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ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • SABATO 4 SETTEMBRE 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Hawking scomunica Dio Processo al nuovo libro del fisico inglese «L’Universo si è formato da solo, non c’è Creatore». E parte la polemica contro l’arroganza della Scienza di Riccardo Paradisi a comunità scientifica e culturale mondiale è in subbuglio per la nuova teoria di Stephen Hawking non ha dubbi: la creazione dell’universo si può calcolare attraverso equazioni sicché l’intervento divino sarebbe inutile. E il big bang una «inevitabile conseguenza delle leggi della fisica». Insomma, ormai la scienza processa Dio.

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a pagina 2

ROCCO BUTTIGLIONE: UN DUBBIO SOLO MORALE «La prova dell’esistenza di Dio è morale o estetica o esistenziale, ma comunque non scientifica» GIOVANNI REALE: NON È UN TEMA DA SCIENTISTI «La scienza in quanto tale è strutturalmente impossibilitata a parlare di Dio», dice Giovanni Reale REMO RUFFINI: CHE DISASTRO PER NOI SCIENZIATI «Le teorie di Hawking saranno una brutta tegola per la comunità scientifica», dice il fisico Remo Ruffini ROWAN WILLIAMS: LA FISICA, DA SOLA, NON BASTA «La fisica, da sola, non può dimostrare la creazione», dice Rowan Williams, arcivescovo di Canterbury

Berlusconi al Quirinale: «Il nuovo ministro allo Sviluppo economico tra una settimana»

Il martello di Napolitano

Ritratto di un banchiere di moda, protagonista ieri a Cernobbio

Il presidente ancora in pressing sul premier: «Le istituzioni difendano la magistratura». E intanto Pisanu dice no alle elezioni anticipate

Cosa c’è di vero nelle voci su Passera “politico”

Il governatore è ottimista sulla ripresa

«Rigore e competitività»: Draghi parla tedesco «La situazione mondiale si sta consolidando in senso positivo, anche se alcune economie avanzano e altre restano indietro» Gianfranco Polillo • pagina 10

Il giallo dei diari di Galeazzo Ciano

Il doppio gioco del Duce con la figlia e con i nazisti Fu solo l’ipocrisia di Mussolini a spingere i tedeschi ad aiutare Edda a nascondere a Berlino lo scottante dossier del marito Mauro Canali • pagina 16 EURO 1,00 (10,00

di Errico Novi

Casini e il «modello Marche»

di Giancarlo Galli

ROMA. Proprio il giorno

«Con Bersani solo se rompe a sinistra»

ol governo Berlusconi azzoppato dalla dissidenza finiana e dalla prospettiva di elezioni superanticipate, fioriscono nei teatrini estivi della politica salottiera, i giochi e le scommesse sui “cavalli di razza” che potrebbero decidere di mettersi in pista. Per Palazzo Chigi & Dintorni. Dopo le “voci” su Luca Cordero di Montezemolo che ha concluso l’esperienza in Fiat cedendo il bastone del comando a John Elkann e Sergio Marchionne, ecco spuntare il nome di Corrado Passera, comasco classe 1954, ad del Gruppo San Paolo-Intesa. a pagina 8

dopo aver ascoltato dal guardasigilli Alfano i propositi del governo sul processo breve, Giorgio Napolitano dice in modo chiarissimo cosa davvero dovrebbe fare la politica per i magistrati: «Aiutarli, difenderli: ecco cosa dovrebbero fare le istituzioni repubblicane nei confronti dei giudici». Gli fa eco Beppe Pisanu che boccia il processo breve e dice: «L’unico scudo possibile è l’immunità parlamentare». a pagina 6

CON I QUADERNI)

• ANNO XV •

NUMERO

172 •

«Il governo ha fallito, deve ammetterlo». E sul sistema di voto: «La vera soluzione? La legge per le Province» Francesco Capozza • pagina 7 WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

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IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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pagina 2 • 4 settembre 2010

Negazioni. Emanule Severino attacca «la cattiva metafisica», mentre l’ex ateo Antony Flew si convertì studiando il Dna

Processo alla Scienza

«Non serve Dio per spiegare il mistero dell’origine»: la provocatoria teoria di Hawking divide il mondo scientifico da quello filosofico di Riccardo Paradisi

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annuncio contenuto in The gran design, il libro dell’astrofisico Stephan Hawking è, in estrema sintesi, che la creazione dell’universo si può calcolare attraverso equazioni, sicché l’intervento divino sarebbe inutile e il big bang una «inevitabile conseguenza delle leggi della fisica». Insomma, adieu Dieu, l’universo s’è creato da solo e a spiegarne l’esistenza basta quella legge universale così concreta che è la gravità. «La creazione spontanea è la ragione per cui qualcosa esiste piuttosto che il nulla» afferma Hawking. Ecco. Partita chiusa? Mica tanto. Perché se l’universo s’è creato da solo che cosa c’era prima di esso? Forse il nulla? E perché mai dal nulla – ammesso che il nulla possa essere, essendo il nulla e l’essere una contraddizione in termini – dovrebbe sortire qualcosa? Perché insomma il nulla e non l’essere?

Emanuele Severino è uno dei più interessanti e autorevoli filosofi contemporanei. Non muove da posizioni religiose o creazioniste ma da una riflessione sull’essere che dura da mezzo secolo. Dell’annuncio di Hawking Severino ha un giudizio netto: “Cattiva, pessima metafisica”. «La scienza, la fisica, sono incapaci di pronunciarsi su ciò che trascende l’esperienza. Peraltro anche un astrofisico dovrebbe sapere che creazione o nulla non sono parole o equazioni sono oceani di senso esplorati da più di 2500 anni dal pensiero filosofico. Tanto più che la parola creazione o autocreazione infilata nella sua teoria senza il presupposto di un creatore è un’ingenuità persino superiore a quella di un Bergson che si azzardò a parlare della teoria della creatività. La realtà è che le competenze ontologiche che possiede la scienza sono nulle malgrado la scienza presupponga e proceda da un’ontologia, da cui essa stessa non può fare a meno». Insomma sembra dire Severino: di che stiamo parlando? La realtà è che «la negazione di Hawking e di ogni scolastica ateistica è semplicemente un esercizio inconsapevole di alienazione. Una trappola in cui cadono sia i nemici che gli amici di Dio, tutti coloro cioè che pretendono di pensare la provenienza dell’essere dal nulla, che si arrogano il diritto di disconoscere l’eternità e la totalità degli essenti, dei significati concreti e reali dell’essere. Quell’essere che non può mai essere stato nulla». Il discorso di Severino si fa ripido e denso come il pensiero di questo filosofo che esprime infine però un concetto immediatamente afferrabile: « Dire che le cose vengo-

no dal nulla è come dire che l’essere è il niente. L’espressione di Hawking è l’espressione della più netta follia». La materia eterna dei materialisti dunque, o la quantità totale di energia, o l’elan vital dei vitalisti, addirittura l’idea di Dio, si configurano dunque per Severino come ideologie di alienazione,“cattiva metafisica”. Non basta: Severino riserva l’ultimo colpo alla sciatteria intellettuale del laicismo e dell’ateismo contemporanei: «Sono correnti che hanno deciso di rendersi la vita facile. Semplificano brutalmente a loro vantaggio la complessità delle cose, finendo col risolvere forzosamente nodi e contraddizioni che invece restano tali, a partire da quella lunga tradizione a cui loro stessi appartengono che intreccia insieme scienza e religione. Ccommistione che interessa gli stessi fondamenti della scienza moderna». Questo sul piano filosofico. Ma l’ardita negazione hawkingiana che si presume basata sulla nuda osservazione del fenomeno e delle leggi di natura viene contraddetta anche dal merito della clamorosa conversione, avvenuta quattro anni fa, del filosofo Antony Flew, scomparso la scorsa primavera e per decenni simbolo e bandiera mondiale dell’ateismo scientifico.Tanto da esser stato per anni padrino e maestro di un altro banditore ossessivo dell’inesistenza di Dio, di quel Richard Dawkins che di fronte alla conversione di Flew ha parlato di un «collasso senile». Eppure, ecco il punto, la conversione di Flew, avvenuta in tardissima età, non arriva per un’insondabile crisi personale. È lo sbocco di un’indagine serrata e lucida sull’origine dell’universo e della vita: «La mia scoperta del Divino è stata un itinerario della ragione e non della fede» scrive Flew in Dio esiste. Come l’ateo più famoso del mondo ha cambiato idea (Alfa&Omega) appena uscito in Italia: «Perché ora credo dopo avere esposto e difeso l’ateismo per più di mezzo secolo? È per il quadro del mondo che è emerso dalla scienza moderna». In particolare, a sconvolgere la visione del mondo del pensatore di Oxford, è lo studio del Dna: «Credo che il materiale del Dna abbia dimostrato, con la complessità quasi incredibile delle disposizioni di cui si necessita per generare la vita, che l’Intelligenza debba essere stata così coinvolta nel far sì che questi elementi diversi operassero insieme». Ma non c’è niente da fare, per certo scientismo gli scienziati “veri” non possono

Le reazioni (univoche) in Italia e nel mondo John Lennox (professore di matematica a Oxford): «Sia come scienziato che come cristiano contesto le affermazioni di Hawking, che ci chiede di scegliere tra Dio e le leggi della fisica, come se fossero necessariamente in conflitto. Ma contrariamente a quanto sostiene Hawking, le leggi della fisica non possono darci una spiegazione completa dell’universo. Le leggi, in sé, non creano niente. Sono soltanto una descrizione di quanto accade quando si verificano certe condizioni. Massimo Cacciari (filosofo): «Nulla è più assurdo e antiscientifico di pretendere che un linguaggio specialistico fornisca risposte universali. È una contraddizione logica, quella di Hawking, che ha qualcosa di comico e non va nemmeno presa in considerazione. Meglio avrebbe fatto a leggersi la Dialettica trascendentale di Kant». Robert Barron (sacerdote e professore di teologia): «Se la legge di gravità fosse davvero la causa ultima dell’universo, vorebbe dire che una forza interna alla natura è la fonte stessa della natura. Si tratta di un’affermazione senza alcuna coerenza logica». Roger Highfield (direttore

della rivista “New Scientist”): «Il furore mediatico intorno al nuovo libro di Hawking mi sembra esagerato. Non è come se avesse improvvisamente ripudiato una qualche fede religiosa o dimostrato la non esistenza di Dio. Piuttosto, mi sembra il solito metodo di utilizzare Dio per “vendere” la scienza alle masse».

Quentin de la Bedoyere (giornalista del “Catholic Herald”): «La teoria di Hawking non spiega come qualcosa di esistente possa emergere dal nulla assoluto. E questa è una domanda alla quale la scienza non può rispondere, perche il “nulla” non è all’interno dei suoi confini». Graham Farmelo (storico della scienza): «La relazione tra scienza e religione, almeno fino a quando ce ne sarà una, continua a piacere al grande pubblico. E ormai sembra che una delle leggi fondamentali delle public relations sia quella di alimentare il dibattito tra scienza e religione come strumento, a prova di bomba, per assicurarsi pubblicità. E la pubblicità è sempre benvenuta quando si deve vendere un nuovo libro...». Eric Priest (matematico e astronomo): «Non è possibile provare scientificamente l’esistenza o la non-esistenza di Dio».

farsi venire dubbi su Dio, non possono che professarsi atei, non possono avere niente in comune con quella «gente pazza e illusa» – espressioni ancora di Dawkins – che si è inventata un «delinquente psicotico» (Dio).

Peccato che la metà degli scienziati a Dio (il “delinquente psicotico” di Dawkins) invece ci crede. Da un’indagine condotta alla fine degli anni novanta risulta infatti che il 45% degli scienziati credono in Dio, il 40% no e il 15% sono incerti. Un risultato che non si discosta di molto da un’indagine simile del 1916 da cui risultò che il 40% degli scienziati credevano in Dio, il 40% no e il 20% erano incerti. Indagini che non dimostrano evidentemente né l’esistenza né l’inesistenza di Dio, semmai il fatto che esistono argomentazioni parimenti razionali e legittime per credere o no nella sua esistenza. Eppure i dogmi ateistici o evoluzionistici non possono essere impunemente messi in discussione. Basta un sospetto d’eresia per finire nelle spire dell’inquisizione. È il caso dell’astronomo Guillermo Gonzalez che a seguito delle sue ricerche si convince che la casualità dell’universo non è scientificamente

Per lo scientismo gli scienziati “veri”, non possono che professarsi atei. Ma almeno il 45% si dicono religiosi, il 15% incerti e il 40% non credenti sostenibile. Basta questo perché un’influente pattuglia di suoi colleghi dell’Iowa State University diffondano una petizione per denunciarlo come un ciarlatano. La colpa di Gonzalez? Aver usato il metodo scientifico – evidenze, testabilità e falsificabilità – per ipotizzare che la precisione dell’universo sia tale proprio per consentire la vita umana sulla terra. D’altra parte anche i credenti dovrebbero vigilare per non cadere nell’errore speculare: «La natura non spiega la scienza se non per il credente» avvertiva lo scienziato cristiano Blaise Pascal: «Incomprensibile che Dio esista e incomprensibile che non esista; che il mondo sia creato e che non sia tale. Se c’è un Dio, è infinitamente incomprensibile, perché, non avendo né parti né limiti, non ha nessun rapporto con noi. Non accusate, dunque, di errore chi abbia scelto, perché non ne sapete un bel nulla». Insomma Dio non è materia per affermazioni sovrane o assolute negazioni. E se c’è si nasconde, forse per lasciarci liberi di accettarlo o rifiutarlo.


REMO RUFFINI, DOCENTE DI FISICA ALLA SAPIENZA

«Una teoria insostenibile. Per noi sarà solo un danno» di Francesco Lo Dico

ROMA. «La creazione spontanea è la ragione per cui c’è qualcosa invece del nulla, il motivo per cui esiste l’universo, per cui esistiamo noi», e dunque «non è stato Dio a creare l’universo». Le tesi contenute in The Grand Design, nuovo libro di Stephen Hawking, non mancheranno di riaprire il fitto crepaccio che da secoli, a ogni nuova alzata d’ingegno, divide in cordate uguali e contrarie pasdaran della scienza e oltranzisti della fede. Un autentico buco nero, che pochi potrebbero sondare meglio di Remo Ruffini, docente di fisica teorica presso La Sapienza di Roma, che proprio dei buchi neri è considerato padre e scopritore. «È quasi un autewntico disastro. Conosco Stephen, sono stato coautore con lui di un libro sui buchi neri, ma la lettura di questi primi estratti mi ha lasciato assai perplesso. Un giorno gli chiederò quanto è farina del suo sacco, essendoci anche un’altra firma dietro questo libro», dice a liberal lo scienziato. «Come disse Kant, ci sono due cose che destano meraviglia: il cielo stellato sopra di noi, e la legge morale dentro di noi. La fisica è quel cielo pieno di stelle che si affaccia ai nostri occhi, ed essa non risponde dei“perché”ma cerca il come. Essa non sonda le leggi morali dentro di noi, che pure ci appartengono in quanto umani. E lo scienziato non deve negligere che l’essere umano ha dentro di sé l’urgenza morale di cercare il senso della propria esistenza. Potremmo descrivere l’universo come una macchina perfetta, identificandone ogni meccanismo in modo inesorabile. Lo spiegò a suo tempo il filosofo di Königsberg: anche la rappresentazione scientifica pià compiuta, non esaudirebbe il perché della sua esistenza, della sua origine e del suo destino. E anzi, occorre dire che più si va avanti nella ricerca scientifica, più il mistero di queste leggi che pure crescono enormemente di numero da un an-

no all’altro, si estende. La vera sfida della fisica non è contenuta nella materia, ma nelle leggi che la governano. Perciò il vero problema della cosmologia è identificare queste leggi. Inoltre, la determinazione di queste leggi e la loro vastità non può che stimolare la riflessione sul perché della loro esistenza. Non c’è nessuno più dell’astrofisico, che dovrebbe provare meraviglia di fronte al cosmo. Nelle parole di Hawking, seppure stento a crederci, c’é un’arroganza concettuale incredibile. Molte discipline infatti, dalla storia all’economia, dalle lingue all’antropologia, sono attraversate da leggi differenti in rapporto al tempo e al luogo in cui sono state poste. Tutte le discipline tranne la fisica, che nonostante l’immensa mole di leggi scoperte, è l’unica materia dello scibile che è composta da leggi uniche e complementari, che non sono in contraddizione tra loro ma lavorano ciascuna in funzione dell’altra, nonostante la ricerca scientifica abbia vissuto l’era di Newton, quella di Einstein, e quella quantistica. Non si è trovata ad oggi una sola legge fisica in contrasto con l’altra, ed il loro processo di sintesi è stato uno dei momenti pià importanti della conoscenza umana. La verità è che più spieghiamo l’universo, più noi fisici ci rendiamo conto di quanta bellezza e quanta complessità sia contenuta nelle leggi che lo presiedono. Il tessuto concettuale che regola l’universo è fantastico e non puo essere assolutamente pragonato a nulla. Ciò che personalmente non posso continuare a dimenticare è chiedermi il “perché” che pulsa in questa nostra conoscenza, al di là del mio lavoro quotidiano di scienziato. Più la conoscenza avanza, e più questo “perché” diventa drammatico e nella mia opinione necessario.Tanto quanto è necessaria la musica, l’arte, la filosofia e la religione per un essere umano».

ROWAN WILLIAMS, ARCIVESCOVO DI CANTERBURY

«La fisica, da sola, non basta a dire se una cosa esiste o no» di Massimo Fazzi

LONDRA. Che fosse la laicissima In-

ghilterra a guidare la rivolta, ovviamente verbale, contro le dichiarazioni che anticipano il nuovo libro del professor Stephen Hawking soprende un poco. E che a guidare il tutto sia proprio il capo della chiesa anglicana, quell’arcivescovo di Canterbury da sempre molto attento alle aperture proposte dalla società civile ai temi della fede, dà il segnale che la situazione è grave. Perché, come denunciato da tempo, il mondo sta iniziando a sentire di meno il bisogno di Dio. Ed ecco che, dalle pagine del glorioso Times, il leader anglicano guida una sorta di mini-concilio interreligioso chiamato a rispondere (ognuno secondo i propri dogmi, of course) all’affermazione secondo cui l’universo si è auto-generato, con buona pace del Creatore. Scrive dunque Rowan Williams, arcivescovo di Canterbury: «La fisica, da sola, non può rispondere alla domanda sul perché esista qualcosa invece che il nulla. Credere in Dio non vuol dire riempire un vuoto nella spiegazione di come tutto sia correlato all’interno dell’universo. È invece la convinzione che ci sia un “agente”vivente e intelligente dal quale tutto deriva la propria esistenza». Secondo Lord Jonathan Sacks, rabbino capo del Commonwealth: «La scienza si occupa delle spiegazioni, la religione delle interpretazioni. Ma l’ostilità reciproca tra scienza e religione è una delle maledizioni della nostra epoca. Ed è dannosa per entrambe. La scienza che prova a mascherarsi da religione e poco credibile, esattamente come la religione che prova a mascherarsi da scienza. La Bibbia, molto semplicemente, non è interessata a spiegare in che modo l’universo sia arrivato ad esistere». Mons. Vincent

Nichols, arcivescovo cattolico di Westminster, scrive: «Sono convinto di quello che ha affermato il capo rabbino, che ha parlato in maniera così eloquente del rapporto fra religione e scienza».

Ibrahim Mogra, imam e presidente in carica del Consiglio musulmano della Gran Bretagna, punta invece sulla percezione umana: «Se guardiamo con onestà all’universo e a tutto ciò che esso contiene, che è stato creato per essere lì dov’è, ci rendiamo conto immediatamente che c’è qualcuno dietro la sua esistenza. E quel qualcuno è l’Onnipotente». Denis Alexander, direttore dell’Istituto Faraday per la Scienza e la religione, attacca direttamente lo scienziato: «Il “Dio” che Stephen Hawking sta cercando di presentare come inesistente non è il Dio delle fedi abramitiche, che è la spiegazione finale del perché ci sia qualcosa sulla terra. Il dio di Hawking è un dio usato per riempire i buchi, che viene citato per giustificare quelle cose che la conoscenza scientifica non è riuscita ancora a spiegare. La scienza ci fornisce una narrativa meravigliosa su come l’esistenza potrebbe essere apparsa, ma la teologia risponde al significato di questa narrativa». Fraser Watts (storico della scienza e pastore anglicano) conclude: «Il libro di Hawking è un tentativo di rispondere alla “domanda definitiva sulla vita, l’universo e tutto quanto”; ma la sua risposta consiste in undici dimensioni spazio-temporali, membrane bidimesionali, blob tridimensionali e altri oggetti difficili da immaginare e che occupano ancora più dimensioni nello spazio. Un Dio creatore è una spiegazione più ragionevole e credibile per l’esistenza dell’universo».


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l’approfondimento

«Il dibattito sul creazionismo è antico di millenni: ma la scienza è strutturalmente impossibilitata a parlare di certi temi»

L’inganno scientista

«Quella di Hawking è una prospettiva sbagliata. Il suo è uno sguardo sull’universo, che è infinito, al quale applica, al contrario, categorie che sono finite». Giovanni Reale replica alle teorie dello studioso di Oxford di Pietro Salvatori

ROMA. «Se uno non ha espe-

rienza religiosa di alcun tipo, deve tenere giù le mani dall’argomento». Giovanni Reale, uno dei maggiori filosofi italiani, utilizza una citazione di Heidegger per rispondere alle teorie del cosmologo Hawking, che nel suo nuovo libro, Il grande disegno, spiega come l’universo sia il frutto di un’autogenerazione che escluderebbe qualsiasi intervento divino. Ma come professore. Heidegger, il teorico dell’ateismo? Era ritenuto a torto tale. Gadamer, uno dei suoi più grandi collaboratori, mi disse che era profondamente legato alla ricerca di Dio. E che, forse, prima di morire, lo aveva anche trovato. Torniamo alle teorie di Hawking. Sì, anche se c’è da fare subito una premessa. La scienza in quanto tale è strutturalmente impossibilitata a parlare di Dio. Hawking commette un errore di fondo. E qual è? Vede, teorie come quella di cui stiamo discutendo sono frutto

del lavoro di scientisti, non di scienziati. Gli scientisti tendono a negare ciò che non rientra nel contesto delle categorie di cui si occupano. Quindi Hawking negherebbe l’esistenza di Dio perché al di fuori del proprio campo di studi? Quella dello studioso di Oxford è una prospettiva sbagliata. Il suo è uno sguardo sull’universo, che è infinito, al quale applica, al contrario, categorie che sono finite. Poi si consideri che la cosmologia, tra tutte le scienze particolari, è quella che immette nelle sue formulazioni il maggior tasso di fantasia dell’uomo. Basti pensare alla teoria del big bang. All’inizio era un dogma, poi si è passati a pensare che vi fosse stato più d’un big bang, e adesso non se ne parla più, o quasi. D’altronde lo diceva Popper: una teoria scientifica deve essere necessariamente falsificabile. In effetti elaborare una teoria che sostiene che Dio non esiste lascia pochi spazi a falsificazioni empiriche.

Esatto. Quando parliamo di scienza, ci dovremmo sempre riferire a un procedimento che, d’altronde, si utilizza anche in filosofia: quanto più il filosofo è geniale, tanto più chiude strade che ponevano interrogativi. Le risolve in un certo senso. Ma facendolo, apre strade nuove, lancia nuovi interrogativi. Hawking sembra solo dare risposte, dunque? Hawking compie lo stesso errore che compiva Hegel. Il filosofo tedesco aveva la presunzione non di parlare di filosofia, ma di Sofia, del sapere as-

soluto. Pretendeva, in parole semplici, di avere la verità. Al contrario è già dai tempi di Platone che i grandi filosofi ci hanno ammonito che l’uomo non perverrà mai a possedere e a comprendere la verità. Il compito dell’uomo è quello di ricercare il sapere, senza ridurlo ai propri schemi. Ma come si può ricercare Dio se non attraverso una capacità in fin dei conti limitata e schematica, com’è quella dell’uomo? Domanda legittima. Le risponderò con Sant’Agostino. In que-

«Chi pretende di possedere la verità è più pericoloso di chi ha dubbi»

sti mesi sto curando un’edizione di un suo scritto minore, il Commento al vangelo di Giovanni (uscirà a Natale in edizioni Bompiani ndr.), e senta cosa dice ad un certo punto, e mi dica se non risponde alla sua domanda: «Dio può essere desiderato, bramato, amato, sospirato; non può essere pensato in modo conveniente, né spiegato a parole». L’errore di Hawking è dunque quello di avere la pretesa di spiegare qualcosa che non può essere compiutamente descritto dall’uomo? Esatto, sempre Agostino dice che se arrivi a dare una spiegazione di Dio, se dici di averne compreso l’essenza, beh, quello non è Dio, è un frutto della tua immaginazione. Un ragionamento molto complesso, che può essere riassunto nella formula: se lo capisci, non è Dio. Ma Hawking non ha esattamente detto di comprendere chi o cos’è Dio. Fa lo stesso. L’errore di fondo inficia sempre la bontà del risultato finale. Pareyson, profes-


Troppi pretendono di risolvere a senso unico il conflitto secolare tra fisica e metafisica

La Creazione è un’incognita del cuore, non della ragione

Lo studioso ha dimenticato Pascal, Kant e Karl Popper, per formulare la sua teoria. Altrimenti saprebbe che l’etica non dipende dalla scienza di Rocco Buttiglione

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tephen Hawking evidentemente non ha letto Blaise Pascal, il filosofo francese del XVII secolo. Criticando il filosofo connazionale e di pochissimo anteriore Cartesio, Pascal ha scritto che René Descartes (quello stesso che noi italiani chiamiamo Cartesio) avrebbe voluto fare del tutto a meno di Dio nella sua fisica. Non vi è riuscito e così gli ha assegnato il ruolo di dare all’Universo un colpetto all’inizio, in modo da metterlo in movimento. Di quel Dio che dà il colpetto all’inizio, però, Pascal non sa che farsene. Il Dio che gli interessa è quello che parla nel cuore dell’uomo e parla al cuore dell’uomo. Lo si capisce a partire non dall’astronomia o dalla fisica ma a partire dalla esperienza vissuta di ogni singolo essere umano. Rispetto a questo Dio e anche all’essere che l’uomo scopre in se stesso lo scienziato fisico non è competente, proprio come il teologo non è competente a giudicare delle teorie sul movimento degli astri o sull’origine dell’universo.

Che ne penserebbe Hawking di un

teologo che gli venisse ad insegnare il suo mestiere di fisico? Qualche secolo dopo Pascal in effetti la scienza fisica ha potuto spiegare l’inizio del moto senza bisogno dell’ipotesi di Dio. Per chi aveva capito il senso della posizione pascaliana la notizia non ha provocato nessuna particolare preoccupazione. Non è compito della scienza dimostrare Dio e, d’altro canto, da essa non si può nemmeno pretendere che di Dio dimostri l’inesistenza. Non mancano tuttavia mai gli indotti che, senza aver veramente capito cosa sia la scienza e cosa la filosofia, pretendono alternativamente di fondare sulle ultime scoperte scientifiche l’esistenza di Dio o, viceversa, la sua non esistenza.

Oltre a non avere letto Pascal Hawking non ha letto neppure Immanuel Kant, il filosofo tedesco del XVIII secolo. Kant spiega che ogni dimoscientificastrazione mente valida si colloca nello spazio e nel tempo, ricostruisce catene causali che si collocano nello spazio e nel tempo. Quando parliamo di Dio andiamo oltre lo spazio ed oltre il tempo, cerchiamo per esempio una origine che è al di là del tempo. Questa origine la scienza con il suo metodo non la può trovare e

Per la scienza, Dio è sempre indimostrabile eppure continuamente necessario non la può provare. Ovviamente non può provare nemmeno il contrario; come non può provare l’esistenza di Dio non può provare neppure la sua

Da sinistra: Kant, Cartesio e Pascal. In alto, Karl Popper. Nella pagina a fianco, il filosofo Giovanni Reale

non esistenza. Le prove di quella esistenza è una prova morale o estetica o esistenziale ma comunque non scientifica. Kant, insomma, approfondisce e radicalizza l’intuizione pascaliana. Nell’orizzonte della scienza Dio rimane sempre come una ipotesi indimostrabile eppure necessaria: una “idea trascendentale della ragione”. Qualunque sia la ragione che la scienza assegna all’origine dell’universo nulla impedirà mai allo spirito umano di porre una domanda su di una ragione ancora più originaria. Se, per esempio, l’origine sono le leggi della fisica, nessuno può impedire che si ponga la domanda su da dove vengano queste leggi della fisica e così all’infinito.

Oltre a non avere letto Pascal e Kant, Hawking non ha letto neppure Karl Popper, il massimo epistemologo contemporaneo. Popper ci spiega che la scienza non ci parla della realtà metafisica, assoluta. La scienza ci offre sezioni trasversali della realtà; la realtà nella misura in cui essa si lascia cogliere dall’apparato categoriale di una singola scienza. Essa coglie aspetti o dimensioni della realtà senza mai poterli esaurire. Ma se Hawking di filosofia evidentemente non ha letto nulla perché si ostina a scriverne? Uno specialista eccellente nell’ambito della sua scienza si scredita facilmente se comincia a pontificare nell’ambito di una diversa disciplina della quale non è esperto e nella quale le sue opinioni valgono come quelle di qualunque ignorante.

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sore di teoretica che ha insegnato a Torino, diceva che i filosofi, quando tentano di spiegare Dio, lo antropomorfizzano in maniera ancora più pericolosa di quanto facevano i classici. Pensare a Dio inserendolo in categorie filosofiche è antropomorfizzarlo, renderlo simile all’uomo, perché inserito in schemi e riferimenti che sono propri della mente umana. E la stessa cosa vale per le categorie scientifiche. Sarebbe molto meglio raffigurarlo solamente attraverso categorie simboliche, che presuppongono di per sé qualcosa d’altro che non è immediatamente afferrabile dalla mente dell’uomo. Giulio Giorello, noto filosofo della scienza, afferma che le scienze naturali prescindono totalmente da Dio. Devono prescindere dall’argomento, ha ragione Giorello. Ma perché non lo possono toccare senza ridurne la portata. È stata un’intuizione di Aristotele a dividere la fisica dalla metafisica. Scisse le due parti, dicendo che le scienze naturali studiano un particolare aspetto della realtà. Da lì, per l’appunto, la denominazione di «scienze particolari». Mentre il metafisico, che non è lo scienziato, si interessa di tutta la realtà, tiene dentro tutti i fattori e tutti gli aspetti. È un po’ la stessa critica che muove a Hawking Cacciari quando dice che «nulla è più assurdo e antiscientifico di pretendere che un linguaggio specialistico fornisca risposte universali»? Condivido appieno la lettura di Cacciari. Vede, i problemi che pone la metafisica sono in tutto e per tutto i problemi dell’uomo, nella sua complessità. Chiudere questo tipo di problemi nell’orizzonte di una scienza particolare significa snaturarli, modificarli. Con quali conseguenze? Le posso dire solo che è molto più pericoloso chi pretende di possedere, di tenere in mano la verità, di chi si rifiuta persino di fare la fatica di un percorso di conoscenza. A me fa molta più paura. In che senso tenere in mano la verità? Farò un esempio. Un giorno, insegnavo a Parma, un mio alunno venne da me sottoponendomi un quesito. Il professore, mio collega, che insegnava geometria, gli aveva spiegato che, secondo un teorema geometrico, l’esistenza di Dio era impossibile. Chiesi allo studente che tipo di geometria utilizzasse il professore. Mi rispose quella euclidea. Capisce? Quel professore diceva che Dio non esisteva partendo dalle certezze di allora. Ma con il tempo si è capito che le categorie della geometria euclidea erano ristrette, che c’era molto di più. Quello di Hawking è lo stesso ragionamento, aggiornato ai tempi in cui viviamo.


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politica

Paletti. Il messaggio del Capo dello Stato nell’anniversario di Dalla Chiesa. Il vertice dell’Antimafia: «L’unico scudo possibile è l’immunità parlamentare»

Presidenti in trincea Dopo il pressing di Alfano sul processo breve, Napolitano avverte: «I giudici vanno sostenuti». E Pisanu: «No al voto» di Errico Novi

ROMA. Proprio il giorno dopo aver ascoltato dal guardasigilli Alfano i propositi del governo sul processo breve, Giorgio Napolitano dice in modo chiarissimo cosa davvero dovrebbe fare la politica per i magistrati. Lo fa nell’ambito del messaggio inviato al prefetto di Palermo per commemorare il ventottesimo anniversario della morte di Carlo Alberto Dalla Chiesa: «Il ricordo del sacrificio del generale è ancora oggi preziosa occasione per rafforzare la cultura della legalità e il senso della democrazia, e per rinnovare un convergente e deciso sostegno delle istituzioni repubblicane e della società civile all’attività di contrasto delle organizzazioni criminali svolta dalla magistratura e dalle forze dell’ordine». Aiutarli, difenderli: ecco cosa dovrebbero fare le «istituzioni repubblicane» nei confronti dei giudici. Napolitano non fa politica, non informa i suoi messaggi commemorativi alla polemica del giorno: ma è un fatto che sul rapporto tra governo e magistratura la sua visione sia ad una distanza siderale da quella di Berlusconi. Il ricordo di Dalla Chiesa è appunto l’occasione che fa balenare questa differenza.

Certo, l’impressione per la coincidenza temporale rimane. Solo poche ore prima il presidente della Repubblica aveva ascoltato da Angelino Alfano le intenzioni dell’esecutivo sul processo breve. Aveva notato la determinazione del ministro, ansioso di verificare se ad esaurire le perplessità del Quirinale basti la riformulazione della norma transitoria (che prevede l’applicazione dei nuovi termini processuali ai soli reati coperti dall’indulto di Prodi). A Napolitano interessa poco: non vuole avvitarsi dietro le contorsioni, ulteriori ed eventuali, della maggioranza; né intende assecondare il perverso gioco per cui l’esecutivo prima lo coinvolge come co-legislatore e poi lo accusa se la Consulta boccia il testo. Gli interessa piuttosto ricordare che la politica ha il dovere di difendere, e non di incalzare la magistratura. E non devono piacergli, evidentemente, certe considerazioni con cui il Pdl accompagna la faticosa marcia del ddl taglia-processi. Quelle del capogruppo in commissione Giustizia Enrico Costa, tanto per fare un esempio, secondo cui i giudici «si sentirebbero fortemente responsabilizzati» proprio dalla contrazione dei tempi a disposizione. Come se la re-

Duro attacco su scuola e precari

“Avvenire” vs Gelmini «Basta speculazioni» ROMA. L’Avvenire, il giornale dei vescovi italiani, non ci sta che il governo faccia speculazioni politiche sui giovani: nell’anno scolastico che sta per cominciare «non si guardi ad altri interessi» che non siano quelli dei ragazzi», non si sfrutti il loro nome per richieste e pretese, per quanto comprensibili. Non si faccia carriera sulla loro pelle». Il che vale «per il Ministro, e per ogni adulto che ha una funzione nella scuola». È questo il duro monito contenuto in un editoriale del quotidiano, all’indomani della conferenza stampa del ministro Maria Stella Gelmini.

«La signora ministro - afferma l’articolo - ha affrontato con gagliarda e dunque controversa volontà riformatrice sia l’Università che la scuola. Una partita personale e politica su cui sta scommettendo molto». Sulla quale il giudizio dei vescovi rimane sospeso. Nonostante gli sforzi, infatti, anche per «interessi corporativi» e i «molti problemi lasciati per strada» «anche quest’anno il panorama dell’avvio» del nuovo anno scolastico appare - a giudizio di Avvenire - «confuso e pieno di ombre». «Speriamo - auspica l’articolo - che prevalga in tutte le parti la buona volontà di salvaguardare l’essenziale», e di evitare, anche e soprattutto «là dove le condizioni non sono buone» che «si esacerbi il tutto, ma si faccia in modo che i bambini e i ragazzi non patiscano maggiore disagio». In giro - osserva Avvenire - «ci sono un sacco di furbastri che campano sulla e nella scuola e però dei ragazzi gliene interessa assai meno del giusto». Mentre «trattare male la scuola - avverte il giornale dei vescovi - è «il reato più grave oggi in Italia», oltre che un peccato ignominioso. E chi lo fa meriterebbe di essere portato davanti ad un «plotone di esecuzione» di ragazzi armati di «pistole ad acqua, elastici, schioppi di legno o mitragliette con i suoni elettronici». Un plotone che, a guardare come vanno le cose «sarebbe schierato dalla mattina alla sera». Mariastella Gelmini, infatti, nella sua conferenza stampa di rito, giovedì scorso, aveva di fatto abbandonato a se stessi i professori “precari” (duecentomila in tutto, quasi un quarto dell’intero corpo docente), sostenendo che non ci sono soldi per pagarli e che sono tutti eccessivamente politicizzati.

sponsabilità ora, nella magistratura, latitasse.

Da una parte dell’opposizione si tenta di enfatizzare il significato del messaggio presidenziale: «La maggioranza ascolti il Colle, servono interventi legislativi in grado di rafforzare il sistema giustizia, mentre il processo breve è agli antipodi con questa impostazione», dice la democratica Donatella Ferranti. E secondo il dipietrista Massimo Donadi «le parole di Napolitano sono uno schiaffo al governo e a Berlusconi». Ma non è solo dal Colle che arriva un severo richiamo, per l’esecutivo. A irrobustire il carico provvede Beppe Pisanu, spietato soprattutto nei confronti di Giulio Tremonti: «Con il ministro dell’Economia temo che si navighi a vista in un mare burrascoso e senza bussola», dice il presidente dell’Antimafia dal palco della festa dell’Api, a Labro. La sua è una gragnuola di colpi: «Ci sono problemi enormi e le risposte dei due poli non sono commisurate alla portata della crisi, c’è stata una manovra leggera liquidata con due voti di fiducia». Fino alla botta conclusiva: «Il ministro del Tesoro detiene in esclusiva tutti i parametri dell’Economia e nessuno sa niente. Ostenta sicurezza e dice che i fondamentali sono in ordine, ma la disoccupazione cresce a dismisura, come pure la distanza tra Nord e Sud». Abbastanza per evocare una delle questioni in cui sembra affannarsi il Cavaliere, quella del nuovo ministro allo Sviluppo economico, che Berlusconi vedrebbe ben incarnato dal finiano Mario Baldassarri: sulla nomina incombe proprio lo scetticismo, per non dire l’aperta ostilità, di Tremonti. Così il premier non decide, ma promette di farlo entro la prossima settimana: anzi diffonde una lunga nota, dal tono evidentemente piccato nei confronti del Quirinale, in cui annuncia la fine dell’interim ma rivendica anche che sotto la sua guida il ministero ha agito «con una concretezza mai vista prima». Non basta ad allontanare l’idea di una confusione che sembra imprigionare Berlusconi anche rispetto al processo breve e alle eventuali elezioni anticipate. Non è un caso se il solito Umberto Bossi provveda a fotografare in un lampo il quadro intricatissimo della crisi: «Punto di domanda». Aspetta di vedere «cosa dice Fini domenica» a Mirabello, e si augura che «non faccia casini». Ma parla anche delle «resistenze» incontrate da Berlusconi nella nomina del nuovo ministro allo Sviluppo. Si riferisce solo a quelle op-

poste da Napolitano su Paolo Romani? O allude anche al veto tremontiano su Baldassarri?

Quello che è certo è che la forzatura invocata dal Cavaliere per rompere definitivamente con «chi non sta con noi» sembra solo una vana esibizione di muscoli. Lui stesso ammette il rischio di una fine immediata della legislatura quando parla, come ha fatto nel vertice a Palazzo Grazioli di giovedì, dell’astensionismo che «sarebbe a nostro sfavore». Questione che oltretutto ai leghisti è ben nota: sono gli uomini di Bossi, a microfoni spenti, che si lamentano per «l’errore di calcolo del Cavaliere» e per il rischio di «non avere una maggioranza al Senato». In più si aggiunga il malumore che serpeggia nel correntone del Pdl, angustiato dal rischio che la probabile rinuncia al processo breve segni l’ennesima vittoria di Fini e dei suoi. Preoccupazione che at-

Dall’ex numero uno del Viminale dura critica a Tremonti: «È senza bussola». E sul terzo polo: «È presto, ma il bipolarismo è a pezzi e può nascere un nuovo partito dei moderati» traversa soprattutto gli ex colonnelli di An ma che viene fatta propria da Fabrizio Cicchitto, sollecito nel liquidare le critiche al taglia-processi come «un pretesto di chi lavora ad altri scenari».

In realtà emerge più di tutto l’incapacità del premier di sciogliere i nodi, che


politica

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Centinaia di domande per il leader centrista su “Repubblica.it”

«Noi con Bersani solo con il modello Marche»

«Il governo ha fallito, deve ammetterlo», dice Casini. Intanto la Bindi propone un Ulivo allargato all’Udc e alleato con Fini di Francesco Capozza

ROMA. C’è chi, come un certo Adriano, chiede se la rottura tra Fini e il premier non rappresenti la «caduta e il fallimento del berlusconismo» e chi, come Raffaele, chiede che differenza ci sia «tra il Berlusconi di adesso e quello che ha appoggiato lei in passato». Sono centinaia le domande che il popolo del web ha rivolto ieri a Pier Ferdinando Casini, ospite di Repubblica.it, il sito internet del quotidiano di Largo Fochetti. A moderare il botta e risposta tra i lettori/spettatori e l’ex presidente della Camera, i giornalisti Massimo Giannini, vice direttore del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari, e Annalisa Cuzzocrea.

si tratti della crisi con Fini o delle impuntature di Tremonti. E a comprimere lo spazio per un esito traumatico della legislatura provvede ancora una volta Pisanu: «Sono contrario allo scioglimento anticipato, sono favorevole a un governo che comunque rispetti il mandato elettorale». Con l’attuale premier e una «ricomposizione con Fini, magari su basi diverse». Ma evidentemente anche con un’altra guida. E nemmeno condivide, l’ex capo del Viminale, l’idea di risolvere la questione del «confine tra magistratura e politica» con «uno scudo contro la giustizia»: ci vuole, dice a Labro, l’immunità parlamentare, che in passato aveva impedito le reciproche invasioni di campo. Davanti alla platea rutelliana, Pisanu però sostiene anche che «i moderati dei due schieramenti devono prendere in mano la bussola e tenere saldo il timone» per superare un bipolarismo «immaturo e a tratti selvaggio», ma non necessariamente attraverso «la nascita di un terzo polo». L’attuale legge elettorale, osserva, «non lo consentirebbe». C’è però, chiosa «lo spazio per un nuovo partito». Così il presidente dell’Antimafia vede il futuro dei moderati, «ciascuno al proprio posto ma in grado di opporsi ai due estremismi, il federalismo disgregante della Lega e il giustizialismo di Di Pietro». Mentre sul presente dei rapporti tra mafia e politica avverte: «Il pericolo c’è, anzi le complicità sono evidenti, e il problema che la mafia si sia inabissata nell’economia è gigantesco».

Domande e risposte a ritmo serrato, si diceva. Dunque, berlusconismo al tramonto?«Lo abbiamo dato per molto e sepolto tante volte, per cui non mi avventurerei in previsioni. Ma rifletto su un aspetto: Berlusconi si dovrebbe ripresentare con tanti problemi ancora da risolvere. Il che dimostra che è un campione a vincere, ma non a governare». Avanti un altro: esiste una maggioranza per cambiare la legge elettorale e quale legge vorrebbe? «La maggioranza su un sistema elettorale si può trovare in una fase politica diversa da quella che stiamo vivendo. Oggi non è possibile, non la escludo in un momento successivo, e forse l’unica sintesi possibile potrebbe offrirla il sistema in vigore per le Provinciali». Una risposta al Pd, che ieri ha rilanciato per voce di Rosy Bindi l’offerta di una “alleanza per la democrazia”aperta anche a Futuro e libertà, con l’Udc parte costitutiva del nuovo Ulivo. «Ad oggi rispondo terzo polo. Ma se il Pd sceglie il modello Marche, ossia lascia Idv e sinistra estrema, allora sono pronto a discuterne... Bersani fa bene a dare ordine e chiarezza programmatica all’area. Ma io sono fuori da questo processo, l’Ulivo vecchio o nuovo non mi interessa. Sono però – dice il leader Udc - un interlocutore e seguo Bersani con interesse. Ma se devo imbarcarmi in alleanze in stile Prodi, no grazie». Montezemolo... «Berlusconi avrà tutti i difetti del mondo, ma è sceso in campo e in questo è un campione. Non si può auspicare, spingere per un cambiamento della società ma non rischiare. O si entra o... È come il gran premio che corre la Ferrari, si può vincere ma si può anche perdere, non esiste certezza». Attualità: Fini, quali forme di collaborazione futura tra voi? «Si è già creata un’area della responsabilità. Non ho mai dato giudizi su questioni interne ad un partito, e ho dato ai miei disposizioni in merito. Quello che mi ha fatto dispiacere è che si sia pensato all’Udc che entra nel governo per sostituire Fini. Di Fini non condivido lo spinto

laicismo, ma credo che non lo condividano nemmeno molti esponenti di Futuro e libertà». Ancora, la questione di Fini l’ha delineata Berlusconi? «Nel momento in cui Fini viene espulso, si apre un processo disciplinare per i suoi... Ma non mi è piaciuto questo: Fini sta da tre anni con una donna, ci ha fatto due figli: perché tutta l’estate abbiamo parlato della Tulliani, perché non parlarne tre anni fa? Questo non fa onore a chi ha promosso questa campagna». No a Berlusconi per il veto di Bossi?«Se a Berlusconi è servito minacciare l’entrata nel governo dell’Udc per scongiurare le elezioni, sono contento. Mi fa anche piacere che la Lega ci abbia attaccato, perché ha spiegato a tutti che noi siamo i veri nemici. Non siamo contro il federalismo, ma contro lo “spot” del federalismo. Li abbiamo attaccati sulle quote latte, per cui l’Italia rischia delle multe dall’Europa, con il governo che ha dato via libera a delle concessioni a scapito di chi quelle quote le aveva rispettate. Che poi Bossi, per motivare il suo rifiuto all’Udc, tiri dentro anche Tremonti, non solo fa capire che il ministro dell’Economia è arruolato nella Lega, ma che è garante del ruolo della Lega nel governo». E Casini su giustizia e magistratura? «L’ho detto quando ero con Berlusconi, lo ripeto oggi che sono opposizione. C’è chi pensa che dai magistrati vi sia totale obiettività. Invece credo che ci sia una piccola parte faziosa. Ed è un pericolo.Vi sembra normale che Minzolini venga indagato per rivelazione d’ufficio? E che quando lascia la Procura, subito dopo un giornale sia informato di quello che Minzolini ha riferito ai magistrati? Vi sembra normale?».

«Ciò che serve urgentemente al Paese è un armistizio politico e intervento deciso sull’economia, non un provvedimento che affossa la giustizia»

Due severi moniti al governo da Giorgio Napolitano (in alto), che ha richiamato «le istituzioni repubblicane» al sostegno della magistratura nella lotta alla mafia, e da Beppe Pisanu (qui sopra), che ha ricordato tra l’altro le complicità ancora decisive tra criminalità e politica. A sinistra Mariastella Gelmini, qui a destra Pier Ferdinando Casini

Una spina: le intercettazioni. «Non serve questa legge, ma serve una legge. Ci siamo opposti a un disegno di legge che, partito da un’esigenza giusta, arrivava solo a un intento censorio». Altra domanda: appello dei precari a Tremonti perché non lasci sola la Gemini, lei che ne pensa? «Ho sentito la Gelmini chiedere di non strumentalizzare i precari. Ha ragione, ma i precari esistono. Sono migliaia di persone. Credo che il ministro Tremonti non possa lasciare sola la Gemini». Ritorno alla politica contro la logica dei tagli? «La logica dei tagli lineari è la negazione della politica, penalizza tutti allo stesso modo, è vigliaccheria. E sono costi aggiuntivi per i cittadini. Quando dico che il Parlamento non deve impantanarsi sulla giustizia, è perché bisogna occuparsi di queste situazioni che coinvolgono direttamente il sociale». Due ore di diretta ma si sarebbe potuto continuare a lungo, vista la quantità di domande dei lettori.


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grandangolo Il suo «destino» è stato uno dei tormentoni dell’estate

Le banche o la politica? Il dilemma di Corrado Passera Tutto cominciò con un no a Enrico Cuccia e un sì a Carlo De Benedetti; poi una breve stagione accanto a Prodi e una lunga, che ancora continua, con Giovanni Bazoli. Da tempo, tutti dicono che il dominus di BancaIntesa sta preparando la «discesa in campo». Lui, per ora, smentisce. Aspettando una «Terza via»… di Giancarlo Galli ol governo Berlusconi azzoppato dalla dissidenza finiana e la prospettiva di elezioni superanticipate (in pieno inverno secondo i leghisti che si sentono almeno al Nord col vento in poppa, o più verosimilmente a primavera), fioriscono nei teatrini estivi della politica salottiera, i giochi e le scommesse sui “cavalli di razza” che potrebbero decidere di mettersi in pista. Per Palazzo Chigi & Dintorni. Dopo le “voci” su Luca Cordero di Montezemolo che ha concluso l’esperienza in Fiat cedendo il bastone del comando a John Elkann e Sergio Marchionne, ecco spuntare il nome di Corrado Passera, comasco classe 1954, amministratore delegato del Gruppo San Paolo-Intesa. Appunto in un dibattito sotto la pergola e in maniche di camicia a Dro, nel Trentino, c’è chi gli ha posto la domanda. Lui, l’ha dribblata con abilità: «Sono già in campo, e ci sto benissimo. Come banchiere…». Non ha convinto; e le suggestioni anziché ridimensionarsi sono ingigantite. Proviamo allora a raccontare Corrado, con la sua storia professionale, le amicizie, le arti diplomatiche unite ad una forte caratura etica che non gli impedisce di essere il banchiere più pagato d’Italia.

C

Corrado, venuto alla luce in una famiglia cattolicissima e benestante, in calzoni corti sognava di fare il medico condotto sulle orme del nonno a visitare gratuitamente i malati poveri. A fargli cambiare idea è il Sessantotto studentesco, vissuto in posizione controcorrente: se partecipa alle ansie di rinnovamento, non condivide l’atteggiamento dei di-

La sua formazione è americana (studi a Filadelfia) e la sua prima esperienza è in una multinazionale: la McKinsey italiana struttori, degli anti-tutto. In ripetute interviste, spiegherà di aver patito una cocente delusione alla Bocconi (laurea nel 1977), quando i professori accettarono l’aberrante logica del «27 politico». Essendo convinto che non esistano “buoni” o “cattivi” ma persone, indipendente-

mente dall’ideologia, “brave” o “meno brave”. Sconcertato dall’italica decadenza dei costumi meritocratici, va a Filadelfa, Usa, per un ciclo di studi. Al rientro, per un lustro, affina le sue doti alla McKinsey italiana, e a differenza di altri “giovani in carriera” (da Matteo Arpe a Gerardo Braggiotti a Maurizio Romiti), rifiuta l’invito di Enrico Cuccia ad entrare in Mediobanca.A trent’anni (1984) cede al corteggiamento del’ingegner Carlo De Benedetti. Direttore all Cir, alla Mondadori, vicepresidente del Credito Romagnolo, amministratore delegato della Olivetti, in una girandola d’incarichi. L’ingegnere lo stima, e pure Giovanni Bazoli è colpito dalla serietà e dall’impiego di questo giovanottone alto un metro e novanta, dinoccolato e decisionista. L’ingegnere ed il professore, da sempre in stretta amicizia, se lo scambiano. Prima esperienza all’Ambroveneto, con l’incarico di mettere in ordine i conti e sfoltire gli organici. Corrado verrà soprannominato “Il ripuliture”.

Il marchio, non proprio edificante, lo induce a mettersi in proprio: vuole organizzare una banca tecnologicamente d’avanguardia. Romano Prodi, col quale ha sempre intrattenuto rapporti intellettuali attraverso Il Mulino di Bologna, lo

convoca. È il febbraio 1998. Col premier, ci sono Carlo Azeglio Ciampi ministro del Tesoro e Antonio Maccanico ministro delle poste. Da “ripulire” ci sono appunto le Poste Italiane: organi pletorici, inefficienza cronica, deficit da capogiro. Il senso del dovere gl’impedisce di rifiutare, e nel volgere di un triennio rivolterà l’azienda come un guanto. Un Jolly di tale portata non può restare troppo tempo sulla stessa poltrona. Bazoli lo “richiama”, per la sistemazione del Gruppo Intesa dopo la megafusione fra Ambroveneto, Cariplo, Banca Commerciale. L’istituto sembra un coccodrillo ingozzato: conti poco brillanti, disaffezione della clientela, dipendenti in subbuglio. Ancora una volta Corrado realizza il miracolo, ritrovandosi “per merito” alla guida della nostra maggiore banca.

Dal 2002 in avanti, la posizione di Corrado Passera in BancaIntesa, anche dopo la fusione col San Paolo di Torino, continua a rafforzarsi. Da “ripuliture” o comprimario di altri amministratori delegati di passaggio, s’è trasformato in dominus. Laddove Giovanni Bazoli regna, Corrado passera governa. E politicamente? Le simpatie per il Partito Democratico non gl’impediscono di collaborare con Berlusconi, a mano a mano


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Il manager di Ca’ de Sass al meeting Ambrosetti fa suo il richiamo di Napolitano

E da Cernobbio chiede: «Nominate subito il ministro dello Sviluppo, è un pivot dell’economia» di Francesco Pacifico

ROMA. Per sviare le domande sulle sue velleità governative, Corrado Passera ha pensato bene di parlare della nomina del ministro dello Sviluppo: «Spero che arrivi presto», ha detto l’ad di IntesaSanpaolo, partecipando al workshop Ambrosetti. Quindi ha sottolineato che si deve dare una sterzata anche alla scelta del nuovo presidente della Consob. «Sono entrambi dei ruoli pivot per l’economia italiana».

che il “prodismo” mostra la corda. Mirabilmente gestendo con grande soddisfazione del Cavaliere (e un po’ meno di Bazoli che tuttavia lo lascia fare), il salvataggio e la privatizzazione di Alitalia. Banchiere o Gattopardo? Dando ascolto a chi lo conosce bene, Corrado ha tre grandi amori: la famiglia (la moglie Cecilia ed i figli), il lavoro, e uno zaino col-

Per il padre di Mediobanca, «prestarsi alla politica per un banchiere costituisce una diminutio suicida» mo di ambizioni specie dopo aver accumulato stipendi e bonus che gli consentirebbero di vivere senza problemi. Una discesa in politica è però ostacolata da altre considerazioni. Specifiche. Da “tecnico” potrebbe trovarsi in competizione con Giulio Tremonti (e fra i due, la stima è avvolta da una nebbia di sottile diffidenza), nonché col Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, che avrebbe dalla sua parte Storia & Tradizione.

Infatti. Di banchieri “privati” e “puri”, v’è scarsa e non fausta traccia. Semmai il contrario: il mitico Raffaele Mattioli, nel ’44, s’immaginò ministro di un governo di emergenza nazionale, ma presto tornò sui propri passi. Cuccia sosteneva che per un banchiere “prestarsi al-

la politica”costituisce una diminutio suicida. Lo dimostrò Giordano Dell’Amore della Cariplo, che si fece irretire da Fanfani. Controprova: lo stesso Giovanni Bazoli, ripetutamente sollecitato, ha declinato l’invito. Forse non immemore di una massima di Mattioli: «I politici passano, i banchieri proseguono…».Vero al contrario che la politica s’è mostrata assai generosa coi banchieri centrali: Luigi Einaudi, Carlo Azeglio Ciampi; e in misura minore ma sempre significativa con Guido Carli e Lamberto Dini, che però ballarono per poche stagioni. Dice un banchiere che si pretende suo amico: «Allo stato dell’arte, oggi per Corrado un intervento diretto in politica potrebbe essere un viaggio di sola andata…». Con quale clausola, poi? Nel centrosinistra, schieramento al quale è più vicino per pensiero, o nel centrodestra sfruttando i crediti maturati presso Berlusconi, o in una nuovissima entità ancora allo stato ectoplasmatico? Probabilmente è appunto una “Terza Via” quella che potrebbe esercitare un’attrazione decisiva su Corrado Passera. Un itinerario che, dopo le delusioni patite con Prodi e l’Ulivo, il Partito Democratico, troverebbe anche il consenso e il sostegno dei due “grandi elettori” di Passera: l’ingegner Carlo De Benedetti e Giovanni Bazoli. Ciò nonostante in un’epoca in cui tutto è in discussione, nulla è da escludere. Quale senso avrebbe infatti la dichiarazione di Passera scarna e senza fronzoli: «Una serie di rischi pesanti gravano sulla nostra democrazia, perché una democrazia che non produce crescita economica genera forte delusione, e questo, come insegna la storia, è pericoloso». La scommessa su Corrado Passera da banchiere a politico è dunque più che mai aperta ed attuale.

Il banchiere è intervenuto anche su un altro monito lanciato dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, quello sulla necessità di lanciare una politica industriale: «È un tema», dice Passera, di lungo termine. Un Paese cresce quando funzionano le imprese, il sistema paese, la giustizia, l’istruzione e quando ci sono coesione sociale e dinamismo». Non è mancato poi una stilettata alle parti sociali. Se non c’è collaborazione, «non si può chiedere al governo di spingere l’economia. L’importante è che imprenditori e sindacati, se si vuole stabilmente crescere nel lungo periodo, lavorino insieme». Nell’altra metà del cielo del mondo bancario italiano, in Unicredit, non se la passa meglio il l’omologo Alessandro Profumo. che ha di fronte a sé una sfida non meno politica: aumentare la presenza straniera nel contenitore che racchiude pezzi del made in Italy bancario come il Credito Italiano e il Banco di Roma, portare a termine una ristrutturazione che dovrebbe lasciare a casa non meno di 4mila persone (per la precisione 4.700 quelli annunciati). Quella che si apre lunedì sarà una settimana cruciale. Entro giovedì si riunirà il comitato strategico per esaminare la nuova struttura azionaria che, con la banca centrale libica e il recente sbarco del fondo di Tripoli Lya, vede nelle mani del colonnello Gheddafi il 7 per cento del capitale. Da piazza Cordusio si ricorda che si parla di due entità separate, fatto sta che si devono convincere i soci – tedeschi quanto le fondazioni italiane – che non ci saranno smottamenti e che l’operazione è soltanto finanziare. Un po’ quello che attende di capire anche la Consob. L’autorità lamenta la scarsa traspa-

renza in questo deal e vuole sapere se la scelta di Tripoli di far intervenire sia la sua banca centrale sia il suo fondo sovrano (rispettivamente con il 4,99 e il 2,01 per cento) sia un’escamotage per superare il congelamento dei voti oltre la soglia del 5 per cento. Ieri l’ad di Unicredit ha provato a staccare la spina dopo le polemiche sull’ingresso dei soci libici e il probabile sbarco del fondo sovrano di Singapore, partecipando alla giornata conclusiva di Unimanagemet, la scuola di formazione interna. Infatti ne ha approfittato per motivare la truppa (i 400 dirigenti che lavoreranno sotto la guida di Gabriele Piccini), non facendo alcun accenno ai futuri equilibri proprietari, ma ribadendo gli obiettivi e la struttura interna di una banca che dal primo novembre avrà fuso tutte le controllate interne. Ma ieri a Profumo deve aver fatto non poco piacere l’appoggio garantito da uno degli storici soci, la fondazione Banco di Sicilia. Perché le parole del presidente Giovanni Puglisi finiscono per attutire le critiche dirette e indirette arrivate da un altro signore delle fondazioni, Paolo Biasi ras di Cariverona. Al quale manda a dire: «Non credo che il rinnovo delle cariche della sua fondazione possa influenzare i destini di un grande gruppo».

Puglisi prima ha tranquillizzato sulle ipotesi di uno spostamento della sede legale di Unicredit: «Non mi risultano sia in agenda», ha detto. Quindi è entrato nel merito del contendere: «Penso che quella dei libici sia una tempesta in un bicchier d’acqua. I libici non hanno posto nessun problema, la loro cultura finanziaria è diversa da quella europea, loro investono per avere reddito e non potere, invece in Italia c’è la cultura del potere». Quindi ecco un duro monito ai partiti, Lega in testa, critici sulla crescita dei libici: «La politica stia un passo indietro e la finanza sia gestita da chi si occupa di finanza». Anche per il direttore generale dell’Abi, Giovanni Sabatini, la crescita dei soci libici rientra in «una normale dinamica di un mercato di capitali».lo di azionista».


economia

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Conti. Il numero uno di Bankitalia è ottimista «sia sul fronte dei consumi sia su quello degli investimenti»

«Serve un’Italia alla tedesca»

Competitività e rigore: ecco come nasce la ricetta di Draghi per la ripresa rima della caduta del Muro di Berlino, le analisi erano meno rigorose: da un lato il socialismo, dall’altro il capitalismo. Semplificazione comprensibile. Lo scontro, non solo politico, ma ideologico e culturale oscurava i dati di contorno. Finita quell’epoca, le riflessioni sono divenute più puntuali. La sconfitta del nemico non poteva più nascondere le profonde differenze tra realtà storiche e sociali diverse. Esse erano, in qualche modo percepite anche prima. Si sapeva, ad esempio, che l’esperienza americana era profondamente diversa da quella europea, ma tutto finiva lì. La necessità di una maggiore distinzione si è affermata solo dopo, quanto il confronto competitivo tra i vincitori è divenuto sempre più forte. Ed è allora che gli economisti hanno cominciato a studiare non solo le varianti politiche culturali dei singoli sistemi economici, ma le loro diversità strutturali. Sono quindi nati i primi “modelli”e con essi le più penetranti comparazioni.

P

Il modello anglo-sassone è stato il più facile da individuare, se non altro a causa del fatto che l’economia americana, per il ruolo svolto a livello internazionale, era quello più studiato. Ad esso è stato dapprima contrapposto quello europeo, per poi distinguere anche all’interno del vecchio continente. Sono nate così le le successive classificazioni: modello solcialdemocratico – tipi-

di Gianfranco Polillo

uno spazio residuale. La conversione inglese, sotto il pugno di ferro della Thatcher, aveva trasformato quell’esperienza in un vero e proprio cult. Nessuno vedeva le profonde rughe che si nascondevano sotto un accurato maquillage. La crescita del debito, ad esempio. Debito pubblico e debito privato che consentiva al sistema di crescere ben oltre il suo potenziale produttivo, confidando sulla disponibilità di altri – la Cina in testa – a finanziarne gli eccessi. Poi la crisi finanziaria, con il falli-

La prospettiva indicata dal governatore impone una sola, fondamentale condizione: che le banche ricomincino a sostenere le aziende co del Nord Europa a partire dalla Svezia – modello renano – per semplificare la realtà tedesca – modello colbertista, per quella francese. E la realtà italiana? Un ibrido a metà strada tra l’esperienza francese e quella tedesca. Quali le differenze? A livello continentale l’attenzione si era concentrata, per molti anni, sull’economia americana: più volte osannata e considerata una sorta di benchmark, sulla base del quale misurare le inefficienza del Vecchio continente. Si inneggiava alla presenza esorbitante del mercato. Al completo predominio di una struttura privata che lasciava allo Stato solo

mento della Lehman Brothers, ha dimostrato che non era oro tutto quello che luccicava.

È stata la grande crisi a spostare il pendolo a favore dell’Europa. Negli anni passati il suo sviluppo complessivo era stato notevolmente più contenuto. In compenso, tuttavia, la sua struttura produttiva si era meno indebolita. L’industria manifatturiera, che gli USA avevano penalizzato a favore dell’attività finanziaria – la stessa cosa era avvenuta in Inghilterra – rappresentava una base solida di resistenza, Le banche – salvo qualche eccesso – erano più legate al territo-

Obama commenta i dati sul lavoro

«Usa fuori dalla crisi» WASHINGTON. L’economia statunitense ha perso altri 54mila posti di lavoro nel mese di agosto. Il dato, reso noto dal dipartimento del Lavoro, è decisamente migliore delle attese degli analisti, che prevedevano un calo di 110mila posti. Tanto che Barack Obama ha commentato: «Stiamo andando decisamente verso giorni migliori». Nel mese, il tasso di disoccupazione è salito al 9,6% dal 9,5% di luglio, in linea con le previsioni. Al tempo stesso, poi, è stato rivisto il dato di luglio: sono andati persi 54mila posti contro i 131mila stimati inizialmente. Nel dettaglio, il settore privato ha creato 67mila nuovi posti di lavoro dopo i 107mila di luglio. Le imprese manifatturiere ne hanno persi 27mila (+34mila in luglio), mentre le aziende di servizi personali e alle imprese ne hanno creati 20mila. In rialzo anche l’occupazione nel settore delle

costruzioni, che visto crescere di 19mila unità i posti di lavoro. Quanto ai dipendenti pubblici, in agosto sono diminuiti di 121mila unità. In agosto il 42% dei disoccupati americani aveva perso il lavoro da più di sei mesi, percentuale in calo dal 45% di luglio. Nel mese la retribuzione media oraria è calata di 6 centesimi a 22,66 dollari, mentre la settimana lavorativa media è rimasta invariata a 34,2 ore. La Casa Bianca, come si diceva, ha accolto i dati con entusiamo: «Il rapporto sull’occupazione in agosto è un segno che la ripresa continua ma anche che dobbiamo creare più posti di lavoro per far aumentare le cifre» ha detto Christina Romer, capo dei consiglieri economici di Obama. E ha aggiunto: «Il governo sta prendendo in considerazione nuove misure per sostenere la ripresa e incoraggiare le assunzioni».

rio e quindi meno esposte alle lusinghe ed ai rischi dell’azzardo morale. Il welfare, costruito in un ottica inclusiva del mondo del lavoro, rappresentava quel grande ammortizzatore sociale che tutti conosciamo. La crisi, in altri termini, ha fatto emergere la forza di lungo periodo dell’economia sociale di mercato. Ma non attenuato le differenze tra le diverse esperienze europee. Il modello socialdemocratico è ancora caratterizzato da un’elevata pressione fiscale – la più alta in Europa – che non ha tuttavia scoraggiato né l’investimento privato, né la crescita della produttività. Merito soprattutto del comportamento sindacale – la bestia nera dei massimalisti italiani – rispettosi del vecchio detto secondo il quale il vitello capitalista non va ucciso, ma tosato. La Francia è molto vicina a quel modello, ma con una differenza sostanziale: il primato dello Stato. Esso stesso elemento propulsore dello sviluppo economico, grazie alla sua grande efficienza amministrativa che risale, appunto, ai tempi di Colbert. In Germania, invece, la mano pubblica è stata meno invasiva. La ripartizione delle competenze più delineata. Il compito di spingere in avanti la produzione è stato soprattutto delle banche e della loro politica finaziaria a favore delle imprese. Il sindacato ha accettato, con determinazione questo schema, partecipando, seppure in forme indirette, alla cogestione delle imprese. A differenza dell’Italia, dove il Parlamento ha sempre avuto un ruolo centrale legittimando un controllo politico invasivo, erano le forze sociali i principali attori, mentre la politica interveniva solo nel ruolo di mediazione e di sollecitazione.

Oggi Mario Draghi ci ricorda che quello può essere un modello valido anche per l’Italia. Oggi: nel momento in cui il vecchio apparato pubblico – dall’Iri, all’Eni, per non parlare delle grandi banche o dell’Efim – è stato smantellato o privatizzato, esiste un vuoto da colmare. Opzione possibile, ma che richiede alcune condizioni. Che le banche tornino a finanziare le aziende, dopo una più attenta ricognizione del rischio, che i sindacati – abbandonati gli schemi della “lotta di classe”- si comportino con un maggior senso di responsabilità.


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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

È tempo di filosofia prêt à porter

TUTTI PAZZI PER SOFIA

di Pier Mario Fasanotti on una buona dose di banalità e approssimazione si potrebbe dire autorevole modello interpretativo della realtà. I titolari più colti di rubriche, che oggi siamo «tutti pazzi per Sofia». La donna in questione o addirittura di poste del cuore, fanno talvolta ricorso (magari con un I classici non è una donna, non la corteggiamo per le sue gambe o non detto saccheggio: capita) ai filosofi. In genere antichi, che oggi per i suoi occhi, ma per la sua capacità di seduzione inappaiono come i più limpidi e più duraturi. Non è proprio cavanno per la tellettuale. Fuor di metafora Sofia è la sofia (in greco, sagsuale, anzi, il fatto che le ultime invenzioni tecnologiche maggiore ma anche i manuali inglobino la filosofia come faro per illuminare il reagezza) che compone la parola filo-sofia (amore per che aiutano a interpretare la realtà. le. S’intitola AskPhil («Chiedi al filosofo») un’apla saggezza). Anche nei romanzi di quest’ultimo decennio i grandi del pensiero diventano plicazione scaricabile sui cellulari e su iPad. Intanto “AskPhil” si può scaricare su cellulari personaggi. Troneggia Schopenhauer, si conSi formulano domande e si ricevono risposte. e iPad, mentre il “New York Times” tendono la pole position Seneca, Platone (anche il Secoli di pensiero profondo a portata di pollice. genere poliziesco si è appropriato dell’Accademia ateha aperto un forum via web. Ecco Un docente americano spiega questo fenomeno: «Da un lato tutti si confrontano con problemi filosofici durante niese), Spinoza, Nietzsche (da prendere cum grano salis), come cresce la voglia la propria vita. Dall’altro pochi hanno l’opportunità di conosceCartesio, Agostino. Davvero in ribasso è Marx. Non solo gli amedi “agorà” re la filosofia, solitamente insegnata soltanto nei college». Il New York ricani, espertissimi in pillole editoriali, ma anche gli europei sfornano manuali o trattati in forma di conversazione sulla filosofia intesa come Times ha aperto un forum sul pensiero via web.

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Parola chiave Genio di Sergio Valzania Il risveglio black di Sheryl Crow di Stefano Bianchi

NELLA PAGINA DI POESIA

E l’anima di Napoli incontrò Salvatore Di Giacomo di Francesco Napoli

Il memoriale inedito su Edda e i diari di Mauro Canali Questioni di bioetica diffusa di Gabriella Mecucci

La drammaturgia del tempo pittorico di Marco Vallora


tutti pazzi per

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Le domande poste sono all’incirca tremila. Non sono poche. In testa i quesiti sulla filosofia pura e sulla conoscenza, seguono le tematiche sul linguaggio e la matematica. Contrariamente alle aspettative, pochi digitano domande sulla razza, sul femminismo, sul sesso. Il filosofo Pier Aldo Rovatti non si dice contrario a questa nuova metodologia del dialogare, anche se è un po’ scettico per via dell’assenza del contatto diretto tra interlocutori, insomma del rapporto empatico. E avverte: «Attenzione però, la filosofia non è una cura». Certo, è un metodo di pensiero. Tanto più necessario in un’epoca di velocità nevrotica e di superficialità, in tempi in cui le tanto consigliate pause di riflessioni sono assai ridotte e gli spazi, o le occasioni, di scambiarsi opinioni sono sottili o addirittura inesistenti.

In questi ultimissimi anni, infine, s’è rotto definitivamente un tabù, ossia quello secondo cui la filosofia ha sede nell’empireo, affascinante sì ma nella sua astrattezza, lontana dal variegato mondo reale quotidiano. Ed ecco che i «gestori» del pensiero filosofico, sulla scia dell’invito lanciato anni fa da Umberto Eco, cominciano a spiegare un serial poliziesco, un programma cult come Lost o i testi della musica rock applicando criteri filosofici. Nasce quindi quella che

viene chiamata «filosofia pop». Addirittura si scrivono libri che chiariscono significati più o meno profondi, o allegorici, sul mondo di Harry Potter.Viene da ridere ripensando a quanto lo scrittore americano Don DeLillo diceva: «La sola cosa che i filosofi leggono sono le scritte sulle scatole dei cereali a colazione». Ovviamente i rischi e le scivolate sono frequenti, come quando ci si imbatte su ragionamenti in apparenza sofisticati e contorti attorno a temi francamente e spaventosamente banali. Ma, a parte l’ondata di libri che si rifanno a Platone o a Schopenhauer, occorre registrare il numero crescente di persone che affollano convegni e dibattiti di sapore e di impronta filosofici. Il «Festival della filosofia» di Modena conta ormai centinaia di migliaia di spettatori. Il «Festival della mente» di Sarzana non è da meno. Se una volta erano in tanti a sedersi sugli scranni dell’Università della terza età, a rispolverare il sapere o a scoprirlo per la prima volta, oggi c’è un efficace passaparola, una segnaletica che convoglia migliaia di persone verso le nuove agorà. Ovviamente la televisione, almeno quella italiana, si tiene alla larga dal sentire quotidiano, preferendo il solito «lato B», veline, gossip e scemenziari a forma di show. Non solo Dante, grazie a Roberto Benigni o a Vittorio Sermonti, è diventato passione (quasi) popolare. Se qualche intellettuale dall’eloquio serio e accattivante spiega il mondo moderno anno III - numero 31 - pagina II

Nella pagina precedente, in copertina, “La scuola di Atene” di Raffaello. In questa pagina, alcuni ritratti celebri: a sinistra, Agostino d’Ippona; sotto, Seneca (nel famoso dipinto della sua morte di David), Schopenhauer e Platone. In basso, le copertine di “Parole in gioco” di Ermanno Bencivenga e “Vivere con filosofia” di Luc Ferry con il microscopio ereditato dall’antica Grecia, c’è da scommettere nel «pienone» di pubblico. Molti cominciano a convincersi che la filosofia, se offerta con sapienza (scusate il gioco di parole), non è affatto noiosa. La Mondadori ha appena mandato in libreria un libricino interessante e spiritoso. L’autore è Ermanno Bencivenga, ordinario di filosofia all’università di California. Titolo: Parole in gioco. Sottotitolo: Il linguaggio stralunato della filosofia. Premessa non dichiarata ma ovvia: il pensiero è, e quindi naturalmente diventa, logos (parola). E il logos può essere estremamente divertente. Scrive Benvinvenga nella prefazione: «La filosofia è un gioco. Ci mette in gioco, si prende gioco di noi, ci invita a giocare d’azzardo, a giocare col fuoco, a giocare al massacro… disegna scenari fantastici, contesta l’ovvio, schernisce l’autorità: tutto quello insomma che sapevamo fare benissimo a tre anni, quando giocavamo sul serio, quando niente era sul serio; prima dei cellulari, delle playstation, degli zainetti firmati. Il gioco non si ferma davanti a nessuna barriera, a nessun recinto sacro; invade e contamina, mescola e turba, profferisce profonde profanità, a profusione». E ancora: «Si può cercare la saggezza in occasioni quotidiane, in parole umili e costantemente ab-usate, usate senza rispetto, senza attenzione. Anche una vita qualsiasi può essere affascinante; non solo il re è nudo, ma anche il bottegaio di fronte. Anche lui, anche tutti noi, abbiamo bisogno di riscatto, di invenzione, di rimescolare il vecchio, consunto e bisunto mazzo di carte».

Se la filosofia è di moda, ci si deve chiedere quali altri terreni del pensiero sono stati devastati o considerati delle quasi-discariche o comunque, evitando manichee esagerazioni, piazze non più frequentabili. Mi riferisco soprattutto alla sociologia, da anni considerata alla stregua di un ferro vecchio, anzi diventata sinonimo di imperfetta ovvietà o di confusione sorretta da statistiche discutibili. Ma anche alla psicoanalisi, superba lente di lettura dell’anima ma contenente il

sofia

vizio di contorcersi in se stessa, di tramutarsi in una serie di ripetitivi schemi e schemini, anzi gabbie interpretative, col risultato che, agli occhi dei terapeuti, sei dalla parte del torto se esci dal «suo» giardinetto e ti azzardi a contestare facili e ripetitivi, nonché talvolta ridicoli, automatismi. Il rischio, molto forte, è che ciò che con Freud è nato all’insegna della flessibilità diventi recinto dogmatico. E prevedibile come ogni dogma. A tal punto che la psicoanalisi spesso è spunto per barzellette o per numeri di cabaret.

Tra i non pochi libri che compaiono sugli scaffali, ritengo utile segnalare la ripubblicazione (Garzanti editore) del testo di Luc Ferry (Vivere con filosofia). L’autore, docente universitario ed ex ministro dell’Educazione (in Francia si ha ancora il coraggio civile di chiamare al governo chi è competente), da del tu al lettore per evitare quella detestabile cosa che si chiama deferenza (di chi legge) o spocchia (di chi scrive). Come recita il sottotitolo, il libro è un Trattato di filosofia a uso delle nuove generazioni. Fa l’occhiolino allo stoico greco Epitteto e a Montaigne, secondo i quali la filosofia serve o per «imparare a morire» o, comunque, per sottrarsi al panico della dissoluzione dei corpi. I pensatori greci, ci ricorda Ferry, ci mettevano in guardia sui due mali che gravano sulla vita dell’uomo: il passato e il futuro. Il famoso carpe diem altro non è se non la ri-

valutazione dell’attimo presente. Laqualcosa non è in scandalosa contraddizione con l’insegnamento di Cristo allorquando fa risorgere Lazzaro, dimostrando che l’amore è più forte della morte. La vita come passaggio, come apparenza: salvo che c’è il dovere di essere onesti e altruisti qui sulla Terra, e non beatamente (o beotamente) indifferenti come certi maestri «illuminati» dell’estremo Oriente (spesso coinvolti in traffici illeciti e comunque facilmente accusabili di plagio: ad alcuni di loro si dovrebbe rammentare che molti di noi conoscono le frasi di Gesù e di Seneca). La filosofia, scrive Luc Ferry, «ci induce a cavarcela con le nostre sole forze, se mai riusciamo a servircene nel modo giusto, con audacia e fermezza». E si pone immediatamente un quesito, attorno al quale ruota spesso il libro del filosofo francese: la filosofia è ricerca di salvezza senza Dio? Senza dubbio sono privilegiati i credenti inquantoché conoscono la via della salvezza. Ma non è così automatico pensare che il fine ragionare non serva al cristiano o all’islamico. Tutt’altro. La filosofia, tiene a precisare Ferry, è un modo per «ampliare il pensiero». E se anche le varie scuole filosofiche per secoli si sono combattute senza mai riuscire ad accordarsi sulla verità, è pur vero, anzi verissimo, che il pensiero filosofico spinge alla flessibilità, alla tolleranza, alla messa in discussione. In tempi di sfrenato conformismo non è poco.


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parola chiave

artedì 3 agosto Elvira Sellerio ci ha lasciato. Due giorni dopo, durante la funzione di commiato nella chiesa di Sant’Espedito, Nino Buttitta definiva la casa editrice da lei creata a Palermo, una delle città più difficili d’Italia, un miracolo. La parola miracolo attribuita all’attività di una donna non particolarmente prossima alla fede da parte di un uomo dalle profonde radici laiche mi ha fatto riflettere sul rapporto misterioso intercorrente fra genio e santità, doni misteriosi di Dio e caratteri che pochissimi possiedono. Che Elvira Sellerio sia stata una donna di genio non ci possono essere dubbi. Il modo nel quale affrontava le questioni della cultura e dell’industria editoriale trascendeva l’intelligenza. Non affidava le sue decisioni e le sue scelte a una riflessione elaborata al termine della quale veniva raggiunta una decisione sofferta. La sua comprensione dei problemi era immediata, le sue soluzioni improvvise come lampi, accompagnate da una sicurezza assoluta sulla necessità di realizzarle, sia che si trattasse di un titolo, di un’immagine con la quale illustrare un volume della collana La memoria, sia fosse in gioco una modifica della sua residenza estiva a Marina di Ragusa. Il suo comportamento intellettuale si potrebbe definire napoleonico, e questo riporta all’intuizione manzoniana del 5 Maggio, per la quale il tratto del genio si definisce come una più profonda impronta divina impressa nell’animo di un singolo essere umano. In una maggior capacità di compiere miracoli, quindi. E la creazione dal nulla di una casa editrice in grado di lanciare un numero impressionante di scrittori italiani e stranieri in un mercato dei libri che non si espande da quasi un secolo ricorda quella di far sgorgare acqua da una roccia percuotendola con un bastone.

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Elvira Sellerio non era solo un imprenditore culturale capace di riconoscere a colpo d’occhio i pregi di un testo e le sue debolezze, di consigliare lo spostamento di un capitolo in testa a un romanzo o la cassazione di brani meno felici o troppo ostici per i lettori. Oltre all’istinto per la scrittura aveva il carattere del capo. Era decisa fino alla prepotenza, di un’insofferenza impaziente verso i collaboratori che non riuscivano a riconoscere quello che lei aveva visto con chiarezza e indicato loro con precisione e perciò non agivano di conseguenza. Insieme a questo era dotata anche di una bontà geniale, e viene da pensare che non si trattasse di una parte accessoria dei pregi necessari lungo la strada verso il successo. Elvira Sellerio non era generosa in una sola direzione, la sua bontà non consisteva unicamente nella prontezza a donare nei confronti delle persone care o di quanti pensava ne avessero bisogno. La sua virtù era più

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GENIO È un’impronta divina impressa nell’animo di un essere umano. Una dote che trascende l’intelligenza e che rende capaci di compiere miracoli. Come nel caso di Elvira Sellerio scomparsa un mese fa...

Un lampo all'improvviso di Sergio Valzania

Come scrive il Siracide in un passo del testo biblico “Elogio dello scriba”: «Molti loderanno la sua intelligenza, essa non sarà mai dimenticata... I popoli parleranno della sua sapienza... Se vivrà a lungo, lascerà, più che mille, un nome, e se muore, quanto ha fatto è sufficiente» raffinata e agiva anche nella direzione opposta. Lei era generosa nel chiedere. A Bufalino il romanzo chiuso nel cassetto, a Camilleri di osare in grande, di far valere appieno la sua capacità di scrittura. Riconosciuto un talento, una propensione, una vocazione si ingegnava nello stimolarne la crescita, nell’offrire loro occasioni di sviluppo, nell’indirizzarli verso i risultati migliori. Questa è la dote più grande di un vero editore,

per molti aspetti simile a un agricoltore o un giardiniere che sa scegliere per ogni pianta il giusto terreno, la miglior esposizione e poi ne accompagna la crescita concimando le radici, eliminando erbacce e parassiti, ma anche potando, gesto d’amore estremo e misterioso. Una bontà aperta a ricevere, la vera bontà, ché chi dà solamente esercita una sottile forma di violenza. A Elvira Sellerio piaceva fare regali e riceverne, lo

scambio era parte della sua natura, come l’ospitalità e la curiosità, altro ambito prossimo all’amicizia e all’amore. Primo gradino di ogni affetto, la curiosità è l’interesse per il mondo e per quanti lo abitano e lei spaziava in tutti gli ambiti, non esclusa la vita privata, che non pensava si potesse disgiungere dall’opera di nessun uomo. L’ho sentita sostenere che pensarlo costituiva una debolezza degli strutturalisti. La seconda parte del discorso, bello chiaro, luminoso e conciso, di Nino Buttitta presentava un aspetto segreto della curiosità di Elvira Sellerio. In una conversazione lontana nel tempo lei aveva detto all’amico che al suo funerale le sarebbe piaciuto che venisse letta la prima parte del capitolo 39 del Siracide. Buttitta aveva tenuto per sé questo ricordo, le letture della messa sono state altre: il dialogo fra Dio e Abramo della Genesi, nel quale il patriarca contratta il numero di giusti necessario per salvare le città di Sodoma e Gomorra, poi il Salmo 88 e infine l’inizio del vangelo di Giovanni, dove si lamenta l’incapacità degli uomini nel riconoscere la venuta del Cristo nel mondo. La lettura che Elvira Sellerio aveva desiderato è arrivata dunque ultima e imprevista, con l’effetto di ricevere una sottolineatura più decisa, di imprimersi in modo più forte nella memoria dei presenti.

Il passo biblico viene intitolato Elogio dello scriba e si annida in un libro appartato dei testi sacri, che ha vissuto una storia travagliata ed è arrivato a noi solo nella traduzione greca e poi latina. Il testo ebraico è perduto. Buttitta non ha detto se Elvira Sellerio gli ha raccontato come è avvenuto il suo incontro con il testo, né se e quando ci ha meditato sopra. La preghiera è un’esperienza del tutto personale, come la chiamata di Dio, che insegue con determinazione ciascun uomo e ciascuna donna facendosi stringente in momenti imprevedibili. Nel silenzio della chiesa tutti i presenti hanno però colto senza esitazioni il fatto che le parole ispirate di un ebreo del terzo secolo avanti Cristo, giunte a noi attraverso le vie misteriose di una fede sempre incerta e faticosa, erano le più adatte per ricordare una donna straordinaria come Elvira Sellerio. Dello scriba, dell’editore, il Siracide scrive che: «Ricerca la sapienza di tutti gli antichi e si occupa delle profezie. Conserva i detti degli uomini famosi e penetra la complessità delle parabole. Cerca il senso nascosto dei proverbi ed è perspicace negli enigmi delle parabole». La conclusione del passo è esemplare per ricordare Elvira Sellerio: «Molti loderanno la sua intelligenza, essa non sarà mai dimenticata; la sua memoria non sarà perduta e il suo nome vivrà per tutte le generazioni. I popoli parleranno della sua sapienza e l’assemblea canterà la sua lode. Se vivrà a lungo, lascerà, più che mille, un nome, e se muore, quanto ha fatto è sufficiente».


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Pop

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ra con Detroit, Sheryl Crow ha ritrovato (artisticamente) se stessa, i primi amori musicali, i ripetuti ascolti dei 45 giri marchiati Stax e Motown. «La strada che conduce a Memphis - ha dichiarato - è immersa nelle fattorie. Chi vive là, oltre ad avere un senso profondo della comunità, è timorato di Dio e saldamente radicato alla propria terra. La musica che quello spicchio d’America ci ha saputo regalare, è l’ispirazione più grande per ciò che faccio e ciò che sono». Via libera, allora, a questo devoto omaggio alla black music prodotto dal chitarrista Doyle Bramhall II e da Justin Stanley che la vede sgattaiolare fra uno scoppiettante rhythm & blues (Our Love Is Fading) con fiati e coretti ad hoc che fanno molto Supremes, un altro errebì che derapa nel funky (Say What You Want) e un altro ancora che amoreggia col folk (Long Road Home). E caspita se ci sa fare, Sheryl, quando cattura insieme alla chitarra elettrica di Keith Richards il reggae di Eye To Eye; quando con Justin Timberlake rivisita Sign Your Name di Terence Trent D’Arby giostrandolo in soul alla maniera di Al Green; quando assapo-

di Stefano Bianchi on poteva pensarci prima? In fin dei conti, all’ex bimba prodigio figlia di Wendell (trombettista jazz) e Bernice (cantante e pianista) sarebbe bastato indietreggiare con la memoria a quando, negli anni Ottanta, si esibiva nei locali notturni del Missouri con una formazione rhythm & blues. Già, perché Sheryl Crow, dentro, è sempre stata black. E la «negritudine», prima o poi, salta fuori. Ma ribadisco: non poteva pensarci prima, anziché combinare guai? Mi spiego meglio. Disco dopo disco, la testarda Sheryl ha continuato a cincischiare su un countryrock sempre più anemico nella pia illusione di replicare il successo di Tuesday Night Music Club, l’album che nel 1993 superò i quattro milioni di copie vendute facendole vincere tre Grammy Awards. Gran bel disco, architettato su hit a presa rapida come Run Baby Run, All I Wanna Do e Leaving Las Vegas; frutto succoso d’informali session notturne che a Los Angeles la videro fare gruppo con fior di professionisti quali Bill Bottrell, David Baerwald e Kevin Gilbert. Disco, ovviamente, irripetibile: tant’è che i successivi (Sheryl Crow, ’96; The Globe Sessions, ’98; C’mon C’mon, 2002; Wildflower, 2005 e Detours, 2008) hanno prodotto la miseria di una sola canzone coi fiocchi (If It Makes You Happy, da Sheryl Crow) più Mississippi, il brano inedito che Bob Dylan ha gentilmente offerto alla cantautrice per dar più sapore a The Globe Sessions. Tutto il

N

Jazz

musica

Il risveglio black di Sheryl Crow resto, ha girovagato in una specie di on the road musicale poco plausibile; in un viaggio, sempre più pop, nell’America delle highway. E allora? Svegliati!, dev’essersi detta Sheryl rendendosi conto che repetita non iuvant. Così, ha ristretto il raggio d’azione concentrandolo da Kennett (dov’è nata) a Memphis e ha inciso 100 Miles From Memphis. A cento miglia da Memphis, capitale della musica ne-

ra il funk notturno (stile Temptations) di Roses And Moonlight, il soul sincopato e le increspature gospel di Stop, le incantevoli orchestrazioni di Summer Day. E in fondo al cd, nel ricordo di quando dall’87 all’89 fece la corista per Michael Jackson nel Bad World Tour, c’è l’impeccabile rilettura di I Want You Back dei Jackson 5 accompagnata da una dedica: for Michael with Love. Di black in black, meglio tardi che mai, Sheryl Crow ha pescato il suo disco migliore. Dopo Tuesday Night Music Club, ovviamente. Sheryl Crow, 100 Miles From Memphis, A&M/Universal, 19,50 euro

zapping

FUNKY+RHYTHM’N’BLUES da diversi punti di vista di Bruno Giurato

inisce che uno va a lavorare nei posti in cui la gente va a divertirsi, addirittura in posti vippeschi. Essì: isola esclusiva, albergo che al dopocena, Malvasia fredda in mano e canto della luna su porto e barche, fa pensare: «soffrì pe’ soffrì mejo soffrì così». Vicina di stanza bellissima, vip e cantante in voga, insieme a fidanzato bruttarello e suonante. Lei racconta della sua tournée, di come fanno un rhythm’n’blues funky bello tosto, e chi scrive rimane ammirato. Poi Lei precisa che usano delle basi di archi in quasi tutti i pezzi. Chi scrive inorridisce. Con la solita diplomazia si dichiara contrario al playback anche parziale, alle basi preregistrate che inchiodano i musicisti alle partiture. Lei non capisce, è già bellissima e famosa, a che le servirebbe capire, anche? Lui sì. E infatti risponde con un sorriso acido di venirli a sentire dal vivo, ci si accorgerà del fatto che del playback non ci si accorge. Sembra il cameriere che ti vuole ammannire il risotto della casa con arancia, coniglio, pescespada e fave di cacao. Vabbè. Tornati sulla terraferma veniamo a sapere, a proposito di rhythm’n’blues e funky, che Sly Stone e George Clinton, cioè i due mammasantissima del genere, stanno facendo un disco assieme. Uscirà a Natale. Come sarà? Sarà tosto, funky, nero, perfetto diremo a naso. Sarà urban, farà sembrare esteticamente ineccepibile la puzza delle marmitte dei Suv, le sirene della polizia, gli sguardi folli dei guidatori all’ora di punta. E quando ci saranno i concerti dal vivo - dovessero capitare i due da queste parti - ci fionderemo. Non useranno archi preregistrati e altre forme di playbackismo, loro. Ci scommettiamo un soggiorno al Quartara, a Panarea.

F

Shorter & Co., consigli (d’autore) per l’ascolto cco un libro di recentissima pubblicazione che tutti, soprattutto i critici e molti musicisti dovrebbero leggere. L’autore Ben Ratliff è il critico musicale del New York Times, ma è anche autore di una importante biografia di John Coltrane, The story of the Sound. Ratliff nel 2008 ha preso una decisione che prima di lui ben pochi si erano azzardati ad affrontare: chiedere a una quindicina di grandi solisti del jazz attuale, come «si ascolta il jazz». O forse meglio ascoltare il jazz assieme ai musicisti. Le conversazioni che ha avuto con Wayne Shorter, Sonny Rollins, Ornette Coleman, Paul Motian, Bob Brookmeyer, Frank Lowe sono illuminanti e dimostrano quanto siano state spesso imprudenti certe analisi critiche sull’opera di molti musicisti compresi quelli intervistati dallo scrittore americano. Frank Lowe ad esempio. Ecco come Ratliff descrive questo sassofonista, una delle icone del free jazz anni

E

di Adriano Mazzoletti Sessanta: «Tra la fine degli anni Sessanta e i Settanta era cresciuta una generazione di jazzisti coriacei, gente in grado di affrontare il più rigido inverno mai conosciuto da una musica rimasta senza pubblico. Di conseguenza Lowe era sopravvissuto per vent’anni in una piccola e bizzarra economia parallela. La sua musica era lontana dal mainstream jazzistico». Quando Ratliff lo incontrò, Lowe cominciava a sentirsi attratto dall’autorevolezza e dal fascino di musicisti più anziani: Lester Young, Coleman

Hawkins, Lucky Thompson: «Percepii subito due cose - racconta Ratcliff - che sapeva bene che genere di sassofonista avrebbe voluto essere e che probabilmente era già troppo tardi perché potesse riuscirci». Wayne Shorter asserisce: «Quando ascolto la musica non considero mai gli aspetti tecnici. Mi interessa capire se quel determinato suono sta bene con un altro». Alla domanda se gli capita di sentire una musica e di vedersi rispecchiato in essa, Shorter risponde: «Oh sicuro. Mi piace mettere un disco, un disco

di qualsiasi genere, poi tiro fuori il clarinetto e ci suono sopra. Una delle cose che mi piacciono di Charlie Parker è quella canzone, South of the Border Down Mexico Way. Quella sì che è una bella canzone: è uno dei grandi successi di Gene Autry. Niente di complicato, ma a me è sempre piaciuta». Paul Motian il personaggio centrale nell’evoluzione della batteria moderna, dichiara che fra i suoi batteristi preferiti, quelli che ascolta sempre con grande attenzione, sono Baby Dodds e Big Sid Catlett. A proposito di Dodds che fu il più grande batterista di New Orleans negli anni Venti, Motian dice ancora: «A quei tempi i batteristi non pestavano sui piatti come quelli di oggi. È delicato. È un piatto, mica un martello pneumatico». Una lettura importante e illuminante quella di questo libro, per tutti, musicisti e non. Ben Ratliff, Come si ascolta il jazz, Minimum Fax, 242 pagine, 16,00 euro


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arti Mostre

difficile non notare, sempre di più, in particolare nel cosiddetto mondo degli addetti ai lavori, un atteggiamento diminutivo e sufficiente nei confronti dei pochi grandi artisti che ci sono rimasti, in questo pelago sconfortante d’inutili replicanti. Anche l’integerrimo, e mai ripetitivo, nonostante le apparenze, Bill Viola è entrato ormai in questo clima-cono d’ombra di snobistica sufficienza critica (che poi è esattamente l’altra medaglia, imperdonabile, di quell’accettismo smidollato, che tutto tollera, incondizionatamente, come se i distinguo non avessero più ragion di esistere). Così Bill Viola diventa insulsamente «carino» (parola orrenda, intollerabile, comunque), gradevole, risaputo, «sì, va bene, però, basta... sempre quell’acqua, quel fuoco, quel meccanismo ripetitivo...». Che non è certo così vero, va da sé. Ma si usi dunque quest’originale e meritoria occasione pesarese, per tornare a meditare sul suo cammino, se non accidentato, per lo meno meditato, sempre. E si renda merito alle sempre stimolanti proposte pesaresi di Franca Mancini, che legandosi in modo anche capriccioso al genius loci che è Rossini, in quest’occasione si rivolge a Viola con un’iniziativa quanto mai interessante e nuova, che per la prima volta ci permette di scavare nel Bill Viola esordiente, nel Viola «principiante» e tentativo, prima dei risultati, oggi ritenuti patinati e scontati, del Viola che tutti conosciamo: quello paradigmatico del traversamento simbolico e quasi demonico, attraverso le prove iniziatiche di quelli che sono ancora gli elementi primordiali, fuoco, aria, acqua. Lo spiega bene il semiologo Paolo Fabbri, che ha collaborato al formarsi d’un catalogo, ancora in fieri, riflettendo sul rapporto emblematico tra la tela superata, oltrepassata e il nuovo spazio-video, quale rinnovata pala d’altare: «Lo stesso Viola, in più di un’occasione, ha insistito sul fatto che le sue costruzioni sono af-

È

Archeologia

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Drammaturgia

del tempo pittorico di Marco Vallora freschi mobili, ipotesi legata a una sua prima riflessione sulla problematica del medium espressivo. Trattandosi di una quinta liturgica e insieme scenica non è errato affermare che l’opera ha una sua drammaturgia, un modo di restituire profondità sacramentale e teatrale a tecnologie che sembrano averla definitivamente perduta. Si riscontra una dimensione “traumaturgica” e taumaturgica, che va evidenziata e che riguarda, come sostiene Viola (1995) tanto la sfera visiva quanto quella musicale». Musicale, anche, degli occhi, s’intende con questo il necessario attraversamento della durata ottica, del guardare au ralenti, in un mondo sempre più affrettato e distrattamente orbo. Un trauma cer-

cato, dunque, che può anche diventare medicamento, sutura, cerniera tra le diverse arti, come indagine delle radici dell’esprimersi. E ovviamente, arrampicandosi con sapienza sugli specchi viscidi del salotto parigino rossiniano (con al centro il grande Mito ammaccato e riverito, che non riesce più a creare e che rinunzia all’enfasi dello spiegamento lirico dell’opera, che non è più in grado di rinnovare, odiando la modernità, e dunque si limita causticamente a triccottare domestici «peccati di vecchiaia» avvelenati d’accidia e spirito), il nume tutelare del Rossini Festival, Bruno Cagli, intravvede una capricciosa parentela tra queste bribes, queste briciole pianistiche, questi petits-fours sonori e da salotto, che rompono la fidu-

cia a gola aperta dell’aria virtuosistica, con gli esperimenti di Viola, che supera la tela tradizionale e crea una nuova sorta di drammaturgia del tempo pittorico. Ma appunto, che cosa sono questi Songs, queste Canzoni giovanili, questi esercizi indagatori del guardare, che Bill Viola non vuole mostrare o gestire mercantilmente, e che Franca Mancini donerà appunto all’Accademia di Urbino, per esclusivo uso didattico? È bello anche vederli in simultanea: uno è girato in una neurserie d’ospedale, a indagare la nascita dello sguardo e della consapevolezza d’essere di appena-nati, che ancora non vedono e sbadigliano il loro sconcerto ambientale, senza possibilità di appigli. L’altro scruta il nascere del mondo, attraverso una sorta di morgana desertica, ove la calura sfibra le sagome e gocce di umidità scavano il mondo. Anche la semplice stanza d’uno studente è una sorta di rettangolo pittorico, ove diventa primario e faticosamente facile analizzare in vitro la nascita progressiva di quel miracolo, per noi abituale, che è il quotidiano, sconcertante atto del vedere.

Bill Viola. 10 opere video single channel - 1976-1994, Pesaro, Galleria Franca Mancini, fino al 20 settembre

Tesori dall’Afghanistan, cerniera sulla strada della steppa ino al 3 ottobre la Kunst und Ausstellungshalle der Bundesrepublik Deutschland di Bonn ospiterà la mostra itinerante Afghanistan i tesori ritrovati, progettata dal museo Guimet di Parigi in collaborazione con il ministero della Cultura e della gioventù della Repubblica islamica dell’Afghanistan. L’esposizione presenta oltre 220 capolavori sopravvissuti a guerre e saccheggi. Quattro sono i principali siti archeologici dai quali provengono i reperti.Tepe Fullol, scoperto per caso nel 1966, fa parte della cultura Battriana (nome antico di una regione settentrionale dell’Afghanistan al confine con Uzbekistan e Tagikistan) dell’età del Bronzo (2200-1800 a.C. circa). Da questo sito provengono, tra l’altro, le coppe d’oro con tori barbuti e le ceramiche con motivi geometrici simili a quelli della cultura dell’Indo. Ai-Khanum (fondata nel 300 a.C. da Seleuco I) rappresenta l’estremo avamposto orientale dell’ellenismo nel cuore dell’Asia centrale. Da questo sito provengono l’erma del filosofo, la fontana con la gargouille in forma di maschera comica, la stele funeraria rappresentante un Efebo e oggetti che illustrano la sim-

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di Rossella Fabiani biosi con le tradizioni orientali come la placca raffigurante la dea greca Cibele sul carro o la placca con scene mitologiche che rappresenta una delle più antiche testimonianze dell’arte figurativa indiana. Della tragica fine di Ai-Khanum, saccheggiata dai nomadi che la distrussero nel 145 a.C., sono testimonianza i lingotti d’oro ottenuti dagli oggetti preziosi fusi dai conquistatori e ora esposti anch’essi in mostra. Tillia Tepe, detta «la collina d’oro» (I secolo d.C.) con le sue sei tombe intatte è stata l’ultima importante scoperta archeologica effettuata in Afghanistan. Dalle ricchissime e raffinate sepolture di questa necropoli nomade (una di principe e cinque di principesse) provengono i reperti in mostra: pendenti, cinture, specchi cinesi, avori indiani e intagli greco-romani che sottolineano il ruolo dell’Afghanistan quale cerniera sulla strada della steppa. La corona di foglie d’oro che cinge il capo di una delle principesse è un modello da viaggio perfettamente

smontabile e rapidamente rimontabile, ha paralleli precisi nel mondo nomade e successivi esemplari simili si trovano fino nell’estremo Oriente, ai confini con l’attuale Corea. Il principe è un guerriero che riposa con il capo appoggiato su una coppa d’oro con una scritta in greco che indica il peso del metallo; porta armi da parata di ricchezza straordinaria, con materiali preziosi forgiati e lavorati fin nei minimi dettagli, come le fibbie delle calzature che rappresentano elementi iconografici cinesi, mentre i medaglioni della cintura d’oro sembrano rappresentare il dio greco Dioniso seduto sulla pantera. Begram, sul sito dell’antica Alessandria del Caucaso, mostra il potere e la ricchezza di un Afghanistan che, sotto la dinastia nomade dei Kushana, fu centro di unificazione di mondi diversi: quello greco-romano, cinese e indiano. Negli anni Trenta diverse spedizioni francesi rivelarono il «Tesoro di Begram»: due camere murate piene di oggetti provenienti dal Mediterraneo, dalla Cina e dall’India.Tra gli oggetti più preziosi vi sono gli avori indiani decorati e incisi, i più antichi e fino ad allora sconosciuti. Straordinari sono i vetri dipinti provenienti da Alessandria e risalenti al I secolo d.C.Tesori nascosti per paura delle invasioni, oppure campionario di mercanti o semplicemente una collezione. Questi straordinari oggetti d’arte ancora oggi conservano il fascino del loro mistero.


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il paginone

A cent’anni dalla nascita della figlia di Mussolini, la ricostruzione della morte del marito Galeazzo Ciano e del mistero dei suoi diari. Alla luce di documenti inediti e del memoriale scritto “a caldo” da Emilio Pucci, personaggio-chiave della vicenda, per i servizi segreti americani di Mauro Canali n occasione del centenario della nascita di Edda Ciano cominciano a fiorire rievocazioni di un personaggio, la figlia del Duce, che già nell’immediato dopoguerra fu al centro di un’attenzione mediatica il più delle volte orientata a mostrare la personalità spregiudicata, gli aspetti immorali e «scandalosi» della sua vita privata, con l’intento di distruggere, nell’immaginario collettivo degli italiani, insieme al Duce, anche la sua progenie vivente e futura. Oggi si torna a parlare di vecchie leggende, circolate ampiamente durante e dopo il regime, come quella, ricordata da Nello Ajello su Repubblica del 29 agosto scorso, in cui si cerca di nuovo di rilanciare, sulla base di alcune «battute» di Edda Ciano a un agente dei servizi segreti americani - il quale nello stesso rapporto premette che le era apparsa una donna che «si stava divertendo ad apparire strana e a comportarsi come un adolescente che ha fatto sega a scuola» - la versione di un suo improbabile concepimento da un amplesso di Mussolini, allora giovane socialista, con la rivoluzionaria russa Angelica Balabanoff. Poco importa poi che nelle sue memorie, in genere dirette e poco reticenti, Edda considererà sempre Rachele Guidi sua madre, non accennando mai a queste voci sulle sue cosiddette origini «russe», né che vi siano sufficienti testimonianze coeve della gravidanza di Rachele in quel lontano 1910. Ma per tornare alla storia reale, la tragedia di Edda Ciano e della sua famiglia ebbe inizio già

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co di Baviera, dove Galeazzo venne trattenuto in stato di arresto. Con la successiva liberazione di Mussolini e la costituzione della Rsi, l’ex ministro degli Esteri venne accusato dal suocero di alto tradimento per aver votato al Gran Consiglio del fascismo, la notte del 25 luglio 1943, l’o.d.g. Grandi con cui veniva di fatto sconfessato tutto l’operato del capo del fascismo. Trasferito a Verona, Ciano venne detenuto nel carcere degli Scalzi e, al termine di un breve processo-farsa celebrato davanti al Tribunale Speciale repubblichino, fucilato l’11 gennaio 1944, malgrado i disperati tentativi della moglie Edda di salvargli la vita. Alcuni filmati ritrovati in epoca più recente testimoniano della grande dignità e del coraggio con cui egli affrontò il plotone di esecuzione.

Dall’arresto di Galeazzo fino alla sua tragica fine, la vicenda di Edda si presenta strettamente legata a quella dei famosi «diari» del marito, poiché essa, in un ultimo disperato tentativo di salvargli la vita, prese ad agitare la minaccia che in caso di assassinio del marito avrebbe reso di pubblico dominio carte private di Galeazzo, risalenti alla sua attività politica quando ricopriva la carica di ministro degli Esteri, delle quali era entrata nel frattempo in possesso. Dalle reazioni che ebbero i vertici nazisti si evince che costoro, in effetti, temevano la pubblicazione di tali documenti. Protagonista del salvataggio dei «diari» e dell’espatrio clandestino di Edda in Svizzera fu un personaggio, amico

Mussolini nella decisione di fucilare Ciano, contribuendo a sgombrare definitivamente il campo dalla leggenda, circolata da allora con insistenza, che vorrebbe Mussolini in completa balìa dei tedeschi, anche nella decisione di uccidere il genero.

Tra questi nuovi documenti vi è anche un memoriale di Emilio Pucci, che questi stese per Allen Dulles, allora capo dei servizi segreti americani per l’Europa meridionale, quando il giovane aviatore italiano, dopo aver portato al sicuro Edda in Svizzera, a sua volta, dopo rocambolesche vicende, riuscì a riparare nella vicina confederazione elvetica. Lì operava appunto Allen Dulles che aveva indotto Pucci a mettere per iscritto le ultime vicende sue, di Edda e dei diari. Nel dopoguerra, Pucci aveva più volte affidato alla carta stampata i ricordi delle tragiche vicende che avevano preceduto la fucilazione di Ciano, ma i nuovi documenti sono memorie scritte «a caldo», e per i servizi segreti americani, e quindi hanno il sapore di una verità scritta di getto e all’indomani degli eventi, senza la preoccupazione di «gestire» aspetti della vicenda che nel clima del dopoguerra potevano risultare imbarazzanti o impolitici. Edda si era rivolta a Pucci agli inizi di ottobre del 1943, quando rientrata da Monaco e resasi conto che la detenzione del marito volgeva verso la tragedia estrema, non fidandosi delle vecchie, compromesse e in-

Personalità moderna, aperta, sgombra da pregiudizi e aliena dal conformismo aveva sopportato una vita tanto contraria alle sue aspirazioni per amore del padre. Che poi si rivelò il suo peggior nemico all’indomani della caduta di Mussolini, quando il marito Galeazzo, il 27 agosto 1943, in maniera molto ingenua, si consegnò, con i suoi famigliari, ai tedeschi per essere condotto in salvo in Spagna. Come è noto, l’aereo tedesco, invece che dirigersi verso la Spagna, indirizzò la sua rotta verso la Germania conducendo il prezioso carico a Monaanno III - numero 31 - pagina VIII

fedele di Edda Ciano, che nel dopoguerra era destinato a svolgere un ruolo molto importante nel mondo della moda italiana: lo stilista Emilio Pucci. Alcuni documenti inediti, che utilizzerò per un saggio complessivo della vicenda, consentono di far luce su alcuni aspetti ancora poco indagati delle vicende dei «diari» e sulle responsabilità dirette di

teressate amicizie dei «tempi d’oro», andò a trovare il giovane Pucci, in quel momento nella sua casa fiorentina, dopo aver valorosamente combattuto, come aviatore, durante tutta la campagna del nord-Africa. Pucci, rampollo di una nobile famiglia fiorentina, aveva avuto una educazione cosmopolita, avendo studiato tra il 1935 e il

Il coraggio 1937 in un paio di università americane di grande prestigio. Rientrato in Italia, pur aderendo al fascismo, non si era mai distinto per spiccate simpatie verso il regime. Come tanti giovani nati nel ventennio, considerava il fascismo la migliore risposta per l’Italia ai problemi del Novecento. Sportivo, abile sciatore, frequentatore degli ambienti più esclusivi, grazie alla sua passione per il volo aereo aveva conosciuto Bruno Mussolini, il figlio del Duce, e tramite lui aveva incontrato Edda, di cui aveva subito apprezzato la personalità moderna, aperta, sgombra dai pregiudizi e aliena dal conformismo. Tra i due era nata una solida amicizia, che, secondo alcuni biografi, s’era in breve tra-

sformata in un vero e proprio rapporto amoroso, e quindi non è certo un caso che Edda, nel momento del bisogno si rivolgesse a lui, del quale aveva sempre apprezzato la generosità e il coraggio. Edda riferì a Pucci che, obbedendo a direttive del marito, aveva messo al sicuro documenti appartenenti a Galeazzo, tra cui i famosi diari, che, per un ordine esplicito che il marito era riuscito a farle pervenire dal carcere, dovevano giungere nelle mani degli Alleati. Pucci operò molto abilmente. Fece intanto espatriare in Svizzera i figli di Edda che potevano rappresentare un elemento di ricatto qualora le cose avessero preso una certa piega. Sostenuta dalla presenza di


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suoi occhi, e indignata anche per l’ipocrisia di Mussolini, aveva infine deciso di aiutare Edda, facendosi latore delle lettere che l’ex ministro degli Esteri prese a inviare alla moglie. La Beetz cominciò a tenere minutamente informata Edda dei retroscena della vicenda e del reale atteggiamento vendicativo del padre nei confronti di Galeazzo. Racconta Pucci che la Beetz riferì a Edda «come Mussolini non solo non avesse fatto niente per farle avere il permesso di vedere suo marito, ma che al contrario egli aveva confermato gli ordini che impedivano che il Conte Ciano effettuasse la passeggiata nel cortile della prigione. Dichiarò poi che la sorveglianza della Gestapo sulla Contessa si era accresciuta in seguito alle «reiterate richieste di Mussolini». Infine la Beetz disse a Edda che «Mussolini aveva dato ordine che il processo avesse luogo il 28 dicembre alle 8 di mattina e che alle 10 dello stesso giorno gli imputati ve-

una lettera che la Beetz consegnò successivamente a Edda, Galeazzo tuttavia precisava alla moglie che esistevano due pacchi di documenti uno dal titolo Colloqui e un altro su cui era scritto Germania. Lei doveva consegnare ai tedeschi solo il primo, guardandosi bene dal consegnare il secondo, che «conteneva tutti i documenti che concernevano la Germania e che dovevano convalidare quanto era scritto nei diari».

I documenti erano a Roma in un nascondiglio che conosceva solo Edda. Tornava di nuovo in azione il fedele Emilio Pucci, che venne incaricato di andare a Roma a prelevare i documenti. Pucci racconta di aver fatto il viaggio in auto, insieme a un ufficiale e un sottufficiale della Gestapo e con la Beetz, e che giunto dove erano i documenti, con la complicità della Beetz riuscì a nascondere il fascicolo Germania, e poi consegnarlo di nascosto a Edda, che lo attendeva nella famosa clinica di Ra-

volumi che Edda portava con sé riguardavano gli anni dal 1939 al 1943, mentre a Ramiola lasciava i due volumi relativi agli anni 1936-1938. Nel 1948, uscì una nuova versione dei diari che comprendeva anche il periodo 23 agosto 1937-31 dicembre 1938. Come erano pervenuti a Edda Ciano i nuovi stralci del diario? Per comprenderlo bene bisogna tornare alla fuga di Edda da Ramiola. Lei e Emilio Pucci avevano nascosto questa parte dei diari nelle cantine della clinica, in un luogo noto solo al direttore della clinica, il prof. Elvezio Melocchi. Non appena si accorsero della fuga, le SS fecero irruzione nella clinica ma non furono in grado di mettere le mani su questi documenti. Tuttavia il generale Harster, capo dell’SD, i servizi segreti tedeschi, inviò a Ramiola uno dei suoi più intelligenti e fedeli collaboratori, un bolzanino che non tardò a far confessare il Melocchi e a impadronirsi del resto dei diari e del dossier

L’ipocrisia del Duce spinse l’agente tedesca Felicitas Beetz, adibita alla sorveglianza di Ciano, ad aiutare la moglie e a rendersi complice nell’occultamento del dossier. Finito però in parte a Berlino Sopra, alcuni scatti di Edda Mussolini e Galeazzo Ciano, immortalato con Chamberlain e nel giorno del matrimonio. A sinistra, foto di famiglia e di società; lo stilista Emilio Pucci, autore del memoriale inedito (una pagina è riprodotta a destra)

io di Edda Pucci, Edda si recò più volte a Verona per avere colloqui con Mussolini, al quale chiese insistentemente la liberazione del marito. Ma Mussolini oppose sempre un netto rifiuto adducendo a motivo che egli era prigioniero dei tedeschi e degli estremisti fascisti, e che erano costoro e non lui a volere il processo di Ciano. Edda chiese allora che ne venisse almeno alleviata la detenzione, ma anche queste richieste, malgrado le assicurazioni che il padre si affrettò a darle, caddero nel vuoto. Il memoriale consente di valutare fino in fondo l’impressionante «doppiezza» messa in mostra in questi drammatici frangenti da Mussolini ai danni della figlia. Mentre da una parte,

nel corso dei colloqui, si mostrava con la figlia generoso di promesse e ansioso di venire in suo aiuto, non appena Edda usciva, si affrettava a dare ordine alla Gestapo di sorvegliare strettamente la Contessa Ciano perché era «una donna pericolosa».

Naturalmente Edda e Emilio Pucci seppero ciò solo in seguito, quando stabilirono un inaspettato contatto con una agente dei servizi segreti tedeschi, Felicitas Beetz, al secolo Hilde Burkhardt, moglie di un alto ufficiale delle SS, la quale era stata adibita dalla Gestapo alla sorveglianza stretta di Galeazzo Ciano, ma che impietositasi dalla tragedia famigliare che si stava svolgendo sotto i

nissero fucilati. La mattina stessa di Natale il Conte Ciano aveva avuto ordine di fare il suo testamento. Egli si era rifiutato». Pucci vide Edda subito dopo questo colloquio con la Beetz, e racconta che «quando tornò da me, la Contessa era sconvolta. In pochi minuti tutto un mondo sprofondava ai suoi piedi. Suo padre, a cui ella aveva voluto così infinitamente bene e per cui aveva sopportato tutta una vita così contraria ai suoi gusti e alle sue aspirazioni, si dimostrava il suo più gran nemico». Il «memoriale Pucci» ci spiega che se l’esecuzione fu sospesa è perché Ciano in prigione aveva trattato con i tedeschi per la sua libertà, proponendo lo scambio della sua vita con la consegna di delicatissimi documenti in suo possesso. Kaltenbrunner e Himmler avevano accettato il baratto, e l’operazione aveva preso il via. Anche in questo caso fu la Beetz a mettere al corrente Edda Ciano che «i Tedeschi avevano deciso di liberarlo, contro il volere di Mussolini, a patto che certi documenti venissero loro consegnati». Quindi Mussolini era contrario a salvare la vita a suo genero, e venne scavalcato dai vertici nazisti interessati a mettere le mani sulla documentazione, la cui esistenza, secondo alcune testimonianze imparziali, li manteneva «in uno stato di forte nervosismo». Con

miola, vicino Parma, dove si era fatta ricoverare in considerazione della sua condizione fisica e psicologica. È noto come l’accordo per lo scambio non venne rispettato dai tedeschi, e che fu Hitler, consigliato da von Ribbentrop, a vanificare lo scambio. La Beetz fece pervenire a Edda un’ultima lettera del marito, con cui egli dava l’estremo addio alla moglie. Racconta Pucci: «La lettura di questa lettera fu un tale colpo che quasi subito, ella perse conoscenza. Feci appena a tempo a sorreggerla perché non cadesse a terra». Tuttavia, ripresasi dopo qualche ora, e con un enorme sforzo di volontà, acconsentì all’esecuzione di un piano messo a punto da Pucci: la fuga dalla clinica di Ramiola, portando con sé i diari del marito, dopo aver eluso la sorveglianza della Gestapo, l’espatrio in Svizzera, mentre Pucci avrebbe consegnato a Verona sue lettere a Mussolini e Hitler, con la minaccia di rendere pubblici i diari qualora venisse consumato l’assassinio del marito. E qui il documento di Pucci, insieme ad altri documenti inediti, ci dice qualcosa di più sulla storia dei famosi diari di Ciano. Pucci afferma che i volumi erano in origine sette, e che Edda, dovendoli nascondere su di sé non poté trasportarne che cinque, lasciando nella clinica di Ramiola gli altri due e, evidentemente, il dossier Germania. I

Germania. Trasportati a Verona e consegnati a Harster, una copia parziale dei documenti, quella appunto relativa al periodo 23 agosto 1937-31 dicembre 1938, venne trafugata dalla Felicitas Beetz, che la fece successivamente pervenire in Svizzera a Edda Ciano. Tuttavia, poiché Galeazzo Ciano tenne il diario, come sostiene Renzo De Felice, per tutto il periodo in cui fu ministro degli Esteri, continuano a mancare i fogli che vanno dal 10 giugno 1936 al 22 agosto 1937. Cosa si può desumere circa la fine di questi fogli mancanti? I documenti inediti in mio possesso consentono di concludere quanto segue: secondo i servizi segreti americani, a Verona vennero fatte 5 copie dei diari. Una copia venne inviata a Berlino, un’altra venne distrutta a Cernobbio, la notte della cattura di Mussolini (probabilmente si trattava di una copia che Mussolini stava portando con sé nella sua fuga), mentre, nel maggio 1945, ne risultavano ancora mancanti ancora tre, di certo nelle mani dei servizi segreti tedeschi. Una conferma viene dalla deposizione inedita del bolzanino, protagonista del rintraccio dei documenti a Ramiola, il quale confermò il possesso delle copie da parte dell’SD, mentre fonti americane, ancora nel 1946, testimoniano della vana caccia ai diari da parte dei servizi segreti americani.


Narrativa

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libri Aleksandar Hemon IL PROGETTO LAZARUS Einaudi, 305 pagine, 21,00 euro

na prosa acuta, complessa senza essere contorta; una struttura narrativa che ingloba passato e presente, immaginazione e realtà. Con un filo d’acciaio storico ed esistenziale che la sorregge dall’inizio alla fine. Questo e altro si può dire del libro di Aleksandar Hemon, nato a Sarajevo nel 1964 e dal 1992 residente in America. Scrive in inglese, ma con il cervello - e quindi lo stile mai lontano dalla sua terra natia, la Bosnia. È unanimemente considerato un autore di prestigio, originale, e questo anche perché si porta sulla pelle i mille odori del Vecchio continente. Veritiero e crudele quando parla del viaggio di Vladimir Brik, l’io narrante aspirante scrittore, nei paesi dell’Europa orientale dove è impossibile non fissare le ceneri fumanti di decenni di dolore, miseria, sopportazione e sciatteria, individuale e sociale. Un territorio costellato da McDonald, da caricature gangsteristiche, da violenze e prepotenze ataviche imbellettate con orribili imitazioni occidentali: il peggio che ci possa essere dopo la morsa sovietica, i pogrom, le persecuzioni, le guerre fratricide ed etniche, l’aspirazione a essere diversi senza sapere bene come. Il romanzo di Hemon è la storia del viaggio di Brik, ormai stabile a Chicago, marito di una donna chirurgo abile a manovrare il bisturi nel cervello dei pazienti ma assai impacciata, anzi rigida, quando si tratta di sondare l’anima del coniuge, e pure la propria. Brik ottiene un finanziamento: con quei soldi decide di tornare nell’Europa dell’Est. È affascinato dal brutale omicidio, per mano della polizia, del giovane immigrato ebreo Lazarus Averbuch. Nel 1907, questo ragazzo ventenne, imballatore di uova ma aspirante poeta, viene freddato dai proiettili al capo e al cuore davanti alla casa del capo della polizia. Che ci faceva lì? È un mistero. Prima ancora di porsi questa domanda, le autorità metropolitane vedono in lui un ebreo, quindi un essere pericoloso in odore di anarchia e di sovversione. Hemon alterna capitoli dedicati alla ricostruzione di un pregiudizio fattosi violenza con capitoli che descrivono il viaggio di Brik, altro immigrato, stavolta lungo un percorso inverso. Nella Chicago dell’inizio secolo c’è un’America che ha continue crisi di isterismo dinanzi all’ondata migratoria, anche perché si aggira «la Regina Rossa» Emma Goldman, una donna che predica

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I destini

incrociati di Lazarus e Brik Tra America ed Europa dell’Est scorre il filo d’acciaio teso con maestria dal bosniaco Aleksandar Hemon

In memoria

di Mario Donati

la rivendicazione dei diritti umani in una terra che, dall’altra parte dell’oceano, è approssimativamente considerata paradiso delle libertà. Migliaia di disgraziati privati di case e affetti, brutalizzati dall’antisemitismo russo, romeno, polacco, e frastornati dallo scricchiolio dell’impero austro-ungarico, rischiano di trovarsi in situazioni quasi uguali di emarginazione e di soprusi. Scrive Hemon: «La guerra all’anarchia era molto simile all’attuale guerra al terrorismo, buffo come le vecchie abitudini siano dure a morire. Le leggi sull’immigrazione furono modificate; i sospetti anarchici perseguitati e deportati; si moltiplicarono gli studi scientifici sulla degenerazione e la criminalità di determinati gruppi razziali». Nei rapporti ufficiali della polizia e della magistratura si fa riferimento, spiccio e bestiale, al «tipo ebreo». Prima o poi salderemo i conti, dicono gli uomini in divisa, ideologicamente antenati dei nazisti. Non è la stessa America di Brik, il quale però sbatte contro un muro di diffidenza e di cattiveria in quanto «strambo europeo», catapultato nel «vuoto pneumatico chiamato progresso». Vladimir Brik non è ebreo, ma è lo stesso: viene da una terra di cui diffidare sempre. E lui, marito scomodo di un medico, perdipiù lungamente disoccupato, dirà a se stesso nell’ex dominio sovietico: «Quello che amo dell’America è che non rimane spazio per inutili questioni metafisiche. Lì non ci sono universi paralleli. Ogni cosa è quello che è, facile da vedere e da capire». Il disorientamento in terra polacca è simile a quello provato - fatte salve certe differenze - in terra americana: a Czernowitz, un tempo Cernici, «Sodoma dell’impero», il giovane Lazarus si sentì per la prima volta alla deriva e comprese che «l’umanità è malvagia e inestinguibile». Brik forse cerca una resurrezione sulla scia della tradizione cristiana riferita a Lazzaro. Assieme al suo amico fotografo Rora, ambiguamente coinvolto nelle trame insanguinate della guerra di Sarajevo, continua a interrogarsi sulla propria vita, su Mary che non si è mai sforzata di capire il suo mondo. Brik fa ricerche sul giovane ebreo e sulla sua famiglia, si trova alla fine in un cimitero e lì medita sul fatto che «la morte non è databile». Scriverà il romanzo?

Le ricognizioni di Cattaneo nelle profondità del ’900 a tristezza è più manifesta quando ci lascia un galantuomo, di mente e di anima. Giulio Cattaneo apparteneva a questa categoria che, se non è in via di estinzione, certo si assottiglia e si umilia sotto l’ondata dell’arroganza, della presunzione, del teorema, socialmente assai agitato, secondo cui una posa, o una «mossa» sul palcoscenico, vale più della profondità e della mitezza. Oggi queste doti raramente sono reclutabili dai gestori del Luna Park comunicativo. Cattaneo, morto giovedì scorso, era malato da tempo. Aveva 85 anni. Fiorentino di nascita e romano di adozione ha lavorato per quarant’anni alla Rai. Divulgatore culturale eccellente, correttamente sapeva tener separati i lati della sua personalità professionale: studioso accanito, puntuale e pignolo del Novecento letterario, porgeva ai lettori e agli ascoltatori le note più intime e veritiere di chi ha lasciato buona traccia nella nostra cultura. Sì, perché Cattaneo era anche saggista e scrittore. Ma questa sua intensa attività era, per così dire, privata. A parte moltissime prefazioni e postfazioni a testi importanti, ha pubblicato quattro libri di narrativa: L’uomo della novità (1968), Da inverno a inverno (1968 e riedito nel 1993), Le rughe di Firenze

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di Pier Mario Fasanotti (1970), Insonnia (1984). Si occupò biograficamente di Giovanni Verga (1963), di Federico di Svevia (1974) e di Carlo Emilio Gadda, con Il gran lombardo (Einaudi, 1991). Con la penna del critico scrisse Bisbetici e bizzarri nella letteratura italiana (1957), Letteratura e ribellione (1972), La biblioteca domestica (1983), Il lettore curioso (1992). Ha collaborato a Repubblica, all’Almanacco dell’Altana e anche a queste pagine con puntuali messe a fuoco di personaggi e temi. Alcuni scrittori li ha frequentati da vicino. Per esempio Giorgio Bassani oltre allo stesso Gadda col quale ebbe un lungo carteggio epistolare. Completò gli studi a Firenze assieme a Giovanni Spadolini, poi il trasferimento nella capitale. Dicevamo della sua passione per il Novecento (con felici incursioni nell’Ottocento e oltre). Cattaneo era affascinato dai decenni a cavallo dei due secoli. Studiò a fondo il Verismo, la Scapigliatura, i testi e la personalità di Giovanni Papini, l’opera di Benedetto Croce. In qualità di saggista raggiunse pregevole fama con il ritratto di Gadda. Dell’autore del Pasticciaccio e

Scrittore e saggista, restituiva ai lettori le note più intime e vere della letteratura

della Cognizione del dolore conosceva più cose di tutti, e montò un ritratto con l’andamento della sceneggiatura: a tratti il ritmo quasi cinematografico, senza mai perdere di vista la bussola dell’esattezza cronistica. Frasi, citazioni, episodi, effetti comici, ed ecco Gadda alle prese con il quotidiano, caricato sì di sarcasmo, ironia da rasoio, ma anche di una profonda e nevrotica tristezza che lo induceva a definirsi «creatura sfortunata e infelice». Si interessò anche di Ennio Flaiano e in occasione della pubblicazione della La solitudine del satiro, ebbe a segnalare «passi di straordinario interesse, a dispetto della - consueta - natura frammentaria del testo». Era il Flaiano degli aneddoti su Cardarelli, Maccari, Brancati, Fellini. La Via Veneto prima della volgarità televisiva, la vita degli artisti negli anni Cinquanta e Sessanta, incastonati in una Roma ancora ingenuamente paesana. Cattaneo si sofferma sull’appunto di Flaiano a proposito della nuova moda di presentare i libri, «come i re dal balcone presentavano alla folla il principe appena nato». Moda che si è rafforzata, dice Cattaneo, peccato che non sia mai riuscita a conquistare davvero le masse. Sottinteso: sempre che di masse di lettori sia lecito parlare.


Società

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ioetica diffusa, che tracima un po’ da tutto. Non è conchiusa in pensosi saggi di filosofia, di teologia, di epistemologia, si squaderna sotto i nostri occhi con la calda semplicità di un padre che racconta il dramma di sua figlia o con il passo di una lettera immaginaria scritta da uno scienziato a un bambino di cento anni, o con le scelte di una cinquantacinquenne rokkettara. Due libri e una notizia di cronaca ripropongono gli interrogativi sulla vita e la morte. Partiamo da quello che lo fa in modo più coinvolgente. Si tratta di Caterina. Diario di un padre nella tempesta, di Antonio Socci, edito Rizzoli. Ci sono tante cose dentro questo libro (la fede, l’amore, la solidarietà, la forza della preghiera) e proprio per questo ha conquistato il pubblico da quando è uscito in giugno, vendendo decine di migliaia di copie. Della commovente narrazione - che vale la pena leggere per apprezzarne tutti gli aspetti - qui preme sottolineare una sola cosa. I nostri vecchi la dicevano semplicemente: finché c’è un soffio di vita c’è speranza. Mai decretare la morte, dunque, prima che essa sia davvero arrivata. Si può, si deve combattere, sperare, pregare sino all’ultimo respiro. Come quando il medico vuol gettare la spugna dopo un’ora e mezzo di tentativi per rianimare Caterina e il sacerdote, appena giunto, si inginocchia e gli chiede di continuare. Il cuore della ragazza inaspettatamente ricomincia a battere. E poi, giorno dopo giorno, si susseguono piccoli segnali di vita da parte di Caterina: apre gli occhi, riconosce i genitori, piange, chiama la madre, dice amen. Sino a quando scoppia in una sonora risata, una grande meravigliosa risata. Mamma Alessandra le legge una pagine del Giovane Holden che contiene un paio di sapide battute, e lei esprime platealmente il suo divertimento. Il racconto di Socci è una commovente lezione di bioetica: non darla vinta alla morte, non adagiarsi nella cultura della morte.

B

La vita di Caterina è ancora molto difficile: non solo non è guarita, ma rischia ancora molto e molte sono le incognite. Eppure, nonostante tutto, la sua famiglia, i suoi amici sperano. E nel web ci sono migliaia di persone che fanno il tifo per lei, che sono sicuri che ce la farà, che non getterà la spugna. È questa semplice «filosofia», figlia di una profonda fede cristiana, che ha letteralmente conquistato, appassionato decine di migliaia di lettori facendo di questo libro il vero best selller dell’estate. E soprattutto facendo di Caterina l’emblema dell’etica della vita. C’è un seconda narrazione - diversissima da questa - che pure pone al centro i temi della bioetica: la gravidanza di Gianna Nannini. C’è una prima cosa che vale la pena sottolineare: lo straordinario desiderio di maternità di una donna ormai arrivata alla terza età. E questo in un’Italia che non fa più figli e che invecchia progressivamente è una scelta importante. Una scelta all’insegna della speranza. Che altro aggiungere? Sarà dura avere un figlio a cinquantacinque anni. Perché il corpo non reagisce più come quello di una ventenne o di una trentenne. Perché quando quel bambino/a avrà dieci anni, la madre toccherà i 65. E quel figlio come nasce? E da chi? E perché così tardi? Non mancano gli interrogativi di natura bioetica. Eppure è

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Questioni

di bioetica diffusa

ALTRE LETTURE

DIECI BUONE NOTIZIE DI FEDE E RAGIONE di Riccardo Paradisi

fermarsi in superficie, a dar retta alla vulgata mediatica e allo spirito del tempo sembrerebbe che per la religione e in particolar modo per il cristianesimo sia arrivata l’ultima ora. Eppure ci sono altre storie che testimoniano come il fuoco cristiano abbia l’abitudine di risorgere sempre. Lorenzo Fazzini in Nuovi cristiani d’Europa (Lindau, 211 pagine, 16,00 euro) racconta dieci storie di conversione tra fede e ragione. Sono le storie, tra le altre, di Marco Tosatti, vaticanista scettico convinto da Wojtyla, del giornalista francese già laicista Jean-Claude Guillebaud, del filosofo Marcello Pera, del leader skinhead pentito e convertito da Chesterton Joseph Pearce. Storie buone, buone notizie, che tengono accesa la speranza, anzi la certezza della fede.

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LA SANTA RUSSIA DI FLORENSKIJ *****

La commovente narrazione di Antonio Socci sulla figlia Caterina risvegliatasi dal coma è il vero best seller dell’estate. E mentre la cinquantacinquenne Gianna Nannini annuncia la sua imminente maternità, Edoardo Boncinelli pubblica uno studio sulla vita oltre i 100 anni. E tanti interrogativi si affollano...

1975 sono passati molti anni e le tecniche si sono molto sviluppate: fra venti, trent’anni sostiene Boncinelli - diventerà possibile allungare la vita agendo sui geni della longevità. La scelta ha una caratura etica: se si va in questa direzione, si assume una decisione molto grave, carica di conseguenze. Sarebbe la prima volta, infatti, che l’evoluzione culturale indirizzerebbe l’evoluzione biologica. Proprio per la straordinaria importanza della decisione, occorrerà arrivarci conoscendo a fondo il problema e dopo aver sviluppato un adeguato dibattito.

finanziamenti ai restauri dei luoghi cristiani e la restituzione delle proprietà confiscate alla Chiesa in epoca sovietica, sono solo uno dei doni di Vladimir Putin e del Cremlino al Patriarcato di Mosca. Si deve poi aggiungere l’ora di religione ortodossa nelle scuole e la possibilità per il Patriarcato ortodosso di visionare disegni di legge prima dell’esame alla Duma. Dopo la lunga parentesi atea e materialista la Russia è tornata ortodossa? A detta di Pavel Florenskij, straordinaria figura di sacerdote, di filosofo e di matematico, il popolo russo non ha mai cessato nel profondo della sua anima, di essere ortodosso. Florenskij, fucilato nel 1938 nei pressi di Leningrado, aveva previsto che il comunismo e l’ateismo in Russia non avrebbero prevalso. Nel suo Bellezza e liturgia (Mondadori, 114 pagine, 9,50 euro) Florenskij descrive come naturalmente religiosa l’anima russa, tesse l’elogio del pensiero medievale, auspica l’unità dei cristiani nel mondo.

Boncinelli avverte tutti i pericoli di

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di Gabriella Mecucci meglio quel desiderio di vita che la scelta della non vita, della non procreazione o addirittura di dare la morte. Il libro di Socci e il caso Nannini ci parlano della bioetica della vita così come è oggi. C’è un saggio invece, appena edito da Rizzoli, che ci invita a riflettere sui temi bioetici del futuro. Lettera a un bambino che vivrà 100 anni è il titolo del libro di Edoardo Boncinelli che ci propone un salto in avanti, uno spostamento del confine biologico e di quello etico. Uno spostamento non di secoli, ma che potrebbe già riguardare il figlio di Gianna Nannini. A lui toccherà comunque in sorte una vita più lunga della nostra: intorno ai cento anni. Ma si può fare molto di più: arrivare a duecento anni o forse a trecento. Per ottenere ciò nei prossimi venti, trent’anni occorrerà prendere alcune importanti decisioni. Sostanzialmente, una importante decisione: modificare il genoma di ciascuno di noi. Si tratterebbe di una modificazione genetica non limitata a singole cellule somatiche, ma estesa a tutto l’organismo. Boncinelli spiega come nel 1975 gli scienziati, riuniti in assemblea a Asilomar in California, decisero che «si sarebbero potuti modificare i geni umani solo in cellule singole, ma non sulla linea germinale, cioè quella che produce i gameti e che implica mutazioni anche nel genoma dei figli e di tutti i discendenti». Così facendo quindi si predeterminano alcune caratteristiche dei nascituri: biondi con gli occhi azzurri, alti, belli e robusti. Dal

questo tipo di manipolazione, ma ritiene comunque che il dilemma si porrà in tempi brevi. Il raddoppio della vita con meta duecento anni, dovrebbe inoltre costringere ad affrontare la questione dell’allungamento della giovinezza e della «costruzione» di una sorta di invulnerabilità. Da manipolazione nascerebbe manipolazione: una vera e propria escalation. E poi c’è l’ipotesi delle clonazioni - anche più d’una - dello stesso individuo. Ma perché si replichi davvero l’individuo in quel corpo clonato occorrerebbe trasferire anche l’io iniziale. Questa è ancora fantascienza, ma nulla è impossibile per sempre. L’allungamento della vita sino a raddoppiarla o tripicarla, la sua maggiore sicurezza (meno malattie o nessuna) potrebbe comportare dunque anche il totale stravolgimento della vita individuale e collettiva. E del suo senso. È questo il terribile bivio bioetico che Boncinelli pone a conclusione del suo libro.

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CARTOLINE DALLA GRANDE GUERRA

n viaggio tra i campi di battaglia sul fronte occidentale della Grande Guerra attraverso le testimonianze di generali, ufficiali e soldati che hanno partecipato ai combattimenti. Dalla Marna a Verdun, dalle colline della Somme all’altipiano dello Chemin des Dames, Pier Paolo Cervone nel suo La Grande Guerra sul fronte occidentale (Mursia, 180 pagine, 17,00 euro) racconta il lungo e tragico conflitto del ’14-’18 che vide scontrarsi gli eserciti tedeschi, francesi, britannici e statunitensi. È negli scenari che racconta Cervone che debuttano i carri armati e viene fatto massiccio impiego dell’aviazione.

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di Enrica Rosso ffetto farfalla è una locuzione che racchiude in sé la nozione maggiormente tecnica di dipendenza sensibile alle condizioni iniziali, presente nella teoria del caos. L’idea è che piccole variazioni nelle condizioni iniziali producano grandi variazioni nel comportamento a lungo termine d’un sistema». La sopracitata definizione riportata in calce al programma di Short Theatre la dice lunga sugli intenti degli organizzatori di questa manifestazione di idee che movimenterà il paesaggio romano in quest’inizio settembre. Si tratta in realtà di una coda di estate romana che da ieri all’11 del corrente mese, decollerà come la passata stagione negli spazi del Teatro India (fino al 5), per concludere il suo percorso di esplorazione sulla questione tra realtà e rappresentazione della contemporaneità nell’area dell’ex-Mattatoio a Testaccio: La Pelanda al Macro. Una proposta assai ricca realizzata con l’ausilio del Comune di Roma e il contributo della Regione Lazio. L’edizione 2010 puntualizza, riprendendola, la collaborazione con l’Istituto Cervantes con tre spettacoli prodotti o coprodotti dalla Spagna e sottolinea l’osservazione dell’universo danza, maturando la tendenza a valorizzare il lavoro dei giovani artisti in un’esposizione di arte varia che propone una campionatura di talenti per fare il punto su come gli stimoli del presente vengono raccolti ed elaborati dalle nuove leve. Una straordinaria possibilità per rendersi conto di persona della vitalità e forza espressiva della nostra scena che vede scendere in campo gruppi di grande personalità. L’Accademia degli artefatti con la direzione artistica di Fabrizio Arcuri che proporrà My arm di Tim Crouch; un bell’esempio di scrittura d’importazione in un monologo ironico e beffardo ritmato da interventi musicali. Gli Egumenteatro e Gogmagong, altro gruppo di grande interesse con Quanto mi piace uccidere… (storia di un politico toscano) di Virginio Liberti. Il Premio Ustica «È bel-

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Televisione

Teatro L’Effetto farfalla in sessanta minuti MobyDICK

spettacoli DVD

I MILLE VOLTI DELL’INDIA SECONDO JAMES IVORY alle cortigiane di Bombay dove le donne vengono educate al canto e alla danza, alle vicende di una principessa alle prese con la difficile rielaborazione del lutto paterno. E ancora una scrittrice inglese in cerca di location suggestive per adattare al cinema il proprio romanzo, e una compagnia di attori inglesi che mette in scena Shakespeare nella speranza di fare un gruzzoletto per tornare in patria. È un Paese sorprendente e ricco di contraddizioni, quello che il regista inglese James Ivory esplora nei quattro racconti che compongono L’India di James Ivory. Sguardo d’autore, per un mondo sfuggente.

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CONCERTI

DUE GIORNI DI STORIA DEL ROCK: ECCO I GUNS N’ ROSES lo vivere liberi» di Marta Cuscunà a proposito della partigiana Ondina Peteani e Giorgio Barberio Corsetti nel monologo Fattore K Commedia. I torinesi Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa con La memoria dello studio per le Serve da Genet, I Sacchi di Sabbia in Don Giovanni di W.A. Mozart. Fanny e Alexander e la loro rivisitazione del magico mondo di Oz; la Compagnia Sandro Lombardi /Roberto Latini con L’uomo dal fiore in bocca; i Motus con il loro studio frammentato su Antigone; i Teatri di Vita nel dissacratorio Senzaparole che mette in scena un pornodivo, un letto e un’opera di Beckett. E ancora: Daniele Timpano/amnesia vivace con Aldo Morto parla, una chiacchierata per uno spettacolo in divenire. Ricci-Forte con Pinter’s Anatomy. Dall’International Young Makers Exchange

da ITS Festival Amsterdam, da quest’anno partner di Short Theatre, Wachti per coloro che sognano di essere trasparenti, dalla Spagna Sergi Faustino con Nutritivo. Non mancherà neppure un trailer di Bizzarra, la prima teatro-novela italiana scritta dall’argentino Rafael Spregelburd. Inoltre danza, performances, dj section, presentazioni di libri. Insomma tante occasioni diversificate da non perdere anche in virtù del fatto che ogni evento è short di nome e di fatto, e non supera i 60 minuti e che esiste oltre all’ingresso singolo che costa 7 euro, la tessera giornaliera di 15 euro. E allora: «Battiamo le ali. Non le mani».

Short Theatre 2010, fino al 5 settembre al Teatro India; 8/11 Macro Testaccio/La Pelanda - Info:www.shorttheatre.org tel: 060608

appuntamento è per stasera al Palalottomatica di Roma e domani al Mediolanum Forum di Milano. A riscaldare migliaia di fan ci saranno loro, una band di culto capace di vendere oltre cento milioni di dischi e di dare alle stampe capolavori come Don’t cry e November Rain. I Guns N’Roses tornano in Italia per due tappe che si preannunciano strepitose, nonostante l’ultimo decennio vissuto in sordina da Axl e soci. In scaletta alcuni evergreen come Paradise City, Sweet Child O’Mine e It’s So Easy, ormai entrati di diritto nella storia del rock. Molti lo considerano l’evento musicale dell’anno. Per trovare un biglietto disponibile, bussate molto in alto.

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di Francesco Lo Dico

Nei Cesaroni la salvezza… dalla “Bella e la Bestia” n attesa di conoscere bene l’intesa strisciante con i libici a proposito di produzione televisiva - la qualcosa mi inquieta molto - conviene ragionare su ciò che sta per arrivare sui nostri schermi, dopo un’estate tra le più sciocche e ripetitive di questi ultimi anni. Cominciamo dal peggio, ossia dall’intramontabile (sic) voglia di reality show, programmini che da soli riassumono il declino dei nostri comportamenti sociali e individuali. La brutta notizia viene stavolta dalla Gran Bretagna dove tentano di «estremizzare» quell’aberrazione che è il Grande Fratello. Si raschia il barile del banale o dello stranoma-vero e si arriva a qualcosa che suscita come è già capitato a Londra - ondate di proteste. Channel 4 sta per mandare in onda un

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reality intitolato La Bella e la Bestia. Il riferimento al film disneyano è tenue. È un alibi sporco. Le telecamere inquadrano la vita di una coppia: uno è bello (o bella), l’altro è fisicamente deturpato. Vivranno insieme, con il brivido dell’orrifico in spazi che hanno pareti a specchio così da moltiplicare l’effetto visivo. La coppia potrà uscire, fare una passeggiata (sempre con telecamere al seguito, ovviamente). Inutile dire che è un feno-

meno da baraccone visto che così l’ha già chiamato la stessa casa di produzione. Quale è lo scopo «ufficiale»? Mostrare come due persone fisicamente agli opposti siano diversamente percepite dalla gente. Ma questa è solo ipocrisia intellettualoide, lo sappiamo tutti. Il nucleo è in realtà altamente (meglio: bassamente) voyeuristico. La televisione diventa strada privilegiata per organizzare la parata degli istinti depravati. La Bella e la Bestia arriverà in Italia? Se la cultura britannica, in genere attenta al senso civico, non riesce a costruire degli sbarramenti, è da illusi pensare che lo possa fare quella italiana, ormai asservita alla logica dell’«evento», quale che sia, sganciato da qualsiasi contenuto valoriale. Ricordiamo, a parziale consolazione, che in Spagna è andato in onda The fra-

me e in Francia Zona estrema: in venti metri quadri erano assiepati i concorrenti, i quali se rispondevano erroneamente a certe domande ricevevano una scossa elettrica. Viva, dunque, i nostri programmi caserecci. Così verrebbe da dire, senza pensare troppo all’eventualità che qualcuno inventi un programma volgare o volgarissimo e quindi ne affidi la conduzione a personaggi inquinanti come Teo Mammuccari. Ci salveranno I Cesaroni, quarta serie sulla pista di lancio tra una settimana? Prima di esprimere dubbi, qualche notizia. Non ci sarà più la brava Elena Sofia Ricci, alias mamma Lucia. La trama le impone di farsi da parte visto che lei, oberata di impegni e di affanni, si chiede: ma verrà mai il mio momento? Arriva, arriva: lei va a lavorare, e così si autogratifica. Il marito Giulio, ossia Claudio Amendola, rimedia alla solitudine coniugale con una compagna (l’attrice Barbara Tabita). I figli? Che s’arrangino. Non è questo l’andazzo social-familiare di oggi? Più reality di questo… (p.m.f.)


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poesia

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E l’anima di Napoli incontrò Di Giacomo

A MARECHIARE Quanno sponta la luna a Marechiare pure li pisce nce fanno all'ammore, se revoteno ll' onne de lu mare, pe la priezza cagneno culore, quanno sponta la luna a Marechiare…

di Francesco Napoli arechiaro: l’origine del toponimo pare derivi dal latino mare planum, divenuto poi in dialetto napoletano mare chiano e quindi marechiaro. Ma quando si parla di questa spiaggetta di Posillipo, a Napoli, la mente corre a Salvatore Di Giacomo (Napoli, 1860-1934). Correva il 1885 quando il poeta compose quei versi in cui dipingeva una finestrella a picco sul mare, adornata da un vaso di garofani: dietro quella finestra, nella sua stanza dorme Carolina. Un innamorato la invoca con un’appassionata serenata, mentre nel mare sottostante i pesci amoreggiano al chiaro di luna. Al poeta però, che aveva solo immaginato la scena, questa composizione apparve fin troppo melensa, tanto che nelle raccolte da lui stesso curate non fu mai inserita. Eppure l’immagine degli occhi della fanciulla, più lucenti delle stelle, e l’appassionato richiamo finale, «Scétete, Carulì, ca ll’aria è doce!», colpirono l’allora celebre musicista Francesco Paolo Tosti che, a sua volta ispirato dalle melodie di un suonatore ambulante di flauto che provava il suo strumento, scrisse una musica struggente e raffinata che divenne subito una delle canzoni più popolari dell’epoca. Così dunque nacque A Marechiare, che può essere considerata al pari di ‘O sole mio, un vero e proprio inno napoletano. In breve tempo la canzone, pubblicata dalla Ricordi, riscosse un successo clamoroso, entrando nel repertorio di interpreti del calibro di Beniamino Gigli o Giuseppe Di Stefano.

M

Si avviava a seguire la professione del padre, il giovane Salvatore Di Giacomo, quando in una piovosa mattinata dell’ottobre 1880, rimasto scioccato da una lezione di anatomia, decideva di allontanarsi da quegli ambienti e un grottesco episodio segnava il suo addio alla medicina. Ce lo descrive Di Giacomo stesso: risalendo le scalette, che portavano ai laboratori, vide scivolare davanti a sé il bidello che teneva sulla testa una «tinozza di membra umane» e nel cadere con lui rotolarono «teste mozze, inseguite da gambe insanguinate». L’orrore di quella scena sembra ancora riecheggiare nei primi racconti, di impianto e ambientazione tedesca, che Di Giacomo pubblicò sul Corriere del Mattino, negli anni in cui per vivere lavorava come correttore di bozze, per poi diventarne nel 1883 cronista. Ma fu questo un momento decisivo per lui, perché da un lato fece fondamentali incontri, come quello con Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao, che lo introdussero nei più vivi ambienti napoletani,

e dall’altro la sua attività di giornalista e fotografo, talora anche di cronaca nera, lo avvicinarono alla Napoli più sofferente, con drammi e miserie emersi nel ventennio postunitario, quando la città partenopea perse i suoi privilegi di capitale. Ed è grazie a questo repertorio di fatti e immagini, tratti da vicoli, carceri, tribunali, ospedali, fonte della sua produzione e in particolare del suo realistico teatro, che Di Giacomo sottrasse la letteratura napoletana al riduttivo bozzetto verista, importandovi l’anima più profonda di una metropoli che presto si identificò nella sua poesia: temi e valori in cui i lettori si potevano riconoscere, come più tardi accadrà con Eduardo De Filippo.

A Marechiare ce sta na fenesta, la passiona mia ce tuzzulea, nu carofano addora 'int' a na testa, passa ll'acqua pe sotto e murmulea… a Marechiare ce sta na fenesta… Chi dice ca li stelle so' lucente nun sape st'uocchie ca tu tiene nfronte, sti doie stelle li ssaccio io sulamente, dint' a lu core ne tengo li ppónte, chi dice ca li stelle so' lucente?... Scétete, Carulì, ca ll'aria è doce, quanno mai tanto tiempo aggio aspettato? P'accumpagnà li suone cu la voce, stasera na chitarra aggio purtata… Scétete, Carulì, ca ll'aria è doce!...

Nel 1896 il Di Giacomo lasciò il giornalismo accettando la nomina alla direzione della sezione Lucchesi Palli della Biblioteca Nazionale di Napoli, tenendosi così lontano dai clamori e dalle mode della belle époque partenopea, dalle tendenze letterarie del periodo, per portare a estrema perfezione quel dialetto che assorbì nella sua matrice popolare suggestioni ed echi antichi di letteratura alta: dai lirici greci, quale Saffo, all’opera buffa di Paisiello, per passare attraverso le esperienze di Cortese e Basile. Di Giacomo, dunque, realizzava un’originale sintesi che pur nella struttura colta ha l’immediatezza della lingua parlata: era il dialetto «digiacomiano», definito un napoletano italianizzato. Il successo, poi, gli arrise anche grazie alla pubblicazione di libri di prose (Minuetto settecentesco, Nennella, Mattinate napoletane, Rosa Bellavita) e ai primi lavori teatrali presto rappresentati con buon esito (La Fiera, La Mala Vita, A San Francisco). La vena poetica di Di Giacomo, con una caleidoscopica umanità di emozioni, percepite alla luce del sole, al chiarore della luna, nel tremolio del mare, fra le eterne stagioni che descrisse, l’amore per la madre, per la donna - amore corrisposto, amore lontano, amore deluso, amore «addurmuto» e poi «scetato» - resero la sua produzione, sia pur così aderente alla realtà geografica di quei tempi, intensamente universale e cosmopolita, tanto che Contini nel 1968 consi-

il club di calliope

Salvatore Di Giacomo

derò la voce del Di Giacomo «in assoluto una delle più poetiche del suo tempo», permettendo alla poesia in dialetto di tornare qualitativamente, come già per il Belli a Roma, competitiva con quella in lingua. Dunque sarebbe riduttivo parlare di poesia popolare per un autore che seppure attinse idee e suggestioni dalla sua città, la elevò nell’ambito di una stagione felicemente creativa per letterati e musicisti partenopei, tragicamente interrotta dalla prima guerra mondiale.

Scrisse Benedetto Croce nel 1911: «Pel Di Giacomo l’uso del dialetto (del particolare dialetto digiacomiano) è stato la forma spontanea e necessaria in cui si è espressa la sua anima e quasi il mezzo di liberazione della sua poesia dalla letteratura insidiatrice» e «la poesia (la vera e alta poesia) dialettale napoletana coincide del tutto con la persona del Di Giacomo, il quale non ha in essa né predecessori né (finora almeno) successori». Ma il Di Giacomo protagonista della svolta dialettale del Novecento avrebbe poi rappresentato un modello per tutta la successiva produzione neodialettale meridionale, e non solo.

VERSI SU CARTA VETRATA in libreria

di Loretto Rafanelli

Oggi la luce va sotto le cose e le solleva di stravento. Anche noi d'altronde perdiamo le nostre abitudini e proprietà forse a causa della nostalgia.

Antonio Riccardi

nnio Cavalli pubblica un pamphlet in versi di rara durezza sulla situazione di malessere che investe il nostro paese. Il titolo del libro è Poesie incivili (Aragno, 40 pagine, 5,00 euro), volendo dire che oggi per parlare di un disastro morale non si può procedere in modo civile ma appunto ci vuole una «poesia in guerra», «su carta vetrata». Va da sé che questa è poesia civile, che ci riporta alle denunce pasoliniane, alla indignazione di intellettuali che si oppongono agli spietati «occhi di varano», «gli occhi ghiacci del potere». Cavalli scrive versi sull’Italia

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delle leggi ad personam, sul malaffare che si fa Stato, sulla immoralità («il primario trafficante in protesi»), sulla negligenza, come nel caso del treno di Viareggio con le 32 vittime. Cavalli non risparmia neppure «i poeti, i giornalisti, i finalisti dei premi letterari/ che non si fanno sentire/ quasi fossero ai domiciliari di una lingua servile». Ma nell’ira di tale sguardo, c’è pure la serena visione di un cambiamento: «Disegno il mio Paese e spero/ che giovani e vecchi lo ridisegnino». È il richiamo a una dignità, la luce di una salvezza: «l’altra riva della rima,/ la parola col vento in gola».


i misteri dell’universo

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ai confini della realtà

Quei tramonti color Tunguska

Unione Sovietica, estesa per ventidue milioni di km quadrati, oltre il doppio del Canada, era rappresentata per circa due terzi dalla Siberia. Questa vastissima regione, tuttora popolata quasi solo nella sua parte meridionale dove lungo la ferrovia transiberiana (di cui una metà fu velocemente costruita da una società italiana), è caratterizzata a sud da foresta di abeti, a nord dalla tundra, nel centro dalla taigà, foresta dominata dalle betulle (incidendone il tronco in primavera si ottiene una piacevole bevanda, ora disponibile da noi nei negozi di prodotti russi).

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La Siberia occidentale è una vastissima pianura quasi priva di pendenza, dove scorre l’Ob (nome di origine sanscrita, Ab = acqua...), in gran parte paludosa, ricchissima di petrolio (sorvolandola di notte si vedono i pozzi dove brucia il metano). Al centro sta il territorio collinoso del fiume Jenisei, che ha tre affluenti e che nasce nella Mongolia occidentale, terra di Gengis Khan e degli antichi magiari; il primo è Tunguska, nome che deriva dal popolo (ka) dei Tungusi o Evenki, locale popolazione di religione un tempo sciamanica. A oriente sta il territorio afferente al fiume Lena, la Yacuzia, regione dalle temperature più basse del globo, salvo l’Antartide. Più a oriente stanno i territori dei fiumi Amur, Indigirka, Kolima.... quest’ ultimo nella zona dei campi di concentramento staliniani, dove milioni di persone morirono lavorando nelle miniere di oro e altri metalli. E su questi lager uno dei libri più straordinari è quello di Janusz Bardach, che conobbi poco prima della sua morte, divenuto uno dei massimi esperti di chirurgia maxillofacciale e ispiratore delle protesi cocleari. Il mediano dei fiumi Tunguska si chiama

di Emilio Spedicato Tunguska Petrosa o Podkamennaia Tunguska in russo. Qui in una mattina di un giugno 1908 si ebbe una potentissima esplosione, sentita a centinaia di km di distanza, che appiattì in una forma peculiare gli alberi della tundra su un’area di circa 2000 km quadrati. La regione era quasi disabitata e non sono note perdite umane. L’esplosione generò onde sismiche misurate a migliaia di km di distanza, in particolare in Germania. Dopo l’esplosione una luce speciale colorò per settimane i tramonti, rendendo possibile la lettura dei giornali a mezzanotte non solo a Londra, dove a giugno la notte non è mai molto scura, ma anche nel Caucaso, dove lo è. Quanto avvenne è noto nella letteratura come l’esplosione della Tunguska.

per potenza, ma il maggiore tra gli ultimi (restiamo in attesa di cosa avverrà con l’asteroide Apophis, che potrebbe colpire il nostro pianeta attorno al 2026). È stato inoltre l’evento di interazione terra-spazio più studiato, tanto che ha prodotto una cinquantina di libri e migliaia di articoli in Unione Sovietica e Russia, ma sconosciuti in Occidente data la barriera linguistica. Pochi i lavori degli occidentali, e spesso di incredibile superficialità, ma vi è un’attenzione continua al problema da parte dell’accademia russa. Si veda lo straordinario libro del fisico Vladimir Rubtsov, apparso presso Springer nel 2009, forse il migliore mai letto su una vicenda di studio scientifico: qualche editore dovrebbe di tradurlo nella nostra lingua e pubblicar-

L’esplosione che si verificò nel 1908 nella regione siberiana è tuttora un enigma. Si sa che fu di tale potenza da generare una luce speciale che colorò per settimane i cieli dal Caucaso a Londra. Provocò onde sismiche a migliaia di chilometri, mutazioni genetiche nelle piante e altro ancora Chi scrive ha ipotizzato che i fenomeni relativi al diluvio di Deucalione, alle piaghe di Egitto e all’Esodo, dichiarati contemporanei in un dimenticato passo di Paolo Orosio, siano attribuibili a un fenomeno di questo tipo, in paticolare all’esplosione, e qui ritorniamo al passo di Orosio, dell’oggetto chiamato Fetonte dai greci, Surt dai vichinghi, Apophis dagli egizi... Un evento avvenuto sulla regione del fiume Eridano, che non è il Po ma il fiume Eider fra Germania e Danimarca e da considerarsi «super Tunguska» perché implica energie assai maggiori. Un evento i cui effetti sono in linea di principio modellizzabili matematicamente e studiabili una volta sviluppato l’opportuno codice di calcolo. L’evento Tunguska è stato certo minore

lo. La conclusione di un secolo di ricerche è comunque incredibile: manca la certezza su cosa sia avvenuto in quella fatidica mattina.

Ricordiamo che i primi studi sul terreno vennero fatti con circa vent’anni di ritardo, a causa degli eventi politici e alla prima guerra mondiale che tanto afflissero la Russia, Stato basato su fondamenti cristiani, allora avviato a primeggiare nel mondo, la cui crescita fu fermata da Lenin che tentò, tra le altre cose, di eliminare la dimensione religiosa dal popolo russo, uccidendo quasi tutti i 600 mila popi, distruggendo le chiese o adibendole ad altro... Ma il primo impegno della nuova Russia è stato la ricostruzione della chiesa del Salvatore, davanti al Cremlino, ab-

battuta con la scusa che qualcuno dalle sue cupole poteva spiare dentro il palazzo del potere. Gli studi prodotti, fra cui la raccolta dei ricordi dell’evento conservati, dopo mezzo secolo, da coloro che allora vi avevano assistito, hanno dato le seguenti informazioni: - nel luogo centrale dell’esplosione gli alberi sono restati in piedi e non sono mai marciti; - si sono trovate sferule piccolissime di materiale come niobio o iridio, tipiche delle esplosioni meteoriche, ma due eruzioni all’epoca in Kamchiatka potrebbero esserne la causa; - un livello di radioattività elevato; - nella regione dell’esplosione i tassi di crescita dei vegetali sono fino a 40 volte superiori al normale; - osservate variazioni genetiche trasmissibili, come foglie di conifere a tre aghi invece di due; - le descrizioni dei testimoni esludono che l’oggetto avesse una coda fumosa, quindi non era un meteorite ferroso; - i testimoni hanno affermato di avere visto l’oggetto solo dopo avere sentito il rumore di qualcosa in arrivo, quindi l’oggetto non aveva la velocità tipica degli oggetti provenienti dallo spazio, che è supersonica; - l’analisi della parte di taiga distrutta dall’evento mostra che non è ellittica ma presenta due lobi, come se gli oggetti fossero stati due; - testimoni hanno confermato quanto sopra individuando, cioè due traiettorie di avvicinamento al punto dell’esplosione, una da est, passante sul fiume Lena, una da sud-est, e qualcuno vide dopo l’esplosione un oggetto allontanarsi verso nord. Tutto ciò pone un mistero nell’ambito degli scenari standard dove è esclusa la presenza di oggetti manovrati da esseri intelligenti.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando,Giuseppe Baiocchi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato,Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza

L’ergastolo? È una pena del diavolo, perché ti ammazza lasciandoti vivo Il cardinale Sepe ha affermato: «Nessuno uomo è condannato a vita: tutti devono avere la possibilità di redimersi». L’arcivescovo di Milano, cardinale Dionigi Tettamanzi, autore di un appello contro l’ergastolo, ha dichiarato: «Toglie la speranza e non rieduca». Don Oreste Benzi, fondatore della Comunità Papa Giovanni XXIII, ha sempre appoggiato il superamento dell’ergastolo e qualche giorno prima della sua morte, alle Settimane Sociali del 2007 ha detto: «Adesso inizia lo sciopero della fame a Spoleto, nel supercarcere, per l’abolizione dell’ergastolo. Hanno ragione. Che senso ha dire che le carceri sono uno spazio dove si recupera la persona se è scritta la data di entrata e la data di uscita mai? È una contraddizione in termini. Perché non devono aver il diritto di dare prova che sono cambiati? Non è giusto questo». Lanciamo un appello al Papa: Santo Padre, noi e la Comunità Papa Giovanni XXIII, Le vogliamo dire che la pena dell’ergastolo è una pena che si sconta senza vita; che avere l’ergastolo è come essere morti, ma sentirsi vivi; che la pena dell’ergastolo è una pena del diavolo perché ti ammazza lasciandoti vivo; che la pena dell’ergastolo tradisce la vita.

Giovanni Paolo Ramonda

IL POPOLO DEI MODERATI VERO ESEMPIO DI RESPONSABILITÀ L’attualità del panorama politico italiano e, in particolar modo, la crisi che imperversa all’interno del Pdl non lasciano presagire ad alcunché di positivo, anzi. La complessità dei rapporti e il clima incandescente che, sovrano, regna nei palazzi romani, rappresentano, invero, una pesante zavorra per l’agenda politica e programmatica del governo Berlusconi, impossibilitato a ritrovare le giuste soluzioni per contrastare una crisi economico-sociale che, ahinoi, non sembra più di tanto preoccupare né l’esecutivo stesso né le forze partitiche che compongono la maggioranza parlamentare. Il tanto decantato bipolarismo di stampo “berlusconiano” – perché di questo si tratta – crolla sotto i colpi e le “manganellate”dei suoi stessi “fanatici” adoratori: una fine annunciata! Quello che, nelle operazioni di marketing pubblicitario pianificate dal Cavaliere, si voleva far passare come il sistema elettorale perfetto e per l’unico che avrebbe potuto garantire stabilità e governabilità, si è di contro rivelato per quello che è. Basti pensare che, dal 1994 al 2008 (14 anni), si sono susseguiti ben 10 governi e 5 presidenti del Consiglio dei ministri: alla faccia della stabilità! Siamo al punto di partenza, se non addirittura persi nel vuoto?! Nel

marasma generale, il mondo politico ha però l’obbligo ed il dovere morale di riflettere e di consegnare risposte concrete. Mettere fine al disordine politico, riflettere seriamente, con saggezza e ponderatezza, e dar vita ad una nuova stagione: non esistono altre alternative. Senza rimpianti e senza atteggiamenti nostalgici ed ideologici, è forse arrivato il momento di guardare oltre le definizioni superate di destra, di centro e di sinistra. In primis noi stessi, che ci definiamo gli eredi della cultura e dei valori democristiani, abbiamo l’obbligo di contribuire a voltare pagina, una volta per tutte. Ognuno di noi porterà sempre con sé e nel proprio cuore quel simbolo, quello scudocrociato, che ha fatto la storia dell’Italia repubblicana e democratica. Ognuno di noi sarà portatore di ciò che rappresenta quell’effige e di quei sani ideali, da essa difesi, che nemmeno il passare inesorabile del tempo potrà mai cancellare. Allo stesso tempo, tuttavia, siamo chiamati a una scelta, a un sacrificio che non possiamo eludere. La nuova area dei moderati, il nascente Partito della Nazione, porta già sulle sue spalle il peso di un Italia che deve chiudere un capitolo e aprirne un altro. Il popolo dei moderati e dell’Udc, perciò, è chiamato ad essere da esempio. Dimostriamo insieme l’alto senso di responsabilità che, nei momenti di

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Salotti ecologici Per spingere i pigri a passare più tempo all’aria aperta, il National Trust, che gestisce il patrimonio culturale del Regno Unito, sta pubblicizzando poltrone studiate per entrare in contatto con la natura: sono tappezzate di un soffice manto erboso, che cresce a piacimento (basta innaffiarlo!) e giace su una struttura di paglia e fuscelli intrecciati

LE VERITÀ NASCOSTE

Prima elementare a 102 anni WESHAN. La cinese Ma Xiuxian ha concluso la prima elementare. Non è una notizia, dite? Aggiungiamo allora che Ma ha 102 anni, e uno dei suoi rimpianti era sempre stato di avere iniziato a lavorare giovanissima, come molti bambini del secolo scorso, e ciò le aveva impedito di frequentare la scuola. Quando le autorità scolastiche hanno scoperto questo suo desiderio, tramite un’intervista ad un giornale in occasione del suo compleanno, l’hanno contattata e le hanno proposto di iscriversi a scuola. Ma cominciò a lavorare in una fabbrica di cotone all’età di 13 anni, riportano i giornali locali; il suo desiderio da sempre è quello di avere l’opportunità di ricevere una vera e propria educazione ed ora è tornata a scuola per esaudire la sua ambizione. «Sono molto felice di poter finalmente realizzare il mio sogno di andare a scuola a quest’età», ha detto Ma. Ad accompagnarla in questa scelta coraggiosa per il primo giorno di scuola nella prima elemantare di Weishan Road c’era il figlio più giovane dell’anziana donna, Yi Fengxin, 58 anni. Certo, “la piccola” deve usare l’apparecchio acustico e gli occhiali per seguire le lezioni, ma ha promesso che si impegnerà molto nello studio.

maggiore difficoltà, ci contraddistingue e ci caratterizza. Insieme, come all’epoca i Padri della Repubblica, contribuiamo a ricostruire e a ricucire la nostra Italia. Con la consapevolezza e la certezza di riconsegnare un degno futuro e una sicura prospettiva a questa terra, ai nostri figli, a noi stessi e una guida moderata al processo di unificazione dell’Europa.

Giovanni Folino

RITARDI SANITARI Ringrazio l’on. Leoluca Orlando per l’attenzione che presta alla sanità veneta e i cui interventi ci permettono di verificarne una volta di più l’efficienza e la tempestività. Rispetto al caso da lui sollevato, circa i ritardi relativi a una risonanza magnetica, risulta che il paziente in questione ha dovuto attendere 24 ore per l’esame, eseguito in un altro ospedale dal momento che quello dove era ricoverato, a San Donà di Piave, non è dotato dell’apparecchiatura necessaria. La richiesta è stata fatta il 10 agosto e l’esame l’11. Il fatto che il nosocomio sandonatese non abbia la risonanza magnetica non è un fatto anomalo, ma di economia di gestione, che peraltro non inficia la prestazione sanitaria. Di sicuro, in attesa del federalismo fiscale e dell’applicazione dei costi standard, non vogliamo indebitare la nostra sanità di eccellenza con il rischio di metterne a repentaglio l’efficacia. E che la sanità veneta sia all’altezza della situazione non lo diciamo noi, ma le organizzazioni internazionali, oltre alle decine di migliaia di pazienti che giungono qui da altre parti d’Italia, dove probabilmente non si sentono altrettanto garantiti. Che possano esserci disfunzioni è grave ma in Veneto siamo a livelli che possiamo definire molto bassi per non dire fisiologici.

Luca Coletto


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L’intervista. Rapporti con l’estero, ripresa economica e proiezioni per il futuro: il leader liberale traccia la rotta per aumentare il peso della Polonia in Europa

«Mosca? Un alleato» Parla il presidente polacco Bronislaw Komorowski: «La tragedia di Smolensk, un nuovo inizio con la Russia» di Sergio Cantone

BRUXELLES. Bronislaw Komorowski è diventato Presidente della repubblica polacca un paio di mesi fa. È ben lungi dal volere svolgere un semplice ruolo notarile. E lo dimostra anche in questa intervista, descrivendo senza ambiguità il pecorso di politica estera che vorrebbe impostare per il suo Paese, in piena collaborazione con l’attuale governo. È una mezza rivoluzione. Rompe infatti con le visioni “ultra-golliste” del suo defunto predecessore, Lech Kaczynski, aprendo a Mosca e mostrando un europeismo polacco del tutto ritrovato. Ripartire da Smolensk, insomma. La località russa legata ormai a doppio filo alla storia della Polonia. È dove infatti si è schiantato l’aereo di Lech Kaczynski lo scorso aprile. E dove Vladimir Putin ha deposto due corone di fiori politicamente importanti. Una per i morti della catastrofe aerea e l’altra per i caduti di Katyn, la foresta nei dintorni di Smolensk dove l’Urss staliniana massacrò buona parte degli ufficiali dell’esercito polacco in piena seconda guera mondiale. Riconoscendo le responsabilità

russe nell’eccidio. Insomma anche la Polonia, per dirla alla Obama, ha deciso di “resettare” le sue relazioni con il

Varsavia è pronta a creare una zona senza visti tra l’Ue e l’enclave russa di Kaliningrad, perché è nell’interesse di tutti

deve affrontare, soprattutto dopo la morte del suo predecessore Lech Kaczynski avvenuta in un tragico incidente aereo qualche mese fa? La Polonia non si è ancora del tutto ripresa dalla catastrofe aerea avvenuta nei dintorni di Smolensk [in Russia]. È ancora in una fase difficile. Nell’incidente aereo infatti non solo ha perso la vita il presidente, ma anche numerosi “grand commis” di Stato, tra cui il governatore della banca centrale, alcuni ministri e degli ufficiali di stato maggiore dell’esercito. Ora, il nostro obbiettivo è di fare partecipare la Polonia alla piena integrazione dell’Unione europea, attraverso l’approfondimento, che significa il rafforzamento delle politiche estera ed energetica comuni per poi approdare possibilmente alla costruzione di una politica di difesa e sicurezza comune. Come Presidente della repubblica lei sembra condividere in pieno l’azione politica dell’attuale governo, non era il caso del suo predecessore, il defunto presidente Kaczynski. A questo

suo nemico storico di oriente. Con grandi implicazioni anche per l’Unione europea. Presidente, quali sono le sfide più importanti che

Il nuovo presidente polacco Bronislaw Komorowski, eletto dopo la tragedia aerea costata la vita al predecessore Kaczynski e a un gran numero di boiardi polacchi. In basso, la Cancelliera tedesca Angela Merkel, con cui Varsavia vuole creare un nuovo asse

punto pensa che l’atteggiamento della Polonia verso l’Unione europea cambierà? E se sì, come? Fini e opinioni non sono cambiati, le circostanze sì. Diciamo che le circostanze offrono l’occasione di far convergere la politica estera della Polonia con quella dell’Unione europea. Pensa ad una crescita

Incontri con la Merkel e con Sarkozy per rivitalizzare l’asse Varsavia, Berlino, Parigi

Ma il sogno è il triangolo di Weimar di Enrico Singer ra l’estate del 1991. Il muro di Berlino era caduto da meno di due anni. In Polonia era presidente Lech Walesa, il leader di Solidarnosc e della riscossa democratica, in Germania governava Helmut Kohl, il cancelliere della riunificazione, e in Francia c’era ancora François Mitterrand. Tre uomini molto diversi tra loro che ebbero, però, un’intuizione comune: creare un forum per discutere insieme i principali dossier che interessavano i loro Paesi. Lo battezzarono il triangolo di Weimar, dal luogo davvero non casuale per il suo passato storico - del primo incontro. Poteva essere l’avvio di un possibile asse tra le nazioni dove erano sempre scoccate le scintille dei conflitti che hanno deva-

E

stato l’Europa, una volta per il bacino della Ruhr, un’altra per il corridoio di Danzica. In realtà, il triangolo di Weimar, finora, non ha fatto molta strada. L’ultimo vertice al livello di capi di Stato è di quattro anni fa. Troppo diversi gli interessi dei tre Paesi, anche dopo l’ingresso della Polonia prima nella Nato (1999), poi nell’Unione europea (2004). Scomodo, soprattutto, il neonazionalismo polacco interpretato dai gemelli Kaczynski.

Difficile da integrare con l’asse quello sì - già sperimentato e cemento tra Berlino e Parigi che da tempo, ormai, fa il bello e il cattivo tempo in Europa. Ma adesso uno dei fratelli Kaczynski - Lech - è morto nel disa-

stro aereo di Smolensk; l’altro - Jaroslaw - è stato battuto nella corsa presidenziale dal liberale Bronislaw Komorowski che, per la sua prima uscita sulla scena internazionale, ha scelto proprio un viaggio a Parigi, Bruxelles e Berlino. Un segnale molto chiaro. La voglia di voltare pagina, di lasciarsi alle spalle il rancoroso isolamento nella Ue e di rivitalizzare proprio il quasi dimenticato triangolo di Weimar. Anzi, giovedì a Nicolas Sarkozy e ieri ad Angela Merkel, il nuovo presidente polac-

dell’influenza della Polonia all’interno dell’Ue? Ogni Stato membro dell’Ue dovrebbe avere questa ambizione e aspirare a svolgere un ruolo chiave nel progetto comune che è l’integrazione euro-


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nell’Unione europea è un elemento essenziale per mettere in evidenza gli interessi legati alla relazioni russo-polacche e alla collaborazione mutua dei due Paesi. E questo è un elemento in più per quanto riguarda il peso specifico della Polonia in quanto membro dell’Ue. La Polonia ha deciso di investire nelle relazioni con Mosca. Sì, ma allora che ne è della vostra opposizione al gasdotto baltico, il “North-stream”, nato da

baltico. Ma è vero, non hanno voluto farlo passare attraverso la Polonia. Sono gli effetti di una decisione presa in precedenza da russi e tedeschi. Credo se ci fosse stata allora la stessa atmosfera di oggi una tale decisione non sarebbe stata presa. La Polonia è pronta a creare una zona senza visti tra l’Ue e l’enclave Russa di Kaliningrad ? Sì, questo accadrà perché è nell’interesse della Polonia e del resto d’Europa. È una questione pratica che porta dritto alla riconciliazione e alla colloborazione con la Russia. Questo dovrebbe interessare non solo la Polonia, ma tutta l’Ue. Ci sforziamo di creare un meccanismo che diventi effettivo, con tutto quello che possa servire. E la zona senza visti lungo le frontiere con l’enclave di Kaliningrad può essere una di quelle cose che possono servire. Quando prevede che il suo Paese sarà in grado di adottare l’euro? Credo che non siamo costretti a decidere ora. La Polonia è indipendente rispetto alla zona euro e alla sua situazione. Ci arriverà. Ma bisogna scegliere il momento opportuno, bisogna prepararsi, e questo riguarda sia la Polonia che la zona euro. Ma pur non facendo parte della moneta unica, noi vogliamo partecipare alla soluzione dei problemi dei Paesi che sono nella zona euro. Detto ciò, la Polonia è contraria, e lo sarà sempre, a ogni tentativo di creare delle strutture di governance proprie dell’Unione, ristrette ai soli Paesi della zona euro. È una nostra convinzione intima, forte, almeno quanto la necessità di procedere con l’integrazione europea.

Credo che sull’euro non siamo costretti a decidere ora. Il nostro Paese è indipendente rispetto alla valuta comune e alla sua situazione

pea. Anche noi nutriamo questa ambizione. Ma oltre all’ambizione è necessario avere anche degli argomenti convincenti e li abbiamo a nostra disposizione. La Polonia fa di tutto per essere un buon membro dell’Ue, fa tutto il possibile per approfondire il processo di integrazione europea e lo realizza in pratica, nel fatto che - pur non essen-

do membro della zona euro la Polonia si è detta pronta a participare alla soluzione dei problemi finanziari derivanti dalla crisi, provocati dai Paesi che ne facevano parte. Credo che occorra essere pratici. Ora la Polonia si aspetta una certa solidarietà europea, in particolare per quanto riguarda il processo di approfondimento dell’integrazione, con

co ha proposto di tenere a Varsavia il prossimo vertice a tre entro l’estate del 2011, quando comincerà il semestre polacco di presidenza della Ue e quando il Paese sarà già entrato nel clima pre-elettorale in vista del voto politico dell’autunno che dovrebbe sancire la svolta liberaldemocratca e riformista. Il sogno di Komorowski e del suo premier, Donald Tusk, che è dello stesso partito, è quello di estendere fino a Varsavia l’asse Berlino-Parigi e di imporre la Polonia come capofila dei Paesi dell’ex impero sovietico in Europa.

un approfondimento ulteriore dei meccanismi di solidarietà tra i Paesi. La politica estera polacca si sta muovendo da una sorta di scenario “stile guerra fredda” con la Russia, ad uno in cui si prospetta maggior cooperazione con Mosca? Detto in altri termini, il forte radicamento della Polonia

senhausen che, in un’intervista alla Frankfurter Allgemeine Zeitung, ha definito «un simbolo degli errori del passato e un insegnamento per il futuro». Passato e futuro. E il futuro, per Komorowski, è la crescita politica ed economica della Polonia che è riuscita a riprendere gradualmente il processo di riforme e a presentare una nuova leadership preparata ed esperta, capace di conquistare importanti cariche internazionali: Marek Belka, il governatore

nerale crisi, grazie a una domanda interna sostenuta (le riforme delle imposte introdotte nel 2009 hanno favorito il potere d’acquisto dei consumatori) e a un tasso di cambio flessibile che ha consentito la svalutazione dello zloty del 41 per cento rispetto all’euro nel periodo agosto 2008-febbraio 2009 con effetti positivi sui volumi di esportazione.

La Polonia si è distinta anche tra i “vecchi”della Ue in fatto di crescita del Pil. È vero che lo sviluppo dell’economia polacca ha avuto un importante rallentamento - è scesa dal 5 per cento del 2008 fino all’1,8 del 2009 - ma la previsione è di risalire al 3 per cento già nel corso di quest’anno e di arrivare al 3,4 per cento nel 2011: un vero record. La fine della coabitazione agitata tra Lech Kaczynski e Donald Tusk e l’inizio di una fase più armoniosa con la coppia Komorowski-Tusk può dare l’avvio a una nuova stagione. Almeno questa è

Una visita nell’ex campo di concentramento nazista di Sachsenhausen «simbolo degli errori del passato e un insegnamento per il nostro futuro»

Con buoni rapporti anche con Mosca, naturalmente. Ma con una netta connotazione occidentale perché la diffidenza nei confronti delle reali intenzioni del Cremlino è di vecchia data e rimane nel Dna polacco. Anche per Bronislaw Komorowski la storia conta. Come ha dimostrato anche ieri visitando, con Angela Merkel, l’ex campo di concentramento nazista di Sach-

della Banca centrale polacca, ha ricoperto incarichi prestigiosi all’Onu e al Fmi e l’ex primo ministro Jerzy Buzek è presidente del Parlamento europeo. Ma quello che più conta è che, grazie anche alla nuova stabilità politica, la Polonia ha superato meglio di tutti gli altri Paesi dell’Europa orientale la ge-

una cooperazione russotedesca che tanto ha avvelenato i rapporti tra questi due Paesi e la Polonia? La costruzione nel Mar Baltico di un gasdotto più costoso solo per evitare il passaggio dal territorio polacco è stato il frutto di una decisione troppo rapida, presa qualche anno fa. È stata una decisione che non abbiamo potuto evitare, anche con l’attuale governo tedesco [il gasdotto baltico nacque da un accordo tra l’allora cancelliere tedesco, il social-democratico Schröder, e Vladimir Putin, quando era presidente della federazione Russa]. Ne prendiamo atto, l’ho già detto, ma non ne comprendiamo la logica, tuttavia crediamo che sia giunto il momento di stabilire delle relazioni più strette con la Germania. Noi vorremmo quindi approfittare di questo momento favorevole ed evitare di concentrarci sulla questione del gasdotto

la speranza del nuovo presidente che punta sulle riforme all’interno e sull’asse con Berlino e Parigi nella Ue. Dalla Merkel sono già arrivati degli incoraggiamenti. È significativo che il 13 maggio scorso ad Aquisgrana la cancelliera tedesca abbia consegnato il premio Charlemagne al primo ministro polacco, Donald Tusk. Ma il triangolo di Weimar è ancora un cantiere aperto. Tra Varsavia, Berlino e Parigi ci sono anche motivi di dissenso, come dimostra la lettera che la Polonia ha firmato, con altri otto Paesi dell’Unione europea (Svezia, Lettonia, Lituania, Ungheria, Bulgaria, Romania, Slovacchia e Repubblica ceca), per chiedere che nella revisione in corso del Patto di stabilità una riunione è in pogramma a Bruxelles per il 6 settembre - sia scorporato dal passivo dei conti pubblici anche il peso della riforma delle pensioni. Un’ipotesi che si scontra con la rigida difesa del Patto da parte della Merkel. Ma non sarà di certo questo a far crollare il sogno di un nuovo asse continentale a tre. Almeno da parte polacca.


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Stalli. Decisiva la preferenza di tre deputati indipendenti (e indecisi) Australia, l’economia avanzata che sta uscendo meglio dalla crisi economica, è anche il Paese che dieci giorni fa non è riuscito a scegliersi un governo alle elezioni. Il contrasto tra i due dati è stridente. L’Australian Bureau of Statistics (l’Istat australiano) parla chiaro: il Pil è oggi al 3,3% sensibilmente superiore a quel (già alto) 2,9% previsto all’inizio dell’anno dagli analisti economici.Tali ritmi di crescita si spiegano, da un lato, con la crescita sensibile dei consumi privati e delle vendite al dettaglio; dall’altro, con la capacità dell’industria mineraria di rispondere alla ingente domanda di materie di India e Cina. Non a caso era stato proprio la politica fiscale in rapporto al settore minerario uno dei principali argomenti di campagna elettorale tra la premier laburista uscente (ancorché da soli due mesi in carica) Julia Gillard e il leader dei liberali Tony Abbott, coalizzato coi nazionalisti. I risultati finali relativi alla Camera dei Rappresentanti avevano fatto registrare un 73 a 72 in favore di Abbott, con una sconfitta chiara dei laburisti in voti effettivi e in seggi persi rispetto alle elezioni del 2007. Quel 73 a 72 era diventato subito un pareggio, per l’ovvio appoggio che ai laburisti aveva offerto l’unico deputato verde eletto Adam Bandt.

L’

L’altro ieri, quando il rappresentante della Tasmania Andrew Wilkie ha stretto un accordo coi laburisti, il 73 pari è diventato 74 a 73 per la Gillard. Il vantaggio (raccogliticcio) della Gillard non ha però spostato l’attenzione generale dai tre deputati indipendenti Katter, Oakeshott and Windsor; tanto che ieri il quotidiano Australian - il più diffuso del Paese - ha titolato con enfasi “Katter, Oakeshott e Windsor affrontano il fine settimana più lungo delle loro vite”. Già, perché pare proprio che questo weekend possa essere decisivo per i destini politici della nazione, ancor più dopo gli ottimi dati economici diffusi dall’Abs, che impongono alla politica di darsi una mossa. Il fatto è che i tre deputati indipendenti (tutti “di destra”, tutti cresciuti tra le fila poi abbandonate del Partito Nazionalista) non fanno gruppo e pretendono di essere corteggiati uno per uno. Finora, ognuno di loro ha avanzato le sue richieste ai due candidati. Richieste tutte strettamente legate alle specificità dei piccoli collegi (80mila abitanti) che li hanno eletti e poco riconducibili a logiche politicopartitiche. Insomma, la Gillard è in vantaggio, ma Abbott

E il governo “appeso” si trasferì in Australia A dieci giorni dal voto, la nazione cresce economicamente. Senza un esecutivo di Antonio Funiciello

Il professor Olivetti spiega: «Nel Paese non è previsto un vero e proprio voto di fiducia iniziale. Ci si basa su regole non scritte» può ancora sperare di stringere un accordo con tutti e tre gli indipendenti, finendo 76 a 74: in teoria, vista la “provenienza” dei tre indipendenti, è uno scenario più che probabile. Infine, non si può neppure escludere la possibilità che un deputato scelga la Gillard (magari Oakeshott, a cui pare sia stato offerto un ministero) e due (Katter e Windsor) finiscano con Abbott, per un risultato finale di 75 a 75. Nel qual caso, il temuto stallo istituzionale dello hung parliament diverrebbe una realtà. Marco Olivetti, che insegna

Diritto Costituzionale a Foggia ed è un esperto di cose istituzionali australiane, ci spiega: «L’Australia ha un sistema di governo ispirato a quello del Regno Unito. A differenza di quest’ultimo ha una Costituzione scritta, ma le regole sulla forma di governo sono - come in Gran Bretagna, Canada e Nuova Zelanda - quasi del tutto non scritte. Sono cioè delle convenzioni costituzionali, vale a dire delle prassi, basate su precedenti e ritenute obbligatorie dagli operatori politici, ma non invocabili davanti ai giudici in

un processo. La regola di fondo, fra queste convenzioni, è quella del responsible government, in virtù della quale il Governatore generale deve nominare Primo ministro il capo del partito che controlla la maggioranza dei seggi nella Camera, o quantomeno che sia “tollerato” dalla Camera stessa. Non è previsto un vero e proprio voto di fiducia ini-

ziale». In una situazione frammentata e confusa come quella che si profila per il week end a Canberra, centrale diviene il ruolo di Quentin Alice Luise Bryce, prima Governatrice donna della storia, rappresentante in terra d’Australia della Regina Elisabetta II. Prosegue Olivetti: «La Bryce è stato nominata nel 2008 su designazione di Kevin Rudd (l’ex premier e leader laburista defenestrato tre mesi fa dalla Gillard, n.d.r.) ed è dunque vicina al Partito Laburista, oltre che parente di un deputato labour. La sua è oggi una posizione molto difficile. Nell’immediato opera la cosiddetta caretaker convention, in virtù della quale il Primo ministro uscente, in assenza di una maggioranza parlamentare chiara per la coalizione che gli si è opposta alle elezioni, può restare in carica e presentarsi al Parlamento. Ma in Parlamento, ove fosse sconfitta in un voto avente portata fiduciaria, la Gillard dovrebbe dimettersi e, in quel caso, la Bryce dovrebbe nominare Abbott». Lo scenario prospettato dal Professor Olivetti si complica ulteriormente nella circostanza in cui neppure Abbott risulti in grado di passare indenne le forche caudine della Camera dei Rappresentanti. «Nel caso in cui anche Abbott fosse sfiduciato - conclude Olivetti potrebbe però chiedere alla Bryce, e forse ottenere, uno scioglimento anticipato. A quest’ultima soluzione si potrebbe ricorrere anche prima, qualora la nuova Camera non riuscisse nemmeno ad eleggere il suo Presidente, dimostrando così di essere incapace di funzionare. Sin qui le convenzioni. Prevedere ciò che accadrà mi sembra, di fatto, difficile. La Gilliard mi pare molto coriacea, quindi non credo che getterà facilmente la spugna, perché in un caso simile verrebbe forse fatta fuori dal suo partito (che ha cambiato cinque leader in questo decennio). Ma forse il suo ritiro, ove non riuscisse a convincere gli indipendenti, è la cosa meno improbabile». I meteorologi, da par loro, prevedono freddo sulla capitale per il weekend infuocato che attende non solo i tre indipendenti, ma tutto il mondo politico australiano. Poco probabile, comunque, che il freddo delle intemperie previste basti da solo a smorzare gli animi battaglieri dei protagonisti.


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Oltre 10mila camion incolonnati sulla rotta verso Pechino

Continua la spirale di violenza al confine con il sud del Texas

Mongolia, 150 chilometri di coda ferma in autostrada

Messico, 25 narcos muoiono in un blitz

PECHINO. Non accenna a dimi-

CITTÀ DEL MESSICO. Sembra impossibile fermare l’eccidio e la spirale di violenza che sta colpendo ormai da mesi lo stato messicano di Tamaulipas, nel nord ovest del Paese, alla frontiera nordamericana con il Texas. Teatro delle sanguinarie scorrerie dei narcos del cartello Zetas, a cui viene attribuito il recente eccidio di 72 migranti, i cui corpi sono stati trovati in una fossa comune presso San Ferdinando. E dove ieri sono stati registrati altri due episodi di violenza che danno una misura di un montante clima da guerra civile. Vicino a Monterrey, la capitale industriale del Messico, i militari hanno ingaggiato uno scontro a fuoco con elementi criminali dopo aver

nuire o a muoversi l’enorme fila di camion incolonnata su un’autostrada nella regione cinese nord-orientale della Mongolia Interna. Sono oltre 10mila gli autocarri, che trasportano soprattutto carbone, bloccati in una maxi-coda che ha raggiunto i 150 chilometri. La televisione di Stato riferisce che l’autostrada tra Pechino e la provincia dell’Hebei «è ormai niente di più che un grande parcheggio». A peggiorare la situazione le altre strade, quelle che portano all’autostrada, che si stanno di conseguenza paralizzando. Le autorità invitano a evitare quelle tratte, dove oramai gli autisti hanno montato dei piccoli villaggi di tende dove si balla e si vive tutti insieme. Soltanto una settimana fa le autorità erano riuscite a sbrogliare un altro maxi-ingorgo di 100 chilometri, durato 7 giorni.

Ma il problema è destinato a ripresentarsi: l’enorme numero di nuove immatricolazioni che si è registrato nell’ultimo anno dimostra che gli acquirenti di autovetture in Cina, soprattutto nelle grandi città, aumenta ogni anno del 20%, una proporzione enorme considerando che le autostrade risalgono ai primi anni Settanta. Il governo centrale non può fare molto per

I nemici della pace uniti in Medioriente Terroristi palestinesi (e l’Iran) insieme contro i colloqui di Pierre Chiartano entre a Washington continuano le liturgie di un processo di pace valido quanto la partenogenesi del fronte palestinese – spaccato tra laici e islamisti – i nemici di una composizione pacifica della vicenda palestinese sono all’opera.Tredici gruppi armati palestinesi di Gaza, fra cui il braccio armato di Hamas, hanno scelto di unire le proprie forze contro Israele e i negoziati di pace in corso a Washington. I movimenti hanno messo a punto un centro di coordinamento delle loro iniziative contro lo stato ebraico. «Abbiamo deciso di creare un centro di coordinamento per le nostre operazioni contro il nemico» israeliano, ha annunciato Abu Obeidah, il portavoce delle brigate Ezzedine al-Qassam, il braccio armato di Hamas, parlando a nome dei 13 gruppi. Giovedì, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il presidente palestinese Abu Mazen hanno deciso di incontrarsi di nuovo il 14 e il 15 settembre prossimi «nella regione» mediorientale, e successivamente ogni due settimane. Ma il portavoce di Hamas, Sami Abu Zuhri, ha affermato mercoledì che i colloqui di pace in corso «non sono legittimi, perché il popolo palestinese non ha dato nessun mandato ad Abu Mazen di condurre trattative in nome del nostro popolo». «Ogni risultato che verrà raggiunto nel corso di questi colloqui non impegna il nostro popolo, impegna solo lo stesso Abu Mazen», ha sottolineato Zuhri. Anche dal fronte iraniano arrivano attacchi al processo di pace riaperto negli Usa. Per il presidente iraniano i colloqui israelo-palestinesi sarebbero «nati morti». Un giudizio peraltro condiviso da molti osservatori americani che sottolineano le scarse possibilità che anche questo negoziato possa andare in porto. E Ahmadinejad, durante un discorso in occasione della «giornata di Gerusalemme», di sostegno ai palestinesi, ha proclamato che i colloqui di pace tra israeliani e palestinesi, che sono ripresi attraverso la mediazione di Washington, sono «nati morti» e «destinati al fallimento». In-

M

tanto monta la tensione sul fronte libanese che è un termometro delle tensioni tra Teheran e Gerusalemme. Giorni fa era comparsa la notizia di un accordo operativo tra le formazioni sciite e Damasco. I reparti libanesi di Hezbollah e l’esercito siriano avrebbero dato vita ad una cooperazione militare, in vista di un possibile conflitto armato con Israele, secondo quanto riportava la stampa kuwaitiana. C’è da chiedersi quanto convenga a Hezbollah condividere informazioni militari, con il comando siriano, assai più permeabile delle milizie sciite alla ”fuga di notizie”.

Anche il quotidiano israeliano Ha’aretz sostiene che Hezbollah e Damasco avrebbero creato un quartier generale unificato, oltre a scambiarsi informazioni sui possibili bersagli strategici israeliani. Le due forze armate inoltre si dividerebbero i fronti in caso di attacco israeliano, oltre ad aver lavorato a dei piani su una possibile offensiva di artiglieria contro le forze dello Stato ebraico. Il premier Benjamin Netanyahu ha già chiesto alla Russia di bloccare la vendita di armi alla Siria e, il prossimo 5 settembre, il ministro della Difesa israeliano, Ehud Barak, si recherà a Mosca per incontrare l’omologo russo Anatoli Seryukov. Durante il meeting dovrebbe essere discussa la fornitura russa alla Siria dei missili supersonici P-800 Yakhont, che Israele considera pericolosi per le sue navi militari nel Mar Mediterraneo, ma si parlerà anche dei sistemi di difesa aerea S-300 che Damasco e Teheran stanno cercando di acquisire dalla Almaz-Antey e del sostegno russo alle sanzioni stabilite dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite contro il programma nucleare iraniano. Ciò che non è chiaro ancora e quanto Hezbollah abbia voglia di farsi coinvolgere in un altro conflitto contro Tsahal, l’esercito d’Israele. Secondo fonti d’intelligence locali, gli sciiti starebbero vigilando affinchè non ci sia alcuna provocazione contro Israele lungo la Blue Line.

«Creeremo un centro di coordinamento», ha annunciato Abu Obeidah, portavoce delle brigate Ezzedine al-Qassam

frenare la situazione: se teme i maxi-ingorghi, infatti, teme molto di più la fuga dei produttori stranieri di autovetture. Con conseguenze disastrose anche per l’ambiente. Per la prima volta da un decennio le emissioni di Co2 nel mondo sono diminuite, tranne che in Cina e India dove esse sono aumentate a dismisura. Lo afferma uno studio del Center for International Climate and Environmental Research di Oslo, secondo cui il calo globale è stato dell’1,3%. Nella “classifica degli inquinatori” stilata dagli esperti norvegesi, però, la Cina risulta saldamente al primo posto, con il 24% delle emissioni di Co2 mondiali.

fatto irruzione in un campo di addestramento utilizzato dagli Zetas, nella località di General Tervino. Bilancio, 25 narcos uccisi, due soldati feriti, liberate tre persone che la banda aveva rapito, sequestrati 23 fucili d’assalto e 23 veicoli, tra cui due dipinti in modo da sembrare mezzi militari. La sparatoria ha avuto luogo dopo che una ricerca aerea aveva rilevato la presenza di uomini armati all’esterno di un edificio.

A Tampico, invece, si sono consumati in poche ore il rapimento e la liberazione dell’imprenditore Fernando Azcarraga, ex sindaco della città e cugino di Emilio Azcarraga Jean, proprietario di Televisa, il più potente network televisivo del Messico e il più importante in lingua spagnola del mondo. L’imprenditore è stato sequestrato da un gruppo di uomini armati insieme a un accompagnatore all’uscita di un ristorante situato nella zona residenziale di Tampico. Azcarraga è stato per due volte sindaco della città come esponente del Partito rivoluzionario istituzionale (Pri), attualmente all’opposizione. Forze dell’esercito sono stato subito dislocate nella zona per intercettare i rapitori. Poco dopo è stato liberato.


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spettacoli

Cartolina da Venezia. Il «piccolo» film di Stefano Incerti offre un’occasione strepitosa all’interprete che tornerà al Lido con «Noi credevamo» di Martone

Toni Servillo, l’antidivo Napoli, il cinema, il teatro: ritratto di un grande attore che ha fatto ancora centro con «Gorbaciof» di Andrea D’Addio

VENEZIA. Dall’Andreotti di Paolo Sorrentino al Gorbaciof di Stefano Incerti. Sì, è vero, qui in realtà non si parla del leader russo, Gorbaciof (con la f invece che l’originale v come lettera finale) è solo il soprannome con cui gli amici di poker chiamano il protagonista del film, Marino Pacileo, a causa di un’analoga estesa voglia di fragola sulla fronte, ma il personaggio interpretato da Toni Servillo è comunque uno di quelli che bucano lo schermo. O forse a bucarlo è semplicemente Toni Servillo, qualsiasi cosa faccia, che sia cinema e teatro. In Gorbaciof interpreta un cassiere del carcere di Poggioreale con il vizio per il gioco d’azzardo. Per sedersi al tavolo prende in prestito (quando vince poi li restituisce) o ruba (quando perde) soldi dalla cassaforte dell’istituto. Pensa di avere tutto sotto controllo, finché non ci va di mezzo l’amore per una giovane cameriera cinese che lo porta a rischiare più del solito, a mettere in gioco la propria vita per pagare i debiti accumulati.

Nella prima mezz’ora di film Servillo pronuncia due parole, in tutti i novanta minuti non più di cento. È un’interpretazione fatta di silenzi, carica di piccoli dettagli, così come ha dichiarato lui stesso qui a Venezia, dove il film è stato presentato fuori concorso. «All’inizio c’erano più dialoghi. Io ho invece suggerito di snellire, di mandare avanti la macchina da presa e seguire il personaggio utilizzando il contesto reale del quartiere di Vasto, popolato da una fauna multiculturale che mi ha molto ispirato. Nei giorni precedenti all’inizio delle riprese mi sono vestito e truccato come il mio personaggio, e sono andato a zonzo per il quartiere, pensando che qualcuno mi riconoscesse e magari mi dileggiasse per quella maschera che stavo indos-

sando. Invece non mi ha filato nessuno, e allora ho capito che ero diventato espressione di quell’ambiente. Questa situazione mi ha molto eccitato, e allora ho iniziato ad osservare altre figure del quartiere per trarne ispirazione per comportamenti, attese, speranze e reazioni». Grazie all’innamoramento (qualcosa di più spontaneo e naturale rispetto all’ossessione per la barista di Le conseguenze dell’amore) di Gorbaciof, per la prima volta in un film vediamo Toni Servillo sorridere. C’è una prima volta per tutto. «Come diceva Orson Welles, la forma d’arte più vicina all recitazione è la scultura. In entrambi i casi bisogna lavorare per sottraione per raggiungere l’originalità: il personaggio in un certo senso è un dolmen, troppo più importante dell’uomo».

Toni Servillo ama i progetti difficili: non è solo la caratterizzazione più o meno particolare di un personaggio a spingerlo ad accettare il ruolo, ma tutto il progetto. Gorbaciof non ha ricevuto sovvenzionamenti statali e di questo l’attore nato ad Afragola cinquantuno anni fa, ne va fiero: «Solo fondi privati, un caso inedito in questa Italia». La sua è una notorietà esplosa tardi, nonostante i più attenti conoscitori di teatro, e non solo napoletano, seguissero le sue interpretazioni da quando alla fine degli anni Settanta fondò a Caserta un gruppo d’avanguardia che si chiamava «Propaganda 2» che poi, negli anni Ottanta, confluì nel gruppo Teatri Uniti fondato «a sei mani» con Mario Martone e un altro grande attore napoletano (prematurlmente scomparso), Antonio neiwiller. Ma proprio con il regista napoletano, Servillo ebbe il suo debutto cinematografico con una piccola parte in Morte di un matematico napoletano. Era il 1992 e da allora, fino all’inizio della collaborazione con Paolo Sorrentino, il talento cinematografico di Servillo rimase nascosto ai

più. Nel 2001, quando Sorrentino presentò lo splendido L’uomo in più (forse ad oggi il suo migliore film, sicuramente il più fluido e lineare), si parlò di Servillo non in quanto attore di teatro finalmente giunto alla ribalta cinematografica, ma come del fratello di Peppe Servillo, il cantante degli Avion Travel (che nel 1998 avevano partecipato, con successo, al festival di San Remo).

Fu solo tre anni dopo con Le conseguenze dell’amore che arrivò la consacrazione. Fu presentato a Cannes e vinse il David di Donatello come migliore protagonista (poi bissato con La ragazza del Lago). Da allora ad oggi, le sue sono state tutte scelte vincenti: appunto, La ragazza del lago, poi Gomorra e Il Divo. Ieri, alla fine della proiezione di Gorbaciof, Eric J. Lyman dell’Hollywood Reporter ci ha dichiarato come per lui sia «Il migliore attore italiano, uno dei migliori in Europa» ed è notizia recente che la regista e attrice francese Nicola Garcia lo ha scelto come protagonista del suo prossimo Un balcon sur le mer. Insomma, anche all’estero ormai si sono accorti di Toni Servillo, non a caso uno dei pochi in Italia che, facendo comparire il proprio nome sulla locandina di un film, riesca a portare pubblico al cinema. La

popolarità

conquistata con il cinema ha giovato anche ai suoi progetti teatrali. Sia come attore sia come regista, è stato invitato a portare i propri spettacoli sui più prestigiosi palcoscenici italiani ed europei (Napoli, Roma, Milano, Parigi, Mosca, Lisbona). La sua passione? Eduardo De Filippo e Carlo Goldoni. «Per me che sono napoletano, Eduardo De Filippo fa parte della mia vita di bambino, fin da quando avevo cinque anni ne sentivo parlare da mio padre, dai miei zii: tutti suoi spettato-

ri affezionati che citavano a memoria le sue battute più famose. Considero Eduardo una mia figura parentale. Goldoni l’ho scoperto dopo, con lo studio, ho per lui un altro tipo di passione e ammirazione, ma lo accomuno a De Filippo per la sua capacità di essere spietato quando si tratta di fare critica sociale italiana. In generale non mi piace quel teatro fatto di vanità, esibizionismo e mortificazione intellettuale, quello che non si mette in empatia con il pubblico per gioire assieme dell’intelligenza Mi piace un teatro fondato sulla vita, che, partendo dal testo, sappia trasmettere un’energia che vada al di là delle parole e dei gesti». Insomma, nulla di snob o altezzoso, come erroneamente si presume (leggendo le interviste o guardando la sua filmografia) che siano i suoi gusti. Ulteriore prova in tal senso fu l’incontro con Carlo Verdone che tenne all’interno del Festival di Roma due anni fa, moderato da Mario Sesti. Spinto a scegliere quattro tra le migliori prove da attore del collega, Servillo decise di rivedere anche la scene con le prostitue di C’era un cinese in coma. «Ogni volta che la guardo, sto


spettacoli

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Accolta da fischi e applausi, sembra destinata a spaccare in due pubblico e critica

I silenzi senza fine firmati Sofia Coppola Divide (e delude) “Somewhere” della figlia di Francis Ford, regista furbetta e mestierante che ridicolizza l’Italia di Alessandro Boschi

A destra, la regista Sofia Coppola. In alto e a sinistra, due immagini di Toni Servillo, protagonista del nuovo film di Stefano Incerti “Gorbaciof” quasi male per il ridere. La trovo geniale, una delle più divertenti del cinema italiano per come gioca sul senso di inadeguatezza dei personaggi per costruire l’elemento comico».

Toni Servillo sarà presente nuovamente sugli schermi veneziani il prossimo martedì con Noi credavamo, lunga pellicola (oltre tre ore) diretta dall’amico Martone sul Risorgimento, selezionata per il concorso ufficiale. Sarà Giueppe Mazzini, punto di riferimento di tre giovani meridionali decisi a diventare patrioti dopo la respressione borbonica dei moti del 1928. Se il film avrà lo spessore e il successo di pubblico che tutti si augurano, nel tempo il suo volto si confonderà sempre un po’ con quello del creatore della Giovine Italia. Una bella scommessa per un attore che non ha mai temuto le sfide.

VENEZIA. Somewhere è il nuovo film di Sofia Coppola presentato in concorso alla 67^ edizione della Mostra di Venezia. Supponiamo che i fischi e gli applausi che hanno accolto la pellicola finiranno anche con il riflettersi sulla valutazione del film con una certa equità. Nel senso che la piccola Coppola sembra destinata a dividere, realizzando film che possono essere ritenuti urticanti o affascinanti. Dal nostro punto di vista, dovendo scegliere tra Reign of assassins di John Woo e Somewhere non avremmo dubbi, preferendo di gran lunga il clangore delle spade e la dinamicità del kung fu ai silenzi senza fine e allo sguardo immoto del protagonista Stephen Dorff. Il che non significa che il film di Sofia Coppola sia tutto da buttar via. Certo è che la giovane rampolla di Francis Ford, già premio Oscar per Lost in translation, sembra avere capito che tipo di giochino le riesce meglio, e che tipo di giochino le serva per affascinare i suoi adepti. O per urticarli, come dicevamo. Si inizia con il protagonista che gira a vuoto con la sua Ferrari percorrendo un circuito, chiaro simbolo di una esistenza inane. Il termine inane non ci piace molto ma supponiamo che potrebbe essere quello preferito dalla regista. Poi, andando avanti con silenzi e situazioni volutamente ripetitive ma di fatto ripetitive, condite, questo sì, da divertenti spruzzate di ironia (molto glamour, peraltro), si arriva all’ingresso in campo di una figlia, la deliziosa e bravissima Elle Fanning, e di una moglie, dalla quale il nostro ovviamente è separato... perdonateci, un momento di “diretta”... esattamente in questo momento il Lido è frustato a sangue da una tempesta di dimensioni bibliche. Non sappiamo francamente se il gazebo che ci ospita riuscirà a passare indenne. A nostra memoria non ricordiamo una tempesta di acqua e di vento di queste proporzioni: sono esattamente le 12.02, anno 2010... questo vi doveva il vostro inviato alla Mostra, che in questo momento, credetemi, sta vivendo momenti epici, da vero eroe…

la Sofia ci sembra un po’ furbetta, giovane ma già mestierante. Il film ha comunque un momento di autentico divertimento nella trasferta di padre e figlia in Italia, precisamente a Roma.

Lui, Johnny Marco alias Stephen Dorff, è un attore di successo con una passione smodata per pasticche e donne, anche se per queste ultime la passione è più che altro nelle intenzioni. Forse a causa delle pasticche. Si reca quindi nella nostra capitale per ricevere, guarda un po’, un Telegatto. Ed è qui che la dolce Sofia ci fa letteralmente a pezzi. Quello che ci chiediamo è come personaggi come Simona Ventura e Nino Frassica, che premiano Johnny Marco con l’ambito trofeo, abbiano accettato di rappresentare il peggio del nostro Paese, mostrandosi peraltro esattamente come sono: chiassosi e beceri. Va detto che forse a loro poco importa del risultato, quello che importa è esserci, fare ad ogni costo parte del cast di un film comunque prestigioso. E non vengano a dirci che “tanto è uno scherzo”, o come va di moda ora “è solo folklore”. A nostro avviso i nostri eroi televisivi hanno ben percepito che non c’è più nessun limite a quello che si può e non si può fare in tivù, tutto è concesso, fa curriculum, anche farsi prendere in giro da un film snob. Avanti con la trama. In questa venuta a Roma il protagonista incontra anche una bellezza locale, una delle tante fiamme sparpagliate per il mondo. Serviva, immaginiamo, una bellezza italiana, e cotanta fortuna è toccata alla nostra Laura Chiatti, che sempre parlando di curriculum potrà aggiungere queste due fugaci pose. Purtroppo, come già in altri casi, quando Laura recita in inglese è molto più credibile di quando non lo faccia in italiano. La sua telefonata di lavoro, si capisce che anche lei è una attrice (lo è sul serio) è davvero una modesta prova di recitazione. Ma forse era quello che serviva al film. La storia prosegue poi con la repentina fuga dall’Italia (padre e figlia sembrano terrorizzati da quanto hanno visto) e con il ritorno di Marco al mitico albergo Chateau Marmont dove risiede (gli alberghi, altro topos del cinema della piccola Coppola). Il film non centra il finale, e quindi si accontenta di compiere il percorso che lo riporta all’inizio, con il protagonista che riprende a correre in auto e che, forse dopo avere terminato la benzina, prosegue sorridente a piedi verso un futuro pregno di speranza. Questo è, intanto ci consoliamo con John Woo, che con Reign of assassins ci tira su il morale. In fondo ci basta poco, anche noi siamo italiani.

Il film non è tutto da buttar via. Quel che è certo però è che la giovane cineasta ricorre a mezzi e trucchetti già visti e utilizzati nell’opera che l’ha vista premio Oscar: il fortunato “Lost in translation”

Dicevamo della “cifra” della Coppola, che sa già come “tenere”i propri fan. Ad esempio riprendendo per il finale una situazione uguale al finale del fortunatissimo Lost in translation, quando Bill Murray dice qualcosa all’orecchio di Scarlett Johansson senza che lo spettatore riesca a percepire nulla, significando in quel caso il grande rispetto per l’intimità dei due. Qui c’è un’altra frase che rimane inascoltata, però dalla figlia, che non sente il padre manifestare i propri sensi di colpa: «Perdonami se ti lascio sempre sola». Insomma,


il personaggio della settimana

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Non ha pianto, non si è lamentato, si è semplicemente limitato a raccontare...

Oscar alla vita

È apparso in tivù smagrito e invecchiato. Eppure, rivelando il suo cancro alla gola, Michael Douglas ha dato l’interpretazione più bella della carriera: «Sono ottimista», ha detto. «E riuscirò a vincere» di Gabriella Mecucci

magrito, invecchiato ma ancora bello di una bellezza inusuale, imperfetta, fané, Michael Douglas ha fornito qualche giorno fa l’interpretazione più bella della sua vita. È accaduto nella trasmissione televisiva del suo amico David Lettermann. È andato lì e, fra una battuta e un sorriso, ha detto che aveva un cancro alla gola ad uno stadio molto avanzato. Non ha pianto, non si è lamentato, si è limitato a raccontare in modo asciutto di quella terribile scoperta fatta per caso e delle cure (radio e chemioterapia) a cui si sta sottoponendo. Ha avvertito che probabilmente la sua celebre voce carica di vibrazioni sparirà, inghiottita dalle radiazioni, ma ha anche detto che, nonostante la gravità del male, spera di farcela. E alla fine all’intervistatore-amico che gli chiedeva cosa potesse fare per lui, ha risposto: «Abbracciami».

S

Michael, il grande attore, pieno di successi, di denari, di donne si è mostrato come un uomo bisognoso di affetto e solidarietà, ma anche come una persona serena e combattiva davanti alla paura più grande. E stato trasparente. Non ha avuto timore nemmeno di mostrare qualche fragilità. Il coraggio vero è proprio questo: capire che si può soccombere, ma lottare per farcela, comprendere il rischio che si corre, ma saper sorridere, guardare in faccia la morte puntando però tutte le proprie carte sulla vita. Ne è venuta fuori un’immagine di un Michael Douglas sincero ed elegante che cerca di vincere il premio più bello: la vita. E che dà la sua battaglia con convinzione, con amore e senza retorica. Nei 65 anni precedenti, del resto, ha più volte dato prova di essere una persona di notevole spessore: capace di gioire delle proprie conquiste, di denunciare con sincerità i propri vizi, di far fronte ai drammi più dolorosi mettendoci tutto se stesso. Nacque nel 1944 da una di quelle famiglie che ti segnano per sempre. Il padre era il grande Kirk Douglas, l’attore preferito di quell’assoluto genio della cinematografia che è stato Stanley Kubrick. Papà era nato in Lituania nel 1916, sbarcò in America e lì costruì le sue fortune. Quando nacque Michael aveva già

38 anni, ma ancora non era iniziata la sua grande carriera. Più tardi cominciarono le luci della ribalta, ma la strada che lo condusse ad essere un mito fu rapida e poco accidentata. Come dimenticare Kirk nei panni dell’eroico avvocato Dax di Orizzonti di gloria, o il biondo Spartacus che capeggia la rivolta degli schiavi. Nei sogni di tanti adolescenti degli anni Sessanta era scolpita la risposta che dava ad Antonino: «Potevamo vincere Spartaco, potevamo vincere», «L’esserci ribellati è già una vittoria». Essere figlio di una leggenda che ha segnato l’immaginario di tanti uomini e di tante donne, di una roccia che resiste a tutto tantoché è ancora in vita e partecipa attivamente, alla tenera età di 94 anni, alle vicende famigliari, è un privilegio ma anche una tortura. È difficile costruire una propria personalità forte e autonoma, in presenza di un simile padre: non c’è giorno che non rischi di perdere il confronto. In ogni momento si può essere schiacciati dalla figura paterna o si può esserne risucchiati come da una gigantesca idrovora. C’è il pericolo che si finisca con l’oscillare fra una vita autonoma ma in secondo piano, e una continua soggezione rassegnandosi a partecipare alla Corte del Re di famiglia. E non finisce qui, quel ragazzo biondo e lentigginoso ha avuto anche una madre straordinaria, Diana Dill: grande attrice, anche se meno famosa del marito, donna molto attraente nonché scrittrice. Insomma, niente male. Diana e Kirk nel 1951 si separarono e i figli andarono a vivere con lei nel New Jersey, ma Michael non smise mai di coltivare una struggente nostalgia per la vita insieme, per la famiglia unita. Tanto è vero che nel 2003 realizzò un film al quale volle che partecipasse l’intero gruppo: madre, padre, fratello e lui medesimo. Il titolo emblematico: Vizio di famiglia.Vi si raccontava la storia di tre generazioni con molti cenni autobiografici. Michael da ragazzo ha studiato seriamente sino a diplomarsi nell’esclusivo college di Choate Rosmery Hall. Subito dopo ha abbandonato l’East Coast per andarsene all’università di California, dove si è laureato. Poi è stata la volta di Santa Barbara per seguire una scuola di recitazione. Nella giovinezza c’è stata

un’intensa frequentazione col padre, che gli insegnava i trucchi del mestiere. L’impegno di Michael per imparare tutto del mondo della celluloide è stato continuo, instancabile: ha fatto la comparsa, ha accettato parti minori, è diventato aiuto regista, ha lavorato in teatro. Non si è sottratto a nulla pur di raggiungere le vette di papà Kirk. Un impegno a tutto campo. E alla fine arriva il primo grande successo in modo del tutto inaspettato: a regalarglielo non è né il cinema né il teatro, ma il piccolo schermo. Ci vuole infatti l’indimenticabile serial televisivo Le strade di San Francisco, in cui appare quel giovanotto magrissimo, col volto spigoloso e le movenze molto sexy, perché diventi una star. In quei telefilm c’è già un’anticipazione di alcuni degli elementi che faranno la fortuna di Michael. Ormai la roulette della gloria è partita. E con questa arriverà molto altro. Douglas Junior, così lo chiamano ancora, realizza una serie di film formidabili. Di uno, forse il più bello e il più importante, non è l’attore protagonista, ma il produttore. Si tratta del celebre Qualcuno volò sul nido del cuculo a cui viene assegnato nel 1975 il premio Oscar come miglior film. Un paio d’anni prima Michael aveva fondato la Big Stik Production: un’attività alla quale non rinuncerà mai in modo definitivo e che ogni tanto riprenderà con passione e con successo.

Ma la strada maestra è quella dell’attore, punteggiata da opere che sono pietre miliari nella storia del cinema. C’è Wall Street, con cui vinse l’ Oscar nel 1988, che racconta la storia degli yuppies americani e del cinico Gordon. Quello del: «Il denaro non dorme», «Il successo si condensa in un attimo», «Vuoi un amico? Prendi un cane». Battute queste ripetute a tutte le latitudini. Il film di Oliver Stone rappresenta una critica durissima del reaganismo, critica che Michael Douglas condivide completamente. Come il padre è un convinto democratico. La Michael Douglas Foundation collabora attivamente con l’Onu e si fa promotrice di campagne pacifiste. Come molti ad Hollywood è un oppositore di Ronald Reagan e della “filosofia” esistenziale e politica degli anni


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I suoi amori dalla A alla Zeta (Jones) Nella vita di Michael Douglas i flirt si sono sempre susseguiti con ritmi frenetici. Ha amato attrici e attricette, ma anche prime donne bellissime: da Sharon Stone a Katleen Turner, sino a Demi Moore e a Glene Close. Negli anni ha addirittura confessato di essere stato dipendente dal sesso e dall’alcol. In mezzo al tourbillon erotico di Douglas junior, spunta un giorno la bellissima Katherine Zeta Jones, che in un’intervista di qualche tempo fa ha rivelato la sua ricetta di conquista a base di una forzata castità: «Ci siamo incontrati al festival cinematografico di Deauville. Michael presentava il mio film La maschera di Zorro. Ci siamo piaciuti subito. Ma poi conoscerci non è stato tanto facile, visto che Michael stava girando un film sulla East Coast e io lavoravo sulla West Coast. Quindi ci vedevamo solo nei giorni in cui eravamo liberi entrambi. Ci sono state tante cene romantiche a lume di candela, ma niente sesso. Michael mi ha corteggiata come un vero gentiluomo per nove mesi». Michael e la bella Katherine si sposano nel 2000, quando lei sta per dargli il primo figlio. Non sono in molti in realtà nell’ambiente hollywoodiano a voler scommettere sulla loro unione. E invece, inaspettatamente, il matrimonio dura ancora oggi e felicemente. Nonostante il cancro alla gola dell’attore, i due rimangono uniti con passione e coraggio. Scommettendo sulla vita.

Ottanta. Più tardi detesterà Bush e condannerà la guerra in Iraq. Questo suo orientamento politico lo ha portato a decidere di fare la seconda parte di Wall Street che avrebbe dovuto iniziare a girare in questi giorni: un nuovo atto d’accusa contro la finanza americana. La malattia gliel’ ha impedito, ma il progetto non è accantonato. Verrà ripreso a guarigione avvenuta. Accanto a Qualcuno volò sul nido del cuculo e a Wall Street, ci sono nella grande carriera di Michael altri film di enorme successo. Da Basic Istinct con la stupenda Sharon

Al suo amico David Lettermann, che in trasmissione gli ha chiesto cosa potesse fare per lui, l’attore ha risposto: «Abbracciami» Stone, in cui interpreta il ruolo del poliziotto sulle tracce di una efferata assassina («uccidere non è come fumare, si può smettere»). Sino ad Attrazione fatale con Glene Close, una pellicola che invita a rompere con la faciloneria dell’andare a letto con la prima che capita senza farsi carico delle conseguenze di quel gesto. E poi c’è La guerra dei Roses, storia della violenza che può accompagna-

re la vita di una coppia, Black rain di Ridley Scott, Delitto perfetto, remake da Hitchcock. Insomma, Michael negli anni Ottanta e Novanta è protagonista di una lunga serie di film straordinari tanto da far invidia al grande padre. Mentre trionfa a Hollywood, mette su famiglia, sposa e ha un figlio: Cameron. Ormai è diventato una sorta di icona del sex appeal maschile. Nella sua vita i flirt si susseguono: attrici e attricette, ma anche prime donne bellissime: da Sharon Stone a Katleen Turner sino a Demi Moore e a Glene Close. Michael racconta di essere dipendente dal sesso così come lo è dall’alcol. Non ne può fare a meno: dichiara che fa l’amore con più di una donna al giorno. E la notte è il suo regno. Cerca addirittura di fare una terapia di disintossicazione in casa di cura. Ormai però il matrimonio è saltato. E le conseguenze sono pesanti: il figlio Cameron vivrà la fine della famiglia come un dolore lancinante, mentre la consorte si consolerà con una liquidazione d’eccezione: ben 40 milioni di dollari che il povero - si fa per dire - Michael dovrà sborsare dall’oggi al domani.

In mezzo al tourbillon erotico di Douglas junior, spunta alla fine la supersexy Katherine Zeta Jones. I due si sposano a novembre del 2000 quando lei sta per dargli il primo figlio. L’attrice gallese, visti i precedenti di Michael non dice il fatidico sì, sino a quando i due non raggiungono un accordo economico. Gli esperti avvocati matrimonialisti di Hollywood lavorano a lungo e alla fine trovano un’intesa: qualora si arrivasse ad una rottura della coppia e ad un successivo divorzio, Katherine riceverà dal marito 3 milioni di dollari per ogni anno in cui sono stati sposati. Una delle donne più belle del mondo te-

me - così raccontano i giornali pettegoli - di essere mollata in quattro e quattr’otto. E paventa che durino troppo poco sia l’amore sia i lussi che Michael le assicura. Douglas paga cara la sua fama di Don Giovanni impenitente. Sembra che il legame prima che una love story fosse un business, e invece, inaspettatamente, il matrimonio dura molto a lungo. Anche se la Zeta Jones fa arrabbiare parecchie volte Douglas per i suoi chiacchierati flirt. Lui, dal canto suo, non abbandona il ruolo di amante insaziabile e scandaloso. Quando l’età potrebbe mettere a rischio le sue prestazioni comincia a far uso del Viagra. E lo dichiara senza mezzi termini a giornali e televisioni. Anche oltre i sessanta, insomma, il suo menage è all’insegna di vizi e stravizi. Una vita vissuta pericolosamente. E poi arriva il fatidico 2010, l’annus horribilis di Michael. Ad aprile c’è il processo a Cameron. Il figlio è accusato di traffico di droga e rischia una condanna a dieci anni di carcere. Scende in campo tutta la famiglia per difenderlo. Persino il vecchio Kirk dice la sua: rilascia interviste, lancia appelli, proclama il suo amore per il nipote. Katherine Zeta Jones nel momento più difficile per il marito, gli sarà particolarmente vicina. Scriverà anche una lettera al giudice in cui chiederà clemenza per Cameron. Michael si comporterà da padre affettuoso e - con una missiva bellissima prenderà su di sé tutte le responsabilità della cattiva condotta del figli. È colpa sua e solo sua se il ragazzo non è stato educato: troppo a lungo lo ha lasciato da solo, non si è occupato di lui. Eppure sapeva bene quanto sia difficile essere figlio di un padre famoso. Quanto sia faticoso costruire una personalità forte, autonoma, strutturata se la tua famiglia sì è sfasciata quando eri ancora piccolo.

L’outing di Michael è impietoso: una critica durissima della propria vita, uno squadernamento dei propri errori, una denuncia delle responsabilità. Il grande attore, il bello supersexy è nudo.

Un gesto drammatico quello di Douglas che “tocca le corde” dell’opinione pubblica e del giudice californiano che deve emettere la sentenza. Cameron evita la condanna a dieci anni e ne prende solo la metà. Alcuni giornali contesteranno questa decisione e la definiranno non imparziale. Michael si commuove, piange, ringrazia, polemizza. Il dramma del figlio si chiude così. Ma, dopo pochi mesi, di nuovo una tegola pesantissima. Questa volta riguarda lui, la sua salute. Douglas decide di parlarne pubblicamente, di raccontare a tutti il suo problema. Approfitta dell’invito allo show dell’amico Lettermann e vuota il sacco. Racconta tutti i particolari sul suo cancro. Dice che quella terribile malattia alla gola è causata anche dai suoi stravizi: il fumo, l’alcol. Una sorta di legge del contrappasso. Sua moglie non fa mistero delle responsabilità dei medici: la diagnosi dice ad una rivista patinata - è stata fatta con colpevole ritardo. Lui in trasmissione non ne fa cenno. Preferisce non polemizzare. La star adorata e super pagata si presenta in tutta la sua debolezza. Racconta le sue fragilità, le sue paure, le speranze. Dopo aver interpretato tanti uomini: ladri e poliziotti, mariti e amanti, avvocati e avventurieri, seduto in quella poltrona, magro e sorridente, non vuole più rifugiarsi nella fiction. In nessuna fiction. Non è più un personaggio, ma un uomo vero davanti al dolore e alla paura della morte. E la realtà è più toccante e commovente di qualsiasi costruzione hollywoodiana.


ULTIMAPAGINA Fumetti. Compie 46 anni il personaggio creato dall’argentino Joaquim Salvador Lavado (in arte “Quino”)

La mezza età della bambina stava tuffandosi dritta dritta nell’errore delle torture e dei desaparecidos. Il pianeta non si comportava meglio alle prese con consuetudini come il colonialismo, l’apartheid, le dittature, il razzismo. Ad aizzare la fantasia di Quino ci pensava il suo vicino di casa, Jorge Garin, oggi ottantaseienne, che ogni mattina gli portava i giornali da cui traeva lo spunto per i quattro quadri che compongono di solito le vignette di Mafalda. In fondo l’atteggiamento della piccola ribelle non cambia molto, basta cambiare le parole, al posto del Vietnam l’Iraq e al posto dell’Angola l’Afghanistan e il gioco è fatto. Anche la sostanza del vivere più o meno non muta nello scorrere del tempo: la società consumistica, la finanza debole, la psicoanalisi, la famiglia che si sbriciola, gli ideali che scemano e tutti i diritti che mancano alla gente comune, da quello della dignità a quello della felicità. Il Dio in cui crede è presente ovunque nel pia-

di Marco Ferrari ompirà in questi giorni 46 anni la bambina più ribelle del pianeta, Mafalda, anche se ufficialmente di anni ne avrebbe sei. Come Charlie Brown o Pippi Calzelunghe, l’eterna fanciulla non muta di una virgola il suo atteggiamento curioso e indagatore verso gli adulti, ai quali piace non legarsi e ai quali pone domande imbarazzanti sui destini umani. Da un anno, poi, la bambina filosofica delle vignette è diventata un’attrazione turistica, vale a dire un monumento all’angolo tra Calle Chile e Defensa nel quartiere di San Telmo, a Buenos Aires, dove è nata. L’artista Pablo Irrgang, lo ha disegnato e modellato in taglia naturale, circa 40 centimetri di altezza. L’inventore di Mafalda, Joaquim Salvador Lavado, detto Quino, 77 anni ben portati, argentino errabondo tra Buenos Aires, Madrid e Parigi, si mostra sorpreso di quanto sta avvenendo alla sua figlioccia: «Non so che dire» sospira davanti al monumento, aprendo le braccia, tra una foto e l’altra, mentre riceve la medaglia del Bicentenario dell’indipendenza argentina. Mafalda ha avuto i natali proprio qua, al decimo piano di un edificio anni sessanta con una facciata anonima dove vide la luce il 29 settembre del 1964, anche se le biografie ufficiali affermano che quel giorno aveva già due anni e mezzo. Quello era un paese agonizzante di flebili democrazie con personaggi politici di origine italiana, Frondizi, Guido, Ongania e Illia che si succedettero alla guida della Casa Rosada in un periodo di ambiguità che spense per sempre i sogni degli emigrati.

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Per queste ragioni l’enfant terrible è lo specchio dell’umore acre e pungente dell’Argentina incredula di non avere più un destino come si deve, gettato via da corruzione, militarismo, mancanza di cultura politica. Dalla finestra di quell’appartamento Mafalda urlò la sua rabbia di stare in un mondo sbagliato e l’odio per la zuppa. Certo, la udirono bene personalità come Julio Coltazar e Gabriel Garcia Marquez, che ne lodarono subito la sua precoce intelligenza, la scelsero come simbolo la rivista Primiera Plana e il quotidiano El Mundo, ma il popolo fece finta di niente e così la situazione precipitò di lì a poco in una delle dittature più feroci e repressive del Novecento. In realtà la bizzosa bambina era stata ideata nel 1963 sotto il segno della pubblicità, come confessa Quino. Infatti una società di apparecchi elettrici gli aveva commissionato una storia su una famiglia composta da padre, madre e figlia. Rammentando la protagonista di un romanzo di David Viñas, chiamò la piccola Mafalda, un nome quasi uguale al marchio che doveva propagandare. Tutto finì lì sino al contatto con la rivista Primiera Plana che fece riemergere quella figura così inusuale

MAFALDA neta e segue l’evoluzione dell’uomo al punto che Mafalda ha quasi pietà per quello che gli tocca vedere ogni giorno. A concordare con i suoi pensieri ci sono i Beatles che condividono con lei ogni pensiero, non soltanto musicale sino al punto che la burbera argentina li farebbe tutti insieme «presidenti del mondo». Lo scenario della sua vita è composto da mamma, papà, il piccolo fratello Guille e i compagni della sua età: Liberdad, intellettuale scettica, Filipe l’indeciso, Manolito il sognatore, Manuelito l’egocentrico e Susanita che ambisce ad avere un marito ricco.

A stimolare la fantasia dell’autore ci pensava ogni mattina il suo vicino di casa, Jorge Garin, oggi ottantaseienne, che gli portava i giornali da cui traeva lo spunto per i quattro quadri che compongono di solito le vignette di piccola peste bubbonica con la bocca perennemente aperta, la testa nera, gli occhi indagatori. Da allora Mafalda si interroga su tutto: dalla guerra del Vietnam al debito dei paesi poveri, dai problemi della fame sino ai bond argentini, ma ottiene dal padre urlante sempre la stessa risposta: «Le tue domande mi apportano solo problemi!».

I sospiri di Mafalda contengono la felicità perduta di una nazione mentre i suoi dialoghi idealisti e pacifisti si scontrano con l’affievolirsi delle speranze di quella generazione che

A sinistra, una “auto-caricatura” dell’autore di Mafalda, Joaquim Salvador Lavado (in arte “Quino”)

Quino guarda la sua creatura diventata monumento e se ne va con l’inseparabile amico di sempre, Jorge Garin che un tempo faceva le scale di corsa con la risma dei giornali e oggi sale piano piano. Ma poi l’artista si volta e guarda la sua figlioccia: «Mi spiace lasciarla sola là in mezzo alla strada». Mafalda sorride appena per rassicurarlo: oramai la maturità incalza e si sente in grado di fare domande, oltre che a suo padre, ai passanti e agli abitanti San Telmo che la sentono una di loro.


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