani privilegiano quello del Deuteronomio, anche se la differenza sta anche proprio nel come vengono suddivisi i precetti: per gli ebrei, e per alcune confessioni cristiane, il primo comandamento è “Io sono il Signore Dio tuo”e il secondo è “Non farti immagini di Dio e non adorarle”, con conseguente cambio di tutta la numerazione successiva, mentre nono e decimo coman-
damento (“Non desiderare la donna e la roba d’altri”) sono un tutt’uno. In effetti nella cultura tribale originaria israelita vigeva una patria potestas non dissimile da quella del mondo romano, per la quale il patriarca aveva un potere assoluto su tutta la casa, in modo che moglie, figli, servi, proprietà mobili e immobili erano legalmente tutti sullo stesso piano, proprietà in suo potere. Per quanto riguarda invece il divieto di immagini, i cattolici interpretano quel passaggio come riferito agli idoli e non a Dio in modo assoluto. Si potrebbe poi anche filosofeggiare sulla differenza tra “Non commettere adulterio” dell’Esodo e “Non commettere atti impuri” del Deuteronomio, ma questo lo lasciamo ad altre sedi. Ci sono quindi più di dieci concetti dentro il sistema da cui secondo le combinazioni scaturiscono i dieci comandamenti. Ma non finisce qui. Nella Bibbia infatti è evidente che questi comandamenti sono i più importanti, essenziali della legge, quelli fondativi. D’altro canto è innegabile che corrispondano a una morale umana universale. Kant diceva che le prove dell’esistenza di Dio sono «Il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me». Ma è altrettanto evidente che quei co-
mandi sono la “premessa” a quello che segue. Cioè una raffica di alcune centinaia di altri comandamenti. Il Talmud stabilisce che la Torah contiene 613 precetti da osservare. Nell’Esodo, sul Monte Sinai Dio elenca i comandamenti che poi formeranno il decalogo parlando a Mosè ed Aronne, e manifestandosi con tuoni e fulmini al popolo ebraico che deve restare lontano dalle falde del monte. Dopo aver fissato le regole preliminari, e dopo l’enunciazione di quello che in seguito sarà indicato come decalogo, il popolo di Israele spaventato da Dio supplica Mosè di accettare la delega ad ascoltare lui il seguito della legge. Mosè acconsente e Dio precisa tutta una serie di norme: le leggi sull’altare, quelle sugli schiavi, i dettagli su come comportarsi in caso di omicidio o di ferite, le norme sui furti di bestiame, gli abusi che esigono un indennizzo, gli abusi sessuali, varie leggi morali e religiose, norme sul cibo, la dedica a Dio di primogeniti e primizie, giurisprudenza varia, le leggi sul sabato e sull’anno sabbatico, le feste di Israele, e così via fino ai dettagli per la costruzione e l’arredo del santuario del Signore.
È dopo questa lunga elencazione che la Bibbia dice (Esodo, 31,18): «Quando il Signore ebbe finito di parlare con Mosé sul monte Sinai, gli diede le due tavole della Testimonianza, tavole di pietra, scritte dal dito di Dio». Poi Mosè scende dal monte, trova il popolo intento a celebrare il Vitello d’oro, spacca le Tavole della Legge, e infine, ma solo al capitolo 34,1, Mosè torna sul Sinai per ricevere di nuovo la Legge: «Poi il Signore disse a Mosé: ‘Taglia due tavole di pietra come le prime. Io scriverò su queste tavole le parole che erano sulle tavole di prima, che hai spezzate’». E a quel punto il libro dell’Esodo racconta che Dio riepiloga a Mosè alcuni precetti, in una forma un po’ diversa da quanto scritto in precedenza, e diversa dal cosiddetto Decalogo.Non una legge diversa, ma una forma diversa che di nuovo ci fa dire: in realtà, stando rigidamente al testo, i dieci comandamenti non sono dieci.
I TESORI DELLE GRANDI CIVILTÀ a città della quaranta porte e dalle mille e una chiesa»: così si parlava di Ani intorno all’Anno Mille, quando era capitale dell’Armenia. Anche tenendo conto di quel che di fantasioso contraddistingue i racconti dell’Oriente, la città fu senza dubbio splendida. Oggi è una delle più impressionanti città morte che si possano immaginare. Pare certo che essa raggiungesse i centomila abitanti. All’estremità nordorientale della Turchia, vicino alla frontiera con la Russia, Ani si raggiunge attraverso una pista che parte da Kars, una città aspramente e lungamente disputata in passato tra la Russia e la Turchia. Ci si immerge in un’Armenia che ormai è soltanto un ricordo, neppure più un nome in queste regioni che pure, intorno al lago di Van, furono la sua culla. Le origini dell’Armenia sono antichissime. Gli armeni vi si insediarono, infatti, dal VII secolo avanti Cristo, nel sito del regno dell’Urartu che risaliva a una remota antichità. Molto presto, dalla fine del III secolo, essa adottò il cristianesimo e da allora tutta la sua esistenza ne sarebbe stata condizionata. Divenne un avamposto della civiltà cristiana, forgiandovi la propria personalità, attingendovi la propria forza. Nei primissimi anni del V secolo, la Chiesa creò un alfabeto armeno per la diffusione delle Sacre Scritture. Nacque un’importante letteratura, mentre si elevavano incomparabili monumenti il cui influsso sarebbe giunto fino in Europa.
ANI
«L
Nonostante gli sforzi per mantenere la propria autonomia, l’Armenia divenne preda di conquistatori iranici ed arabi, ma, verso la metà del X secolo una dinastia – quella dei Bagratidi – riuscì a risuscitare uno Stato indipendente, potente e ricco, che conobbe, intorno all’Anno Mille, la sua età dell’oro. Ebbe allora alcuni sovrani che sono rimasti cari agli armeni e i cui regni sono tutti legati ad Ani. Il più grande fu senza dubbio Achod III che regnò dal 952 al 977 e fece di Ani la sua capitale. Uomo abile, seppe conquistarsi l’amicizia dei califfi di Baghdad; capo guerriero, mise in piedi un esercito di quasi centomila uomini. Fu anche un ottimo amministratore e costruttore instancabile e meritò pienamente i due soprannomi di Vittorioso e di Caritatevole. Ad Achod III e al suo successore, il re Sembat II, si deve la costruzione della muraglia che sbarrava l’accesso all’altopiano dove si elevava la città di Ani. Nulla è più impressionante di questa difesa, lunga un chilometro, rimasta in gran parte intatta,
L’ antico avamposto della civiltà cristiana ai confini della Turchia
Le mille e una chiesa della fede armena di Rossella Fabiani
sessarono nel 1064. Allora la capitale, che era stata soprannominata la “nuova Atene” fu parzialmente distrutta. Il sito dell’antica capitale armena è grandioso e opprimente al tempo stesso. Qua e là emergono monumenti: le case sono scomparse, dei palazzi non rimane che qualche muro. Restano, invece, molte chiese, tutte diverse, tutte edificate secondo un ammirevole concetto architettonico. In fondo allo scenario, un minareto alto e sottile: quello della moschea costruita dal primo governatore musulmano dopo la conquista della città e, su un promontorio, la cittadella. Al centro, visibile da ogni parte, si erge la cattedrale costruita in basalto e trachite, dedicata alla Madre di Dio, luogo sacro per eccellenza perché sotto le sue volte erano incoronati i re dell’Armenia. Si conoscono le date precise della sua costruzione: dal 989 al 1001, e il suo architetto: Tirdat. Architetto di corte, la cui fama oltrepassava i confini dell’Armenia: fu, infat-
Intorno all’Anno Mille, la citta visse la sua età dell’oro grazie a sovrani rimasti nella storia. Il più grande fu Achod III, che regnò dal 952 al 977 ti, chiamato anche a Costantinopoli per ricostruire una cupola di Santa Sofia, parzialmente crollata in seguito a un terremoto.
con il lungo bastione punteggiato di enormi torri. Si trattava, infatti, di difendere non soltanto la popolazione, ma anche le officine artigiane e le mercanzie ivi immagazzinate. Ani doveva la sua prosperità ad alcuni manufatti rinomati: i prodotti tessili, le pelli, i metalli, oggetti e materiali di ogni sorta, tra cui lame famose. Ma la capitale dell’Armenia era anche un grande deposito e un luogo di scambio importante, tra il mondo asiatico e l’Occidente, di mercanzie tra cui la seta grezza proveniente dalla
I numerosi santuari giunti fino a noi, oggi abbagliano per la loro originalità e per la perfezione della loro architettura Cina. La gloria di Ani fu effimera: poco più di tre quarti di secolo. I turchi, venuti dall’Asia centrale, l’attaccarono massicciamente. I bizantini, per un’aberrazione che più tardi avrebbero pagato a caro prezzo, approfittarono della situazione per attaccare i loro fra-
telli cristiani. Vi fu una grande battaglia sotto le mura di Ani e i bizantini lasciarono più di ventimila morti sul campo. Gli armeni dovevano condurre una lotta su due fronti: era troppo. Ani fu finalmente presa dai bizantini nel 1045 e, a loro volta, i turchi se ne impos-
La capitale armena possedeva un’imponente quantità di cappelle e di chiese costruite dai principi e dalle grandi famiglie feudali. Anche se forse non ha mai posseduto le “mille e una chiesa” di cui parla la leggenda, resta il fatto che i numerosi santuari testimoniano il fervore religioso che fu il sostegno di una popolazione costantemente minacciata e la garanzia della sua indipendenza. Quelli che sono giunti fino a noi, abbagliano per la loro originalità e per la perfezione della loro architettura. Come la chiesa di Aghtamar, costruita all’inizio del X secolo su un’isoletta del lago di Van, che presenta una singolare abbondanza di rilievi applicati sui muri esterni. Ma i più bei dipinti rimasti ad Ani sono quelli della chiesa di San Gregorio edificata da Tigrane Hohanens sul fianco di un profondo burrone. E ciò che ancora sorprende è il fatto che l’Armenia abbia applicato, già due secoli prima dell’Europa, il sistema delle volte a costoloni che avrebbe caratterizzato l’architettura gotica.
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CINEMA CALDO
FERIE D’AGOSTO DDII PAOLO VIRZÌ
Sul set della Seconda Repubblica di Alessandro Boschi ltro titolo super estivo, Ferie d’agosto di Paolo Virzì è un film del 1996 commissionato al regista livornese da quella che per molti anni è stata la major italiana per eccellenza, la Cecchi Gori Group. A dirla tutta se ne sente molto la mancanza, ma crediamo di essere in una compagnia molto scelta.
A
Comunque, il produttore chiede a Virzì una commedia e a lui non pare il vero. Ha in mente di raccontare la cosiddetta “Italia del maggioritario”, un’Italia palesemente divisa ma costretta schierarsi da una parte o dall’altra. Non c’è più tempo per le sfumature, per le improduttive ma umanissime disquisizioni su posizioni che in fondo in fondo così differenti non sono. Perché si sa, in fondo ci si vuole tutti un gran bene. Adesso quel tempo non c’è più, adesso si deve scegliere. O di qua o di là, a destra o a sinistra. A sinistra c’è Achille Occhetto (quanto tempo è passato, mio dio…), a destra c’è il Polo delle Libertà capeggiato da Silvio Berlusconi, un autentico satanasso (che sia un satanasso lo sanno tutti i lettori di Tex Willer, che come lui esclama “cribbio!”). Questo contrasto viene esplorato da Virzì nell’isola di Ventotene. Che diventa il suo laboratorio e che lui, proprio come uno scienziato, studia, seziona e analizza. Forse non è proprio la stessa cosa ma il procedimento è lo stesso che anni prima aveva utilizzato lo scrittore Piero Chiara, che le colture se le ricreava nella sua Luino, il paesotto sulle rive del Lago Maggiore. Ma a differenza di Chiara, che nell’ambientazione era monotematico, Paolo Virzì ha poi dimostrato di sapere ampliare i suoi orizzonti. A Ventotene Virzì fa confluire due famiglie, i Molino e i Mazzalupi. I quali tutti, nessuno escluso, hanno almeno un motivo per non essere felici. Il che ci fa tornare in mente un altro scrittore, cui anche Piero Chiara lascerebbe ossequiosamente il passo, Lev Tolstoi. Che inizia il suo romanzo Anna Karenina proprio con queste parole: «Ogni famiglia è uguale a tutte le altre nella gioia e uguale solo a se stessa nel dolore». Si può dire che a volte basta una frase per raccontare una vita, molte vite. Virzì usa invece molte vite per raccontare la storia di un paese, e sceglie tutti attori che forniscono prove davvero notevoli. A partire da Silvio Orlando nel ruolo di Sandro Molino giornalista de l’Unità, la di lui moglie Cecila impersonata da Laura Morante. Il playboy Gigio Alberti, l’effimera ma maggiorata Sabrina Ferilli che con Virzì deve avere un feeling particolare (vedi la sua incredibile prova in Tutta la vita davanti). Per non parlare del sempre irruente Ennio Fantastichini nel ruolo del titolare di un’armeria. Per concludere con il tenero Piero Natoli, che tanto manca al nostro cinema anche qui in una parte piuttosto ingrata, vale a dire il marito della disinvolta Marina/Ferilli. L’ambientazione di Ventotene in verità è una sorta di ripiego. Nel senso che l’idea del film era venuta al regista dopo una vacanza fatta tre anni prima nell’isola di Ginostra insieme a Silvio Orlando, Rocco Papaleo e Silvio Vannuc-
ci (anch’egli nel cast di Ferie d’agosto). Trattavasi di vacanza alternativa in luogo sprovvisto di luce. gas, acqua e rumorosi mezzi di locomozione. Anche se Virzì apprezza vacanze del genere è abbastanza intelligente da metterle (e mettersi) alla berlina. In questo film Virzì fa una cosa per la quale ha tutta la nostra ammirazione: prende in giro la sinistra radical-chic. La quale si trova a scontrarsi con quegli animali che si portano il gommone sottobraccio e non possono fare a meno della tv. I pregressi di Capalbio, che Virzì pure conosce benissimo,
se è una delle prime volte in cui un regista dà spazio al cosiddetto ceto medio di destra, sempre ghettizzato nella Prima Repubblica al punto da non avere mai avuto né voce né volto e che adesso trova il coraggio di esprimersi grazie alla fragorosa scesa in campo di Berlusconi. Certo che certe medicine sono proprio amare, ma a volte ce le meritiamo. Il regista compie un’analisi spietata e coraggiosa, mettendo insieme i cascami del fricchettonismo intellettuale e i floridi commercianti. Sembra dire: «Ma non vedete che siamo tutti dei disperati?».
Una volta Paolo Virzì ha detto: «Fino a che punto i nostri film sono venuti meno al compito di offrire a una comunità nazionale scontenta di se stessa, e ammalata di sfiducia, la medicina di un ritratto anche critico ma autentico ed efficace?». Bella domandina eh?!? Probabilmente ciò è dovuto anche a un risentimento personale verso una critica piuttosto ottusa che non ha visto in lui quel ruolo di trait d’union tra un modo di fare cinema impegnato, o meglio d’autore, e un modo di fare cinema popolare. Di certo quest’ultimo dà sempre molto fastidio e spesso viene stoltamente snobbato. A volte certi critici sembrano condannati all’intelligenza. D’altra parte la commedia all’italiana non è mai stata molto amata dalla nostra critica, salvo prendere negli anni delle cantonate che nemmeno vi diciamo.Virzì, che è toscanaccio doc, prende tutto con molta filosofia. Ma non lascia cadere. E facendosi dare una mano dal maestro Ennio Flaiano dice: «La vita artistica si divide in tre fasi: giovane promessa, solito stronzo, che è la fase più lunga, infine vecchio maestro». Ed essendo stato Paolo Virzì una giovane promessa i conti sono presto fatti. Andate, andate a Capalbio… hanno avuto la loro influenza sulle sacrosante insofferenze dell’autore. Tutto ciò porta lo stesso Virzì e il fido Francesco Bruni alla decisione di dare vigore umano ai personaggi “cattivi”ammannendo un po’ di odiosità ai “buoni”. Lo stesso Bruni racconta in maniera divertente quella fase del trattamento: «All’inizio il copione era totalmente sbilanciato perché scritto con due registri diversi: da una parte c’era Cechov e dall’altra i Vanzina (Absit iniuria verbis, nda). Abbiamo eliminato il difetto rendendo simpatici i personaggi che istintivamente ci stavano antipatici, e viceversa». E vivaddio, for-
Cecchi Gori chiede al regista una commedia capace di raccontare la cosiddetta “Italia del maggioritario”, un Paese diviso ma costretto a schierarsi da una parte o dall’altra: non è più tempo di sfumature
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o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g e di cronach di Ferdinando Adornato
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La campana di Hiroshima batte per creare un mondo migliore A Hiroshima, nel Peace Memorial Park, i suoni della campana hanno ricordato l’esplosione che, da sola, ha causato più di 140.000 morti. Il progresso e la pace forse non vanno d’accordo col nucleare. O si ha una mente fredda, legata agli affari, ai guadagni, all’opportunismo, alla sopraffazione, o si ha un cuore appassionato verso la vita, l’ambiente, la natura, il futuro delle nuove generazioni. Occorre mettere in discussione alcune convinzioni e stili di vita che da secoli dominano incontrastati lo scenario occidentale. Tra questi: la legge del più forte e la guerra, la violenza come strumento per la risoluzione dei conflitti, lo sviluppo economico illimitato, il consumismo e lo sfruttamento indiscriminato della natura, il materialismo, lo scientismo e la tecnologia, l’ego-etnocentrismo e la percezione del diverso di sé come antagonista, la logica del profitto a breve termine senza curarsi delle conseguenze a lungo termine. Occorre ancora aggregarsi attorno ai valori della sensibilità ecologica, attenzione alla pace e alla qualità delle relazioni interpersonali, interesse verso la crescita personale e la pratica spirituale, disinDomenico S. teresse per esibizione della posizione sociale, coscienza sociale.
IL GELO RUSSO La violenza del clima nella Russia di Putin riporta alla mente i racconti di letterati illustri come Tolstoj, che si sono sforzati di far capire al mondo intero, che la realtà da quelle parti è fortemente influenzata dalla rigidezza del clima, dalla rigidezza di una mentalità ancora molto rurale, dalla rigidezza di coloro che amano troppo la vita militare da perpetrare ostilità belliche interne anche quando non esistono presupposti atti a giustificarle. Il freddo siberiano e il clima di Mosca e la lentezza del processo politico fu richiamato da Gorbaciov quando affermò che l’Europa non si deve aspettare una celere trasformazione democratica del mondo sovietico: quello che la stessa socialdemocrazia occidentale del Novecento ci ha poi fatto ritenere come evento compiuto. Oggi la differenza, ancora una volta, la fa solo l’economia globale.
Bruno Russo
APPELLO DI BERLUSCONI CONTRO IL DISFATTISMO Fa bene il presidente Berlusconi ad aver lanciato il suo appello contro il disfattismo. Il suo governo è uno dei più fattivi della storia repubblicana ed è un dovere combattere un certo cinismo diffuso, tipico mal sottile della borghesia italiana. Bisogna rimboccarsi le maniche e lavorare sodo per completare il programma di go-
verno che ha visto Silvio Berlusconi trionfare con la vittoria alle politiche del 2008.
Lettera firmata
LIBERALI, CHE FARE? Lancio l’idea degli Stati generali dell’Italia liberale. Abbiamo due esigenze, una tattica e una strategica. Quella tattica: impedire le elezioni anticipate che vincerebbe Silvio Berlusconi, padrone e controllore di tutte le televisioni. Obiettivo strategico: costruire la nostra macchina da guerra per le vere elezioni. Io non penso che Fini avesse una agenda, un piano, ma spero che ora finalmente ne abbia uno. Noi non saremo i gregari per le vittorie altrui, dobbiamo avere il coraggio sfrontato e persino arrogante di considerare gli altri come nostri gregari e raggiungere l’unico strumento che ci può far vincere: la visibilità. Imporre cioè agli italiani la nostra presenza, far sì che tutti i liberali italiani sappiano che la loro vera casa è aperta e funziona come un quartier generale e non come una casa di riposo.
Paolo Guzzanti
PATRONO O SERVITORE? Con i politici finalmente in ferie, gli spot per il governo sono affidati ai rincalzi. È il momento di Attilio Befera, direttore dell’Agenzia delle Entrate, che, raggiante, espone il record, così lo definisce. Il risul-
L’IMMAGINE
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LE VERITÀ NASCOSTE
Fotografa i vigili senza cintura PESCARA. Singolare protesta di un uomo di Pescara contro i vigili che gli hanno tolto tutti i punti della patente. L’automobilista li ha fotografati “in flagrante”, mentre guidano senza cintura di sicurezza. Poi ha promosso una raccolta di firme tra i concittadini, chiedendo se fosse giusto che la polizia municipale non rispetti il codice della strada sulle sue vetture. Il documento sarà consegnato all’amministrazione comunale. Nella sua azione civica, l’uomo ha coinvolto anche il sindaco Luciano D’Alfonso, chiedendogli un giudizio sul comportamento dei vigili. Le rimostranze non risparmiano neppure una vena d’ironia. Affianco al banchetto che ha sistemato sotto la scalinata del palazzo del comune, l’uomo ha sistemato un vecchio e irriverente vespasiano, riportando sopra lo slogan dell’amministrazione civica, “Pescara vicina”. Chiara allusione al tipo di vicinanza nei confronti dei soli “bisogni (corporali, ndr) dei cittadini”.
tato, che merita un’intervista a reti unificate, ammonta a cinque miliardi, integralmente recuperati all’evasione. Un risultato lusinghiero, non c’è dubbio. Peccato che l’evasione fiscale italiana superi i 150 miliardi all’anno. Il ligio funzionario, insomma, esulta per aver recuperato un trentesimo del maltolto, invece di scusarsi del 97 per cento sfuggito all’erario. Ma, il meglio, il ligio funzionario, lo dà quando gli chiedono conto del record man dell’evasione europea. Manco a dirlo, un italiano, evasore per 450 milioni di euro depositati in banca estera. Qui, il ligio funzionario non risponde, anzi, precisa: “io non parlo dei miei singoli clienti”. Premesso che, nel diritto antico, cliente è colui che si è posto sotto la protezione di un patrono, Befera non chiarisce se i suoi “clienti” siano gli evasori o i cittadini tutti. È bizzarro pensare che un evasore o dei cittadini siano clienti di un servitore dello stato. Dopo essere clienti, se non sudditi, del premier e dei suoi ministri, apprendiamo di essere anche clienti di un semplice funzionario.
Gianfranco Pignatelli
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Attento a dove metti i piedi Vi è mai capitato in un attimo di distrazione, di inciampare nel vostro amico a quattro zampe? Agli americani a quanto pare accade spesso, in base a una ricerca pubblicata sul Journal of Safety Research. Chissà se questo micio dall’aria sorniona ha mai fatto lo “sgambetto” alla sua padroncina...
La vicenda della ragazzina violentatata a Capri, ha messo in luce una realtà che da queste parti si andava denunciando da tempo: l’uso esagerato degli alcolici da parte dei ragazzi soprattutto minorenni. Tale usanza, per chi conosce l’isola, è giunta a un tale livello senza controllo, che a notte fonda è facile incontrare una ragazzina in preda a convulsioni tra le strade eleganti del’isola azzurra. Ad approfittare della situazione non sono mai stati gli isolani, che purtroppo devono subire spesso le usanze sconsiderate dei turisti giovani, ai quali manca il primo controllo dovuto, quello genitoriale.
Gennaro Napoli
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Israele-Palestina. Perché è sbagliato sperperare il prestigio americano per «una nave che sta per affondare»
Medioriente: uno sforzo inutile L’ex ambasciatore statunitense all’Onu critica la decisione di investire altre risorse diplomatiche nel “processo di pace”
di John R. Bolton annuncio che il Segretario di Stato Clinton ha fatto il 20 agosto, secondo cui il prossimo mese riprenderanno colloqui diretti tra Israele e Palestina, mette considerevolmente a rischio gli Stati Uniti. Con molta probabilità queste trattative falliranno. E in questo caso - considerando anche il ritiro delle truppe statunitensi dall’Iraq, l’impegno del Presidente Obama di iniziare a ritirare anche gli eserciti Nato dall’Afghanistan la prossima estate, il costante progresso dell’Iran verso il nucleare un fallimento significherebbe inevitabilmente un declino dell’influenza di Washington in Medio Oriente. L’opinione convenzionale è che parlare non fa mai male, e che gli Stati Uniti non perdono niente nel perseguire un attivo “processo di pace”, anche senza risultati concreti.
L’
Ma questo è un terribile errore, perché le trattative non sono mai a costo zero. Infatti la diplomazia, come tutte le attività umane, ha sia costi che benefici, e la questione in ogni sin-
golo caso sta nel capire se i benefici della trattativa sono maggiori dei costi e dei potenziali rischi. I politici dovrebbero valutare attentamente i fattori a confronto piuttosto che far finta che i dialoghi stessi non abbiano costi a livello mondiale. Per il presidente Obama poi, nel suo ruolo di agevolatore o mediatore, il rischio chiave è che al fallimento segua la percezione della debolezza e dell’incompetenza dell’amministrazione.
Il segretario di stato Hillary Clinton ha ribadito che spera che questi negoziati possano risolvere tutti i contenziosi fra le parti in un anno. Naturalmente i colloqui potrebbero facilmente finire in un fosso prima di allora, ma gli arbitrari limiti di tempo, come nei precedenti tentativi falliti, dimostrano quanto l’intera struttura delle trattative sia artifiSemplicemente ciale. non ci sono prove che sia stato fatto alcun progresso dietro le quinte sulle questioni chiave del “final status” (confini, Gerusalemme, il diritto di rientro in Israele dei Palestinesi)
Deviando l’attenzione e il tempo degli Stati Uniti dai problemi più seri dell’area (soprattutto dal programma nucleare dell’Iran ed il suo sostegno al terrorismo mondiale) si rischia di consentire la crescita di minacce ancora maggiori e di perdere opportunità per limitarle che hanno affondato innumerevoli precedenti “processi di pace”. La diplomazia, anche quella più astuta, può solo riempire le lacune che si possono riempire, e nel momento giusto.Anche quello che appare come un successo può nascondere costi imprevisti. Nella foto a sinistra: Hillary Clinton. In alto, da sinistra: Benjamin Netanyahu, Barack Obama e Mahmoud Abbas. Nella pagina a fianco: Ehud Barak, Ehud Olmert, Gabi Ashkenazi e Yoav Galant
Così per esempio soltanto l’annuncio secondo cui le trattative israelo-palestinesi riprenderanno il 2 settembre ha avuto sia vincitori che vinti. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu è il vincitore più grande, avendo insistito per diciotto mesi che Israele non avrebbe accettato alcuna condizione prima di avviare colloqui diretti. Adesso queste sono regole salde e la conquista di questo obiettivo è una vittoria considerevole di Netanyahu.
Di contro, il “presidente” palestinese Mahmoud Abbas ha preteso solide assicurazioni che l’attività di insediamento di Israele sul West Bank sarebbe stata bloccata prima dell’inizio dei negoziati, ma non vi è riuscito. Abbas quindi entra nei negoziati con una posizione indebolita, sperando solo che Israele estenderà la sua volontaria moratoria di costruzione, e il quasi inevitabile fallimento delle trattative lo renderà ancora più debole ed esposto a dure critiche. Inoltre, alimentando le aspettative arabe che quasi sicuramente non saranno soddisfatte, il presidente Obama ha effettivamente alterato i suoi stessi sforzi di migliorare la reputazione degli Stati Uniti presso i musulmani. L’incapa-
cità dell’amministrazione di considerare persino questo rischio è prova del suo zelo teologico per il “processo di pace”. Così, ironicamente, l’amministrazione Obama, raccomandando l’avvio dei colloqui, ha tagliato fuori Abbas, indebolendo il leader palestinese che aveva designato. Molti credono che l’Autorità Palestinese non abbia né la legittimità né la capacità di porre dure condizioni a Israele, o di andare avanti con i suoi impegni e obblighi anche nel caso in cui si raggiungesse un accordo di pace. Il fallimento di Abbas nei prossimi colloqui non rafforzerà solo questa percezione, ma potrebbe anche essere un colpo mortale agli ultimi frammenti della sua leadership.
Inoltre, mentre il crollo dei colloqui potrebbe non rafforzare immediatamente o direttamente i terroristi di Hamas, questa è quasi inevitabilmente una delle più gravi conseguenze a lungo termine. Inoltre, le risorse umane e politiche già investite nell’incessante sforzo del Presidente Obama di riprendere trattative dirette rappresenta chiaramente un enorme “costo di opportunità”, come sostengono gli economisti. Deviando
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L’esercito di Tel Aviv ha subito molti cambiamenti e cerca di cancellare gli errori che rischiano di incrinarne l’immagine
La nuova strategia israeliana Il cambio della guardia da Ashkenazi a Galant: Tsahal al centro di riforme e polemiche di Pierre Chiartano avid, oggi, non combatte solo con una fionda contro Golia. «Siamo in grado di sviluppare un impressionante volume di fuoco» commentava, qualche tempo fa a Roma, il capo di stato maggiore di Tsahal (Tzva Hagana LeYisra’el) – fino a febbraio del 2011 – Gabi Ashkenazi. Israele, che ha nella sicurezza del proprio territorio un mantra, che ogni singolo politico e militare recita, la sera prima di addormentarsi e la mattina al risveglio, ha subito alcuni stravolgimenti nei concetti strategici e tattici di base delle proprie forze armate negli ultimi anni. La lezione del Libano meridionale del 2006 è stata imparata. Allora il generale Giacob Amdidror, già numero due di Aman, l’intelligence militare, incaricato dal governo di analizzare criticamente il breve conflitto del 2006, aveva evidenziato fragilità e punti di forza del sistema difensivo e offensivo. Negli anni precedenti ci si era concentrati sul nemico lontano, l’Iran sciita a caccia dell’arma nucleare. Le guerre stellari erano entrate nell’orizzonte di quello che potremmo definire un popolo in divisa, visto che c’è la coscrizione obbligatoria. Si era tralasciato l’addestramento delle unità di terra, si era spesa una montagna di soldi in tecnologie. Ma la guerra aveva cambiato pelle, già con i conflitti iracheni che avevano aperto a un concetto più complesso di counterinsurgency: combattere in ambienti urbani densamente popolati da civili. Lì, gli enormi e potenti carri Merkavà funzionavano male, come la guerra dal cielo fatta per spianare quartieri con le blockbuster. Ma i carri corazzati non andavano bene neanche nel terreno collinoso dell’Alta Galilea, dove, vicino a Bint Jebeil – sempre nel 2006
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l’attenzione e il tempo degli Stati Uniti dai problemi più seri del Medio Oriente, in particolar modo il programma nucleare dell’Iran ed il suo sostegno al terrorismo mondiale, la diplomazia del “processo di pace” ha consentito la crescita di maggiori minacce ed ha perso tempo prezioso e op-
– avevano subito una sconfitta bruciante. Incuneatisi in una stretta valle, avevano subito un tiro al piccione con i missili di fabbricazione russa, Kornet, da parte delle milizie di Hezbollah. Avevano perso dodici mezzi in un solo colpo. Ma anche questa lezione è stata imparata dai vertici dell’Idf. Un esercito che non aveva niente a che vedere con quello che David Ben-Gurion aveva fondato il 26 maggio del 1948, incorporando il gruppi paramilitari dell’Haganah, Irgun e Lehi. Entrati nel nuovo millennio il dibattito interno sui concetti di difesa era molto intenso e rifletteva un cambio generazionale importante. Stavano scomparendo gli uomini dei kibbutz, quelli che stringevano denti e cinghia, senza batter ciglio.
tradizionale). Errore di prospettiva. Libano (2006) e Gaza (2008) hanno subito fatto scomparire questa illusione. Non solo, ma l’avvento del radicalismo islamico aveva introdotto un’altra difficoltà legata al lavoro d’intelligence. Le varie organizzazioni palestinesi laiche, sempre divise in fazioni e in perenne lotta fra loro, erano facilmente penetrabili. L’invidia personale poi, era un veicolo formidabile per la delazione e lo Shin Bet, l’intelligence interna israeliana, aveva gioco facile nel prevenire e disarticolare il terrorismo. Oggi, con Hamas ed Hezbollah questa capacità si è quasi annullata, vista la quasi impenetrabilità delle due organizzazioni. Il pragmatismo ha sempre animato gli stati maggiori di Gerusalemme, ma la complessità dei compiti ha fatto in modo che l’età dei vertici salisse. Un tempo, a capo dell’esercito ci andavano i quarantenni. Il generale Ashkenazi è entrato in circa a 53 anni e il suo sostituto appena designato, Yoav Galant, ha 52 anni. E in Israele, anche loro presi da problemi di bilancio, stanno combattendo la battaglia dei baby pensionamenti con le stellette, tenendo conto che l’80 per cento dei militari di carriera lavora in unità non di combattimento. Ma che l’esercito sia al centro di polemiche e dell’attenzione politica non è solo certificato dalla sfortunata vicenda dell’arrembaggio alla Mavi Marmara, ma anche dalle polemiche che hanno anticipato la nomina del so-
Il Libano, nel 2006, e poi Gaza, nel 2008, hanno tolto l’illusione che i conflitti si potessero governare solo con tecnologia e potenza di fuoco e che l’Iran fosse ormai l’unica preoccupazione
Israele era diventata una democrazia ricca e moderna, con generazioni abituate a una qualità della vita aliena ad ogni standard mediorientale e superiore a quella di molti Paesi occidentali. Il muro che la separava dai Territori poi, aveva dato una falsa sensazione di sicurezza, avendo, di fatto, azzerato il pericolo degli attentati kamikaze. Si parlava addirittura della convenienza di utilizzare truppe mercenarie, o straniere, per il controllo dei Territori palestinesi. La politica ha dovuto fronteggiare un Paese stanco di combattere e ha pensato che fosse venuto il tempo di metter in soffitta fucile, binocolo e humint (lo spionaggio
portunità per limitarle. L’opinione secondo cui risolvere il conflitto israelo-palestinese condurrà inevitabilmente a progredire su altri conflitti in Medio Oriente è la versione diplomatica della teoria genetica di Trofim Lysenko. Lysenko sosteneva che le caratteristiche acquisite
possono essere ereditate, e i leader Sovietici adularono virtualmente la sua teoria perché si adattava ai preconcetti Comunisti. In verità, la teoria e i “dati” alla base della stessa erano falsi. Lo stesso vale per il processo di pace in Medio Oriente. Si continua, come si è sempre
stituto di Ashkenazi. Un generale ormai sulla rampa di partenza di una brillante carriera politica nel Partito laburista. Proprio lunedì, il ministro della Difesa Ehud Barak, aveva annunciato di aver deciso a favore del generale Galant. aveva cercato di porre fine alle rivalità esplose ai vertici dello Stato maggiore due settimane fa, con la pubblicazione di un documento, risultato poi falso. Nelle carte era delineata la strategia che avrebbe garantito la nomina di Galant. Nella successiva indagine della polizia è emerso che il capo designato di Tsahal era estraneo all’iniziativa.
Galant è figlio di una profuga ebrea polacca, arrivata nell’estate del 1947 a bordo della Exodus, una nave protagonista dell’epopea dell’Aliya Bet, l’immigrazione illegale, fissata anche sulla pellicola di un film hollywoodiano nel 1960. Arruolato nella unità di elite della marina militare, i commandos della Flottiglia 13, di cui diverrà tempo dopo il comandante, Galant ha partecipato ad una lunga serie di operazioni ancora coperte dal segreto di Stato. È un personaggio che sembra uscito dalla penna di un romanziere. All’inizio degli anni Ottanta, infatti si era trasferito per due anni in Alaska per fare il lumberjack, il taglialegna. Al ritorno, completato il corso ufficiali, entra in Marina. È uno dei pochi ufficiali a lasciare l’arma per passare all’ esercito, dove affronta i corsi di addestramento nelle divisioni corazzate. Nel 2002, Ariel Sharon lo vuole al suo fianco come assistente militare e operativo quando, nel 2005, ordina lo sgombero da Gaza. Nel 2008, è al comando della forze israeliane durante l’ Operazione Piombo Fuso a Gaza.
fatto, a ignorare una realtà sconveniente, alimentati dalla teologia secondo cui se solo Israele venisse costretta adeguatamente, la regione sarebbe pacifica. Così, per l’amministrazione Obama, l’intero sforzo, diciannove mesi e più, costituisce un’enorme opportunità politica sprecata, e fa
presagire un potenziale imbarazzo diplomatico e politico di proporzioni considerevoli. Le possibilità di successo sono minime, il rischio è alto, e le conseguenze negative sono enormi. Perché stiamo sperperando il prestigio statunitense su una nave che sta per affondare?
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Kabul. Una “soluzione mista” per uscire da un conflitto decennale li ultimi sviluppi in casa americana circa la condotta delle operazioni in Afghanistan, a fronte delle giuste cautele del comandante sul campo, generale Petraeus, e della conferma del ritiro «non negoziabile»” a partire dal 2011, annunciato da Barak Obama, obbligano a qualche ulteriore riflessione. In effetti, nonostante tre cambiamenti di strategia, la situazione in teatro non sembra proprio essere generosa di soddisfazioni rispetto agli sforzi compiuti dall’America, dalla Nato e dagli altri volonterosi alleati. Le buone notizie, se pur ci sono, arrivano con il contagocce, a meno che non decidiamo di considerare tra quelle “buone” la dimostrazione di appeasement con i talebani voluta da Petraeus e da Karzai con la scarcerazione, a Bagram e a Kabul, di 262 guerriglieri radicalisti islamici.
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Anche scorrendo i siti dei principali protagonisti, che pur avrebbero tutto l’interesse ad amplificarle, si resta a bocca asciutta. La scena mediatica continua ad essere rubata ogni giorno dalle notizie cattive, quali lo stillicidio dei morti della coalizione – a metà agosto 2010 se ne contano già 443, rispetto ai 521 di tutto il 2009 ed ai 295 del 2008 – l’uccisione in gruppo dei dieci medici, l’impiccagione del bambino-spia, la lapidazione degli adulteri. Anche le notizie ufficialmente buone, come le felicitazioni di Petraeus perché l’esercito afgano ha conseguito con ben quattro mesi di anticipo la consistenza pianificata di 135mila effettivi, hanno più il sapore di un contentino consolatorio o di una prematura premessa al disengagement obamiano, piuttosto che di una realizzazione concreta. D’altra parte, che il problema non fosse solo militare lo si sapeva. Infatti, specie negli Stati Uniti, che dopo le defezioni già annunciate e la prossima conferenza europea di Lisbona temono di restare prima o poi con il classico cerino tra le dita, da un po’di tempo stanno fiorendo nuove opzioni politico-strutturali finalizzate ad un disingaggio indolore. In altre parole, ad un ritiro dopo aver comunque dichiarato vittoria. Non dimentichiamo che negli Usa il 2010 e il 2011 sono anni di elezioni e che, se l’Iraq – dal quale le ultime brigate combattenti si stanno frettolosamente ritirando era la guerra di Bush, quella in Afghanistan è dichiaratamente la guerra di Obama.Tutte le nuove opzioni che si vanno via via formando appaiono originate dal dubbio che la formula di struttura scaturita dalla conferenza di Berlino (sistema democratico con governo forte-
Una exit-strategy per l’Afghanistan Delegare molti poteri ai governatori locali, a patto che rinuncino a ospitare al Qaeda di Mario Arpino
Soldati statunitensi in Afghanistan. Nella foto sotto: il generale David Petraeus, a capo dell’U.S. Central Command e - da giugno - successore di McChrystal in Afghanistan mente centralizzato, a prescindere dai talebani, che continueranno ad opporsi sempre a tutto) non sia né la più adatta né la più gradita, almeno agli afghani che “contano”.Ad esempio, come ci informa Stefano Silvestri su Affarinternazionali online, l’ex ambasciatore Usa in India, Robert Blakvill, sta proponendo di lasciare di fatto al loro destino, unificandole sotto un governo talebano, le due aree pachistane e afgane di etnia pashtun a cavallo della linea Durand, procedendo con
da quelle pachistane. Soluzione che a nostro avviso è difficilmente percorribile, perché attraverso una separazione effettiva dei due paesi toglierebbe di fatto al Pakistan quella “profondità strategica”nei confronti dell’India che è parte sostanziale della propria dottrina di sicurezza e difesa. Un altro gruppo di studio – come ci spiega la rivista Usa Foreign Affairs – prevede allora varie soluzioni di natura diversa, che tuttavia non alterano, almeno apparentemente, le due
certa misura, la percezione di una decentralizzazione amministrativa. Ma in alcune province ciò potrebbe ancora non essere sufficiente per l’accettazione di quell’aliquota di potere che rimane ben salda in sede centrale, per cui si potrebbe tentare di andare oltre con una forma di “democrazia decentralizzata”. In questo caso, i go-
La scena mediatica continua a essere dominata da cattive notizie: nel 2010 ci sono già stati 443 morti della coalizione, rispetto ai 521 del 2009 l’attuale forma di centralizzazione a controllare da Kabul attraverso governatori designati a livello centrale - le altre province e stringendo un patto di ferro con gli stessi talebani perché si oppongano a nuove infiltrazioni di al Qaeda.
L’enclave sarebbe sorvegliata a vista, da un lato, dalle forze regolari afgane e, dall’altro,
integrità territoriali. Si spazia dalla formula in cui Kabul, pur continuando a nominare i governatori, concede alle province un certo numero di autonomie, come le tasse locali, l’esercizio della giustizia su base tradizionale per alcuni reati minori e la tolleranza di un’aliquota di armati per i clan di una certa importanza, salvaguardando così, almeno in una
vernatori, anziché essere nominati da Kabul, verrebbero eletti dai consigli provinciali ed avrebbero così maggior contatto e confidenza con le varie shure dei villaggi e delle
campagne, il cui orizzonte visuale non può certo arrivare a comprendere ciò che succede a Kabul. In questo caso, è evidente, sarebbe necessario accettare di buon grado alcuni compromessi, perché a livello locale le priorità non saranno certo concentrate sulle scuole laiche, su forme non tradizionali del diritto e sull’emancipazione delle donne. In cambio, il governo centrale manterrebbe per sè politica estera e capacità di intervento verso i più riottosi, qualora il patto di mantenere “fuori” al Qaeda non venisse in toto o in parte rispettato. In fondo, agli americani e all’occidente è questo che interessa, e si fa anche strada la convinzione che se non ci fosse stato l’11 settembre e se l’Afghanistan dei talebani non avesse ospitato e protetto i campi di al Qaeda, a nessuno sarebbe mai venuto in mente di venir a “spendere” cinquemila giovani vite tra queste montagne. Ma se l’isolamento di al Qaeda è rimasto il vero problema reale, visto che ormai a risolvere gli altri – facendo buon viso a cattiva sorte – abbiamo deciso di rinunciare, allora i nostri gruppi di studio hanno pronta una terza soluzione, applicabile in tempi brevi e, in ogni caso, compatibili con le tempistiche indicate da Barack Obama. È una soluzione che potremmo chiamare“mista”tra le due precedenti, dove Kabul si limita a delegare la maggior parte dei poteri a governatori eletti localmente, a chiudere un occhio su alcuni loro vizietti, a sorvolare sulle prepotenze dei talebani, a mantenere le sue prerogative in politica estera ed a riservarsi il diritto di intervenire militarmente in caso di superamento di una “linea rossa” rappresentata dal divieto di ospitare al Qaeda. Che è come dire «...fate pure tutto ciò che vi pare, con l’unico limite che ciò non danneggi gli Stati Uniti e l’Occidente...».
Soluzione attuabile e fattibile, perché è già ora ciò che di fatto sta accadendo in alcune province, dove il controllo centrale non ha mai avuto alcuna efficacia. Così nel 2011, dopo dieci anni, la fine di questa storia potrebbe cominciare a saldarsi con il suo inizio, quando i talebani erano stati sonoramente battuti. Con tanti auguri per gli afghani e buona pace per tutti i buoni principi in cui crediamo, per cui abbiamo sopportato anni di sacrifici ed in omaggio ai qual qualcuno ci aveva convinto che intervenire era cosa buona e giusta. Domanda: ma, allora, è stato tutto inutile? Nell’immediato, così potrebbe sembrare. Dobbiamo però avere fiducia, perché, alla distanza, il seme gettato finisce sempre per germogliare.
quadrante
25 agosto 2010 • pagina 21
Oltre la metà dei cittadini ritiene che il Paese sia governato male
Siccità e incendi hanno devastato le colture cerearicole dell’ex-Urss
Crollo di consensi per il presidente ucraino Yanukovich
Cala produzione grano kazaka, arriva il caro-pane in Russia
KIEV. Festeggiamenti con l’a-
ASTANA.
maro in bocca per Viktor Yanukovich, che nel giorno del diciannovesimo anniversario dell’indipendenza ucraina da Mosca si deve confrontare con un Paese che crede meno alle possibilità di riforma e soprattutto che ritiene sempre più il suo presidente il rappresentante di interessi personali e non nazionali. È quanto emerge da un’inchiesta resa nota dal Razumkov Center di Kiev, centro specializzato nelle indagini politiche e sociologiche, che segnala una perdita di circa il 10 per cento dei consensi del presidente. Alla vigilia delle celebrazioni della separazione da Mosca, gli analisti ucraini hanno tastato gli umori della nazione e colto per la prima volta dopo l’elezione di Yanukovich, lo scorso febbraio, un’inversione di tendenza. Se a maggio il 39,7 per cento degli ucraini supportava il capo dello stato pienamente, il 32,2 per cento lo sosteneva in parte e il 23 per cento riteneva negativo il lavoro del presidente, ad agosto la percentuale degli scontenti è aumentata di oltre il 10 per cento ed è diminuito il numero dei sostenitori.
Gli ucraini che sono a favore del nuovo leader politico «senza se e senza ma» sono quasi dimezzati: dal 39,7 per cento al 22,5 per cento. Sono aumentati invece quelli lo appoggiano solo in parte, dal 32,2 per cento al 38,7. Il totale dei sostenitori arriva dunque a 61,2 per cento, facendo segnare un calo complessivo del 10,7 per cento.Yanukovich, fino ad ora, aveva governato con il vento in poppa. Secondo i dati del Razumkov Center è cambiata anche l’opinione generale della popolazione sulla via intrapresa dall’Ucraina. Stando ai numeri, il 50,4 per cento degli ucraini ritiene che il Paese stia andando nella direzione sbagliata, solo il 25,6 per cento in quella giusta. Un vero tracollo.
Il signore della guerra rispedito in America Il trafficante Victor Bout è già in volo per gli Usa di Pierre Chiartano
BANGKOK. Partenza espresso per Victor Bout che sembra essere proprio un prigioniero che scotta. L’aereo è già pronto a Bangkok. Domani, Bout, presunto trafficante d’armi russo soprannominato «il mercante di morte», salirà la scaletta del velivolo e partirà alla volta degli Stati Uniti, dopo il via libera della Thailandia alla sua estradizione. Una scelta, quella del Paese del sud-est asiatico, che ha provocato una dura polemica diplomatica con Mosca. E le ire del ministro degli Esteri Sergei Lavrov. E che era prevista avvenisse entro tre mesi. C’è stata invece un’inaspettata accelerazione delle procedure. Il capo del Dipartimento per la soppressione del crimine, Supisarn Bhakdinarinath ha spiegato che Bout sarà trasportato oggi da non meno di 50 soldati appartenenti ai corpi speciali all’aeroporto Don Mueang per essere preso in consegna dagli americani. «Non posso dire a che ora ci sarà la traduzione del detenuto, è top secret», ha aggiunto, precisando che l’aereo Usa era atterrato ieri alle 15 locali (ore 10 in Italia) all’aeroporto. La prudenza della polizia tailandese sembra ben giustificata. accusato Bout, dagli Stati Uniti di terrorismo, è considerato uno dei criminali più pericolosi al mondo. Sulla ricostruzione della sua biografia si sono esercitati scrittori e registi e il suo volto è stato interpretato anche dalla star hollywoodiana Nicholas Cage nel film Lord of War. Viktor Bout - secondo quello che racconta lo stesso sito internet victorbout.com – sarebbe nato (nel 1967) a Dushanbe, oggi capitale del Tagikistan allora importante città dell’Unione sovietica. Anche se c’è chi mette in dubbio finanche questa notizia. Diplomatosi all’Istituto militare di lingue straniere (si dice che parli correntemente sei lingue), intraprese la vita militare, sulla quale però non ci sono certezze. Nel suo sito è scritto che ha svolto la funzione di interprete nell’Armata rossa nell’Urss e all’estero. Tuttavia, altre fonti lo vogliono membro del Gru, il servizio d’intelligence militare, o del Kgb. Ha cominciato la sua avventura d’impren-
ditore comprando quattro velivoli militari Antonov-8 da trasporto, il cuore di quella che poi è diventata, col tempo, una grande flotta di cargo aerei che utilizzava per i suoi traffici. Ciò che conta è che nel suo catalogo d’armi c’erano anche blindati, veicoli corazzati ed elicotteri da combattimento. È riuscito ad alimentare le richieste di gruppi armati in Afghanistan, Angola, Congo, Liberia, Ruanda, Sierra Leone e Sudan. La sua identità era rimasta celata al mondo fino a quando due giornalisti belgi lo scovarono in una regione sperduta del Congo. Poi la sua notorietà continuò a crescere. Anche se era tempo che agenzie investigative internazionali e dell’Onu continuavano a riempire il dossier di Victor, sono stati gli americani i primi ad mettere un mandato di cattura internazionale.
Nel 2008 era scattata la trappola in un albergo di Bangkok. Agenti coperti della Dea, l’agenzia antidroga Usa, l’avevano agganciato, fingendosi dei clienti e poi avevano avvertito le autorità thailandesi. Il governo di Bangkok aveva subito autorizzato l’arresto ad opera di una squadra congiunta. Poi la carcerazione e la prima sentenza che rigettava la richiesta di estradizione. La corte d’Appello a tolto dall’imbarazzo i due governi, concedendo Bout alla giustizia americana. Ricordiamo che tra le tante organizzazioni rifornite dal prode Victor ci sono anche le Farc, il gruppo rivoluzionario comunista colombiano, ormai diventato un cartello per il controllo della produzione di droga, appoggiato anche dal governo venezuelano di Hugo Chavez. Bout nel caso dovesse collaborare con le autorità Usa, potrebbe aprire il vaso di Pandora sull’indicibile dei rapporti sul traffico d’armi e degli interessi di governi legittimi e dire ben più di ciò che emerge dal rapporto Johan Peleman, un funzionario Onu che indagò per primo sul russo e che Bout accusa essere l’origine di tutti i suoi guai. Si comprendono così meglio l’ira e l’imbarazzo espressi in questi giorni da Mosca.
Bout ha cominciato comprando quattro velivoli militari Antonov-8 da trasporto che utilizzava per i suoi traffici
Anche il Kazakistan, come la vicina Russia registrerà quest’anno un sensibile calo nella produzione di grano. Il presidente Nursultan Nazarbaiev, secondo quanto riporta oggi l’agenzia di stampa Interfax, ha annunciato per il 2010 una produzione di circa 16 milioni di tonnellate, rispetto ai 22,7 milioni di tonnellate dello scorso anno. Nazarbaiev ha comunque assicurato che Astana non avrà problemi. «Nonostante l’anno difficile, il raccolto lordo complessivo nella repubblica sarà di circa 16 milioni di tonnellate. Dopo la pulitura, saranno oltre 14 milioni di tonnellate e ce ne sono 7 milioni lasciate dall’anno scorso. Quindi avremo 21 milioni di tonnellate», ha detto il presidente in un incontro con imprenditori agricoli. Il presidente ha inoltre annunciato che alle esportazioni saranno diretti 8 milioni di tonnellate di grano. La notizia preoccupa, visto la cattiva produzione russa causata dalla siccità e dagli incendi.
L’ondata anomala di caldo e la conseguente siccità che hanno colpito la Russia negli ultimi due mesi costeranno in fatti al Paese un rallentamento dello 0,7 o 0,8 per cento del Pil 2010. Lo ha dichiarato il ministero dello Sviluppo economico di Mosca, secondo cui – riporta Ria Novosti – le perdite economiche dirette provocate dalla siccità si aggireranno tra lo 0,4 e lo 0,5 per cento del Pil dell’anno in corso. Le autorità russe prevedono per fine agosto un’impennata del prezzo del pane sino al 15 per cento, sull’onda del forte ridimensionamento del raccolto di grano. Un’emergenza che minaccia concretamente di trasformare la Russia da Paese esportatore di frumento a importatore, per la prima volta da dieci anni a questa parte.
mondo
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Urbanistica. Un altro grande progetto è destinato a cambiare il volto della capitale: un nuovo quartiere «balneare»
Il fiume sopra Berlino La bonifica della Spree divide la città: gli speculatori contro la movida giovanile di Andrea D’Addio
BERLINO. «La parvenu delle metropoli». Così Walther Rathenau il ministro degli esteri della repubblica di Weimar definiva la Berlino di inizio Novecento. E allo stesso modo si può, a distanza di un secolo, riparlare della capitale della Germania: una città sempre di rincorsa, non per forza in meglio. Se dopo la caduta del muro, Berlino è diventata progressivamente il maggiore punto di ritrovo europeo per giovani, artisti e persone più che mai attratte da uno stile di vita pacato, economico e a grandezza d’uomo, ora il tradizionale mito della nuova metropoli occidentale, moderna, ricca e ordinata, sembra sia destinato a distruggere quanto creato negli ultimi vent’anni. E cioè quel clima di vita bohémien che, complici i tanti spazi abbandonati e un’offerta di locali maggiore della domanda, ha dato vita ad una serie infini-
ta di caffè, atelier e locali in qualsiasi angolo della città. «Berlino è povera, ma sexy» disse qualche anno fa, l’attuale sindaco (lo è dal 2001) Klaus Wovereit. Purtroppo le prospettive futuro probabilmente cambieranno percorso.
I grandi investimenti urbanistici e sociali che le casse della città hanno dovuto sostenere nell’ultimo ventennio per cancellare le tracce del muro, attrarre imprese, turisti e dare aiuto ai tanti ex Ddr catapultati in un mondo capitalista in cui è stato difficile trovare per una loro una nuova collocazione lavorativa, hanno più volte fatto rischiare la bancarotta. «Ricattata», per così dire, da questa situazione, l’amministrazione comunale ha ascoltato sempre con interesse le proposte dei va-
ri investitori-speculatori edilizi. La Germania è pur sempre (lo dimostrano anche gli ultimi studi dell’Istat: più 2,2% di incremento Pil nel primo trimestre 2010, ritmo di crescita più elevato dalla riunificazione) la “locomotiva d’Europa”, e Berlino, in quanto sua capitale, non potrà che diventare ancora di più il punto nevralgico dell’economia del vecchio continente. Van bene gli artisti, è vero che il turismo aumenta, ma è necessario anche gettare le basi zone “di classe” che siano pronta ad accogliere i nuovi ricchi e gli uffici di chi sposterà qui i propri centri direzionali. I quartieri borghesi di Charlottenburg, Wilmersdorf e Steglitz sono purtroppo troppo istituzionali, emanano quella
grandezza dell’ex parte ovest che, se un tempo simboleggiava una ricchezza che ad est potevano solo sognare, ora appare ad alcuni come un’esagerata
Il nuovo sviluppo cittadino dovrebbe nascere in una delle ex zone industriali della parte orientale a due passi dall’East Side Gallery, il lungo tratto di muro su cui sono stati dipinti i famosi graffiti ostentazione di un benessere lontano dallo spirito della città. Ecco quindi il desiderio di trasferirsi nelle zone “ribelli”, quelle che un tempo erano al confine con il muro, e per questo poco ambite, ma che oggi sprizzano vitalità da tutti i pori, riflessi odierni di quel principio della “Zwischennutzung”, dell’utilizzo temporaneo (non c’è nulla di permanente, nessuno sa bene a chi appartenga un determinato edificio e se e quando arriverà mai il denaro per la sua ristrutturazione) che a fine Novanta spinse molti operatori del settore immobiliare ad affittare per brevi periodi i loro spazi a gestori dei club.
Di tutto questo, i moderni yuppies tedeschi si accorgono oggi solo del risultato - «qui è tutto molto fico» - senza pensare a ciò che c’è e c’è stato dietro. È bello andare al lavoro in giacca e cravatta mentre nell’edificio accanto un locale reggae organizza la serate di festa e divertimento mentre sul marciapiede dall’altra parte della strada puoi trovare il pittore che dipinge il fiume o il musicista panamense che can-
ta le sue canzoni. Tutti quindi a Kreuzberg, tutti a Friedrichshain, due quartieri un tempo divisi dal confine di cemento e ora uniti nell’animo e nelle preoccupazioni (sono stati uniti in un’unica circoscrizione, unico caso in una Berlino che ancora riflette burocraticamente le delimitazioni di un tempo). È da qui che nasce il progetto Mediaspree: erigere una grandissima area lungo la Sprea in una delle ex zone industriali della parte est a due passi dall’East Side Gallery (il lungo tratto di muro su cui sono stati dipinti i famosi graffiti). Se ne era parlato già a metà anni ’Novanta, ma tutto naufragò per mancanza di soldi e investitori. Il tempo però passa, le priorità cambiano e così già nel settembre del 2008, proprio in questa zona ricca di locali, scuole d’arte, centri autogestiti e progetti di vita anticonvenzionali, fu inaugurata la «O2 World Arena», un immenso palazzetto dello sport (capacità di 17mila spettatori costato 165 milioni), tra i più moderni complessi sportivi al mondo, che appare però tuttora come un elemento alieno rispetto al resto del paesaggio che la circonda. Non riflettendo forse abbastanza sul rischio che uno stravolgimento urbanistico del quartiere, ne farebbe scendere proprio quel fascino che ora rincorre, si vogliono costruire hotel, case di lusso ed uffici di società che si credono come giovani e cool, come afferma lo stesso Christian Meyer, portavoce del progetto Mediaspree: «Vogliamo inqui-
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rischiano di impedire. Ciò non toglie che, se non ora, comunque in un prossimo futuro, appena si sarà trovato il giusto compromesso architettonico, il progetto di “riqualificazione” andrà a buon fine.
Fa discutere anche il futuro di «Tacheles», centro sociale nato nella zona Est dalle ceneri della riunificazione: al suo posto ora si vorrebbero costruire delle strutture private e commerciali
lini attraenti, giovani, come Mtv o Viva!. Aziende che possano essere definite sexy». Sarà pure, per ora sul sito del progetto, www.mediaspree. com, appare da mesi un anonimo “coming soon”, arriviamo presto.
Nell’ultimo triennio, il senato cittadino (guidato dall’alleanza socialisti e sinistra) ha però approvato il progetto, vendendo e concedendo autorizzazioni ad un gruppo di investitori privati buona parte dell’area che va da Ostbahnof fino all’inizio di Treptow. Nessuno inizialmente interpellò gli abitanti del quartiere, e solo dopo la pressione esercitata da comitati cittadini più che mai agguerriti, si arrivò alla deci-
sione di indire un referendum. Data la delicatezza della situazione legale, con terreni già venduti e quindi difficilmente alienabili, alla consultazione fu dato valore solo consultivo. Si sapeva bene che l’esito sarebbe stato negativo, e così fu: circa l’80% dei votanti si espresse contro il Mediaspree. Gli effetti del voto sono stati minimi (una parziale diminuzione dell’intero piano, ma “non abbastanza” a detta dei cittadini), tanto che lo smantellamento delle zone meno “popolate”dell’area, quelle che anche se sgombrate non richiamano l’attenzione di media, seppur tra stop temporanei e accelerazioni, continua imperterrito. Se oggi locali celebri come il
Bar 25, il Maria am Postbahnof, il Kiki Blofeld o lo Yaam, tra i più frequentati durante l’estate berlinese, ancora non sono stati sfrattati nonostante ripetuti avvisi e minacce, è perché la stessa amministrazione comunale ha cercato di correre ai ripari suggerendo che a pagare i nuovi lavori di bonifica del fiume (che si vuole rendere balneabile entro i prossimi due anni) dovranno essere tutti gli esercenti, o i proprietari, delle nuove attività che sorgeranno sulla riva. Un bell’ostacolo (finanziario) per chi puntava sul mattone come investimento futuro, soprattutto perché invitare i berlinesi a fare il bagno nella Sprea significa anche garantire loro degli accessi alla riva che uffici o case di lusso
Lo scorso 5 giugno una grande manifestazione ha visto scendere in strada migliaia di cittadini intenti a far sentire la propria voce. Purtroppo, come accade spesso quando si parla di manifestazioni a Kreuzberg, non sono mancati gli scontri, con tanto di dimostranti che denunciano un attacco della polizia che ha portato all’arresto di ben dieci persone, al ferimento di una e all’immotivato sequestro di un furgone con il megafono. Il progetto Mediaspree non è un unicum nella Berlino di oggi, ma è forse quello che più di ogni altro simboleggia il tentativo di cambiamento che la città sta subendo in questi ultimi anni. Analoga sorte la sta vivendo il famoso Tacheles, il più famoso centro sociale nato dalle ceneri della riunificazione, sulla Orarnienburger strasse (quartiere Mitte) a pochi passi da uno dei bunker in cui i cittadini si andavano a riparare durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale, e che nel 1990 fu affidato in gestione ad un collettivo di ragazzi in cerca di un luogo in cui creare (e dormire) liberamente. Il palazzo doveva essere inizialmente demolito e così fu affittato all’epoca per il prezzo simbolico di un marco al mese, un contratto purtroppo scaduto nel 2008 e che da allora minaccia ogni giorno l’esistenza di uno dei luoghi più visitati dai turisti. Al posto dei suoi cinque piani di creatività, con tanto di discoteca, pub, gallerie d’arte, laboratori, cinema e teatro (a marzo scorso c’è stato anche un festival dedicato all’arte italiana contemporanea) , ci sarà presto una sede dell’HSH Nordbank, un istituto di credito della Germania occidentale. Non basteranno la lunga e ricca raccolta di firme, un volume infinito di autografi provenienti da tutto il mondo (quasi chiunque entri al Tacheles lascia il proprio nominativo per il suo mantenimento), la sfortuna di essere nel nuovo (oggi) – vecchio (come prima della guerra) centro di Berlino, ne segna automaticamente la fine. Non c’è spazio per il caos, anche se d’autore. A pochi passi dal Tacheles, stessa sorte toccherà alla C/O, una delle gallerie d’arte più famose al mondo per le sue mostre fotografiche. L’affitto scade a marzo 2011 e c’è già un gruppo
di investitori pronto a rivelarne la proprietà. Rischi ne corre anche il popolare Mauerpark, grande parco situato a nord a due passi dal muro (a due passi dal centro di raccolta dei documenti sulla storia della frontiera cittadina), dove ogni domenica i berlinesi si ritrovano per un originalissimo mercato delle pulci o per cantare tutti assieme al karaoke mentre gli amici grillano wurstel e salsicce. La zona, Prenzlauer Berg, ex quartiere ribelle dell’est, si è ormai imborghesito, e nuovi appartamenti di lusso sono pronti ad invaderlo. Anche in questo caso petizioni e manifestazioni si susseguono cercando di attirare l’attenzione su un problema che sembra, purtroppo, senza via di uscita. L’unica speranza di sopravvivenza per questi luoghi è che la crisi immobiliare possa in qualche modo allungare i tempi e le ambizioni dell’investimento, lasciando aperta magari la porta ad un intervento diretto del sindaco. A salvarsi, ad esempio, ultimamente è stato il Mellow Park, un grande parco per skater che dopo tre anni di contrattazioni è stato risparmiato dalla colata di cemento (la “gentrificazione”) grazie all’intervento dei politici e dei gestori del parco stesso che hanno comprato un’area vicina per poi rivenderla a chi voleva costruire sul loro spazio. Chissà se l’episodio potrà ripetersi anche altrove.
Certo è che, se dal 1991, anno del ritorno di Berlino unica capitale, si fece di tutto per cancellare le più manifeste tracce del tragico passato, demolendo quasi completamente il muro e ricostruendo quasi ex-novo alcune zone della zona est, ora la tendenza è di concentrarsi sulla “riqualificazione” di tutti quegli angoli un tempo abbandonati o dati in gestione a giovani associazioni affinché la città rimanesse popolata ed avesse le proprie attrattive. Sembra come se gli ultimi vent’anni avessero rappresentato un periodo di assestamento necessario per poi volgersi verso la modernità di Monaco e Londra, anziché il tentativo di una nuova idea di metropoli, dove la maggiore parte dei cittadini non sono assillati dall’idea del guadagno, ma si accontentano di un poco (Berlino è tra le città tedesche più povere per reddito procapite, la peggiore se la si considera dell’Ovest), ma buono, sicuramente alla portata di tutti. Affitti bassi, ristoranti a poco, discoteche con ingressi di massimo a 10 euro (ma normalmente sono gratis), si gira in bicicletta o con i mezzi pubblici, quasi ogni strada ha la propria galleria d’arte, caffè o luogo di ritrovo. Forse Berlino non era più l’ultima arrivata, una “parvenu”, ma un modello. Peccato però che il giro di boa sia finito, e si cerchi di volere ritornare alla base, alla normalità.
ULTIMAPAGINA Pechino. Un’autostrada è bloccata dal 14 agosto: si spera di liberarla dalle vetture ferme entro metà settembre
L’ingorgo cinese è lungo di Pietro Salvatori re 20.00. Le famiglie italiane si siedono a tavola. Accendono la radio e la televisione. Un po’ di politica, due tre fattacci di cronaca, l’ondata di calore più intensa degli ultimi sei milioni di anni. È il global warming, bellezza. I telegiornali si ricorrono da un canale all’altro tutti uguali. È dura riempire una lunghissima mezz’ora quando le notizie non ci sono. E, in estate, le notizie non ci sono mai, tocca sempre riscaldare la solita minestra. Uno degli ingredienti principali di questi orridi pastoni è il traffico. Quanto traffico c’è per le strade, l’esodo, il rientro, le code, il bibitone rinfrescante per non rimanere disidratati tra il cruscotto bollente e l’aria condizionata malfunzionante.Temi fondamentali per un servizio che impieghi quei buoni quattro o cinque minuti che ti permettano di portare a casa la giornata. I direttori dei tg a Pechino e dintorni stanno stappando lo spumante.
O
Che succede? La National Expressway 110 è la principale autostrada che dalla capitale porta verso nord-ovest. Le autorità locali hanno deciso che agosto era il mese giusto per procedere con alcuni lavori di manutenzione generale, tali per cui si è dovuto chiudere un lungo tratto per deviare il traffico su una «banalissima» due corsie, il cui tracciato corre parallelamente a quello della National Expressway. E già questo, dalle parti di Milano2 o di Saxa Rubra, sarebbe un gustoso boccone per l’apertura delle ore 13.00. Ma le autorità cinesi hanno fatto un gravissimo errore di valutazione. Il tracciato è solitamente percorso da un flusso densissimo di trasporto pesante su strada. Camion, insomma, a decine di migliaia. Che si sono riversati su una due corsie che in Italia farebbe impallidire strade di molto superiori alla vituperata Salerno-Reggio Calabria, ma che per il miliardo e passa di allegri cinesi è una bazzecola. Un carburatore fuori uso, una gomma forata, un banale Pandino a 30 all’ora in mezzo alla strada, e la coda si è iniziata a allungare. Macchine su macchine, camion su camion, nel giro di una manciata d’ore la situazione è iniziata a diventare insostenibile. Passano un paio di giorni, e il casino è completo. E di proporzioni tali che sfonda le rigide maglie della censura di Pechino per sbarcare allegramente sui media di tutta Europa. Lo stato dell’arte è infatti da film surrealista di serie B. La coda è iniziata dieci giorni fa. Il serpentone si snoda oggi lungo cento chilometri. Sì, esatto, cento lunghissimi chilometri, un teoria ininterrotta di camion, macchine e ancora camion. E non si vede una soluzione. Ovvero, la si vede, ma è talmente lontana da suonare ridicola a dirla. Le autorità locali hanno infatti fissato al 13 settembre la prima data utile per lo smaltimento di tutti autoveicoli. E questo se la tabella di marcia verrà rigorosamente rispettata. Sono ben 400 i vigili spediti a cercare di normalizzare la situazione. Si scontrano con il non indifferente problema che, per come è costruita la strada e per le aree che attraversa, la rimozione dei veicoli che man mano finiscono in panne è impossibile. Devono essere spinti a mano ai bordi della carreggiata, dove costituiscono comunque un ulteriore ostacolo alla viabilità. Considerato il fatto che dovranno trascorrere
100 CHILOMETRI I commercianti della zona ne approfittano per rifornire di acqua e di cibo i malcapitati a prezzi maggiorati. Gli automobilisti, per ingannare l’attesa, si sono ingegnati: dai tornei di carte, a piccoli concerti, fino a campi per giocare a pallone
Alcune immagini dell’incredibile fila che si è andata a formare su una strada di lunga percorrenza a nord-ovest di Pechino. La fila si snoda oggi da Jining, nella Mongolia centrale, a Huai’an nella provincia dell’Hebei. Le autorità hanno annunciato che l’ingorgo non potrà essere smaltito prima del 13 settembre
almeno tre settimane lungo i bordi di una strada, gli occupanti dei veicoli si stanno organizzando. Ripari di fortuna nei prati circostanti sono segnalati di giorno dal nero e dal grigio dei teloni che riparano dal sole, di notte dal fuoco dei fornelletti da campo e dal filo di fumo che si solleva dalle pentole in cui si cucina la cena. E come in tutte le situazioni di emergenza, c’è chi ne approfitta. Lungo i guard-rail si sono affollate decine di bancarelle. I commercianti della zona, ma anche ambulanti attratti da lontano dalla possibilità di sicuri guadagni, ne approfittano per rifornire di acqua e di cibo i malcapitati. A prezzo maggiorato, ovviamente.
Il serpentone corre ormai da Jining, nella Mongolia centrale, a Huai’an nella provincia dell’Hebei. Le strade alternative su cui poter dirottare il traffico sono parimenti intasate, e non si vede per ora all’orizzonte altra soluzione se non quella di aspettare pazientemente che piano piano il mega ingorgo venga smaltito. Per ingannare l’attesa, gli automobilisti si sono ingegnati nei modi più disparati: si trovano centri ricreativi che organizzano tornei di carte, piccoli concerti, e campi improvvisati per giocare a pallone.