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Spesso è da forte,

più che il morire, il vivere Vittorio Alfieri

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MARTEDÌ 7 SETTEMBRE 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

È stato freddato davanti casa in modo brutale: nove colpi in faccia. «È morto per aver combattuto la malavita», dice il Pm

Uccidono il Sud moderno Assassinato dalla camorra Angelo Vassallo, sindaco del Salernitano, considerato un modello di eccellenza amministrativa. Un monito anche per il Nord: il Mezzogiorno non va lasciato solo Dopo “la svolta” di Mirabello

Il rilancio di Casini: «Con Fini e Rutelli possiamo vincere»

di Errico Novi

Grandi manovre finanziarie stanno ridisegnando le proprietà

ROMA. Nove colpi in pieno volto, esecuzione bestiale e mostruosa per Angelo Vassallo, sindaco di Acciaroli, o meglio di Pollica. Per il Pm, non ci sono dubbi: Vassallo dava fastidio alla camorra. Insomma, era un pezzo di Sud che voleva - e poteva - salvare se stesso. Per questo è stato uccido, perché la speranza rovina gli affari alla camorra. E non solo a lei. Pollica-Acciaroli, infatti, è un’oasi felice, un luogo dove la legalità e la tutela dell’ambiente danno profitti. a pagina 2

Nessuno lo dice, ma ormai l’Italia è in svendita di Giancarlo Galli

Parla Biagio De Giovanni

«Ecco come si può battere la “camorra globale“» Ospite della festa del Pd a Torino, il leader centrista precisa: «Se il governo cade non è detto che si vada subito a votare. Prima bisogna cambiare la legge elettorale»

Ci vuole una grande battaglia culturale per convincere che la legalità è “utile” Francesco Lo Dico • pagina 4

Applauditissimo il discutibile “santino“di Placido

Venezia, Vallanzasca vince le primarie

Riccardo Paradisi • pagina 8

Le singolari tesi di parti del centrodestra

Il regista alla Grillo: «In Parlamento c’è di peggio”

Se la maggioranza c’è non parlate di elezioni

Dalla risposta a questa domanda dipende il futuro dell’intero Paese

Può prevalere il merito nella scuola di massa? di Francesco D’Onofrio

VENEZIA. Al Lido scoppia il caso Vallanzasca. Anzi il caso Placido. Perché il suo film sul bandito milanese è tecnicamente perfetto ma «moralmente» discutibile. Non è tanto l’agiografia di un criminale quanto un pezzo di storia d’Italia raccontato dal punto di vista dell’omicida. E così il criminale è diventato un divo. Lo stesso Palcido non ha placato gli animi quando ha risposto alle polemiche dicendo «in fondo in Parlamento ci sono persone che hanno fatto cose peggiori».

rima del discorso di Mirabello sia Berlusconi sia Bossi avevano un problema che continuano ad avere: andare a votare attribuendo la responsabilità del voto anticipato al presidente della Camera. Infatti, il discorso di Fini sotto il profilo istituzionale e della stabilità di governo è stato ineccepibile: ha offerto un patto di legislatura ed è stato chiaro tanto sul federalismo quanto sullo “scudo”per il premier e ha escluso ogni ribaltone. Insomma, per dirla con una sola parola, Fini ha teso la mano e ha mostrato lealtà. a pagina 8

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CON I QUADERNI)

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di Alessandro Boschi

di Giancristiano Desiderio

EURO 1,00 (10,00

i quel che veramente sta maturando nel retrobottega della finanza e dell’imprenditoria i comuni mortali ben poco capiscono. «Al contadino non far sapere quanto è buono il formaggio con le pere», m’ammoniva mia nonna. a pagina 12

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• ANNO XV •

NUMERO

173 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

egli ultimi tempi si fa un gran parlare di merito scolastico e merito universitario. Più di un commentatore politico ha evidenziato che vi è una resistenza culturale ad affermare il primato del merito scolastico.

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IN REDAZIONE ALLE ORE

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19.30


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Senza difese. Non bastano anni di primati nelle classifiche di Legambiente a salvare un amministratore modello dalla voracità della malavita

Attacco all’altro Sud

Assassinato Angelo Vassallo, primo cittadino di Acciaroli, la “perla del Cilento”. «Aveva respinto i clan, era preoccupato», dicono pm e deputati dell’Antimafia di Errico Novi

ROMA. Entri in Acciaroli e un cartello ti avverte: «Questo è il Paese di Hemingway». Perché è vero. Tra le molte meravigliose leggende che avvolgono la perla del Cilento, terra di filosofi magnogreci e prima ancora di sbarchi omerici, tra le tante storie c’è anche quella secondo cui lo scrittore americano avrebbe incrociato qui il vecchio e il mare. Quell’avviso non basta a tenere lontane le belve. Se ne infischiano del sacro limite che divide letteratura e mito dalla loro vita subumana. E sparano. Nove colpi in pieno volto, esecuzione bestiale e mostruosa per Angelo Vassallo, sindaco di Acciaroli, o meglio di Pollica.

Era il paese di Hemingway, da ieri anche qui il morbo letale del crimine lascia il suo veleno. Eppure la camorra non c’entra nulla con quelle spiagge, con l’azzurro limpido di quel mare e il verde delle colline che ci si tuffano dentro. Non c’entra niente, la camorra, con un sindaco come Angelo Vassallo. Appena rieletto alla guida del comune tricipite di Pollica-Acciaroli-Pioppi, Vassallo era uno che andava ad affiggersi i manifesti da solo per strada. Sempre attivo, sempre pronto a litigare con qualche concittadino in dissenso sull’ultima strada da riaprire, era uno di quei sindaci che amministrano la loro terra come se fosse una famiglia. Oltre a profanare la terra di Ulisse e di Hemingway, i sicari hanno violato anche l’intimità di un piccolo borgo che vive di rapporti personali, non di affari e clientele. Ora il procuratore di Vallo della Lucania Alfredo Greco racconta che Vassallo «negli ultimi tempi era preoccupato, mi teneva informato sugli sviluppi di alcune vicende». E ancora che «era un uomo che si batteva contro l’illegalità ed era sempre in prima linea: quando accadeva qualcosa di particolare sul suo territorio me lo segnalava». Da uno degli assessori del comune cilentano, Carla Ripoli, arriva la conferma: «Negli ultimi mesi era preoccupato, si era incupito, come se qualcosa lo tormentasse». Il ministro dell’Interno Roberto Maroni dice di attendere notizie più precise prima di valutare interventi particolari in questo pezzo di Campania fino a ieri miracolosamente scampato alla furia delle cosche. Fino alla notte tra domenica e lunedì, quando i killer hanno avvicinato l’auto di Vassallo a cento metri dalla sua abitazione e l’hanno crivellato con una tempesta di proiettili. La vicenda scuote la politica nazionale: il Pd innanzitutto, partito nel quale Vassallo militava, da Bersani a Veltroni, fino all’ex presidente di Legambiente Realacci che lo descrive «una speranza per la sua regione». Cesa esorta il governo a riferire in Parlamento sull’accaduto, e anche rappresentanti dell’esecutivo come il ministro delle Politiche agricole Giancarlo Galan ricordano la vittima come

Ecco chi era l’uomo odiato dai boss e amato dai suoi concittadini

Il sindaco pescatore che difendeva l’ambiente di Andrea Ottieri

ROMA. Angelo Vassallo, sindaco di Pollica-Acciaroli, nel Cilento, ucciso in agguato mentre era nella sua auto e ritornava a casa, era sposato e aveva due figli. Era stato rieletto primo cittadino del comune salernitano diviso in due frazioni nel marzo di questo anno. Candidatosi con una lista civica di orientamento di centrosinistra, “Insieme per Pollica”, Vassallo, che già era stato consigliere nella Provincia di Salerno, governava Pollica-Acciaroli dal 2005. Era detto il «sindaco pescatore» per via della sua attività imprenditoriale nel settore ittico gestita insieme al fratello, ma anche per via delle sue battaglie per la legalità e il rispetto dell’ambiente.Temi sui quali aveva investito molto come amministratore pubblico, al punto che Acciaroli era risultata l’unica «bandiera blu» del Cilento, e addirittura la prima in Italia nella classifica di Legambiente: circostanza che indiscutibilmente aveva promosso un forte rilancio turistico della riviera cilentana. Moglie e figli di Vassallo gestiscono attività di ristorazione. Vassallo, iscritto al Pd, aveva firmato, nei suoi mandati da sindaco, varie ordinanze singolari, quali quella nel 2009 che istituiva multe da 500 a 1000 euro per chi gettasse in strada mozziconi di sigarette, o quella con cui nello stesso anno aveva stabilito la revoca di eventuali concessioni comunali per chi non fosse in regola con tasse e tributi. Circa due settimane fa, poi, aveva proposto di riservare una spiaggia ai cani, con servizio navetta. Il sindaco non si sottraeva a nessuna battaglia. Nel novembre 2009,

infatti, quando la capitaneria di porto di Salerno aveva interdetto al traffico marino il porto di Acciaroli dopo una mareggiata,Vassallo aveva scritto direttamente al ministro delle Infrastrutture. «L’area portuale è in perfetta sicurezza - disse in quel’occasione alla stampa locale - ci sono solo tre cassette della luce danneggiate che ripristineremo immediatamente. Bastava che la Capitaneria avvisasse il Comune e i tecnici avrebbero provveduto». Proprio sui lavori nel porto, a suo giudizio “fatti male” da una ditta napoletana, l’amministrazione di Vassallo aveva aperto un contenzioso. Ma con il suo attivismo instancabile, Vassallo era riuscito a veicolare bene anche un’altra peculiarità della sua Acciaroli, ossia la convinzione assai diffusa che proprio da un suo soggiorno nel villaggio cilentano Ernst Hemingway avesse tratto ispirazione per Il vecchio e il mare. Ai visitatori che arrivano dalla statale, all’inizio della strada che dà accesso ad Acciaroli, compare un cartello con l’immagine dello scrittore e la dicitura, appunto,“Acciaroli-Il paese di Heminguay”. E ad ogni angolo della deliziosa località del Salernitano l’amministrazione aveva fatto affiggere cartelli che riportano frasi tratte dal libro di Hemingway adattissime a descrivere l’atmosfera da piccolo borgo di pescatori da cui la cittadina è ancora oggi attraversata.

«un amministratore coraggioso e onesto del Sud che ha fatto del proprio territorio motivo di lotta e di orgoglio».

C’è chi come Casini ricorda che «non potremo mai creare uno spirito unitario tra Nord e Sud se perdiamo la battaglia contro quel nemico comune che è il crimine organizzato». E certo Acciaroli rappresenta più di una felice oasi, nella Campania della devastazioni. È anche e soprattutto il Sud che vuole farcela, che non si adegua allo stereotipo della terra sfregiata e spremuta da chi la amministra. Punta a conquistare primati nelle classifiche della bellezza, della difesa dell’ambiente, del turismo d’élite. Riuscendoci: Pollica-Acciaroli-Pioppi è al primo posto nella graduatoria delle spiagge d’Italia stilata da Legambiente. Fa mangiare la polvere alla Sardegna, alla migliore Calabria, alla Sicilia azzurra e splendente di San Vito lo Capo.

«Spesso le indagini si fermano quando si scopre che dietro gli agguati c’è il crimine dei colletti bianchi, speriamo non accada anche stavolta», dice la parlamentare Angela Napoli La spiaggia di Acciaroli è un gradino più su. Nei rilevamenti sulla limpidezza delle acque e nella promozione di un turismo sostenibile. La camorra spara anche a questo. Infligge al Sud la più tragica delle punizioni. Le spara perché Acciaroli vuole essere bella, pulita, perché si ribella all’eterna dannazione del paradiso abitato dai diavoli. E si infrange in una scarica di pallottole anche l’idea di opporre un Mezzogiorno diverso all’immagine deturpata che prova ad accreditare la retorica anti-meridionale. Chi vince, in questa sanguinaria corsa al suicidio del Sud, se non il leghismo più becero, la narrazione di chi vuole relegare il Mezzogiorno a discarica del Paese? Chi si avvantaggia, di un simile terribile destino, se non quella parte d’Italia che il Meridione vorrebbe perderlo, dimenticarlo, staccarlo da sé?

E forse suscita ancora più inquietudine, quest’analisi, se declinata nella direzione suggerita da un componente della commissione Antimafia come Angela Napoli, calabrese e dunque non lontana, anche geograficamente, dal luogo dove si è consumata l’ultima tragedia: «Spero che i magistrati riescano a far luce in fretta, che avvertano il dovere di dare una risposta immediata. Lo dico perché è evidente che non ci troviamo solo di fronte alla spietata ala militare di qualche clan. In gioco c’erano interessi imprenditoriali, legati al turismo, a insediamenti da realizzare. C’è stata evidente-


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Angelo Vassallo, sposato e padre di due figli, è stato anche Consigliere provinciale di Salerno. Era il primo cittadino di Pollica, nel cui territorio c’è la spiaggia di Acciaroli, segnalata con cinque vele nella Guida Blu di Legambiente e conosciuto come il “sindaco-pescatore”

«Vi racconto perché dava fastidio» Il vicesindaco Stefano Pisani: «Non dobbiamo vanificare il lavoro fatto da Angelo» di Franco Insardà

ROMA. «Non tollereremo che qualcuno venga qui a incutere terrore. I nostri cittadini devono continuare a vivere tranquillamente e i turisti dovranno avere la certezza di trovarsi di fronte persone perbene. Non permetteremo a nessuno di cambiare la nostra vita , piegarsi equivarrebbe a vanificare il contributo che ha dato Angelo. Non lo permetteremo né per lui né per noi». Di Angelo Vassalo Stefano Pisani è stato amico e vicesindaco. E nonostante i soli trentaquattro anni diventa un leone per rivendicare che a Pollica, in tutto il Sud, non mancano amministratori validi e coraggiosi. Cosa prova in questo momento? Soprattutto rabbia, non rassegnazione, per non essere riusciti a capire la situazione. Per non aver dato una mano al nostro sindaco. Faccio appello alla forza di reazione di tutto il paese, perché non è tollerabile sopportare questa aggressione. Quando ha sentito Vassallo? Alle 21 di domenica sera e mi aveva dato appuntamento in Comune per la mattina seguente. Con la solita carica mi ha chiesto di vederci per programmare la ripresa dell’attività. Chi era Angelo Vassallo? Una persona che ha vissuto seguendo le sue passioni: il paese, la politica, l’amministrazione e il mare. Era legato al posto in cui era nato, dove viveva e andava a pesca. Era una speranza e un baluardo per tutti noi. Era il futuro perché aveva capito come bisognava

mente una contrapposizione a questi interessi, dopo che qualcuno aveva lasciato invece che si infiltrassero. E soprattutto, dietro un omicidio del genere ci sono ambienti imprenditoriali, e anche politici, che spesso trovano impunità. Ambienti e gruppi di interesse di fronte ai quali a volte la giustizia si ferma, fino a rinunciare alla ricostruzione della verità. È la camorra dei colletti bianchi». Se, come suppone la deputata finiana, c’è un potere intoccabile dietro una morte atroce come quella di Angelo Vassallo, se ne ricaverebbe l’ennesima conferma che

far crescere questo territorio. Sapeva indicarci le enormi potenzialità come i pericoli. La testardaggine e il coraggio ne hanno sempre contraddistinto sempre l’attività amministrativa. Le scelte impopolari erano per lui una sfida per far crescere il territorio. Ci fa qualche esempio? Far gestire il porto di Acciaroli esclusivamente dal Comune, perché riteneva giusto che fossero i cittadini a ricevere i frutti dei loro sforzi. Una battaglia difficile. Infatti Vassallo lottava per estromettere dalla gestione portuale i privati. Da anni Pollica è bandiera blu e Vassallo ne andava fiero. Questo riconoscimento non potrebbe avere attirato attenzioni “particolari”? Non lo posso escludere, perché il nostro sistema turistico ha registrato performance economiche eccezionali, come dimostra il gradimento dei turisti e degli operatori commerciali. Qui la crisi internazionale non si è sentita per niente. Avrete messo in conto dei rischi? Certamente. E il primo a farlo era il sindaco, che mai si è sottratto ad alcuna battaglia, riguardassero problemi politici o amministrativi. Con la sua persona ha fatto da scudo a tutti noi. Forse saremmo dovuti essere più at-

tenti, ma era davvero imprevedibile una cosa del genere. Da quanto tempo affiancava Vassallo? Ho cominciato a fare politica per lui. Nella precedente giunta ero vicesindaco, altrimenti farei solo il commercialista. Quali progetti avevate? Erano e sono tanti: il completamento dell’infrastruttura portuale per realizzare una marina tra le prime nel sue genere in Italia, lo sviluppo delle zone interne, senza bisogno di sostegni da parte della Regione o dello Stato. Angelo ha sempre puntato all’autonomia del nostro sistema. Proprio per queste posizioni si definì“leghista”. Ovviamente nell’accezione buona del termine. Credeva molto nell’autonomia, intesa come rapporto diretto tra amministrazione e cittadino. Andava in bestia quando era costretto a rispondere di non poter risolvere un problema, perché i fondi e le competenze facevano capo a un altro ente. Lei ha dichiarato: «Vassallo ha detto i no giusti, e spesso dire no significa dire sì alla legalità e al corretto sviluppo di un’area».

Voleva che solo i cittadini godessero dei benefici del turismo: ecco perché dico che era nel giusto

spesso è proprio la classe dirigente, chiamata a riscattare il Mezzogiorno, a decretarne invece la condanna.

E un po’ questo destino è scritto anche nel rapporto malato tra politica e società civile del Sud. Lo ricorda un altro parlamentare meridionale come Roberto Occhiuto dell’Udc: «È vero, il barbaro assassinio di Vassallo, sindaco che si era segnalato per battaglie straordinarie, si iscrive nel triste fiorilegio delle eccellenze del Mezzogiorno soffocate da un terribile istinto autodistruttivo. È un morta-

le gioco in cui il crimine sceglie con intelligenza le proprie vittime: più esse rappresentano capacità di riscatto e più la camorra afferma il proprio dominio e reprime la speranza di cambiamento». È una strategia che purtroppo riesce nell’obiettivo di creare assuefazione, dice il deputato centrista, «e incrocia l’altra distorsione del rapporto tra cittadini e politica al Sud, secondo cui quest’ultima ha il solo compito di procurare favori e posti di lavoro, anziché servizi per la collettività». Ed è per questo che a volte «non basta essere uno staordinario sindaco

Al momento non abbiamo certezze sugli autori dell’omicidio. Quello che è successo è il risultato di una barricata che il mio sindaco ha alzato. Sono convinto che era nel giusto e ci ha lasciato ancora lo spazio per tenerci fuori da guai peggiori che affliggono la nostra regione. È il più bel regalo che poteva fare al suo paese. E le denunce nei confronti di Vassallo per estorsione, concussione e reati contro l’amministrazione della giustizia? È la normalità per chi fa vita amministrativa e quando ci si confronta con interessi privatistici. Quando si vuole cambiare il volto di un territorio ci si scontra anche con chi dichiara il falso. Ha paura? No. A questo proposito voglio ricordare un aneddoto che Angelo ci raccontava. Una volta rimase in mezzo al mare su un peschereccio con la radio fuori uso ed ebbe davvero paura, ma riuscì a tornare in porto. Da quel momento, diceva, «mi sono reso conto che non c’è motivo per avere paura, ma occorre soltanto saper affrontare ogni situazione». L’insegnamento? Noi andiamo avanti allo stesso modo, con il coraggio di saper affrontare questa disgrazia e consapevoli di non dover lasciare la sua opera incompiuta.

come Vassallo per assicurarsi una cortina di protezione rispetto alla prepotenza del crimine», è l’amara conclusione di Occhiuto, «in altre realtà del Paese uccidere un amministratore apprezzato per le sue capacità procurerebbe l’ostilità feroce di tutti, nel Meridione purtroppo non è sempre così, giacché il politico non è niente se oltre alla qualità del suo lavoro non assicura prebende, risposte clientelari, complicità». Ed è questo il dato terribile con cui dopo un assassinio come quello di Angelo Vassallo il Sud deve fare i conti.


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l’approfondimento

L’omicidio di Angelo Vassallo è l’ultimo segnale di una crisi sempre più drammatica. E sempre più difficile da risolvere

La camorra globale

«Affari colossali e orrori mostrati alla luce del sole: ormai la criminalità non fa preferenze politiche, conta solo il business. Bisognerebbe far capire al Sud come al Nord che la legalità è utile». La ricetta di Biagio De Giovanni di Francesco Lo Dico

ROMA. «Nel caso in cui la magistratura dovesse confermare tutti i segnali che l’assassinio di Angelo Vassallo è legato a una ritorsione della camorra, saremmo in presenza del più grave fatto criminale cui si è assistito in Campania negli ultimi anni. Se come sembra, la criminalità organizzata ha voluto colpire l’infaticabile attività del sindaco di Pollica a tutela del territorio, siamo in presenza di un grave campanello d’allarme. Attraverso la brutale esecuzione, i clan alzano il tiro e lanciano un preciso messaggio al territorio che intendono padroneggiare senza alcun disturbo. Insieme al volto pulito di Vassallo, si è voluto crivellare ancora una volta il carisma della legalità. Con l’eliminazione del sindaco, si previene ogni possibile forma di contagio di quella che la camorra considera alla stregua di un antivirus da annientare prim’ancora che attecchisca: la sfida di una cultura alternativa a quella egemone in cui prosperano le mafie». Nelle

parole di Biagio De Giovanni, acuto saggista con un passato politico tra le file del vecchio Pci, soffia una sottile aria di incredulità per quanto accaduto l’altra notte. Nove colpi di pistola esplosi a pochi centimetri dal volto. Una ferocia senza limiti: se n’è andato così Angelo Vassallo, che per molti era diventato la speranza del Cilento. Un momento luttuoso, che nelle consunte liturgie nazionali, precede sempre l’indignazione a progetto, e l’indifferenza a tempo indeterminato. La retorica è sempre a pochi passi, in questi casi, ma De Giovanni gira sempre alla larga da facili consolatio all’italiana. Professore, la morte di Vassallo riaprirà per qualche giorno il dibattito sulla camorra. Che cosa dire, prima che scenda di nuovo il silenzio nell’interesse di tutti? Innanzitutto non si facciano speculazioni sull’appartenenza politica di Vassallo. Negli ultimi quindici anni ha regnato il centrosinistra in Campania, e ogni

tentativo di appropriazione delle sue spoglie sarebbe ridicolo. La camorra non fa preferenze politiche, l’importante è il talento per il business. Un business da 780 milioni di euro per l’emergenza rifiuti, ad esempio. O come venti miliardi di euro a bilancio nel comparto ecomafie ogni anno. Proprio così. È indispensabile però che l’omicidio di Vassallo non produca le solite litanie autocelebrative sull’impegno antimafia dello Stato. Il lavoro di

«Una battaglia giusta per tutti non può essere combattuta da pochi kamikaze»

Interni, poliziotti e autorità locali è senz’altro lodevole, ma bisogna capire una volta per tutte che recidere qualche ramo dalla malapianta significa fare solo una piccola potatura. Senz’altro un’operazione utile, ma le piante vanno estirpate alle radici. La camorra, a differenza della mafia, ha una struttura orizzontale che le consente di autorigenerarsi senza troppe difficoltà. Nonostante i duri schiaffi ricevuti dal clan dei Casalesi, il sistema non ha perso un solo colpo.

E nel monòpoli dei boss, Vassallo aveva occupato la casella sbagliata. Non c’è mai una casella giusta nell’ottica della criminalità organizzata. Il territorio è ormai controllato dai clan alla luce del sole, spesso nel pieno crisma della legalità. Chi continua a credere in un sistema criminale che si agita nel sottobosco del tessuto civile è un povero illuso. La camorra è un’impresa ormai globale, che opera a pieno titolo in Italia come una holding assai remunerativa per tutti. Soldi facili, subito, e migliaia di posti di lavoro. Ecco il punto della questione. Non si può pensare che la battaglia per la legalità sia combattuta da pochi kamikaze in perfetta solitudine. Senza il convinto supporto della politica, la legalità è un’impresa perdente votata al fallimento. La camorra non potrà mai essere sconfitta, finché la legalità non saprà trasformarsi in una scelta conveniente, capace di generare benessere, reddito e occu-


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Le contraddizioni drammatiche della società e la coperta corta del federalismo

Solo un patto per la Nazione può salvare il Mezzogiorno Unità è la parola chiave per rilanciare la «grande riforma» del Paese: quella che rimette in equilibrio le risorse e le opportunità di tutti di Pierluigi Mantini omicidio barbaro di Angelo Vassallo, il sindaco di Pollica che – senza clamore ma con assoluta determinazione – aveva fatto della fermezza contro la camorra una sua pacata quotidianità, ripropone in modo drammatico un tema di fondamentale importanza nell’Italia di oggi: il tema dell’«unità nazionale da ritrovare». Proprio quel tema che, in un altro contesto e con altre urgenze, era già stato posto correttamente nell’editoriale di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera del 29 agosto al quale aveva risposto sempre sul Corriere in modo assai rilevante da Ferdinando Adornato.

L’

È del tutto evidente che dall’equilibrio tra Nord e Sud nell’alveo di una «unità da ritrovare» dipende non solo la prospettiva politica del Paese ma anche – è la drammatiche lezione dell’omicidio di ieri – anche la pacifica convivenza dei cittadini e lo sviluppo possibile delle aree più depresse. Per quel che ci riguarda, però, nel dibattito politico ci sono ancora due notazioni da fare (anche a proposito dell’articolo di Galli della Loggia, per altro): la prima è per confutare la tesi secondo cui i partiti che più di altri ricercano un equilibrio nazionale, come ad esempio l’Udc nel cammino verso il Partito della Nazione, rischino di apparire come un profilo «sudista», per incomprensione delle «questioni del Nord». Non è proprio così oppure sì, ma non importa. Che al Nord occorrano più infrastrutture, minore pressione fiscale, maggiore efficienza amministrativa è cosa nota a molti e presente nelle agende di partiti diversi. C’è però di più. Il fastidio per la legge e le istituzioni, per le regole della concorrenza, per le comunità degli altri,

per la mediazione dello Stato: tutti cowboys lungo le frontiere della globalizzazione. Affari, poco fisco, sesso a pagamento, burocrazia zero, le piccole comunità locali e stranieri solo per il lavoro. È questa l’agenda del Nord che è rappresentata dalla Lega, solo dalla Lega. Ma è giusto così perché con i sentimenti opportunistici, antilegalitari e antinazionali, lo Stato non deve mediare. D’altronde perché inseguire chi dà alla ricerca pubblica un terzo del contributo

L’agenda del Nord non è solo quella della Lega che sembra fatta soprattutto di affari e poco fisco privato degli altri Paesi e chi, tra le imprese del Nord, incassa i fondi europei destinati al Sud?

Più complessa è la seconda questione sul tappeto, ossia la ricerca di un nuovo equilibrio nazionale, dopo lo Statuto Albertino e la Costituzione. Innanzitutto dobbiamo chiederci: dopo un decennio di federalismo, a Costituzione invariata con le leggi Bassanini del 1998 e con le riforme costituzionali del 1999 e del Titolo Quinto nel 2001, l’Italia è più unita, sta meglio? O abbiamo implementato un federalismo competitivo e ipertrofico, con un eccesso di norme, caste e costi, come certifica la Gelmini a proposito del’insostenibile proliferazione di università e corsi di laurea, il Csm sulle troppe sedi giudiziarie, il presidente Riggio sull’inutilità di circa settanta aeroporti regionali? In-

somma, occorre andare avanti o indietro? Ecco la questione. La mia risposta è che occorre fermarsi, riannodare la trama degli interessi nazionali, riconoscere sul piano culturale, a destra come a sinistra, che lo Stato nazionale si trasforma ma non muore nella globalizzazione tant’è che nella crisi Usa del 2008 e in quella greca del 2010 sono gli Stati a intervenire per salvare l’economia: quindi, si potrà correggere il Titolo Quinto, impegnare di più l’Italia in Europa, fare una più seria programmazione nazionale per risparmiare sprechi e spesa improduttiva. Ma c’è di più: c’è un problema di prospettive future: senza unità e uguaglianza di prospettive, è possibile un Sud nel quale gli amministratori «sani» non siano espulsi finanche con l’omicidio?

Il cuore del problema è sempre lo stesso: unità, equilibrio, opportunità. Se il progressivo passaggio dalla spesa storica dei servizi pubblici essenziali ai costi standard, secondo parametri di efficienza, vogliamo chiamarlo “federalismo” io rimarrò contrario perché anche alla promiscuità delle parole c’è un limite ed una tale manovra altro non è che una programmazione pubblica statale, top down, fatta dall’alto, dirigista.Tuttavia, pur con questo non secondario distinguo (almeno sul piano della cultura politica), è possibile confrontarsi e assumere l’impegno, riconoscendo che il cosiddetto «federalismo fiscale» altro non è che la correzione della prima fase dell’esplosione federalista. Ma basterà? Secondo Galli della Loggia no, perché le classi dirigenti meridionali restano inadeguate e non crescono copiose nelle terre del sole e dei fichi d’India. Poiché la natura appare matrigna, avanziamo allora una proposta: meno tasse al Nord, per chi assume e fa formazione e ricerca, nel rispetto dei parametri europei, e più legalità, concorrenza ed efficienza amministrativa nel meridione. In effetti, se vogliamo pensare un “nuovo patto”per un Paese a due velocità, è questa la strada da seguire. Senza «commissariare il Sud» né sottraendo risorse. Seguendo la via delle riforme costituzionali e legislative. Si può fare, si può scrivere. Basta uscire dalla tela di Penelope di un federalismo che alimenta solo le divisioni che dice di voler ricucire. Mentre al Sud anche gli esperimenti «sani» vengono messi a tacere.

pazione. In assenza dello Stato, o comunque in presenza di uno Stato debole, l’illegalità rappresenta per migliaia di famiglie allo sbando un porto sicuro, da difendere con le unghie e con i denti. Un’impresa vincente con un indotto sociale imponente. Che negli ultimi tempi, ha conquistato ancora più sostegno. Un’allusione. Approfondiamo. Mi riferisco al cruciale ruolo che ha giocato la recessione economica negli ultimi anni. C’è da ritenere che anche i piccoli imprenditori più restii a inquinare le proprie attività in Campania, abbiano dovuto abbassare la testa in nome della sopravvivenza. E che molte famiglie, e molti giovani in difficoltà, abbiano scelto di sconfinare nell’illegalità dopo aver sperimentato la perdita del posto di lavoro, e la misera entità dei lorto sussidi. Parlava prima del convinto supporto della politica. Un ottimo spunto, per un Parlamento formato da parecchi pluriinquisiti ed esponenti su cui gravano mandati d’arresto e sentenze passate in giudicato. Giustissima osservazione, non posso che condividere. Potrei aggiungere tante altre cose giuste e condivisibili, che a sua volta sarebbero condivise da tanti altri. La domanda è perché, se andiamo tutti così d’amore e d’accordo sulle cose da fare, poi non cambia mai nulla neppure a un livello elementare come quello rappresentato dalla pulizia in politica. Per tanti, Vassallo rappresentava l’immagine pulita del Cilento. Tutti hanno lodato il grande ruolo da lui giocato nel trasformare Acciaroli in una gemma. E se passasse dalla forza della bellezza, la sfida del Meridione? Il Mezzogiorno resta tutt’oggi, nonostante gli sfregi delle mafie, una terra incantevole ma lacerata. Ma non è con il club dei cantori omerici, che si sottrae il Sud alla monopolio della criminalità. Bellezza, oltre che estasi, deve vuol dire denaro pulito e convenienza, infrastrutture e tessuto civile risanato, in grado di respingere l’odore irresistibile del denaro sporco. Sarebbe splendido coniugare la legalità alla bellezza, ma questo richiederebbe quella programmazione a lungo termine, che purtroppo è svantaggiosa rispetto all’immediatezza della spoliazione tipica della camorra. Tutto vero, e se poi ci sente persino autorizzati a delinquere, il cerchio si chiude. L’inquietudine è profonda, ma priva di colorature politiche. L’illegalità non prospera soltanto nel vuoto mai riempito dall’unità d’Italia, ma anche nella oscura sensazione di una certa tolleranza. Nel deserto dello Stato, la malapiante prospera.


diario

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L’analisi. Il talento non può più essere inteso come una sporadica eccellenza di qualcuno, ma come principio strutturale dell’intero sistema

Svolta (meritocratica) di “classe” L’affermazione del valore e dell’uguaglianza nella scuola di massa

oprattutto negli ultimi tempi si sta facendo un gran parlare di merito scolastico e di merito universitario. Più di un commentatore politico ha infatti posto in evidenza che vi è una qualche resistenza culturale di fondo, in Italia, ad affermare il primato del merito scolastico, in quanto per una lunghissima tradizione culturale e politica allo stesso tempo si è preferito un sistema fondato sulla ricerca dell’eguaglianza tra gli studenti, con particolare riferimento alla politica scolastica ed alla politica universitaria degli ultimi cinquanta anni.

S

Non vi è dubbio che la questione dell’eguaglianza tra gli studenti ha avuto in passato ed ha ancora in qualche modo oggi una rilevanza soprattutto economica, nel senso che vi è stata una comune rilevazione in base alla quale le differenze economiche - soprattutto familiari - tra gli studenti avevano fatto del conseguimento dell’eguaglianza una questione di fondo che si è imposta anche al legislatore scolastico nazionale. Basti considerare il lunghissimo periodo che dovette trascorrere per giungere almeno alla previsione di una scuola elementare obbligatoria e quinquennale; basti pensare ancora che soltanto all’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso si è giunti ad avere una scuola media unificata ed obbligatoria, facendo in modo che la previsione costituzionale degli otto anni di insegnamento obbligatorio fossero concretamente conseguibili; basti pensare infine alle radicali discriminazioni formalmente soltanto culturali - ancora esistenti nel rapporto tra scuola secondaria superiore e università. Soltanto alla fine degli anni Sessanta si è infatti affermato il principio del pari diritto all’accesso agli studi universitari da parte degli studenti da qualunque scuola secondaria provenissero. La strategia generale tendente alla eguaglianza economica prima ancora che culturale tra gli studenti ha pertanto rappresentato una costante della politica scolastica e della politica universitaria italiana da oltre un secolo. Si è trattato dunque di un primato del valore dell’egua-

non più soltanto come fenomeno che ha guardato dapprima ai paesi europei più progrediti dell’Italia, agli Stati Uniti d’America soprattutto negli ultimi decenni, ed ora anche al Giappone, ma che vede questo fenomeno manifestarsi nel prossimo futuro anche nei confronti dei grandi paesi emergenti quali sono ad esempio la Russia, la Cina, l’India e il Brasile.

di Francesco D’Onofrio

glianza - soprattutto economica - tra tutti gli studenti a prescindere dal merito di ciascuno di essi nello svolgimento degli anni dell’insegnamento obbligatorio minimo e quindi degli anni della prosecuzione scolastica secondaria e universitaria. Occorre pertanto essere consapevoli che non si è trattato di un atteggiamento istituzionale strettamente legato ad una cultura classista o pauperistica: il principio di eguaglianza è stato vissuto soprattutto come principio dell’e-

denti della Scuola Normale quasi a rappresentare una sorta di eccezione nel panorama generale del prevalere anche del sistema scolastico del principio di eguaglianza prevalentemente economico.

Non vi è dubbio che le mutate circostanze nelle quali l’intera Italia vive oggi rispetto non solo all’Ottocento ma anche alla prima metà del XX secolo, pone con urgenza la questione del merito inteso non più soltanto come fatto di eccellenza sporadico di qual-

In questo contesto, anche il rapporto con la scuola di ispirazione cristiana dovrebbe essere vissuto come parte di una grande riconversione guale partecipazione culturale ad una comune cittadinanza in presenza di radicali differenze economiche e sociali dei punti di partenza dei bambini prima e dei ragazzi dopo.

Nel corso di questo lunghissimo periodo soltanto modeste isole di eccellenza formalmente riconosciute come tali sono state predisposte, quale ad esempio la Scuola Normale di Pisa. In questo caso il merito è stato ritenuto elemento costitutivo per la selezione degli stu-

che studente ma come valore strutturale dell’intero sistema scolastico e universitario italiano. Da molti decenni infatti l’Italia vive nel processo di integrazione europea che comporta anche dal punto di vista scolastico la possibilità di una valutazione comparativa tra gli studenti dei diversi paesi eu-

ropei, come risulta in particolare in riferimento al cosiddetto programma europeo Erasmus. Da qualche anno inoltre, anche gli studenti italiani vivono in una sorte di competizione globalizzata che tende da un lato a far considerare la cosiddetta fuga dei cervelli

Occorre pertanto un nuovo equilibrio culturale prima ancora che legislativo tra merito ed eguaglianza: il merito non può più essere soltanto il soddisfacimento di limitatissime minoranze di studenti perché deve divenire un criterio acquisito sin dalle scuole elementari per la promozione culturale ed umana di bambini complessivamente ritenuti appunto meritevoli; l’eguaglianza deve essere sempre ed ancora perseguita ogni volta che risulti determinante la condizione economica individuale o familiare quale elemento decisivo per la scelta del tipo di istruzione superiore o del se della prosecuzione degli studi scolastici o universitari. Si tratta di una gigantesca riconversione culturale - ancora una volta prima ancora che politica - dell’intero programma scolastico ed universitario di un governo che abbia a cuore la condizione educativa degli studenti italiani nel mondo globalizzato nel quale l’Italia oggi si trova. È da augurarsi pertanto che in questo contesto anche il rapporto con la scuola di ispirazione cristiana finisca con l’essere vissuto come parte di una grande riconversione: dovranno essere sempre più i valori distintivi della scuola di ispirazione cristiana ad essere determinanti nella scelta del tipo di istruzione, mentre le condizioni economiche di sostanziale eguaglianza degli studenti e delle loro famiglie dovranno a loro volta essere poste a fondamento della prosecuzione degli studi secondo quanto la stessa Costituzione italiana afferma allorché parla di capaci e meritevoli.


diario

7 settembre 2010 • pagina 7

«Non daremo più notizie», dice il presidente degli esperti

Manifestazione davanti al ministero dell’Agricoltura

I geologi contro le speculazioni sui terremoti

Pastori a Roma per difendere «un bene nazionale»

ROMA. L’Istituto nazionale di Geofisica e Vulcanologia vuole smettere di rendere pubblici i dati sui terremoti per evitare che siano travisati. Lo ha detto Enzo Boschi, presidente dell’Ingv, commentando il messaggio di Guido Bertolaso al congresso della Società geologica italiana. Il Capo Dipartimento della Protezione civile aveva parlato dell’«affermarsi di profeti di sventura» a proposito dei terremoti: «Condivido in pieno quello che ha detto Bertolaso - è stato il commento di Boschi – tanto che noi stiamo valutando di smettere di informare, e di non rendere raggiungibili i nostri dati via Web, perché vengono usati per arrivare a conclusioni che non stanno né in cielo né in terra». I principali responsabili sarebbero naturalmente i media: «La colpa è dei giornalisti – ha tuonato Boschi - e dei politici locali che hanno la responsabilità in caso di terremoti perché non controllano le strutture, ma cercano di scaricare le responsabilità. Poi ci sono coloro che sono desiderosi di apparire, e che trovano sempre qualcuno che voglia fargli fare uno scoop». Boschi condivide anche un’altra affermazione di Bertolaso, secondo cui in Italia si sottovaluta il rischio sismico: «Noi lo diciamo da 30 anni - afferma

ROMA. È arrivata nella Capitale la protesta dei pastori: ieri mattina hanno manifestato davanti al Ministero delle Politiche Agricole per sostenere la piattaforma di mobilitazione della Coldiretti a difesa del patrimonio economico, sociale, ambientale e culturale italiano. Davanti al ministero è stato anche allestito un tavolo di denuncia sul falso pecorino italiano venduto all’estero che toglie spazio di mercato al prodotto originale. E, a sorpresa, tra i produttori, ci sarebbe anche l’Italia. «Lo Stato italiano, attraverso la Simest, è proprietario di una industria che in Romania, con latte romeno e ungherese, produce formaggi di pecora che vengono “spacciati” come Made in Italy

Tirrenia, ancora una fumata grigia Senza esito l’incontro tra governo e sindacati di Alessandro D’Amato

ROMA. Fumata grigia. L’incontro di ieri tra governo e sindacati al ministero dei Trasporti sul futuro di Tirrenia si chiude senza vincitori né vinti, e con le rappresentanze dei lavoratori che tornano a minacciare lo sciopero se non si arriverà a breve alla soluzione. L’Alitalia dei mari sta male. Tanti i nodi sul tappeto: dai livelli occupazionali alla proroga delle concessioni in scadenza, dal temuto “spezzatino” alla necessità che il sindacato venga coinvolto maggiormente nelle scelte. Inoltre a preoccupare i sindacati ci sono le nuove ipotesi per il futuro della compagnia, profilatesi nelle ultime settimane, come la soluzione “bad company”, sulla falsariga di Alitalia, proposta dal vice ministro dello sviluppo economico Stefano Saglia. Mentre il ministro Matteoli rassicura sulla volontà di cedere «senza spezzatino» l’azienda che conta su 1.646 lavoratori, un’esposizione debitoria di 646,6 milioni di euro e una liquidità di 18.506 euro, ed è stata da poco dichiarata insolvente dal Tribunale fallimentare. Dunque è proprio l’ipotesi “spezzatino”, ossia il frazionamento dela l’azienda, preoccupare maggiormente i sindacati che chiedono chiarimenti e rassicurazioni sull’argomento e garanzie sul mantenimento dei livelli occupazionali, sulla proroga delle convenzioni e sul coinvolgimento dei sindacati nei futuri passaggi della privatizzazione.

Se ne sono andati invece la Ttt Lines di Alexandros Tomasos e l’ex presidente di Confitarma, Nicola Coccia. E proprio ieri si è aperto un altro fronte polemico: i capitani di lungo corso ed i direttori di macchina vogliono dire la loro sulla vertenza Tirrenia, chiedono l’istituzione di un tavolo unico al ministero dei Trasporti e respingono al mittente le accuse di scarsa rappresentatività sindacale. Il litigio è scoppiato fra la Uil Trasporti e la UsclacUncdim, sigle dietro le quali sono organizzati sindacalmente il personale marittimo dirigente di alto grado, ovvero i capitani di lungo corso e i direttori di macchina (entrambi aderenti a Federmanager).

Sono proprio queste due categorie ad intervenire per replicare - in una nota - alla segreteria generale UltT che ha contestato la rappresentatività di Usclac-Uncdim tra i capitani di lungo corso al comando ed i direttori di macchina «ai fini della nostra partecipazione ad un Tavolo unico tra tutte le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative per affrontare le problematiche del Gruppo Tirrenia». «Non si tratta di una questione di numeri - spiegano le due sigle sindacali di Federmanager - quanto di riaffermare il principio di democraticità sindacale, in cui ad ogni componente professionale deve essere garantita pari dignità, soprattutto in occasioni di confronto istituzionale su problematiche di rilevanza strategica per il settore del trasporto marittimo e per l’intero Paese, qual è la vicenda Tirrenia». E nel merito della questione, «i nostri associati in Tirrenia, costituiscono il 27% dei comandanti ed il 40% dei direttori di macchina, con un trend in continua crescita. Tali percentuali - prosegue la nota - risultano ancora più rilevanti in Siremar, in cui la nostra organizzazione è certamente quella maggiormente rappresentativa nella categoria. Usclac-Uncdim è senza dubbio il sindacato di relativa maggiore rappresentatività nelle categorie rappresentate».

I rappresentanti dei lavoratori tornano a minacciare lo sciopero se non si arriverà in tempi brevi a una soluzione

Boschi - ma ogni volta che c’è un terremoto c’è la solita sceneggiata. Basterebbe verificare la tenuta degli edifici, abbandonare quelli che non resistono al sisma e ristrutturare quelli per cui è possibile intervenire, oltre a costruire gli edifici nuovi in maniera antisismica».

La presa di posizione di Boschi è arrivata mentre in Abruzzo è stata registrata nelle ultime settimane un’intensificazione dei fenomeni sismici (guarda): l’ultima scossa, di magnitudo 2.1, si è verificata ieri alle 11:47 nel distretto sismico dei Monti Reatini con epicentro tra Montereale (L’Aquila) e Borbona (Rieti) e profondità di 9.7 km.

Intanto la cordata che doveva rilevare la Tirrenia prima del fallimento della gara di privatizzazione ha perso soci importanti. L’assemblea dei soci di Mediteranea Holding qualche giorno fa ha deliberato l’aumento di capitale sociale fino a 25 milioni di euro per Tirrenia e ha messo sul tavolo un’offerta di 75 milioni euro per rilevare Tirrenia e Siremar. Ma qualcuno si è tirato indietro, intanto. Non è uscita, come qualcuno aveva ventilato nei giorni scorsi, la Regione Sicilia, l’ente locale capocordata con il 37% del consorzio e presieduto dal governatore Raffaele Lombardo.

sui mercati europeo e statunitense, contribuendo ad uccidere con la concorrenza sleale i pastori italiani»: è questa la denuncia contenuta nel dossier della Coldiretti. «Siamo di fronte - sostiene la Coldiretti - ad un caso eclatante in cui lo Stato italiano, che è impegnato a combattere il finto Made in Italy, ne diventa addirittura produttore. Attraverso la società pubblica per l’internazionalizzazione Simest è infatti - denuncia la Coldiretti - socio proprietario di una società rumena denominata Lactitalia con sede in Romania che produce, utilizzando latte di pecora romeno e ungherese, formaggi rivenduti con nomi italiani (tra gli altri Dolce Vita, Toscanella e Pecorino)».

Sulla base delle indicazioni riportate sullo stesso sito della società - prosegue Coldiretti Lactitalia trasforma latte di mucca e di pecora e commercializza i propri prodotti con due marchi, uno per il mercato estero e uno per quello rumeno, quali la Dolce Vita e Gura de Rai.Tra i prodotti spiccano «pecorino» e «toscanella», entrambi realizzati con latte di pecora, ma ci sono anche altri nomi italiani come mascarpone, ricotta, mozzarella, caciotta, solo per citarne alcuni.


politica

pagina 8 • 7 settembre 2010

Il dibattito. Il leader centrista, ospite di Enrico Letta alla festa del Pd a Torino, torna a parlare di alleanze e di «stagione finita» per l’esecutivo

Il rilancio di Casini «Insieme a Fini e Rutelli possiamo vincere. Ma se cade questo governo bisogna cambiare la legge elettorale» di Riccardo Paradisi

Ormai lo scontro è tra chi vuole le elezioni e chi vuole governare

bbiamo in comune l’idea che la crisi si supera con una politica di grandi riforme, compresa quella elettorale che consenta ai cittadini di scegliere i parlamentari. La convergenza è più ampia del binomio Casini-Fini, lo stesso tema del federalismo può diventare unificante se declinato sui principi di sussidiarietà». Pier Ferdinando Casini aveva atteso il discorso di Mirabello del presidente della Camera prima di rendere pubblica un’analisi sulle possibili evoluzioni dell’attuale quadro politico.

Se Berlusconi (per una volta) accettasse di fare politca

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Quadro che Fini non fa saltare in aria – malgrado i toni molto duri la sostanza politica del discorso di Mirabello lascia come erano i rapporti interni alla maggioranza – ma certo mette in fibrillazione. Tanto che quando a Casini – nell’intervista alla redazione torinese dellaStampa – si chiede se esistano delle possibilità di voto anticipato il leader dell’Udc risponde che «Se si andasse oggi alle elezioni, Berlusconi lascerebbe lo scettro a Tremonti». Ma «il terzo polo sarà determinante.Vincerà le elezioni chi saprà proporre una forza nuova. Con Fini e Rutelli vinceremmo le elezioni». Poi Casini incoraggi anche forze della società civile a intervenire nell’agone politico e il riferimento, a Torino, sembra Luca Cordero di Montezemolo. Sul bipolarismo l’analisi è quella di sempre «oggi in Italia è servito a rafforzare Di Pietro da un lato e la Lega dall’altro, che ormai ha la golden share del governo. Questo bipolarismo non serve all’Italia». Casini ribadisce anche la sua preferenza per il sistema tedesco ma «è un gossip contro D’Alema quello che mi fa vedere leader con lui». Il Pd? «Deve assolutamente risolvere il tema del rapporto con Di Pietro, i grillini e la componente estremista. Quelli che hanno impedito a Dell’Utri di parlare sono gli stessi che impediscono di parlare al presidente del Senato. Quell’area è un macigno nel percorso di un’alternativa seria a Berlusconi e al centro-destra». E poi: «Mi aspetto dal Pd che mi dica se le Marche sono un modello, se scaricare la sinistra estrema sia un’ipo-

di Giancristiano Desiderio rima del discorso di Mirabello sia Berlusconi sia Bossi avevano un problema che continuano ad avere: andare a votare attribuendo la responsabilità del voto anticipato al presidente della Camera. Infatti, il discorso di Fini sotto il profilo istituzionale e della stabilità di governo è stato ineccepibile: l’ex Cofondatore ha offerto un patto di legislatura ed è stato chiaro tanto sul federalismo quanto sullo “scudo” per il premier e ha escluso ogni possibile tentazione di ribaltone. Insomma, per dirla con una sola parola, Fini ha teso la mano e ha mostrato lealtà. Perché allora Bossi dice “così non dura”, Maroni già vede il voto e nella maggioranza del Pdl il bel tempo volge al brutto? Perché nonostante Fini abbia detto sì a tutti i cinque fondamentali punti sui quali punta Berlusconi per un rilancio del governo e del suo mandato si sente dire in giro che “così non dura” e il voto è più vicino di ieri?

P

Prima del discorso di Mirabello si percepiva tra gli esponenti e i deputati del Pdl un certo non celato fastidio non per le parole ancora non dette di Fini, ma per il fatto stesso che il presidente della Camera si accingesse a parlare. «Ma perché questo parla?», ci si chiede con stupore nel Pdl. La risposta è delle più banali ma vale la pena ricordarla: perché per fare politica bisogna parlare e parlare soprattutto in pubblico. «Il Pdl è morto» ha detto Fini e ha individuato la data di morte nel 29 luglio quando il Fondatore cacciò il Cofondatore. Si potrebbe rilevare che in fondo il Pdl non è morto perché non è mai nato, ma questa è già un’altra storia. Qui basta notare che se Fini parlava legittimamente ieri, a maggior ragione può farlo ora che è stato messo alla porta. In altre parole, il Fini che dice «io sto nel centrodestra, sono leale e parlo e dico la mia per sostenere e migliorare l’azione di governo» è stato creato proprio da Berlusconi e dai berlusconiani più

convinti del Pdl, ex colonnelli di An compresi. Forse è questo che non sta bene a Bossi e che Berlusconi si sforza di non farsi dispiacere: se prima erano in due - Bossi e Berlusconi - oggi sono in tre - i due più Fini - e se prima le forze politiche e parlamentari della maggioranza erano due - Pdl e Lega - ora sono tre: Pdl, Lega e Fli. È questa la causa dei maldipancia di Bossi e del Pdl?

Senz’altro questa è una delle cause e non la minore. Ma ne esiste anche un’altra. Si dice in giro che il passaggio del discorso di Mirabello che il presidente del Consiglio meno ha gradito sia stato quello sulla giusta idea di rivedere la legge elettorale. La riforma elettorale, infatti, non rientra nei programmi del governo e in particolare del premier e se Fini vi ha fatto cenno con una certa convinzione - ecco il ragionamento berlusconiano - significa che il leader di Futuro e libertà pensa ad un futuro governo prossimo venturo per mettere mano alla legge elettorale. Insomma, rinasce il fantasma più indigesto per Berlusconi: il governo tecnico. In realtà, il fantasma è proprio un fantasma che esiste solo nella testa di chi dovrebbe governare e che non governando da svariati mesi cerca alibi e pezze a colori per togliersi dagli impicci e poter ripetere la solita storiella agli italiani: «Cari italiani, volevo governare e cambiare l’Italia ma non me lo hanno permesso, votatemi e cambiamo insieme il nostro Paese senza il teatrino della politica». Ma questa favoletta oggi non funziona più perché il berlusconiano “teatrino della politica” è oggi proprio a casa del governo. Infatti, come può un governo che ha un’ampia maggioranza dire che si ritorna al voto perché non lo si lascia governare? Con il discorso di Mirabello Fini è uscito dall’angolo. Berlusconi è desideroso di combattere, ma non riesce a colpire il suo amico-nemico, tranne che con colpi al di sotto della cintura. Il governo è ancora in piedi, la maggioranza esiste ancora, ma non c’è più il centrodestra nella versione pidiellina. Questo è il problema di Berlusconi che è al contempo vittima e carnefice di se stesso. In altri tempi si sarebbe fatto un altro governo, ma Berlusconi ha paura di fare politica.

«Berlusconi – è il messaggio di Casini al premier – veda se è in grado di fare non all’Udc ma a tutte le opposizioni un discorso di coinvolgimento in una fase in cui il Paese arranca. Glielo dico da mesi, ma siccome lui non ci sente, glielo ripeto» tesi casuale, un incidente di percorso, o il frutto di una scelta politica». Di Rutelli Casini pensa che «ha chiuso il suo partito per confluire nel Pd, come Fini ha chiuso An per confluire nel popolo delle libertà, ora entrambi hanno capito che non era la strada giusta». Alla Lega Casini riserva un trattamento misurato rispetto agli insulti piovuti su di lui le settimane score: «Il Carroccio non è coerente con le aspettative che suscita. La Lega interpreta uno stato d’animo che esiste realmente, ed è più ampio del suo elettorato, ma non è la soluzione. Quando la Lega dice che vuol abolire le Provincia ma cambia idea, o difende qualche truffatore per le quote latte, si vede chiaramente che non rappresenta la soluzione ma l’aggravamento dei problemi». Rispondendo a un lettore della Stampa l’ex presidente della Camera ha anche parlato di Nichi Vendola: «È lontano da me, anzi su molti temi è alternativo a ciò che penso, ma il suo pen-


politica

7 settembre 2010 • pagina 9

Il primo a fare la voce grossa è stato Bossi: «Così non dura»

I berluscones alla guerra «Basta, Fini si dimetta» Il giorno dopo il comizio di Mirabello, parlano solo i falchi e chiedono di fargli terra bruciata intorno di Marco Palombi

ROMA. I lanzichenecchi berlusconiani - s’in-

siero è ben diverso da quello di Di Pietro. È un competitor leale e rispettabile. Di Pietro è invece una minaccia a qualunque alternativa politica. Certo che non potrei mai votare Vendola presidente del Consiglio, ma riconosco che il suo è un ragionamento politico». A proposito delle espulsioni dei rom dalla Francia, per Casini, «lavorare per una politica dell’integrazione è fondamentale. Dobbiamo lavorare per integrare chi viene qui per lavorare. Che però il governo e i governi europei si pongano il problema di allontanare i clandestini, è giusto. Che si allontani chi non è in regola è giusto. Ad esempio c’è bisogno di obbligare a denunciare, al di là della residenza, il domicilio». Sulla questione morale: «Il mio partito sta cambiando pelle e la sta ponendo al centro. Dico no all’equivalenza avviso di garanzia-colpevolezza, ma demonizzare e delegittimare i magistrati è un grave errore».

Casini ha indirettamente replicato anche alle aperture di esponenti di Futuro e libertà sulle coppie di fatto: «Non mi oppongo a che abbiamo diritti ma alla parificazione tra loro e le famiglie regolari. Sì a dar loro dei diritti, ma non può esserci una categoria parallela alle famiglie composta dai conviventi». Quando Casini arriva nel tardo pomeriggio alla festa del Pd non fa che riprendere il suo ragionamento. E così a chi gli si fa sotto microfono aperto per chiedergli cosa accade ora nel governo lui risponde: «Se sanno governare governino, altrimenti se ne vadano a casa perché l’Italia non ha bisogno di sentire chi governa

che litiga dal mattino alla sera, ha bisogno che i problemi vengano risolti». Insomma adesso che si sono chiariti Berlusconi e Fini, Casini si augura che questo governo inizi finalmente a lavorare. Le contestazioni al presidente del Senato Renato Schifani alla Festa democratica a Torino da parte di dipietristi offre di nuovo il destro al leader centrista per mettere polemicamente a fuoco il dipietrismo: «Un fenomeno particolarmente preoccupante. Di Pietro è uno di quelli che mi preoccupa di più, penso che sia un serio ostacolo all’alternativa. La scorsa settimana Di Pietro ha impedito di parlare a Dell’Utri, io ho un’idea diversa. Penso che il mio peggior nemico debba avere diritto di parola. Questa è democrazia. E guarda caso chi non ha consentito di parlare a Dell’Utri appartiene allo stesso gruppo di persone che non ha consentito di parlare qui al presidente del Senato Renato Schifani. Sono assist a Berlusconi, perchè lui così può sempre dire che ”quelli non sono democratici”». Di un’alleanza con il Pd assieme a Di Pietro dunque non se ne parla neppure ma non è nemmeno immaginabile un’ingresso nella maggioranza come salvagente. Anzi, «Se si aprirà la crisi, il tema del cambiamento della legge elettorale, a cui Fini ha fatto riferimento, sarà sul tappeto, e ognuno si assumerà le sue responsabilità». Insomma, in caso di caduta anticipata del governo le elezioni non sono scontate: «Se Berlusconi si dimette non è lui ad indire le elezioni anticipate. Napolitano farà le consultazioni e sentirà i partiti, e ieri Fini ha detto una cosa significativa, cioè che la legge elettorale è una porcheria».

tende coloro che pensano come Berlusconi anche quando lui decide di non farlo – e i colonnelli sfregiati pubblicamente dall’ex generale fremono per attaccar battaglia, non possono tollerar l’oltraggio, bramano di restituire con gli interessi al mittente lo schiaffo di Mirabello. S’è permesso, il traditore Fini, di ribadire l’ovvio e anche con un tono un po’strafottente, nonostante l’accentuato tremolio delle mani finale che rivelava assai meglio della secchezza delle fauci, pure notevole, lo stato d’eccitazione del presidente della Camera. E dunque si dimetta dallo scranno più alto di Montecitorio, dicono gli Stracquadanio tutti (anche nelle sembianze dell’ex pacioccone Bondi) e i Cicchitto in parte. E dunque spieghi la faccenda di Montecarlo e dica se è vero che nel 1993 il tesoriere della dc romana Moschetti gli fece avere un miliardo e passa per candidarsi a sindaco di Roma (mentre evidentemente si ritiene di sapere tutto di come fu che Previti comprò un paio di sentenze per conto di un altro tizio). E Fini, poi, ripudi Elisabetta Tulliani – peraltro un po’ fahisha come Carla Bruni – e la sua imbarazzante famiglia. E si ritiri, infine, a vita privata, perché la sua stessa presenza nei tg è un insulto alla sacralità del capo e del potere che garantisce ai fedeli sottoposti. Per il momento, però, Silvio Berlusconi – inizio e fine della politica in questo Paese – non ha dato l’ordine esplicito di scatenare l’inferno, non ha (ancora) sentenziato, come nel 1209 il legato pontificio Arnaud Amaury davanti ai cittadini di Béziers sospettati di dar rifugio ai catari, «uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi». I cavalieri del Cavaliere insomma, vestiti d’armatura e lucidate le durlindane, galoppano sul posto roteando le spade e mimando una guerra che tarda ad arrivare.

nistra e tutti questi qui sparivano», ha spiegato ieri Umberto Bossi.Analisi della cui veridicità è lecito dubitare, perché se così fosse saremmo già in campagna elettorale, così come non è più scindibile – in commenti e notizie sui giornali – quel che accade da quel che ogni testata vorrebbe che accadesse. «Il discorso di Mirabello è stato un furbo tentativo di non assumere decisioni», ha spiegato Ignazio La Russa, dimenticando di dire però che ha funzionato. Si andrà in Parlamento a fare la verifica sui cinque punti e a disposizione del premier - se decide che la situazione non può che peggiorare e opta per il“o la va o la spacca” - resta solo l’autoribaltone: farsi sfiduciare dai suoi e sperare che non ci siano i numeri per un governo alternativo. Tecnica rischiosa: la saggezza democristiana raccomandava di non dare mai le dimissioni, perché c’è il caso che vengano accettate.

Se invece il Cavaliere deciderà per una volta di non essere l’übermensch da rotocalco che gli piace interpretare per la plebe e acconsentirà ad un compromesso – Lega permettendo – la strada è già tracciata. Separati i partiti e cioè la vita politica dei due, il vero terreno di scontro non sarà certo il federalismo – se Calderoli s’è guadagnato l’astensione del Pd, saprà ben trovare un accordo con Mario Baldassarri in Commissione bicamerale – ma la giustizia. E allora via il processo breve dal «patto di legislatura», come ha proposto tra mille condizionali lo stesso Silvio Berlusconi, e avanti con uno scudo giudiziario funzionante, magari sottratto alle cure del «dottor Stranamore Ghedini». Il tutto va portato a termine mentre il premier è ancora protetto dalla norma ponte sul legittimo impedimento, che va al giudizio (probabilmente negativo) della Consulta il 14 dicembre. L’offerta, riferivano i cosiddetti finiani moderati, era arrivata già venerdì scorso, con annessa strategia: una miniriforma della giustizia in cui si torni a mettere mano al legittimo impedimento – per consuetudine la Corte costituzionale infatti non decide su temi al vaglio del legislatore – e intanto andare avanti col lodo Alfano costituzionale e/o escogitare una soluzione, tutta da scoprire, per accelerare la prescrizione dei processi del capo (vicinissima in due casi su tre). Se andrà così si saprà abbastanza presto, a partire dalla notte di Arcore appena trascorsa e dall’ennesimo consiglio di guerra del Pdl in programma per oggi.

Anche La Russa attacca: «Quello di Gianfranco è stato solo un furbo tentativo di non assumere decisioni». Ma ogni scelta sul futuro è rinviata all’ennesimo vertice del Pdl in programma per oggi

Cos’è successo infatti a Mirabello? Sostanzialmente niente. Gianfranco Fini ha ribadito ciò che aveva già detto, ha distribuito qualche bastonata qui e là e certificato l’inevitabile: se Berlusconi non chiede scusa per il documento che lo ha espulso dal Pdl, difficile, l’unica via è un centrodestra con tre soggetti: FIni medesimo oltre a Berlusconi e Bossi. Elezioni? Quando mai! La palla è ancora, eternamente, tra le mani del presidente del Consiglio, che però non sa che farsene. «Così non dura, se mi avesse dato retta, si andava a votare e Fini, Casini, la si-


panorama

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erso la fine del 2007, mentre l’Onu invitava tutti gli Stati del mondo ad attuare una sospensione nella esecuzione della pena di morte, Giuliano Ferrara dalle colonne de Il Foglio lanciava la “moratoria sull’aborto”, dando voce ad un antico sotterraneo lamento cattolico: «Se siamo contro la pena di morte di coloro che vengono giudicati colpevoli, a maggior ragione dobbiamo protestare contro la condanna a morte degli innocenti, come avviene quotidianamente con l’aborto». Il grido di Ferrara, laico e non credente, già esponente della sinistra comunista e giornalista dall’argomentare affascinante, ha tenuto banco per mesi sui mezzi di informazione nazionali ed esteri. Alcuni critici osservarono che il parallelo tra la pena di morte e l’aborto era improprio e che mentre doveva considerarsi razionale un appello della Comunità internazionale per sospendere la pena di morte, inflitta per legge dagli Stati, non aveva senso un appello per la sospensione della interruzione della gravidanza eseguita non per legge, ma per decisione di decine di milioni di donne ogni anno nel mondo. Possibile la prima moratoria, impossibile di fatto la seconda.

perfezione il processo storico sospinto dalla dignità umana e dall’uguaglianza. Del resto, insieme all’art. 22 della nostra Costituzione, molte carte sui diritti umani esigono che a “tutti”sia riconosciuta la capacità giuridica. “Tutti” significa tutti, cioè ogni essere umano. Alcuni paesi di tradizione iberica hanno già introdotto la capacità giuridica del concepito nei loro codici, stanno lavorando per raggiungere tale risultato. In realtà tutti i problemi bioetici si concentrano su questo solo punto: dal momento del suo passaggio dal nulla all’esserci l’uomo è sempre uomo e come tale deve essere riconosciuto.

V

Con il consueto acume Ferrara rispose che neppure la moratoria sulla pena di morte, proclamata dall’ONU, ne avrebbe fatto cessare di fatto la applicazione, ma la solenne dichiarazione avrebbe indicato al mondo il valore indistruttibile della vita e della dignità umana ed avrebbe perciò preparato il progressivo scomparire della pena capitale. Analogamente, riguardo all’aborto, la moratoria significava soltanto la integrazione dell’art. 1 della Dichiarazione universale sui diritti dell’uomo con la precisazione che il diritto alla vita deve essere riconosciuto fin dal concepimento. Anche in questo caso l’effetto benefico sarebbe stato il consolidarsi del valore della dignità umana nella coscienza collettiva ed individuale, con la conseguente diminuzione degli aborti e il più generale e chiaro impegno degli Stati nell’adottare misure atte ad evitare la morte di tanti innocenti. Della moratoria sull’aborto si è parlato anche nel corso della campagna elettorale del 2008 per il rinnovo della Camera e del Senato. Lo stesso Berlusconi, in risposta ad un appello rivolto dal Movimento per la vita a tutti i candidati, pur ripetendo che il dibattito sulla legge 194, legalizzatrice dell’aborto in Italia, avrebbe dovuto restare estraneo alla competizione politi-

La persona comincia dal concepimento Una proposta etica per il Partito della Nazione di Carlo Casini ca, si è impegnato a «sostenere la proposta di moratoria lanciata da Ferrara».

Se siamo intellettualmente onesti dobbiamo ammettere che la proposta di moratoria, così come precisato correttamente dal suo autore, non può riguardare solo l’Onu, ma anche altre organizzazioni regionali, che si sono date carte dei diritti umani ed ogni singolo Stato. Tutti, infatti, esplicitamente o indirettamente,

Una legge di iniziativa popolare presentata nel 1995 indica il modo con cui si può realizzare in Italia la “moratoria”. È un modo semplice, che non tocca la Costituzione, la cui integrazione esige procedure complesse e che – in definitiva – già riconosce il diritto alla vita fin dal concepimento, sia pure in modo ambiguo ed oscuro per come lo ha descritto la Corte costituzionale (sentenze 27/75 e 35/97). L’art. 1 del Codice Civile apre l’edi-

La «moratoria» sull’aborto, senza toccare la Costituzione, si potrebbe realizzare riconoscendo il diritto alla vita fin dal concepimento proclamano il diritto alla vita, ma pochi chiariscono che esso esiste fin dal concepimento. Non è coerente proporre a livello universale un obiettivo la cui realizzazione richiede il difficile consenso di molti e non tentare di attuarlo, intanto, in patria, specialmente se raggiungere il traguardo dipende soltanto dalla propria decisione. Chi dunque in Italia vuole la “moratoria” deve trovare lo strumento giuridico nazionale per darle forma.

ficio dell’intero ordinamento definendo il primo soggetto dei diritti: la persona fisica. Il modo in cui l’uomo è introdotto nel mondo della giuridicità è il riconoscimento della sua “capacità giuridica”. A differenza di quanto avveniva in altri tempi, nella modernità il principio di eguaglianza esige che ogni uomo in quanto uomo sia accolto nel mondo giuridico come soggetto diverso dagli oggetti, cioè dotato di “capacità giuridica”. Non en-

tro nelle sottili disquisizioni con le quali da sempre i giuristi si sono esercitati sull’art. 1 c.c. Attualmente esso dice che “la capacità giuridica inizia dalla nascita”. Bisogna cambiarlo scrivendo “la capacità giuridica inizia dal concepimento”. Questo domanda l’unico articolo della proposta popolare, ripresentata in tutte le legislature successive al 1995 da parlamentari di vari partiti e che nella legislatura in corso ha visto il solenne pubblico dichiarato sostegno dell’Udc alla Camera ed al Senato e del Popolo della Libertà al Senato.

La proposta ha un altissimo significato culturale, pratico e politico. Fondata com’è sul principio di eguaglianza essa si colloca nella corrente che storicamente ha abolito la schiavitù, ha proclamato la non discriminazione dei neri rispetto ai bianchi, ha combattuto il razzismo, sospinge per le pari opportunità tra uomini e donne. È stato scritto (Corte Costituzionale Ungherese sentenza n. 64 del 17/12/1991) che il riconoscimento della capacità giuridica al concepito porterebbe a compimento e

Dal punto di vista pratico la legge 194 non è toccata, ma sarebbe capovolto il suo spirito. Nessuno potrebbe più dire “grumo di cellule” o anche “vita potenziale”o “progetto di vita” mentre, al contrario, diverrebbe potente la motivazione del coraggio dell’accoglienza nelle coscienze individuali, e a livello pubblico, laddove vanno costruite le misure per favorire la nascita. La legge 40, ora un po’ barcollante dopo che la Corte Costituzionale ha annullato il dovere di dare sempre almeno una speranza di vita ad ogni embrione pur artificialmente generato, troverebbe un solido sostegno di quanto già affermato all’art. 1 (dove si garantiscono “i diritti di tutti i soggetti coinvolti compreso il concepito”). Sarebbe arrestata la deriva che pretende di considerare gli embrioni umani un non costoso materiale di ricerca. L’obiezione di coscienza sanitaria non sarebbe più ridicolizzata e talora criminalizzata come se fosse uno stupido scrupolo cattolico. La proposta è di tale spessore da dover essere collocata sullo spartiacque che separa la giustizia, la libertà e la solidarietà dal loro contrario. Perciò sogno che l’Udc ne faccia la sua bandiera in un momento in cui vuole diventare “partito della Nazione”. Che significa Nazione? Essenzialmente non è un dato geografico. Essa significa radici, storia, cultura. Che sarebbe l’Italia se non avesse avuto il cristianesimo come suo compagno di viaggio? Qual è il contenuto essenziale della “dottrina sociale cristiana” se non la “centralità della persona umana” e, dunque, la solidarietà verso i più piccoli, i più deboli, i più poveri? Chi è più povero dell’uomo nel suo comparire nell’esistenza? La proposta di cui parlo è sul tavolo della politica. Non dovremmo ignorarla quando si parla di identità di un partito, di agenda bioetica, di programmi, di rinnovamento civile e morale.


panorama

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Prosegue il dibattito sugli spazi di rappresentanza dei cattolici all’interno della vita pubblica

Un Forum tra Chiesa e Stato Serve un organismo che, a ogni livello, proponga la fusione di credenti e politica di Luigi Accattoli ntervengo nel dibattito su che cosa debbano fare i cattolici per avere migliore voce in politica e dico che dovrebbero dare vita a una continuata “tempesta di cervelli” e a un serrato confronto tra diversi non avendo paura delle divisioni politiche, partendo anzi da esse e cercando di esplorare e rendere possibile – fin dove sarà possibile – una comune influenza sulla vita pubblica del Paese. Per rifarmi al linguaggio usato da chi mi ha preceduto nel dibattito, preciso che vedo anch’io – come Giuseppe De Rita – una debolezza del “tessuto intermedio” del popolo cattolico, intermedio tra la vitalità della base e il suo sbocco nella vita pubblica. Condivido l’invito di Paola Binetti a fare “rete” superando «tensioni e diversità» e tenendo presente che «di tutti c’è bisogno, per tutti c’è posto». Sono favorevole alla specificazione di Rocco Buttiglione, che parla dell’urgenza di costituire «una rete intermedia espressione di un cattolicesimo che vive nel popolo e anche lo guida».

I

teressati alla vita pubblica, siano essi convinti dello sbocco in una formazione o siano aperti a più sbocchi. Che intendo per «tempesta di cervelli» (dall’inglese brainstorming) e confronto tra diversi? Mi si potrebbe obiettare che quella tempesta già infuria e fin troppo: no, non intendo l’interminata diatriba dettata dall’agenda politica o dalle emergenze mass-mediali. Penso a un confronto tra diversi libero ma permanente e sistematico, non fine a

L’unica soluzione è creare un «brainstorming» permanente, un luogo di incontro tra diversi se stesso ma da intendere come inventario delle proposte in campo, convocazione dei proponenti e istruttoria di

Buttiglione evoca poi – come è giusto – la sua convinzione «che sia necessario anche un partito politico che rappresenti laicamente il popolo cristiano». Io non arrivo con altrettanta sicurezza a quella conclusione ma immagino che la “rete intermedia”ch’egli propone sia aperta a tutti i cattolici in-

possibili convergenze. Il richiamo alto è alla proposta mai realizzata di un «organismo nazionale permanente di partecipazione dei laici alla vita della Chiesa» che fu formulata dal padre Bartolomeo Sorge al primo Convegno ecclesiale nazionale, quello del 1976 su Evangelizzazione e promozione umana. Sono passati 34 anni: allora essa era forse prematura, oggi mi pare ineludibile. Spero si faccia avanti qualcuno che abbia l’autorità necessaria ad aggiornarla e riproporla.

Io qui ne parlo solo per il versante ad extra, riguardante cioè l’impegno dei laici nella vita pubblica. E credo che qualcosa si possa sperimentare subito. Non penso che oggi – per l’aspetto del confronto pre-politico che qui mi preme – si possa parlare di un “organismo”, ma sì di una “rete”e un “forum”: insomma un luogo non di rappresentatività ecclesiale ma promosso e ospitato dalla comunità, dove tutti coloro che sono impegnati in qualsiasi modo nella vita pubblica possano ritrovarsi, conoscersi, confrontarsi, collegarsi. Magari unirsi e magari no: la rete e il forum resterebbero comunque tali e l’azione verrebbe lasciata ai luoghi e ai soggetti dell’azione. Ma essi agirebbero dopo la “tempesta”, l’inventario, il confronto. L’idea sarà più chiara con tre esemplificazioni sul piano parrocchiale, citta-

dino, regionale. Il piano nazionale non lo tocco per non presumere troppo.

Nel territorio dove opera la parrocchia esplode il problema del crocifisso a scuola, o quello della presenza di prostitute e spacciatori per le vie, o della refezione scolastica degli insolventi. Una volta al mese, oppure ogni tre mesi il parroco convoca un incontro aperto a tutti per discuterne: iscritti ai partiti, consiglieri comunali o di zona, operatori sociali, volontari. Non per decidere ma per conoscere e concertare. Lo stesso vale con il vescovo in città e con i vescovi in regione. Oggi un poco ovunque le diocesi invitano gli eletti nelle amministrazioni locali e in Parlamento per incontri di spiritualità. Io propongo che aggiungano – e rendano sistematico – l’invito a discutere della “cosa pubblica”. Aprendo gli incontri agli elettori. Chiamando tutti e senza l’urgenza di arrivare a una presa di posizione. La funzione dell’autorità sarebbe quella di garantire cittadinanza a ogni voce. Così i politici e gli elettori verrebbero aiutati a discernere. Ce ne sono di responsabili e attendibili e attrezzati in ogni schieramento. L’incontro li favorirebbe. Ognuno saprebbe dal vivo le opportunità e i danni a cui va incontro. Crescerebbe quella dimensione intermedia tra la quotidianità e la vita pubblica di cui avvertiamo l’assenza. www.luigiaccattoli.it

La polemica. La cultura non fa spettacolo, secondo Bruno Vespa al premio Campiello

Scollatura fa rima con letteratura? di Gabriella Mecucci a storia di per sé è un po’ banalotta, ma alla fine regala una piacevole sorpresa. Tutto comincia quando Bruno Vespa, presentatore alla finale del Premio letterario Campiello, si lascia sfuggire un commento galante sulla bellezza del décolleté di Silvia Avallone. La giovane scrittrice, 26 anni, autrice del best-seller Rizzoli Acciaio, saliva i gradini per raggiungere il palco e ritirare il premio opera prima, quando è stata raggiunta dall’apprezzamento e dal sorriso malizioso del conduttore. Avallone era elegante e molto avvenente nel suo abito bianco con profonda scollatura e Vespa ne è rimasto così colpito da invitare la telecamera a riprendere le grazie (la scollatura) della ragazza più da vicino. Avallone o non ha sentito o ha fatto finta di niente. Resta il fatto che non ha commentato. Ha lasciato correre. Ma Michela Murgia, che ha trionfato con il suo Accabadora al Campiello di quest’anno, ha protestato. Ha giudicato a caldo il comportamento del presentatore «di cattivo gusto». L’incidente sembrava chiuso lì, ma Murgia,

L

raggiunta telefonicamente, dopo essere rientrata nella sua Sardegna, ha rincarato la dose: «Quando c’è di mezzo una donna si va sempre a parare sul suo corpo. Non importa la sua intelligenza. Non importa se ha scritto un libro importante.Tutto si svilisce e si riduce alla carne». Ed ha anche aggiunto che, dopo aver sentito l’apprezzamento di

prezzamento per Silvia Avallone è stato fatto con molta grazia. Michela Murgia ha dimostrato di non possedere senso dell’umorismo». Insomma, il solito incidente fra l’uomo, in questo caso il grande giornalista, e la donna, in questo caso affermata scrittrice, sul machismo italiota.

Chi invece ha dato prova di un notevole stile è stata proprio Avallone. Ha detto subito di non essersi accorta del complimento: «Ero così felice di salire su quel palco che a onor del vero non l’ho sentito». Ha aggiunto che prima delle sue fattezze leggiadre“vengono i libri”. E ha riconosciuto alla Murgia: «Mi ha fatto piacere che ha dato peso all’accaduto. La considero una sorella maggiore: da lei ho ancora molto da imparare». Insomma, fra il conduttore e l’autrice di romanzi la tenzone è stata vinta dall’esordiente Avallone che, oltre a saper scrivere, sa anche comportarsi.

Il presentatore chiede di inquadrare le grazie di Silvia Avallone e le donne protestano. Ma non l’interessata: «Non ci ho fatto caso» Vespa, lei e Gad Lerner, anche lui nella cinquina dei finalisti, sono rimasti interdetti e con lo sguardo si sono comunicati il loro disagio. «In altre televisioni europeee – ha concluso Murgia – non sarebbe permesso a nessuno di comportarsi così». Il titolare di Porta a Porta, informato della polemica non ha lasciato correre. Né stemperato i toni. Anche lui ha risposto per le rime: «L’ap-


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Qualcuno si chiede se non sia in atto un trasferimento strisciante verso l’estero (Libia, F

L’Italia in sve di Giancarlo Galli

i quel che veramente sta maturando nel retrobottega della finanza e dell’imprenditoria i comuni mortali ben poco capiscono. «Al contadino non far sapere quanto è buono il formaggio con le pere», m’ammoniva mia nonna, una Carlotti di Gallarate, mentre s’apprestava a vendere (ora direi piuttosto“svendere”), boschi, terre ben coltivate, pascoli, per “far sonante”, a dispetto della parentela. I ricordi dell’ava, un tantino cinica ed opportunistica ma apparentemente premurosa e sollecita, mi perseguitano innanzi agli ultimo Fatti & Misfatti che cronisti pur intelligenti ci propongono in versione zuccherina e adulterata. Comprensibile: in Italia (caso unico al mondo) i media sono direttamente controllati da baroni dell’economia, che lasciano dire e scrivere quel che fa loro comodo.

D

Carlo De Benedetti per Repubblica, gli Agnelli per La Stampa, la Confindustria di Em-

ma Marcegaglia per il Sole 24 Ore, una conglomerata di “potentissimi” (da Giovanni Bazoli a Luca Cordero di Montezemolo, Diego della Valle, Cesare Geronzi, Giampiero Pesenti e Marco Tronchetti Provera), sulla plancia di comando del Corriere della Sera); la famiglia Caltagirone al Messaggero. Quanto alle Tv, il circuito filo-berlusconiano (non pago dell’influenza su Il Giornale e Libero), ha voce in capitolo, e che voce!, su Mediaset ed almeno due terzi della pubblica Rai. Definire questa galassia “la voce dei padroni”non è quindi né azzardato né provocatorio.

La Fiat, da un secolo e passa fiore all’occhiello dell’imprenditoria nazionale, sotto l’abilissima regia di Sergio Marchionne, sta progressivamente riducendo la sua presenza nel Paese Così, a farla breve, al ”contadino” (la stragrande maggioranza degli italiani), s’ammaniscono soporiferi ed insipidi brodini, ad evitare di spiegare quel che bolle in pentola. Straordinario spettacolo, degno di una troupe di fantasisti-alchimisti, innanzi alla realtà. Siamo al cospetto di una Fiat, da un secolo e passa fiore all’ occhiello dell’ imprenditoria nazionale, che sotto l’abilissima regia di Sergio Marchionne, sta progressivamente riducendo la presenza in Italia. Sulla scia, industriali come i Merloni, chiudono e delocalizzano. La sacralità (antica) dei contratti di lavoro è posta in discussione: lavorare di più, con busta-paga alleggerita. Non che gli imprenditori abbiano tutti i torti. In molti (troppi) casi, un


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Da sinistra: l’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne; Vittorio Merloni, figlio di Aristide (fondatore delle Industrie Merloni) e presidente della holding Indesit; Luca Cordero di Montezemolo, amministratore delegato della Ferrari; Vincent Bolloré (nel 2006, la rivista Forbes lo ha classificato al 451° posto nella lista degli uomini più ricchi del mondo). Grandi e tutt’altro che trasparenti manovre sono in corso ai piani alti della finanza, del banking e dell’industria nazionale. Eppure se ne parla poco, comunque con linguaggio cifrato, comprensibile solo agli addetti ai lavori. Anche chi ha le mani in pasta si chiede se dietro le quinte non sia in atto un trasferimento strisciante, verso l’estero. Con sostanziale distacco dalla Germania, sino a poco tempo fa partner privilegiato

Francia, Usa), abbandonando la Germania, sino a poco tempo fa partner privilegiato

endita

la Libia, nonostante tutto, è sempre stata riconosciuta dalla comunità internazionale come“zona d’influenza”italiana. Si tira in ballo la guerra italo-turca del 1911 contro l’Impero Ottomano, e quel che ne seguì. Gheddafi, nella sua ultimissima e fresca visita a Roma, gli abbracci col premier cavalier Silvio Berlusconi, non avrebbe in sostanza altro fatto che riallacciare uno storico legame. Secondo. La Libia non ha una classe dirigente adeguata alle dinamiche economiche mondiali. Ricchezza ”transitoria e transuente”, la sua. Legata all’estrazione di un petrolio che fra qualche decennio potrebbe esaurirsi. Perché non sfruttare l’opportunità? Quindi, lasciamoli entrare, coi loro petrodollari, nelle nostre aziende... Oltretutto, in materia abbiamo esperienza da vendere: negli Anni Settanta, il dominus di Mediobanca Enrico Cuccia salvò la Fiat portando i libici nell’azionariato, salvo successivamente sbarazzandosene. Quali timori, allora? Non bastasse, in virtù dei più recenti accordi, in un gran balletto di miliardi (investimenti-risarcimenti nostri), profitti petroliferi, in Libia costruiremo strade, raffinerie, ogni sorta di opere pubbliche. Quasi un giroconto! Sarà vero? Nel frattempo, i tripolini s’apprestano a conquistare una

Grandi (e poco trasparenti) manovre sono in corso ai piani alti della finanza, del banking e dell’industria nazionale. Ma se ne parla poco. E con un linguaggio comprensibile solo agli addetti ai lavori sindacalismo castal-ideologico-corporativo, incurante per insensibilità alla mondializzazione dell’economia, aveva posto le nostre aziende ”fuori mercato”. Pesante al riguardo, la cultura ottocentesca della Fiom-Cgil. Ma, sia registrata senza acredine polemica, pure la posizione del nostro Ministro Maurizio Sacconi, ex socialista ed ora berlusconiano doc, che con zelo degno di miglior causa, cerca di conciliare l’inconciliabile.

Che la Fiat, con la prossima ristrutturazione (scissione del settore auto), molli gli ormeggi da Torino è ormai scritto. Dopo il matrimonio con la Crhysler officiato da Barack Obama, sarà più americana che italiana. Il boccone è amaro, ma bisogna prenderne atto. E faremmo bene ad interrogarci sui perché. Domanda rivolta a quelle legioni di economisti che per lustri hanno strologato sui vantaggi dell’internazionalizzazione, la caduta delle frontiere. Dalla Fiat ad Unicredit, uno dei nostri colossi bancari. (L’altro, il San Paolo-Intesa). Se il tandem MarchionneAgnelli va trasferendo il baricentro da Torino a Detroit, l’amministratore delegato di Unicredit, Alessando Profumo, s’è gettato con entusiasmo nelle braccia dei soci libici.Tripoli infatti, acquisito il 7 per cento del capitale attraverso le sue società finanziarie, diverrà il primo azionista. C’è da avere timore degli investimenti sponsorizzazioni dal colonnello Gheddafi? Innanzi al montare delle polemiche, nel piccolo mondo antico della finanza si replica con sommessa argomentazione: «I libici sono azionisti come gli altri...». Qualcuno, sottovoce argomenta. Primo,

Tripoli si appresta a conquistare una posizione dominante nell’azionariato di Unicredit. E molti degli addetti ai lavori (almeno in Borsa) assicurano che stavano rastrellando il titolo da tempo posizione dominante nell’azionariato di Unicredit, e gli addetti ai lavori (in Borsa) assicurano che stavano rastrellando il titolo da tempo, profittando della sua debolezza, poiché la Banca naviga al pari dell’intero settore, in acque non proprio calme. Sennonché, coi libici in posizione dominante, gli interrogativi sul ”che faranno?”si moltiplicano. Facendo tremare i polsi, qui passando dal terreno finanziario a quello politico, ai tre maggiori azionisti attuali: il tedesco Dieter Rampl (presidente dell’Istituto) che rappresenta i soci mitteleuropei, la Fondazione Cassa di Risparmio di Torino e soprattutto la Fondazione CariVerona di Paolo Biasi. Soffermiamoci un attimo su questo personaggio, potentissimo quanto poco conosciuto, poiché allergico alle luci della ribalta: non a caso ribattezza-

to “La sfinge”. Sino a poche settimane fa, era il primo azionista di Unicredit, e da quella posizione spalleggiato da Dieter Ramp e dalla Fondazione CRT teneva sotto scacco l’amministratore delegato Alessandro Profumo. Questi ha però deciso di liberarsi dalla stretta, lasciando spazio ai libici senza avvertire della mossa gli altri soci di riferimento.Tant’è che la Consob, l’organismo di controllo delle società quotate in Borsa, a buoi scappati, ha aperto un’indagine, per verificare il rispetto delle regole. Delle due l’una, comunque. I libici sono davvero ”azionisti come gli altri” e non covano ambizioni egemoniche, come sostengono il finanziere franco-tunisino Tarak BenAmmar (per inciso grande amico di Silvio Berlusconi) e l’ambasciatore di Tripoli a Roma Abdulhafed Gaddur, oppure... gatta ci cova. Non sarà che a latere dei recentissimi trattati siglati a Roma da Berlusconi-Gheddafi esistano protocolli aggiuntivi e segreti? Il timore od il sospetto, chiamiamolo come si preferisce, prende corpo nell’establishment finanziario, e non solo.

Le ricadute “in politica” sono state immediate. Facendo tuonare il quotidiano leghista La Padania, che dà voce alle ansie del Governatore veneto Luca Zaia, del sindaco di Verona Flavio Tosi, del neogovernatore piemontese Roberto Cota. Alle ultime elezioni regionali, conquistati Piemonte e Veneto, i colonnelli bossiani avevano immediatamente posto gli occhi sulle Fondazioni bancarie (dove le nomine dei consiglieri dipendono dalle amministrazioni locali), con l’intento di entrare nelle “stanze dei bottoni”della finanza. Ed il settantenne veronese Paolo Biasi, ricco industriale ed immobiliarista, un passato di flirt dalla Dc a Massimo D’Alema, s’era con balzo gattopardesco schierato con gli uomini del Carroccio. Senonché il cambio di cavalli di Alessandro Profumo, imprevisto e forse imprevedibile, li ha spiazzati.Tuttavia Bossi non pare avere intenzione di chiedere spiegazioni a Berlusconi che «non può non sapere». Perché? Unicredit è al centro di altre manovre. Dai 4700 esuberi preannunciati per il prossimo triennio, alla cessione di Pioneer (180 fondi d’investimento) al francese Crédit Agricole. Già, i francesi.Vincent Bolloré, l’imprenditore transalpino con una robusta partecipazione in Mediobanca, va manifestando il proprio interesse per le Generali. Lì, un modesto investimento non gli ha impedito di arrivare nella terna dei vicepresidenti. Provvisoria conclusione. Grandi e tutt’altro che trasparenti manovre sono in corso ai piani alti della finanza, del banking e dell’industria nazionale. Eppure se ne parla poco, comunque con linguaggio cifrato, comprensibile solo agli addetti ai lavori. Anche coloro che hanno in qualche misura le mani in pasta, si chiedono se dietro le quinte (con quale regista?) non sia in atto un trasferimento strisciante, verso l’estero. Libia, Francia, Usa. Con sostanziale distacco dalla Germania, sino a poco tempo fa partner privilegiato. Chissà perché di tutto ciò nessuna discussione in Parlamento. Alla faccia di ogni elementare principio di democrazia finanziaria.


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Crisi alimentare. In un mercato globalizzato, il blocco delle esportazioni deciso da Putin mette in ginocchio i più deboli

La battaglia del grano Gli incendi in Russia hanno fatto impennare i prezzi. E in Mozambico è rivolta per il pane di Alessandro D’Amato n tempi di crisi, c’è un picco del quale nessuno, o quasi, si accorge. È quello del prezzo del grano, del quale scrive il Financial Times: una crescita che si è incrementata ulteriormente venerdì, a causa della decisione della Russia di prolungare di altri 12 mesi il divieto di esportazione del grano. L’annuncio di Vladimir Putin, arrivato il giorno prima, fa il paio con quanto accaduto in Mozambico. Dove un aumento del 30% del prezzo del pane ha scatenato rivolte sociali che hanno causato sette morti, 288 feriti e 3,3 milioni di dollari di danni. La polizia ha aperto il fuoco sui dimostranti dopo che a migliaia sono scesi in piazza per protestare contro l’impennata dei prezzi, bruciando copertoni e saccheggiando magazzini. La Food and Agricolture Organization ha convocato un vertice alle Nazioni Unite per discutere dell’emergenza grano. Anche se i funzionari agricoli e commercianti insistono sul fatto che le forniture di grano e succedanei sono più abbondanti che nel 2007-08, i funzionari temono che le rivolte per il cibo possano diffondersi. I prezzi del frumento sono rimasti elevati venerdì. I futures (cioé i contratti che “scommettono”- in realtà coprono sul rischio delle oscillazioni di prezzo - sul grano) a Chicago

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sono aumentati dell’1,5% a 6,91 dollari per bushel, mentre i futures del frumento europei sono rimasti su livelli storicamente elevati sopra i 230 euro a tonnellata, appena più sotto del punto toccato due anni fa a 236 euro. I prezzi del frumento hanno registrato un’impennata di quasi il 70% da gennaio, e gli analisti prevedono ulteriori aumenti dopo la decisione della Russia e le preoccupazioni sui danni del tempo ai campi dell’Australia. I problemi delle colture in Russia, che hanno sofferto la peggiore siccità mai registrata questa estate, e altrove, hanno accumu-

lato pressione sugli agricoltori degli Stati Uniti per aumentare la fornitura nel mondo. Il dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti ha aumentato le sue stime per le esportazioni di frumento degli Usa di 8 miliardi di dollari, per la campagna in corso. Il periodo 2007-08, caratterizzato nel mondo per la scarsità di cibo più forte negli ultimi trent’anni, ha innescato rivolte dal Bangladesh al Messico, scrive il FT, e ha contribuito a far cadere governi come quello di Haiti e quello del Madagascar. Oggi quella situazione potrebbe ripetersi anche in paesi più

Nel 2013 scatteranno le nuove regole: Cameron vuole spostare i fondi sulla ricerca

La Ue non rinuncia al suo totem La politica agricola comune assorbe ancora la metà del bilancio di Enrico Singer avid Cameron sta preparando la sua prima battaglia in Europa. La battaglia contro la Pac, la politica agricola comune della Ue: l’unica che in Gran Bretagna ha sempre messo tutti d’accordo. La cominciò Margaret Thatcher che nel vertice europeo di Fontainebleau, nel giugno dell’ormai lontano 1984, minacciò di lasciare la Cee - come si chiamava allora - se non fosse stato accordato uno sconto ai contributi che Londra versava alle casse comuni di Bruxelles. «I want my money back», voglio indietro i miei soldi, fu la frase assai diretta che pronunciò la lady di ferro per far capire agli altri leader della Comuniutà che era stufa di versare sterline che andavano agli agricoltori degli altri Paesi - in particolare Francia e Italia - senza alcun ritorno significativo per i farmers britannici che sono grandi allevatori di bestiame, ma non coltivatori. E se, nel 2003, la Pac è stata per la prima volta rivista, il merito o la col-

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pa - dipende dai punti di vista - è del laburista Tony Blair che si è mosso nello stesso solco tracciato dalla più combattiva tra gli esponenti del fronte conservatore. Alla fine del 2012 scadrà l’accordo del 2003 che ha già spostato una parte delle risorse che andavano ai settori “storici”della politica agricola comune, e adesso sono cominciate le trattative per disegnare le regole della nuova Pac che scatterà dal 2013 e che durerà fino al 2022.

L’impennata dei prezzi del grano sui mercati mondiali sta fornendo argomenti ai

Il sistema di sovvenzioni è sotto accusa al Wto: danneggia la concorrenza e le esportazioni dei Paesi in via di sviluppo. Ma Francia, Italia e Spagna non vogliono smantellare la Pac difensori dei meccanismi di sostegno all’agricoltura tradizionale europea. Ma Cameron non ha alcuna intenzione di indietreggiare e la proposta che, entro il dicembre di quest’anno, metterà sul tavolo è di sopprimere completamente le sovvenzioni generalizzate concesse finora per quote alle diverse coltivazioni - lasciando soltanto quelle dirette all’innovazione, al biologico e alle

produzioni di qualità - e di destinare i fondi così liberati alla ricerca e alle infrastrutture. Alla base del ragionamento c’è una filosofia che comincia ad essere condivisa anche da altri Paesi della Ue: l’Europa deve competere nel mercato globale in settori di eccellenza, magari anche alimentare, ma soprattutto tecnologico e industriale lasciando perdere l’impari confronto con i grandi produttori di derrate agricole. Su questa linea, naturalmente, David Cameron ha dei forti alleati: l’Organizzazione mondiale del commercio, che vede come il fumo negli occhi i sussidi agli agricoltori europei che falsano la concorrenza, e il fronte dei Paesi in via di sviluppo che basano gran parte delle loro economie sull’agricoltura e che, da decenni, criticano la Pac che considerano una politica protezionistica. Per la verità, questi argomenti furono presi in considerazione anche nel 2003 al momento della prima, significativa, revisione della Pac. In quella occasione la fetta di bilancio europeo destinato alla Pac scese al 34 per cento del totale (alla sua nascita, cinquant’anni fa, la politica agricola comune assorbiva il 70 per cento delle risorse comuni), ma un altro 11 per cento fu destinato all’innovazione in agricoltura: un mezzo per lasciare, comunque, a quota 45 per cento la spesa della Ue per sostenere il settore. Tutti questi stanziamenti stanno per finire: il dicembre 2012 è la data di scadenza dell’accordo sulla Pac

c m n s P m t v t c t s


che fu raggiunto nel 2003 e il nuovo commissario europeo all’Agricoltura, il rumeno Dacian Ciolo, ha appena avviato le consultazioni per stilare le regole del futuro. Per il momento ha invitato tutti i 27 Paesi membri della Ue a far conoscere le loro intenzioni. E la sintesi della posizione di David Cameron è tratta proprio dal documento che Londra sta per inviare a Bruxelles. Il commissario Dacian Ciolos, che ha assunto il suo incarico appena nel febbraio scorso, ha rivolto ai governi quattro domande.

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grandi. Per questo la Fao ha chiesto ai paesi di impegnarsi ad esportare, e ha puntato il dito contro la Russia. Il quarto più grande paese esportatore al mondo, con il suo embargo, ha già costretto gli importatori in Medio Oriente e (soprattutto) Nord Africa, a cercare sbocchi tra Europa e Stati Uniti. Putin ha detto che ci penserà, ma «il divieto potrà essere tolto soltanto quando sapremo quanto grano avremo raccolto l’anno prossimo», e ha ripetuto che il grano russo serve alla Russia, «per garantire un ambiente stabile per il business».

«Perché una politica agricola comune europea? Quali sono gli obiettivi da assegnare oggi all’agricoltura? Perché riformare la Pac e in che modo renderla rispondente alle aspettative della società? Quali devono essere gli strumenti della Pac di domani?».

Sopra: un campo di grano durante il periodo della raccolta delle spighe; in alto: i giorni degli incendi di Mosca; a sinistra: David Cameron, primo ministro britannico

Interrogativi generali, per adesso. Che nei prossimi mesi, tuttavia, diventeranno il terreno di uno scontro anche duro perché nella Ue ci sono Paesi, come la Francia, soprattutto, ma anche come l’Italia e la Spagna, che non sono disposti a sacrificare la loro economia agricola sull’altare della liberalizzazione dei mercati e dell’invasione di prodotti magari a basso costo, ma anche di qualità inferiore a quella della produzione nazionale che è, e resta, un bene da difendere. Il problema dell’approvvigionamento alimentare in Europa è molto complesso e si allarga all’occupazione nelle zone rurali, alla gestione sostenibile delle risorse naturali, al controllo dei cambiamenti climatici. In sostanza, alla modernizzazione e alla competitività dell’agricoltura europea. Affidarsi alle regole del mercato è giusto, ma rinunciare all’autosufficienza alimentare è sbagliato. E rischioso, come dimostra l’andamento dei prezzi del grano che hanno raggiunto record senza precedenti per cause naturali imprevedibili, come gli incendi che hanno devastato i raccolti in Russia. Perché se è vero che la Pac, con i suoi aiuti agli agricoltori, può essere considerata una politica protezionistica, è altrettanto vero che, anche inpresenza di tali misure, l’Unione europea è già oggi il primo importatore mondiale di prodotti alimentari, nonché il più grande acquirente delle derrate alimentari del terzo mondo. Che si tratti di riso, di grano, di caffè, di soia ed anche di frutta. Quanto basta per prevedere che sulla riforma della Pac per il decennio 2013-2022, lo scontro sarà duro.

«Questo è molto grave», ha risposto Abdolreza Abbassian, della Fao a Roma. «Due anni di fila senza esportazioni russe creano un turbamento forte nel mercato». Jakkie Cilliers, direttore dell’Istituto del Sudafrica di studi sulla sicurezza, ha detto che c’è preoccupazione per il ripetersi delle proteste del 2008: «Questo certamente ha rafforzato il ritorno dei militari in politica in Africa». C’è una crisi alimentare in arrivo? Su Foreign Policy dicono di sì. Le inondazioni in atto in Pakistan, oltre alla siccità e agli incendi russi, drammatizzano una situazione già difficile, con il prezzo del grano che è aumentato del 50% soltanto da giugno. Ed è solo l’inizio: a breve la domanda per le altre colture alimentari essenziali come il riso aumenterà come parte di un effetto a catena sui mercati alimentari mondiali,

cenda Fidenato, per indicare i metodi comunemente utilizzati da noi per dirimere talune questioni. Più che altro, però, c’è da sottolineare che sui mercati globali il cibo (e le materie prime elementari) vengono trattate come una merce qualsiasi. Il mercato globale è incapace di prezzare la fame e gli effetti sulle popolazione, che possono arrivare fino alla distruzione di una civiltà, come estrema conseguenza. In attesa di sapere se la soluzione “più libero mercato” sia quella adatta, c’è da spiegare come la interpretano i cinesi. Per capirlo bisogna raccontare la storia di Bhp e Potash. La prima, un colosso minerario angloaustraliano, ha lanciato un’offerta pubblica di acquisto ostile in contanti da 130 dollari ad azione nei confronti della seconda, che produce fertilizzanti per l’agricoltura e l’agroalimentare, valutandola complessivamente 40 miliardi di dollari. Troppo poco per il mercato, che valuta il controllo intorno ai 60. Ma abbastanza per far innervosire la Cina, che ha minacciato una controfferta da parte della Sinofert, controllata da Sinochem (il braccio chimico del governo cinese), e partecipata al 22% da Potash.

Le autorità della provincia canadese del Saskatchewan, dove ha sede Potash, hanno però messo le mani avanti: un azionista cinese, anche non di controllo, «desterebbe preoccupazioni», ha avvertito il ministro dell’Energia Bill Boyd. «Il suo inte-

Anche le inondazioni in atto in Pakistan drammatizzano una situazione già difficile. Ed è solo l’inizio: minaccia di carestia in Niger e Mali facendo aumentare i costi per i consumatori. In particolare, l’Egitto e altri paesi che dipendono fortemente dal grano russo potrebbero vedere un aumento dei prezzi drammatico e disordini per le strade. Nel breve termine, scrive sempre FP, gli Usa devono mantenere la promessa di Obama di spendere 3,5 miliardi di dollari in assistenza alla sicurezza alimentare. Da quando ha fatto la promessa nel 2009, solo 812 milioni dollari sono stati spesi. Sicuramente gli Usa possono fare di meglio. L’aiuto alimentare d’emergenza è necessario ora per evitare morti inutili e carestia in Niger, Mali, Ciad, Burkina Faso, Mauritania e Nigeria settentrionale. Foreign Policy nell’elencare i problemi indica una responsabilità anche nelle culture assistite: «Un recente rapporto della Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo indica le sovvenzioni per l’agricoltura nei paesi più ricchi del mondo è salito a 252.500 milioni dollari, ovvero il 22% delle entrate complessive del ’agricoltori nel 2009. E gli ostacoli al libero scambio tra i paesi in via di sviluppo devono essere eliminati». La mente ritorna alla questione delle quote latte e della Lega, oppure alla vi-

resse, in quanto cliente, sarebbe infatti quello di mantenere molto bassi i prezzi del potassio». I cinesi hanno incassato, e rilanciato: il giornale China Business News ha annunciato la possibile apertura di un’inchiesta antitrust nei confronti delle due società. Il giornale ha citato il nuovo regime di tutela della concorrenza, varato due anni fa da Pechino, che ha esteso la possibilità di avviare indagini su operazioni condotte da società straniere, nel caso in cui queste ultime abbiano un giro di affari superiore a 10 miliardi di yuan (1,5 miliardi di dollari) e ricavino più di 400 milioni di yuan l’anno dal mercato cinese. Posizione dominante nei mercati dei fertilizzanti? Difficile sostenerlo, visto che Bhp non ne produce. Ma intanto i cinesi mettono le mani avanti. Muovendosi con una logica che tende a proteggere più che altro sé stessi e agitando la bandiera del libero mercato. Una logica che tende a considerare il cibo come un bene primario, degno di tutela maggiore rispetto ad altri. Gli altri pensano all’apertura del mercato. La prossima grande guerra, quella per il cibo, ci dirà chi aveva ragione.


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Spagna. Il governo: «Continueremo a perseguire i terroristi baschi» l governo spagnolo non intende cambiare la sua politica anti-terroristica. La tregua unilaterale annunciata dall’organizzazione armata basca Eta, è giunta fuori tempo massimo e non è più sufficiente per avviare una soluzione negoziata del conflitto. Il primo ministro Josè Luis Zapatero, che pure nel 2006 aveva concesso una contestata apertura di credito al gruppo terroristico, avviando trattative segrete per la pacificazione, ha fatto sapere attraverso il suo portavoce che il suo esecutivo non intende cambiare la politica contro il terrorismo. La freddezza di Zapatero si spiega con lo scotto che il leader socialista ha subito durante il primo mandato, quando la sua popolarità e la sua stessa carriera politica sono state messe a repentaglio proprio dalla disponibilità a trattare con i terroristi. Zapatero si è perfino rifiutato di commentare direttamente l’annuncio e ha lasciato al suo portavoce, Josè Antonio Alonso, il compito di far sapere che la credibilità dell’Eta è pari a «zero». Per Alonso, la tregua è probabilmente «una mossa tattica» in vista delle elezioni municipali del 2011. Il partito Batasuna, braccio politico dell’Eta, aveva infatti già chiesto una tregua nella speranza che i tribunali spagnoli sollevino il bando nei suoi confronti, imposto nel 2003, e gli permettano di correre alle elezioni.

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La chiusura di Zapatero viene confermata anche dal fatto che il governo spagnolo abbia scelto di far parlare sulla questione il responsabile degli Interni. «Il governo non cambierà di una virgola la sua politica antiterrorista», ha dichiarato ieri il ministro degli Interni, Alfredo Perez Rubacalba, definendo

Zapatero respinge la tregua dell’Eta Nessuna pace finché i separatisti non diranno “no” alla violenza e consegneranno le armi di Massimo Ciullo

è ciò che «esige la società spagnola». Secondo il ministro delle Infrastrutture Josè Blanco, l’Eta è ricorsa alla tregua perché indebolita dagli arresti. Negli ultimi mesi, grazie anche alla fattiva collaborazione del governo di Parigi, quasi l’intero vertice politico e militare dell’organizzazione separatista è stato assicurato alla giustizia. Scettica sulla tregua anche

Negli ultimi mesi quasi l’intero vertice dell’organizzazione è stato assicurato alla giustizia. E Madrid non scende a patti «insufficiente» il cessate il fuoco proclamato dal gruppo separatista. «L’Eta - ha aggiunto - deve abbandonare la violenza completamente e per sempre». Maria Teresa De La Vega, vice di Zapatero, ha ribadito il concetto espresso da Rubalcaba, affermando che l’Eta ha una sola opzione a disposizione: il definitivo abbandono delle armi. La vice-premier ha dichiarato che la risposta di tutte le forze politiche è stata univoca e chiara: resa incondizionata, perché questo

l’opposizione del Partito Popolare. Secondo Dolores de Cospedal, numero due del partito, l’unica possibilità accettabile è la resa incondizionata dell’Eta. Ma le parole più dure nei confronti dei separatisti armati sono arrivate da Vitoria, capitale della comunità autonoma; qui, il governatore socialista Patxi Lopez, si è fatto interprete del sentimento popolare, affermando senza mezzi termini che la tregua non ha soddisfatto l’unico desiderio dei baschi: la «sparizione»

Il gruppo armato è nato nel 1958

52 anni di guerra sporca L’organizzazione armata basca Eta (Euskadi Ta Askatasuna: Patria Basca e Libertà) nasce nel 1958, quando un gruppo dissidente dell’organizzazione giovanile del Pnv (Partido Nacionalista Vasco, di ispirazione democristiana) decide di intraprendere la lotta armata contro la dittatura franchista che aveva spazzato via nel lontano 1937 l’autonomia basca. Passerà un decennio prima che l’organizzazione passi all’azione. Il primo attentato rivendicato dai separatisti armati avviene infatti, il 7 giugno del 1968, quando viene uccisa la guardia civile José Pardines; il 2 agosto dello stesso anno viene ucciso Melitón Manzanas, dirigente della Brigada Social (polizia politica) di Guipúzcoa. Fino alla morte del Generalissimo

Francisco Franco, i principali obiettivi dell’Eta rimarranno esponenti della Guardia Civil e dell’esercito. Il 20 dicembre 1973 viene assassinato l’ammiraglio Luis Carrero Blanco, capo del governo e successore designato del generale Franco. Alla morte del dittatore venne concessa un’amnistia ai membri dell’organizzazione, che però non servì a fermare la spirale di violenza ormai innescata. Gli anni del ritorno alla democrazia furono caratterizzati dalla cosiddetta “guerra sucia” (guerra sporca) messa in atto dal governo di Madrid contro i separatisti, attraverso l’impiego di agenti (Gal) che agivano con modalità terroristiche nelle tre province basche. L’Eta rivendica il diritto all’autodeterminazione per il popolo basco.

dell’Eta. Grazie al sostegno esterno dei popolari, il socialista Lopez è il primo esponente di un partito estraneo al nazionalismo basco a guidare l’amministrazione regionale basca. Di segno nettamente opposto a quello dei partiti “centralisti”, le reazioni e i commenti della sinistra “abertzale” (nazionalista). Esponenti di Batasuna e del mondo sindacale vicini all’indipendentismo basco hanno concordato sul fatto che la nuova tregua offre un’opportunità eccezionale per la soluzione del conflitto. Una possibilità che il governo di Madrid non deve assolutamente rigettare senza prima aver preso in considerazione la riapertura di negoziati modellati su quelli che hanno portato alla cessazione del conflitto in Irlanda del Nord e al disarmo dell’Ira e dei gruppi paramilitari protestanti. Proprio da Gerry Adams, leader del partito cattolico nord-irlandese Sinn Fein, e protagonista insieme a Tony Blair degli Accordi di Pace del Venerdì Santo (1998) che hanno messo fine a oltre tre decenni di violenze tra cattolici e protestanti, è giunto l’appello affinché Madrid colga questa opportunità per arrivare alla pace.

Per Adams, la proposta dell’Eta di voler cercare «una soluzione democratica al conflitto» è significativa e potrebbe far tacere per sempre le armi nei Paesi Baschi. «È dunque vitale che il governo spagnolo risponda in maniera positiva e colga questa opportunità per far progredire il processo di pace e stabilire rapidamente dei negoziati politici» ha dichiarato Adams alla radiotelevisione pubblica irlandese Rte. Lo Sinn Fein, considerato il braccio politico dell’Ira (Esercito della Repubblica irlandese), è reputato vicino al movimento separatista basco. I separatisti armati hanno scelto di inviare un video-messaggio, attraverso la Bbc, al governo di Madrid. Nel video appaiono tre persone incappucciate e una voce femminile legge il comunicato dell’Eta in cui si evidenzia il fatto che da mesi il gruppo non compie più azioni militari. Nel messaggio viene anche ribadito che l’Eta non intende riprendere la lotta armata in futuro, se da Madrid verrà aperto un canale per le trattative. Quella di domenica è l’undicesima tregua proclamata dall’Eta, che dal 1968 ha ucciso più di 850 persone in attentati terroristici.


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Il legale annuncia la scarcerazione. Ma Baghdad smentisce

Il ministro francese Kouchner pronto ad andare a Teheran

Ègiallo sulla liberazione di Tarek Aziz, ex vice di Saddam

Sakineh, si teme lapidazione venerdì 10

BAGDAD. In fin di vita e sull’or-

TEHERAN. La mobilitazione del

lo della liberazione. Anzi no. Malato ma non al punto di essere rilasciato. È un giallo quello che si è consumato ieri fra Baghdad e Amman, in Giordania, da dove il legale di Tarek Aziz, l’ex capo della diplomazia di Saddam e poi suo vicepremier, «volto umano» e unico cristiano dello spietato regime iracheno, ha annunciato la prossima liberazione per motivi di salute dell’ex vice del Raìs. Il legale, Badih Aref, ha detto di essere stato avvisato personalmente da uno stretto collaboratore del primo ministro iracheno, Al Maliki. Ma nel giro di poche ore, un altro uomo - sotto anonimato dello staff del premier, avrebbe smentito seccamente la notizia in maniera laconica e chiara: «Non stiamo pensando ad una liberazione di Tarek Aziz e inoltre non è di competenza del Primo ministro».

mondo per salvare Sakineh non scuote la determinazione degli ayatollah, che almeno per ora non sembrano dare segnali di apertura alle richieste di clemenza e anzi sono pronti a lapidare altri 13 condannati (10 donne e 3 uomini), che attendono nelle carceri iraniane. E mentre il ministro degli Esteri francese, Bernard Kouchner, si dice pronto ad andare a Teheran per cercare di far liberare Sakineh Mohammadi Ashtiani, condannata nel 2006 a morte per lapidazione per adulterio e complicità nell’omicidio del marito, il figlio 22enne della donna Sajjad Mohammadi Ashtiani ringrazia l’Italia di cuore e tutti quelli che si sono mobilitati, ma

Certo è che sta male e ha già avuto due infarti. Solo che lo scorso 15 luglio,Tarek Aziz con l’uscita dall’Iraq da parte degli Usa - aveva “dovuto” lasciare dopo sette anni, due mesi e qualche giorno la protezione (forzata) degli americani. E aveva subito fatto capire di temere per la sua vita. Il politico, si era consegnato all’esercito vincitore il 24 aprile 2003,

Nuovo patto di stabilità, la Ue divisa sulle sanzioni Slitta a ottobre l’accordo definitivo tra i Paesi membri di Francesco Pacifico a riforma del Patto di stabiltà subisce un nuovo rallentamento. Ieri - alla task force tra i ministri finanziari dei 27 e il presidente del Consiglio Ue, Van Rumpuy - si è dovuto prendere atto che la diplomazia ha ancora tanto da lavorare. Infatti sono state rinviate a ottobre le decisioni sugli strumenti - valutazione dei rischi e sanzioni - per far rispettare l’obbligo di velocizzare la riduzione del debito per quei Paesi che hanno superato il tetto del 60 per cento rispetto al Pil. Criterio sul quale si articola la riforma.

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A differenza di quanto speravano i più ottimisti, non sarà il prossimo consiglio dei capi di Stato e di governo del 16 settembre a chiudere la partita. Ma è errato pensare che si rimetteranno in discussione gli accordi già presi e la volontà di arrivare nel 2011 alla nascita di quella che Giulio Tremonti ha chiamato «una vera e nuova politica europea, coordinata e collettiva, non più eclettica ed estemporanea e diversa per Stato e Stato». Oggi l’Ecofin farà un importante passo avanti e stabilirà che dal 2011 gli obiettivi dei bilanci nazionali saranno oggetto di confronto preventivo a livello europeo nella prima parte dell’anno, durante la quale si deciderà se far scattare o meno la sorveglianza sugli squilibri macroeconomici. Con la Cina che corre più velocemente (il governo ha fatto sapere che nel 2010 gli investimenti diretti supereranno i 100 miliardi di dollari) e un’America che arranca, l’obiettivo degli europei è duplice: spegnare sul nascere ogni focolaio di speculazione per evitare nuovi casi greci; rendere l’area più competitiva, spingendo i Paesi a intensificare gli sforzi nella ricerca e nella moderazione salariale. Per tutto questo - ma soltanto se entro l’anno si arriverà a un accordo definitivo - dal 2011 partirà una sezione di bilancio comune, che valuterà le manovre presentate dai singoli Stati e deciderà se far scattare o meno misure restrittive per alleggerire i conti. Non a caso

Tremonti ha parlato di «una fondamentale devoluzione di potere dal basso verso l’alto e dal diviso all’unito». Ma se questa è la direzione, il cammino si dimostra ancora pieno di ostacoli. Infatti non tutti i Paesi sono concordi in un’applicazione rigida nel rientro dal debito. Per evitare che la Germania e la commissione restassero isolate, Herman Van Rompuy ha facilitato un onorevole compromesso e accettato che accanto al debito pubblico si guardasse anche al debito dei privati, al grado e al tipo di garanzie sulle emissioni di bond, ai livelli di inflazione, alla spesa sociale, alle condizioni e agli eventi che hanno determinato il peggioramento delle finanze di un determinato Paese. Ma per evitare che queste aperture (molto positive per esempio per l’Italia) si traducessero in una spinta al laissez faire, serve chiarezza su sanzioni, tempistica e modalità di applicazione. E su questo versante le posizioni dei Paesi membri sono molto lontane, soprattutto se ci sarà automaticità e se la leva del rigore passerà per una riduzione dei fondi europei. Sempre oggi al tavolo dell’Ecofin si discute sulla tassa che Germania e Francia hanno già messo sulle banche e sul balzello destinato alle transazioni finanziare, ormai un imperativo per il presidente della Commissione, José Barroso.

Vanno avanti le trattative sulle modalità di applicazione delle regole sul debito. Intesa lontana per la tassa sulle banche

quindici giorni dopo la caduta di Bagdad e a poche settimane da una storica udienza in Vaticano con Giovanni Paolo II. Poco più di un mese fa, insieme ad altri 55 alti dignitari dell’antico governo, ha lasciato Camp Cropper, l’ultimo centro di detenzione che gli Stati Uniti hanno riconsegnato all’Iraq. Destinazione: il carcere di Khadimiya, sempre nella capitale. Il trasferimento era subito stato tacciato dall’avvocato del politico-prigioniero (oggi 74enne) come un tradimento da parte degli Usa e di Obama in particolare. Perché venuta meno la protezione americana il rischio è che possa venire eliminato in segreto.

Ieri, il presidente dell’Eurogruppo, JeanClaude Juncker, ha già fatto sapere ai giornalisti che al momento non ci sono le condizioni per chiudere un accordo. Senza contare che il mondo creditizio tedesco è pronto a non far sconti alla Merkel, visto che le nuove regole di Basilea III imporranno agli istituti locali un plus di capitalizzazione pari a 105 miliardi di euro. Di conseguenza è più facile ipotizzare che arrivi dall’Ecofin arrivi soltanto un ok alla seconda tranche di aiuti alle Grecia e una soluzione per superare il no pronunciato dal Parlamento slovacco al meccanismo anticrisi messo a punto dai partner europei.

da Tabriz dice: «serve di più, perchè qui capiscono soltanto i rapporti di forza». E paventando la lapidazione della madre per venerdì prossimo (giorno in cui termina il ramadan, ndr, così come fatto, sempre ieri, dal filosofo francese Bernard-Henri Levy assieme al’ex legale di Sakineh, Mohammad Mostafei, fuggito nelle scorse settimane in Norvegia) chiede passi più formali, solenni, come la convocazione dell’ambasciatore a Roma. «Penso anche al rafforzamento delle sanzioni, l’unico linguaggio che capiscono a Teheran».

Di diverso avviso l’attuale avvocato della donna, Javid Houtan Kian, che dalla cittadina iraniana di Tabriz fa sapere che «l’allarme sulla vita di Sakineh resta alto, ma per ora non ci sono elementi concreti che facciano supporre che la sua esecuzione sia stata fissata per venerdì». Per l’avvocato, le dichiarazioni che Mostafei rilascia alla stampa internazionale rischiano di «creare equivoci nocivi per Sakineh», come già accaduto con la foto pubblicata dal Times, che le sarebbe costata 99 frustate. Appello a non abbassare la guardia anche da parte di Shirin Ebadi, la prima musulmana a vincere il Nobel per la Pace.


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il documento Il discorso di Angela Merkel per il Ventennale della riunificazione

C’è una cosa che l’Europa non conosce: la nostra rivoluzione Nel 1989 i cittadini della Germania dell’Est diedero il colpo fatale al regime per costruire il proprio futuro: il sistema socialista poteva sopire le coscienze finché i suoi bisogni erano basilari, ma quando per evitare il collasso del Paese occorsero conoscenza e nuove informazioni, allora il bisogno di libertà divenne insopprimibile di Angela Merkel rmai sappiamo tutti l’importanza del patto politico che portò all’unificazione della Germania: un atto difficile, ma che è ora considerato un fondamentale, pioneristico e necessario passaggio nel processo politico che ha condotto all’unità tedesca. Probabilmente, l’unità non si sarebbe realizzata senza il grande entusiasmo che ha coinvolto tutti gli attori e gran parte della popolazione, che in un periodo molto particolare è stata capace di sforzi notevoli. Tutto questo mi fa ripensare a quanto fosse giusta – allora – la decisione presa dal governo di allora di informare dettagliatamente anche i giornalisti dando così il diritto di poter seguire dietro le quinte tutto ciò che veniva deciso. Imparai molto dal patto di unificazione, soprattutto sulla struttura interna della vecchia Repubblica Federale, poiché forse, mai come in quei giorni, si poté capire con quante sfaccettature ricche di tensioni sia stato realizzato il federalismo. Nell’entusiasmo e nell’emozione collettiva una cosa era chiara a tutti, sia agli uomini che alle donne dell’Est e dell’Ovest: quando si raggiunge ciò che ci si è prefissato, poi si deve anche fare attenzione che funzioni. Il compito del patto di unificazione fu fondamentalmente questo. Nell’al-

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lora Repubblica Democratica Tedesca (Ddr) c’erano diverse correnti. C’era chi credeva ad una terza via molto lunga ed ad un periodo di transizione altrettanto lungo. Vi era, invece, chi si mostrava estremamente impaziente, tanto da provocare quasi uno scandalo il 17 giugno, quando, nella parte occidentale, alcuni, davanti alle finestre, pensavano con il

Quel che abbiamo imparato in questi vent’anni è che la libertà senza responsabilità, non basta per andare avanti fiato sospeso: ce la faranno? Ma tutto fu molto ben organizzato dalla parte orientale. La terza strada, quella del giusto equilibrio e della misura, si rivelò ancora una volta la più appropriata, se si pensa, che dal 18 marzo fino al 3 ottobre il tutto fu portato nella forma di sta-

to di diritto. Si sono dovute mettere insieme molte cose: la fondazione delle Regioni, il patto per l’unione monetaria, economica e sociale, i negoziati per l’unificazione ed, infine, l’elaborazione di una possibile politica estera della Germania unita. Se oggi si guarda a tutto questo con un sguardo retrospettivo, una cosa appare chiara: già soltanto l’aver coordinato il tutto, in modo da poter giungere al 3 ottobre all’unità tedesca – senza considerare affatto i processi di unificazione dei partiti e di tutto quello che doveva essere realizzato – fu un’impresa ben riuscita, di cui noi potremo ancora essere orgogliosi tra dieci, venti, trenta, quaranta o cinquant’anni anni.

A noi era tutto già chiaro tanto che al tempo Wolfang Schäuble disse: «Non è possibile che tutto migliori dall’oggi al domani, molte cose avranno bisogno di tempo. Decenni di economia pianificata comunista con le loro conseguenze non si possono correggere in una notte. Ma ognuno sa, che ora c’è la possibilità di agire in modo indipendente». Per tutto questo si sono create le condizioni necessarie. Proprio nella discussione è apparso nuovamente evidente, che gli uomini devono poter far uso di ciò che il diritto mette a loro disposizione. Vorrei

ancora una volta ricordare le forze propulsive che ci hanno condotto a questa situazione. Tra queste bisogna considerare soprattutto il coraggio degli uomini della ex Ddr - un coraggio che ha avuto precedenti in altri paesi dell’ex blocco orientale, prima fra tutti la Polonia; ma si può anche aggiungere la Praga del 1968, così come Budapest. Questo coraggio era allora molto più grande di quanto noi oggi possiamo immaginare. Quando parlo di questo con i tedeschi dell’ovest, chiedo sempre di ricordare, nel caso abbiano avuto parenti nella Ddr, cosa si provava a contrabbandare libri oltre cortina – nei rari casi in cui questo fosse possibile – oppure nel portare con sé un giornale. Al tempo, in quella Ddr che ormai andava verso la sua stessa fine, ciò che ci ha spinto ad andare avanti è stato soprattutto il coraggio dei cittadini e di tutti coloro che lasciarono il paese. E allora viene da chiedersi: la generazione di allora era forse più coraggiosa di coloro che vissero nella Ddr negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta? Alcuni indizi lasciano pensare che non si sia trattato di un improvviso scatto di orgoglio, quanto piuttosto di altre forze propulsive che sono sopraggiunte. A mio parere un fattore essenziale in questo contesto fu il decli-


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sero sullo stesso piano la Ddr e i suoi cittadini, senza comprendere che come individui è possibile condurre una vita retta ed significativa anche in uno stato ingiusto. Ho sempre cercato di dire: fortunatamente alla Ddr non è riuscito di impedire ai genitori di educare in modo responsabile i propri bambini e che questi hanno insegnato a ricevere le virtù fondamentali. Qualsiasi patto di unificazione non ci avrebbe aiutato, se le vite individuali non si fossero realizzate nei desideri, nei propositi e nelle azioni ai quali si aspirava. Questa fu, dunque, una condizione importante per l’unità tedesca.

no economico, che, a sua volta, non sarebbe stato percepito allo stesso modo, se non quando la cosiddetta società del sapere vi fece riferimento, con nuove informazioni e con una nuova gestione delle informazioni. Sino a quando si è trattato di produrre quante più macchine possibile di un solo tipo, nell’economia pianificata socialista era ancora possibile ‘spremere’ la gente. Quando però, per sopravvivere economicamente, fu necessario legare sapere e informazioni a nuovi concetti, si ebbe bisogno di un clima di libertà. Ma se voi chiedete agli uomini di pensare liberamente durante il loro lavoro, allora essi non vi potranno più rinunciare. Essi si trasformeranno allora in dissidenti o in critici del sistema. Il sistema però non lo permise. Per questo non era possibile far finta di non vedere la nuova situazione economica e il progresso. Questa è almeno la mia profonda convinzione.

Allora avevamo numerosi problemi da risolvere tra cui, credo, i più grossi furono i problemi legati alla proprietà. Si poteva diventare veramente furiosi, poiché eravamo naturalmente tutti concordi, che la cosiddetta riforma agraria, l’e-

spropriazione di fondi e terreni in ambito agricolo, era ingiusta. È un peccato che allora non abbiamo avuto la forza di pensare all’ingiustizia umana così come forse sarebbe stato necessario. È un peccato, che discutemmo, a lungo e con molti fraintendimenti, sulle regole di pensionamento e che, ancora, abbiamo avuto bisogno di quasi un ventennio per creare un luogo di memoria mentale per il ricordo della dittatura comunista – tutto ciò mi fa pensare che, potendo tornare indietro, porrei più attenzione a questi aspetti. A questo punto arrivo anche ad altri problemi, che per una determinata generazione erano forse inevitabili. Il primo: non tutti coloro i quali avrebbero voluto collaborare alla costituzione dell’unità tedesca poterono realmente farlo perchè avevano perso il lavoro o perchè furono vittime della cattiva amministrazione ed dell’economia pianificata. Il secondo: molti si sono a lungo tormentati con l’idea che la propria vita individuale non fossè nè giusta nè di valore, sol perchè si viveva in uno stato ingiusto. Ciò è stato in parte causato dal fatto che molti cittadini della Repubblica Federale, che non sapevano nulla della Ddr – e non è né un’accusa né un rimprovero – pones-

Davanti ai risultati fin qui raggiunti (al cammino fatto sino ad ora), non ci si può non meravigliare. Negli ultimi mesi abbiamo avuto un numero di disoccupati che è all’incirca pari a quello poco successivo alla riunificazione tedesca. Ci sono meno di un milione di disoccupati nelle regioni della Germania dell’Est. Viene spesso dimenticato che oggi nelle nuove regioni c’è una vita media sette anni più alta per gli uomini e di sei anni per le donne. Si può vedere come la vita nell’allora Ddr era drammaticamente più difficile: probabilmente, in primo luogo, a causa della situazione climatica e, in secondo luogo, a causa della mancanza di assistenza medica ed, infine, a causa dei sintomi di stress. Se la vita media dopo vent’anni è più alta di sei e sette anni, si tratta già di un miglioramento notevole della nostra qualità. Inoltre, ci sino 4,4 milioni di uomini che sono andati da Ovest ad Est e 5,5 da Est a Ovest. Vale a dire che ci sono molti che hanno conquistato una nuova patria: non soltanto cittadini dell’Est nella parte Occidentale, ma anche molti dell’Ovest nella parte Orientale. Se si osserva retrospettivamente ciò che è accaduto nel mondo negli ultimi vent’anni si vede che è cambiato quasi tutto, a partire dall’Europa come continente dove la guerra fredda si è manifestata in modo più evidente. Con la fine della guerra fredda, con la fine degli anni ottanta e con il trionfo della libertà, la democrazia ha vinto in una misura incredibile. Era un movimento che coinvolse l’intera Europa e che ha condotto a un’Unione Europea totalmente diversa. Ma si è anche sviluppato qualcosa che, negli ultimi anni, ci ha plasmato molto. Dopo la vittoria della libertà abbiamo anche conosciuto gli eccessi di libertà come ad esempio nei mercati finanziari. Credo che oggi ci sia di nuovo un movimento che cerca di sensibilizzare alla misura e di questo dobbiamo essere orgogliosi: Ciò che oggi abbiamo come economia sociale di mercato in Germania, si è conservato. In questo senso libertà, se non è accompagnata dalla responsabilità, non ci fa andare avanti. Se ci fermassimo qui, allora ci fermeremmo anche nel nostro benessere e successo. Il mio insegnamento è in questo senso di ricordare e di utilizzare ulteriormente la forza e la passione, che noi avemmo per il raggiungimento della libertà e della democrazia. Ci aspettano altri grandi compiti e sono compiti da svolgere insieme. Non si chiederà più se si viene dall’Est o dall’Ovest, ma soltantoß se si ha una buona idea e come si intende realizzarla. Infine, posso solo dire che, al giorno d’oggi, per poter sottoscrivere patti si ha bisogno di molta passione, di molta pazienza e di molto slancio ideale. Per questo il patto di unificazione dovrebbe rappresentare una buon esempio per gli altri patti che devono essere fatti nel mondo. (Traduzione di Ubaldo Villani-Lubelli)

Verso la festa del 3 ottobre

Un intervento che apre celebrazioni e polemiche l testo che pubblichiamo qui accanto è il discorso che il Cancelliere tedesco Angela Merkel ha pronunciato la scorsa settimana al Bundestag di Berlino in occasione del ventennale della firma del «Patto di Unificazione» tedesca, il 31 agosto del 1989. Le celebrazioni, aperte in quell’occasione, di protrarranno fino al 3 ottobre prossimo, data ufficiale della Riunificazione, in memoria dell’adesione delle cinque province della ex-Ddr alla Germania Federale. Il discorso di Angela Merkel assume particolare importanza in questo contesto perché - forse per la prima volta - mette l’accento sull’apporto dei tedeschi dell’Est al processo della Riunificazione. Se siamo abituati a considerare come trainante nella caduta del comunismo nel 1989 la «rivoluzione» di Solidasnosc in Polonia e della dissidenza in Cecoslovacchia, non altrettanto siamo soliti fare relativamente alla Germania dell’Est. La “rivoluzione” di Berlino è vissuta soprattutto come un capolovoro della politica di Helmut Kohl: naturalmente Angela Merkel non nega questa isione consolidata, ma offre ai suoi interlocutori (ricordiamo che si tratta di un discorso ufficiale rivolto alla classe politica tedesca di oggi) la forza di una rivendicazione inedita: anche i cittadini della Ddr fecero la loro rivoluzione. Ribellandosi in prima persona al regime socialista che imponeva vincoli terribili alla libertà. Il Cancelliere, anzi, analizza l’impatto sociale delle scelte economiche del regime. Inoltre, nelle parole di Angela Merkel c’è anche una risposta diretta alle accuse lanciate pochi giorni prima da Gunther Grass a proposito del processo di Riunificazione. Intervistato dallo Spiegel, il grande scrittore aveva detto: «Continuo a pensare che non avremmo dovuto inghiottire la Ddr in un modo tanto affrettato. I cittadini che scesero in piazza per mettere fine al regime comunista della Ddr hanno fatto appena in tempo a pronunciare la storica frase ”il popolo siamo noi”, che sono stati liquidati e il loro patrimonio è stato svenduto per due soldi dalla Treuhand (la struttura creata per privatizzare le aziende della Ddr, ndr)». Grass aggiunge in tono sferzante che «c’è una bella porzione di autoinganno, se adesso in questa ricorrenza del ventennale ci complimentiamo a vicenda per quanto è bello ciò che è stato realizzato».

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spettacoli

Cartoline da Venezia. «Gli angeli del male» con uno splendido Kim Rossi Stuart. E Placido, attaccato, si difende: «Non è apologia, tra i politici c’è di peggio»

René, il criminale divo Tecnicamente perfetto, «moralmente» discutibile: dura polemica al Lido per il film su Vallanzasca di Alessandro Boschi

VENEZIA. Il film di Michele Placido Vallanzasca - Gli angeli del male è un film molto divertente, ben diretto, benissimo recitato dal protagonista Kim Rossi Stuart e con una perfetta ricostruzione degli anni Settanta. Il guaio è che la lettura che viene data delle vicende del “bel René” è invece del tutto sbagliata. D’altra parte, sta diventando una moda piuttosto consolidata quella di trasformare delinquenti in quasi eroi, o comunque in gente che ha sì fatto del male (dei “disastri”, come li definisce Vallanzasca-Stuart in una intervista), ha sì ucciso della gente, è sì stata condannata ad ergastoli e a centinaia di anni di reclusione, ma in fondo solo perché si sentiva attratta dal alto oscuro dell’anima, ma che comunque ha sempre mantenuto un proprio codice d’onore. Alla faccia.

diretta), avrebbe trattenuto la smania di schierarsi decisamente dalla parte del suo affascinante protagonista. Cosa che fa in maniera ancora più palese, ma dubbi non v’erano, mettendo la propria foto accanto a quella di Stuart-Vallanzasca in una immagine che mostra delle riviste dell’epoca che molto risalto davano al boss della Banda della Comasina. Un messaggio nemmeno tanto subliminale.

F r a n c a m e n t e , f o s s i m o stati nei panni del regista, avremmo fatto lo

sogna pentirsi mai. Chi canta merita di morire. Insomma, il ritratto che esce del criminale nativo di Lambrate ha molti più lati positivi di quanto non siano quelli negativi. Anche la ricostruzione degli scontri a fuoco, in particolare l’assalto all’Esattoria civica di Piazza Vetra a Milano tiene conto della versione di Vallanzasca, che sostiene l’esecuzione di un suo compagno, freddato mentre era già a

La ricostruzione degli anni Settanta è perfetta, come pure il lavoro sugli attori: peccato che tutto sia stato fatto tenendo conto solo il punto di vista di un pluriassassino

La lettera apparsa ieri sul Corriere della Sera firmata da Emanuela Piantadosi, Presidente della Associazione vittime del dovere, afferma quella che a noi pare una verità e un principio incontestabili: «Non è ammissibile riscrivere la storia e una memoria collettiva dei fatti che riguardano spietati assassini attraverso le loro logiche». Michele Placido, che da regista brillante e spregiudicato qual è si è fatto prendere la mano, ha davvero esagerato. La pellicola, va detto, ieri mattina è stata accolta da molti applausi, e noi crediamo che al regista in fondo interessasse solo questo. Perché se avesse avuto un po’ più a cuore tutte le vittime che Vallanzasca ha lasciato dietro di sé, tutte le rivolte fomentate in carcere di cui peraltro non c’è traccia nel film (se non in maniera in-

stesso film, avremmo raccontato la stessa storia, ma non ci saremmo serviti di un pericoloso riferimento come il bandito milanese. Ma si sa, Vallanzasca “tira”. Che poi il film è pure divertente, ed è esattamente qui che risiede il rischio. Rossi Stuart che parla in dialetto milanese, che fa lo sbruffone dimostra da un lato quanto egli sia sempre più bravo e quanto la regia abbia insistito nella creazione di un personaggio simpaticamente sfrontato, solo un filo assassino, come dicono a Milano. Che fino a prova contraria ha provveduto all’esecuzione di Massimo Loi, membro della sua banda che il bel René, non tollerando il suo pentimento, ha provveduto ad uccidere in carcere con le proprie mani (e il rassicurante appoggio del branco…). Naturalmente in tutto ciò sarà stata trovata una rispettabile coerenza in quanto il comportamento messo in atto risponde a uno dei due principi del Vallanzasca pensiero: il primo è che non si traffica in stupefacenti, il secondo che non bi-

terra. Ed è questo che Placido ci mostra. La verità diventa quella del bandito, perché la verità è diventata quella del film. D’altra parte, la glorificazione del criminale Vallanzasca era nell’aria, se è vero che la produzione del film aveva fatto sapere alla stampa di non aver voluto deliberatamente portare Renato Vallanzasca in carne ed ossa al Lido per fare pubblicità alla pellicola. Segno che un po’ di riguardo, di timore per l’eccessivo rumore, c’era. D’altro canto, nulla di male a fare film sui criminali (la storia del cinema ne è piena); nulla di male ad accettare il chia-

A sinistra, Kim Rossi Stuart che interpreta Renato Vallanzasca (nella foto sopra) nel film di Michele Placido presentato ieri al Lido. Nella pagina a fianco, Martin Scorsese roscuro degli personaggi negativi, ma certo confondere i personaggi con gli eroi è un espediente pubblicitario molto ambiguo. Comunque...

Poi, si va alla conferenza stampa e si scopre che non ci abbiamo capito nulla. Afferma Placido: «Il mio non è certo un film assolutorio. Quello che fa Vallanzasca è fin troppo chiaro: ammazza poliziotti, scanna il suo amico più caro in carcere. Se uno vede una glorificazione non ha capito. È un criminale fino in fondo ma un criminale con una sua etica del male». Ma Michele Placido pensa che siamo tutti scemi? Evidentemente sì. A parte la discutibilità di una formula come quella indicata dal regista: «etica del male». Vallanzasca possiede l’etica del male. Ci sembra interessante invece, ed onesto, quello che dice Kim Rossi Stuart: «Pensavamo fosse giusto


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7 settembre 2010 • pagina 21

Presentato il documentario «A letter to Elia»

L’omaggio privato di Martin Scorsese a quel grande «ispiratore» che si chiama Elia Kazan di Andrea D’Addio

VENEZIA. Quando il 28 settembre 2008 si sparse la notizia della morte di Elia Kazan, Mervyn Rothstein del NYT lo definì uno dei più onorati e influenti registi nella storia di Broadway e di Hollywood. Per Martin Scorsese, che lo conobbe quando da studente ne seguì una lezione all’Università, fu il più importante padre artistico della sua formazione. È per questo che il cineasta italo-americano ha realizzato A Letter to Elia, presentato fuori concorso a Venezia. «Nonostante sia stato spesso ospite a casa sua e chiedessi sempre un suo parere sui miei film, non gli ho mai voluto rivelare quanto il suo lavoro avesse inciso sul mio desiderio di diventare regista. Ora che è morto, lo faccio con questa lettera». Durante il documentario, solo 60 minuti, Scorsese racconta le sue prime visioni di quando era ancora ragazzino, di Un tram che si chiama desiderio (trattio dal popolarissmo dramma teatrale di Tennessee Williams) e Fronte del porto, e di come queste due pellicole gli avessero fatto venire voglia di scoprire anche i primi lavori di Kazan. Quando uscì La valle dell’Eden, la sua scaletta di film preferiti cambiò immediatamente. Era il 1955 e il desiderio di studiare ogni più piccolo dettaglio spinse Scorsese a inseguire per i cinema di tutta la città le sue varie proiezioni. Nel conflittuale rapporto fra i due fratelli interpretati da James Dean e Richard Davelos e il padre, Martin vi ritrovò la stessa relazione di amore e odio che viveva ogni giorno tra le mura di casa e che poi inserì in molte sue successive pellicole. Come Scorsese, anche Kazan era figlio di immigrati europei e così, quando vide Il ribelle dell’Anatolia, l’immedesimazione divenne quasi totale.

La storia controversa del regista che portò al cinema i drammoni popolari di Tennessee Williams e consacrò il mito di Marlon Brando

Poco incise sul giudizio di Scorsese,

mettere il protagonista sulla graticola e far emergere sia il bene sia il male. E speriamo di esserci riusciti». Ma Kim Rossi Stuart ammette di avere visto solo un premontato, e forse non sa che questo bene e questo male hanno subito una bella “indirizzata” dal regista. In favore del protagonista. Forse però la spiegazione sta in un’altra dichiarazione di Placido: «Ci sono persone che

stanno in Parlamento e hanno fatto peggio di Vallanzasca». Vero o non vero che sia, non sta certo a noi dirlo, va da sé che se proprio questi «signori che hanno fatto peggio di Vallanzasca ci fossero» in futuro volesso promuovere la produzione di un film su di sé, saprebbero a chi rivolgersi.

la “colpa”di cui si macchiò Kazan, ovvero l’avere collaborato con il maccartismo, facendo undici nomi. Kazan «era di fronte a due alternative entrambe spaventose e sbagliate»: non fare più film o inimicarsi il suo ambiente. Scelse «la più tollerabile», provando poi a giustificarsi con una lettera ai giornali, che però attirò ancor più l’attenzione sul suo gesto. Il senso di colpa spinse Kazan a dirigere, da un soggetto di Budd Schulberg, quel capolavoro di Fronte del porto, storia di tradimenti e redenzione in cui in molti lessero le vicende del regista. Come Marlon Brando, anche Kazan cercava una sua via per la redenzione. Quando nel ’99 ricevette l’Oscar alla carriera, le polemiche furono molte e al momento della consegna, molti in platea non si alzarono ad applaudire. Prevedendo l’esito, Scorsese e De Niro avevano deciso di essere loro a consegnare a Kazan la statuetta, manifestandogli in mondovisione affetto e stima. Da grandi a grandi, senza giudicare, per il bene dell’arte.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE

No alla visione centralista della Carta costituzionale A proposito delle polemiche su un eventuale pericolo di derive verso il modello catalano contenute nella proposta di Statuto del Veneto, non posso che ricordare che si sta parlando di una delle regioni più avanzate del continente, e che la sua autonomia garantisce l’unità della nazione spagnola. Non vedo come possa apparire al ribasso un confronto tra il Veneto e uno dei principali artefici di quelle piccole patrie di cui si nutre la ricchezza continentale. Dal punto di vista economico, culturale, politico e linguistico, le analogie tra Catalogna e Veneto sono strutturali e radicate nella memoria dei due popoli. Ciò che ad altri potrebbe apparire una forzatura ideologica, per noi è un vero e proprio punto d’onore: l’autonomia.“Prima il Veneto”non era solo uno slogan elettorale, ma un punto di partenza. Non si capisce perché ciò che potrebbe portare a un reale sviluppo di terre come il Veneto e la Puglia sia vissuto dalla sinistra e dai suoi nuovi alleati come un’offesa all’unità nazionale. Sono convinto che il processo federalista debba culminare in quello che Einaudi definiva il «massimo di autonomia possibile per le singole comunità». Il vero problema è che si sono disattese le aspettative dei padri costituenti, imponendo alla Costituzione una visione Ellezeta centralista rispetto a una federalista.

TASSA PER I CORTEI? NO, MEGLIO IL PAGAMENTO DEL SERVIZIO Pagare una tassa a manifestazione? La proposta del sindaco Alemanno non ci trova d’accordo. Sarebbe più opportuno far pagare i servizi, per esempio le pulizie, e l’eventuale risarcimento del danno arrecato dai responsabili. L’idea di una tassa favorirebbe solo le grandi organizzazioni in grado si supportare l’aggravio economico. Ogni manifestazione (a proposito che fine ha fatto l’area di Tor Vergata appositamente predisposta, nel 1999, per ospitare le grandi manifestazioni e che è costata al contribuente qualcosa come 252 miliardi di lire?), ha un impatto sulla Capitale. Si pensi a quelle che si svolgono in piazza S. Giovanni con centinaia di migliaia di manifestanti che provocano una montagna di rifiuti e danni al verde pubblico. La decisione dovrebbe coinvolgere

tutte le tipologie di manifestazioni, anche quelle religiose. Si consideri quelle svolte in piazza san Pietro o nell’attiguo auditorium: decine di migliaia di persone, due volte a settimana, sono un’influenza consistente sulla città. Saremmo ben contenti se il sindaco avesse il coraggio di affrontare la questione con determinazione e senza sconti. Per nessuno.

Primo Mastrantoni

IN PUGLIA LA CONFERENZA MONDIALE PER LA LIBERTÀ RELIGIOSA Mi piace la proposta di una “Conferenza mondiale per la libertà religiosa, che speropossa svolgersi in Puglia. Non a caso la proposta governativa è stata rilanciata da Pier Ferdinando Casini ad Otranto, città degli 800 martiri della fede. La Puglia è terra di pace e ci sono una serie di ragioni storiche, geografiche, religiose e politiche

Giù la testa! La spiaggia di Mahò, a St. Marten (Antille Olandesi), è uno dei posti più famosi del mondo per i fanatici del “plane spotting”. A Mahò Beach, situata proprio nelle vicinanze dell’aeroporto Princess Juliana International, non è raro essere “sfiorati” da aerei molto grandi, come i Boeing 747

che ne fanno la sede ideale per ospitare una Conferenza mondiale per la libertà religiosa. Sosterremo la proposta del presidente Casini, convinti della sua attualità.

S. N.

UN’INFORMAZIONE A 360 GRADI Volevo fare una considerazione da semplice cittadino. Qualche volta acquisto il vostro quotidiano liberal, che è ottimamente fatto, ma se posso vorrei suggeririvi di introdurre come tutti i quotidiani cronaca,

L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

sport, spettacolo e tutto quello che ci vuole per un’informazione a 360 gradi.Visto il momento di crisi economica, non tutti possono permettersi di comprare due quotidiani, uno di politica e l’altro per il resto. So che economicamente è molto differente, ma ripeto, era solo una considerazione che avevo in testa e probabilmente anche altri avranno. Sperando di avervi aiutato in questo suggerimento vi porgo i miei piu cordiali saluti e buon lavoro a tutti.

Simone Cerino

da ”The Indipendent” del 06/09/10

«Sì» alla devolution, ma anche nel Labour l giovane rampollo del Labour parla al quotidiano britannico di come si dovrebbe muovere il partito per puntare alla sconfitta dei Tory. Un appello a smetterla di sparare sul ”pianista” del partito, invece che puntare a fare opposizione seria, per sconfiggere i conservatori alle prossime elezioni. Figlio di un professore di origini ebreepolacche, un teorico marxista, David Milliband, è oggi concentrato nello sviluppo dell’obamiano, Movement for Change, che spinge molta della sinistra europea, ma ancor più quella britannica, a una spasmodica rincorsa di riforme politiche all’altezza del confronto col collega d’Oltreatlantico. Un confronto spesso impietoso. In una lunga intervista, fatta nel suo quartier generale di Wenminster, il politico laburista racconta strategie e tattiche, malumori e speranze per quella che potremo definire la grande risalita dei labour, usciti malconci dalla fine dell’era Blair e poi dalla poco brillante esperienza di Gordon Brown a Downing Street. «Ho riscoperto ciò che ho sempre intuito, che la forza della politica va ricerca all’interno delle comunità. È lì che possiamo pescare le persone e le idee che ci servono per rilanciare il partito», esordisce richiamando ad una sorta di rifondazione della classe dirigente laburista. Il sottointeso è l’eredità di una ledaership divisa dalla guerra intestina, resa palese ai più, dalle memorie di Tony Blair, che aveva definito Brown un personaggio «pericoloso». Milliband è tutto proiettato al futuro. Un incontro ricco «d’energia» e di spunti nuovi per chi voglia fa-

essere formata da un puzzle di campagne elettorali decise a livello locale. Per Milliband i labour avrebbero predicato bene e razzolato male: di qui la sconfitta. Ma ciò che colpisce dell’analisi del leader britannico è l’assoluta semplicità con cui traccia i problemi dell’Inghilterra e quindi di una politica che si adegua molto lentamente alla realtà.

I

re politica, spiega il leader dei laburisti parlando del meeting con i leader delle comunità locali. «È qui che ha sbagliato Tony» aggiunge poi, riferendosi all’ex premiere Tony Blair. «Non voler aprire il partito» a nuovi contributi è ciò che avrebbe portato alla sconfitta il Partito laburista, secondo l’analisi di Milliband. «Disciplina e apertura» non sarebbero dunque in contrasto. In parole povere, l’ex studente di Oxford, del college Corpus Cristi, non è convinto che si possa promuovere una politica per superare la vecchia concezione dello Stato invasivo, parlare di devolution e poi all’interno del proprio partito operare una sorta di «amministrazione centralizza». Uno stile che avrebbe dovuto essere adottato anche in campagna elettorale. La piattaforma politica non poteva essere decisa dal centro, ma avrebbe dovuto

«Come si può essere egualitari se il Paese si impoverisce? Come possiamo adattarci alla deriva del baricentro economico verso Cina e India? Come possiamo ricostruire le comunità, se le idee tradizionali di aggregazione sociali sono cambiate?» c’è un grandissimo lavoro di studio da fare, ma non è possibile cominciare a fare analisi, se non con la giusta organizzazione, spiega Milliband. E per fare un esempio di devolution aggiunge: «le amministrazioni locali dovrebbero avere maggiori poteri per definire le politiche sociali e quelle di contrasto alla criminalità». Sul rapporto tra società ed economia ha una sua ricetta. «Abbiamo lasciato troppo libero il mercato, non chiarendo bene quali dovevano essere i diritti e le responsabilità delle comunità. Sia lo Stato assistenziale che il tatcherismo non sono sufficienti. Dobbiamo cercare un nuovo rapporto tra Stato e cittadini». E tira dentro anche la politica dell’attuale premier: «Il contratto di Cameron è: noi (politici) facciamo meno e voi cittadini di più. Il nostro patto con gli inglesi è che lo Stato è un partner o un catalizzatore che aiuti i cittadini a fare meglio da soli». Insomma, una variante sul tema.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g osservatorio del lavoro

LE VERITÀ NASCOSTE

di Vincenzo Bacarani

Perde tutti i suoi averi per un falso annuncio su Internet JACKSONVILLE. Immaginate di tornare a casa stanchi dopo una giornata di lavoro. E a questo punto incrociate un camion che trasporta un po’ di vostri mobili, il vostro tagliaerba e altri attrezzi da giardino. È quello che è successo a Robert Salisbury nell’Oregon, in Usa. Salisbury ha inseguito il camion, ed è riuscito a fermarlo. Il conducente gli ha mostrato allora un annuncio stampato da craiglist.com, e si è rifiutato di dargli indietro le sue cose perché nell’annuncio c’era scritto che erano in regalo. Infatti, qualcuno aveva postato su craiglist

che Salisbury doveva lasciare la zona di fretta, e tutti i suoi beni, compreso un cavallo, erano in regalo. Quando è arrivato a casa, Salisbury ha trovato una trentina di persone che rovistavano tra la sua roba: nonostante l’uomo aveva spiegato loro di essere il proprietario e che dovevano andarsene, questi hanno mostrato la stampa della pagina di craiglist, e hanno rivendicato il diritto di portarsi via quello che volevano. L’uomo ha, a questo punto, chiamato la polizia, ma la maggior parte delle persone era già andata via quando sono arrivati. «Quello

ACCADDE OGGI

COMUNE A RISCHIO DISSESTO L’eredità lasciata dall’amministrazione Marrocco al Comune di Carpignano Salentino è piuttosto pesante. La Corte dei Conti ha confermato che il nostro è uno dei Comuni più a rischio dissesto d’Italia, visto che per il 2008 rientra nell’elenco dei 24 enti con avanzo di amministrazione inferiore ai fondi vincolati. Quando i fondi vincolati, per la sorte capitale, finiranno nel 2015, il comune di Carpignano avrà seri problemi, visto che dovrà continuare a pagare una rata di circa 160mila euro l’anno fino al 2036. Una situazione che porterà le amministrazioni future ad aumentare le tasse, per far fronte al pagamento della rata. Un bel regalo ai cittadini. in giro i cittadini.

Giantommaso Zacheo

I “CANILI” SONO PIENI Se la magistratura di sorveglianza applicasse le misure alternative, le galere italiane non sarebbero così stracolme. E poi perché non dare una possibilità anche a quei detenuti che sono da tanti anni in carcere? Molti di loro sono ancora recuperabili, forse più di quelli che hanno da fare un anno e che sono dentro da pochi mesi. Sia il centrosinistra che il centrodestra sono d’accordo solo su una cosa: riempire i carceri come delle scatole di sardine e usare l’emergenza mafia per continuare a prendere voti e continuare a essere mafiosi. Per sconfiggere il sovraffollamento delle galere italiane, non serve costruire nuovi carceri, basterebbe svuotarle. E per svuotarle basterebbe cambiare le regole sociali. Il carcere in Italia non è altro che lo specchio di fuori, dell’ingiustizia, della

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

7 settembre 1934 A Torino si aprono i I campionati europei di atletica leggera 1940 Seconda guerra mondiale: la Germania nazista inizia a tempestare di bombe Londra 1977 Vengono firmati dei trattati tra Panama e gli Stati Uniti sullo status del Canale di Panama. Gli Usa concordano nel trasferire il controllo del canale a Panama, alla fine del XX secolo 1979 La Chrysler Corporation chiede al governo degli Stati Uniti 1 miliardo di dollari per evitare la bancarotta 1986 Desmond Tutu diventa il primo nero a guidare la Chiesa Anglicana in Sudafrica 1987 A Copenaghen viene ratificato un accordo multilaterale tra 13 Paesi europei per la diffusione del Gsm 1988 Abdul Ahad Mohmand, il primo afgano nello spazio, rientra a terra a bordo della navetta sovietica Soyuz TM-5, dopo nove giorni passati sulla stazione spaziale Mir

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

che fa pensare, è che tutti erano convinti che siccome l’annuncio era su Internet, doveva per forza essere vero», riflette amareggiato Salisbury.

sofferenza, dell’emarginazione, della morte e degli avanzi della società perbene e disumana. La riflessione di un’amica mi ha fatto amaramente sorridere: «Mi ha fatto effetto leggere la parola “cancello aperto”, in un carcere si usa lo stesso linguaggio che si usa per gli animali».

Carmelo Musumeci

UN CONTRIBUTO ALLE TV LOCALI PER INFORMARE I NON UDENTI Il voto contrario dell’Udc sul Rendiconto 2009 è l’ulteriore dimostrazione (se mai ce ne fosse ancora bisogno) che siamo e rimaniamo un partito di opposizione: un’opposizione diversa ma attenta, che guarda nelle pieghe del bilancio, rilevando luci e ombre. Il voto di astensione espresso in commissione Bilancio era solo un “voto di attesa”, non avendo visto il raggiungimento degli obiettivi prefissati dopo la seduta della Commissione e l’audizione dell’assessore Fiore, abbiamo deciso, in piena autonomia, di votare contro questa manovra. Resto convinto che le regole del Patto di stabilità hanno bisogno di essere cambiate. Ma questo non vuol dire che la Regione non avesse l’obbligo di rispettare queste regole. Se ciò fosse avvenuto la Regione oggi non avrebbe avuto bisogno di prevedere un Piano di rientro della spesa sanitaria. Sono tuttavia convinto della necessità di rivedere le regole del patto per consentire agli enti la possibilità di utilizzare, mediante il cofinanziamento, i fondi “Par e Fas”. L’atteggiamento dell’Udc resta quello di una opposizione costruttiva che vuole continuare a contribuire nel corso della legislatura a determinare situazioni diverse da quelle del passato.

Salvatore Negro

Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Robert Kagan, Filippo La Porta,

Direttore da Washington Michael Novak

Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,

Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)

Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Collaboratori

Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,

Maria Pia Ammirati, Mario Arpino,

Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,

Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi,

Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,

Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,

Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,

ARTIGIANATO, IL BOOM DEL LAVORO IRREGOLARE Dopo l’indagine Istat presentata prima dell’estate alla Commissione della Camera, il lavoro sommerso - quello irregolare - viene messo sotto la lente d’ingrandimento dalla Confartigianato. In uno studio dettagliato, l’associazione di categoria ha monitorato la situazione per quanto riguarda le piccole imprese artigiane. I dati sono allarmanti. Se a livello generale il lavoro nero incide in Italia sul prodotto interno lorodo per il 6,7 per cento (dato Istat), nel settore artigiano l’incidenza sul prodotto interno lordo è del 17 per cento (pari a circa 250 miliardi di euro). Si tratta in pratica di un esercito di 640 mila persone che lavora senza tutela, senza sicurezza, senza la speranza in un futuro stabile. Spesso queste persone non hanno un orario di lavoro e il tetto delle canoniche otto ore giornaliere viene spesso superato. Drammatica, ancorché prevedibile, la situazione nel Mezzogiorno. Se a livello nazionale l’incidenza del lavoro nero è dell’11,8 per cento, nel Sud Italia è del 18,3 per cento in confronto al 9,3 del Centro-Nord. La situazione peggiore è in Calabria dove l’incidenza del sommerso sull’occupazione totale è addirittura del 27,3 per cento. Una situazione che si è andata via via cronicizzando, tanto da far considerare il lavoro nero in quelle zone quasi una cosa scontata. Il danno dell’irregolarità nell’occupazione si riflette però su tutta la collettività, non soltanto sulle persone sfruttate: l’Iva evasa ammonta, infatti, a oltre due miliardi di euro. Ad accentuare il fenomeno ci ha pensato la recente crisi dalla quale non siamo ancora usciti. Dipendenti in mobilità o che hanno perso il posto di lavoro hanno ingrossato il già corposo esercito degli irregolari. È senz’altro più facile trovare un’occupazione irregolare che una regolare. La piaga del lavoro sommerso è difficile da sanare, non c’è dubbio. Ma la sensazione è che il problema non venga valutato con la dovuta attenzione dal mondo politico e parlamentare. I “consigli” della Commissione Lavoro della Camera per un certo verso sono orientati al buon senso, ma sono criticabili quando prevedono misure amministrative e penali più severe per gli imprenditori che offrono lavoro nero. È inutile aumentare le pene, quando i controlli non ci sono o, se ci sono, sono saltuari e vengono eseguiti solo in alcune zone. Sarebbe più utile anziché reprimere, incentivare imprenditori e lavoratori a regolarizzare le proprie posizioni. Fare in modo, cioè, che il lavoro sommerso sia svantaggioso e quello regolare appetibile. Una politica di sviluppo dell’impresa, una politica economica e non di sola contabilità potrebbe assestare qualche duro colpo al fenomeno del lavoro sommerso. Lo chiedono tutti: associazioni di categoria, imprenditori e sindacati. bacarani@gmail.com

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ULTIMAPAGINA Mongolia. I gruppi nazionalisti di Ulaan Baatar rispolverano l’ideologia nazista contro l’invasione cinese

La svastica? È nata con di Vincenzo Faccioli Pintozzi anno dominato il mondo per circa 160 anni, costituendo grazie alla ferocia e al genio del loro uomo migliore il secondo impero per estensione nella storia del pianeta. Oggi i mongoli, meno di tre milioni di persone, assistono all’ascesa di gruppi nazisti e fortemente nazionalisti che – sotto la presunta egida morale di Gengis Khan – dichiarano di voler ripulire il Paese da ogni razza impura. Sembra un controsenso, considerato che proprio il potente Khan ebbe a regnare su circa 100 milioni di persone di centinaia di razze diverse, che i suoi eredi vogliano rinchiudersi all’interno di confini impenetrabili. E ancora più complicato da capire se si pensa che, secondo ricerche recenti, l’8 per cento della popolazione eurasiatica porta dentro di sé il patrimonio genetico proprio della Mongolia. Eppure è così: contro la dominazione cinese, l’ingerenza vietnamita e l’affarismo dei coreani, quattro gruppi nazionalisti hanno iniziato a dettare legge nel Paese. L’ultima prova viene da un video postato su YouTube: in circa 16 secondi di girato totale, si vede una mano guantata che rasa la testa di una ragazza piangente. Accanto a lei, un cinese di etnia han si tiene la testa fra le mani. Impotente, assiste alla punizione ordinata dal Dayar Mongol (tradotto rozzamente, “Tutta la Mongolia”) nei confronti della donna, colpevole di aver dormito con un “invasore”. È la risposta alla massiccia campagna di investimenti cinesi nel Paese, vista dagli ultra nazionalisti come un tentativo brutale di colonizzazione. I mongoli, guerrieri feroci e di enormi capacità, aiutarono i sovietici a combattere e vincere contro i nazisti; dopo la fine della II Guerra mondiale, la presenza russa sul territorio è imponente. Ma alla disgregazione dell’impero comunista, si affacciano alla frontiera i meno invasivi, ma più pazienti, cinesi; invece di usare i metodi coercitivi dell’Armata rossa, si limitano a proporre investimenti massicci in diversi campi industriali. Soltanto nel 2010, l’esercito di liberazione popolare ha versato nelle casse dell’esercito mongolo (poche migliaia di persone, che difendono i 2,7 milioni di abitanti registrati) più di 3 milioni di dollari. Alla firma, i generali cinesi sorridevano; quelli mongoli no. I segnali del risentimento popolare, ben rappresentati dalle facce cupe dei militari, non si sono fatti aspettare: svastiche e slogan nazionalisti sono apparsi sui muri di Ulaan Baator, la capitale, e lì sono rimasti. I membri dei quattro maggiori gruppi neonazisti - su cui spiccano gli uomini del Dayar, fondato

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GENGIS KHAN La formazione più imponente è quella del Dayar Mongol, che combatte gli stranieri e gli omosessuali. Si rifanno agli insegnamenti del grande conquistatore e dicono di voler difendere la loro razza dall’annacquamento morale del mondo da Erdenebileg Zenemyadar – spiegano: «Non ci rifacciamo al nazismo tedesco, ma a quello ariano di matrice indiana. La svastica è un simbolo universale, e rappresenta il sole della nuova razza».

Oltre agli stranieri, sono nel mirino gli omosessuali, i piccoli criminali e i transessuali. Due di questi sono fuggiti lo scorso mese con lesioni personali gravissime. L’ascesa di questi gruppi non è poi così recente: il primo allarme squilla nel 2002, quando l’ex rappresentante della Mongolia presso le Nazioni Unite dichiara in un suo intervento al Palazzo di Vetro: «La mia delegazione desidera sottolineare il fatto che il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e la conseguente intolleranza sono elementi strettamente legati a fattori socio-economiErdenebileg Zenemyadar, fondatore del Dayar Mongol. Accusato di vari crimini in patria, non è mai stato incriminato: gode di un favore popolare impressionante, che dice di usare per aiutare i mongoli

ci. Diseguali condizioni economiche e sociali possono alimentare e far crescere razzismo e discriminazione, mentre una riduzione della povertà e del tasso di disoccupazione avrebbe un effetto positivo sulla protezione dei diritti umani». L’impero mongolo fu fondato da Gengis Khan nel 1206 dopo aver unificato le tribù turco-mongole e aver compiuto numerose conquiste nell’Eurasia continentale. All’apice della sua potenza, comprendeva la maggior parte dei territori dall’Asia orientale all’Europa centrale. Nel periodo della sua esistenza, la Pax mongolica facilitò gli scambi culturali e i commerci tra Occidente, Medio Oriente ed Estremo Oriente tra il XIII ed il XIV secolo. I secoli di dominio mongolo influenzarono profondamente la demografia e la geopolitica dell’Eurasia, e diedero il via alla storia moderna di stati come Russia, Turchia, Cina, Iran e anche India. I nipotini del Khan, però, sembrano non amare questa eredità multiculturale: a domanda diretta, il fondatore del Dayar spiega: «Il nostro dominio sul mondo è terminato da tempo. Oggi, vogliamo semplicemente essere lasciati in pace. Ma questo significa che nessuno deve osare minacciare la nostra eredità o la nostra identità. La razza mongola è sacra, e ha già fatto i propri regali al mondo. Ora vogliamo la pace». Proclami che vengono mantenuti con il manganello.


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