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he di c a n o r c
L’ambizione? Non è un vizio da gentucola
Michel Eyquem Montaigne 9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 8 SETTEMBRE 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Berlusconi e Bossi ancora in confusione. Il Quirinale: «Nessuna richiesta d’incontro». Fumata nera per il nuovo ministro
Dilettanti allo sbaraglio Coinvolgono Napolitano (ma che c’entra?) nella pretesa di rimuovere Fini. Vogliono le elezioni (pur avendo una maggioranza) ma non sanno come fare. L’improvvisazione è al potere... SENZA STRATEGIA
di Errico Novi
La pericolosa Corrida del duo B&B
ROMA. Confusione mai così alta. Mai nella sua vicenda politica Berlusconi è stato così prigioniero dei dubbi e dell’insofferenza. I dubbi sul voto anticipato: nonostante il pressing di Bossi, il Cavaliere continua a frenare. L’insofferenza per l’autonomia politica conquistata e rivendicata da Fini a Mirabello: il premier vorrebbe castigarla con una sempre più improbabile deposizione dalla presidenza di Montecitorio.
di Giancristiano Desiderio onviene ricordare a beneficio nostro e per la memoria futura alcune cose come queste: il governo Berlusconi, tuttora in carica, gode della maggioranza parlamentare più ampia della storia repubblicana; anche se si parla spesso ma non volentieri di ribaltone non c’è alcuna possibilità di ribaltare alcunché perché il principale partito di governo è indisponibile a cambiare alleati o allargare la maggioranza: il “fuoriuscito” - che è stato “fuoricacciato” - ha accettato i cinque punti individuati dal presidente del Consiglio per rilanciare il governo e ha anche offerto un nuovo patto di legislatura. Dunque, verrebbe da dire, tutto è bene quel che finisce bene.
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segue a pagina 2
Il fratello del sindaco ucciso rivela
«Aveva denunciato collusioni tra camorra e forze dell’ordine»
a pagina 2
Maggioranze trasversali
Parla Antonio Baldassarre
L’anti-Porcellum. «Tenete fuori Cercasi proposta il Colle unitaria da questo gioco»
La mappa dei modelli per cambiare la legge elettorale
«Non spetta al capo dello Stato dirimere questioni politiche»
Riccardo Paradisi • pagina 4
Francesco Capozza • pagina 3
Più di tre ore di passioni e riflessioni sulla nostra identità dimenticata
Il cinema contro l’amnesia
Venezia applaude il Risorgimento raccontato da Martone
Ieri sera fiaccolata ad Acciaroli per manifestare contro l’invasione della criminalità nel Cilento. Intanto l’inchiesta sul terribile omicidio passa alla direzione antimafia Le piste? Il porto e la droga Franco Insardà • pagina 8
L’allarme che arriva dal Sud
Qui c’è una guerra ma lo Stato non lo sa
di Alessandro Boschi
VENEZIA. Al Lido, è il giorno del Risorgimento. Dopo le polemiche un po’ sgangherate su «criminali al Parlamento» promosse lunedì da Michele Placido, ieri è stata la volta della riflessione - seria, quasi dolorosa - di Mario Martone sull’identità italiana. Noi credevamo, il suo film sul Risolrgimento presentato in concorso è stato applaudito al termine della proiezione per la stampa: circostanza non abituale, a Venezia.Tre ore e venti di film che abbracciano quasi un intero secolo: una saga sulla nascita dell’Italia, sui tormenti dei suo «padri» (Mazzini, Garibaldi, Crispi) e sulle passioni dei suoi eroi quotidiani.
di Antonio Manzo a davvero qualcuno continuava a coltivare l’idea che lo Stato, dopo una raffica di arresti eccellenti di capi mafiosi e camorristi aveva vinto la guerra costante con la criminalità organizzata? Quel cadavere di Angelo Vassallo ha smentito in maniera tragica tutti coloro i quali, soprattutto negli ultimi anni, avevano ostentato ottimismo perché «lo Stato ha vinto sulla criminalità».
M
a pagina 8
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EURO 1,00 (10,00
CON I QUADERNI)
• ANNO XV •
NUMERO
174 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
l’analisi
prima pagina
Un’alleanza di ferro con pensieri di paglia
pagina 2 • 8 settembre 2010
La pericolosa Corrida del duo B&B di Giancristiano Desiderio segue dalla prima Invece, a dispetto dei numeri della maggioranza e della lealtà politica di Fini, Bossi e Berlusconi chiedono che il presidente della Camera si dimetta, annunciano una loro visita al Quirinale e si muovono per tornare al voto. Al cospetto, la celebre Corrida di Corrado (dilettanti allo sbaraglio) era uno spettacolo di professionisti. Ci sono almeno ben cinque punti che Silvio Berlusconi farebbe bene a prendere in considerazione.
Primo. Fini parla a Mirabello con un discorso come è stato riconosciuto da più parti - di ampio respiro e, al di là delle critiche al Pdl che “è morto”, si dichiara un cittadino legittimo del centrodestra e pronto a lavorare con lealtà per il governo. Il capo del governo, però, non dice una parola e l’unico che parla per dire “così non dura” è Umberto Bossi che fa la figura del vero capo della maggioranza e del cervello politico del governo. Secondo. Dopo il discorso di Mirabello, Berlusconi e Bossi si vedono ad Arcore e decidono che è giunto il momento di incontrare il presidente della Repubblica. Non si capisce bene perché, ma i due insistono su questa linea. Tuttavia, dimenticano un particolare: chiedere al Quirinale di essere ricevuti per - si presume - illustrargli la situazione politica e istituzionale. Terzo. Le cose che Berlusconi e Bossi dovrebbero dire al capo dello Stato hanno tutte un sapore surreale. Sia l’argomento della parzialità del presidente di Montecitorio, sia lo stato dell’arte politica nella maggioranza che va da Bossi a Fini non sono temi nei quali il presidente Napolitano possa effettivamente entrare. Il presidente della Camera può dimettersi per sua scelta, ma non può essere indotto alle dimissioni né dal governo né da un partito né dal presidente della Repubblica. È del tutto evidente che se i rapporti politici tra il centrodestra e Fini sono cambiati rispetto all’inizio della legislatura occorre che ci sia un chiarimento in seno al centrodestra, ma non si può di certo pensare di utilizzare pezzi dello Stato per distruggere altri pezzi dello Stato. Certo, Berlusconi può sempre rimettere il mandato che Napolitano gli ha conferito, ma a quel punto non può pensare che il presidente della Repubblica sia obbligato a sciogliere le Camere perché altri sono gli obblighi costituzionali di Napolitano. Quarto. Non si è mai visto un governo che ha una ampia maggioranza ma chiede di andare al voto. Il dovere di Berlusconi oggi è governare e non andare al voto e, soprattutto, non può chiedere di andare al voto perché c’è qualcuno che non lo lascia governare. Berlusconi è in stato confusionale o lo finge molto bene. Ma a che pro? Quinto. Perché Berlusconi si muove con il ministro delle Riforme? Motivi istituzionali non ce ne sono. I motivi sono tutti politici: Bossi ha in mano la maggioranza di governo. Berlusconi fa la solo la figura di chi cerca di trattenerlo. Un modo molto singolare di esercitare la leadership. Dopodiché ritiene di poter chiedere il voto anticipato come se avesse il potere di sciogliere le Camere commettendo due errori: non ha questo potere e se lo avesse lo eserciterebbe dietro comando di Bossi.
In conclusione: l’unico modo ragionevole che Berlusconi ha per risolvere i problemi politici di una maggioranza pur esistente è quello di dimettersi per formare un altro governo. Ma per fare questo passo bisogna uscire dal dilettantismo e dal populismo.
il fatto Un nuovo vertice, ieri, a Palazzo Grazioli. Ma l’improvvisazione regna sovrana
La strategia della mosca cieca
Ancora nessuna richiesta d’incontro al Colle. Eppure Bossi vorrebbe addirittura «concordare» con il Quirinale il voto anticipato... Cronaca di un’altra giornata da dilettanti di Errico Novi
ROMA. Confusione mai così alta. Mai nella sua vicenda politica Berlusconi è stato così prigioniero dei dubbi e dell’insofferenza. I dubbi sul voto anticipato: nonostante il pressing di Bossi, il Cavaliere continua a frenare. L’insofferenza per l’autonomia politica conquistata e rivendicata da Fini a Mirabello: il premier vorrebbe castigarla con una sempre più improbabile deposizione dalla presidenza di Montecitorio. E anzi, si può descrivere il Berlusconi di queste ore intento a rigirarsi tra le mani l’attacco istituzionale a Fini come se la bizzarra iniziativa possa servirgli da diversivo. Utile a guadagnare tempo, a indirizzare comunque tutta la carica di aggressività verso il nemico riconosciuto, utile anche a contenere la voglia di urne della Lega e a giustificare la sostanziale frenata strategica davanti all’opinione pubblica.
Tutto resta però sul piano delle ipotesi. E anzi una delle poche certezze arriva da fonti del Quirinale nella tarda mattinata, quando si fa notare che «al momento non è pervenuta alcuna richiesta di incontrare il presidente». Certo è anche che Berlusconi e Bossi non demordono dall’intento di coinvolgere il Colle nell’attacco a Fini: «Ci sono dei contatti in corso», assicura il Senatùr. Ma è difficile immaginare che la missione dal Capo dello Stato possa produrre qualcosa. Anche per non restare con l’arma scarica in pugno, il premier riunisce i suoi a Palazzo Grazioli a pranzo. Con i fedelissimi, compreso l’ex colonnello di An Ignazio La Russa, ragiona sull’altra strategia antifiniana messa sul tavolo: l’aventino alla Camera. In pratica i parlamentari del Pdl comincerebbero a disertare prima la conferenza dei capigruppo, poi le commissioni (oggi riapre i battenti la Giustizia, con il
processo breve all’ordine del giorno), quindi l’aula «fin quando Fini non prenderà atto della sua incompatibilità». Al termine dell’incontro si decide di convocare per le 18 di oggi un nuovo ufficio di presidenza. È l’organismo dirigente del partito già utilizzato con Fini per espellerlo il 29 luglio scorso. Potrebbe diventare il luogo in cui il partito di maggioranza relativa decide una clamorosa ritirata delle sue truppe da Montecitorio. All’uscita da Palazzo Grazioli Gaetano Quagliariello parla di riunione «svolta in un clima ottimo, ottimo e abbondante», e annuncia l’aggiornamento delle decisioni alla riunione di oggi.
È nella diserzione di massa dagli scranni di Montecitorio che il Cavaliere spera a questo punto di trovare la chiave di volta per restituire il cerino nelle mani del rivale. Nella speranza di ottenere in un modo o nell’altro la sua cacciata. Circostanza che a giudizio del premier prosciugherebbe la pattuglia di Futuro e libertà, restituendo alla maggioranza i numeri sufficienti a proseguire con tranquillità. Perché dopo la cena di Arcore di lunedì sera con Bossi e gli altri leghisti, e visti gli ultimi sondaggi, Berlusconi è sempre meno affascinato dalla prospettiva di ripresentarsi agli elettori «a novembre», come Bossi continua a chiedere. «Silvio si rende conto ogni minuto che passa che un eventuale scioglimento anticipato rischia di fargli perdere per sempre Palazzo Chigi», confessa un berlusconiano doc, «sa che i numeri non ci sono. Lo ha detto anche a Bossi, gli ha fatto vedere le previsioni impressionanti che i sondaggi danno sull’astensione. Si vincerebbe alla Camera ma al Senato la maggioranza è un miraggio». Ma il presidente del
l’intervista
«Quante balle incostituzionali» Baldassarre: «Coinvolgere Napolitano e far dimettere Fini sono solo gravi sciocchezze» ROMA. «Anomalia costituzionale», «pericoloso precedente», «richiesta che va contro ogni logica politica e costituzionale». Sono queste le parole usate ieri da molti esponenti dell’opposizione, ma anche da molti finiani, per commentare la linea stabilita nel vertice Bossi-Berlusconi di lunedì sera ad Arcore. Una linea di durezza, quella del premier e del ministro leghista, che ha come unico obiettivo la rimozione di Gianfranco Fini dal più alto scranno di Montecitorio. Il tutto, mettendo alle corde il Quirinale. Presidente emerito della Consulta Antonio Baldassarre, che ne pensa dell’intenzione di Berlusconi e Bossi di recarsi al Quirinale per chiedere la testa del presidente della Camera? Non c’è dubbio che sia una decisione inconsueta e anomala anche perché il presidente della Repubblica non può far nulla nei confronti dei presidenti delle Camere. In astratto potrebbe solamente consigliare Fini di dimettersi per consentire al governo di continuare la legislatura e di portarla a termine ma, ripeto, sarebbe un consiglio personale e non un atto istituzionale del capo dello Stato. Un atto, tra le altre cose, che potrebbe anche essere pericoloso. Potrebbe infatti costituire un precedente grave dal punto di vista costituzionale perché aprirebbe la strada ad una prassi che la Carta non prevede assolutamente. C’è chi, per difendere Fini, ri-
di Francesco Capozza vendica il fatto che nella prassi – almeno fino al ’94 - la Camera dei deputati è stata spesso assegnata ad un esponente delle opposizioni. Credo sia utile fare chiarezza e distinguere diversi periodi ripercorrendo la recente storia parlamentare. Inizialmente sia il Senato che la Camera venivano assegnati a personalità provenienti dal partito di maggioranza relativa, la Dc, ma unanimemente riconosciuti come
“
Personalmente, ma qui è il cittadino che parla, auspicherei una riforma elettorale: l’attuale sistema è davvero pessimo
”
super partes; in tal senso vorrei ricordare le figure di Merzagora e di Leone. Successivamente si è passati ad eleggere un esponente della maggioranza al Senato e uno dell’opposizione alla Camera, talvolta addirittura esponenti di spicco dei partiti di riferimento (vedi Ingrao, Violante, Scalfaro). Infine, ed è prassi recente, da Pier Ferdinando Casini in poi la Camera in particolare è guidata da un leader della maggioranza di governo. Detto questo non esiste nessun riferimento costituzionale o regolamentare che vieti al presidente di un ramo del parlamento di fare
Consiglio, aggiunge l’anonima fonte, teme ancora di più, se possibile, le trattative in corso tra i finiani e l’opposizione per trovare una formula condivisa sulla legge elettorale: «Quello lo angustia moltissimo. Eliminare le liste bloccate significa tornare ai collegi o al voto di preferenza, cioè consegnarsi al Sud nelle mani di personaggi poco raccomandabili, sostenuti dalla malavita, e al Nord lasciare spazio a un notabilato fatto da gente in grado finanziariamente di pagarsi la campagna elettorale, persone che una volta elette, dopo aver speso tanto, non obbedirebbero certo alle direttive di Berlusconi».
politica attiva. Gli stessi Casini e Bertinotti, seppur con toni assai più sfumati di Fini, non hanno mai smesso di fare politica durante le loro rispettive presidenze. Quindi chiedere le dimissioni di Fini è sbagliato anche nella sostanza, oltre che nella forma? Esattamente, ma io credo che sia ancora più sbagliato che un leader sia posto a capo di un’assemblea parlamentare. Personalmente troverei più corretto che si tornasse alla prassi iniziale che ho poco fa esposto, eleggendo cioè personalità della maggioranza ma senza ruoli di rilievo politico». E sul ragionamento che molti fanno circa l’assenza della fiducia della maggioranza che lo ha eletto due anni fa? È un ragionamento che non ha alcuna sussistenza né costituzionale né regolamentare. Il presidente della Camera è eletto a scrutinio segreto in modo svincolato dall’appartenenza alla maggioranza di governo. Presidente, cosa ne pensa dell’ipotesi di Aventino ventilata da Lega e Pdl? Cosa accadrebbe, cioè, se i presidenti dei gruppi parlamentari di maggioranza disertassero la conferenza dei capigruppo? Assolutamente nulla. Non farebbero che rafforzare il potere decisionale del presidente dell’Assemblea. Suggerisco agli “aventiniani” di rileggersi il 6° comma dell’articolo 23 del regolamento della Camera. Esso, in buona sostanza, stabilisce che in mancanza di una maggioranza decisionale nella
Difesa, come Gasparri e Matteoli – che ieri ha presieduto un brevissimo Consiglio dei ministri – teme forse anche più di Bossi gli esiti di una graduale riapertura dei negoziati con l’ex capo. Sanno, La Russa e gli altri, che in un patto di legislatura con Fini sono loro quelli più esposti al pericolo di un «sacrificio diplomatico», visto che soprattutto nei loro confronti si concentra il risentimento del presidente della Camera. E sopprattutto, sanno che tenere in vita la legislatura consentirebbe a Futuro e libertà di rafforzarsi e prosciugare un
conferenza dei capigruppo, il potere di stabilire il calendario dei lavori e delle votazioni è attribuito al presidente». È possibile una nuova maggioranza che abbia come unico punto in programma la riforma della legge elettorale? Dal punto di vista costituzionale le dico che il capo dello Stato, in caso di crisi di governo, ha il dovere di sondare le forze parlamentari su un’eventuale nuova maggioranza in grado di sostenere un esecutivo. Che questo esecutivo possa avere all’ordine del giorno uno solo o più punti ben definiti non è né una novità (in passato ci sono stati anche governi che hanno avuto il solo compito di gestire la campagna elettorale e le elezioni), né una cosa strana. Personalmente, ma qui è il cittadino che parla, auspicherei una riforma elettorale perché l’attuale sistema è davvero pessimo. Scommetterebbe su elezioni anticipate? Al momento non vedo l’ipotesi elettorale imminente, ma vista la fibrillazione delle ultime ore non sono pronto a scommettere nemmeno sulla scadenza naturale della legislatura.
qualche problema del Senato». Perciò «gli conviene valutare la leale offerta di Fini di proseguire la legislatura».
È significativo che un discorso del tutto analogo venga proposto da Andrea Augello, il senatore, e sottosegretario, che nelle ultime ore ha fatto da mediatore tra Arcore e i finiani, due dei quali,Viespoli e Moffa, hanno incontrato il Cavaliere lunedì scorso. Anche Augello sottolinea il rischio di restare imprigionati nella strategia del Carroccio: «Credo che il Pdl abbia il dovere di fare fronte comune per arginare questa offensiva leghista in favore delle elezioni anticipate, abbiamo la responsabilità di governare questo Paese e non possiamo gettare la spugna solo perché Gianfranco Fini ha tenuto un comizio di grande rilevanza mediatica». Senza contare che spezzoni di ora in ora più consistenti dei gruppi parlamentari berlusconiani guardano con preoccupazione a un eventuale scioglimento anticipato che per molti rischia di equivalere a una perdita del seggio. Ce ne sono molti soprattutto al Senato, più a rischio, dove può avere un peso notevole anche la posizione assolutamente contraria alle urne confermata da Beppe Pisanu. Il quale ieri è tornato ad attacare «la manovretta di Tremonti» (a sua volta pronto ad assicurare che l’Europa non è preoccupata per la crisi in corso a Roma) ed è intervenuto anche sulla questione delle dimissioni di Fini per ricordare che «non è prassi costituzionale» l’ipotesi di una salita al Colle per chiedere la cacciata del presidente della Camera: «Non si vedono né infrazioni costituzionali né di tipo regolamentare». Assolutamente vero. Ma nel tormento che lacera la maggioranza tutto può succedere.
«Bisogna tornare alle urne, il pantano non va bene», insiste Bossi. Ma restano i dubbi del Cavaliere, che punta all’assedio alla presidenza di Montecitorio per prendere fiato
Ecco spiegate l’angoscia e la confusione di queste ore. Condizione che non riguarda Bossi. Lui ha idee chiarissime e preferisce «uscire dal pantano». Ne sapremo di più, dice il capo della Lega ai giornalisti, «dopo l’incontro al Quirinale». Meglio andare al voto «ma bisogna studiare la via con il presidente della Repubblica». Non esclude nemmeno di presentarsi al Sud, il Senatùr: «Tutto può essere». E in ogni caso vede «una finestra adesso che la situazione economica è tranquilla, perché Tremonti l’ha messa a posto». Certo, «dipende da Berlusconi se vuole andare a votare». E il Cavaliere non ci pensa, in questo momento. Ma la Lega continuerà ad insistere, con la prospettiva di trovarsi fianco a fianco con gli ex colonnelli di An. È sempre Ignazio La Russa a dire che «in Parlamento non basta una mera maggioranza numerica, ma ne serve una convinta, politica, che metta il governo al riparo dal pericolo di una destabilizzazione continua». Il ministro della
po’ alla volta sia la componente ex aennìna dei gruppi parlamentari sia il consenso tra gli elettori di destra.
Non basta a persuadere un presidente del Consiglio che solo qualche settimana fa avrebbe sottoscritto a occhi chiusi la fine anticipata della legislatura. Non a caso i finiani, soprattutto i più moderati, provano a insinuarsi proprio tra la determinazione della Lega e i rovelli del Cavaliere: «Bossi è disposto a buttare alle ortiche il federalismo per lanciare una Opa ostile sul centrodestra», dice per esempio Benedetto Della Vedova, «in cambio avrà 60 parlamentari in più. Berlusconi dovrebbe rifletterci. E poi», aggiunge il parlamentare di Fli, «non è così semplice ottenere le elezioni, così come non è certo che Berlusconi le vinca. E anche se le vincesse, avrebbe
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l’approfondimento
In Parlamento c’è una maggioranza trasversale che vuole superare l’attuale legge elettorale, ma non ha una posizione comune
L’anti-porcellum
Come si può cancellare il mostro? Le proposte sul tavolo sono tante, per ora anche troppe. Doppio turno alla francese, modello tedesco, sistema provinciale: ma è sempre più urgente arrivare a una soluzione unitaria di Riccardo Paradisi importante non impiccarsi alle formule quando si parla di riforma elettorale» ha detto il segretario del Pd Pierluigi Bersani. Ma tra il cappio della formalizzazione causidica e l’oceano dell’indeterminazione dovrà pur esserci una via di mezzo.
«È
Un terreno percorribile insomma da quelle forze che si pongono seriamente il problema se sia possibile dar vita a un governo di transizione che si dia come missione prioritaria la riforma dell’attuale legge elettorale. Il problema è individuare quale potrebbe essere il punto di sintesi intorno al quale costruire la piattaforma di una coalizione di scopo, il compromesso accettabile per tutti. Problema serio visto che nel solo Pd si contano almeno otto diverse proposte di riforma elettorale e che in tutta l’opposizione all’attuale maggioranza se ne contano almeno una decina. Una situazione che fa dire a Nichi
Vendola che «Una modifica dell’attuale legge elettorale sarà molto difficile». Il governatore della Puglia infatti non vede le condizioni per esprimere una maggioranza in grado di cambiare la legge elettorale: «Il Pd non ha una proposta per cambiare la legge elettorale: ne ha otto. E allora di che cosa parliamo? Il centrosinistra non è riuscito a fare una legge sul conflitto di interessi quando era maggioranza nel paese, dubito che lo possa fare oggi». Insomma Vendola teme che «questi argomenti rischino di diventare un depistaggio rispetto alla necessità di mettere in campo un disegno riformatore e un discorso al paese».\\u2028Ma davvero l’orizzonte è così nero per le forze che vogliono cambiare l’attuale Porcellum sul quale vibra ancora l’ultima critica calata come un’ascia dal presidente della Camera Fini? Critica resa ancora più efficace del fatto che Fini ha fatto un pubblico autodafé pentendosi di avere caldeggiato e usato la legge di Calderoli: «Vergogno-
se sono le liste ”prendere o lasciare”. Se la sovranità è popolare vuole dire che gli italiani hanno deciso di scegliere chi li deve rappresentare».
Per Carmelo Briguglio, esponente di Futuro e libertà, le cose potrebbero essere meno nere di come le vede Vendola e di come le presenta il capogruppo alla Camera del Pdl Fabrizio Cicchitto: «Fli non troverà mai in parlamento una maggioranza per modificare l’attuale legge elettorale». No, dice invece
Senza riforma si aprirebbe una fase di instabilità politica
Briguglio, «Se c’è la volontà di trovare una quadra su una riforma elettorale e condivisa il Parlamento la può trovare, come l’ha sempre trovata». Del resto anche a Bersani è piaciuto quel che ha detto Gianfranco Fini a Mirabello sulla legge elettorale – forse perché abbastanza generico – e Alleanza per l’Italia, per voce di Linda Lanzillotta, fa arrivare il suo contributo alla costruzione d’un fronte per la riforma elettorale. «Il compito delle forze riformiste e liberali, di maggioranza e di opposizione – dice Lanzillotta – è quello di trovare rapidamente un accordo per una nuova legge elettorale che abbia due caratteristiche fondamentali: ridare ai cittadini il potere di scegliere i loro rappresentanti, consentire il formarsi di maggioranze stabili e omogenee e quindi in grado di governare». Alleanza per l’Italia si propone di lavorare con con tutte le proprie energie a questo obiettivo, «perché si superino posizioni preconcette e talvolta ostinate, ben sapendo
che senza riforma elettorale, dopo il voto, si aprirebbe una interminabile fase di instabilità politica che i mercati finanziari farebbero pagare assai cara all’Italia e agli italiani». Anche i radicali italiani avvertono la modifica dell’attuale legge elettorale come un’esigenza prioritaria degli italiani: «Sia a destra che a sinistra – dice il segretario dei radicali Staderini – è evidente che questa legge elettorale è una porcata. Bisogna cambiarla, in modo da ridare credibilità alla politica». Ma se tutti unisce il giudizio negativo sull’attuale legge elettorale – è stato Calderoli stesso a battezzarlo porcellum – sembra lontano il lido appunto d’una sintesi unitaria.
La cartina di tornasole è il Pd. Stefano Ceccanti, costituzionalista ed esponente veltroniano del Pd durante un convegno della Fondazione dalemiana sul sistema elettorale ”tedesco” dichiara l’improponibilità del sistema tedesco. E a liberal ribadisce il concetto: «Non si
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La strada dei proclami, della rottura e del coinvolgimento del Quirinale è senza via d’uscita
«Elezioni a primavera, anche se nessuno le vuole davvero»
Tre politologi disegnano gli scenari futuri: tutti con lo stesso finale. Parlano Gianfranco Pasquino, Paolo Pombeni e Giovanni Sabbatucci di Gabriella Mecucci
ROMA. C’è una strategia, o comunque un qualche raziocinio nella scelta di Bossi e Berlusconi di salire al Quirinale? Perché coinvolgere il Presidente della Repubblica nella richiesta che Fini lasci lo scranno più alto della Camera dei Deputati? Tutto ciò ha un senso oppure è una sorta di un gioco della mosca cieca, un menar colpi a destra e a manca senza sapere bene dove si vuol “parare”? È assolutamente certo che Giorgio Napolitano, anche se lo volesse, non avrebbe alcun potere per intervenire sulla Presidenza della Camera. Bossi e Berlusconi, però, lo vogliono coinvolgere, perchè? «Cercano - spiega Paolo Pombeni,studioso dei sistemi politici e commentatore - di mettere in mezzo Napolitano per poter criticare la sua inerzia nel risolvere il problema Fini che ormai - questa la loro tesi - non è più un Presidente super partes. E se il Quirinale in qualche modo lo protegge, anche lui non è più super partes». Al termine di questa prima operazione, c’è quindi il tentativo di «screditare Napolitano agli occhi degli elettori del centrodestra» e di poter sostenere «quando gli andranno a chiedere le elezioni e lui non gliele darà tanto facilmente che è un Presidente di parte».
Ma accanto a questo, c’è anche la volontà di dare «qualche soddisfazione ai pasdaran del loro schieramento». «Del resto - prosegue Pombeni - dopo che per mesi e mesi hanno continuato a strillare al traditore contro Fini, non possono starsene con le mani in mano». Si sono “inventati” dunque questa salita del Colle per «potersi rassegnare, magari lanciando proteste e accuse, al non avere le elezioni subito: non a novembre, insomma, mentre a primavera invece l’andata alle urne è molto probabile». È una strategia, questa? «Assolutamente no. È un arrancare, un cercare di far qualcosa - osserva Pombeni - sapendo che nessuno potrà costringere Fini a dimettersi e sapendo che non far nulla scoraggerebbe e irriterebbe il proprio elettorato, ma chiedere con troppa risolutezza le elezioni rischierebbe di far cadere su Berlusconi le critiche delle élite del paese». Insomma, Lega e premier devono fare un po’di“am-
muina”sino a quando si arriverà alle elezioni. Ma, una volta che si è votato e, ammesso che il centrodestra vinca, che cosa accadrà? «Lega più Berlusconi - prosegue Pombeni - possono prendere il 43
Chiedendo di salire al Colle, il premier e la Lega lanciano un messaggio sia a Fini sia a Napolitano percento dei voti se tutto gli va al meglio. Avranno quindi una maggioranza più risicata di quella attuale, mentre per fare le riforme utili al paese, che sono difficili da realizzare, ci sarebbe bisogno di una maggioranza ampia, o almeno di un buon rapporto con le altre forze politiche. Ma ciò che stanno facendo Bossi e Berlusconi porta esattamente nella direzione opposta: quella dello scontro. Insomma, navigano a vista senza capire quale sarà davvero l’approdo. Il percorso che condurrà alle elezioni - osserva ancora Pombeni - non potrà essere gestito da questo governo, ma probabilmente ce ne vorrà un formato da grand commis dello stato. È questo l’unico modo per dare piena legittimità al risultato delle urne».
Per Giovanni Sabbatucci, storico e editorialista, la salita al Quirinale ha un valore ancora inferiore a quello che gli dà Pombeni: «È solo un gesto propagandistico, un modo per dare maggior impatto mediatico e maggiore solennità alla campagna per ottenere le dimissioni di Fini». Non si tratta dunque di una strategia. «Il cammino di questa legislatura - prosegue - è probabilmente segnato: si concluderà con le elezioni in primavera. Mi sembra ormai certo in-
fatti che non si dovrebbe arrivare alle urne in novembre: le tregue e una certa melina le hanno scongiurate per questa data. Francamente non credo che Berlusconi voglia andare al voto e persino Bossi, aldilà dei proclami, non ne sia del tutto convinto». Qui entra in campo lo storico che ricorda come «questa situazione potrebbe somigliare a quella in cui nessuno stato vuole la guerra, ma nessuno vuole far apparire che la teme. Si mettono così in moto comportamenti che conducono però come esito finale al conflitto». Insomma alle elezioni ci arriveremmo non perché qualcuno lo ha deciso, «non per una lucida strategia, ma per l’esatto contrario. E a condurci alle urne probabilmente sarà un governo tecnico». A proposito di lucidità, Sabbatucci ne vede poca in giro anche aldilà di Berlusconi e Bossi: «Basti pensare osserva - che Fini sino a qualche tempo fa aveva lavorato per una sua leadership nel dopo Cavaliere. Ma il risultato che ha ottenuto è opposto».
Gianfranco Pasquino, docente di scienza politica, è quello fra i nostri interlocutori che cerca di vedere un filo conduttore nel comportamento apparentemente sconnesso di Berlusconi e Bossi. «Innazitutto - osserva - con la salita al Quirinale il premier e la Lega lanciano un messaggio sia a Fini che a Napolitano. Sappiano che verranno messi sotto tiro, che si cercherà di crear loro ogni genere di difficoltà». Secondo Pasquino siamo dunque «in presenza di una sottile quanto pericolosa strategia di delegittimazione di due istituzioni fondamentali». Se vogliono poi andare alle elezioni, Bossi e Berlusconi le chiederanno a gran voce al capo dello Stato. Per farlo però il premier dovrà avere o un voto di sfiducia delle Camere o deciderà di dimettersi. «Quest’ultima - osserva Pasquino - è la strada che con tutta probabilità verrà intrapresa». «Il Presidente della Repubblica a questo punto - prosegue Pasquino - ha l’obbligo costituzionale di verificare se in parlamento c’è una maggioranza. Dovrà dunque incaricare qualcuno di formare un governo. Per esempio uno come Pisanu. La maggioranza per un esecutivo che faccia alcuni ritocchi alla legge elettorale e che conduca alle elezioni potrebbe esserci. Berlusconi – se fosse abile – potrebbe proporre uno scambio: concedere la preferenza, ma chiedere che resti il premio di maggioranza. Una volta fatto il compromesso e varati i ritocchi, si andrebbe alle urne. E così, il premier avrebbe buone possibilità di rivincere. Il premio di maggioranza gli assicurerebbe la maggioranza probabilmente anche in presenza di un terzo polo del 1012 per cento». E di governare? «Governare mi sembra una parola grossa, si tratterebbe di gestire un sistema fatto di scambi. Un’operazione al ribasso».
può accettare un sistema come quello tedesco che tolga il premio di maggioranza. In Italia col sistema alla tedesca non ci sarebbe un vincitore». Il collegio uninominale, il ritorno al Matterellum è la trincea su cui sono asserragliati i bipolaristi del Pd. Che rivendicano le originarie preferenze Pd per il doppio turno alla francese e collegi uninominali». Ma anche un dalemiano storico come Nicola Latorre si scopre bipolarista e si pronuncia a favore dell’uninominale: «Sul bipolarismo non arretriamo, anche se il sistema italiano si va evolvendo verso un assetto pluripartito fondato su alleanze. Occorre ricostruire un rapporto tra elettore ed eletto e penso che per questo sia preferibile il modello uninominale».
Sostenitore del Mattarellum è Luciano Violante come lo sono ex popolari come Luigi Castagnetti, o l’ex segretario Dario Franceschini. Da parte sua l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro sa ciò che non vuole, l’attuale legge elettorale ed è disposta a coalizioni di scopo per dare al paese un nuovo sistema elettivo. Ma se chiedi come ha fatto liberal al deputato dipietrista Fabio Evangelisti quale sistema pensa di proporre l’Idv la risposta è questa: «intanto noi nei giorni scorsi abbiamo fatto una proposta per la reintroduzione delle preferenze. Non ci appassiona troppo il dibattito sulle formule, certo sarebbe auspicabile che un punto di sintesi si trovasse – e noi al sistema tedesco per esempio saremmo interessati però salvaguardando il bipolarismo – ma dobbiamo anche prendere atto che nel Pd quando si parla di proposte elettorali s’ascolta la confusione delle lingue. E anche se si da retta alle proposte di Futuro e libertà si ascoltano cose come il sistema elettorale delle provincie». Insomma buone intenzioni ma anche molta confusione sotto il cielo.Tanto che Savino Pezzotta (Udc) chiede chiarezza e semplificazione se davvero si intende fare sul serio: «Bisognerebbe cominciare a dire una cosa chiara: che è inutile parlare in modo assillante cambiare il Porcellum quando sul tavolo ci sono almeno otto – non tre o quattro – proposte elettorali diverse. Il Pd per primo deve dare un contributo concreto, deve semplificare. Chiarisca una formula. E lo facciano anche l’Idv e i finiani, perché da Mirabello io ho sentito una condanna al Porcellum ma non ho mica sentito proposte alternative. Fare un governo per fare la riforma elettorale è un bel dire ma bisogna dire come». Chi cerca trova è stato detto, ma bisognerebbe appunto avere almeno un’idea di quel che si va cercando.
pagina 6 • 8 settembre 2010
diario
Operai. Le aziende metalmeccaniche seguono l’esempio di Marchionne: verso un nuovo accordo solo per le auto
Fiat vince la sfida dei contratti
Federmeccanica dà la disdetta. La Fiomm: «Attacco alla democrazia» ROMA La Fiom ha già annunciato battaglia, ma ieri Federmeccanica ha ufficializzato la volontà di disdettare il contratto dei meccanici del 2008. L’ultimo firmato anche dalle tute blu della Cgil. Contemporaneamente, e con l’avallo di Cisl e Uil, è stato deciso di dare mandato a un’apposita commissione di individuare una serie di deroghe ad hoc per l’auto, «in armonia con il contratto» stipulato nel 2009. Prendono forma le richieste di Sergio Marchionne di superare la piattaforma nazionale per blindare al meglio la produzione negli stabilimenti Fiat. Non ci sarà – a meno di ulteriori colpi di scena – l’apposito contratto per l’auto chiesto dal manager del Lingotto. Al riguardo il presidente di Federmeccanica, Pierluigi Ceccardi, smentisce pressioni dal gruppo torinesi: «Fiat non ha spinto per niente. L’accelerazione che abbiamo imposto oggi è per tutelare le esigenze delle aziende metalmeccaniche e di un milione di lavoratori che dipendono da esse». Le pressioni, casomai, sono arrivate dalle tute blu della Cgil: «La disdetta dell’accordo è avvenuta a fronte delle minacciate azioni giudiziarie della Fiom relative all’applicazione di tale accordo». Prima che si riunisse il direttivo, il numero uno della Fiom, Maurizio Landini, aveva lanciato un appello a Federmeccanica, perché «respingesse i diktat di Fiat. Ma la decisione di revocare il contratto conferma che avevano ragione noi a dire che è ancora in vigore fino al 2011». Va da sé che la vicenda va ben oltre il perimetro dello stabilimento di Somigliano, ma finisce per diventare un importante precedente nelle relazioni industriali. Lo ammette senza giri di parole anche Landini: «Si è deciso di cancellare il contratto nazionale di lavoro, in accordo con sindacati minoritari e impedendo alle lavoratrici e i lavoratori di potersi esprimere sul loro contratto. Si tratta di una violazione delle regole e della rottura dei principi democratici alla base degli equilibri sociali». In questo scenario farà molto fatica a trovare una mediazione il futuro segretario della Fiat, Susanna Camusso, che come il suo predecessore Guglielmo Epifani, aveva proposto a Marchionne un armisti-
di Francesco Pacifico
zio secondo il quale si poteva sia mantenere il contratto nazionale attraverso la riduzione di quelli esistenti e la nascita di intese ad hoc per singoli ambiti (come quello dell’auto) sia rafforzare il secondo livello, seguendo lo stesso percorso che Federmeccanica, Cisl e UIl si accingono a percorrere per lo stabilimento di Pomigliano. Non a caso, intervistata da Oggi, ha mandato un chiaro messaggio a Torino: «Siamo favorevoli a un nuovo patto sociale, ma Marchionne sbaglia a voler dettare le rego-
La Cgil: «Favorevoli a un nuovo patto sociale, ma la Fiat sbaglia a voler dettare le regole e a parlare solo con chi sta al suo gioco» Tremonti: «Per l’Italia non sarà un autunno d’emergenza»
L’Ecofin stecca, Barroso rilancia ROMA. In Italia «non sarà un autunno d’emergenza». Le parole del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, pronunciate durante una conferenza stampa al termine dei lavori dell’Ecofin, fanno da contraltare a quelle di José Manuel Barroso, secondo cui «o nuotiamo insieme o annegheremo separati». L’esito dell’ultima due giorni europea – con il rallentamento al nuovo patto di stabilità – assomiglia molto a un fallimento. Ma Barroso resta ottimista sul futuro delle riforme, tanto da incentrare il suo primo discorso sullo stato dell’Unione su progetti molto ambiziosi quali la vigilanza unica sulla finanza, la tassa sulle banche o gli eurobond le grandi infrastrutture. Intanto i Ventisette confermano le loro divisioni sulle sanzioni ai Paesi che non riducono celermente il debito o sulla Tobin Tax. Mentre Londra fa sapere che «perde soltanto tempo» chi prova lo “sconto”sul bilancio che l’Ue garantisce al Regno Unito dai tempi della Thatcher.
Ma che la strada da seguire sia un’altra l’ha confermato anche Giorgio Napolitano incontrando al Quirinale la sua omologa finlandese, Tarja Halonen. Il presidente della Repubblica ha invitato il Vecchio Continente a cerca soluzioni comuni per rilanciare la crescita e lo sviluppo, unico baluardo alla
crisi economica. «Un balzo in avanti nella crescita dell’Europa non è possibile senza una forte sinergia: più Ue e più integrazione restano le parole d’ordine».
In risposta ai richiami di Barroso e di Napolitano ecco le dichiarazioni del presidente Ecofin, Didier Reynders, a margine del vertice che avrebbero dovuto dare il via libera alla tassazione sulle banche e sulle transazioni: «Non c’è unanimità sul prelievo e non c’è consenso sull’idea di tassare le attività finanziare». Così, all’ultima due giorni europea, l’unico passo avanti fatto nel processo di rafforzamento della vigilanza europea è il via libera al cosiddetto semestre Ue. Dal 2011 infatti la Commissione avrà il potere di fissare gli obiettivi così come quello di coordinare e di valutare le singole manovre degli Stati membri. Bruxelles potrà intervenire in ambiti finora off limits come le politiche fiscali, ma non sono state ancora definite le modalità di intervento e le sanzioni verso quei Paesi che non rispettano le indicazioni della Commissione. E tanto basta per mettere a repentaglio i progetti di azione comune. Il primo a sapere che il lavoro da fare è molto, è lo stesso Barroso, che ha annunciato come la Commissione presenterà una serie di proposte per tassare le attività finanziarie, tutelare i piccoli risparmiatori, limitare l’utilizzo dei derivati e vietare le vendite allo scoperto: «Difendo questi progetti», ha rivendicato, «perché continuiamo a insistere che le banche e non i contribuenti debbano pagare i costi della crisi».
le e a insistere nel parlare solo con chi sta al suo gioco». Di diverso avviso invece gli altri due sindacati confederali. Dai metalmeccanici della Cisl Fim il segretario Giuseppe Farina fa notare che «la revoca del contratto nazionale del 2008 da parte di Federmeccanica non è una notizia. È un fatto scontato e puramente formale, in quanto il contratto 2008 è stato superato e migliorato dal contratto del 15 ottobre del 2009 firmato da Fim e Uilm, che rappresentano la maggioranza dei lavoratori. È quindi un atto indifferente per i lavoratori metalmeccanici. Non ci sono novità per i dipendenti». Sulla stessa direzione la Uilm. Per il segretario Rocco Palombella bisogna innanzitutto ricordare che non ci saranno ripercussioni per i lavoratori. Per noi della Uilm poi esiste un solo contratto, ed è quello firmato nel 2009, che scadrà nel 2012».
Questa mattina la Fiom si riunisce il comitato centrale per decidere il da farsi. E per ogni mossa si partirà dal principio che «l’unico contratto in vigore rimane, sotto ogni punto di vista, quello del 2008 firmato da tutti e votato dalle lavoratrici e i lavoratori». Va da sé che si profilano all’orizzonte ricorsi davanti alla magistratura e infuocate assemblee.
diario
8 settembre 2010 • pagina 7
Secondo il medico ci vorranno anni per valutare i danni
Il webmagazine «scrive» a Babbo Natale
Ha avuto un’ischemia il bimbo nato dopo la lite
Farefuturo contro Minzolini: «Si dimetta»
MESSINA. «La risonanza ma-
ROMA. «Caro Babbo Natale, in
gnetica» compiuta sul piccolo Antonio Molonia, nato al Policlinico di Messina dopo una lite tra due ginecologi della scorsa settimana, «ha evidenziato un’ischemia cerebrale». Lo afferma il padre del piccolo, Matteo Molonia, sottolineando però che il primario del reparto di Terapia intensiva neonatale, Ignazio Barberi, ha spiegato «che si tratta del risultato oggettivo dell’esame e che potrebbe essere il decorso di una situazione che nei neonati è mutevole. Se ci siano o no effettivamente dei danni permanenti, questo è troppo presto per dirlo. Bisognerà aspettare - riferisce sempre il padre del piccolo - l’evoluzione del decorso clinico. Quindi il primario si pronuncerà riguardo i possibili danni solo nei prossimi giorni». Il medico, a propria volta, solomonicamente ha dichiarato: «Non possiamo dire se il bambino avrà conseguenze in futuro. È vero che la risonanza ha evidenziato dei problemi, ma non è certa l’evoluzione che questi potranno avere. Passeranno anni prima di avere una diagnosi certa. Una prima risposta approssimativa si potra’ avere forse tra sei mesi o un anno. Aggiungo che il bambino sta meglio e risponde agli stimoli, però è chiaro che questa
cima alla nostra lista c’è Augusto Minzolini: prendilo con te, caro Babbo Natale. Fallo dimettere, portalo al polo nord, sulla tua slitta, dove ti pare, ma levalo dal Tg1. E regalaci un telegiornale tutto nuovo, degno di questo nome, che conosca almeno dove sta di casa il pluralismo, che sappia almeno uno dei tanti significati della parola informazione (e che la smetta, invece, di declinare in tutti i modi possibili la parola propaganda)». Ffwebmagazine, periodico online della Fondazione Farefuturo, scrive un’ideale lettera a Babbo Natale, con la richiesta delle dimissioni di Augusto Minzolini dalla direzione del Tg1. «E abbiamo deciso -
Ministro allo Sviluppo, slitta ancora la nomina Un’altra fumata nera al consiglio dei ministri di Marco Palombi
ROMA. Alla fine, fatte salve le veline passate alla stampa, si può dire almeno che l’ordine del giorno era chiaro: «Lo scadere del termine per esercitare una delega su temi comunitari ha imposto di convocare il Consiglio dei ministri per una rapida riunione dedicata esclusivamente a tale adempimento». La nomina del successore di Claudio Scajola, non essendo prevista, non c’è stata: nessuna notizia. Resta però il nuovo giro di prova che l’entourage berlusconiano ha fatto fare al nome del viceministro Paolo Romani, una vita lavorativa spesa a fondare e dirigere tv private e attualmente titolare della delicatissima delega alle telecomunicazioni. Le indiscrezioni erano cominciate a circolare già lunedì, quando Affari italiani aveva dato per certa la nomina di Romani. Il viceministro, scriveva il quotidiano online, ha incontrato il capo dello Stato e ha fugato le sue perplessità: «A sbloccare la situazione, i chiarimenti sull’attività di editore televisivo: Romani è fuori dal giro ormai da vent’anni. E così, cadute le riserve quirinalizie, il premier ha subito convocato il Cdm». Poi, martedì, ne aveva scritto il Corsera: «Le indiscrezioni vicino a palazzo Grazioli danno ormai per scontata la nomina di Romani alla poltrona di ministro dello Sviluppo economico», come peraltro quella del viceministro dell’Economia Giuseppe Vegas alla presidenza della Consob (una vittoria di Giulio Tremonti su Gianni Letta, quest’ultima). Poi ieri, prima che il governo si riunisse nel pomeriggio, anonime fonti quirinalizie avevano buttato lì una precisazione di non poco conto: «Non è pervenuta nessuna comunicazione da palazzo Chigi» sulla questione del nuovo ministro.
ca del monopolio Rai-set. Adesso, a stare alle soffiate vicine al presidente del Consiglio, il Quirinale avrebbe abbassato la guardia e quindi l’ex editore di Lombardia 7 - liberale in gioventù, deputato di Forza Italia dal 1994 - continua a restare il candidato più probabile alla successione di Scajola: «La nomina arriverà nei prossimi giorni, forse già domani (oggi, ndr)», spiegano, anche perché il premier ha promesso per l’ennesima volta che il delicato ministero di via Veneto troverà un “proprietario”proprio questa settimana.
Bizzarro, così fosse, che il Colle si sia premurato di far sapere alla stampa di non aver ricevuto nessuna indicazione sul nome del nuovo ministro, bizzarro soprattutto perché a quella poltrona vuota - e in realtà occupata da Berlusconi da quattro mesi e più - Napolitano ha assegnato un ruolo simbolico nei suoi discorsi delle ultime settimane. La confusa fase politica, però, non aiuta a chiarire le intenzioni dei protagonisti: mentre è in corso lo scontro finale con Fini, che Bossi e Berlusconi vorrebbero chiudere usando il capo dello Stato come una clava, ogni prospettiva di lungo periodo è impensabile e idee e decisioni cambiano ogni mezz’ora. Intanto resta sempre lì il problema della gara non competitiva (tecnicamente ha il nome assai grazioso di 2beauty contest) per il multiplex digitale che il governo dovrebbe varare a breve. Due i problemi riguardanti l’ormai abituale conflitto d’interessi del presidente del Consiglio: Rai e Mediaset si apprestano a ri-appropriarsi di una parte delle frequenze che la Ue gli aveva imposto di dismettere per aprire il mercato, mentre Sky oramai vero incubo del fondatore del biscione vorrebbe sbarcare in forze anche su questa piattaforma, ma per farlo deve vincere il “concorso di bellezza” la cui giuria è nominata dal ministero che fu di Scajola e oggi è del Cavaliere. Una è la certezza: vista la formula scelta, l’erario incasserà dalla gara una miseria rispetto a quanto è successo in analoghe situazioni in Germania e Stati Uniti.
Ma Napolitano non vuole Romani su quella poltrona: il capo dello Stato lo considera infatti troppo vicino all’editore Berlusconi
sofferenza prenatale che ha avuto ha lasciato dei segni».
Matteo Molonia ha anche detto che questa notizia «ha determinato una stato depressivo della madre che per noi è un ulteriore motivo di preoccupazione e sofferenza». Proprio in queste ore la madre del bimbo, Laura Salpietro, 30 anni, che dopo il parto ha subito l’asportazione dell’utero, è stata dimessa e potrà stare vicina al figlioletto. Per la vicenda sono indagate sei persone: i due ginecologi coinvolti nella lite, il direttore del reparto di Ostetricia, sospeso dall’incarico, i due medici che hanno poi effettuato il cesareo e un’ostetrica.
Secondo la vulgata, accreditata anche da un iperberlusconiano come Giorgio Stracquadanio, Napolitano non vuole Romani su quella poltrona: il capo dello Stato lo considera infatti troppo vicino all’editore Berlusconi, troppo professionalmente invischiato in un settore, quello televisivo, che proprio in questo momento sta tentando di ristrutturarsi fuori dalla logi-
spiega il magazine - di chiedere ai nostri lettori di aiutarci, associandosi a questa letterina, inviandoci anche le loro, via mail o via posta». Insomma, al posto di Minzolini, Ffwebmagazine chiede «un telegiornale che ci parli un po’ meno di moda canina, di mostri marini e di diete innovative, per spiegarci magari, anche solo un pochino, che succede in Italia e nel mondo. Un telegiornale in linea con la grande tradizione del giornalismo Rai, non con i fogli d’ordine di lontana memoria. Un telegiornale con qualche dose di Capezzone in meno, per favore. Intendiamoci: nessuno vuole censurare Minzolini (qui, a differenza di altri paladini della libertà un po’ improvvisati, abbiamo contrastato la “legge bavaglio” senza tentennamenti). Il problema è che lui censura la realtà».
E a criticare il Tg1 ci pensa anche un altro articolo sul magazine di Farefuturo, firmato da Fabio Chiusi. A proposito del racconto di Mirabello, «Minzolini chiede ai fruitori del servizio pubblico un ennesimo atto di fede - scrive Chiusi - rincarato da quello, pascaliano, che serve per credere che il commento di Gasparri e Cicchitto esaurisca l’arco costituzionale».
politica
pagina 8 • 8 settembre 2010
Baluardi. Fiaccolata ad Acciaroli per ricordare il sindaco-pescatore. Oggi l’autopsia e domani mattina i funerali
«Angelo lasciato da solo» Il fratello di Vassallo: «Mi parlò di agenti collusi con la criminalità. Le piste: il porto o la droga». E l’inchiesta passa all’antimafia di Franco Insardà
ROMA. La condanna a morte era scritta in due lettere inviate da Angelo Vassallo al comando provinciale e a quello centrale dei carabinieri. La denuncia è del fratello del sindaco-pescatore: «Angelo, prima di essere ammazzato, mi aveva detto che rappresentanti delle forze dell’ordine erano in combutta con personaggi poco raccomandabili. Ci sono delle lettere scritte sia al comando provinciale, sia al comando centrale a Roma. Senza alcuna risposta. L’hanno lasciato solo, abbandonato».
Sulla matrice camorristica dell’omicidio sembrano indirizzarsi anche gli inquirenti e, come ha annunciato il procuratore capo di Vallo della Lucania, Gianfranco Grippo, al termine di un vertice, l’inchiesta è passata alla Dda di Salerno: «Ci sono elementi che suggeriscono un coinvolgimento della Direzione distrettuale antimafia. È stata una decisione congiunta con il procuratore Franco Roberti». Il procuratore Grippo sulla denuncia del fratello del sindaco ha precisato: «Sarà lui a chiarire questa circostanza, allo stato non ci sono elementi in questo senso, ma anche questa può essere un’ipotesi». Il sostituto procuratore di Vallo della Lucania Alfredo Greco rispetto agli esposti anonimi contro Angelo Vassallo ha precisato che «sono stati tutti archiviati». Claudio Vassallo ha comunque indicato due possibili “piste” per poter risalire agli autori dell’omicidio del fratello: «o interessi sul porto oppure problemi legati al mondo della droga, perché quest’estate mio fratello ha chiesto l’intervento delle forze dell’ordine». Circostanza quest’ultima confermata da Domenico Palladino, consigliere comunale e amico di Vassallo che ha ricordato come poche settimane fa il sindaco si era esposto in prima persona in un azione di contrasto nei confronti di alcuni spacciatori di droga che stavano cercando di conquistare la piazza di Acciaroli per lo spaccio di cocaina e hashish. «Aveva minacciato di denunciarli - ha dichiarato Palladino - se li avesse rivisti all’opera e intimato loro di lasciare il paese. Si tratta di personaggi che vengono da fuori ed e’ impensabile che i carabinieri non li abbiano mai fermati e Vassallo sì. È ora che ci sia un ricambio ai vertici del locale comando dei Carabinieri come richiesto per anni dallo stesso Angelo». Anche il vicesindaco di Pollica, Stefano Pisani, ha riferito la stessa cosa, precisando, però, di non aver mai sentito parlare Vassallo di possibili collusioni tra esponenti delle forze dell’ordine e personaggi della malavita. Il giovane vicesindaco ci ha tenuto a chiarire: «Questa non è terra di camorra, la criminalità qui non ha mai avviato i suoi affari. Certo eravamo preoc-
L’allarme del Mezzogiorno che si sente abbandonato a se stesso
Noi qui siamo in guerra. Ma lo Stato non lo sa di Antonio Manzo a davvero qualcuno continuava a coltivare l’idea che lo Stato, dopo una raffica di arresti eccellenti di capi mafiosi e camorristi aveva vinto la guerra costante con la criminalità organizzata? Quel cadavere di Angelo Vassallo, ammazzato da sindaco e perché sindaco che si era opposto ad un affare della camorra-imprenditrice, ha smentito in maniera tragica tutti coloro i quali, soprattutto negli ultimi anni, avevano firmato con stigma risolutivi ogni operazione, pur importante, di cattura di superlatitanti quasi sempre esponenti di punta delle ali militari della criminalità meridionale. E così, dopo enfatiche apoteosi («lo Stato ha vinto sulla criminalità») e sbrigative necrologie («abbiamo seppellito ogni aspirazione dei clan ad occupare intere regioni del sud»), la coscienza civile nazionale si ritrova a dover fare i conti con una emergenza criminalità che non è mai scomparsa e che in queste ore, da una zona apparentemente tranquilla e lontana come il Cilento, ripropone le immagini di un sindaco crivellato di colpi.
quotidiana al sud che spesso viene vissuta come su un fronte di guerra: si debbono difendere gli amministratori locali che vorrebbero guidare le loro comunità secondo legge, si debbono tutelare spezzoni di cosiddetta società civile che raccontano il crimine organizzato, si debbono radiografare i patrimoni e le attività economiche. Una vita terribilmente in difesa, sul fronte di una guerra senza fine che innanzitutto il cittadino onesto è costretto a subìre con il recondito pensiero di voler fuggire, abbandonare il sud, andare altrove. E, invece, resta costretto in una casa del compromesso, continuare a vivere dove è nato ma con la voglia di scappare e fuggire. Perché l’illegalità è più forte di ogni potere, soprattutto di quello dello Stato. Ci sono spezzoni di territorio meridionale dove la situazione è da decenni fuori controllo e dove anche la politica contribuisce al degrado spesso offrendo ceti dirigenti mediocri se non compromessi e collusi con i poteri criminali.
Nei prossimi mesi la criminalità organizzata tornerà ad esprimersi con ancor più drammatica esplosività, sia per reagire agli indubbi risultati repressivi ottenuti ma, soprattutto, perché i nuovi gruppi della facoltosa jont-venture economia-criminalità dovranno far capire quali sono le nuove dinamiche e soprattutto chi comanda nelle quattro regioni meridionali a maggiore tasso di occupazione criminale: Campania, Calabria Puglia e Sicilia. È un’analisi senza alcun estremismo allarmistico. Sulla collina di Acciaroli è stato ucciso un sindaco che aveva detto no a un affare della camorra proiettato nel futuro e, spesso, era stato lasciato solo dallo Stato. Il cadavere di Angelo Vassallo riporta alla drammatica realtà quotidiana che spesso risulta incomprensibile all’Italia. È la realtà di una vita
Di qui a qualche giorno il sacrificio di un sindaco del sud finirà nel silenzio. Non ne parlerà più nessuno. Perché sarà un cadavere che darà fastidio a chi non vuole cambiare passo, nelle istituzioni e nella politica del Mezzogiorno. A chi, in poche parole, celebra i funerali, finge perfino di piangere e disperarsi ma non mette mai in gioco se stesso e il suo potere per cambiare davvero il sud.
M
Dopo i proclami sulla presunta sconfitta della camorra, il Paese è sempre di più alle prese con l’emergenza criminalità
cupati che questo potesse accadere. Ma diciamo a tutti che anche senza Angelo combatteremo il malaffare a Pollica più di prima».
Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha inviato all’amministrazione comunale di Pollica un messaggio di cordoglio nel quale si legge: «Desidero far giungere ai cittadini di Pollica l’espressione della mia profonda commozione e solidarietà per il barbaro crimine dell’assassinio di Angelo Vassallo che da sindaco aveva dedicato le sue energie e il suo impegno alla tutela della legalità in difesa degli interessi della popolazione. Tutte le istituzioni si stringano intorno alla famiglia della vittima e alle forze dello Stato chiamate a far luce sull’accaduto e ad affermare le ragioni della giustizia». I funerali di Vassallo, dopo l’autopsia di oggi, dovrebbero tenersi domani mattina. Un invito a non dimenticare l’opera di Vassallo è giunto dalla moglie del primo cittadino: «Angelo ha fatto delle cose straordinarie, ora spero che non sia dimenticato e che il lavoro che ha fatto per imporre la legalità venga portato avanti». I cittadini e le associazioni si sono subito mobilitate per ricordare Angelo Vassallo. Da Pollica al Cilento, dalla Campania al popolo della rete in tanti hanno voluto partecipare il loro sdegno e la rabbia per l’omicidio. Subito dopo aver appreso la notizia, i negozianti avevano dato vita a una spontanea serrata in segno di lutto per la morte del loro primo cittadino e hanno affisso un manifesto con la scritta «Sindaco, tutto il paese è morto con te ma il segno da te lasciato continuerà a vivere nel nostro cuore». Intanto ieri sera per le strade di Acciaroli, tanto care al sindaco-pescatore, si è svolta una fiaccolata alla quale hanno partecipato oltre a migliaia di cittadini molti rappresentanti istituzionali. Tra questi l’assessore ai Rapporti con le Autonomie Locali della regione Campania Pasquale Sommese, in rappresentanza del presidente Caldoro e della giunta che ha dichiarato: «Conoscevo bene Angelo Vassallo. Era un amministratore efficiente, con un disegno armonico di sviluppo della sua città che portava avanti con convinzione e con
politica
8 settembre 2010 • pagina 9
Il messaggio del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: «Desidero far giungere ai cittadini di Pollica l’espressione della mia profonda commozione e solidarietà per il barbaro crimine dell’assassinio di Angelo Vassallo»
«Un patto nazionale per salvare il Sud» Antonio Ghirelli denuncia le colpe della politica: «È morto nell’indifferenza del governo» di Feancesco Lo Dico
ROMA. «Il termometro della situazione morale del Paese è tutta nelle prime pagine dei nostri quotidiani. A poche ore dalla barbara uccisione del sindaco Vassallo, i giornali continuano a inseguire l’inconcludente teatrino di finiani e berluscones. È la vicenda di un uomo coraggioso come il primo cittadino di Pollica, che deve essere raccontata ai giovani. Come si può pretendere di ridestare le coscienze se le si ottunde con le insopportabili fumisterie di una politica assente? La morte di Vassallo, passata inosservata a una classe dirigente troppo impegnata in ridicole baruffe chiazzotte, è il segnale di rottura definitivo: occorre subito un governo di unità nazionale. Abbiamo toccato l’apice della vergogna, ed è tempo che la politica torni a fare il suo mestiere per salvare il Paese dal collasso civile». È un Antonio Ghirelli assai sconfortato, quello che raggiungiamo al telefono nell’intento di raccogliere i cocci di un’Italia sempre più abbandonata a se stessa. Decano dei giornalisti italiani, napoletano doc, l’ex portavoce di Sandro Pertini è amreggiato, ma non ancora rassegnato allo sfacelo. Ghirelli. Lo chiediamo a lei che ne ha viste tante: è davvero possibile il Risorgimento del meridione? È ancora possibile, ma non a queste condizioni. Serve una rivoluzione mo-
strategie chiare. Di fronte a questo efferato delitto, tutte le istituzioni democratiche sono più deboli».
Alla fiaccolata ha preso parte anche l’Anci Giovane, la Consulta dell’Associazione dei Comuni italiani che riunisce gli amministratori under 35. Come ha spiegato il coordinatore nazionale Giacomo D’Arrigo «il sindaco Vassallo è il testimone dell’impegno silenzioso e quotidiano degli amministratori locali,
rale a partire dal basso, che possa avere il sostegno della politica. Mai come oggi servirebbe in Campania la forte presenza dello Stato. E invece, questo governo sembra del tutto indifferente alla parabola di un uomo come Vassallo, che è stato assassinato per la sola colpa di aver difeso la bellezza della sua terra da mani turpi. In altri tempi si sarebbero mobilitati i giovani, e la politica avrebbe immediatamente adunato le sue forze contro una morte insopportabile. E invece, si fanno raffinate esegesi e stupidi conciliaboli, ipotesi e conte senza senso: sulle prime pagine campeggia Mirabello, e intanto Roma tace lasciando campo aperto alla camorra. E di certo, la totale assenza di politiche giovanili e misure contro la disoccupazione, non strapperà troppe braccia alla manovalanza criminale. Altro punto non più soffribile della questione. Giovani e disoccupati sono stati abbandonati, la scuola disastrata, la formazione e l’università falcidiate. Ma come si spera di riportare i giovani a valori morali sani, di avvicinarli alla speranza di un futuro dignitoso? Una politica assente fa il gioco del crimine organizzato, che punta tutto sull’egemonia incontrastata della propria cultura assassina.
lo è anche oggi che è stato ammazzato. Se la sua attività amministrativa è stata un esempio, la sua uccisione non cada nel dimenticatoio e sia invece il motivo per sostenere ancor di più quanti con passione si impegnano ogni giorno nelle amministrazioni locali; la politica e le istituzioni siano più vicine nel concreto a Sindaci, assessori e consiglieri che rappresentano il primo presidio istituzionale nei territori ed in particolare nelle Regioni colpite dalla vergogna
Tutti progetti a lungo termine, che non sembrano far parte dell’ordine del giorno. I più volenterosi devono stringersi in un patto per salvare questo Paese dalla deriva. Non è più possibile accettare che il primo punto dell’agenda politica italiana sia l’odio quotidiano, il veleno e il chiacchericcio. È il momento di mettere in campo delle idee vere, e persino dei sogni di un’Italia nuova. La verità è che siamo all’autunno di una stagione politica, e serve del nuovo carburante per rimettere in moto la macchina. Non farlo, significa regalare in modo definitivo l’intero Mezzogiorno a coloro che davvero presidiano il territorio. Alle loro regole, e con i loro mezzi. C’è un’altra cosa indigesta, dietro la morte di Vassallo. Perché abbiamo dovuto conoscere la sua storia soltanto nel momento in cui il sindaco è morto? Ciò fa parte della terribile apatia in cui è sprofondata la stampa al guinzaglio della politica. È ormai considerato fisiologico, che i pochi individui ribelli alle regole della criminalità organizzata, debbano scontrarsi ogni giorno con un sistema di potere abusivo che ne sovrasta i poteri e li costringe a una
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battaglia morale quotidiana. Da dove ripartire, in attesa che si stacchi il sondino a questa classe politica moribonda? Trovo necessarie due mosse, tra loro intimamente collegate. L’alleanza politica tra volenterosi, tra chi sente prepotente l’esigenza di risollevare questo Paese, dev’essere ispirata a un grande ritorno della Chiesa sulla scena civile. Sono già alcuni mesi, come nel caso degli Scola e dei Tettamanzi, che la comunità cristiana avverte il bisogno di riprendere in mano il bandolo della matassa. E dalla Chiesa, può ripartire la mobilitazione delle coscienze, e il ritorno di una massa critica decisiva nell’agone politico. Crede che l’esempio di Vassallo riuscirà a scuotere qualcuno, o tutto finirà nel dimenticatoio come al solito? Molta gente amava il sindaco di Pollica, perché era stato capace di risvegliare nei cittadini l’amore per la propria terra sopito da tempo. E nell’indifferenza, nell’avidità individualistica e distruttiva che fiorisce la malapianta della camorra. Ma esempi di limpidezza morale e impegno civile come quello di Vassallo, seppur in questo deserto dello Stato, non resteranno senza seguito.
Mentre sulle prime pagine campeggia Mirabello, Roma tace lasciando campo aperto alla camorra
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della criminalità organizzata». Dopo la fiaccolata i 100 sindaci del Parco del Cilento si sono ritrovati assieme ad una rappresentanza dell’Anci.
giorno in cui lo aspettavano a Venezia, insieme al regista Mario Martone, per la proiezione del film “Noi credevamo”, ambientato proprio nella sua Pollica».
Cordoglio per la morte di Vassallo è arrivato anche dalla Biennale di Venezia. Il presidente Paolo Baratta, e il direttore della Mostra, Marco Mueller, hanno espresso in una nota «il loro profondo cordoglio per la tragica scomparsa di Angelo Vassallo e lo fanno nel
E il popolo di internet sta continuando ininterrottamente a esprimere la sua solidarietà e la sua indignazione per l’omicidio e su Facebook è nato il gruppo «Hanno ucciso Angelo Vassallo, non il sogno del Cilento» che in pochissime ore ha avuto migliaia di adesioni.
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panorama
ragioni&torti di Giancristiano Desiderio
Settembre, tempo di favole (e di precari) l mese di settembre è il mese dei precari. Ogni anno si scopre il meraviglioso mondo dei precari della scuola. Sembra una storia nuova, invece è vecchia. Nelle cronache giornalistiche si è rispolverato anche il nome della “mitica” ministra Franca Falcucci che disse la storica frase: «Entro quattro anni elimineremo il fenomeno del precariato». Era il 1983, quasi trent’anni fa. Non è dunque colpa né della Gelmini né di Tremonti “mani di forbice” se esistono i precari. La scuola statale è una grande macchina sovietica che produce posti stabili, posti precari abilitati e posti precari non abilitati. Il sistema “funziona” fino a quando ci sono soldi in cassa, quando invece le risorse, che per natura sono scarse, si riducono cominciano i dolori. Il precario è candidato per scelta alla via crucis.
I
Certo, sapere che ci sono persone che non avranno il posto di lavoro non è una notizia di cui compiacersi, ma con altrettanta certezza si deve pur dire che lo scopo della scuola è l’istruzione e non la sistemazione a tempo indeterminato dei precari. Dare un posto a tutti i precari messi insieme abilitati e non si raggiunge un numero che è quasi pari al doppio del corpo docente nazionale - significherebbe far collassare l’elefantiaco sistema scolastico italiano. I precari della scuola non sono gli unici ad essere «come d’autunno sugli alberi le foglie», eppure nessuno sale sui tetti o organizza scioperi della fame per chiedere posti di lavoro che sono da conquistarsi sul campo: quanti sono i camerieri o i braccianti o gli operai che lavorano saltuariamente? Ci sono tante altre categorie di precari ma solo ai precari della scuola è riservato il trattamento speciale della richiesta del posto di lavoro annuale. Tuttavia, la responsabilità non è dei precari ma di un sistema consolidato che ha usato la scuola per creare e amministrare consenso in ogni modo: persino con la gestione di disabili, con la legge 104, con immissioni in ruolo di massa. La scuola, soprattutto al Sud, è sempre stata percepita come una mucca da mungere. La scuola dei clienti è l’origine del precariato. Ma la mucca oggi è senza latte. È strano anche notarlo, ma se ci si sofferma su questa particolarità si potrà capire meglio il mondo scolastico italiano e ciò che gli gira intorno: i precari non chiedono la libertà scolastica e di insegnamento, bensì un posto sicuro di lavoro. Invece, la vera conquista di chi sente in sé la vocazione per l’insegnamento è la libertà di poter fondare scuole senza dover sottostare al potere ministeriale. Purtroppo, i precari adorano la scuola statale e ritengono che tocchi unicamente allo Stato fare e organizzare la scuola. Ma questa è un’idea piccola della scuola che andava bene quando la scuola serviva per tirare su un po’ di dirigenti. Oggi la scuola invece serve a tutti e credere che uno, il ministro, possa fare tutto per tutti è aspettare per comodità la manna dal cielo dicendo che si difende la “scuola pubblica”.
La scuola italiana? Sta dietro alla lavagna L’Ocse boccia la nostra istruzione: troppe ore e pochi soldi di Alessandro D’Amato
ROMA. L’Italia è bocciata a scuola. La pagella dell’Ocse sull’istruzione nostrana è impietosa, e mostra tutti i difetti di un istituto da riformare profondamente. Non soltanto con i tagli. Una spesa pubblica tra le più basse tra i paesi industrializzati, insegnati tra i peggio pagati e un rendimento scarso rispetto alle eccessive ore passate sui banchi dagli studenti: questi i punti dolenti della scuola italiana, a cui fa da contraltare, in positivo, soltanto l’aumento dei laureati, incrementati del 5% rispetto a dieci anni fa. Un balzo legato all’arrivo delle lauree brevi che ha portato a un 20% di laureati nel 2008, ma solo tra i 24 e i 34 anni. La percentuale di scolarizzazione terziaria si dimezza per la fascia tra i 45 e i 54 (12%) e si abbatte al 10% per quelli tra i 55 e 64 anni. Nel complesso la media dell’istruzione terziaria nel Paese resta minimale rispetto a quella dei cosiddetti paesi più ricchi: solo il 2,4% di tutta la popolazione contro il 33,5% degli Usa, il 14,7% del Giappone, il 5,8% della Germania. Ma il vero punto debole è la spesa per l’istruzione: il 4,5% del Pil contro una media del 5,7% dei paesi più industrializzati. Nel suo complesso, contando anche i sussidi agli studenti e i prestiti alle famiglie, la spesa sale al 9% ma sempre al di sotto della media Ocse del 13,3%. Inoltre la spesa corrente è assorbita soprattutto dai salari agli insegnanti per l’80% (e non del 97%, come detto dal ministro Maria Stella Gelmini nella conferenza stampa di inizio dell’anno scolastico) contro il 70% medio dei paesi che fanno parte dell’Ocse. La spesa dell’Italia – sottolinea l’Organizzazione - resta focalizzata sulla scuola dell’obbligo, per cui vengono investiti ogni anno circa 7950 dollari contro una media di 8200. Al contrario per le università e le attività di ricerca la spesa è di soli 8600 dollari contro i 13mila dell’intera area. Anche i divari negli stipendi degli insegnanti sono impressionanti: 26mila dollari in media, 38mila a fine carriera contro i 51mila degli altri paesi. Un professore di liceo avanti con l’età guadagna 44mila dollari, contro i 55mila dei suoi colleghi esteri. Pure l’Italia ha comunque dei record: 8000 ore passate sui banchi di scuola dagli studenti, secondi soltanto a Israele. Ma
c’è un paradosso: nonostante la presenza, il rendimento degli alunni è invece tra i più scarsi in materie come matematica, scienze e nella comprensione dei testi. Gli alunni tra i 7 e gli 8 anni passano ogni anno 990 ore a scuola contro una media Ocse di 777. Tra i 9 e gli 11 le ore salgono a 1023 contro 882 per poi salire sopra i 12 anni a 1089 (la media Ocse è di circa 959 ore). In paesi come la Norvegia e la Finlandia, considerati da sempre punti di riferimento per l’educazione, le ore passate sui banchi sono sotto le 6000. Una notazione negativa dell’Ocse arriva anche sulla struttura del mercato del lavoro italiano che ancora conserva uno dei più elevati «gender gap» nei salari: per un lavoro a tempo pieno una donna in Italia ancora percepisce in alcuni una retribuzione che arriva a essere fino al 54% delle retribuzione maschile contro il 72% dell’Ocse.
E per il nostro paese, come per gli altri, sarebbe necessario invece puntare sull’insegnamento superiore per stimolare l’occupazione e aumentare le entrate fiscali. Mediamente nei paesi dell’area un uomo con un diploma di scuola superiore genera 119.000 dollari in più di entrate fiscali e di contributi sociali rispetto ad un uomo diplomato della scuola secondaria. «Mentre la concorrenza si intensifica sul mercato mondiale dell’istruzione, gli Stati -sottolinea l’organizzazione internazionale- devono puntare per i loro sistemi educativi ad una qualità di livello internazionale in modo da assicurare una crescita economica di lungo termine». L’istruzione, commenta il segretario generale dell’Ocse, Angel Gurria, «costituisce un investimento essenziale per rispondere alle evoluzioni tecnologiche e demografiche che ridisegnano il mercato del lavoro». Infatti sono particolarmente colpiti dalla crisi i giovani con poche qualifiche: il tasso di disoccupazione dei diplomati della scuola superiore è rimasto al 4% in media nell’area dell’Ocse nel corso della recessione contro 9% per le persone che non hanno concluso gli studi secondari. «Nei paesi colpiti per primi dalla recessione - rileva Gurria - le persone poco qualificate hanno avuto difficoltà a trovare o a mantenere un posto di lavoro».
Il rapporto annuale «Education at a Glance» è impietoso: da noi si investe solo il 4,5% del pil nella formazione
panorama
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La storia italiana è stata caratterizzata dall’utilizzo di un modello unico di sviluppo: quello “centralista-statalista”
Politica industriale,ma libera e forte Ripartiamo dalle idee di Sturzo su federalismo, liberalismo e meridionalismo di Flavio Felice venuto il momento che l’Italia si dia una seria politica industriale nel quadro europeo secondo le grandi coordinate dell’integrazione europea». Con questo monito, il Capo dello Stato ha invitato il ceto politico ad assumere un ruolo attivo e responsabile, degno di un paese civile e con un grande bisogno di rimettersi in marcia nella direzione di un soddisfacente sviluppo economico nel contesto dell’economia globale. Ad ogni modo, non esiste una sola politica industriale e si suppone che il Capo dello Stato non volesse dire «datevi una qualsiasi politica industriale»; sicché, qualunque cosa il Presidente della Repubblica intenda per “politica industriale”, è opportuno che le forze politiche si confrontino sui modelli che la scienza economica presenta e sulle concrete esperienze che hanno storicamente contraddistinto la politica industriale del nostro Paese. In modo estremamente semplificato, possiamo rilevare una matrice “centralista-statalista” dello sviluppo ed una “liberale-personalistica”, la prima ha fortemente caratterizzato la vicenda economica italiana dall’unità fino agli anni Ottanta, la seconda non è mai stata sperimentata ed ancor oggi stenta a farsi strada.
«È
limitare e regolare ogni potere organico e ogni attività civica e individuale, vogliamo, sul terreno costituzionale, sostituire uno Stato veramente popolare». Sturzo ribadisce tale concetto in più occasioni e nel 1926, in un saggiorecensione al libro di Guido Dorso, intitolato La rivoluzione meridionale, sottolinea che era convinzione del Partito Popolare che nessuna rigenerazione del Paese sarebbe mai stata possibile se non attraverso un’evoluzione ver-
È urgente imboccare un sentiero che fino a oggi non è mai stato sperimentato
Luigi Sturzo scriveva nell’appello del 1919 A tutti gli uomini liberi e forti: «A uno Stato accentratore, tendente a
so lo «Stato decentrato ed economicamente libero e con un Mezzogiorno rimesso nell’equilibrio statale».
Contrariamente a quanti continuano a sostenere la tesi dei “due Sturzo”: uno popolare, precedente all’esilio, ed uno liberista, dopo il ritorno dall’esilio (19241946), il fondatore del Partito Popolare nel 1901, nel 1919, nel 1925 e negli anni Cinquanta ribadirà sempre la sua visione federalista, personalista e liberale. E a proposito di politica industriale nazionale, con grande lungimiranza, Sturzo sosteneva sin dai primi del Novecento che nessuno sviluppo economico si sarebbe potuto realizzare se prima non si fosse affrontato il nodo della “questione meridionale”, e tre sarebbero le condizioni per una rinascita del Mezzogiorno. In primo luogo, una politica di liberalizzazioni, l’ingerenza statale nell’industria avrebbe creato una situazione insostenibile, definibile in questi termini: «Monopolio della grande industria che vive da parassita sulla nazione» e «paralisi industriale nelle regioni meno favorite dalla centralizzazione economica». In secondo luogo, dare maggiore consistenza economica alle regioni e procedere verso una progressiva articolazione federale dello stato, in modo che «le giunte regionali concorrano con il governo centrale a ristabilire il necessario equilibrio economico fiscale già alterato a danno del Mezzogiorno». In terzo luo-
go, educare allo spirito d’iniziativa e d’imprenditorialità, affinché il Mezzogiorno sia restituito ai meridionali e siano loro gli attori del suo risorgimento. A questo punto, un’autentica politica industriale che conservi il carattere liberale e personalista, di ispirazione sturziana, si presenta come un sistema di «complessi industriali contigui, indipendenti, collegati per cicli produttivi e serviti da mezzi di trasporto adeguati. Occorre, pertanto, condizionare l’attività industriale in modo da poterla favorire e sviluppare fino al più alto rendimento».
Oggi i cattolici possono contare, oltre che sul Magistero sociale della Chiesa, su un patrimonio di idee e di proposte politiche in gran parte ancora inedito. A differenza di alcune copie scarsamente conformi, il federalismo, il liberalismo ed il meridionalismo di Sturzo e della tradizione del popolarismo sono funzione dello sviluppo economico dell’intera nazione ed appaiono come parti integranti di una politica industriale e sociale che diffida delle soluzione centralistiche, dei piani ciclopici, dell’uniformità legislativa e fiscale, mentre si mostra in sintonia con una visione del progresso economico e sociale coerente con la moderna Dottrina sociale della Chiesa ed incentrato sui corpi intermedi, sui piccoli plotoni, sui mondi vitali, nel rispetto dei principi di sussidiarietà e di poliarchia.
Trattative. I vertici Rai: «Vorremmo Gianni Morandi alla conduzione del prossimo Festival della canzone»
Sanremo, in ginocchio da te! di Gaia Miani
ROMA. Quando lo scorso luglio, nel pieno dei tormentoni da bagnasciuga, qualcuno gli aveva chiesto conto delle voci che lo davano conduttore della prossima edizione del Festival della canzone italiana, Gianni Morandi rispose qualcosa come: «Io sul palco di Sanremo? Solo una bufala estiva». E invece, trascorso neanche un mese e tramontata fra numerose polemiche l’ipotesi della strana coppia Belen Rodriguez-Massimo Ranieri, eccotelo qua l’eterno ragazzo di Monghidoro, pronto (e pure in pole position) a prendere il testimone di Antonella Clerici sul palco dell’Ariston.
Nulla di certo al momento, hanno fatto sapere ieri i vertici della Rai, ma a lasciar intendere che la trattativa in corso è seria e robusta è stato il direttore di Raiuno in persona, Mauro Mazza, a margine della presentazione a Napoli del programma della Clerici Ti lascio una canzone. «Il nome di Gianni Morandi - ha detto l’ex direttore del Tg2 - è una delle ipotesi che stiamo maggiormente approfondendo in questi giorni. Sarebbe
una bella scommessa per noi e per lui: Morandi è un nome importante e siamo in contatto con lui in vista di una decisione». Infine ha annunciato che ad ogni modo, qualunque decisione verrà presa, la scelta finale verrà annunciata entro il mese di settembre, probabilmente già prima che il Consiglio d’amministrazione torni a riunirsi, in modo
strillare le ragazzine. Ma poi l’idea è sfumata e per Morandi si sarebbe così concretizzata l’idea Sanremo.
Nel totofestival, alle sue spalle, rimane comunque in piedi anche l’ipotesi Massimo Ranieri, altro idolo di Canzonissima in gioventù, svincolatosi da quel ruolo attraverso il teatro, il cinema e altre ben più impegnative esperienze televisive. E vincitore proprio a Sanremo con un autentico classico della storia del Festival come Perdere l’amore. Nonostante il crollo di ascolti del suo ultimo Festival, nel 2008, continua a circolare anche il nome di Pippo Baudo. La vera novità però, in termini di stile e storia televisiva, sarebbe una conduzione affidata a Bruno Vespa, ultimo dei papabili secondo alcune fonti di viale Mazzini. Ma per il giornalista appare più probabile un eventuale incarico per la conduzione del Dopofestival.
Mauro Mazza: «È una delle ipotesi che stiamo maggiormente approfondendo in questi giorni. Sarebbe una bella scommessa per noi e per lui» da dare il via alla fase progettuale e operativa del prossimo Sanremo (che avrà per la Rai una rilevanza particolare, in occasione dei festeggiamenti per il 150mo dell’Unità d’Italia). Inizialmente, nei progetti dei dirigenti di viale Mazzini, il prossimo autunno Morandi avrebbe dovuto far rivivere Canzonissima, lo storico show degli anni Sessanta e Settanta in cui proprio il il cantante faceva
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lla fine di agosto l’estate perde la sua forza rovente e la terra acquista la pienezza della sua fecondità. Ciò accade all’incirca quando il Sole nel suo moto apparente entra nella costellazione della Vergine. Allora i frutti diventano maturi e incomincia la raccolta dell’uva. Da tempi immemorabili una serie di feste accompagna questo punto di svolta dell’anno: le giornate cominciano ad accorciarsi, ma la natura offre tutto di sé agli uomini, che si rivolgono al cielo con un senso di gratitudine, un misto di devozione ed entusiasmo irrefrenabile.
A
Il cristianesimo ha rappresentato un elemento di frattura rispetto a queste arcaiche forme di gioia rituale? O le ha assimilate in sé, spogliandole degli aspetti più carnali? Chi studia le feste tradizionali, come quella di Piedigrotta – per molti secoli la regina delle feste europee – propende per la seconda ipotesi. La festività di Piedigrotta si innesta su rituali dionisiaci, su festività dedicate alla Grande Madre e sviluppa questi temi arcaici orientandoli verso la devozione a Maria Madre di Dio (la cui natività si celebra appunto l’8 settembre) e a Cristo. Alfredo Cattabiani ha analizzato in libri come Planetario, Lunario, Calendario il retroterra cosmico e astrologico di questa festa settembrina. A sua volta Maurizio Ponticello, in un opera più recente (I misteri di Piedigrotta), ha restituito un ritratto completo della festa napoletana, prima che fosse obliata nei suoi originari significati e riesumata turisticamente, con risultati dubbi, in epoca tardo-bassoliniana. Il prologo in cielo della celebrazione dell’8 settembre è appunto rappresentato dalla costellazione della Vergine. Ab-Sin la chiamavano i Sumeri che per primi la evidenziarono. Ab-sin, cioè “solco”: quando il Sole incontra la costellazione della Vergine il solco della terra si apre a partorire il frutto maturo. La più lucente delle stelle della Vergine, alfa-Virginis, fu denominata dai Latini “Spica”: spiga di grano. Al culmine dell’Estate, il grano viene raccolto per essere trasformato nel cibo vitale per eccellenza: il pane. In direzione di alfa-virginis erano orientati i templi dedicati ad Hera regina celeste ad Olimpia, ad Argo e a Girgenti; come pure il santuario di Efeso consacrato ai misteri di un’altra Magna Mater dell’antichità, Artemide. Un’altra stella significativa della costellazione della Vergine era epsilon-virginis, detta anche “Vindemiatrix”. Quando la si vedeva sorgere un attimo prima del Sole negli ultimi giorni di agosto allora la vendemmia entrava nel vivo. Le stelle della costellazione accennano dunque ai due grandi doni della terra o se si preferisce ai due “frutti del lavoro dell’uomo”: il pane e il vino. E se il pane corrobora la sostanza fisica degli uomini, il vino li scioglie dai lacci della mortalità, concede loro una libertà o una licenza che dir si voglia, rievoca il ricordo di una spontaneità primordiale ed innocente. In epoca antica, Dioniso era il vino. L’ebbrezza del vino e il divino Dioniso erano tutt’uno. Dopo l’avvento del cristianesimo il vino continua a generare estasi pagane e sensuali e nello stesso tempo si lega all’esperienza spirituale del Salvatore: «Io sono la vite voi siete i tralci», dice Cristo. L’im-
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Nel corso di secoli ha avuto ospiti illustri: da Goethe a Dumas, passando per il march
Piedigrotta, l’al Nata come rituale dionisiaco, la festività è stata assimilata dal cristianesimo che l’ha spogliata degli aspetti più carnali, orientando i temi arcaici verso la devozione a Maria Madre di Dio e a Gesù di Alfonso Piscitelli pulso alla fusione che suscita l’uva fermentata viene qui trasfigurato. «Prendete e bevete, questo è il mio sangue» è la frase che si perpetua da duemila anni nella liturgia. Per quanto diversi, Dioniso e Cristo, continuamente si richiamano: enpatiscono, trambi muoiono e risorgono. Entrambi offrono il loro corpo ad un mistico pasto che è fonte di salvezza. E se i contadini greci pigiavano l’uva cantando i peana a Dioniso, dopo il trionfo della chiesa cristiana avrebbero continuato a pigiare l’uva intonando il Kyrie Eleison. Queste divinità così vicine agli uomini sono strettamente legate a una Madre. La loro vicinanza agli uomini, la loro Incarnazione non può prescindere dal mistero della maternità. Perciò nel calenda-
rio religioso la nascita del Salvatore viene preceduta dalla celebrazione della nascita della Madre. Essa cade appunto al culmine della stagione calda, quando la “pienezza dell’estate” diventa simbolo di una più spirituale “pienezza dei tempi”: quelle pienezza annunciata da profeti come Isaia e Daniele, da vati pagani come Orfeo e Virgilio.
Le feste cristiane dedicate alla natività della Vergine sono tutte intonate al tema della Luce: l’8 settembre a Firenze
A partire da luglio, per nove sabati di seguito, i devoti si radunavano nel borgo marinaro di Santa Lucia con fiaccole accese e procedevano lungo la riviera
in onore di Maria si accendono migliaia di lampioncini di carta colorata. A Mistretta, in provincia di Messina, si celebra la Madonna della Luce. A Moliterno, vicino Potenza, vanno in processione le cente, piccole cappelle illuminate da centinaia di candele. Le accompagnano ragazze vestite di bianco: un corteo delle vergini, tipico retaggio greco antico. Se Cristo è il Sole,“la luce che illumina il mondo”, Maria non può che essere l’aurora: lo splendore immacolato che preannuncia il trionfo di luce. «Da te è nato il Sole di Giustizia» risuona l’antifona della liturgia cattolica e ancora: «Nel mondo si è accesa una luce alla nascita della Vergine». Si ha qui, in ambito cattolico e ortodosso, la piena continuità con quanto si invocava – come speranza – nei misteri precristiani. Ad Alessandria d’Egitto, nella notte tra il 24 e il 25 dicembre, il Sacerdote proclamava: «La Vergine ha partorito! La Luce cresce!» È straordinario come l’eco di questi antichi misteri si sia conser-
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hese De Sade. Tutti hanno gradito molto lo spettacolo che si ripete oggi (a parte Elton John, indagato dai pm) al culmine delle celebrazioni di Piedigrotta – si legasse a momenti di grande tensione e rivoluzione. Abbiamo già accennato all’8 settembre del 1535 quando la Madonna interviene per porre fine al terrore della peste.
ltro 8 settembre vato ancora in epoca moderna nella festa di Piedigrotta acquistando la carnalità che è propria alla lingua di Napoli: «Mo’ spunta l’Aurora, vera mamma ro’ Sol celeste» intonavano i devoti che all’alba compivano la processione rituale in onore della nascita della Vergine.
Era un rituale complesso e finemente articolato quello che ogni anno si metteva in atto. A partire da luglio per nove sabati di seguito i devoti si radunavano nel borgo marinaro di Santa Lucia con fiaccole accese, procedevano lungo la riviera di chiaia (la “chiaia”: un calco dalla spagnolo “playa”, spiaggia). Giunti alla chiesetta di Sant’Anna a Chiaia intonavano il Salve Regina. Quindi giungevano alla “cripta napoletana”, quella galleria gravida di mistero che forava la roccia da Mergellina a Fuorigrotta. Lì secondo la tradizione era stato seppellito Virgilio, il poeta, anzi il “mago”che aveva previsto la nascita di Cristo e l’aveva cantata a chiare lettere nella IV ecloga: «Giunge l’ultima età del carme cumano/ il grande ordine dei secoli rinasce di nuovo/ecco torna la Vergine, tornano i regni di Saturno/una nuova progenie discende dal cielo./ O casta Lucina, proteggi il Fanciullo che sta per nascere: con lui finirà l’età del ferro e in tutto il mondo tornerà l’età dell’oro». Virgilio parla di un “Puer”, di un fanciullo che sarà Signore universale e governerà la Terra «in virtù del Padre». Per questo motivo, nel Medio Evo verrà considerato più che un letterato un santo profeta. Dante
stesso attesta una concezione del genere. Prima dell’espansione urbana contemporanea la “crypta”, la grotta era lambita dalle acque del mare. I devoti perciò uscivano dalle strette vie della capitale del regno e andavano verso un orizzonte di luce e di mare. Poi entra-
Nel 1535 la Madonna apparve al suo popolo secondo una modalità tipicamente partenopea: fu sognata da tre persone contemporaneamente in tre angoli diversi di Napoli vano nella galleria buia come in una oscurità carica di mistero.
Quando Alfonso d’Aragona ordinò i lavori di restauro, a metà della grotta fu trovata una stele che raffigurava il dio Mithra mentre compiva il suo gesto tipico: la tauromachia, l’uccisione sacrificale del toro. Dunque in quella cavità sotterranea erano stati celebrati i misteri di questa divinità solare il cui culto si era diffuso da Oriente in tutto l’impero romano fino a quando cedette all’avanzare del cristianesimo. Sul luogo delle vestigia mithriache venne eretto un altare dedicato all’altare della Madonna dell’Itria. Si avvicinavano tempi difficili per la città di Napoli, lo splendore della corte aragonese veniva
annichilito dall’irrompere della peste. Il culto per la Madonna divenne più intenso nel momento del pericolo. E nella notte che precede l’8 settembre del 1535 la Madonna apparve al suo popolo secondo una modalità tipicamente partenopea... Maria fu sognata contemporaneamente da tre persone ai tre angoli di Napoli nello stesso momento. I napoletani non possono non credere ai sogni, soprattutto a quelli di buon auspicio e volentieri edificarono nella crypta un santuario alla Madonna di Piedigrotta. Salvatrice dalla peste, dunque ancora una volta madre benevola che genera la vita universale.
Ciò che si lega a uno scampato pericolo inevitabilmente si esprime in un fremito di vita. Così la festività di Piedigrotta rinnovava gli antichi furori dionisiaci: dai carri di “lavandaie” e di “ficaiuoli” (raccoglitori di fichi) pendevano i grappoli di uva. I movimenti della tarantella ripetevano i gesti delle baccanti. I bambini soffiavano in trombe lunghe e affusolate che prorompevano in suoni assordanti. A stento la Chiesa riusciva a trattenere l’irruzione dell’elemento pagano nel cuore della sacralità cattolica. «Mo’vene na Piedirotta» è stata per lungo tempo una allocuzione che alludeva a tempi di caos, di rivoluzione. Il caso storico ha voluto che effettivamente il giorno dell’8 settembre –
Un altro 8 settembre due secoli dopo sarà dedicato, per volontà di Carlo III di Borbone, al ringraziamento alla Vergine per aver posto fine all’assedio degli Austriaci, confermando così l’indipendenza del Regno di Napoli. Dall’avanzata delle truppe austriache Carlo III era stato colto di sorpresa e dovette fuggire in camicia da notte. Ma alla battaglia di Velletri si vestì dei panni del vincitore e instaurò il regime borbonico del Regno di Napoli. Allora la Piedigrotta divenne una festa nazionale: l’esercito nazionale sfilava in onore della Madonna e a gloria dei Borbone di Napoli. Secondo dicerie abbastanza verosimili, Ferdinando IV si godette a pieno i baccanali della Piedigrotta mescolandosi ai suoi sudditi, tra“lazzaroni”e “luciani”di Chiaia. Ma l’8 settembre del 1860 i Borboni per la prima volta non poterono presenziare alla loro festa nazionale: incalzati dai Mille erano stati costretti ad asserragliarsi a Gaeta. Il dittatore Garibaldi da poco entrato nella capitale fu bruscamente invitato dalla folla a levarsi il cappello davanti alla immagine della Madonna di Piedigrotta. Poi ci fu l’ovazione. Anche nel secolo successivo l’8 settembre sarebbe stato un giorno di caos e di sconvolgimento: i Savoia fuggivano al Sud, l’esercito italiano si sbriciolava sotto l’urto di potenze straniere. Probabilmente il pensiero dei napoletani – e non solo dei napoletani – andò a quelle figure care alla devozione che rimanevano intatte nella loro aura mentre i diversi regimi si succedevano e si inabissavano. Alla fine dell’Ottocento la festa di Piedigrotta era andata incontro a una “razionalizzazione” che la sottraeva agli umori popolari ancestrali e la rendeva agile strumento di propaganda per le classi politiche dominanti. Nasceva il corteo dei carri tematici; e durante il regime fascista i carri ordinatamente celebravano i fasti dell’Uomo della Provvidenza. Dopo la guerra, all’epoca di Achille Lauro, sindaco monarchico e populista, la festa di Piedigrotta fu all’insegna del “festa, farina e forchetta”: il ricco armatore distribuiva ai suoi elettori scarpe, spaghetti, saponette. Scene di estemporanea opulenza in una Napoli poverissima, che però almeno non affogava nell’immondizia del tardo regime bassoliniano. La festa di Piedigrotta nel corso di secoli ha avuto ospiti illustri: Goethe, Dumas, anche il marchese De Sade. Tutti hanno gradito molto lo spettacolo dionisiaco. Viceversa l’ultimo ospite internazionale, sir Elton John, ha trovato alla festa di Piedigrotta la sua disavventura: «Inchiesta sulla festa di Piedigrotta. Il cachet di Elton John nel mirino dei pm» titolano le cronache napoletane di questi giorni. Elton John era stato invitato a cantare alla Piedigrotta del 2009 e un po’ è rimasto invischiato nel clima del basso impero partenopeo. Ma tant’è: all’ombra della Madonna di Piedigrotta i regimi passano e i miti terreni, a differenza di quelli celesti, non rimangono intatti.
mondo
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Stati Uniti. Aiuti alle infrastrutture, sgravi fiscali e incentivi per l’occupazione In vista delle elezioni di mid-term, la Casa Bianca ritorna al modello Roosevelt
L’involuzione industriale Contro la crisi, Obama riparte dalle fabbriche Un “nuovo New Deal” da 50 miliardi di dollari di Maurizio Stefanini i chiedo di non rila consegnare chiave ai repubblicani, perché loro non la sanno usare». 58 giorni alle elezioni di mid-term; il 9,6% di disoccupazione, il livello più alto degli ultimi 20 anni; un tasso di crescita del Pil che tra aprile e giugno è stato dell’1,6%, contro il 2,4 atteso dal governo; un margine dei democratici sui repubblicani che si è ridotto nei sondaggi a soli due punti percentuali, 40% a 38%, contro i 12 di tre mesi fa; 50 miliardi di dollari da investire in sei anni per rilanciare l’economia e ammodernare le infrastrutture; altri 200 miliardi di tagli di tasse alle imprese, che potranno scaricare dalle tasse tutti gli investimenti in impianti ed attrezzature fatti nel 2011; 240.000 km di strade, 6400 di ferrovie e 240 di piste da atterraggio da costruire. Sono questi i numeri che stanno dietro all’annuncio che Barack Obama ha fatto in maniche di camicia a Milwakee, nel parlare a una festa del sindacato in occasione del Labor Day. Il fatto che alla politica classicamente keynesiana sul lato della domanda, gli investimenti diretti, si sia aggiunta anche quella sul lato friedmaniana dell’offerta, gli incentivi fiscali, dimostra che dopo tutto la rivoluzione reaganiana non è passata invano. Ma ciò non gli impedisce di tuonare contro i repubblicani: che «sanno dire solo di no, e non fanno nulla per aiutare i lavoratori». Alla guerra come alla guerra, e non è che i manifestanti del Tea Party contro di lui ci siano andati particolarmente gentili. Questi 50 miliardi, però, vengono dopo altri 800 miliardi che già Obama aveva ottenuto dal Congresso per un “piano di stimolo”. Un piano di stimolo in cui c’era già un grande programma di infrastrutture per “creare o salvare”2 milioni e mezzo
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di posti di lavoro. Nell’uno e nell’altro caso, è fatale che il pensiero vada subito al New Deal di Franklin Delano Roosevelt e alla Tennessee Authority Valley. Ma fu allora lo stesso Obama a definire quel suo primo piano «il maggior investimento nella nostra infrastruttura nazionale dalla creazione del sistema federale delle autostrade».
E qui si rivela un dato che al lettore poco infornato sulla storia Usa potrà forse risultare sorprendente: sono due presidenti repubblicani il modello delle grandi opere di Barack Obama. Innanzitutto la Interstate Highway System, che nel 2004 si estendeva per 75.376 chilometri, e il cui nome ufficiale completo è Dwight David Eisenhower National System of Interstate and Defense Highways: dal presidente repubblicano, ex-comandante delle Forze Alleate durante la Secon-
gli States un qualcosa di equivalente: non solo per rilanciare il mercato automobilistico, ma anche per garantire il pieno dispiego di truppe e rifornimenti in caso di conflitto. In effetti, fin dal 1921 l’esercito Usa aveva iniziato a studiare una rete di autostrade necessarie alla difesa nazionale. Ma ci volle appunto il carisma e l’insistenza di Ike per tradurre i tracciati dalla carta al terreno, a partire dall’approvazione del FederalAid Highway Act del 1956. Previsto in 12 anni di durata e 25 miliardi di costo, in realtà il piano sarebbe durato per 35 anni, fino alla chiusura dell’ultimo cantiere della Interstate 90 dell’Idaho, il 15 settembre 1991. E il prezzo sarebbe lievitato a 114 miliardi di dollari del governo federale, 425 se si tiene conto dell’inflazione sopravvenuta, più altri 15 miliardi pagati dagli Stati. In realtà, però, quel piano non è stato completato. Ed è appunto a questa incompiutez-
A 58 giorni dalle urne, la situazione interna è disastrosa: la disoccupazione è al 9,6 per cento (record negativo degli ultimi 20 anni) e il Pil è fermo all’1,6 da Guerra Mondiale. Proprio guardando il modello delle Autobahn tedesche da lui conosciute nella campagna in Europa, Eisenhower si era convinto della necessità di realizzare ne-
za che si riferiva Obama. Ma le autostrade di Eisenhower, naturalmente, non possono non rimandare alle ferrovie di Lincoln. “Our railmaker statesman” lo chiamava
La celebre fotografia, simbolo del primo boom industriale degli Stati Uniti, che riprende operai in pausa su un traliccio mentre costruiscono uno dei grattacieli di New York. In basso, il presidente Franklin Delano Roosevelt: con il suo piano di investimenti, noto come New Deal, diede il via alla ripresa economica Usa
l’inno dei repubblicani nella campagna elettorale del 1860: “il nostro statista costruttore di ferrovie”. ”Una casa divisa al suo interno non può reggere”: il suo famoso slogan non si riferiva solo al muro della schiavitù tra Nord al Sud degli Stati Uniti, ma anche al baratro geografico tra Costa Atlantica e Costa Pacifica. Per arrivare in California, conquistata nel 1848 al Messico, si doveva arrancare per mesi su carri nello spaventoso vuoto di praterie, deserti e montagne che si stendeva a ovest del Missouri. Oppure si doveva navigare: attorno all’inContitero nente lungo l’interminabile rotta di Capo Horn, o arrischiandosi a tagliare via terra per le malsane jungle dell’Istmo di Panama. Il nuovo Stato, pur subito popolato in seguito alla corsa all’oro, era dunque di fatto un possedimento d’oltremare. E gli Stati Uniti, nati da una ri-
volta anticoloniale, sapevano bene che i possedimenti d’oltremare sono destinati a essere perduti. Nei programmi di Lincoln la ferrovia transpacifica veniva prima dell’ abolizione della schiavitù, ma la rivolta sudista dispose altrimenti. D’altra parte, erano stati i veti reciproci tra Nord e Sud sul percorso a bloccare fino a quel momento il progetto. E dopo la guerra saranno a disposizione industrie di guerra pronte a riconvertirsi, e legioni di ufficiali smobilitati che l’attitudine al comando di uomini acquisita sui campi di battaglia renderà capisquadra e capimastri preziosi, e masse di reduci disoccupati rotti a ogni avversità. Iniziata nel 1864, la grande opera era già compiuta nel 1869. I 3000 km da Omaha a Sacramento permisero la grande integrazione tra agricoltura dell’Ovest e industria dell’Est, permettendo ai prodotti americani di partire indifferentemente per l’Europa dai porti atlantici e per l’Asia da quelli pacifici. Inoltre, ci fu lo straordinario volano rappresentato dalla domanda massiccia di manufatti d’acciaio, per locomotive, vagoni e traversine. Fu una seconda rivoluzione industriale basata sulla siderurgia: dopo la prima rivoluzione industriale nata dall’applicazione del vapore al tessile; e prima della terza rivoluzione dell’automobile e del petrolio e della quarta dell’elet-
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Canale Mussolini ama ripetere l’identificazione che Roosevelt andava facendo tra i suoi programmi infrastrutturali e quelli di Mussolini e Stalin: prima che le vicende non lo portassero alla testa della crociata mondiale antifascista. La cosa intrigò però Karl August Wittfogel: nato nel 1896 in Germania e morto nel 1988 negli Stati Uniti, uno degli innumerevoli intellettuali che il nazismo costrinse all’esilio. Nel suo caso, non senza un anno di transito attraverso i lager di Hitler. A differenza di altri, non ebbe però illusioni sulla natura dell’opposto dispotismo che al nazismo sembrava contrapporsi. Anzi, poiché la sua specialità era la civiltà cinese, da una vasta analisi comparata tra economia, filosofia e storia ne trasse una teoria scoonvolgente, che riportava d’attualità quelle vecchie teorie di pensatori come Aristotele o Montesquieu secondo cui il “di-
I repubblicani, intanto, avanzano nei sondaggi: secondo gli ultimi dati, in 6 mesi hanno guadagnato più di dieci punti sui democratici
tronica, tra l’era della tv e quella di Internet.
Riallacciato all’esempio della Seconda Rivoluzione per salvare la residua industria fulcro della Terza nell’era della Quarta avanzata, il piano di Obama aveva promesso di non dimenticare quest’ultima. «È inaccettabile che gli Stati Uniti siano solo al posto numero 15 della classifica mondiale di accesso alla banda larga. Qui nel Paese che ha inventato Internet tutti i bambini devono avere accesso alla banda larga», aveva detto. Dalle ferrovie alle strade e alla rete: sebbene gli Stati Uniti, Paese Continente, siano ideologicamente la terra del libero mercato, vi continua anche da due secoli l’idea che spetti al governo assicurare le comunicazioni perché la libera inizia-
tiva si possa dispiegare senza ostacoli. Che è poi una sorte di anti-trust, applicato agli ostacoli naturali e geografici. D’altra parte, anche Reagan a modo suo scatenò un’analoga rivoluzione nei trasporti, con quella famosa decisione di sostituire ai controllori di volo civili in sciopero quelli militari, da cui venne poi fuori la deregulation dei voli destinata a portare all’era del low cost. La differenza del New Deal democratico, rispetto a questi esempi repubblicani, fu che piuttosto che alle comunicazioni, la famosa Tennesse Valley Authority si applicò al rimodellamento dell’ambiente geografico. Secondo un modello che più o meno in quel periodo stava applicando anche Mussolini col piano di bonifiche che il recente Premio Strega Antonio Pennacchi ci ha ricordato non essere state compiute solo nell’Agro Pontino. Ed è pure Pennacchi che nelle presentazioni del suo
spotismo orientale”era una forma di governo intrinsecamente distinta dalle monarchie e repubbliche dell’Occidente. Lo stesso Marx era stato infuenzato da questo modo di vedere, nel momento in cui aveva contrapposto alla successione occidentale tra modi di produzione schiavista, feudale e capitalista un “modo di produzione asiatico” semmpre eguale nel tempo. Ma più di recente tutta questa visione era stata squalificata, come frutto di incomprensione culturale, se non addirittura di pregiudizi razzisti. Nessun errore, aveva invece obiettato Wittvogel nel suo best-seller del 1957 Oriental Dispotism. Le società medioorientali e asiatiche, e anche quelle del mondo pre-colombiano, presentavano effettivamente una sottomissione assoluta dell’individuo allo Stato, che era stata dovuta alla dipendenza della loro economia dai lavori irregimentazione idrica.
Da una parte Faraoni, Inca, Figli del Cielo, Satrapi, Sultani erano stati resi necessari dalla necessità di un potere forte per gestire queste risorse; dall’altra, questo potere aveva loro messo in mano uno strumento di ricatto immenso. Come insegnava Erodoto, il Gran Re di Persia non aveva bisogno di mandare eserciti contro i popoli ribelli: gli bastava tagliar loro i rubinetti. E se l’Occidente era stato in gran parte risparmiato da questo meccanismo inferna-
le, non se ne poteva tuttavia considerare del tutto immune. La democrazia greca, ad esempio, era degenerata nelle monarchie assolute elleniste per influsso dei modelli medioorientali, e era stata a sua volta causa di involuzione dei sistemi istituzionali romani. E anche l’oligarchia della Repubblica di Venezia, con quei Savi alle Acque più potenti dei Dogi, era un classico esempio di regime autoritario basato sulla necessità di dominare un ambiente idrico difficile, come quello della Laguna. Dal famoso canale fatto scavare dai deportati di Stalin sul Mar Bianco alle bonifiche di Mussolini, osservava appunto Wittvogel, il dispotismo idraulico stava rientrano anche nell’Occidente moderno. E la crescita del potere federale Usa dovuto alla costituzione della Tennessee Valley Authority sotto il presidente Roosvelt dimostrava come anche le democrazie potessero essere a rischio.
Se non altro la moda dell’ecologia, per molti versi di sinistra e dirigista, ha avuto questo effetto che Wittvogel definirebbe liberale: bloccare l’espansione continua dello Stato attraverso i progetti idraulici, che ormai sono sempre più ostacolati da mobilitazioni di tutti i tipi. C’è però un altro aspetto per il quale il piano “repubblicano” di Obama ha corso il rischio di incappare negli stessi errori del New Deal. Come hanno spiegato vari economisti, nell’aver bloccato il suo piano troppo presto: appunto, allo stesso modo in cui fece Roosevelt nel 1937. Con il risultato di generare una crescita che però non ha fatto in tempo a produrre impiego. La preoccupazione del presidente di evitare un deficit eccessivo ebbe allora il risultato paradossale di distruggere la fiducia degli elettori nelle politiche di espansione fiscale. Un sondaggio Gallup del marzo 1938 mostrò in effetti che il 63% degli elettori era contrario, e solo un 15% favorevole. E infatti alle mid-term del 1938 i democratici persero a favore dei repubblicani 70 seggi alla Camera e 7 al Senato. In effetti, fu allora la Seconda Guerra Mondiale a permettere a Roosevelt di superare l’impassse. Da una parte, perché nel 1940 gli americani non se la sentirono di cambiare timoniere alla Casa Bianca, in un momento così delicato in cui gli Usa pur senza ancora entrare formalmente nel conflitto si stavano già impegnando massicciammente a favore dei “cugini” inglesi assediati. Dall’altro, perché ancor prima dell’entrata formale del conflitto la guerra ebbe un effetti espansivo che spazzò via definitivamente tutti i residui della Grande Depressione. Obama, però, dalle guerre sta crcando di uscirci. Insomma, il suo percorso è in qualche modo obbligato.
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er Nicolas Sarkozy l’unica buona notizia che, per la verità, è ancora soltanto un’indiscrezione - è arrivata dal giornale online Bakchich che ha rivelato l’intenzione di Woody Allen di tagliare tutte le scene girate da Carla Bruni nel suo Midnight in Paris. La partecipazione della première dame all’ultimo film del grande cineasta americano aveva scatenato l’ira del presidente che aveva anche fatto irruzione sul set durante le riprese. Proprio l’atteggiamento di Sarko avrebbe convinto Woody Allen a rinunciare a Carla e a girare le stesse scene con un’altra attrice, la giovane Lea Seydoux, scoperta in Inglorious Bastards, di Quentin Tarantino, e già premiata l’anno scorso con un Cesar. Ma per il capo dell’Eliseo le soddisfazioni finiscono qui, perché ieri le proteste di piazza che erano già cominciate la scorsa settimana contro le espulsioni dei rom, si sono estese al terreno dello scontro sociale. Sul capitolo più delicato: quello della riforma delle pensioni che è uno dei punti qualificanti del programma di governo.
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I sindacati francesi hanno dato una prova di forza notevole portando due milioni di persone in piazza nelle principali città e hanno praticamente bloccato i trasporti. Con ritardi negli aeroporti, nelle ferrovie e con la metropolitana di Parigi semiparalizzata. Molte le astensioni dal lavoro anche nella scuola e negli ospedali. Se le proteste per la linea dura nei confronti degli immigrati che delinquono avevano raccolto l’adesione di una minoranza di cittadini, la contestazione della riforma delle pensioni abbraccia un fronte vasto che supera i tradizionali blocchi della gauche e della droite e comprende anche molti elettori di Sarkozy. Soprattutto tra i funzionari pubblici che sono particolarmente colpiti dalle novità che il go-
Francia. Due milioni in piazza contro la riforma voluta dal governo
Dai rom alle pensioni la protesta anti-Sarko L’innalzamento a 62 anni dei limiti di età contestato anche dall’elettorato di destra di Enrico Singer
File di passeggeri in attesa ieri sui marciapiedi di una stazione del metrò di Parigi. Nella foto piccola, Carla Bruni verno, proprio ieri, ha sottoposto all’Assemblea Nazionale dove il dibattito dovrebbe durare fino alla prossima settimana - sono stati presentati 670 emendamenti che, per la Francia, sono un record - prima di approdare in Senato dove l’approvazione finale è attesa per ottobre. La riforma, che porta la firma del discusso ministro del Lavoro Eric Woerth, coinvolto nello scandalo dei finanziamenti elettorali a Sarkozy, vuole porre rimedio a una situazione che è diventata oggettivamente insostenibile. In media
gli uomini francesi vanno in pensione a 58 anni e 7 mesi e le donne a 59 anni e 5 mesi. Siamo ai minimi dell’Europa: perfino sotto all’Italia che già nella fascia bassa.
Il cuore della riforma che vuole rimettere così in sesto i conti della previdenza, ormai fuori controllo, prevede di portare l’età legale della pensione dagli attuali 60 anni (il livello più basso a livello europeo) a 62. In parallelo la riforma intende portare dagli attuali 65 anni a 67 l’età in cui si può ottenere il massimo della
pensione senza riduzioni, anche se non si sono pagati tutti gli anni di contributi previsti. Mentre la durata dei versamenti obbligatori continuerà ad allungarsi e raggiungerà i 41 anni nel 2020. Questi nuovi parametri sono considerati «irrinunciabili» del governo che non intende cedere, nemmeno di fronte alle proteste di piazza. Il lavoro usurante è uno dei punti, invece, dove sul quale sembre possibile una trattativa. Già il progetto di riforma prevede che, con una incapacità del 20 per cento dovuta a un incidente sul lavoro
o a una malattia professionale, si potrà andare in pensione a 60 anni con un compenso a tasso pieno. Non solo: il dispositivo “carriere lunghe”, che permette a chi ha iniziato a lavorare prima dei 16 anni di fermarsi in anticipo, verrà esteso anche a chi ha cominciato a lavorare a 17 anni. Da sole queste misure riguarderanno, alla fine del decennio, una persona su sei della stessa classe d’età.
La funzione pubblica è la più interessata dalla riforma che taglierà gran parte dei favoritismi tradizionalmente accordati al grande esercito dei fonctionnaires. Il tasso medio applicato ai funzionari per i contributi destinati alla previdenza passerà entro il 2020 dal 7,85 per cento attuale al 10,55 per cento: livello identico al settore privato. Scomparirà, inoltre, la possibilità offerta alle donne che lavorano nella funzione pubblica e che sono madri di tre figli, di andarsene in pensione già dopo i primi quindici anni di servizio. L’obiettivo generale della riforma è riportare i conti della previdenza in pareggio nel 2020. Ma le novità elencate finora non basterebbero per centrare l’obiettivo. Sono previsti anche dei sacrifici da parte di tutti i contribuenti. Per le fasce alte di reddito l’aliquota passerà dal 40 al 41 per cento. Non solo: aumenteranno le imposte sulle plusvalenze finanziarie e sui dividendi. E si ridurranno gli sgravi di cui godono le imprese per i lavoratori che percepiscono gli stipendi più bassi. Stando ai sondaggi, due terzi degli elettori credono che il piano di Sarkozy sia ingiusto e sono a favore delle proteste. «Da qualche tempo tutto ciò che il governo fa dal punto di vista economico viene percepito come ingiusto e privo di efficacia», ha detto Gael Sliman, direttore dell’Istituto di sondaggi Bva. Per Sarkozy un altro brutto segnale.
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La manifestazione svoltasi a Roma a favore dell’iraniana Sakineh Muhammadi Ashtiani, condannata alla lapidazione con l’accusa di adulterio. Secondo l’Iran, alcuni Paesi hanno “frainteso” la situazione. In basso, il presidente Giorgio Napolitano
Iran. Anche Barroso attacca la “barbarie indicibile” della lapidazione nei confronti della presunta adultera
Il Colle: «Libertà per Sakineh» Napolitano: «Il nostro governo schierato a favore dei diritti» di Vincenzo Faccioli Pintozzi nche il Quirinale si unisce al coro internazionale a favore di Sakineh Muhammadi Ashtiani, la donna iraniana condannata alla morte tramite lapidazione con l’accusa di adulterio e omicidio. Il presidente della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano, ha infatti voluto sottolineare ieri che «la posizione del governo italiano in merito alla vicenda della condanna a morte dell’iraniana Sakineh Muhammadi Ashtiani è stata netta e non solo di principio: c’è stata un’iniziativa nei confronti del governo iraniano e lo stesso ministro Frattini mi ha riferito che nessuna decisione è stata presa». Con queste parole, il capo dello Stato ha voluto rispondere in maniera semi-diretta alle accuse che il regime degli ayatollah ha mosso ieri in mattinata proprio a Italia e Francia, considerate colpevoli di aver “frainteso” la situazione. Parlando durante la conferenza stampa seguita alla visita di Stato della presidente finlandese Tarja Halonen al Quirinale, Napolitano ha aggiunto: «La sollecitazione forte del nostro continua a essere intensa in modo che non si compia un atto così altamente lesivo dei principi di libertà e di difesa della vita». In ogni caso, il titolare della Farnesina Franco Frattini ha precisato in giornata che «non sono in discussione» i rapporti diplomatici con l’Iran. Sempre ieri, oltre al presidente italiano si è espresso anche il presidente della Commissione europea, il portoghese Josè Manuel Barroso, che nel suo primo discorso sullo stato dell’Unione ha definito la condanna alla lapidazione inflitta dai giudici iraniani a Sakineh «una barbarie indicibile». Barroso, in un passaggio del suo discorso pronunciato durante una plenaria dell’Europarlamento, ha sottolineato inoltre che «i diritti umani
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non sono negoziabili» e si è detto «scioccato per il modo in cui i diritti delle donne vengono violati in molti Paesi. Sono disgustato quando sento che Sakineh Mohammadi Ashtiani è stata condannata a morte per lapidazione. Questa è una barbarie indicibile. Condanniamo questi atti, che non hanno alcuna giustificazione sotto alcun codice morale o religioso». Anche se con ogni probabilità i due interventi erano stati già pianificati, la tempistica con cui sono stati pronunciati ha fatto pensare a una risposta comune fra Roma e Bruxelles direttamente all’esecutivo di Teheran, che ieri ha cercato di difendere il proprio operato ac-
cusando di fraintendimenti i governi e le personalità europee scese in piazza in difesa di Sakineh. Parlando alla britannica Bbc, nella mattina di ieri, il portavoce del ministero degli Esteri di Teheran Ramin Mehmanparast ha infatti dichiarato che «alcuni dirigenti occidentali, compresi i ministri degli Esteri di Francia e Italia, si sono lasciati coinvolgere nel caso, ma purtroppo sulla base di informazioni sbagliate». Secondo il portavoce, che ha smussato i toni rispetto ai giornali ultra-conservatori vicini alla Guida suprema Khamenei, « il caso di una sospettata di omicidio non deve diventare una questione politica o di diritti umani», aggiungen-
Teheran replica: «Alcuni Paesi occidentali hanno frainteso la situazione. Comunque, il caso è nelle mani dei giudici» do che la procedura giudiziaria relativa alle due accuse rivolte a Sakineh è ancora in corso. Per Mehmanparast, infine, «invece di sostenere un sospettato di omicidio, l’attenzione (dell’Occidente, ndr) dovrebbe essere dedicata ai familiari delle sue vittime». In ogni caso, resta alta l’attenzione per una delle pene più criticate del mondo contemporaneo: la lapidazione, appunto, che neanche tutto il mondo islamico considera religiosamente corretto o previsto dai dogmi coranici.
E in Iran, oltre a Sakineh Ashtiani, ci sono almeno altre quattordici donne che rischiano la lapidazione. Lo ha spiegato ieri in un’intervista all’Apcom Shahrzad Sholeh, presidente delle Donne democratiche iraniane in Italia, che chiede un maggior impegno della comunità internazionale a favore di queste detenute.«Sono vent’anni che denunciamo le lapidazioni del governo iraniano. Per fortuna che è usci-
to il caso di Sakineh, che oggi è ancora viva solo grazie a questa straordinaria mobilitazione internazionale», ha spiegato Sholeh, la cui associazione fa capo al Consiglio nazionale della resistenza iraniana, la principale forza di opposizione iraniana all’estero.
«È assolutamente necessario che l’Italia, che ringraziamo per il suo generoso sostegno, e l’intera comunità internazionale, mantengano e anzi intensifichino la pressione su Teheran se vogliono salvare Sakineh da una orribile morte. Al minimo allentamento della pressione, Teheran potrebbe senz’altro procedere alla sua lapidazione. E se così fosse, sarebbe l’inizio di un massacro di altre donne - su almeno altre 14 pende una condanna alla lapidazione - e di altre migliaia di prigionieri politici che rischiano di essere giustiziati». «Anche noi – prosegue - come il figlio di Sakineh (Sajjad Qaderzadeh, 22 anni, Ndr) chiediamo di non mollare, e azioni sempre più concrete e mirate come le sanzioni. Ai governi di tutto il mondo, Italia compresa, chiediamo che convochino gli ambasciatori iraniani perché forniscano chiarimenti sul caso». Saharazad ha poi sottolineato che il 15 settembre la sua associazione manifesterà davanti a Montecitorio a favore di Sakineh: «Il caso di Sakineh è una occasione di fondamentale importanza per continuare a fare pressione sull’oppressivo regime iraniano. Inoltre, Sakineh è divenuta un simbolo non solo della lotta delle donne iraniane ma delle donne di tutto il mondo. Ed è anche la prova, al momento ancora vivente, di quanto sia misogino il governo di Teheran». Che oggi può vantare anche un arsenale atomico (forse in preparazione, forse già pronto) e non ha alcuna intenzione di dare soddisfazione al mondo su un caso «di criminalità interna».
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spettacoli
Cartolina da Venezia. Oltre duecento minuti di pellicola perfettamente calibrati, ispirati alla storia di Domenico Lopresti, Giuseppe A. Pieri e Antonio Sciambra
I tre del Risorgimento Presentato al Lido “Noi credevamo” di Mario Martone, applaudito film che ripercorre l’impresa dell’Unità d’Italia di Alessandro Boschi
VENEZIA. Continua bene l’approdo delle pellicole italiane in concorso alla 67^ edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Dopo La Passione di Carlo Mazzacurati (finalmente una commedia), La pecora nera, fulminante esordio di Ascanio Celestini, è stata la volta del ponderoso Noi credevamo di Mario Martone, napoletano“svizzero”, come è stato argutamente definito da chi lo ha potuto osservare al meticoloso lavoro sul set. Oltre duecento minuti di pellicola perfettamente calibrati e tenuti insieme in un arco narrativo che nonostante la notevole quantità di personaggi, spesso interpretati da attori diversi a causa del lasso temporale in cui la storia si svolge, tiene per tutto il film e permette allo
tre personaggi minori: Domenico Lopresti, Giuseppe Andrea Pieri e Antonio Sciambra. Come dice Mario Martone, «abbiamo individuato con Giancarlo De Cataldo tre figure minori tra i cospiratori italiani dell’Ottocento e abbiamo attribuito le loro vicende a tre personaggi di nostra immaginazione: intorno a queste vicende abbiamo quindi ricostruito l’intera impalcatura del racconto (…) /Uno dei tre personaggi è ispirato al protagonista di un romanzo in cui Anna Banti racconta la storia del suo nonno cospiratore, Noi credevamo. Parole queste che concludono il film, pronunciate da Domenico, alias Luigi Lo Cascio, che ha il privilegio di essere il primus inter pares del cast. È infatti il suo nome il primo ad apparire nei titoli di coda. Ma come vedremo altri suoi colleghi, come
lento i tre entrano a far parte della Giovine Italia di Giuseppe Mazzini (interpretato da uno, ma serve dirlo? straordinario Toni Servillo). Poi raggiungeranno Parigi dove incontreranno la Principessa Cristina di Belgiojoso, patriota fervente e in sovrappiù femminista ante litteram. Parteciperanno al tentativo di assassinare Re Carlo Alberto e ai moti savoiardi del 1834. Due tentativi il cui esito sarà lo stesso: il fallimento totale. Si assiste quindi al loro rientro all’ovile, cioè in Italia, dove avverrà il primo terribile avvenimento che segnerà per sempre le vite dei tre. Non potendo svelarvi di cosa si tratta, perché comunque di un film con una ricca porzione di finzione si tratta, vi diciamo comunque che la storia, sempre filologicamente corretta, si sposterà in Inghilterra, dove già si
spettatore di non perdersi nel bombardamento di date ed eventi che vengono raccontati. In due righe l’inizio di questa rilettura profonda e rigorosa del Risorgimento: «Davanti alle teste mozzate dei leggendari banditi Capozzoli, promotori di una rivolta repressa nel sangue dall’esercito borbonico, Domenico, Salvatore e Angelo, poco più che adolescenti, giurano di consacrare la propria vita alla causa della libertà e dell’indipendenza dell’Italia». Tre giovani quindi attorno ai quali ruota la storia che parte dai moti del 1828. Va subito specificato che c’è una dichiarata ispirazione alle vite di
uno straordinario Valerio Binasco, lo avrebbero meritato parimenti. È interessante il presupposto che ha spinto Martone al concepimento del film, vale a dire una «riflessione sul rapporto fisiologico tra terrorismo e lotta per l’identità, in virtù degli accadimenti dell’11 settembre». L’autore napoletano si chiede insomma come sia stato possibile che in una nazione come la nostra, che ha così a lungo combattuto per la sua indipendenza non sia mai successo nulla del genere. Questo spiega quella che può sembrare a qualcuno, magari abituato a certe interpretazioni agiografiche, una rilettura in chiave terroristica di un periodo fondamentale per il nostro Paese come il Risorgimento. Martone si serve dei tre personaggi, amici fin dalla nascita ma molto differenti tra loro, per offrirci altrettante interpretazioni della clandestinità, della lotta armata e della cospirazione. Il regista ha però anche un altro merito: quello di non trascurare le implicazioni personali, emotive, dei tre giovani. Partendo naturalmente dalla loro diversa estrazione sociale. Salvatore è l’unico figlio del popolo mentre Domenico e Angelo provengono da famiglie nobili. Nativi del Ci-
trova Giuseppe Mazzini. A questo proposito è interessante anche il modo con cui Mario Martone descrive personaggi di simile statura. Il regista di Morte di un matematico napoletano non esce mai da un contesto che non sia realistico, a volte persino in maniera sgradevole. Una figura piuttosto meschina ce la fanno ad esempio i piemontesi, il cui atteggiamento colonialista, oppressivo ed arrogante, amareggia non poco i meridionali. Domenico, interpretato prima da Edoardo Natoli e poi da Luigi Lo Cascio, decide allora di aggregarsi alle truppe di Giuseppe Garibaldi, figura tenuta molto sullo sfondo dalla narrazione. Le intenzioni di Domenico sono quelle di aiutare le camicie rosse a conquistare con le truppe Roma in aperto conflitto con il neo parlamento italiano. Ma come tutti sanno (non è vero, non è vero...) tutto finirà con il naufragare sull’Aspromonte.
Noi credevamo attraversa la storia di una vita, la vita di un uomo e la vita di un Paese. Se dovessimo fare un appunto penseremmo ad una prima parte recitata meno bene che la successiva. Sembra di assistere ad una delle nostre
fiction, forse perché gli attori provengono esattamente da lì. Poi però entrano in campo i grossi calibri, Lo Cascio, Binasco e Servillo, insieme ad Andrea Renzi, (Sigismondo di Castromediano), Luca Zingaretti (Francesco Crispi), Renato Carpentieri (Carlo Poerio) e la sempre straordinaria, e madrelingua, Fiona Shaw (Emilie Ashurst Venturi). Con la lingua inglese se la cava piuttosto bene anche Luca Barbareschi, che interpreta per pochi fotogrammi Antonio Gallenga, ma ieri mattina il pubblico in sala non sembrava così ben predisposto nei suoi confronti. Forse perché non si era ancora espresso, come ha fatto poi, nel seguente modo: «Credo che questo film dovrebbe essere fatto vedere ai ragazzi perché un Paese senza memoria non va avanti. È l’unico modo per evitare di ripetere certi errori. La nostra democrazia - ha aggiunto - è ancora giovane e rischia derive populiste. Ha bisogno di crescere ancora, soprattutto nel rispetto delle istituzioni”» È un po’ triste, al di là di quanto possa essere perfino auspicabile, che al Lido basti così poco, cioè parlare male di Berlusconi per ricevere l’applauso. A Luca Barbareschi va però dato atto di essersi espresso con molta
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La programmazione di cinque pellicole inizierà il prossimo novembre
E il “progetto Cult” salva gli “invisibili” di Venezia Marco Müller porta sul satellite alcuni film che, pur avendo partecipato al Festival, non sono mai stati distribuiti in Italia di Andrea D’Addio
Alcuni fotogrammi del film di Martone “Noi credevamo”. Nel cast, tra gli altri, spiccano Toni Servillo, Luigi Lo Cascio, Luca Zingaretti, Luca Barbareschi e Francesca Inaudi. A destra, Marco Müller
chiarezza nei confronti dei tagli alla cultura apportati dal governo. Tornando al film, che uscirà nelle sale il prossimo novembre, va ancora sottolineato come sia ben evidente l’intenzione “contenutistica” del regista.
Probabilmente la povertà di certe scenografie è proprio dovuta alla volontà di non trasferire all’effetto scenico, che in certe situazioni avrebbe potuto essere deflagrante, l’essenza della storia. Il che non significa che Noi credevamo sia un film povero, ma di certo non si tratta di una produzione costosissima. In fondo Noi credevamo può anche essere considerata una metafora molto attuale, consigliandoci di non tentare la difficile catalogazione di quanto ci sta avvenendo intorno, in un panorama in cui è sempre più difficile distinguere quale siano le tinte fosche e quelle limpide. Il film di Martone potrà però servire, e sarebbe una gran cosa, a interpretare il presente mentre ci sta facendo reinterpretare il passato. O magari, semplicemente, spingerà molti di noi a riprendere in mano i nostri libri di storia per una più attenta e consapevole rilettura. Non sarebbe poco davvero.
VENEZIA. «Il successo di un festival del cinema si misura anche dalla sua capacità di allungare la vita dei film che ha presentato». Parola di Marco Müller, direttore della Mostra del cinema di Venezia, che ieri ha accompagnato la presentazione del progetto “Cult a Venezia”. Ogni anno, solo volendo rimanere alla competizione ufficiale, tra la solita ventina di titoli scelti solo la metà trova una distribuzione italiana. E questo perché siamo a Venezia, dove il numero di titoli nazionali è maggiore che altrove. Se si parla di Cannes o Berlino, la media scende miseramente. Si discute sempre molto, soprattutto in Italia, sull’opportunità dei festival del cinema, dimenticando spesso che le prospettive e le funzioni di queste manifestazioni sono così varie e rivolte a pubblici diversi, che è difficile trarre giudizi sintetici. C’è l’arte, la voglia di aprire una finestra sul cinema contemporaneo, di scoprire e far scoprire il pubblico. C’è il mercato, il momento in cui produttori e distributori si incontrano, stringono legami e/o contratti che caratterizzeranno le programmazioni dei cinema nel resto dell’anno. C’è l’indotto turistico per il luogo che ospita, la possibilità di trovare un luogo di prestigio e ben coperto dai media, in cui fare pubblicità ai propri prodotti o a sé stessi. Insomma, quando anche i film ospitati non trovano distribuzione, non significa che la Mostra sia un insuccesso totale.
ro 2009 - circa 200mila euro, il Leone d’argento 2007 Redacted, di una firma prestigiosa come De Palma, andò direttamente su Sky e Dvd, il premio della Giuria di Cannes di quest’anno, Des Hommes et des Dieux così come l’ultimo Orso di Berlino, Bal, non hanno ancora una distribuzione italiana e difficilmente la troveranno.
Non hanno cast altisonanti e le loro storie intimiste e tragiche sembra non incuriosiscono troppo. All’estero (Francia, Germania, Olanda) va un po’ meglio, i cinema differenziano di più la propria programmazione anche durante la giornata, ma la situazione non è troppo differente. Il progetto “Cult a Venezia”parte da queste considerazioni e così, da novembre a dicembre, inizierà la programmazione di cinque film (se andrà bene, poi aumenteranno) delle edizioni passate del festival mai approdati nelle nostre sale: White Material di Claire Denis, Vynian di Fabrice du Welz, Vegas di Amir Naderi, Plastic City di Yu Lik Way e Sukiaky Western Django di Takeshi Miike. Proprio quest’ultima sarà molto probabilmente la prima pellicola ad essere mandata in onda. «La speranza è che questo film, ispirato a La sfida del samurai di Kurosawa e a Per un pugno di dollari di Leone, possa attirare su di sé un’attenzione che, come una palla di neve, ricada sui film che lo seguiranno. La presenza di Quentin Tarantino nel cast, seppur con un cammeo, sarà per molti un grosso motivo di interesse» profetizza Müller che, sull’opportunità di un’iniziativa come quella di Cult, propone una lettura educativa: «Dobbiamo formare un pubblico che ora esiste in numero esiguo, far sì che senta il bisogno di film che non vengono distribuiti perché gli esercenti non si fidano delle loro possibilità di incasso». Proprio per aiutare il buon esito dell’operazione, Müller introdurrà di volta in volta i vari film, una presentazione “vecchio stile”che a suo stesso dire è ormai superata dalla forza di Internet: «Il potenziale pubblico di questi lavori non sceglie di vedere un film leggendo la recensione di una firma importante, ma cercando informazioni trovate in rete, spesso interessanti articoli scritti da altri giovani che, proprio come un film, basano il proprio successo di letture sul passaparola». Insomma, cresce internet, cambia la critica, la televisione ricomincia a fare vedere i film. Tutto per ritrovare, o ricreare, un pubblico. E da ora nasce il cinema 2.0.
In palinsesto, “White Material” di Denis, “Vynian” di du Welz, “Vegas” di Naderi, “Plastic City” di Yu Lik Way e “Sukiaky Western Django” di Takeshi Miike
I kolossal Usa, quando anche partecipano, lo fanno fuori concorso, senza grosse concorrenze fra loro (mai presentazioni con date troppo ravvicinate). Su 10 giorni di rassegna al massimo si vedono un paio di Robin Hood, Guerre Stellari o Collateral. Un tempo, anche solo 5ue anni fa, era diverso. Ora le major fanno più attenzione ai costi di una spedizione in Laguna o sulla Croisette (hotel, macchine, cene, vizi e stravizi delle star) e così c’è normalmente ancora più spazio per pellicole e volti meno inflazionati, più ricercati. Il mercato non è in grado di assorbirli tutti dando a ognuno la distribuzione che si merita, e così molti titoli, spesso belli, rimangono confinati ai margini del sistema. Spesso un premio di prestigio non garantisce una distribuzione, e quando ce l’ha, le copie in circolazione sono così poche che in molte parti d’Italia è impossibile visionarle e gli incassi, di conseguenza, sono miseri. Lebanon e Still Life, Leoni d’oro rispettivamente del 2009 e 2006 hanno raggiunto assieme circa 500mila euro, Il canto di Paloma - Orso d’o-
cultura
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Tra gli scaffali. Con “Troppo piombo” e “Dopotutto” a un anno dal debutto tornano Enrico Pandiani e Elias Mandreu
Giovani narratori crescono di Alessandro Marongiu
passato poco più di un anno, era il giugno del 2009, da quando liberal ha tenuto a battesimo i debutti di due scrittori che, per i loro primi passi, avevano scelto di muoversi, pur se ognuno col proprio stile, nei territori del noir. Quel battesimo deve aver portato bene (o almeno non deve aver portato poi troppo male), se a distanza di dodici mesi da Les italiens e Nero riflesso i rispettivi autori, Enrico Pandiani ed Elias Mandreu, tornano in libreria praticamente in contemporanea con Troppo piombo (Instar, 320 pagine, 14,50 euro) e Dopotutto (Il Maestrale, 230 pagine, 17 euro).
un romanzo-divertissement, in cui ai viaggi nel tempo e nello spazio si intrecciano gli esperimenti su un farmaco capace sì di far regredire i tumori, ma anche, per effetto collaterale, di trasferire in altri tempi e altri luoghi la mente e la personalità di chi lo ingerisce. Il risultato, Dopotutto, è un libro che centra pienamente lo scopo che si è prefisso: divertire chi legge. Abbandonata la mole elefantiaca dell’esordio per una più saggia lunghezza media, Mandreu conserva della precedente opera la varietà nell’approccio alla scrittura, un escamotage necessario per una storia in cui si incrociano le vicende di un soldato impegnato nella battaglia di Waterloo, del redivivo (perché mai morto, in realtà...) Elvis Presley, di Juan Peron e persino di un Presidente francese fresco d’elezione, oltre che di personaggi più comuni come il protagonista Andrea, praticante contro voglia in uno studio legale che, per essersi imbattuto nella moribonda Marie nel corso di una pedalata in solitaria, si vede costretto a improvvisarsi detective.
È
Partiamo, esattamente come un anno fa, da Pandiani. La sua opera prima era talmente valida, che pensare che il grafico torinese riuscisse a ripetersi poteva apparire un azzardo: e invece non solo Pandiani ha saputo ripetersi, ma addirittura superarsi, facendo di Troppo piombo un altro gioiello della narrativa di genere contemporanea, dimostrando di avere una scrittura e una vena artistica ben più felici di tanti colleghi (al momento) più blasonati. Il romanzo racconta una nuova avventura de les italiens, la squadra di flic parigini di origine italiana capitanata dal commissario Mordenti, alle prese stavolta con un assassino che turba il clima natalizio della capitale transalpina uccidendo con una violenza esagerata, quasi parossistica, alcune redel quotidiano dattrici Paris24h. Seguendo la strategia che Pandiani ha deciso di adottare per i suoi libri come fosse un marchio di fabbrica, l’inizio di Troppo piombo, col criminale intento a far fuori una delle sue vittime a mani nude, è di quelli cui l’espressione «pugno nello stomaco» calza a pennello. Incredulo anch’egli davanti a tanta ferocia, che non si esaurisce col primo omicidio ma si ripeterà in seguito, il buon Mordenti comincia a investigare da par suo, ma con un elemento di novità a complicargli le mosse: la passione per la bellissima, irresistibile Nadège, passione in cui non ci sarebbe niente di sconveniente, non fosse che la donna lavora proprio come giornalista e proprio per Paris24h, ed è coinvolta, in un modo o nell’altro, nella scia di sangue e morte cui il commissario sta cercando di porre fine. Quell’«in un modo o nell’altro», a ben vedere, fa però tutta la differenza del mondo: perché Mordenti, confuso dai suoi sen-
timenti, fa sempre più fatica a capire se Nadège sia solo una potenziale vittima che va protetta, o se piuttosto sia una complice dell’aguzzino delle sue colleghe. Enrico Pandiani non inventa niente (né, del resto, ha l’aspirazione a farlo), ma è la qualità della sua scrittura a renderlo unico nell’at-
tempo leggero a fare da piacevole basso continuo alle storie. D’altro canto, quando c’è da spingere sul pedale della sgradevolezza, Pandiani non si tira certo indietro: in Troppo piombo c’è ad esempio una durissima sequenza che descrive a uno dei crimini più odiosi che si possano immaginare, e cioè un
montese, il sardo Elias Mandreu (o per meglio dire i sardi, visto che Elias Mandreu è il nome collettivo che tre giovanotti isolani che hanno deciso di adottare per le loro scorri-
Il primo riapproda in libreria con un nuovo e avvincente noir, autentico gioiello della narrativa di genere contemporanea. Il secondo con un romanzo che diverte senza risultare vacuo o sciocco tuale panorama della letteratura poliziesca (intendendo con «poliziesca» tutto ciò che è variamente assimilabile alla detection story) del nostro Paese: nei suoi libri tutto è perfetto, non c’è una parola fuori posto, il ritmo è incalzante e i personaggi ben delineati, con un cinismo marcato ma allo stesso
lungo, lunghissimo, pare infinito, stupro di gruppo, che l’autore torinese riesce a rendere con tale verisimiglianza ed efficacia da far gelare il sangue nelle vene al lettore. Non c’è verso di restare impassibili: un pezzo di maestria narrativa dal quale è davvero difficile riprendersi. Diversamente dal collega pie-
bande letterarie) rimanda di qualche tempo l’appuntamento con la serialità, ovvero con le inchieste del commissario già protagonista di Nero riflesso, per proporre
La ragazza francese, poco prima di spirare, gli consegna infatti un articolo di giornale su un fatto di cronaca avvenuto anni prima a Fraus, un piccolo paese sardo nel quale Andrea, per beffarda volontà del fato, si trova giusto ad avere un paio di vecchi parenti che non visita da tempo. Un po’ per senso di giustizia, un po’ per assecondare la propria curiosità, il giovane inizia a indagare con la complicità del logorroico zio Giacinto: scoprirà a sue spese come il paesello in cui ha passato le vacanze estive fino agli anni dell’adolescenza non solo non è un posto qualsiasi, ma occupa uno dei vertici del triangolo entro cui si compiono gli spostamenti spaziotemporali prodotti dalla Psicocronina. Mandreu si diverte a giocare con i generi e gli stili più vari, dando vita a un romanzo che sa essere godibile e scorrevoI libri “Dopotutto” le senza per questo e “Troppo piombo”, risultare vacuo o di Elias Mandreu sciocco: e di questi ed Enrico Pandiani. tempi, a dirla tutta, In alto, un disegno non è poco. di Michelangelo Pace
cultura
lfred Müller-Armack, ministro dell’Economia Federale nella Germania degli anni Cinquanta e già professore universitario, non poteva immaginare che il suo nome sarebbe passato alla storia per via di un capitolo. A volte è infatti la parte e non il tutto ad avere la meglio. È stato questo il destino di Wirtschaftslenkung und Marktwirtschaft, “Economia pianificata ed economia di mercato”, opera immancabile nelle biblioteche degli specialisti, oscurata ed esaltata da quella locuzione ormai immortale, “economia sociale di mercato”, con la quale l’economista tedesco intitolava il secondo punto del suo sommario.
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A
Idea-forza spesso depotenziata dall’uso strumentale che il dibattito politico suole farne, l’economia sociale di mercato è uno dei pilastri della mission intellettuale e civile del Centro Studi Tocqueville-Acton.Thinktank indipendente, animato da Flavio Felice, storico del pensiero economico alla Pontificia Università Lateranense, e da diverse personalità del mondo accademico e intellettuale, da Rocco Pezzimenti al nostro Micheal Novak, da Assuntina Morresi a Lorenzo Ornaghi, da Luca Diotallevi a Jude Dougherty, il suo comitato scientifico ha dato alle stampe in queste settimane l’Annale 2010, documento-manifesto di “idee per una società libera e virtuosa”. Nel costante richiamo alla dottrina sociale della Chiesa, in particolare al magistero sulla sussidiarietà della Quadragesimo Anno di Pio XI e alle Centesimus Annus di Giovanni Paolo II e Caritas in veritate di Benedetto XVI, pronunciamenti talvolta anche critici nei confronti dell’odierno capitalismo globalizzato, la prospettiva degli amici del famoso Lord inglese e dell’autore della Democrazia in America è quella di una economia finalmente liberata dalle sovrastrutture ideologiche del collettivismo e dell’individualismo, e finalmente fautrice di autentica libertà umana. Il Centro Tocqueville-Acton vuole superare l’ottica relativistica e il fatalismo di una economia in cui la persona umana è ridotta a individuo privo di status antropologico e la sfera so-
Think-tank. L’annale 2010 del Centro Studi Tocqueville-Acton
Idee per una società libera (e virtuosa)
retta da Martin Heidegger, Walter Eucken, Franz Böhme e Hans Grossmann-Dörth furono i principali assertori di una teoria economica, riassunta nel “manifesto del ‘36”, ripresa poi nel dopoguerra da Friedrich von Hayek. Nella prima metà del secolo scorso le tesi friburghesi, da non confondere con la dottrina “anarco-capitalista” che la scuola austriaca di Ludwig von Mises avrebbe diffuso negli Stati Uniti, furono sostenute anche dalle analisi di Franz Oppenheimer e Wilhelm Röpke. L’economia di mercato e il capitale costituiscono una costante della storia universale. A tale constatazione segue l’ulteriore osservazione del carattere “sociale” del mercato, spazio nel quale il meccanismo dei prezzi e l’incontro fra domanda e offerta si integrano in una dinamica concorrenziale spontanea. La concorrenza e la competizione costituiscono l’anima di un mercato in cui la ricerca del profitto non esclude anzi implica, sollecita la solidarietà e la giusta relazione fra le parti, produttori e consumatori, venditori e acquirenti, imprenditori e lavoratori.
di Giulio Battioni
La concorrenza costituisce l’anima di un mercato in cui la ricerca del profitto non esclude, anzi implica e sollecita la solidarietà
abbandona mai il campo della riflessione a vagheggiamenti o astrazioni ma cerca di pensare l’economia contemporanea a partire dalla realtà e cerca di offrire degli orientamenti culturali, etici e operativi a tutti i responsabili delle istituzioni e della società civile. Il Centro Tocqueville-Acton ha una prospettiva “ordoliberale”, crede
cioè in un “liberalismo delle regole”, una visione giuridica e morale dell’economia di mercato che è debitrice della Scuola di Friburgo.
Estrema linea di resistenza della Germania weimariana, ormai prossima alla débâcle nazionalsocialista, nella Università che sarebbe poi stata
ciale a totalità “statale” necessaria. La storia, luogo di libertà e di partecipazione dell’uomo all’opera della creazione, non è soggetta né a un laissez-faire assoluto e a-morale, né alla pianificazione collettiva che impedisce lo sviluppo della persona umana nella sua condizione naturale e culturale.
L’elaborazione teorica e il discorso scientifico rischiano talvolta di assorbire il metodo nell’ennesimo sistema ideologico. Ma il rinvio a un fondamento antropologico dell’economia e il riferimento dottrinale al pensiero sociale cristiano non consentono confusioni. L’associazione presieduta da Felice non
Nella foto grande: il “Checkpoint Charlie” che divideva Berlino Ovest da Berlino Est. In alto: Friedrich A. von Hayek (a sinistra); Alfred Müller-Armack (a destra). Qui sopra: Michael Novak
D’altro canto, la giustizia sociale non si può ottenere ope legis, né è l’imposizione esterna e autoritaria di un soggetto che si colloca arbitrariamente al di sopra delle parti. Lo Stato, governo e apparati amministrativi sono formati e legittimati dai cittadini di una società politica ma a questi non possono sostituirsi, possono soltanto garantire il diritto dei singoli e dei corpi intermedi, ed esigere i loro adempimenti essenziali. È lo stesso libero mercato, del resto, a divenire strumento di equità sociale quando gli uomini che vi operano sono formati nella coscienza di individui relazionali liberi e responsabili. Di fronte ai primi grandi segnali della internazionalizzazione dell’economia di mercato, anche Luigi Sturzo ne apprezzò il grande potenziale sociale. Al sacerdote siciliano l’economia globale appariva come un grande fiume di cui tutti temono lo straripamento ma dalle cui acque tutti attingono risorse. Ed è per questo che «ciascuno deve concorrere a indirizzare il grande fiume verso il vantaggio comune».
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE
Famiglia: difendere il modello solidale. Un tutt’uno con il territorio La politica è chiamata a difendere e promuovere il modello di famiglia solidale. Siamo consapevoli che c’è una contemporaneità che la mette sotto attacco, e cerca di sostituirla con altre forme di condivisione. Sono però convinto che la nostra responsabilità più grande sia quella di pensare la famiglia come il luogo in cui i valori sono realmente vissuti e trasmessi. Questo significa certamente assicurare interventi di welfare, ma anche elaborare politiche mirate e attivare percorsi che salvaguardino l’identità territoriale. Territorio e famiglia sono un tutt’uno: se sradichi la famiglia anche il territorio perde di significato e ne è sfilacciato. Abbiamo il dovere di costruire le condizioni, non solo economiche ma anche sociali e culturali, perché la famiglia sia ancora percepita come la cellula fondamentale della società e del territorio, arginando fenomeni di destrutturazione e di frammentazione che ci allontanano da quel modello solidale e valoriale.
Lettera firmata
LE POLEMICHE SUI CIE LASCIANO IL TEMPO CHE TROVANO I Cie ci sono e per lo più funzionano come dovrebbero. I centri sono un indispensabile strumento per la migliore regolazione possibile dei flussi di clandestini e le difficoltà riscontrate sono state prontamente arginate. Ridicolo sostenere che questo governo non abbia dimostrato una grande efficacia nel contrasto all’immigrazione clandestina, così come sul fronte dei rifugiati. Ci si aspetterebbe la massima collaborazione, soprattutto politica, in un’ottica di interesse nazionale sul fronte immigrazione e non le solite polemiche che lasciano il tempo che trovano.
Margherita
LE PIAZZE PDL SONO SEMPRE STATE PACIFICHE, MAGNIFICHE ED INTELLIGENTI Difendere il voto è una manifestazione della libertà di espressione garantita da
tutte le Costituzioni. Significa dare voce a coloro che a stragrande maggioranza hanno riportato Berlusconi per la terza volta a Palazzo Chigi solo due anni fa. Le piazze del Pdl sono sempre state pacifiche, magnifiche e intelligenti. Ancora una volta diciamo no ad ipotesi di giochi pirotecnici basati su alchimie prive di consistenza. No ai governicchi, sì ai governi votati dai cittadini.
Carmine Buonomo
PICCONATE PER ROMPERE IL GHIACCIO DELL’INEFFICIENZA POLITICA Francesco Cossiga ha raggiunto tutti coloro che hanno speso la propria vita per insegnare, al di là delle barriere degli schieramenti, un senso dello Stato che significa attaccamento alle istituzioni e alla direzione migliore in cui esse possano lavorare bene: il suo strumento è stato il “piccone”, perché le sue parole pervenivano spesso per rompe-
Il “geyser volante” La luce dell’alba illumina il deserto di Black Rock (in Nevada) e il Fly Geyser, un piccola fonte geotermica a circa 20 miglia da Gerlach, nella Washoe County. Il geyser si trova nella proprietà privata di un uomo chiamato Bill Spoo. Il terreno è protetto da un alto recinto che rende impossibile l’accesso.
re il ghiaccio dell’inefficienza umana nella politica, e riscaldare gli ideali al punto giusto.
Lettera firmata
MARI DIVERSI Vorrei vedere dopo l’estate una Nazione navigare in mari diversi, attraversare le umane spoglie della stanchezza e dell’inettitudine, con quella indifferen-
L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
za che spesso è appartenuta al premier ed è stata altresì vincente. Vorrei assaggiare un po’ di buon senso, che al riparo dai costi inutili della politica, misuri la necessità di rifare le elezioni in base alle soluzioni dell’equazione istituzionale, nella quale sono state poste sin dall’inizio della legislatura troppe variabili complesse.
Bruno Russo
da ”Der Spiegel online” del 07/09/10
Il gene della stupidità scuote la Germania i chiama Thilo Sarrazin, di mestiere fa il banchiere e siede nel consiglio direttivo della banca centrale tedesca. Ha scatenato una vera bagarre di polemiche con alcune sue dichiarazioni. Ha ricordato al popolo tedesco che certi “vizi” del razzismo culturale non scompaiono, covano sotto la cenere dell’ideologia del pensiero politicamente corretto. Un atteggiamento che assomiglia tanto al tappeto di casa, dove la scopa accumula la polvere di un’intolleranza dura a morire. Già famoso per le sue posizioni islamofobiche e sull’immigrazione, ha fatto il ”botto” parlando di un «gene» che caratterizzerebbe il popolo ebraico e non solo.
ve le giornate siano scandite dai richiami del muezzin» si legge in un passo del libro che, ufficialmente, è stato distribuito nelle librerie lunedì. «Se volessi vivere un’esperienza del genere, andrei a farmi un viaggio in Oriente» continua mister Thilo. Ma preso dalla campagna per il lancio del libro, l’incauto banchiere è andato oltre. Intervistato dal quotidiano domenicale Welt am Sonntag, Sarrazin si è avventurato nel campo minato della genetica.
S
È stato troppo anche per la cancelliera, Angela Merkel, che lo ha chiamato immediatamente, per chiedergli di accomodarsi fuori dal board dell’istituzione finanziaria. Durante un’intervista rilasciata a un canale pubblico, domenica, appariva letteralmente in preda a una furia, forse troppo a lungo repressa. «Le dichiarazioni di mister Sarrazin sono totalmente inaccettabili» aveva affermato la cancelliera. La sostanza delle affermazioni di Sarrazin sono così imbarazzanti da costituire un pericolo per tutte le minoranze che compongono la società tedesca, il succo dell’intervento della Merkel. Ma il problema vero delle esternazioni del banchiere xenofobo, è che sono state ordinate in capitoli e messe nero su bianco in un libro, di cui la scorsa settimana sono stati pubblicati ampi stralci
dalla stampa tedesca. In quella forbita prosa letteraria si legge che presto «la popolazione musulmana supererà in Germania quella autoctona a causa del maggior rateo di natalità». Fin qui, potremo dire: cose già sentite. Ma dove il signor Sarrazin mette del suo è nell’affermare che avendo la popolazione d’immigrati un livello di rendimento scolastico mediocre, stia «livellando verso il basso la cultura dell’intero Paese». Per poi aggiungere che non ci sia nessuna reale volontà d’integrazione da parte degli immigrati musulmani e una tendenza molto accentuata «a svolgere lavori in nero per non pagare le tasse». «Non voglio che la Patria dei miei nipoti e dei miei pronipoti abbia delle aree in cui si parli il turco o l’arabo, dove le donne indossino il velo e do-
«Tutti gli ebrei hanno un gene particolare, così come i baschi ne hanno un altro, che li distingue da tutte le altre popolazioni» queste le parole dello scandalo, affermate a proposito delle differenze culturali che distinguono le varie comunità europee. Essendo questo un argomento tabù in Germania, fin dalla fine del secondo conflitto mondiale, l’intervistatore allibito aveva subito chiesto una precisazione. «Forse parlando di cultura, intende razza?» la domanda del giornalista. «Non sono un razzista» la candida risposta di Sarrazin, che da tempo delizia la stampa tedesca con perle del genere. Lo scorso autunno aveva affermato su un altro quotidiano (Lettre International) che «a Berlino la comunità turca è improduttiva, sono bravi solo a gestire la vendita di frutta e verdura». E la fila di politici che vorrebbero la testa del banchiere si allunga di ora in ora. Con la speranza che, nel silenzio di un Paese in crisi, non aumenti il numero di chi la pensa come l’incauto Sarrazin.
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog LE VERITÀ NASCOSTE
«Uso la cocaina solo con le prostitute» KITSAP COUNTY. La polizia di Kitsap County, nello stato di Washington, ha notato una vettura viaggiare in modo incerto. I poliziotti si sono insospettiti subito, pensando a un caso di guida in stato di ebbrezza: Si sono così lanciati all’inseguimento - a sirene spiegate -e hanno fermato l’automobile. I loro sospetti sono ovviamente risultati fondati, dato che controlli successivi hanno mostrato come l’uomo avesse un tasso alcolico di 2,2 - quasi tre volte superiore a quello previsto dal limite di legge (che negli Stati Uniti d’America è 0,8). Ma durante il controllo, appena fermato il veicolo, quando l’uomo stava ti-
rando fuori la patente per mostrarla agli agenti, dal portafoglio è caduta una banconota arrotolata contente una sottile e inequivocabile polvere bianca. L’agente ha chiesto chiarimenti su questa “misteriosa” polvere, ma l’uomo ha tranquillamente risposto: «è cocaina». L’uomo si è giustificato, spiegando di non essere un utilizzatore abituale, ma che usa la coca solo quando esce e si trova con una prostituita, e di comprarla più per loro – per le prostitute – che per suo uso personale. La domanda dell’agente è stata quindi abbastanza prevedibile: «Quand’è l’ultima volta che ha consumato cocaina?». La risposta
ACCADDE OGGI
ZOO DI POPPI DA CHIUDERE Se volete fare una scampagnata in Casentino (provincia di Arezzo) e mostrare ai vostri bambini la fauna europea, evitate di visitare lo zoo di Poppi (Ar). Subito all’ingresso vi vendono sacchetti con delle crocchette di cibo da dare agli animali (tutti mangiano la stessa cosa? A base di cosa sono queste crocchette? Ma di solito non si deve evitare di dare del cibo agli animali?). La prima immagine è un cortile di cemento dove un orso bruno guarda chi lo osserva e sembra chiedere perché è finito lì e non nella foresta intorno che è enorme. Poi si prosegue un percorso fatto di gabbie piccole, recinti mal messi, animali soli e intontiti... Infine un prato con animali liberi, asinelli bianchi dell’Asinara e cervi: i bambini li imbottiscono di cibo vario e di mele. Davanti ancora gabbie con scimmie, tacchini e altro. Quindi un piccolo parco giochi non in sicurezza per i bimbi. Ancora, un circuito di moto elettriche per piccoli dove, acquistato il gettone al bar, i piloti le montano senza casco e senza un qualche addetto che sorvegli il circuito. Gli unici addetti dell’intera struttura sono intenti, al bar e al ristorante, a preparare cibo per i visitatori. Una bambina è caduta spinta da un asinello, un altro gli cammina sopra e lascia il segno dello zoccolo nella spina dorsale. Inutile chiedere aiuto, gli addetti sono impegnati al bar e al ristorante. Con fatica si ottiene del ghiaccio, con urla e minacce del disinfettante. Ma la cassetta del pronto soccorso non è obbligatoria nei locali pubblici? Possibile che non ci sia un responsabile che vigili sui bambini e sugli animali?
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
8 settembre 1960 A Huntsville, il presidente Dwight D. Eisenhower inaugura formalmente il Marshall Space Flight Center 1966 Va in onda il primo episodio della serie televisiva Star Trek 1974 Scandalo Watergate: il presidente Gerald Ford perdona l’ex-presidente Richard Nixon per tutti i crimini che questi potrebbe aver commesso mentre era in carica 1984 In Lombardia viene istituito il Parco regionale del Mincio 1991 La Repubblica di Macedonia dichiara l’indipendenza dalla Repubblica socialista federale di Jugoslavia 1999 Il procuratore generale degli Usa, Janet Reno, nomina l’ex senatore John Danforth per guidare una commissione indipendente di indagine sulla sparatoria del 1993 nel complesso dei Davidiani a Waco 2007 Modena: funerali di Luciano Pavarotti; Roma: funerali di Gigi Sabani; VDay di Beppe Grillo in oltre 200 piazze italiane
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
dell’uomo però non lo ha certo tirato fuori dai guai: «Stasera, con la prostituta con cui ero fino a poco fa». L’uomo, ovviamente, è stato arrestato.
Allo zoo di Poppi questo è possibile. Passata la paura per la bambina dopo oltre due ore al Pronto soccorso dell’ospedale di Bibbiena, ecografie e analisi varie, resta solo da denunciare la vicenda e chiedere l’intervento delle guardie zoofile per le condizioni degli animali e per l’Asl per la mancata assistenza sanitaria. La soluzione migliore: la chiusura.
Donatella Poretti
MOSTRE TEMPORANEE: COME SONO UTILIZZATI I SOLDI IN PIÙ INCASSATI? Aspettando che Renzi pensi a qualche proposta vera e propria, penso sia utile capire se è possibile utilizzare gli spazi interni dei musei statali per far arrivare fondi da utilizzare per nuovi servizi ai turisti. Anche perché sia all’Accademia che agli Uffizi di mostre collaterali ce ne sono e mi sembra diano ottimi frutti. L’Accademia, per esempio, ospita la mostre temporanea: ”Virtù d’Amore. Pittura nuziale nel quattrocento fiorentino”. Non so cosa c’entri il simbolo della Repubblica fiorentina con la pittura nunziale, ma so che la mostra dura sei mesi da giugno a novembre e il biglietto di ingresso all’Accademia passa da 6,5 a 10 euro. Insomma facendo alcuni semplici calcoli la mostra potrebbe incassare oltre 2 milioni di euro. La domanda è semplice a chi vanno questi soldi? Spero che la stragrande quantità dei soldi vada al ministero per le sue tante necessità. Così come è utile sapere la stessa cosa sugli Uffizi dove è in programma una mostra su Caravaggio da maggio a ottobre con il costo del biglietto per i soli Uffizi che da 6,5 euro passa a 10 euro.
Gabriele Toccafondi
Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Robert Kagan, Filippo La Porta,
Direttore da Washington Michael Novak
Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,
Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)
Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Collaboratori
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Maria Pia Ammirati, Mario Arpino,
Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,
Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi,
Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,
Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,
Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,
INNOVAZIONE BLA, BLA, BLA... È diventata la parola più abusata di questo inizio millennio. La si trova spesso a sproposito sulla bocca di politici, pubblici decisori, portaborse, richiamata in titoloni di giornale. Ma cosa è l’innovazione e, soprattutto, come si misura e si tocca concretamente in una regione come la Basilicata? Cosa potrebbe essere utile fare per svilupparla concretamente? Per cominciare proviamo a definire il termine. Dall’enciclopedia libera Wikipedia leggiamo: «Innovazione è un’attività di pensiero che, elevando il livello di conoscenza attuale, perfeziona un processo migliorando quindi il tenore di vita dell’uomo. Innovazione è cambiamento che genera progresso umano; porta con sé valori e risultati positivi, mai negativi. Il cambiamento che porta peggioramento delle condizioni non è innovazione: è regresso». Tale definizione l’ho trovata molto indicata per due ordini di motivi: il primo perché rimanda a due attività umane ovverosia il pensiero e l’iniziativa (che deve indurre all’azione per il cambiamento), che ritengo fondamentali e quindi da accrescere in ognuno di noi; il secondo perché ci fornisce dei parametri utili o quanto meno efficaci per assumere come indicative le definizioni “progresso-regresso” rispetto al grado di innovazione nella nostra realtà. In sintesi la dicotomia progresso=innovazione si, regresso=innovazione no, è di semplice ma abbagliante efficacia. Per tornare al primo concetto, invece, quando parlo di “pensiero” mi riferisco a quello creativo, ovverosia a quella facoltà dell’intelletto umano capace di partorire idee e di attivare soluzioni atte ad affrontare e risolvere in maniera nuova e originale i problemi e le difficoltà di ogni giorno, in ogni campo. «Vivere è risolvere problemi», diceva Popper. D’altronde ci sarà pure un valido motivo se oggi si parla di un passaggio epocale dall’economia della conoscenza all’economia della creatività che, per dirla con Gary Hamel, professor of strategic and international management, London Business School, «è il vero valore aggiunto di un’organizzazione poiché è la capacità di aggregare le persone intorno a un obiettivo condiviso, un progetto, un sogno». Se la creatività manca, il motore dell’innovazione e quindi del cambiamento, non partirà mai. FierroVincenzo PRESIDENTECIRCOLOANGILLAVECCHIA
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