00910
di e h c a n cro
Spesso, fra i ricchi,
la generosità è solamente una forma di timidezza Friedrich Nietzsche
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • VENERDÌ 10 SETTEMBRE 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Si apre la tre giorni di confronto dell’Udc-verso il partito della Nazione. Lo storico Emilio Gentile lancia l’allarme
«La nazione italiana è di nuovo in pericolo» La spinta scissionista della Lega esalta i rischi di un Paese mai veramente unito di Riccardo Paradisi
ROMA. L’Italia è un Paese in crisi, declinante, profondamente diviso. Che soffre della mancanza di classi dirigenti, un paese che ha poco senso civico, scarso senso della nazione e dello stato. È esattamente questa la fotografia che lo storico Emilio Gentile ha impresso in un libro chiave («Né stato né nazione. Italiani senza meta») che mette a fuoco le domande di fondo che ci riguardano: da dove veniamo, dove siamo e soprattutto dove rischiamo di andare. a pagina 8
LABORATORIO AL VIA
UNA NUOVA PROPOSTA
A Chianciano i giovani a scuola
Come cambiare la legge elettorale
di Federico Romano
di Rocco Buttiglione
l laboratorio di idee dei centristi, qui a Chianciano, comincia con i giovani: e ieri, a sorpresa, alla prima sessione della «Scuola di formazione politica» è arrivato Pier Ferdinando Casini. a pagina 10
ono note le ragioni per cui l’Udc sostiene un sistema elettorale di tipo tedesco ed è anche noto che io sostengo questa scelta. Ma qui vorrei dare un ulteriore contributo al dibattito. a pagina 11
I
S
Il Prodotto interno è il peggiore dei Paesi industrializzati: nel terzo trimestre del 2010 è sceso a -0,3%. Così la ripresa è a rischio
Il Pil non può aspettare il Pdl Ocse, Bce e World Economic Forum entrano a piedi uniti nella crisi italiana: siamo in fondo alla classifica. Sono indispensabili grandi riforme e invece continuano i grandi litigi IL PREZZO DELL’IMMOBILISMO
E adesso, o governano o vanno a casa
Obama risponde al pastore della Florida
ROMA. L’Ocse annuncia una bat-
«Se brucia il Corano gode al Qaeda»
tuta d’arresto per la crescita italiana. La Bce la richiama a fare le riforme. Il World economic forum la pone all’ultimo posto nella sua classifica sulla competitività. Se a Roma Bossi e Tremonti spingono Berlusconi verso le elezioni anticipate, le istituzioni e gli osservatori internazionali segnalano ben altre priorità.
di Savino Pezzotta rmai il dado è tratto. La mancanza di prospettiva politica, l’assenza di governo, la lacerazione della maggioranza , l’incertezza ontologica del Pd, la confusione propositiva rispetto al come uscire dalla crisi il malcontento che serpeggia tra la gente, fa si che la crisi italiana s’intorpidisca ogni giorno più lasciando spazio a tensioni eversive. Le provocazioni di susseguono giorno dopo giorno: il ministro Bossi promette una in quest’ottobre una nuova “marcia su Roma” di dieci milioni di lombardi, dimenticando, o non sapendo, che, come scriveva Karl Marx, la storia si presenta sempre due volte: la prima come tragedia e la seconda come farsa. Mentre è meno farsesco quanto successo alla festa del Pd con l’aggressione a Raffaele Bonanni a cui va la mia solidarietà. Le persone responsabili devono tenere presente che sotteraneamente circola nel Paese un grande “nervosismo sociale”. segue a pagina 5
di Francesco Pacifico
O
Contro Terry Jones scende in campo la Casa Bianca: «Rogo inutile e pericoloso, rischiamo nuove violenze». E il religioso prende tempo Luisa Arezzo • pagina 16
a pagina 2
Il Paese è bloccato
La sfida della crescita
La burocrazia (e le baruffe) frenano la concorrenza
Questa per Tremonti è l’ultima chiamata
Ci sono scelte cruciali Per trasformare la ripresa di spesa che non possono nella crescita (e aiutare il Mezzoggiorno) essere più rinviate è necessario operare e invece la maggioranza subito in favore discute di beghe interne della grande e piccola che poco hanno a che impresa e cambiare fare con gli interessi le relazioni industriali concreti dei cittadini
Caso Bettencourt: perquisiti gli uffici dell’Ump
Dai rom agli scandali il giorno nero di Sarkozy La polizia fiscale francese cerca le prove delle tangentiche l’ereditiera L’Oreal avrebbe versato all’attuale inquilino dell’Eliseo. Che viene fermato anche dalla plenaria di Strasburgo: «Basta espulsioni forzate» Massimo Fazzi • pagina 17
Carlo Lottieri • pagina 2
seg1,00 ue a p(10,00 agina 9CON EURO
I QUADERNI)
• ANNO XV •
Gianfranco Polillo • pagina 4 NUMERO
176 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
l’analisi
prima pagina
Il Paese bloccato dalla maggioranza
pagina 2 • 10 settembre 2010
Le riforme non si fanno litigando di Carlo Lottieri rima sono stati gli esperti del Fondo monetario internazionale, da Washington, a sostenere che in Italia la ripresa sarà più lenta rispetto a quanto non avverrà in Francia e in Germania, e tutto questo «perché un persistente problema di competitività limita lo spazio per la crescita dell’export e il programmato consolidamento fiscale indebolisce la domanda privata». A rincarare la dose è arrivata poi la Bce, che nel suo bollettino di settembre ha denunciato come in Italia «la ripresa dovrebbe procedere a un ritmo moderato a fronte di una perdurante incertezza». E non meno cortese nei nostri riguardi è stata l’Ocse, ricordando come il nostro Paese sia, per quanto riguarda il Pil, la magia nera del G7 nella seconda metà del 2010. In questo scenario ci sarebbe bisogno di riforme coraggiose, soprattutto in direzione della competitività. In primo luogo vi sono fondamentali esigenze sul piano delle regole, perché si continua a parlare di semplificazione, ma si fa davvero ben poco. Nelle ore scorse Mauro Moretti, amministratore di Trenitalia, ha provocatoriamente annunciato di voler rinunciare – per i futuri acquisti dei treni dell’alta velocità – a ogni gara d’appalto, dal momento che puntualmente l’esito viene impugnato e finisce per arenarsi in qualche Tar. Fare impresa, in questa situazione, riesce davvero difficile.
P
C’è poi, ovviamente, il problema della spesa pubblica e del prelievo fiscale e parafiscale. Il costo del lavoro è eccessivo, ma continuerà a rimanere tale – a dispetto di salari spesso modesti – se il settore pubblico non verrà ridimensionato. Ci sarebbe invece bisogno di un progetto di largo respiro, che faccia leva anche sulla riforma federale (se intesa in senso autentico, come implementazione di una logica competitiva tra amministrazioni chiamate a fare da sé, in piena responsabilità). Purtroppo la cronaca politica non si divide su questo. Tra i pochi che continuano a fare davvero politica ci sono Sergio Marchionne e la Fiom, che da mesi vanno ponendo problemi autentici – sebbene con opinioni molto discordanti – in merito alle nuove regole da adottare, soprattutto in tema di contrattazione. Sotto questo profilo, la politica ormai è ben poco a Roma e molto più a Pomigliano. Questa latitanza del governo non è certo la cosa peggiore che ci possa capitare. Sarebbe difficile, ad esempio, sostenere la tesi che l’industria italiana se la passasse meglio quando Claudio Scajola era al ministero invece adesso. È però egualmente vero che vi sono alcune scelte cruciali – in tema di spesa pubblica, ad esempio – che non possono essere rinviate. Nel corso di questi mesi la politica politicante appare in tutt’altre faccende affaccendata, ma all’italiano medio non interessano le beghe tra berlusconiani e finiani, ma semmai che il figlio possa trovare un buon lavoro. Finora la litigiosità dei big del centrodestra ha favorito Giulio Tremonti, che quanto meno ha avuto il merito di continuare ad occuparsi di cose concrete (crescita, debito pubblico, occupazione ecc.) mentre il Cavaliere, Fini & Bossi non hanno in mente che ipotesi di nuove alleanze o progetti di elezioni. Il super-ministro dell’Economia, però, è la persona più refrattaria alle riforme: teme più di ogni altra cosa che la barca vada a fondo – si pensi alle conseguenze di un aumento dei tassi sui titoli pubblici – ed è quindi schierato a difesa dell’esistente. Inutile attendersi da lui quei cambiamenti che pure sono tanti necessari.
il fatto I dati macroeconomici del “dopo-crisi” condannano i nostri conti
Povera Italia, è l’ultima in classifica
Gli Stati Uniti corrono, l’Europa cammina e noi stiamo fermi. Anzi, il Pil ha frenato ancora: Ocse, Bce e World Economic Forum sono concordi: servono riforme, non litigi di Francesco Pacifico
ROMA. L’Ocse annuncia una battuta d’arresto per la sua crescita. La Banca centrale europea la richiama a fare le riforme. Se non un aggiustamento dei conti con un peggioramento della situazione. Il World economic forum la pone all’ultimo posto nella sua classifica sulla competitività per la rigidità del mondo lavoro e per il ristretto mercato finanziario.
Se a Roma Bossi e Tremonti spingono Berlusconi verso le elezioni anticipate, le istituzioni e gli osservatori internazionali segnalano ben altre priorità per l’Italia. Soprattutto se il Belpaese – dopo l’ottima performance nei primi sei mesi dell’anno – è l’unico nel G8 nella seconda metà del 2010 a indebolirsi. E questo mentre l’Europa rallenta ma non si ferma: lo dimostra una Germania che torna a crescere a ritmi contenuti (+0,7 per cento tra luglio e settembre) e un tasso di disoccupazione alto ma che secondo la Bce è stata “congelato”. Secondo Francoforte la ripresa nell’area dell’euro «resta moderata, ma dinamica». Ma difficilmente saranno ripetute le performance della prima parte dell’anno, quando i Sedici hanno «un forte incremento sul periodo precedente, beneficiando della crescita in atto a
livello mondiale, ma riflettendo in parte anche fattori interni di natura temporanea». Capacità di sfruttare il rimbalzo delle scorte e bassa inflazione dovuta alla poca attività, quindi. Per l’Italia tutto questo va decuplicato. Nell’Interim Assessment diffuso ieri a Parigi, l’organizzazione dei Paesi più sviluppati prevede che la nostra crescita nel terzo trimestre sarà negativa dello 0,3 per cento. A fine anno si tornerà a crescere, ma di uno striminzito +0,1. Nonostante il +1,5 e il 1,6 registrati nei primi sei mesi dell’anno – e se venissero confermate queste previsioni – c’è il rischio che la bassa attività costringa il governo a rivedere al ribasso le sue previsioni di crescita. Palazzo Chigi, infatti, stima per il 2010 il Pil in rialzo dell’1 per cento. Ma il problema dell’Italia non è certamente un decimale in più o in meno. Pier Carlo Padoan, vicesegretario e capo del centro studi dell’Ocse, non crede che la sesta potenza mondiale corra verso la recessione. «Quello della bassa crescita», dice, «è un problema noto prima della crisi, strutturale anche nel lungo periodo perché più sensibile alle oscillazioni cicliche». Di conseguenza, da sciogliere ci sono i nodi che frenano lo sviluppo come l’indebitamento, lo sbilanciamen-
i dati
Tutti i numeri dell’economia in frenata Il nostro è l’unico Paese del G7 con un Pil negativo tra luglio-settembre 2010: -0,3% OCSE ROMA. Secondo l’Ocse l’Italia rischia di diventare a fine anno il fanalino di coda del G7, l’unica tra i Paesi più industrializzati a registrare una performance negativa nel terzo trimestre dell’anno. Per l’organizzazione di Parigi tra luglio e settembre 2010 il nostro Pil avrà una variazione negativa pari a -0,3 per cento. Piccolissima inversione di tendenza nell’ultimo scorcio dell’anno, quando tornerà la crescita, ma soltanto all’insegna di uno scarso +0,1 per cento.
Il vicesegretario dell’Ocse, Pier Carlo Padoan, ha negato che il Belpaese rischia la recessione. Ma in questi ultimi dati – dopo le ottime performance di inizio anno con un +1,5 e un 1,6 per cento – si intravedono la crisi dell’auto, il divario tra Nord e Sud acuito dalla crisi e un alto indebitamento che non permette investimenti.
Mentre l’Italia si ferma, il resto dell’area del G7 si muove anche se lentamente. Secondo l’Ocse i grandi del mondo do-
World Economic Forum ROMA. Al 48esimo posto (su 139) per competitività nel mondo, ma ultima tra i Paesi più industrializzati. È una bocciatura senz’appello quella che arriva dall’indice annuale del World economic Forum (Wef) di Ginevra: termometro indispensabile per capire il livello di attrazione di investimenti dall’estero dei singoli Stati.
Alla testa della classifica del Global competitiveness Report 20102011 si conferma la Svizzera, seguita da Svezia, Singapore e dagli Stati Uniti. E a registrare la peggiore performance tra quest’anno e quello precedente è proprio l’America di Obama, che tra stimoli e maggiori controlli alla finanza perde due posizioni nella graduatoria finale.
Per l’Italia è illuminante leggere che si conferma «nettamente il Paese del G7 più basso nella classifica». Infatti meglio di noi fanno la Lituania, il Cile, la Tunisia e persino le Barbados.
I ricercatori di Ginevra analizzano sia il livello dei servizi sia le capacità produttiva. Per l’Italia, vengono promossi senza riserva «la sofisticazione del suo ambiente di business» o «la produzione di beni a valore aggiunto». Per non parlare della palma per i distretti industriali e l’ingresso nella top ten per l’ampiezza del mercato, che consente economie di scala. Preoccupano invece rigidità del mercato del lavoro, un mercato finanziario «non sufficientemente sviluppato» e il livello di corruzione.
to nella spesa del welfare, l’alto costo dei servizi. E il percorso è ben delineato nell’ultimo Bollettino mensile della Bce, nel quale Francoforte lancia l’ennesimo appello, affinché realizzino «profonde riforme quei Paesi che in passato hanno subito una perdita di competitività o che al momento soffrono di disavanzi di bilancio e disavanzi esterni elevati». Un po’ la fotografia dell’Italia, visto che si parla di Stati con scarsa produttività, i quali «dovrebbero assicurare che il processo di contrattazione dei salari ne consenta l’appropriato adeguamento alle condizioni di disoccupazione e alle perdite di competitività». Eppure nell’ultimo ventennio della storia italiana non mancano Finanziarie draconiane o aperture dei settori più chiusi. Sono assenti invece strategie sul lungo termine o programmi concordati. «Il rallentamento c’è per tutti», aggiunge Pier Carlo Padoan, «ma l’Italia ha valori più bassi degli altri Paesi. Per questo bisogna mantenere credibilità negli aggiustamenti del debito pubblico, ma serve anche un’accresciuta spinta per le riforme strutturali e il miglioramento del funzionamento dei mercati». Da Francoforte fanno anche sapere che sono pronti a usare tutta la loro moral suasion per spingere le economie in crisi a una correzione dei conti, con l’obiettivo di evitare nuovi focolai di speculazione. Ma finanze sane possono anche incentivare lo sbarco di capitali esteri. Su questo punto Padoan ha ricordato che «una condizione importante affinché gli investimenti in Italia come in altri Paesi riprendano è che ci sia la minore incertezza possibile sulle prospettive di medio e lungo periodo». Infatti un Paese esportatore come l’Italia non può che guardare fuori confine per ri-
vrebbero crescere nel terzo trimestre dell’anno dell’1,4 per cento, mentre nel quarto trimestre il dato sarà di +1. In Europa si ridimensiona la corsa della locomotiva Germania, nonostante il governo sia più ottimista degli analisti di Parigi. A tirare le fila ci sono gli Stati Uniti (+2 per cento nel terzo trimestre e + 1,2 nel quarto), seguiti dal Giappone (+0,6 e +0,7) e dalla Germania (+0,7 e +1,1). La Francia registrerà un +0,7 e un +0,3, il Regno Unito un 2,7 e un 1,5 per cento.
BCE ROMA. Non sono stati inseriti i nomi dei destinatari, ma è chiaro il messaggio alle economie più lente come l’Italia. Nel Bollettino di settembre la Bce ha chiesto «profonde riforme ai Paesi che in passato hanno subito una perdita di competitività o che al momento soffrono di disavanzi di bilancio e disavanzi esterni elevati».
Non va dimenticata neppure l’esigenza di «assicurare che il processo di contrattazione dei salari consenta il flessibile e appropriato adeguamento alle condizioni di disoccupazione e alle perdite di competitività». Sul breve termine, poi, l’Eurotower fa sapere che il 2010 sarà «un anno di svolta per il risanamento dei conti pubblici», per porre «fine al brusco incremento dei disavanzi prima della loro riduzione prevista a partire dal 2011». Chi non seguirà questa strategia rischia un ulteriore intervento sui conti pubblici «per correggere i disavanzi eccessivi». Intanto da Francoforte hanno rivisto al rialzo le stime del Pil per la Ue: tra l’1,4 e l’1,8 per cento nel 2010 e tra lo 0,5 e il 2,3 per cento nel 2011.
baltare il trend. Soprattutto in relazione a una domanda interna che sarà più stabile di quella dei vicini Francia e Germania, ma che resta ancora troppo piatta. Se 2009, anno della crisi, i consumi sono calati del 2 per cento contro il -5 del Pil, nel primo semestre del 2010, quello che è stato segnato da un forte rimbalzo delle scorte, le vendite al consumo sono cresciute soltanto dello 0,3 per cento rispetto allo stesso periodo di dodici mesi fa, quando erano crollate dell’1,6. Questo il bilancio fatto nel consueto rapporto della Coop, che non è ottimista sul futuro: a fine anno il rialzo non supererà il 0,3, mentre nel 2011 ci sarà un balzo dello 0,6. Secondo la Bce, in un Europa senza grandi scossoni, l’inflazione resterà sostanzialmente stabi-
le. Eppure Vincenzo Tassinari, presidente del consiglio di gestione di Coop Italia, mette in guardia sulla «la tensione sulle materie prime in parte riconducibile a fattori oggettivi di calo della produzione come incendi in Russia e alluvioni in Pakistan, India e Cina. E che rischia di attivare una spinta speculativa che potrebbe portare i prezzi alimentari sui livelli massimi del 2008». cioè a +5 per cento.
Eppure per aumentare i consumi l’Italia potrebbe seguire quanto fatto negli anni da alcuni Paesi sul versante della competitività. In quest’ottica non è peregrino notare che la Gran Bretagna – uscita a dir poco ammaccata dalla crisi – secondo l’Ocse potrebbe chiudere il terzo trimestre 2010 a +2,7 per cento, beneficiando anche delle liberalizzazioni e degli investimenti sui servizi fatti nell’ultimo trentennio. Ma per farlo un Paese deve essere competitivo in ogni suo comparto e non guardare soltanto ai settori più consolidati. Ma l’Italia non lo è. Il World economic Forum (Wef) di Ginevra l’ha collocata al 48esimo posto (su 139) nel suo indice sulla competitività. Ultima tra i Paesi più industrializzati. I ricercatori svizzeri analizzano sia il livello dei servizi sia le capacità produttiva. Per l’Italia, vengono promossi senza riserva «la sofisticazione del suo ambiente di business» o «la produzione di beni a valore aggiunto». Per non parlare della palma per i distretti industriali e l’ingresso nella top ten per l’ampiezza del mercato, che consente economie di scala. Preoccupano invece rigidità del mercato del lavoro, un mercato finanziario «non sufficientemente sviluppato» e il livello di corruzione.
I dati non coincidono con quelli di Palazzo Chigi: nonostante il +1,5 e il 1,6 registrati nei primi sei mesi dell’anno, si rischia di dover mettere in campo nuovi correttivi
pagina 4 • 10 settembre 2010
l’approfondimento
Grandi riforme. Snellire la burocrazia, far partire il nucleare, riorientare le relazioni industriali. Poi fisco, federalismo e capitale umano
L’ultima chiamata
Per trasformare la ripresa nella crescita e alleviare le sofferenze del Mezzogiorno è necessario portare avanti quel programma che Tremonti ha annunciato in Europa, ma che rischia di naufragare nelle turbolenze politiche di Gianfranco Polillo a crisi internazionale ha messo in evidenza le fragilità dell’Occidente, di fronte alle nuove potenze economiche e finanziarie. Le contraddizioni tra le due sponde dell’Atlantico sono diverse, anche se rischiano di interagire, rendendo più difficile la ricerca di una via d’uscita. Gli Usa sono ancora incagliati nella fossa del debito, che è stato il grande volano che ha guidato il loro sviluppo fin dalla fine degli anni Ottanta. Fin da allora le famiglie avevano, in pratica, cessato di risparmiare.
L
Potevano, infatti, contare sulla continua crescita del valore degli asset - azioni, immobili, titoli finanziari, ecc. - e puntare sulla loro eventuale vendita, in caso di bisogno. Crollato il mercato finanziario ed immobiliare è stato gioco forza contrarre i consumi per far fronte agli impegni assunti durante il periodo delle vacche grasse. Nel frattempo l’aumento della disoccupazione - circa il 10 per cento della forza lavoro - ha ul-
teriormente depresso la domanda di beni, rallentando lo sviluppo economico complessivo. Obama è intervenuto con una manovra espansiva senza precedenti - circa 750 miliardi di dollari – che, nel breve periodo, ha dato una spinta. Ma finito l’effetto ricostituente, sono ritornati al punto di partenza. Ed ora gli economisti si interrogano circa i destini futuri: sarà il new normal – una lunga agonia – oppure il double dip: una nuova crisi nella crisi? L’interrogativo che noi poniamo è invece più interessato: quale sarà il valore del dollaro? Quello di oggi, ancora accettabile, oppure dovremo aspettarci una sua svalutazione?
L’interrogativo è interessato a causa delle vicende europee. Finora siamo andati abbastanza bene, al punto che sono in molti a giurare che il peggio sia passato. Noi siamo più prudenti. La crisi europea è diversa da quella americana. Le famiglie – ma non tutte – sono meno indebitate. L’industria manifatturie-
ra si sta ristrutturando soprattutto sulla spinta della domanda internazionale, che alimenta un forte flusso di esportazioni soprattutto verso le nuove aree della crescita mondiale. Quanto può durare questa stato idilliaco? Una delle risposte è proprio nell’andamento del rapporto di cambio euro – dollaro. Nei primi mesi dell’anno l’euro si è indebolito notevolmente accrescendo la competitività del Vecchio continente. Ne hanno beneficiato soprattutto i tedeschi che hanno conquistato
Un piano vasto e impegnativo che richiede una larga base parlamentare
un nuovo primato. L’intendenza – comprese molte industrie italiane – è stata trainata da questa piccola locomotiva. Durerà? Le previsioni per la seconda parte dell’anno non sono così rosee. Valgono le ultime parole del Fmi: la ripresa è fragile e basta un nonnulla per farla abortire.
L’Italia somma ai suoi problemi strutturali, le incertezze di quest’insondabile autunno. Finora quello spicchio di buona congiuntura ha favorito in
qualche modo il processo di riconversione industriale di una parte delle aziende italiane. È difficile calcolarne la latitudine. Valutazioni prudenziali si fermano sulla soglia del 50 per cento dell’universo manifatturiero italiano. Al di là delle previsioni – tutte da prendere con il beneficio di inventario – un dato è tuttavia evidente. Quella ripresa ha, da un punto di vista territoriale, un orizzonte limitato. Se il centro nord ha tirato un sospiro di sollievo, ma sono ancora molte le aziende in crisi, sotto la linea gotica è sempre e solo recessione.
La conseguenza sarà quindi quella di un’ulteriore crescita del dualismo e dei relativi squilibri. Dato che le forze politiche italiane – nel momento in cui si parla di elezioni anticipate – dovrebbero valutare attentamente. Quale sarà la reazione degli elettori del Mezzogiorno? Finora sono stati loro a garantire l’unità nazionale contro il localismo della Lega e quello del Pd. Continueranno ad essere
10 settembre 2010 • pagina 5
La crisi si riflette nel folklore leghista, nei petardi dei centri sociali e nella pochezza della politica
Il Paese non può più aspettare: o governano o vanno a casa
La situazione economica e sociale è esplosiva sotto molti punti di vista. occorre una soluzione trasversale alle vecchie categorie destra/sinistra di Savino Pezzotta segue dalla prima Il folklore leghista sui fucili e i marciatori è troppo ricorrente e pertanto banale, quello che invece ha peso politico è la dichiarazione che la Lega è pronta a ritirare la fiducia a Berlusconi pur di andare alle elezioni. Dopo Fini, si presenta un nuovo sfilamento dall’egemonia berlusconiana, ormai il mito dell’onnipotenza, del “ghe pensi mi”, dell’uomo solo al comando è demolito. In queste ore si è compiuta una sorta di freudiana uccisione del padre: il capo da grande intoccabile totem, da carismatico è diventato in poche ore un peso cui liberarsi. Da oggi il centro destra non è più quello che abbiamo conosciuto fino a pochi mesi fa e non sappiamo come evolverà, ma lo stesso potremmo dire della Lega e di coloro che imbarcandosi sul carro del vincitore o si sono proposti come faccia diversa della stessa moneta bipolare. Berlusconi cercherà di resistere, di acquisire deputati o senatori, ma ormai quello che è avvenuto è avvenuto e ancora una volta a dare il colpo di grazia è stato l’alleato fedele. Ora a Berlusconi non restano che due alternative: chiudersi con i fedelissimi nel suo ridotto e resistere fino all’inverosimile, oppure gestire politicamente la sua uscita. Altro che mettere l’Unione di Centro nell’anticamera di un nuovo Governo come suggerisce Belpietro su Libero.
Insomma, siamo arrivati alla fine di un percorso politico che sinteticamente avevano chiamato “seconda repubblica”, caratterizzato da due elementi di fondo: un sistema elettorale a tensione maggioritaria e il tentativo di mettere in campo un sistema di rappresentanza basato su due raggruppamenti politici tendenti al bipartitismo (vocazione maggioritaria). Questo modello non è riuscito a farsi sistema, anche se ha segnato il nostro panorama politico. Attardarsi a difendere un modello che ha dimostrato di non funzionare potrebbe essere molto pericoloso sul piano politico, economico e sociale e consentirebbe il prodursi di scorribande da parte dei diversi potentati, con il crescere di nuove disuguaglianze. Il fatto che in questi quindici la politica si sia alimentata da forti contrapposizioni e da furiosi personalismi, ha stratificato un modo di pensare e di agire che renderà comunque difficile costruire un approdo condiviso e concordato. Gli strali e i proclami dipietristi e leghisti sono lì a dimostrare le difficoltà esistenti. L’iniziativa del Presidente della Camera va collocata in questa situazione, e occorre pertanto cercare di interpretarne il carattere. Il “cofondatore” del Pdl si muove in una logica molto chiara che non nasce a Mirabello, ma scaturisce da Fiuggi e che mantiene in campo l’obiettivo stra-
tegico di dare vita in Italia a una destra nuova, liberata da ogni residuo neofascista e pertanto liberale anche se non priva di una sorta di temperato neoautoritarismo statalista, anche se collocato dentro il rispetto della Costituzione del ‘48 ma fuori da ogni patriottismo costituzionale e pertanto disponibile a mutarne le regole. La sua adesione, a differenza di Casini, al partito del “predellino” era comunque dentro questa strategia e pertanto, anche se in modo
Berlusconi ha due alternative: resistere fino all’inverosimile oppure gestire politicamente la sua uscita sotterraneo, in contrasto con il modello berlusconiano, giocando la partita ereditaria del patrimonio elettorale per innestarlo su un altro modello. Il rafforzamento del peso politico della Lega sul Governo l’ha obbligato a venire allo scoperto.
È chiaro che il disegno dei finiani è diverso da quello dei “terzopolisti” o dai “centristi” che cercano in questi mesi di ipotizzare un partito nuovo. Anche perché credo che oggi la questione non si ponga più, come ha recentemente sostenuto Massimo Cacciari, in termini di topografia politica, e dentro gli statici paradigmi di destra-sinistra-centro. È in atto il formarsi di una trasversalità che, complice la pervasività delle nuove forme della comunicazione e della relazione mediatica che influenza il pensare e la relazione sociale, modifica le collocazioni tradizionali, anzi le attraversa trasformandole e meticciandole. Sarà attorno alle grandi sfide indotte dalla nuova globalizzazione, dalla penetrazione della scienza nel vivere, dai nuovi modelli comportamentali che si creeranno le nuove convergenze e le aggregazioni. Su questo dovrebbero riflettere con maggior attenzione coloro che vogliono dare vita ad una nuova forma politica. Il problema non sta più nel dove ci si colloca, ma qual è il progetto costituente per la politica che si vuole mettere in campo, e quali sono i nodi valoriali e pragmatici della nostra epoca che si vogliono affrontare. Di come s’intende tutelare la dignità della persona, i suoi diritti al e sul lavoro, nella società e nella vita.
La stessa relazione tra diritti e doveri va intrecciata diversamente dal passato in un raffronto dinamico con la dimensione liberante della legalità, come il rapporto tra religione, laicità, multireligiosità e libertà comunitaria e individuale va ripensato dentro la logica della nuova cittadinanza.
In un mondo complesso sono richieste presenze complesse ancorate però a valori precisi. E su questo terreno che si pone la sfida anche per i “centristi” che si riuniscono a Chianciano. Si deve avere il coraggio di un’aggregazione aperta, capace di rifiutare il “Partito” ritenuto, per la sua staticità, incapace di accogliere e valorizzare la complessità. Bisogna abbandonare la logica che il partito nuovo non sia altro che l’allargamento dell’esistente che mantiene saldo un nucleo di comando, che “alla bisogna” decide per tutti con chi allearsi o dove collocarsi. Questo modello, che fatica a uscire dai propri fortini, è destinato alla sterilità. Occorre essere chiari che non si può essere alternativi alla Lega, a livello nazionale e poi continuare a “pasticciare” con lei nei livelli territoriali insistendo, tra l’altro, sullo stesso elettorato. Alle persone occorre offrire la chiarezza di un’alternativa, nella convinzione che non si può contrastare il bipartitismo e, contemporaneamente, sentirsi vicini a una delle due parti. L’idea dell’autonomia valoriale, ideale, programmatica e politica deve essere il nucleo che muove il tutto. Sono queste le sfide vere ed è su queste che bisogna avere il coraggio di aprirsi, di confrontarsi per creare veramente un modello costituente per la politica italiana.
semplici donatori di sangue? O non si rivolteranno contro i loro vecchi rappresentanti? L’esperienza di Romano Prodi dovrebbe insegnare qualcosa. C’è quindi una ragione politica che spinge alla prudenza. Ragione che non solo non contraddice, ma rafforza valutazioni economiche di carattere più generale. In Europa si sta discutendo della revisione del “Patto di stabilità e crescita”. Maggior rigore finanziario, da un lato; interventi sull’economia reale per accrescerne il grado di competitività. Stability and convergence program e National Reform Program. Come si colloca l’Italia in questo contesto? Sul piano finanziario la situazione si è stabilizzata. L’ultimo rapporto del Fmi ci dice che siamo più vicini alla Germania che non alla Spagna. Il mercato dà segnali tranquillizzanti.
Lo spread dei titoli italiani nei confronti del bund tedesco balla intorno ai 150 punti. Umberto Bossi ne ha subito approfittato per dire che si può andare ad elezioni anticipate. Previsione per lo meno azzardata. Il sentiment può cambiare rapidamente. Al tempo stesso quella relativa stabilità è la dimostrazione di qualcosa di più profondo. I mercati non credono alla politica. Scontano pertanto un rating sagomato sulla sua irrilevanza. Ma quale sarebbero i risultati se fosse più evidente la volontà di realizzare quelle riforme che tutti reclamano? Se fossimo la Francia, ad esempio, la differenza sarebbe di oltre l’1 per cento in meno, con un risparmio potenziale di circa 20 miliardi di euro all’anno. Risorse da utilizzare per realizzare quella riforma fiscale – a partire dalle imprese e dalla famiglia – che rischia di divenire il miraggio del sistema politico italiano. Ma il dato che più preoccupa è quello relativo all’economia reale. Per trasformare la ripresa nella crescita ed alleviare le sofferenze del Mezzogiorno è necessario portare avanti quel programma che Giulio Tremonti ha annunciato in Europa, ma che rischia di naufragare nelle turbolenze della situazione politica. Si tratta, com’è noto, di operare a favore della grande e piccola industria, di snellire la barocca costruzione giuridica che paralizza il Paese, di dare esecuzione al piano straordinario per il Sud, di far partire il nucleare, di riorientare le relazioni industriali dopo la decisione di Federmeccanica e la reazione scomposta della Fiom, di intervenire su fisco, federalismo e capitale umano. Un programma vasto ed impegnativo che richiede una base parlamentare più larga possibile. Se quelle prospettive non sono solo parol dal sen fuggite, occorre superare veti e piccoli tornaconti di partito. Lasciando ad altri la responsabilità dell’eventuale rottura.
diario
pagina 6 • 10 settembre 2010
Nostalgie. Il Nazareno: «Non c’entriamo nulla». E qualche dirigente sospira: «Non ci sono più i servizi d’ordine di una volta»
Il petardo della discordia
Le reazioni fiacche e banali del Pd all’aggressione di Raffaele Bonanni di Antonio Funiciello
ROMA. Non ci sono più i servizi d’ordine di una volta. Questo il pensiero di più di uno tra i dirigenti del Pd di provenienza comunista. Vietato parlarne, certo; ma dalle parti del Pd la brutta faccenda dell’aggressione a Bonanni ha lasciato più di qualche perplessità sulle falle dell’organizzazione della festa. Il partito locale (quello torinese, del resto dei democratici piemontesi alla festa c’è poco) non ha colpe: l’intera partita della festa nazionale è stata gestita da Roma. Tra gli stand e i gazebo i militanti del partito continuano a dare il meglio di sé, ma un’atmosfera cupa aleggia da ieri. Insieme a qualche semplice domanda: si poteva prevedere qualcosa del genere contro Bonanni dopo l’aggressione al Presidente del Senato Renato Schifani? Perché si è sottovalutato quel campanello di allarme, provvedendo a gestire con estrema cautela le successive iniziative a rischio? Com’è possibile che proprio alle feste dell’Unità (rinominate “democratiche”), esempio da decenni di confronto civile, sia accaduta una cosa tanto spiacevole? Dov’è finita la professionalità politica di quelli del partito solido? Di solido, a Torino, si è visto brillare solo un fumogeno. La reazione a freddo del giorno dopo è parsa peggiore di quella ferma del generoso vice segretario Enrico Letta che, durante l’aggressione, ha risposto a gran voce ai mani-
schia di non essere finanche presentabile.
Parlamento. Non c’è così nessun problema da affrontare: si tratta di «idioti» (come titolava ieri Europa) o di «squadristi» (come ha insistito Bersani), qualcosa di diverso ed estraneo ai democratici. Quindi, alle accuse di estraneità, è seguito l’attacco alle forze dell’ordine torinesi, ree di non
Bonanni, sottolineando che quando la lotta politica si esaspera, fatti del genere sono una naturale conseguenza. «Non esiste alcun diritto senza una fabbrica, senza il lavoro, in un contesto così complicato come quello europeo e soprattutto mondiale in questa crisi.Vorrei dire alla ragazza che ha lanciato il fumogeno di stare lontana dai cattivi maestri». La ragazza fermata dai Carabinieri, studentessa fuoricorso di Psicologia, è figlia di un pubblico ministero di Prato. Le parole di biasimo di Bonanni non sono rivolte a lei, ma a quei politici che hanno letto nella vicenda Pomigliano un tradimento della causa operaia. Leader politici alla Nichi Vendola, che osteggiano ideologicamente il piano Marchionne e
Tra gli stand e i gazebo i militanti democratici continuano a dare il meglio di sé, ma ormai aleggia un’atmosfera cupa. Insieme a qualche semplice domanda: si poteva prevedere? festanti. Il Nazareno si fa scudo sostenendo di non avere nulla a che vedere coi manifestanti, che sarebbero qualcosa di totalmente estraneo al proprio campo politico. Difficile però convincere qualcuno che chi ha voluto impedire a Schifani e Bonanni di parlare voti per Berlusconi, Bossi o Casini. Fatto sta che anche in questo caso è scattato un classico riflesso condizionato: non c’entrano nulla con noi, malgrado non siano chiaramente militanti di forze politiche a noi avverse o da noi diverse in
aver tenuto a bada i facinorosi e di aver così mancato ai loro doveri. Un’accusa pesante, che non tiente conto del rafforzamento della presenza delle forze di polizia voluta per il dibattito con Bonanni proprio dal Questore di Torino. Il Pd non si assume nessuna responsabilità. Non sta a noi, ha detto Bersani con la sua solita cristillina capacità comunicativa, «organizzare Katanga».
La diagnosi più convincente dell’accaduto ha dovuto darla
non hanno perso occasione per bollare d’illegittimità democratica il nuovo corso della Fiat. Si fa fatica a pensare che razza di ticket e/o alleanza il Pd possa mai stringere con chi ha fomentato il clima di odio che ha portato all’aggressione di Bonanni.
È indispensabile porre un netto argine a sinistra per il grande rassemblemant antiberlusconiano che Bersani ha in testa. Altrimenti la nuova Unione del segretario democratico, ammesso possa mai risultare competitiva col centrodestra, ri-
Comunque sia, se l’aggressione a Schifani era stata sottovalutata, quella a Bonanni ha colpito nel cuore del Pd. Bonanni è il segretario di quella Cisl che non è mai parsa tanto lontana da un Pd oggi così “cigiellizato”. Quella stessa Cisl che solo due anni fa aveva candidato alla Camera, tra le fila del Pd veltroniano, il suo segretario generale aggiunto Pier Paolo Baretta. Insomma, se proprio un fattaccio del genere doveva accadere, Bonanni era l’ultimo a dover essere coinvolto. Il Pd nei sondaggi è inchiodato a un modesto 25%, franando nei consensi proprio in quell’elettorato moderato a cui fa riferimento la Cisl stessa. Lo scarso appeal del partito verso gli elettori centristi è la più urgente delle questioni da affrontare, non già con formule sibilline quali il nuovo Ulivo o l’Alleanza democratica, quanto con risposte concrete a quel tipo di domanda politica. Se Bersani non si farà carico di ciò, i dissensi interni palesati da Fioroni a nome della componente popolare, sono destinati ad aumentare. Un fardello di cui il Pd deve liberarsi visto che ormai in Italia non c’è rimasto nessuno a credere che le elezioni si possano più di tanto procrastinare.
diario
10 settembre 2010 • pagina 7
Ipotesi di omicidio colposo per il chirurgo Maurizio Sacchetti
Polemiche bipartisan per le dichiarazioni del senatore a vita
Molinette, medico e infermiera indagati
Giulio Andreotti sul caso Sindona: «Ambrosoli se l’è cercata»
TORINO. Era il sangue di una paziente dimessa la scorsa settimana, quello che è stato trasfuso nelle vene di Irene Guidi. L’infermiera di 77 anni deceduta la notte di lunedì alle Molinette, è rimasta dunque vittima di un tragico sbaglio. Ma dopo aver chiamato a rispondere dell’incredibile vicenda il medico Maurizio Sacchetti, 53 anni, con l’accusa di omicidio colposo, e l’infermiera Roberta Leone, la Procura sembra intenzionata a estendere i nomi iscritti sul registro degli indagati. Al momento c’è l’ipotesi di una doppia violazione della procedura di controllo nel Dea, che fa capo al dipartimento di Pier Roberto Mioli. In primo luogo infatti, le due sacche di sangue recavano impressi a chiare lettere, i dati anagrafici di un’altra donna. E in ogni caso, non avrebbero dovuto trovarsi nella stanza dalla quale sono state prelevate al momento della trasfusione che è costata la vita alla Guidi. Il pm Giuseppe Ferrando, dopo aver letto la cartella clinica, non sembra avere dubbi sul caso dell’infermiera: «Sono passati troppo pochi minuti dall’aggravarsi delle sue condizioni», dice. Il governatore del Piemonte, Roberto Cota, ha visitato
ROMA.
Bocchino gela le colombe «Tutti i finiani via dal Pdl» Dal capogruppo siluro a Schifani, i moderati di Fli lo isolano di Errico Novi
ROMA. L’inquadratura chiave ritrae Frattini che lascia Palazzo Grazioli con un’espressione sicura: «Siamo assolutamente tutti d’accordo a non andare a votare», dice il ministro degli Esteri appena reduce dal’ennesimo vertice con il presidente del Consiglio. Ha vinto la sua linea. Sua e di altre colombe del Pdl, in particolare di ministri e dirigenti riconducibili al gruppo di Liberamente, oltre che di Gianni Letta. Non a caso a compiacersi per la svolta che chiude per ora la strada delle urne sono anche due ministre che guidano la corrente dei berlusconiani ortodossi, Mara Carfagna e Mariastella Gelmini. «Berlusconi ha ribadito ieri (mercoledì, ndr) la volontà di andare avanti perché il governo ha il diritto e il dovere di governare», dice la responsabile dell’Istuzione. Che addirittura arriva a descrivere il premier «da sempre contrario a interrompere l’attività di questo governo». Eccessi d’entusiasmo. Legati al sollievo, quasi all’incredulità dei berlusconiani moderati per essere riusciti a prevalere rispetto alle «istigazioni a proseguire nella rissa con Fini somministrate a Silvio da qualcun altro», come dice un fedelissimo. E da chi? «Da almeno due dei coordinatori: Denis Verdini e Ignazio La Russa».
Del primo, mai amato nelle file del Pdl, le fonti interne riferiscono «la sempre maggiore influenza che aveva acquisito negli ultimi tempi su Berlusconi. Si può dire che il presidente a un certo punto sembrava quasi fidarsi solo di lui. E l’allarme ha scosso alcuni che, oltre ad avere incarichi di responsabilità nel partito e nel governo, sono legati da antica amicizia personale con il Cavaliere. Il problema di questi mesi», continua il berlusconiano, «è stato proprio il condizionamento che il presidente ha subìto dall’uomo forte del partito: un pretoriano che, in quanto tale, era interessato ad accentuare il clima da guerra fratricida, proprio per preservare il suo ruolo di Tigellino». Si sarebbe creato un circuito perverso animato da continui sospetti «che hanno tenuto in perenne agitazione Berlusconi. Lo si è istigato a dubitare di tutti, persino di persone dalla lealtà inattaccabile come Mara Carfagna». E in effetti
Dichiarazione al vetriolo, che ha subito dato fuoco alle polveri. Il Pd parla di «battuta agghiacciante». «Andreotti si conferma campione del machiavellismo politico – commenta il democratico Franco Monaco. Dura presa di posizione anche da parte dell’Idv: «Le affermazioni di Andreotti
un “verdiniano” di ferro come Giancarlo Lehner tre giorni fa ha avvelenato il tam tam quotidiano delle dichiarazioni con accuse al ministro delle Pari opportunità di intelligenza con il nemico finiano, ossia con Bocchino. Accusa ritirata poche ore dopo lo stop alle elezioni anticipate pronunciato mercoledì sera dal premier.
Non riuscivamo più a farci ascoltare, raccontano dunque le colombe. Ora hanno vinto loro. Frattini, Gelmini, Letta e gli altri sono riusciti a prevalere anche sulla linea oltranzista suggerita da La Russa: fino all’ultimo l’ex colonnello ha spinto perché non si concedesse a Fini e al resto dell’opposizione altro tempo per organizzarsi. Adesso invece si lavora al discorso che il presidente del Consiglio terrà il 28 settembre alla Camera. «C’è chi spinge per rompere, come la Lega. Noi proviamo ad andare avanti», dice Berlusconi ai ministri convocati a Palazzo Grazioli, «sto trovando chi può permetterci di proseguire il cammino». Sarebbero i deputati delle forze minori in via di reclutamento per rendere ininfluente la pattuglia di Futuro e libertà. Anche a loro si rivolgerà Berlusconi il 28 settembre, con passaggi sulle questioni più “sentite”. È proprio il piano di Frattini e Letta. In un clima chissà come tornato meno elettrico provvede però Bocchino a diffondere un po’ di scosse: «Sono in arrivo le dimissioni di tutti i rappresentanti di Fli da incarichi nel Pdl», dice. Se non fosse che altri tre nomi di spicco dell’area finiana, Viespoli, Menia e Moffa, lo stoppano subito con una nota: «Non si comprende la fretta di affrontare problemi inerenti gli assetti interni del Pdl». Il capogruppo dei deputati di Fli, nella sua videochat su Repubblica.it. ne ha una anche per Schifani: «I fatti emersi su di lui sono più significativi della vicenda Montecarlo». E con qualche ragione il segretario dell’Udc Lorenzo Cesa commenta: «Quella delle elezioni anticipate è una sceneggiata che deve finire: le famiglie non arrivano a fine mese, le imprese non riaprono, la disoccupazione è a livelli record e qui si continua con il teatrino: quello che sta accadendo è vergognoso».
Dopo il no al voto, i berlusconiani pacifisti esultano: «Silvio non ascolta più Verdini». Cesa: «Sulle elezioni teatrino vergognoso»
inatteso l’ospedale torinese, per constatare la situazione del pronto soccorso e interloquire con i medici, mentre il direttore generale dell’ospedale, Giuseppe Galanzino, si è recato in piazza Castello per riferire sulla dinamica dell’incidente. In attesa dell’autopsia del medico legale Roberto Testi, la difesa di Sacchetti ribadisce che «quella trasfusione sbagliata non è stata l’unica causa del decesso della paziente», ma il pm Ferrando non sembra concorde: «L’errore appare palese ed è stato gravissimo. Tutto il resto è ancora da accertare: chi ha preso la sacca, chi l’ha trasfusa, e perché fosse rimasta lì».
Per alcuni solo una gaffe imbarazzante, per molti una lugubre testimonianza di cinismo. Intervistato da La storia siamo noi, Giulio Andreotti dichiara che Giorgio Ambrosoli, liquidatore dell’impero di Michele Sindona ucciso l’11 luglio del 1979, «in termini romaneschi, se l’andava cercando».
su Ambrosoli – fa sapere il portavoce di Italia dei Valori, Leoluca Orlando – appaiono gravissime e sono un insulto al coraggio civile e alla cultura della legalità». Indignata anche l’esponente dipietrista Sonia Alfano, che chiede «la revoca a Giulio Andreotti del mandato vitalizio di senatore». Sulla sponda opposta, il sottosegretario alla Giustizia, Alfredo Mantovano, precisa che «Giorgio Ambrosoli non se l’è ’andata a cercare’. Ha ricevuto, senza sollecitarlo, un incarico professionale gravoso». Critico anche Walter Veltroni, che affida la sua reazione a Facebook: «Se non si ha voglia di futuro, il passato ritorna». Il figlio di Ambrosoli, Umberto, si dice assai rammaricato: «Il mondo economico finanziario ha fatto tesoro di quella esperienza per cambiare qualcosa, a differenza del mondo politico». Più tardi, arriva la rettifica di Giulio Andreotti: «Sono molto dispiaciuto che una mia espressione di gergo romanesco abbia causato un grave fraintendimento sulle mie valutazioni delle tragiche circostanze della morte del dottor Ambrosoli». «Intendevo fare riferimento ai gravi rischi ai quali il dottor Ambrosoli si era sottoposto».
pagina 8 • 10 settembre 2010
festa di Chianciano Mentre si apre la tre giorni di confronto dell’«Udc-verso il Partito della Nazione», lo storico Emilio Gentile spiega perché oggi sono a rischio sia la tenuta dello Stato sia l’identità della comunità chiamata Italia
L’assassinio di Riccardo Paradisi
ROMA. L’Italia, lo diciamo ormai da anni, è un Paese in crisi, declinante, profondamente diviso. Che soffre della mancanza di classi dirigenti, un paese che ha poco senso civico, scarso senso della nazione e dello stato. Diciamo Paese e non diciamo (quasi) mai nazione, ché ci sembrerebbe una forzatura, un esagerare di timbro e di tono, ci apparirebbe retorico e fuori luogo. Non è solo pruderie, residuo di vecchi traumi di nazionalismi rovinosamente collassati sotto i colpi d’una guerra malamente perduta. C’è una consapevolezza magari inconscia che come un ammonimento interiore ci spinge a essere minimalisti nel definire quella che è la nostra patria e la nostra nazione, questa Italia che non ci piace e che gli italiani riscoprono solo per reazione, a cui attribuiscono qualità che sono tali solo per noi: l’arte d’arrangiarsi, l’improvvisazione, il genio sregolato, un anarchia di fondo, una vocazione alla rissosità e al dispetto. Senonché arrivati a un’età se non proprio veneranda comunque importante – non siamo più una nazione giovanissima – il fermo immagine che restituiamo all’immediata vigilia del nuovo giubileo è quello di un Paese senza stato né nazione, di un popolo senza meta. È esattamente questa la fotografia che Emilio Gentile, ordinario di storia contemporanea all’Università di Roma la Sapienza, ha impresso in un libro chiave che riesce a mettere a fuoco le domande di fondo che ci riguardano: da dove veniamo, dove siamo e soprattutto dove rischiamo di andare. «Né stato né nazione. Italiani senza meta» (Laterza, 112 pagine, 9 euro) si intitola il suo saggio, professore, un titolo che sembra il manifesto della disillusione. Davvero siamo così smarriti, così privi di bussola di radici e di mete? Temo di sì. Ma non credo che il mio sia un’atteggiamento pessimistico, apocalittico, ho cercato di esse-
Come in altre fasi della nostra storia torna a prevalere uno spirito di disgregazione politico e morale. Riusciremo finalmente, dopo 150 anni, a diventare italiani? re realistico, di lasciar parlare dati attendibili. Ho cercato di rievocare l’opinione pubblica dell’Italia degli inizi del secolo scorso, facendo parlare le voci di Prezzolini, Amendola e Croce che già nel 1910 fanno delle diagnosi impietose del Paese, parlano già delle due Italie, dell’indegnità delle nostre classi dirigenti, della vocazione e della coazione a dividerci. Sono le stesse conclusioni desolanti a cui arrivano oggi gli osservatori più acuti e gli storici più attenti e che sono diventate senso comune.Tanto che se la Lega vuole legittimare la richiesta della dissoluzione dello Stato centralizzato può dire con qualche ragione che sono gli italiani stessi a non credere più nello Stato nazionale. Anche se i sondaggi di questi anni sulla popolarità di istituzioni nazionali come il presidente della Repubblica, i carabinieri, il Papa (una figura nazionale anch’essa in un certo senso) o sul sentimento patriottico hanno sempre dato risultati apparentemente positivi. Apparentemente positivi. E la chiave di lettura è proprio in quell’avverbio. Non a caso nel mio libro io parlo della schizofrenia italiana che si riflette proprio in questa contraddizione:
festa di Chianciano
10 settembre 2010 • pagina 9
Accanto, esagerazioni leghiste. Sotto, lo storico Emilio Gentile. Nella pagina a fianco, Giuseppe Prezzolini: la sua denuncia sull’aggressione alla Nazione dell’inizio del Novecento è ancora terribilmente attuale
della nazione da un lato si tributa il massimo riconoscimento alle autorità istituzionali dall’altro, quando si tratta di entrare nel merito, di dare un giudizio particolare sul funzionamento di queste istituzioni, del comportamento pratico della Chiesa o delle forze dell’ordine o della condotta dei singoli presidenti della Repubblica, ecco che la fiducia data all’istituzione crolla e avanza di nuovo la critica. In quei sondaggi gli italiani esprimono un desiderio più che un’effettiva fiducia. Insomma siamo divisi oggi come lo eravamo nel primo giubileo della patria, in quel lontano 1910: le due Italie, il Risorgimento plurale, la questione cattolica sempre aperta.
Eppure l’Italia è sempre andata avanti, malgrado tutto è sempre stato un Paese in ascesa. Oggi lei nota che le cose sono cambiate, abbiamo cominciato un progressivo declino: arretriamo su industria, ricerca, consumi, qualità di classe dirigente, sicurezza… dove avviene l’inversione di tendenza? Credo che in larga parta dipenda da quella profonda rivoluzione sociale e antropologica che è avvenuta nel Paese negli anni ‘50 e ’60. È in quel decennio, formidabile per spinte modernizzatici, che avviene la mutazione radicale dell’italiano rispetto a come era stato immaginato e diciamo costruito fino ad allora. Un uomo che rimaneva confinato nell’orizzonte ottocentesco persino durante il periodo fascista dove l’Italia sembra essere una nazione all’avanguardia sotto la spinta totalitaria del regime. Un paese che restava ancora rurale e che soprattutto continuava a muoversi nell’ambito della visione dello stato nazionale, per cui stato e nazione restavano concetti insopprimibili, malgrado tensioni verso nuovi ordini più vasti all’insegna della nuova civiltà imperiale fasci-
sta. Lo stesso è accaduto nei primi decenni dopo la fine della guerra: l’immediato dopoguerra italiano, anche con il ritorno della democrazia parlamentare, segue questo solco. Poi che succede? Che con il boom economico, sotto la spinta della ricostruzione, gli italiani conoscono una migrazione interna mai vista prima. Una migrazione di massa oltre i confini della propria regione verso i lidi dell’inurbamento e verso la dimensione del consumismo. È a questo punto che la mutazione antropologica supera la linea di non ritorno il cui Rubicone è proprio quel 1968 oltre il quale tutto è già definitivamente cambiato. Eppure, a dimostrazione di come i processi fossero avanzati da tempo, già nel 1964 una coscienza sensibile come quella di Aldo Moro intuiva una profonda crisi della società italiana. Forse sta qui allora la novità che rende impossibile l’accostamento o il paragone tra l’Italia di oggi e quella che nel 1910 descriveva Prezzolini sulla Voce. Eppure il brano prezzoliniano che lei riporta nel suo libro è impressionante per attualità: «Nelle elezioni trionfa il danaro, il favore l’imbroglio...Tutto cade. Ogni ideale svanisce. I partiti non esistono più solo gruppetti e clientele… Tutto si frantuma. Le grandi forze cedono di fronte a uno spappolamento e disgregamento morale di tutti i centri di unione»…Certo il parallelo è impressionante e fa meditare. Prezzolini si domanda già agli albori della nostra storia unitaria: possiamo essere uno Stato? Siamo veramente una nazione? Noi ancora oggi, dopo due guerre mondiali, una dittatura e la trasformazione culturale, anche in senso antrpologico, degli anni Cinquanta e Sessanta siamo ancora qui a domandarcelo. Giuseppe De Rita, per esempio, prende atto di “uno svuotamento progressivo” dello Stato nazionale, divenuto “un regno inerme” e con esso il tradizionale modo di intendere tutti i comparti dell’apparato istituzionale. Eppure ai tempi di Prezzolini nessuno si sarebbe sognato di mettere in dubbio così manifestamente la volontà di stare insieme come nazione, di farla finita con lo stato unitario, nessuno avrebbe potuto registrare una simile volontà. È così, ed è per questo che fatte salve le somiglianze dei temi, le due epoche restano
tuttavia incomparabili. Anzi alla fine del Novecento si è ipotizzato il superamento dello stato nazionale come un passo in avanti verso più ampie intese, in una prospettiva di unità europea e non di divisione localistica e infranazionale. Un esponente di questa corrente è stato Rosario Romeo, convinto che due guerre mondiali potevano essere sufficienti per convincere gli europei a superare ogni residuo di particolarismo nazionale, per procedere decisi verso l’europeizzazione. Tanto che secondo Romeo quelle fiammate di patriottismo che ogni tanto s’alzavano nelle più disparate occasioni – il caso Sigonella o la vittoria ai campionati di calcio del 1982 – fossero tutt’altro che da alimentare. Eppure dietro questo linguaggio europeista gli stati nazionali hanno continuato a tessere il loro interesse, Italia compresa se si guarda alla sua politica sul Mediterraneo e il Medio oriente. Le nazioni non hanno mai smobilitato malgrado molta retorica antinazionale, tanto più che dopo l’89, il crollo del muro
“
La Lega punta a delegittimare lo Stato com’è stato pensato fin dalle origini, ma spesso sembra che siano gli italiani stessi a non credere più in quell’idea
”
di Berlino e l’implosione sovietica si può dire che la nazione è anche ideologicamente risorta. Il comunismo aveva contribuito a imporre il paradigma del tramonto della nazione e la sua scomparsa dalla scena della storia toglie ossigeno e supporto all’internazionalismo europeo. Eppure da noi, dove pure come lei ricordava l’interesse nazionale veniva curato, malgrado nazione e patria fossero parole impronunciabili, da noi il crollo del comunismo coincide con il crollo della Prima Repubblica e con l’affermazione di una forza come la Lega che per la prima volta nella storia repubblicana comincia a declinare con radicalità inaudita un discorso separatista e secessionista. La Lega occupa una parte centrale nella sua analisi: a questo fenomeno
politico lei attribuisce una valenza particolare, con la Lega si rende possibile la fine dell’Italia come Stato nazionale. Vede, l’unico caso di scissione nazionale relativamente pacifica avvenuta in questi vent’anni è la Cecoslovacchia. I processi di divisione non sono mai neutri e contengono sempre rischi potenzialmente altissimi. Sicché di fronte alla Lega, alla sua predicazione, ai toni con cui dispiega la sua propaganda – Carlo Levi diceva che le parole sono pietre – io mi chiedo che cosa può accadere se uno stato come il nostro, che è nato unitario, che non ha esperienze concrete federaliste, si trovasse dentro un processo di divisione. Un processo di cui la Lega più che essere la causa è però il moltiplicatore, l’interprete. Magari il cattivo interprete… Sicuramente ma questo rende più rischiosa la situazione. Dagli anni sessanta a oggi la rivoluzione antropologica ha trasformato gli italiani in soggetti atomizzati che non sentono di avere più nulla in comune. Ormai ci trinceriamo dietro la sicurezza del villaggio, ci arrocchiamo in campanilismi sempre più minuti, abbiamo moltiplicato diffidenze e ostilità verso lo Stato e le istituzioni. La propaganda leghista arriva in un terreno già arato, pronto alla semina della divisione territoriale. Non si tratta di criminalizzare la Lega, assolvendo così chi ha creato le condizioni perché si manifestasse un politico come Umberto Bossi. La lega del resto parte da un presupposto vero, che gli italiani cioè non sentono più il senso del dovere civico di fronte allo stato. Un senso del dovere che la Lega ritiene invece abbiano i padani, sicchè mentre nell’efficienza padana questo spirito può sopravvivere nell’inefficienza meridionale questo spirito muore. Tornano le due Italie, ma stavolta una parte d’Italia vuole cessare d’essere tale e forse anche l’altra, visto che anche nel Meridione si riaccendono spinte indipendentiste e si rianima una letteratura e una storiografia antirisorgimentale e neoborbonica. L’Italia è spaccata in due, certo, ma non è la vecchia questione del Risorgimento che si ripresenta, non è nemmeno il ritorno della questione meridionale. No: si tratta stavolta di qualcosa di nuovo: è il venire a termine della parabola del nostro statonazione, dell’intenzione e della volontà, per settori consistenti di italiani di farla finita con l’unità nazionale, di dimettersi dalla propria nazionalità. La preoccupazione nasce dalla possibilità del piano inclinato: una volta diviso il nord dal centro e dal sud per esempio siamo sicuri che i piemontesi si faranno governare dai lombardi o dai veneti? Il processo di frammentazione può non avere più fine.
festa di Chianciano
pagina 10 • 10 settembre 2010
Al via il laboratorio di Chianciano
E la festa comincia con i giovani A sorpresa, Casini apre la «scuola di formazione» di Federico Romano
CHIANCIANO. I clienti delle terme di Chianciano osservano incuriositi i giovani che in questa tiepida giornata di settembre entrano a gruppi nell’area del parco Fucoli trascinando i trolly. Non è uno spettacolo abituale da queste parti. Sono arrivati da tutta Italia per ricominciare da qui un altro viaggio, ”un avventura culturale e politica” dicono loro, che vada oltre l’Udc, verso quel partito della nazione la cui fase costituente era stata annunciata da Pier Ferdinando Casini a Todi. La grande area termale puntellata di sorgenti e di verde è ancora vuota, riempita dalle bandiere dell’Udc con lo scudocrociato accanto a quelle tricolori e dalle note degli impianti stereo che i tecnici stanno mettendo a punto all’interno dal Palamontepaschi. La grande sala congressi dove nei prossimi giorni si alterneranno sul palco a di-
battere di responsabilità nazionale i dirigenti dell’Udc e gli ospiti di questo evento: esponenti di altre forze politiche da Dario Franceschini a Nichi vendola, da Fabrizio Cicchitto a Francesco Rutelli, da Roberto Formigoni a Beppe Pisanu studiosi come Massimo Cacciari e Galli Della Loggia, Andrea Riccardi e Luca Ricolfi - imprenditori ed esponenti della società civile come Diego della Valle. Sala dove Casini, domenica mattina, chiuderà con il suo intervento questa tre giorni di festa e di riflessione.
Ma Casini non ha atteso domenica per arrivare a Chianciano, ci teneva a essere qui sin da stamattina, a partecipare alla scuola di formazione politica che s’è aperta in una sala del parco con una riflessione sulle idee e sulle forme della politica. Casini coi giovani non
L’assassinio della Nazione C’è chi come Ernesto Galli della Loggia ha parlato di “morte della patria”riferendo la data di decesso a quell’8 settembre del 1943 quando l’esercito sbanda, il re fugge e comincia la guerra civile. Lei è d’accordo? No, non sono d’accordo. Nella Grande Italia io ho cerato di dismostrare che la morte della patria, come la definì Salvatore Satta in De Profundis nel 1948, espressione poi ripresa anche da Renzo De Felice – è certamente efficace per descrivere la percezione vissuta del crollo dello stato nazionale da parte degli italiani l’8 settembre. Però non credo
usa toni accattivanti, è diretto, a tratti brutale: «Quando sento i giovani dire che a loro interessa fare la politica e che hanno anche delle ambizioni mi chiedo sempre che cosa sono disposti a fare per le idee politiche che dicono di professare. La politica, quella vera è disciplina, impegno e sacrificio». Insomma la formazione d’una nuova classe dirigente, la possibilità di un cambio generazionale vero che non sia semplicemente cooptazione, passa attraverso questa selezione. «I giovani non hanno bisogno di essere vezzeggiati dalla demagogia. Ce n’è già troppa in circolazione. La semplificazione populista di Bossi che mi da dello stronzo ha una sua efficacia comunicativa, fornisce un messaggio istantaneo. Ma noi abbiamo bisogno di complessità, di cultura, di formazione, non di insulti e di politica urla-
che possa valere come spiegazione di ciò che è avvenuto dopo, quando più che una morte della patria c’è una moltiplicazione delle patrie: i repubblicani, i socialisti, i fascisti repubblicani, persino i comunisti parlano della patria. C’è una moltiplicazione della retorica patriottica durata fino alla fine della guerra fredda. I più esaltati retorici della patria e dell’unità nazionale sono De Gasperi e Togliatti e lo sono fino agli anni Cinquanta. Gli italiani in realtà avevano già perso il senso del comune sentire molto prima dell’8 settembre, alla fine della Grande Guerra mentre il fascismo identificando l’italianità con se stesso, ha contribuito, con il suo crollo, ad aggravare il fenomeno. Ma l’implosione dell’identità avviene come dicevo negli anni sessanta. Eppure da quella guerra civile
ta. Delle semplificazioni di Bossi o della furia giustizialista di Di Pietro, del suo gioco allo sfascio, non hanno bisogno i giovani e non ha bisogno l’Italia, un paese che sembra sull’orlo d’una crisi di nervi». Certo in una società plasmata dai media questa divisa ha un costo, rischia di restare meno visibile: «Non importa - dice Casini - importa che noi siamo seri. Che non prendiamo scorciatoie». Casini non arretra nemmeno di fronte ai temi caldi della sessualità e delle nuove famiglie. «L’omosessualità è un tragitto personale che va rispettato senza se e senza ma. Ma per noi il modello è la famiglia naturale, quella descritta dalla nostra costituzione e dal diritto naturale. È quella che vogliamo tutelare, non altre». Ed è questa visione orientata ai principi della cultura e della tradizione cattolica che tutto il
non abbiamo più recuperato un senso unitario, le memorie sono rimaste divise. Ognuno ha coltivato la propria. Gli italiani si sono incantati sull’una o l’altra storia di parte: perché mentre da una parte si faceva l’agiografia della resistenza dall’altra si minimizzava la portata dittatoriale e totalitaria del fascismo – Mussolini una brava persona, gli italiani brava gente, con l’unico peccato di essersi lasciati sedurre da Hitler. Anche per questo gli italiani hanno un rapporto difficile con la loro storia. Dalle agiografie poi oggi si è passati all’oblio completo, alla rimozione, un altro modo per mondarsi e autoassolversi. Come sa, da tempo è in atto un processo costituente verso il partito della nazione, un’iniziativa che parte dall’Udc ma che si propone di
resto discende: «Parleremo di questioni accessorie trattando di modelli istituzionali o di leggi elettorali se non tenessimo sempre a mente che da questa visione del mondo, da questa concezione culturale, deriva tutta la nostra politica. E su questi principi di base nell’Udc non ci sono pareri diversi».
Casini da anche un anticipo di quello che dirà domenica e riflette sulla situazione politica di questi giorni, sulle prospettive centriste: «Ragazzi noi lo avevamo detto che Pdl e Pd sono due contenitori vuoti. Noi avevamo anticipato l’esito che avrebbero avuto quegli esperimenti. Per questo abbiamo fatto un percorso diverso. il Pdl è finito a Mirabello dove Fini ha certificato il fallimento d’una fusione a cui pure aveva aderito. Del Pd non ne parliamo proprio, dovrebbe chiudere la
aprire uno spazio a chiunque voglia ricucire un identità comune. Che giudizio ha di questo percorso? Devo dire che la formula Partito della nazione non mi convince troppo. Qualcuno potrebbe pensare che chi non fa parte di questo partito non fa parte della nazione. Detto questo, mi sembra decisivo, in una fase come questa, preoccuparsi di tutelare l’interesse e l’unità nazionale. Per dare un giudizio però che non si fermi alle impressioni e alle intenzioni è giusto aspettare l’esito di questo processo e i frutti che potrà dare. Torniamo alla storia italiana: la nostra è stata per centinaia d’anni una nazione di fatto, senza Stato, unita da una lingua da una letteratura. Poi dopo l’unità è rimasto quello che Ferdinando Adornato ha chiamato “il paradosso di Porta
festa di Chianciano
10 settembre 2010 • pagina 11
Una nuova proposta per sbloccare il dibattito sulla riforma elettorale
Due turni in uno: ecco l’uninominale giusto
La soluzione è il cosiddetto «sistema neozelandese»: l’elettore vota due schede diverse in una sola tornata per evitare squilibri di Rocco Buttiglione ono note le ragioni storiche e politiche per cui l’Udc sostiene un sistema elettorale di tipo tedesco ed è anche noto che io sostengo questa scelta del mio partito. Questo articolo non ha dunque il senso di una presa di posizione politica ma quello semplicemente di un contributo ad un interessante dibattito intellettuale.
S
sua festa il prima possibile per evitarsi ulteriori imbarazzi. Noi invece siamo qui e dai sondaggi che ho in mano possiamo essere ottimisti, perché nel paese per noi si sta creando una vasta area di consenso». Solo il 10 per cento dei potenziali elettori centristi sostiene peraltro che l’Udc dovrebbe allearsi con Berlusconi e meno del 10 per cento col Pd: «Ci invitano ad andare da soli in caso di elezioni. Ed è quello che faremo se saremo chiamati alle urne. il bipolarismo ha bruciato in due anni Prodi e in due anni Berlusconi. Perché dovremmo proprio adesso virare di qua o di la, togliere la barra del timone dal centro?» Nei progetti di Casini e nelle speranza dei giovani Udc il partito della Nazione dovrebbe raccogliere e ricomporre l’eredità di questo quindicennio bipolare e sprecato.
Di recente, un gruppo di politologi e di politici ha presentato un manifesto a sostegno del sistema uninominale “secco”. Chi prende più voti nel collegio prende tutto. Questo sistema assicurerebbe un rapporto diretto fra eletti ed elettori ed anche governabilità perché contiene un forte premio di maggioranza implicito.Vanni Sartori ha risposto da par suo dalle colonne del Corriere della Sera che l’uninominale secco ha lo svantaggio di dare a chi ha la più grossa minoranza la rappresentanza di tutto il collegio e (anche) di tutto il paese, anche nel caso in cui tutto il resto dell’elettorato fosse furiosamente contrario. C’è una evidente carenza di legittimazione democratica. Un sistema elettorale uninominale a doppio turno può rimediare a questa carenza. Immaginiamo che al secondo turno vadano solo i due candidati che al primo hanno avuto il migliore risultato. L’eletto avrà comunque più del 50% dei voti. Questi voti saranno in parte il risultato di una prima scelta ( quelli che lo hanno già votato nel primo turno) ed in parte il risultato di una seconda
Pia”: dalla nazione senza Stato allo Stato senza nazione. Ora come lei dice rischiamo di perdere anche lo stato unitario. Non siamo mai riusciti a trovare una sintesi eppure nel risorgimento c’è stato anche il cattolicesimo liberale... Credo che questo sia un punto centrale. Sbaglia chi presenta il Risorgimento come anticristiano, antireligioso, quasi che sia vera l’interpretazione che ne dava Pio IX: un parto della massoneria. In realtà molti degli uomini del risorgimento avevano un fortissimo sentimento religioso. Una figura dimenticata come monsignor Geremia Bonomelli vedeva nei principi dello stato liberale italiano la matrice della religione cristiana. Don Primo Mazzolari era un parroco di campagna fortemente patriota. Da ragazzo in Seminario, nel 1907, esalta il
scelta ( quelli che avrebbero un altro candidato di bandiera ma comunque lo preferiscono alla alternativa concretamente disponibile). Alla proposta di Sartori è però possibile formulare una obiezione di non poco conto. L’elettorato ( ed in modo particolare l’elettorato moderato) mostra di non gradire il doppio turno. La partecipazione al secondo turno è in genere limitata e c’è il rischio di consegnare la decisione nelle mani delle minoranze più politicizzate. La legittimazione democratica, in questo caso, calerebbe invece di aumentare. Esiste una possibilità di coniugare il collegio uninominale con una piena ( o comunque migliore) legittimazione democratica? Questa possibilità esiste. Si tratta del cosiddetto sistema neozelandese, così chiamato non perché sia il sistema della Nuova Zelanda ma perché è stato proposto nella discussione sulla riforma elettorale di quel paese, un tentativo di dare seguito alle teorie di Kenneth Arrow e al suo teorema della preferenza. È sufficiente concentrare i due turni in uno dando all’elettore due schede. Nella prima egli esprime la sua scelta di bandiera, nella seconda esprime invece la sua seconda scelta, il candidato che preferisce nel caso che il suo candidato di bandiera non sia passato. Si procede allo spoglio contando prima le prime scelte. Se un candidato ottiene la maggioranza assoluta si procede a proclamare l’eletto. Se nessuno ottiene la maggioranza assoluta si contano anche le
Un metodo utile per correggere i rischi «maggioritari» del voto in una sola tornata
Re, Garibaldi e Mazzini e non sente nessuna contraddizione con la sua coscienza religiosa. Circola ancora la leggenda di un cattolicesimo esclusivamente antiliberale che non c’è, in fondo, mai stato. Lo era retoricamente certo, ma quando arriviamo al Patto Gentiloni la questione romana è già risolta. Durante la Prima Guerra mondiale la tacita conciliazione tra la Chiesa e lo Stato italiano è già avvenuta. Si certo, quello del cattolicesimo liberale è un filone che percorso potrebbe aiutarci a uscire dal paradosso di Porta Pia, a trovare una sintesi tra le contraddizioni che rischiano di esplodere. Anche se l’eredità di questa importante corrente oggi è
“
seconde schede e si proclama eletto alla fine chi ha avuto la maggioranza nel conto complessivo. In questo modo non esiste differenza di partecipazione al voto fra un primo ed un secondo turno (il turno in effetti è unico) ed il candidato eletto avrà la maggioranza assoluta (se vi fossero solo tre candidati) o comunque vi si avvicinerà assai più che con il sistema uninominale “secco”.
Non nasconderò un’altra caratteristica del sistema che per me rappresenta uno dei suoi meriti ma da altri potrà essere vita meno positivamente. Il sistema favorisce il centro. È infatti probabile che il candidato di centro sia la seconda scelta di un numero molto grande di elettori sia di destra che di sinistra.Anche la destra e la sinistra sarebbero costrette a proporre candidati moderati, capaci di ottenere in seconda scelta il voto di almeno una parte degli elettori dell’altro schieramento, oltre che quelli del centro. Il sistema proposto assicura forte legittimazione democratica (più dell’uninominale secco e più del doppio turno), non consegna il governo del paese nelle mani di una minoranza, garantisce governabilità perché il premio di maggioranza implicito dell’uninominale rimane intatto. Perché gli illustri promotori del manifesto per l’uninominale non lo propongono e non lo fanno proprio? Se non si ha un pregiudizio contro le forze moderate e centriste, questo sistema può garantire legittimità democratica
quantomai dispersa e confusa, si registrano dei richiami ad essa qua e là ma in modo episodico. Lei nel libro fa un’ipotesi fantapolitica, l’Italia che ritrova unità, concordia, dignità politica grazie all’ennesimo miracolo dello Stellone. Ma davvero solo un miracolo ormai ci può salvare? Abbiamo superato comunque periodi terribili, due guerre mondiali una guerra civile, un terrorismo di lunga durata e di inaudita intensità, perché non ce la dovremmo cavare anche stavolta? Se ce la cavassimo un’altra volta senza apprendere la lezione della storia,
Mi sembra decisivo, in una fase come questa, preoccuparsi di tutelare l’unità nazionale
”
senza conoscerla, senza dare sostanza reale alla democrazia liberale e quindi capendo l’importanza dei suoi pilastri che sono lo stato e la nazione, non ne usciremo mai. Intendiamoci, non c’è da auspicare nessun trauma collettivo, figuriamoci. Anche perché non è giusto scaricare sugli italiani in generale le responsabilità del declino. Una responsabilità più diretta è della classe politica: alla quale si dovrebbe ripetere l’invito di Garibaldi agli italiani: «Siate seri». Sentire la vergogna di essere una classe politica largamente disprezzata, e avvertire la necessità e provare l’orgoglio di diventare finalmente classe dirigente di uno stato nazionale che ha una storia. Almeno finchè questi stati nazionali saranno protagonisti – e lo sono ancora – della vita internazionale.
pagina 12 • 10 settembre 2010
il paginone
L’esito dello scontro dipende da come si risolverà l’attuale crisi politica, nella quale il Corsera (finora) n po’ come Gandalf rispose al Balrog nel Signore degli Anelli: «Tu non puoi passare». I panni del mago della saga di Tolkien stavolta li ha vestiti John Elkann, mentre il mostro delle miniere di Moira è sempre lui: Giuseppe Rotelli, l’imprenditore della sanità lombardo che possiede il 10% della Rizzoli Corriere della Sera. Ma anche stavolta ha incassato un “no”all’ipotesi di entrare nel patto di controllo della casa editrice, dove siede la créme de la créme della borghesia italiana. Rotelli non può entrare nel salotto buono, quindi, anche se ufficialmente lui non l’ha mai chiesto. E nemmeno ufficiosamente: a chiedere a gran voce l’apertura del patto all’imprenditore delle cliniche sono stati anche l’altroieri, durante la riunione del patto, Salvatore Ligresti e Cesare Geronzi. Ma dal resto del gruppo è arrivato l’ennesimo no: Nessuno ha poi messo in discussione il meccanismo escogitato da Piergaetano Marchetti ai tempi della scalata di Stefano Ricucci, che blinda di fatto per 18 mesi i soci desiderosi di uscire. Un impegno scaduto e rinnovato tacitamente, almeno finché giuridicamente uno degli astanti non deciderà di sollevare il problema dal punto di vista legale. E aprire una guerra che potrebbe avere risvolti sanguinosi nel capitalismo italiano. Il no è ufficialmente stato motivato dal (piccolo) azionista Francesco Merloni, nella scorsa riunione: «Non mi sembra che il clima sia cambiato. Il fatto che Rotelli voglia entrare mi pare giustificato dal momento che è il secondo socio del gruppo con una quota attorno al 10%. Ma Rotelli ha anche il suo spazio nel collegio sindacale. D’altra parte la maggioranza è così vasta che rischia di non esserci più minoranza se tutti entrano».Tradotto in soldoni, vuol dire che già oggi il patto raccoglie un ammontare dell’azionariato che in percentuale sul flottante arriva al 63,5% (e il totale di azioni controllate arriva al 65,6%); per il resto, il 21% è in mano ad azionisti che hanno più del 2% (tra cui, appunto, Rotelli) e il 12,2% sta sul mercato. Se anche Rotelli entrasse nel patto, la percentuale di azioni soggette a sindacato arriverebbe al 75%: ciò equivarrebbe in pratica a dare un addio a qualsiasi tipo di contendibilità a Piazza Affari, anche solo formale, con risvolti sicuramente negativi sul titolo.
U
Ufficiosamente, però, c’è anche altro. Non può sfuggire che il patto Rcs, coeso quanto si vuole al momento dello stilare i comunicati ufficiali, oggi viva una guerra intestina tra chi vuole “avvicinare”e chi vuole tenere “distante”il Corriere della Sera al governo Berlusconi. A molti torna alla mente quel febbraio-marzo del 2009 quando il patron delle cliniche trovò il compromesso con il Banco Popolare venditore, trasformando in azioni solo un 2,6% delle opzioni su Rcs in scadenza a marzo, al prezzo stabilito di 4,51 euro ciascuna. In totale 82,5 milioni di euro per un pacchetto che in Borsa valeva all’epoca un settimo circa. Il pacchetto restante del 3,45% invece Rotelli lo pagherà più avanti: sempre a 4,51 euro per azione, ma con tempo fino al 2014 per saldare i 114
milioni rimanenti. Il compromesso con i banchieri veronesi è avvenuto con la mediazione dello studio legale di Giuseppe Lombardi. Alla nuova scadenza, l’escursione in Rcs sarà costata all’imprenditore pavese circa 350 milioni. Finora l’ esperienza è costata al numero uno delle cliniche di San Donato 107 milioni di perdita secca.
Una bella cifra per quasi tutti i portafogli. Ma non per l’ uomo che ha contribuito in prima fila (più di trent’ anni fa) a ridisegnare la sanità lombarda, giocando nel doppio ruolo di regolatore prima e di operatore poi. E oggi, dopo aver costruito un impero della salute che qualcuno valuta fino a 3 miliardi di euro, come scriveva Ettore Livini su Repubblica è l’anello di congiunzione tra questo mondo emergente e discusso e i salotti buoni che da decenni gestiscono il potere milanese. Pavese, 63 anni, professore di medicina e stu-
La grand
di Alessandro
Pavese, 63 anni, professore di medicina e studioso di diritto, Rotelli è diventato imprenditore a 35 anni, prendendo le redini del presidio sanitario di San Donato dal padre. Il primo passo di una carriera poi decollata nel 2000 dioso di diritto, Rotelli è diventato imprenditore a 35 anni, prendendo le redini del presidio sanitario di San Donato dal padre. Il primo passo di una carriera che, scrive sempre Repubblica, decolla nel 2000, quando Rotelli rileva da Antonino Ligresti il Galeazzi, la Madonnina e il Città di Milano. Un mattone per volta il suo impero è una realtà con 17 ospedali in Lombardia e uno in Emilia Romagna, con 700 milioni di euro di ricavi, senza debiti e con un patrimonio immobiliare di proprietà che ne moltiplica il valore. La sua attività imprenditoriale è andata di pari passo con l’impegno attivo nel mondo della pianificazione sanitaria. È stato tra gli estensori del Piano ospedaliero regionale del 1974, la rivoluzione“privata”della salute lombarda su cui poi ha costruito la sua fortuna finanziaria. E per due volte ha guidato il Comitato regionale per la programmazione sanitaria. Il suo gruppo è controllato da una serie di holding gestite da vicino dalla riservatissima famiglia di commercialisti Strazzera e che ha tra i suoi consulenti Bruno Ermolli (il figlio Alessandro siede nel cda della San Donato).
Un imprenditore solido e, come tutti, con qualche problema giudiziario. Risale alla fine del 2009 l’avviso di garanzia per falso e truffa al sistema sanitario nazionale: una storia come tante – la stessa accusa che devono fronteggiare gli Angelucci nel Lazio – a causa di ricoveri inesistenti conteggiati per gonfiare il conto da pre-
sentare al Servizio sanitario nazionale: almeno 1564 casi, tra il 2005 e il 2006, solo al Policlinico di San Donato e alla Clinica Sant’Ambrogio, e lo stesso meccanismo anche per l’ Istituto ortopedico Galeazzi. Per l’ac-
il paginone
10 settembre 2010 • pagina 13
Nella foto grande: Silvio Berlusconi (a sinistra) e Giuseppe Rotelli (a destra). Qui a fianco, da destra: Ferruccio de Bortoli; Diego Della Valle; John Elkan; Cesare Geronzi e Salvatore Ligresti. Oggi il patto di sindacato raccoglie il 65,6% delle azioni. Per il resto, il 21% è in mano ad azionisti che hanno più del 2% (tra cui, appunto, Rotelli) e il 12,2% sta sul mercato. Se anche Rotelli entrasse nel patto, la percentuale di azioni soggette a sindacato arriverebbe al 75%: ciò equivarrebbe in pratica a dare un addio a qualsiasi tipo di contendibilità a Piazza Affari, anche solo formale, con risvolti sicuramente negativi sul titolo.
) si è schierato dalla parte di Napolitano contro le richieste del premier e di Bossi di far dimettere Fini
de guerra del Corriere
o D’Amato
Ligresti e Geronzi premono per far entrare Giuseppe Rotelli, l’imprenditore della sanità vicino a Berlusconi, nel patto di sindacato. Ma il resto del gruppo (per ora) resiste cusa all’interno delle tre cliniche esisteva un vero e proprio “sistema” in cui i vertici amministrativi «impartivano le linee guida e le istruzioni per l’ erogazione e la rendicontazione delle prestazioni sanitarie e per la loro codifica in frode al Servizio sanitario regionale, eserci-
tando sistematicamente i propri doveri di controllo in maniera parziale e compiacente per il maggior profitto» della struttura privata.
Ma l’infortunio, in attesa di giudizio, non ha certo costretto Rotelli al ritiro dalla vita pubblica. Anzi: nel maggio 2009 Silvio Berlusconi, Roberto Formigoni e Letizia Moratti hanno scelto di partecipare in contemporanea all’inaugurazione di un suo ospedale privato, il nuovo Policlinico San Donato, e tutti in coro hanno cantato le lodi di Rotelli: «Questo Policlinico rappresenta un esempio e un modello da seguire», ha detto il premier. E la Moratti ha giocato al rilancio: «Questo ospedale testimonia la capacità di un imprenditore nel campo della salute, smantellando la retorica che solo il pubblico può operare nel campo della salute». E via snocciolando aggettivi e ringraziamenti. Di esempio «grandioso ed eccellente» ha parlato pure Formigoni. E il professor Giuseppe ha restituito i complimenti al premier, facendo notare che «sotto la sua guida illuminata tutto va bene». Più endorsement di così, è difficile. Insomma, il patto Rcs ufficialmente non lo dice. Ma ufficiosamente, e anche perché a sollecitarne l’entrata sono due fedelissimi del Cavaliere come Cesare Geronzi – che lo ha difeso a spada tratta contro Fini al recente meeting di Comunione e Liberazione – e Salvatore Ligresti – che con il premier ha fatto e fa ancora affari su affari – pensa che Rotelli sia la testa di ponte di Berlusconi. E una sua entrata nel patto, con tutte le conseguenze del caso sui fattori di decisione (e sugli uomini preposti a prenderne), potrebbe cambiare gli equilibri già così labili nella casa editrice. E soprattutto al Corriere della Sera, dove Ferruccio De Bortoli si mantiene ancora sul ponte di comando grazie all’innegabile professionalità, che ha portato via Solferino ad arrivare quasi sempre per prima su tutti gli scandali giudiziari che hanno funestato gli ultimi due anni dell’attualità italiana. Nei quali, purtroppo, sono finiti implicati anche il Cavaliere e i suoi uomini. E pensare che all’inizio Rotelli era stato presentato come “terza via”tra Giovanni Bazoli e Silvio Berlusconi. Ovvero tra chi oggi “governa”(con tutti i distinguo del caso) grazie all’autorevolezza il patto di sindacato e sceglie gli uomini dei posti cardine. Scriveva Pons sempre su Repubblica, a proposito di Rotelli, che «la sua visione del mondo e dell’economia è liberista ma con misura. È contro i monopoli e a favore della concorrenza ma ritiene le stock option uno dei mali della finanza di oggi, un male importato dall’America. Approva l’operato degli hedge fund attivisti modello Alge-
bris che hanno posto domande costruttive al salotto della finanza triestino ma allo stesso tempo sostiene l’idea di Corrado Passera che nel mondo c’è stata un’ ubriacatura di finanza e che le banche devono tornare al loro core business, cioè prestare soldi agli imprenditori coraggiosi. Come Berlusconi, Rotelli si ritiene uno dei pochi imprenditori ad avere avuto successo in un settore, quello della sanità, dominato dalla presenza dello Stato. Il faro per il capitalismo del Terzo Millennio, per combattere la società mucillaggine descritta da De Rita, è rappresentato dal liberalismo nella versione moderna di Ludwig Von Mises e Friedrich August von Hayek. Riferimenti culturali che potrebbero essere ritenuti “non lontani”anche al più classico solidarismo cattolico che anima e guida il mondo che fa capo a Intesa Sanpaolo e ai suoi uomini di vertice». Questa è stato il suo biglietto da visita all’epoca dei primi acquisti di azioni Rcs, ma poi le parole di Geronzi e Ligresti nelle riunioni hanno insospettito Bazoli, tanto da far capire che è il momento di resistere, resistere, resistere, come direbbe qualcun altro.
Già, ma fino a quando? Per poterlo dire con certezza basta guardare i conti relativi al primo semestre del 2010, chiuso con una perdita netta di 9,8 milioni. In netto miglioramento se paragonata al risultato negativo per 65,1 milioni di euro della prima metà dell’anno scorso, ma comunque un “rosso”. Le nuove sfide editoriali incombono, ma a via Solferino non sembrano ancora rendersene conto visto che la strategia più complessa per incrementare i ricavi è quella partorita da Mucchetti sulle colonne del quotidiano, dove l’editorialista suggerisce agli editori di allearsi con la televisione per vincere la battaglia lobbistica e inserire anche il mercato “dei motori di ricerca”dentro il calderone del Sistema integrato delle comunicazioni (o Sic). Per poter chiedere a Google una percentuale sui ricavi veicolati dalle visite che già porta ai grandi editori. Francamente, dal punto di vista industriale si può pensare di meglio. Sarà resistibile o irresistibile, l’avanzata di Rotelli (e quindi di Berlusconi) verso il Corriere della Sera? Molto, se non tutto, dipenderà da come si risolverà l’attuale crisi politica, nella quale via Solferino già si è schierata, soltanto qualche giorno fa, dalla parte di Napolitano e contro le richieste del premier e di Bossi di far dimettere Fini. Nell’ipotesi peggiore, però, si andrà al voto presto. Magari entro novembre, se non a marzo. E se dovesse vincere di nuovo Berlusconi, probabilmente anche per i salotti buoni milanesi sarà il momento del redde rationem.
mondo
pagina 14 • 10 settembre 2010
Conflitti. L’Azerbaijian, che “avvolge” completamente il Paese, non intende cedere di un passo. E ieri l’ennesima esplosione sospetta ha scosso di nuovo l’area: 16 morti
La strage dimenticata L’armistizio non ha pacificato il Nagorno-Karabakh, enclave indipendentista circondata da odio etnico di Antonio Picasso attureremo quei bastardi!». Non ha certo fatto ricorso alla moderazione e alla diplomazia il presidente russo, Dimitri Medvedev, nel commentare l’attentato suicida che ieri ha colpito la capitale dell’Ossezia del Nord, Vladikavkaz. Il bilancio parziale è di 16 morti e di 80 feriti. Secondo le dichiarazioni rilasciate dalle autorità locali, l’attacco sarebbe stato portato a termine da due persone a bordo di un’autobomba, imbottita con 40 chili di tritolo. La macchina pare che avesse una targa dell’Inguscezia, la vicina repubblica a maggioranza musulmana, ritenuta una delle fonti del terrorismo locale. Poco dopo l’esplosione, inoltre, la polizia ha disinnescato un secondo ordigno localizzato in prossimità del luogo dell’avvenuto attentato. È l’ennesimo focolaio che si accende in un Caucaso sempre sull’orlo del collasso. Già la scorsa settimana, si era verificato una breve sparatoria, che aveva provocato una decina di morti sul confine tra il Nagorno-Karabakh e l’Azerbaijan.
«C
Linea che, per le autorità indipendentiste di Stepanakert (capoluogo della provincia azera) dovrebbe costituire il confine ufficiale del futuro Stato omonimo, mentre per il governo di Baku rappresenta una frontiera effimera di un conflitto etnico che cova tuttora la sottocenere e che rischia ogni anno di riaprirsi. Il Nagorno-Karabakh, infatti, mira a proclamarsi indipendente, sentendosi forte del sostegno da parte della vicina Armenia. Tuttavia, la posizione strategica dell’intera regione - specie per le sue risorse energetiche e la vicinanza con il quadrante dell’Asia centrale - non permette che si giunga a una soluzione definitiva degli attriti, senza che la Russia pronunci la sua ultima parola. Il cessate il fuoco proclamato nel 1994 è stato dilazionato e procrastinato annualmente,
con la promessa del Cremlino che prima o poi questo capitolo di crisi venisse concluso. Finora non è successo nulla di tutto questo. L’instabilità dell’intero Caucaso, quindi, dipende dalla volontà di Medvedev e Putin, ma soprattutto dalla loro scelte ambigue. Nella prima metà degli anni Novanta, la guerra del Nagorno-Karabakh ha fatto da apripista alle tante crisi in cui è piombato l’area. Allora i 30mila morti, registrati tra il 1988 e il 1994, non ottennero la dovuta rilevanza internazionale in quanto, nello stesso periodo, era in corso la guerra in Jugoslavia. Il conflitto in quegli 11milioni di chilometri quadrati così lontani dall’Occidente
aveva ottenuto una relativa autonomia, prima dall’Impero ottomano, poi dall’Unione sovietica. Entrambe le potenze, tuttavia, si erano ben guardate dal parlare di un’eventuale sua futura indipendenza. Questa idea si è palesata solo con la disgregazione dell’Urss, quando le province più lontane da Mosca pensavano che si fosse aperta una strada di fuga. I nuovi Stati dell’Armenia e dell’Azerbaijan si erano schierati rispettivamente pro e contro la causa del Nagorno-Karagakh. La regione è ancora oggi abitata da una minoranza etnica, a sua volta frammentata in componenti tribali e spartita in confessioni religiose da sempre ne-
I trentamila morti registrati tra il 1988 e il 1994 non hanno goduto della rilevanza mondiale perché, in quegli anni, si combatteva in Jugoslavia non poteva riscuotere il medesimo coinvolgimento emotivo e l’impegno politico espressi da Europa e Stati Uniti rispetto alla crisi balcanica. Dallo scontro regionale del Nagorno-Karabakh, di conseguenza, si è passati velocemente alla sommatoria di criticità che ancora oggi caratterizza tutta la regione. L’emarginazione della ribalta internazionale, da parte della stampa e della diplomazia, hanno impedito che si arrivasse a una soluzione per tutti i conflitti. Il Nagorno-Karabakh, come realtà etnica a sé, non è mai esistita. In epoche passate
miche: rappresentanze dei cristiani armeni, ortodossi che fanno riferimento alla Chiesa di Russia e musulmani sunniti. I primi speravano di raggiungere l’autonomia grazie al sostegno della vicina Yerevan. La minoranza russa, a sua volta, ha sempre guardato il Cremlino come punto di riferimento della propria identità, cercando quindi di mantenersi salda a Mosca. I musulmani, infine, sono stati protetti dal governo azero, soprattutto da quanto a Baku si è palesata la possibilità che si insedi un regime islamico. Attualmente la situazione
resta sospesa in quanto il governo Medvedev-Putin pretende di risolverla come se fosse un problema di carattere interno. Le Nazioni Unite invece sperano di trovare un compromesso sull’esempio di casi precententi. Il Kosovo docet. Ed è proprio quest’ultimo che provoca le maggior preoccupazioni della classe dirigente russa.
La frammentazione e l’instabilità radicata del Caucaso, che il governo di Mosca considera il suo giardino di casa, rappresenta il ventre molle di ogni velleità di superpotenza del Cremlino. La guerre passate e le scaramucce di oggi, ma soprattutto gli attentati terroristici, inducono a pensare che Mosca sia incapace di tenere a freno le istanze indipendentiste e le forze centrifughe che animano i suoi Paesi satelliti. Un discorso analogo può essere fatto per l’Abkazia, la Cecenia, il Daghestan, come pure Ossezia e Ingushezia. Repubbliche autonome o semplici province troppo ribelli in un’area la cui importanza strategica è in crescita costante, visti gli interessi energetici russi. In tutti questi casi, l’autodeterminazione delle singole minoranze appare infiltrata da correnti terroristiche, spesso di matrice jihadista e di natura straniera, comunque ostili allo Stato accentratore russo. Le singole progettualità politiche sono portate avanti facendo agevolmente ricorso alla violenza, da parte di unità paramilitari, che si fregiano del distintivo, nobile ma improprio, di eserciti di liberazione. Tuttavia, non si può escludere che sia la stessa Russia a preferire l’instabilità del Caucaso, piuttosto che esserne vittima. Sarebbe una mistificazione a cui si è abituati. La regione, in tal caso, sarebbe volutamente mantenuta nel suo stato di crisi e impossibilitata a imboccare la strada della normalizzazione. Del resto, fin dai tempi di Pietro il Grande e Caterina II, il Caucaso turba le notti
degli inquilini del Cremlino a Mosca e, prima ancora, del Palazzo d’inverno a Pietroburgo. La nomenclatura russa potrebbe attribuire a queste frizioni un peso specifico minore rispetto a quello che diamo noi in Occidente. I russi potrebbero pensare che il Caucaso sia una sorta di “causa persa”sulla quale non si può investire se non il minimo indispensabile di risorse onde evitare un’escalation. Nella fattispecie del NagornoKarabakh, il comportamento di Mosca appare impostato sulla duttile indolenza. La Russia cambia di volta in volta atteggiamento, passando dall’aggressività, come per esempio ieri, alla voluta inattività. Lo confermano le dichiarazioni quanto mai scontato rilasciate dal presidente russo, Vladimir Medvedev, in visita in Azerbaijan, proprio la scorsa settimana.“Sono pronto a continuare questo tipo di contatti per discutere le più complicate questioni che ancora rimangono in agenda”, ha affermato il leader russo. “Prestissimo questo tipo di contatti, che coinvolgono i ministri degli Esteri e noi stessi, continueranno”. Parole, le sue, che valgono il tempo che trovano e che non lasciano filtrare alcuna progettualità concreta in merito alle crisi del
mondo
10 settembre 2010 • pagina 15
gas verso l’Europa, la Russia avrebbe risolto il problema della sua debolezza economica domestica. Tutte queste priorità, secondo l’agenda del Cremlino, devono essere messe a sistema. In esse vi risultano coinvolti anche il caso Nagorno-Karabakh e quello Ossezia-Inguscezia, sulle cui rispettive risoluzioni si apre un ventaglio di possibilità. Per il primo è possibile che Mosca sia alla ricerca del valido compromesso che non metta in discussione i rapporti né con l’Armenia né l’Azerbaijan. Sulla base del vecchio principio del divide et impera, non si può escludere l’indipendenza a tutti gli effetti del Nagorno-Karabakh. In questo caso, sia Yerevan sia Baku ne uscirebbero sconfitte. Mosca, da parte sua, avrebbe la possibilità di gestire tre Stati indipendenti, ma sempre più a lei satelliti. Così è stato per l’Ossezia del Sud, che prima chiedeva l’autodeterminazione e poi si sarebbe accontentata dell’annessione alla consorella settentrionale – sotto la giurisdizione di Mosca.
Caucaso. Altrettanto si può dire della veemenza manifestata ieri. L’esplosione di Vladikavkaz è apparsa come l’opera di un gruppo di “bastardi”. Gli setto che, tuttavia, riescono ormai da anni a mettere in scacco le forze di sicurezza russe. Né Putin né Medvedev, finora, si sono esposti nel formulare una strategia sistematica per tutta la regione. Sia Yerevan sia Baku rappresentano due partner la cui alleanza è imprescindibile nelle strategie economiche del Cremlino. Il governo del primo, ispirato da una lunga tradizione cristiana, gioca il ruolo dell’utile cuscinetto alle ambizioni della Turchia. Ankara, da sempre spina nel fianco sud per la Russia, dev’essere tenuta a bada, in nome di un restaurato panslavismo – riscontrabile anche in favore della Serbia, per esempio – e della comune fede religiosa tra Russia e Armenia. La visione populistica del tandem Putin-Medvedev ha dato nuovo lustro, palesemente strumentalizzato, anche al Vangelo, sebbene le rispettive Chiese nazionali non abbiano mai nasco-
Una donna commemora i defunti del conflitto indipendentista che ha scosso l’area caucasica per sei anni. Il governo di Baku cerca il sostegno dell’Onu contro le mire della regione. A sinistra, la firma del primo armistizio. Sopra, la cartina geografica del Nagorno-Karabakh
sto un reciproco sentimento di intolleranza. Da un punto di vista strettamente politico, Mosca è tradizionalmente alleata dell’Armenia ed è uno dei copresidenti, assieme a Stati uniti e Francia, del cosiddetto Gruppo di Minsk presso l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce). Il gruppo fa da mediatore nei difficili negoziati che proseguono da anni tra stop and go. La Russia, inoltre, mantiene in Armenia una base militare, nella città di Gyumri. Recentemente Mosca e Yerevan hanno firmato un accordo per il prolungamento della presenza militare di Mosca. Recentemente Medvedev ha inteso rassicurare il governo, memore delle angherie di cui sono cadute vittime la Georgia e l’Ucraina.“La base esiste con lo scopo di mantenere la pace, l’ordine e la stabilità nella regione. Non ci sono trappole o altre considerazioni”. Del resto un simile atteggiamento appare ancor più contraddittorio se messo a confronto con le pessime relazioni impostate dalla Russia con la
Georgia appunto. Due anni fa, il Cremlino ha mosso guerra contro quest’altro Paese, anch’esso cristiano e caucasico. L’idea di Tblisi come potenziale partner della Nato è inaccettabile per Mosca. L’Armenia, al contrario, ha saputo dimostrarsi ben più disciplinata. Ancora più importante è l’Azerbaijan. Il Cremlino, a nome di Gazprom, non solo deve tenere ottime relazioni con Baku, ma addirittura si vede costretto a coccolarne il governo, di qualsiasi orientamento esso sia: laico come islamico. Le infinite risorse petrolifere e di gas localizzate nel Mar Caspio costituiscono una potenziale fonte di guadagno per Mosca, la quale è ormai consapevole che le riserve della Siberia stiano cominciando a ridursi. La Russia vuole restare il primo fornitore energetico europeo e, in qualche modo, deve trovare gas e petrolio da vendere e poi da esportare nel vecchio continente. Da qui la sua preferenza affinché venga realizzato il Southstream e non il Nabucco, i due progetti in via di progettazione che dovrebbero congiungere i ricchi giacimenti caucasici con le locomotive industriali europee. Se Gazprom avesse il monopolio dell’estrazione e della distribuzione del
Anche in questa situazione, l’ulteriore frammentazione del Caucaso sarebbe tornata vantaggiosa unicamente al Cremlino. A quel punto di potrebbe parlare di una “sbriciolatura” della regione, con il riconoscimento identitario di ogni singola minoranza e, in realtà, con la sottomissione di ciascuna alla volontà del Cremlino. Una tattica, questa, volta a far sì che l’orso russo controlli i suoi cuccioli, i quali, troppo piccoli per essere pericolosi, ne subirebbero la volontà. È una tattica, del resto, che non è stata adottata né in Cecenia né in Daghestan, dove le istanze indipendentiste collidono con gli interessi di Mosca. In tutti i casi i progetti del Cremlino sono scombussolati dallo spettro del Kosovo e dai raid terroristici. Mosca ha sempre negato il suo appoggio all’autodeterminazione della piccola regione balcanica, proprio perché timorosa di una ripercussione esemplificativa nel Caucaso. Ieri, dopo l’attentato, Vladikavkaz è stata messa sotto una campana di vetro da parte delle forze di polizia. Tutte le scuole dell’Ossezia del Nord sono state evacuate. Il ricordo del massacro di Beslan, nel 2004, è ancora vivo. Quei 330 morti, di cui 168 bambini, uccisi nello scontro fra i mujaheddin e le forze speciali mandate da Putin non possono essere dimenticati. Del resto l’opinione pubblica russa non si fida nemmeno del suo governo. Ieri il Primo ministro Vladimir Putin si è rivolto ai cittadini di fede musulmana perché contribuiscano alla lotta contro il terrorismo. La Russia però è conscia che le reazioni delle istituzioni centrali possono essere tanto violente da provocare ancora più morti di un singolo attentato.
quadrante
pagina 16 • 10 settembre 2010
Usa. Dalla Florida il religioso ribatte: «Se me lo chiedono, pronto a rinunciare» opo Petraeus, la Clinton, Gates, l’Onu, il Vaticano, la Nato, la Ue e perfino Angelia Jolie, alla fine all’appello mancava soltanto lui: Barack Obama. Che ieri ha rotto il silenzio e nell’imminenza dell’anniversario dell’11 settembre ha condannato l’intenzione del reverendo Terry Jones di fare delle copie del Corano un grande falò. Un rogo in grado di incendiare tutte le piazze musulmane del pianeta e, parole del presidente Usa, «di fare il gioco di al Qaeda nel reclutare i terroristi». Un tema al quale padre Jones non si è mostrato insensibile, mandando a dire alla Casa Bianca - tramite un’intervista rilasciata al quotidiano Usa Today - di essere pronto «a riflettere su un’eventuale rinuncia» qualora le autorità gli facciano una chiamata diretta. E qui si insinua un dubbio: al netto del fatto che il reverendo battista sia chiaramente un fanatico provocatore (oltretutto, visto i trascorsi, poco credibile) e che dunque, come ogni egocentrico che si rispetti, non gli siano bastate le dichiarazioni del Segretario di Stato, del comandante in capo della Difesa e del comandante in capo della missione in Afghanistan del suo Paese, più almeno un’altra dozzina di personalità illustri di mezzo mondo, c’è un fondo di verità nel fatto che nessuno - non dico un ministro, ma almeno uno del suo staff - sia andato a farci una chiaccherata?
D
Se così fosse, considerando che gli unici che lui ha detto di aver visto sono stati gli uomini dell’Fbi arrivati per organizzare le misure di sicurezza, sarebbe un segnale punto grave. Perché seppur vero che la sua azione è protetta dal diritto alla libertà di
Obama (forse) ferma il rogo del pastore Jones Il presidente condanna i propositi del reverendo: «Un favore ad al Qaeda» di Luisa Arezzo
Florida, erano già stati in molti. Parole di fuoco si erano sollevate da ogni angolo musulmano del globo, a partire dall’Iran di Ahmadinejad per finire con il Fronte di azione islamica, il braccio politico della Fratellanza Musulmana che senza tanti giri di parole ha detto «che bruciare il Corano equivale a una dichiarazione di guer-
Le dichiarazioni di Barack sono arrivate dopo la lettera del presidente indonesiano per fermare il “Burn a Koran Day” indetto per domani espressione e che dunque ogni atto teso a un impedimento, come detto dal sindaco di New York Michale Bloomberg, sarebbe anticostituzionale, è anche vero che una pacifica chiaccherata in punta di diplomazia non può essere letta in questa direzione. Le prossime ore forse chiariranno la questione, ma nel frattempo la Casa Bianca si è esposta. A chiedere un suo intervento diretto sulla sfida lanciata dal pastore della chiesa evangelica di Gainesville, in
ra». Ma a convincere la Casa Bianca - oltre ai report del generale David Petraeus, alle richieste del presidente pakistano Zardari, a quelle del governo indiano e a quelle del premier iracheno Nuri al Maliki - sembra essere stata la lettera ricevuta ieri mattina dal presidente dell’Indonesia (dove Obama ha trascorso la sua infanzia) Susilo Bambang Yudhoyono, che governa la più grande comunità islamica del mondo. Nella lettera, ha spiegato un portavoce della presidenza Usa,
Dal 2005 ad oggi le provocazioni più eclatanti
Tutto iniziò con le vignette l caso più clamoroso è senz’altro quello delle vignette satiriche danesi su Maometto che nel 2005 provocarono sia minacce di morte ai 12 autori sia la crisi diplomatica più grave per la Danimarca dal dopo guerra. In molti Paesi musulmani vennero assaltate le ambasciate danesi e bruciate le bandiere, tanto che negli scontri morirono oltre cento persone. I prodotti danesi vennero boicottati provocando all’industria miliardi di perdite. Sempre al 2005 risale un episodio di profanazione del Corano. Il settimanale Newsweek riportò la notizia che alcuni ispettori militari avevano trovato le prove che alcune guardie di Guantanamo avevano gettato nel gabinetto copie del libro sacro per mettere sotto
I
pressione i detenuti. Ne seguirono imponenti manifestazioni di protesta a Gaza, in Cisgiordania, in Pakistan e in Afghanistan con più di 14 persone uccise. Nel 2008 in Afghanistan e in Iraq le proteste di migliaia di persone a seguito del gesto di un soldato americano che aveva profanato il Corano sparando su una copia del libro in una esercitazione, avevano costretto l’allora presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, alle scuse, mentre contorni più drammatici assunse la profanazione del testo sacro all’Islam nell’agosto del 2009, in Pakistan. Un gruppo di musulmani in collera per l’offesa attribuita ai cristiani ne uccise 7, tra cui un bambino, bruciandoli vivi e provocando l’orrore dell’Occidente.
Yudhoyono avrebbe sottolineato il rischio che il rogo progettato dal pastore Terry Jones «vanifichi gli sforzi che Indonesia e Stati Uniti stanno facendo per costruire relazioni tra l’Occidente l’Islam». «È profonda - afferma la missiva - la preoccupazione che il rogo inneschi un conflitto tra le religioni». Un conflitto che alla vigilia dell’anniversario dell’attentato alle Torri Gemelle, negli Stati Uniti è più vivo che mai: basti pensare alla polemica per la costruzione della moschea nei pressi di Ground Zero. Un progetto al quale Barack Obama non sembra affatto reticente, tanto da essere finito di recente nel mirino delle critiche repubblicane (e non solo).
Così, dopo giorni di incalzante polemica, in un’intervista alla rete televisiva Abc il presidente americano ha definito il gesto del pastore della Florida «fruttuoso per la campagna di reclutamento di al Qaeda» e «in grado di generare violenze gravi in Afghanistan, in Pakistan e di alimentare il reclutamento di individui desiderosi di farsi esplodere nelle città americane ed europee. Spero che costui (Jones, ndr) sia uno motivato dalla fede». A mettere il dito nella piaga della sicurezza interna era stato, poche ore prima, l’Imam di New York, Feisal Abdul Rauf (generando una serie di breaking news su tutte le tv Usa) dichiarando alla Cnn che l’avallo o meno al progetto della moschea è in grado di trasformarsi in un problema di sicurezza nazionale. Così come la scelta di bruciare le copie del Corano. Intanto, mentre l’Islam radicale si sta preparando a un confronto duro - minacce di attacchi e proteste stanno arrivando un po’ dappertutto - si muove anche l’Islam moderato. Il rettore dell’Istituto musulmano della Grande Moschea di Parigi ha invitato a non reagire al rogo del Corano minacciato dal pastore della Florida: «Chiedo ai miei correligionari di non cedere alla provocazione e di rispondere con saggezza, esprimendo compassione», ha dichiarato Dalil Boubakeur. E all’insegna dello slogan Learn, don’t Burn, il Council on American-Islamic Relations (Cair), un gruppo islamico statunitense per la difesa dei diritti civili, ha pensato di distribuire, tra venerdì e sabato, 200mila copie del libro sacro dei musulmani, in sostituzione delle 200 copie che la Chiesa evangelica in Florida vuole ridurre in cenere.
quadrante
10 settembre 2010 • pagina 17
Il dissidente cinese ha passato 4 anni in carcere e 2 in un laogai
Il leader della Rivoluzione comunista fa auto-critica
Liberato Chen Guangcheng, nemico degli aborti forzati
Castro contro il socialismo: «È inutile per Cuba»
PECHINO. Uno dei più noti attivisti per i diritti umani cinesi, l’avvocato cieco Chen Guangcheng, è stato rilasciato ieri dalla prigione di Linyi (Shandong) dopo aver scontato una condanna di quattro anni e tre mesi. Chen era stato processato per “danno alla proprietà e raduno di folla con disturbo al trasporto pubblico”. In realtà egli aveva denunciato aborti forzati e sterilizzazioni nelle campagne di controllo per la popolazione. Aveva anche aiutato la popolazione locale a documentare le violenze della legge sul figlio unico e a perseguire gli autori. Le sue denunce avevano generato manifestazioni pubbliche.
L’HAVANA. Una rivoluzione
Chen, 39 anni, è giunto a casa sua alle 6 di ieri mattina, trasportato dalle autorità della prigione. Secondo i suoi amici e sostenitori egli appare provato, debole e magro. Dal 2008 in prigione ha sofferto di gastroenterite cronica, ma non gli è mai stato concesso di curarsi. Talvolta è stato anche picchiato da altri prigionieri. Incontrando amici e parenti, Chen ha dichiarato: «Non sono cambiato per nulla… Voglio ringraziare tutti gli amici che si sono preoccupati di me». Sua moglie Yuan Weijing è stata sempre vicina a lui. A causa di ciò anche lei ha
Scandalo Bettencourt, perquisizione nell’Ump La polizia cerca le prove delle tangenti a Sarkozy di Massimo Fazzi on sarà di certo una Tangentopoli in salsa francese, ma la perquisizione che la polizia ha effettuato ieri nei locali della sede dell’Ump, il partito che ha vinto le ultime presidenziali e che ha assiso sull’Eliseo Nicolas Sarkozy, non deve aver fatto piacere ai boiardi della politica d’Oltralpe. Anche perché la sgradita visita rientrava nell’ambito di quell’inchiesta chiacchierata, la stessa che ha tenuto banco in Francia negli ultimi mesi, che riguarda le presunte tangenti versate dall’ereditiera dell’impero L’Oreal, Lilian Bettencourt, ai politici. Si è trattato della prima volta che la sede del partito del presidente viene perquisita; l’informazione, confermata da Xavier Bertrand, (segretario generale del partito), è stata diffusa dalla rivista Paris Match. A dare retta al giornal, la perquisizione è legata alla concessione della Legion d’onore a Patrice de Maistre, il gestore della fortuna della miliardaria. Gli inquirenti sospettano che l’onoreficienza possa essere il frutto di pressioni dell’attuale ministro del Lavoro Eric Woerth, più volte citato nell’inchiesta e presunto amico di de Maistre. Per questo, gli agenti stanno cercando la traccia di una lettera spedita nel marzo del 2007 da Woerth, all’epoca tesoriere dell’Ump, a Nicolas Sarkozy, allora ministro dell’Interno e presidente del partito, nella quale si sosteneva la richiesta della Legion d’Onore. L’Ump ha confermato di aver ricevuto la visita del polizia. «Non si tratta di una perquisizione. Alcuni agenti si sono recati nei nostri uffici per richiedere alcune informazioni», ha spiegato una portavoce, senza specificare la natura delle informazioni richieste.Tuttavia, il caso è destinato a creare scalpore. Perché unisce industrie e politica in una situazione, quella francese, che ha fatto della questione morale un caposaldo. A dare la stura al tutto è stata la figlia unica del fondatore di L’Oreal, Eugene Schueller, e vedova di un ex ministro gollista, Andrè Bettencourt: Liliane Bettencourt, 87 anni e una delle persone più ricche e influenti al
N
mondo. Famosa ma discreta, Bettencourt è finita sotto i riflettori quando il 19 dicembre 2007 la sua unica figlia, Francoise Meyers-Bettencourt, decise di adire le vie legali temendo che la madre, titolare di una fortuna di oltre 20 miliardi di euro, potesse essere circuibile data l’età avanzata e potesse quindi dilapidare inconsapevolmente il patrimonio. A finire sul “banco degli imputati” è stato Francois-Marie Banier, a causa di alcune assicurazioni sulla vita, del valore stimato di 1 miliardo di euro, che l’ereditiera del gruppo L’Oreal ha stipulato proprio a favore dell’amico fotografo e di alcuni regali per centinaia di milioni di euro effettuati sotto la forma di assegni bancari e di opere d’arte tra il 2001 e il 2007.
Liliane Bettencourt, nei mesi scorsi, ha confermato l’esistenza delle polizze, spiegando di sapere bene quello che fa e sostenendo che può sponsorizzare chi vuole. La quota della famiglia Bettencourt è detenuta attraverso la holding Tethys. I titoli appartengono in nuda proprietà alla figlia di Liliane Bettencourt e ai due figli di BettencourtMeyers ma la miliardaria non ha delegato ancora i suoi poteri. Il giudice ha chiesto ulteriore informazioni sulle registrazioni telefoniche clandestine effettuate dal maggiordomo dell’ereditiera, nelle quali si sente il gestore del patrimonio di Liliane, Patrick de Maistre, parlare di sospette manovre per aggirare il fisco francese e imbarazzanti connessioni con l’Eliseo e alcuni ministri, tra cui Eric Woerth. Sempre ieri, un’altra tegola ha colpito il presidente francese: con una votazione favorevole, infatti, il Parlamento europeo riunito in sessione plenaria ha adottato una risoluzione in cui si chiede alla Francia e agli altri Paesi dell’Ue di «sospendere immediatamente» le espulsioni dei rom. La risoluzione, presentata da socialisti, liberali, verdi e comunisti, ha ottenuto 337 voti a favore e 245 contrari. Ma Parigi ha risposto sfidando di petto la riunione di Strasburgo: «Noi andiamo avanti».
Il Parlamento europeo condanna la scelta di cacciare i rom dal Paese, ma Parigi sfida Strasburgo: «Andiamo avanti»
subito controlli, arresti domiciliari e isolamento. In questi anni giornalisti o visitatori che osavano recarsi da lei sono stati bloccati e picchiati dalla polizia; il suo telefono è tenuto sotto controllo e la sua linea internet è stata tagliata negli ultimi quattro anni. Chen ha però denunciato torture in carcere. Nei mesi scorsi sette membri bipartisan del Congresso Usa lo hanno candidato al Nobel per la Pace insieme ad altri due attivisti cinesi, tra cui proprio l’avvocato di Chen, scomparso misteriosamente dal febbraio 2009 finché la moglie non ha denunciato che è detenuto in un carcere statale dove è stato torturato e seviziato.
nella Rivoluzione. Dopo due mesi dalla sua ricomparsa in pubblico, Fidel Castro parla per la prima volta sulla situazione di Cuba per dire che il modello socialista introdotto da lui nel 1959 non è più appropriato al Paese. «Il modello economico cubano non è più adatto a noi». È stata questa l’unica frase pronunciata dal “Lider Maximo”su Cuba, da anni con gravi problemi economici, in un’intervista al mensile statunitense The Atlantic. Così ha risposto quando il giornalista Jeffrey Goldberg gli ha chiesto se il modello economico di Cuba, l’unico Paese comunista dell’America Latina, si potesse ancora esportare in altri Paesi.
Goldberg ha intervistato Fidel la settimana scorsa all’Avana. Questo è il primo riferimento che fa l’ex presidente, 84 anni, alla situazione del Paese da quando è ricomparso in pubblico lo scorso 7 luglio, dopo quattro anni di assenza per malattia. Nelle sue apparizioni pubbliche Fidel ha parlato sul rischio che esiste, secondo lui, di una guerra nucleare tra gli Stati Uniti e l’Iran.
Un anno dopo essere arrivato alla presidenza, Raul Castro, 79 anni, ha promesso nel 2007 “cambi strutturali”, ammettendo che lo stipendio medio, di circa 20 dollari mensili, non è più sufficiente, e l’opposizione ha chiesto da allora l’attuazione di questi cambiamenti. Nella prima sessione parlamentare di quest’anno, tenutasi ad agosto, Raul ha annunciato che il governo continuerà ad affidare in gestione piccoli negozi ai loro dipendenti, andando dunque oltre le botteghe di barbiere, ma senza puntare ad una vera economia di mercato. Nell’annunciare l’aumento del numero dei liberi professionisti e la riduzione dei lavoratori statali, Raul Castro ha definito queste decisioni un “cambio strutturale”per rendere il sistema socialista “sostenibile” nel futuro.
pagina 18 • 10 settembre 2010
speciale venezia
Cartolina da Venezia. Nonostante un cast brillante, ciò che non convince è quella sensazione di girare sempre su se stessa che la pellicola trasmette
Il flop di Costanzo jr Troppo compresso e senza ritmo narrativo “La solitudine dei numeri primi”, quarto film italiano in concorso al Lido di Alessandro Boschi
VENEZIA. Berlusconi può stare tranquillo. Se l’opposizione è quella che ancora oggi fischia all’apparire del marchio Medusa sullo schermo pensando di fare cosa intelligente, magari di sinistra, non ci saranno crisi di governo, gianfranchifini e antonidipietro in grado di rovesciare l’attuale maggioranza. È quello che è successo anche ieri mattina, all’inizio della proiezione del quarto film italiano in concorso a Venezia, La solitudine dei numeri primi diretto da Saverio Costanzo. Il guaio è che però, guaio per il regista, intendiamo, che gli stessi fischi e ululati si sono levati anche sui titoli di coda.
Diciamolo subito, il film del figlio di cotanto padre non è un film riuscito. Quella di Saverio Costanzo è una carriera bizzarra. Tre i lungometraggi realizzati. Prima di questo Private e In memoria di me. Bizzarra perché entrambe queste due opere sembravano quelle di un autore a fine corsa, e non le sue tappe d’esordio. In particolare la completezza, peraltro spesso imperfetta di In memoria di me, lasciava trasparire una notevole padronanza nel gestire un ampio spettro di tonalità narrative. La solitudi-
Non si capisce cosa veramente interessi al regista, se l’indagine psicologica o la ricerca di una soluzione esistenziale per entrambi i protagonisti: Alice e Mattia
ne dei numeri primi, tratto dal fortunato racconto di Paolo Giordano che ha collaborato anche alla stesura della sceneggiatura, contraddice in parte questa impressione. Il film parte con tonalità horror. Non a caso Saverio Costanzo ha affermato in proposito: «È la storia dei corpi di Alice e Mattia. Del loro stravolgimento nel corso di un ventennio (1984-2007). Credo che La solitudine dei numeri primi sia un horror sentimentale sulla famiglia e sulla sua impossibile emancipazione, accompagnato dalle note blu elettrico di un synt analogico». In effetti la musica è una componente importante. Affidata all’eclettico Mike Patton si riceve subito l’impressione che in realtà sia stata composta dai Goblin di Profondo rosso. Di sicuro è a quelle composizioni chi Patton si è ispirato, compresa la cantilena di bambini che ha terrorizzato gli spettatori di mezzo mondo. Ma è ancora più pertinente il riferimento di Costanzo allo stravolgimento dei corpi. In particolare quello di Alba Rohrwacher, che durante le riprese deve essersi sottoposta a delle vere e proprie (ed estreme) diete dimagranti. Esattamente il contrario di quello che succede all’altro protagonista, Luca Marinelli, visibilmente ingrassato nelle ultime inquadrature. Come se il peso perduto da Alice si fosse trasferito su Mattia. Ammesso e non concesso che il film sia stato girato in consecutiva, seguendo cioè l’ordine temporale della sceneggiatura. Ora, se per quello che riguarda Luca Marinelli l’ingrassamento potrebbe essere frutto di un effetto ottico o di un trucco, è invece evidente e incontestabile l’impressionante dimagrimento subito da Alba Rohrwacher. Non solo. La sua trasformazione in anoressica per giunta claudicante ha del prodigioso: non è solo il suo corpo che cambia, ma anche il suo spirito, la sua espressione, i suoi occhi. Se vi capiterà di vedere il film fate attenzione alla sequenza in cui Alice si reca per la prima volta a casa di Mattia. C’è una scena in cui corre verso il bagno (azione che compie spesso) durante la quale inciampa in una sedia e rotola a terra.
Sembra quasi un errore, una scena montata per sbaglio (fatto questo che non avviene mai...), e invece siamo convinti che Alba, magari facendosi davvero del male, l’abbia provata e riprovata. Anche Marinelli, con una ricca carriera teatrale nel curriculum e alla sua prima esperienza sul grande schermo, ha comunque offerto una prova dignitosissima. Così come l’Alice intermedia, inter-
pretata dall’esordiente Arianna Nastro, una Antonia Liskova in miniatura. Ma anche gli altri attori, a partire da Isabella Rossellini, se la cavano egregiamente, alla prova come sono con mezzi toni e personaggi “interiori”. Eccezion fatta per Maurizio Donandoni, perfetto nel ruolo del padre eccessivo e prepotente. Ciò che non convince è quella sensazione di girare sempre su se stesso che il film trasmette. Nonostante l’arco temporale di vari anni che la vicenda copre, tutto sembra raggrumato in poche scene che vengono egregiamente preparate dal regista ma che non riescono a scandire nessun ritmo narrativo. Che non sia quello, evidentemente voluto, di una faticoso emanciparsi dei personaggi dai propri traumi infantili e dalle proprie paure. Molte cose sono state appositamente lasciate sullo sfondo, proprio per significare l’inutilità che rivestono
speciale venezia
10 settembre 2010 • pagina 19
In apparenza è il remake dell’omonima opera di Kudo. In realtà è ispirato a “I sette samurai”
Sorpresa: è “tornato” Akira Kurosawa
Il lavoro di Takashi Miike “13 Assassins”, storia di un gruppo di samurai deciso a proteggere la popolazione locale da violenze e soprusi di Andrea D’Addio
VENEZIA. Quando lo scorso fine luglio fu annuncia-
Alcune scene del film di Saverio Costanzo (a fianco) “La solitudine dei numeri primi”, tratto dal libro di Paolo Giordano (a sinistra, la copertina). A destra, scene del film “13 Assassins” di Takashi Miike nelle vite dei due protagonisti, i numeri primi del film, quelli che sono «numeri solitari e incomprensibili agli altri». Non assistiamo però a una scelta registica di fondo.
Non si capisce cosa veramente interessi a Costanzo, se l’indagine psicologica o la ricerca di una soluzione esistenziale per Alice e Mattia. Paradossalmente, paradossalmente perché come dicevamo è il suo terzo, La solitudine dei numeri primi è il meno maturo tra i lungometraggi. Di certo rappresenta l’abbandono di una dimensione claustrofobica sperimentata con Private e In memoria di me, dove tutto era circoscritto a una dimensione temporale e ambientale ben precisa. Il film esce nelle sale in 380 copie. Difficile prevedere un grande incasso. Costanzo è comunque un regista che vale la pena seguire, anche nelle avventure meno riuscite. Sperando che non tutti la pensino come quell’arzilla signora di una certa età che uscendo dalla proiezione ha commentato con un’amica: «Se gapì che ‘sti fioli c’han problemi, ma alla fine te venia voglia de coppalli tutti e de». La traduzione e facile, l’intenzione in parte condivisibile.
to il programma di Venezia, nessuno si sorprese per la presenza di ben tre film di Takashi Miike. Da una parte il direttore della Mostra, Müller, è da sempre stato un amante del cinema orientale, e Miike ne è da più di dieci anni uno dei maggiori esponenti, dall’altra lo stesso presidente di giuria Tarantino ne è un fan, tanto da essersi prestato a una piccola partecipazione da attore nel 2007 in Sukiyaki Western Django. Insomma, il regista giapponese aveva degli ottimi alleati. Ma non è tutto. Il più importante dei suoi tre film, inserito nella competizione ufficiale del Festival, si intitola 13 Assassins e parla di un gruppo di samurai decisi a proteggere la popolazione locale dalla violenza e dai soprusi di cui è continuamente vittima. Detta così, sembrerebbe la stessa sinossi di I sette samurai, massimo capolavoro di quell’Akira Kurosawa di cui quest’anno ricorre il centesimo anniversario dalla nascita e di cui le celebrazioni, loghi di Google, e omaggi di vario tipo, vanno avanti dallo scorso marzo. E infatti 13 Assassins, seppur nominalmente sia il remake dell’omonima pellicola diretta nel 1963 da Eichi Kudo, di fatto ne prende giusto le linee narrative, visto che all’epoca la stessa stampa giapponese lo definì «una tiepida rielaborazione di I sette samurai». Insomma, Miike la prenda alla larga, ma lo stile rigoroso (caso raro nella sua filmografia, spesso emblema del pulp), l’idea di una missione suicida alla base del racconto, le atmosfere cupe e quel senso di malinconia e di impossibilità della catarsi nonostante la vendetta, sono un chiaro cenno di intesa e ripresa del cinema di uno dei più grandi cineasti di sempre.
ciata dal potere di un nobile, fratello dello shogun e quindi al di fuori della legge. Una storia tratta da un episodio vero ormai leggenda, e che si risolse con un’epica battaglia tra l’esercito e il piccolo gruppo di nobili guerrieri del titolo. «Difficilmente i samurai avevano paura di rischiare la vita, combattevano i nemici indipendentemente dal numero di questi. Il piacere di potere dirigere film su di loro è che gli si può far compiere in una sola notte ciò che in un dramma contemporaneo richiederebbe cento giorni e più. Sono inoltre ottimi veicoli per raccontare temi universali come l’amore, la vendetta, il desiderio di giustizia e la violenza».
Oltre a 13 Assassins, sono Zebraman e Zebraman 2: Attack The Zebra City i film di Miike presenti a Venezia. Il primo risale al 2004 ed è la storia di un improbabile superoe mascherato, sulla falsariga di alcuni personaggi della televisione giapponese degli anni ’60. Il film in Italia non venne distribuito nei cinema, ma si è costruito una fama da piccolo cult, tanto che la proiezione di ieri è stata letteralmente presa d’assalto dal pubblico e dalla critica più giovane. Il secondo ne è l’inedito sequel, pronto forse questo a sbarcare anche da noi grazie all’onda lunga del passaparola. «Il primo Zebraman, fu girato quasi come un gioco, e sorprendentemente ha avuto riscontri positivi. Con il seguito ho ripreso lo stesso personaggio con maggiori capacità produttive, ma vorrei comunque che Zebraman rimanesse un oggetto di culto, non un successo di grande pubblico, anche se forse i produttori preferirebbero il contrario». Una speranza condivisa dallo stesso Müller, che con il Takashi Miike’s day di ieri, ha esplicitamente strizzato l’occhio ai gusti dei cinefili di ultima generazione. Un’operazione di vera e propria riabilitazione per un autore da molti considerato spesso come un semplice mestierante, al di là di alcuni film di livello (come Audition e Ichi the killer), ritenuti però casi eccezionali all’interno di un mare di titoli dimenticabili. Non che il giudizio sia del tutto sbagliato: al di là dei gusti di ognuno, ci si può spingere a dire che alcuni di Miike siano oggettivamente indigestibili, con scelte visive e narrative spesso tanto estreme quanto fallimentari, ma di tutto questo ne è forse conscio lo stesso regista che, non a caso, preferisce lavorare con piccoli budget: «Trovo in questi progetti enorme libertà creativa. Filmare per me è un’esigenza, sono sempre alla ricerca di qualcosa che assorba i miei pensieri, e questo succede con il cinema. È come una dipendenza». Da uno che ha girato più di trenta film negli ultimi dieci anni, una media di uno ogni quattro mesi, c’è davvero da credergli.
«Filmare è ormai un’esigenza», ha detto il giapponese. «Sono alla ricerca di qualcosa che assorba i miei pensieri»
Se con i vari Ran, Rashomon e Dersu Uzala, Kurosawa aveva cambiato non solo il cinema epico giapponese, ma influenzò anche quello occidentale (persino Guerre Stellari ha tratto parziale ispirazione dal suo film La fortezza nascosta), ora Miike cerca con la stessa passione di attraversare generi, nazionalità (ha ultimamente girato per gli Usa un episodio dei Masters of Horror) e tipologia di pubblico. «Avevo 9 anni all’epoca di I sette samurai e 3 all’epoca di 13 Assassins. Ho deciso di raccontare nuovamente questa storia perché alla mia generazione mancano pellicole di quel genere, non si rappresentano più i samurai, il loro coraggio e codice etico, e così è necessario sempre voltarsi ai lavori del passato.Rappresentavano il Giappone, potrebbero forse rappresentarlo ancora. Sono sempre alla ricerca di sfide, e ho deciso di intraprendere questa», ha affermato il regista durante l’incontro di circa un’ora avuto con la stampa. Con 13 Assassins, si ritorna all’epoca del Giappone feudale, quando la pace era minac-
cultura
pagina 20 • 10 settembre 2010
Libri. Il capolavoro di Gilbert Keith Chesterton torna in libreria con una nuova traduzione grazie alla casa editrice Lindau
La rivoluzione dell’Ortodossia di Marco Respinti on è certo la parola più à la page quella con cui la penna arguta e talvolta (opportunamente) caustica di Gilbert Keith Chesterton (1874-1936) scelse d’intitolare uno dei suoi libri più famosi, forse davvero il primo a portarlo alla conoscenza, nel 1908, anno della pubblicazione originaria del testo, del grande pubblico: Ortodossia. Per anni il pubblico italiano ha campato di rendita, e parecchio bene, grazie alla traduzione classica offerta illo tempore dalla Morcelliana di Brescia, tirata in diverse migliaia di esemplari e diffusa attraverso numerose ristampe. Oggi invece, scaduti quei canonici anni dalla scomparsa di un autore che ne trasformano le opere in patrimonio comune facilmente attingibile da ciascuno, Ortodossia torna in una nuova traduzione, guarnita di una Nota biobibliografica e dell’elenco delle Opere di Chesterton preparati da Marco Sermarini, Presidente della Società Chestertoniana Italiana. La pubblica a Torino Lindau (pp.256, euro 18,00, una casa editrice che non fa mistero di essersi letteralmente innamorata dell’estro e del genio del grande scrittore inglese, e che quindi in questo ambito ci regala davvero una perla dopo l’altra.
N
L’ortodossia, si diceva, non è un concetto di moda. Per i più è espressione d’altri tempi, oscura al punto da divenire afona; per altri richiamerebbe epoche illiberali dove l’“autorità” e l’“obbedienza”avrebbero soffocato l’uomo; per i meglio informati, rectius i più maliziosi, quelli cioè che sanno di che si tratta, quel concetto, anzi la sua stessa idea, è invece il nemico pubblico numero uno. Ci vuole un bello stomaco, infatti, per mandare giù quella pillola che dice che non è affatto vero che le “opinioni sono tutte uguali”, che i “gusti non sono discutibili” e che “ognuno faccia come gli pare”, ma che invece, tutt’al contrario, esiste un modus in rebus del pensare, del ragionare, del concettualizzare e quindi persino dell’agire. Che vi è un modo certo - l’intransigenza è tutta voluta - di usare la testa e quindi di adeguarvi le membra, tale per cui non è lecito dar sfogo a qualunque e tutte le fantasie, persin le perverse (e affinché siano tali non vi è certo bi-
Ortodossia è di fatto il seguito di Eretici, del 1905, testo con cui Chesterton spara a zero sulla pusillanimità degli “antisociali” odierni incapaci di avere la benché minima coerenza di un pensiero forte, sbagliato dal suo punto di vista, ma se non altro appunto diginitosamente forte
sogno di lasciar correre l’immaginazione allo scabroso: basta semplicemente guardarsi attorno nella politica del doporesponsabilità, nella cultura del dopo-bene comune, nel giornalismo del dopo-deontologia).
Un modo, cioè, di usare l’intelligenza per rendersi conto di quanto ci circonda, del suo senso e persino dell’insondabilità del suo mistero, e per di più di come tutto questo sia insito nella natura stessa di come le cose sono fatte prima di noialtri e di lorsignori. Un modo, ancora e infine, per non vagare come ciechi in una città di muti e di
per definizione. E questo, mirabile auditu, in forza, magnifica, della natura intrinseca di come la realtà è quel che è (ci piaccia o no), non per effetto di una freudiana introversione di un comando esterno nel nostro io disperso. Roba, cioè, da laici veri e seri, cioè da uomini plasmati da quell’unico, sublime, sovrano e portentoso umanesimo che è il rispetto e la tutela dell’uomo così come esso è fatto prima che noi stessi ci si mettesse, disgraziatamente, mano. E che ciò sia così tanto vero lo testimonia maravigliosamente il fatto che il buon Chesterton
testo con cui Chesterton spara a zero sulla pusillanimità degli “antisociali” odierni incapaci di avere la benché minima coerenza di un pensiero forte, sbagliato dal suo punto di vista, ma se non altro appunto diginitosamente forte. A chi reagì allora insinuando che egli criticasse solo senza proporre alternative, Chesterton rispose appunto con il bell’Ortodossia, la cui
Scrisse l’opera molto prima del 1922, anno della sua conversione al cattolicesimo. Dunque non lo fece per compiacere le “istituzioni” o il “potere”, ma seguendo la sua (poco ortodossa) idea della fede sordi, menando colpi scomposti alla carlona a destra e alla rinfusa a manca, ma rispettando la norma stessa di come le cose sono fatte da chi, bontà sua, così le ha fatte. Ovvio, dunque, che l’“ortodossia” sia concetto che sconvolge: impedisce che gli “io penso” e gli “io penso dunque sono” abbiano il sopravvento sull’unica via far esercizio corretto di ragione, che è il raccordare detta ragione alla misura delle cose, e non viceversa, piegando insomma la prima sulle seconde che sono date sempre e comunque e
scrisse Ortodossia anni-luce prima di divenire cattolico (fede a proposito della quale egli comunque disse, dopo, che allarga la mente degli uomini...), cosa che accadrà nel 1922, ovvero lo fece non per compiacere (come direbbe qualcuno) l’“istituzione” o il “potere”, ma seguendo il suo mero essere umano e una certa sua idea a tratti davvero personale di cristianesimo, affascinante, sì, ma se proprio vogliamo non sempre perfettamente... ortodossa.
Prese dunque svarioni e pure inciampò, ma scrisse comunque sempre cose da uomini, da uomini interi. Anzi, Ortodossia è di fatto il seguito di Eretici, del 1905 (trad. it., Lindau, 2010),
forza non è il rivendicare l’imposizione di un pensiero unico ma l’innamorare a un unico pensiero: dite pur quel che volete, se credete, ma fatelo bene, con coraggio, da uomini.
Solo così, infatti, Chesterton riteneva possibile il confronto. Fra lupi, orsi, squali di parrocchie diverse: come si potrebbe del resto immaginare un duello fra amebe o meduse? Se fosse vissuto oggi invece che allora, Chesterton ne avrebbe scritti dieci di Ortodossia. È in questo dizionario di buon senso per l’uomo comune (che non è l’uomo medio) che trova posto e contesto una famosa boutade spesso viene citata senza saper dove correttamente stia di ca-
sa, ed è essa che spiega bene il bisogno chestertoniano di una “retta opinione” sul mondo a cui segua poi una “retta azione”. Scrive grandiosamente Chesterton: «Se dico: “I documenti medievali attestano certi miracoli come attestano certe battaglie”, mi si risponde: “Ma gli uomini del Medioevo erano superstiziosi”; se volete sapere in che cosa erano superstiziosi, l’unica risposta definitiva è che credevano nei miracoli. Se dico: “Un contadino ha visto un fantasma”, mi si ribatte: “Ma i contadini credono a qualsiasi cosa”. Se chiedo: “Perché credono a qualsiasi cosa?”, l’unica risposta è che vedono i fantasmi. L’Islanda non esiste perché l’hanno vista solo degli stupidi marinai, e i marinai sono stupidi soltanto perché dicono di avere visto l’Islanda». Una lucida, che dico, limpida apologia della ragione umana, insomma, prima di ogni suo rattrappimento. Sfido che alla fine GKC abbracciò a membra spalancate la cattedra sempiterna romana. «Forse, dopotutto, è il cristianesimo a essere ragionevole e tutti i suoi detrattori sono pazzi – in vari modi». www.marcorespinti.org
spettacoli
10 settembre 2010 • pagina 21
ove lettere luminose, gigantesche con cui 16 ballerine giocano a ritmo di musica. Vi si nascondono dietro facendo spuntare solo una gamba fasciata dalla calza a rete. La macchina da presa le inquadra in primo piano una a una, come in un rebus, finché la sequenza finale non le cattura tutte fino a comporre la parola Burlesque, il titolo del film che segna l’esordio cinematografico della cantante Christina Aguilera. Altre artiste come lei hanno colorato il mondo del cinema. Da Bjork (Dancin’ in the dark, 2000) Britney Spears (Crossroads, 2002) a Beyooncé (Dreamgirls, 2006) Alicia Keys (Smokin’ aces, 2007) e Norah Jones (Un bacio romantico, 2007).
N
Da vera trent setter non avrebbe potuto girare un film più alla moda. Nel mondo infatti trionfa il neoburlesque, un genere vecchio di oltre un secolo, riesumato e rimodernato, che ormai compare dove meno te lo aspetti. Dal Festival di Sanremo, portato dalla divina Dita Von Teese, al Festival di Cannes, con il film Tournée di Mathieu Amalric, che ha vinto il premio per la regia, fino ai piccoli cineclub dove viene programmato Behind the Burly Q, documentario diretto da Leslie Zemeckis, moglie del regista Robert Zemeckis. Il regista di Burlesque, Steve Antin, ha scelto la Aguilera dopo averla vista esibirsi con le Pussycat Dolls, gruppo pop al femminile fondato da sua sorella Robin Antin. Il film è girato negli studi Sony a Culver City, vicino Santa Monica (California) dove hanno riscostruito il Burlesque lounge, un locale che nella finzione si affaccia sul Sunset Boulevard di Hollywood. Un club in disgrazia che la proprietaria, la ex ballerina Tess (Cher), aiutata dal manager Sean (Stanley Tucci), cerca di salvare. È lì che un giorno si presenta la giovane Ali, fuggita dalla noia dell’Iowa a bordo di un bus Greyhound per inseguire il suo sogno artistico. Si presenta come una cantante. E brava, aggiunge. Le obbiezioni di Tess non la fermano. E sostiene di poter anche ballare. Alla fine Ali canterà, facendo la fortuna sua e del locale. Nel bourlesque lounge Aguilera ha
Musica. Nuovo album e primo ciak sul burlesque per la sempre più eclettica Aguilera
Christina, l’erede di Dita Von Teese di Valentina Gerace
Il regista, Steve Antin, l’ha scelta dopo averla vista esibirsi con le Pussycat Dolls, gruppo pop al femminile fondato da sua sorella Robin Antin stina Aguilera, vende 18 milioni di copie nel mondo. È un enorme successo e i suoi singoli si piazzano ai primi posti delle classifiche del momento: Genie in a bottle, What a girl wants, I turn to you e Come on
una rivale. Kristen Bell, una confidente, Julianne Hough. E un amore, Cam Gigandet, il vampiro cattivo del primo Twilight. Un cast di giovanissimi. A parte Cher, emblema della donna forte, che ritorna sul set in forma smagliante. E Christina che tra poco compirà 30 anni.
Una cantante giovanissima quanto sorprendente, che a soli 8 anni partecipa già a concorsi e spettacoli musicali. Nel 1999 il suo debutto, Chri-
In questa pagina, alcune immagini di Christina Aguilera, scelta dal regista Antin come protagonista del film “Burlesque”
over (All I want is you). Le sue origini latine (di padre ecuadoriano) emergono in Mi reflejo (2000), interamente in spagnolo. Duetta con Ricky Martin, Mya, Pink, Missy Elliot, per la colonna sonora di Moulin Rouge. Provocante e trasgressiva in Stripped, che fa di lei un personaggio sexy, con la collaborazione di Alicia Keys. Si esibisce accanto alla regina della musica pop dance Madonna, Britney Spears, persino Andrea Bocelli nel 2006 al Festival di Sanremo. Oggi la cantante si divide tra l’uscita di Bionic (4 giugno) e il suo debutto cinematografico. Un nuovo Cabaret o Moulin Rouge, dunque, per la cui colonna sonora Christina Aguilera ha composto quattro brani e interpretato una conver del suo mito Etta James. La sua preparazione è complessa, ma la recitazione è l’ultimo aspetto che la preoccupa. Il canto e la forma fisica sono il suo pallino, adesso. Provando e riprovando le coreografie, Christina di certo non deve temere i segni della sua recente gravidanza (suo figlio Max è nato nel gennaio 2008). Scomparsi del tutto. A differenza dei vari videoclip, la Aguilera ammette che il cinema è diverso. Ci entra in punta di piedi. Adesso non è il boss. È una ragazza umile che entra in un mondo nuovo che finora non le apparteneva. Anche se Burlesque non è la prima proposta che riceve. Eppure è l’incontro con Steve Antin che questa volta la convince ad accettare.
La persona più creativa, motivata e preparata che Christina abbia mai conosciuto. A differenza di ciò che può sembrare, Burlesque ha poco a che fare con lo spogliarello. È un’arte che discende dal vaudeville. Ovvero voix de ville, voce della città. E burlesque in francese significa burla. Originariamente erano numeri di danza o canzoni, ispirati ai fatti del giorno. Uno spettacolo per la classe media, a cui persino i bambini facevano assistere. Il film infatti non ha scene particolarmente volgari. Resta uno spettacolo molto sensuale. Accentuato dai costumi, dai colori, dai profumi, dalle musiche e da una particolare scenografia. Ma è dalla parte delle donne che non sono viste come oggetto. Sono corpi femminili in movimento, colorati, che ballano e non hanno paura di mostrare la loro bellezza. Così come Christina che, oramai, non deve più ostentare o dimostrare nulla. Non c’è niente di più naturale della bellezza semplice, fresca, senza pudori. E se in una canzone dice che bacia uomini e donne, è vero. Perché la sessualità la vive in libertà, senza schematismi. E a dirlo è una cantante, un’attrice, una donna. E anche una mamma.
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE
Erbe: venditori e pozioni “magiche” Ha fatto scalpore la notizia della vendita di erbe in pillole, ”afrodisiache”, effettuata da ”vu cumpra’” nelle affollate spiagge italiane. Le erbe ”magiche” hanno sempre accompagnato la nostra fantasia. Ma le pozioni ”magiche”, lo sono veramente? Certamente no, ma le piante, le erbe e le radici usate hanno un loro effetto perche’ contengono sostanze capaci di condizionare il nostro equilibrio psicofisico. Vediamone alcune. Aconito: e’ un ipotensivo e rallenta il battito cardiaco. Da’ la sensazione di volare. Banisteria: provoca l’impressione di essere dotati di facolta’ extrasensoriali. Belladonna: produce eccitazione, deliri, disturbi visivi e auditivi. Burundanga: genera ipnosi. Datura: allucinogeno, crea la sensazione di onnipotenza. Kawakava: provoca rilassamento ed euforia. Mandragora: afrodisiaco, provoca ebbrezza. Peganum harmala: induce euforia. Stramonio: stessi effetti della belladonna. Tabernanthe Iboga: provoca estasi. Come si vede gli effetti di alcune erbe ci sono ma servono soprattutto a chi ce le vende per carpire il portafoglio del malcapitato di turno.
Primo Mastrantoni
TESSERE SCONTO FASULLE. L’ANTITRUST INTERVIENE, ORA LE MULTE L’Antitrust ci riprova e ordina il blocco immediato delle attività di vendita delle società padovane “famose”per le vendite ingannevoli di pseudo tessere sconto. I venditori di varie società padovane si presentano a casa, previa telefonata, regalando una tessera sconto utilizzabile in un centro commerciale in costruzione. Ad una seconda visita, un altro venditore, con mezzi poco ortodossi comunica che c’è l’obbligo di acquisto, fino a 5mila euro di merce. Nonostante le multe Antitrust, queste continuano imperterrite. È da 5 anni che qualcuno denuncia il fenomeno, e purtroppo il sistema italiano permette non solo la reiterazione degli inganni, ma pure l’allargamento del business. Seguendo le tracce fornite dai consumatori vessati, abbiamo assistito negli anni al progressivo estendersi delle vendite truffaldine: prima solo nel Nord Italia, poi in Toscana, Mar-
che e Lazio. Neppure la burocratica magistratura aiuta. C’era stata una denuncia nel 2008 alla Procura di Firenze di un caso specifico accaduto in Toscana, poi il fascicolo è stato inviato per competenza alla Procura di Venezia. Solo nel 2010 si è scoperto che il procedimento era stato archiviato. Intanto queste aziende, cambiando spesso nome, continuano a prosperare ai danni essenzialmente di donne, spesso pensionate. Quando il governo si deciderà a riformare la giustizia civile? Quante vittime di queste truffe e raggiri dovranno arricchire la lobby dei venditori porta a porta padovani? Nell’immediato, speriamo che almeno l’Antitrust le sanzioni adeguatamente. Un venditore ottiene un appuntamento a casa del consumatore. In questo primo incontro l’agente promette che grazie a una tessera il cliente si garantirà un sconto del 30% per acquisti in un centro commerciale che sta per essere aperto nella zona. A parole, nessun
L’Opera di Pechino L’Opera di Pechino è una forma teatrale di Opera cinese sviluppatasi a Pechino a partire dal tardo XVIII secolo. Al suo interno mescola arte drammatica, pantomima, musica, canto e danza. La scena è generalmente un palcoscenico quadrato, con l’azione di solito visibile da tre lati
costo e solo l’impegno ad effettuare almeno un acquisto. I prodotti in teoria disponibili sono biancheria per la casa, coperte, lenzuola, ecc. Quello che, invece, viene fatto firmare è un complicato e ambiguo contratto. Prima di andare via viene preannunciato che dopo qualche settimana, passerà un nuovo agente che consegnerà la tessera. A questo secondo incontro, la musica cambia. Dai toni rassicuranti si passa alle minacce. Se non si
L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
acquista per 2/5mila euro si sarà citati in giudizio e altre frasi “terroristiche” analoghe. E in più viene scaricata della merce a casa del cliente. Merce mai scelta, ma imposta. Come difendersi. Il decreto legislativo 206/2005 permette il diritto di recesso (art.64), senza penale entro 10 giorni, che decorrono dal momento della prima firma, oppure dal momento della consegna della merce.
Lettera firmata
da ”Asahi Shimbun” del 09/09/10
I pescherecci cinesi all’assalto delle Senkaku e isole Senkaku si trovano a nord est di Taiwan e, da lungo tempo, sono un territorio conteso. Se ne parla in termini controversi dal 1879. Sono disabitate e dal 1972 controllate dal Giappone, che le considera parte della prefettura di Okinawa. Anche Pechino avanza delle pretese su quelle isole del Mar cinese e Taipei non è da meno. Cinque isolotti e tre scogli e soprattutto le acque intorno, sono tornate agli onori della cronaca, mercoledì scorso, a causa di un vero incidente diplomatico tra Pechino e Tokyo. Il capitano di un peschereccio cinese è stato arrestato dalle autorità giapponesi. Avrebbe opposto resistenza all’intervento di due motovedette della guardia costiera nipponica tentando anche di speronarne una. Durante le normali manovre di pesca sarebbe entrato nelle acque territoriali giapponesi. Zhan Qixiong, il quarantunenne e capitano del motopesca, non ne avrebbe voluto sapere degli ordini degli ufficiali della marina del Sol Levante. L’episodio sarebbe accaduto, martedì alle prime luci dell’alba, nel Mar cinese orientale, vicino a Kubashima una delle isole dell’arcipelago conteso, che i cinesi chiamano invece Diaoyutai. Zhan è stato poi arrestato, il giorno dopo, a circa sette chilometri al largo dell’isola di Uotsurijima. Dopo l’abbordaggio il capitano è stato tradotto nel porto di Ishigaki a Okinawa nel comando della Guardia Costiera. Il peschereccio con gli altri 14 uomini d’equipaggio hanno raggiunto lo stesso porto in serata. Anche su loro è stata aperta
pre più stretto, dove la sfida con la potenza americana prima o poi avrà luogo. Il capo di gabinetto della presidenza del Consiglio di Tokyo ha espresso timori che l’incidente possa influire negativamente sui negoziati in corso, per lo sfruttamento dei giacimenti energetici del Mar Cinese orientale. La Guardia costiera ha affermato che il peschereccio non avrebbe risposto ai ripetuti richiami delle motovedette di spegnere i motori. Una di queste unità, la Mizuki sarebbe poi stata speronata dal peschereccio, durante una improvvisa manovra di cambio di rotta. Il fatto sarebbe accaduto alle 10.50 del mattino, ora locale, a 15 chilometri nord ovest di Kubashima.
L
un’inchiesta. L’accusa sarebbe quella di pesca illegale. A Tokyo le autorità hanno affermato che l’arresto fa parte della normale procedura in questi casi. Insomma, è stata messa sul tavolo la solita manfrina diplomatica per stemperare il conflitto diplomatico che sapevano sarebbe subito nato. E hanno puntato sul cosiddetto «atto dovuto». Ma la questione, anche se riportata dal quotidiano giapponese in forma di pura cronaca, è abbastanza spinosa. Primo, per la politica di Tokyo che da diversi anni ha investito molto nel rafforzamento della componente navale delle proprie forze armate, costituzionalmente votate solo a compiti difensivi. Secondo, per le prevedibili ambizioni della nuova potenza cinese che guarda al mare come ad un confine sem-
Dopo la collisione il motopesca avrebbe tentato per altre due ore di navigare all’interno della Exclusive economic zone giapponese (Ezz). Allora, sembrerebbe una vera provocazione. Le autorità giapponesi hanno dichiarato che episodi di questo tipo sono in forte aumento da metà agosto. E che circa 270 sono le unità cinesi che operano in quelle acque. Lo stesso giorno dell’incidente altri 160 battelli erano stati individuati in quell’area e una trentina sarebbero entrati nella Ezz. Naturalmente sul fronte cinese si grida alla montatura e i media affermano che questo genere di sconfinamento è frequente e che non si era mai arrivati a misure così drastiche. Insomma, i pescherecci cinesi sarebbero diventati un pericolo solo per i calcoli di Tokyo.
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog osservatorio del lavoro
LE VERITÀ NASCOSTE
di Vincenzo Bacarani
Guidano tagliaerba: denunciati e arrestati DARGAVILLE . Un 52enne della Nuova Zelanda è stato denunciato per guida in stato di ebbrezza dopo che è stato trovato con un tasso alcolico doppio di quello consentito dagli agenti che lo hanno fermato. Nulla di strano, se non che l’uomo stava guidando un tagliaerba, intorno a casa sua. La polizia non è però stata in alcun modo flessibile, e ha applicato la legge alla lettera, fermando l’uomo e confiscando il mezzo per un mese. L’uomo rischia grosso, dato che la patente gli era stata ritirata per una precedente infrazione, e adesso potrebbe anche essere condannato alla prigione. Non è il primo caso di severità estrema
nell’applicazione della legge sulla guida in stato di ebbrezza. In passato, un uomo era stato arrestato in West Virginia, anch’egli perché stava guidando un tagliaerba dopo avere alzato il gomito. Michael Ginevan, invece,è stato intercettato dalla polizia mentre guidava ubriaco. Nonostante abbia tentato di sfuggire agli agenti “lanciandosi” con il suo veicolo nei campi a bordo strada, i poliziotti (a piedi) lo hanno comunque raggiunto e arrestato, con l’imputazione di guida in stato di ebbrezza e di aver tentato di sfuggire alla polizia. Potrebbe essere la cronaca della cattura di un pericoloso pirata della strada, se non
ACCADDE OGGI
LA PIÙ GRANDE FRODE NELLA STORIA DELLA SALUTE MENTALE Sulla scia delle dichiarazioni di uno psichiatra negli Stati Uniti, secondo il quale, a causa di «un grave, ma non diagnosticato» disordine bipolare, avrebbe fabbricato dati e falsificato la sua ricerca sulle malattie mentali, nei tribunali è emerso un altro caso, nel quale gli psichiatri affermano che erano pazzi quando hanno inventato la malattia mentale. Gli avvocati della difesa che rappresentano 10.000 psichiatri sotto processo per la più grande frode nella storia della salute mentale, oggi affermano che i loro clienti sono affetti da una malattia mentale fino a quel momento non diagnosticata (Psychobabblorexia), quando accidentalmente hanno fabbricato 300 false malattie mentali e fatto pensare che loro fossero veri e propri medici. Laureati in numerose scuole psichiatriche prestigiose, gli imputati presto si sono affermati come esperti in prescrizioni, uccidendo celebrità, sradicando la genitorialità e l’istruzione e convincendo le persone che sono mentalmente malate. Nel 2010 sono riusciti a pubblicare 5 milioni di articoli di giornale per convincere tutta la popolazione che non poteva mangiare, respirare, fare la pipì o pensare senza l’aiuto di farmaci. Hanno apportato un cambiamento importante nel trattamento degli esseri umani, in particolare la visione di ogni comportamento umano ad eccezione di tortura, genocidio e terrorismo. Infatti, il cervello è stato accusato di tutto e considerato una sorta di delusione in modo che nessuno fosse molto intransigente quando hanno proceduto a tagliare e
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
10 settembre 1939 - Il Canada dichiara guerra alla Germania
1945 Vidkun Quisling viene condannato a morte per aver collaborato con la Germania nazista 1951 Il Regno Unito inizia un boicottaggio economico dell’Iran 1967 La popolazione di Gibilterra vota per rimanere una dipendenza britannica, piuttosto che diventare parte della Spagna 1974 La Guinea-Bissau ottiene l’indipendenza dal Portogallo 1977 Hamida Djandoubi, condannato a morte per l’assassinio di una ragazza, viene ghigliottinato a Marsiglia. Sarà l’ultima esecuzione capitale eseguita in Francia. 2002 La Svizzera entra nelle Nazioni Unite 2003 Anna Lindh, il ministro degli Esteri svedese, viene accoltellata a morte in un centro commerciale 2006 Michael Schumacher annuncia il suo ritiro dalla Formula 1 2008 Accensione del Large Hadron Collider presso il Cern di Ginevra
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
fosse che Ginevan stava guidando (indovinate un po’...?) un tagliaerba, con cui “addirittura” trasportava una cassa di birra.
abusare in altro modo l’organo incriminato. Ma l’anno scorso un giro di routine del Brain-U-Like Institute, da parte di un gruppo di alunni di dieci anni, ha portato alla luce alcune incongruenze nella ricerca che gli psichiatri avevano usato per stabilire la schiera dei disturbi mentali di cui sopra, la discrepanza principale nella ricerca è che in realtà non era stata fatta. Le voci nel Manuale Diagnostico e Statistico della Psichiatria che si basano sulla ricerca immaginaria sono ormai ritirate, riducendo il manuale, fino a quel momento di 500 pagine, a un opuscolo. Gli psichiatri hanno patteggiato per rimborsare 3 miliardi di dollari di finanziamenti ottenuti disonestamente dai governi.
Comitato per i Diritti Umani
PRECISAZIONI Due brevi, possibili, precisazioni. Ho il dubbio che il soggetto della fotografia a pagina 9 di liberal del 9 agosto sia Milano, Piazza Fontana, e non Roma. Rispetto all’eccellente articolo di Alessandro Boschi a pagina 16 del quotidiano del 18 agosto, senza annoiarvi con le esatte date di programmazione (molte rinvenibili sul sito Imdb), mentre Un mercoledì da leoni in Italia fu programmato nel tardo 1978 (qui il sito non è preciso, ma soccorrono le date degli altri Stati europei e il fatto che negli Usa fu programmato dal maggio 1978), Guerre Stellari lo fu dall’autunno del 1977. Dunque non vedo molta concorrenza fra i due film (forse un poco più vicini Incontri ravvicinati del terzo tipo, uscito da noi nel febbraio 1978, e l’opera di Milius comunque successiva).
Stefano Galli, Milano
Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Robert Kagan, Filippo La Porta,
Direttore da Washington Michael Novak
Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,
Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)
Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Collaboratori
Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,
Maria Pia Ammirati, Mario Arpino,
Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,
Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi,
Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,
Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,
Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,
LAVORO TEMPORANEO DA CAMBIARE Quando fece la sua comparsa nel 1996, il lavoro interinale (dal latino interim, cioè temporaneo) sembrava che potesse rappresentare una parziale ed efficace soluzione al problema della disoccupazione, soprattutto giovanile. Chi è alla ricerca del primo impiego - questa la filosofia politico-economica sulla quale poggiava il concetto - dovrà accontentarsi di un impiego a tempo determinato per un anno, pochi mesi, forse per soli 15 giorni. Intanto cominci a entrare nel mondo del lavoro, e poi si vedrà. Questo dicevano 15 anni orsono i fautori del lavoro interinale o temporaneo che dir si voglia. Il termine e il concetto introdotto dalla legge del 24 giugno 1997 numero 196 dell’allora ministro del Lavoro, Tiziano Treu, avrebbe insomma dovuto rivoluzionare il mercato del lavoro giovanile, creare nuovi posti di lavoro, dinamicizzare il rapporto tra domanda e offerta scavalcando lo schema che per 40 anni aveva regolato in maniera inefficiente e farraginosa - il mercato del lavoro, cioè l’obsoleto ufficio di collocamento. L’eliminazione di quest’ultimo, peraltro in vigore con alcune diversità già nell’epoca fascista, non ha tuttavia risolto i problemi. In realtà il lavoro interinale, successivamente sostituito dal termine che si potrebbe definire in maniera ironica “infermieristico” di somministrazione del lavoro, ha creato nuove problematiche e ha - in sostanza - prodotto e surgelato il precariato giovanile. Le varie agenzie per il lavoro - molte delle quali referenti di multinazionali - che hanno invaso con i loro efficienti uffici i centri commerciali e le vie dei centri storici delle città svolgono con solerzia e preparazione il loro ruolo di intermediari e di banche dati. Queste agenzie in pratica “vendono” l’occupazione temporanea (operazione legittima) e rendono un servizio all’azienda committente più che al disoccupato in cerca di impiego. L’infelice termine di “bamboccioni” delinea una delle conseguenze dello sviluppo all’italiana del lavoro interinale. Difficile pensare che un trentenne possa progettare un futuro e mettere su famiglia contando su 650 euro netti mensili di anticipo provvigionale (pagamento a 60 giorni fine mese, beninteso) lavorando otto-dieci ore al giorno per sette giorni su sette per conto di una grande azienda telefonica sapendo che quel che riceve non è uno stipendio, ma un anticipo che egli dovrà poi restituire in termini di soldi oppure in ore di lavoro. È altrettanto difficile ipotizzare che un trentenne possa pensare a un futuro con contratti a termine da 800 euro mensili che vengono rinnovati - se e quando vengono rinnovati uno o due giorni prima della scadenza. È giusto che il mercato del lavoro abbia meno vincoli rispetto a quanti ne aveva in passato. Non è giusto, invece, che questo mercato “libero” si trasformi in una giungla. bacarani@gmail.com
Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma
Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1
Amministratore Unico Ferdinando Adornato
Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118
Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato,Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747
John R. Bolton, Mauro Canali,
Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli,
Franco Cardini, Carlo G. Cereti,
Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana,
Enrico Cisnetto, Claudia Conforti,
Roselina Salemi, Katrin Schirner,
Angelo Crespi, Renato Cristin,
Emilio Spedicato, Davide Urso,
Tipografia: edizioni teletrasmesse New Poligraf Rome s.r.l. Stabilimento via della Mole Saracena 00065 Fiano Romano
Francesco D’Agostino, Reginald Dale
Marco Vallora, Sergio Valzania
Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.”
Abbonamenti
06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro - Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro
Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc
e di cronach
via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 0 6 . 6 9 9 2 4 0 8 8 - 0 6 . 6 9 9 0 0 8 3 Fax. 0 6 . 6 9 92 1 9 3 8 email: redazione@liberal.it - Web: www.liberal.it
Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30
ULTIMAPAGINA Guerra fredda. Martin Schlaff, l’imprenditore che assumeva solo spie e faceva affari Oltrecortina
Quando la Stasi era un di Pierre Chiartano artin è uno degli uomini più ricchi d’Austria. E si sa, con la ricchezza e la fama, l’invidia è compagna di viaggio. È nato a Vienna nell’agosto del 1953 da un padre ebreo, scampato alla tragedia della seconda guerra mondiale. Di cognome fa Schlaf ed è stato un precoce, quanto abile imprenditore. Quando il muro di Berlino era ancora in piedi, era uno dei maggiori trader con l’Europa dell’est, specialmente con la Germania democratica. Ma oltre all’invidia Martin ha attirato l’attenzione di investigatori e procure, in maniera particolare di quelle austriache ed israeliane. Ne è spesso uscito pulito, ma il dubbio è una zona grigia che spesso macchia più del nero di una certezza. Si dice che abbia recuperato al mondo dell’economia decine di ex agenti della Stasi e anche del Kgb, all’interno di società costituite nei primi anni Novanta. E soprattutto mettendo a valore i rapporti (leggi, capacità di ricatto) che queste ex «barbe finte» avevano col mondo dell’economia.
M
Ha giocato sui tavoli della politica e della diplomazia il ruolo assai delicato di mediatore, da un lato, e di potenziale corruttore dall’altro. Nel 2002, avrebbe usato i suoi buoni rapporti con l’allora premier Ariel Sharon, per comporre la frattura tra Vienna e Gerusalemme, che dal 2000 aveva ritirato il proprio ambasciatore dall’Austria (rientrerà solo nel 2004). Ma cominciamo dall’inizio. Con il fratello James aveva rilevato una società commerciale, la Robert Placzek Ag, costruendo un piccolo impero commerciale, grazie ai buoni uffici del governo di Erich Honecker e del Partito comunista austriaco. Ciò che attirava il mondo Oltrecortina era l’accesso che Schlaff dimostrava di avere alle tecnologie più avanzata dell’Occidente. Su tutto quel periodo c’è poco da indagare, ma solo da immaginare, perché il vero salto di qualità l’imprenditore che era riuscito a coniugare l’affidabilità austro-ungarica al gran fiuto per gli affari che gli veniva dalle origini familiari, è venuto molto dopo. Martin è diventato veramente ricco nell’ultimo decennio, con l’acquisizione di una società di telefonia mobile esteuropea, poi rivenduta con un largo margine di profitto. E non si è fatto neanche mancare il business dei casinò. Nel 1998 ne aveva aperto uno a Jericho, in partnership con una società in parte detenuta da Yasser Arafat. L’Intifada costrinse le roulette a uno stop improvviso. Il quotidiano Haaretz è
AFFARE
nacquero molte società commerciale con l’intento di mantenere in vita la rete d’intelligence del vecchio regime, non disperdere quelle risorse umane e creare un reddito per gli ex capi servizio. Anche in questa fase il ruolo di Schlaff e della sua rete d’imprese fu determinante, secondo quanto descritto nelle pagine di un rapporto del Bundestag (1991). Soprattutto nel riciclaggio dell’imponente patrimonio immobiliare della Stasi. Dopo il crollo molte di queste proprietà furono vendute dal governo e Martin era lì, pronto a comprare a prezzi stracciati per poi ricostruire e far rinascere come l’araba fenice, Die Firma, come veniva chiamata il Ministerium fur Stattssicherheit. E con la dissoluzione del patto di Varsavia i vertici dei servizi emigrarono in gran numero nella miriade di società riconducibili a Martin. C’è da ammettere che l’imprenditore è sempre riuscito a uscire indenne dai procedimenti giudiziari. Nel 2007, Peter Pilz, un parlamentare austriaco del partito dei Verdi aveva dichiarato in aula che Schlaff non avrebbe potuto condurre i suoi affari Oltrecortina senza l’aiuto di molti politici del Paese. Il che spiegherebbe bene come l’amico di Markus Wolf, abbia fino ad oggi evitato il maglio della giustizia.
Con la caduta del muro nacquero molte società commerciali per mantenere in vita la rete d’intelligence del vecchio regime, non disperdere quelle risorse umane e creare un reddito per gli ex capi servizio. Il ruolo dell’imprenditore austriaco e della sua rete d’imprese fu determinante in quella fase riuscito a ricostruire parte di questa storia, grazie ad alcuni documenti emersi dagli archivi di Berlino della Stasi. Sempre secondo il quotidiano israeliano, Schlaff ad oggi avrebbe ancora interesse in alcuni casinò in Grecia e a Zagabria. Ma la grande abilità e intelligenza di Martin è stata un’altra. Quella di saper gestire con abilità un mix potente: politica ed economia. Sarebbe riuscito a crearsi degli eccellenti contatti in Gazprom tramite la società Centrex. Ricordiamo come queste grandi aziende di Stato siano state, durante l’era Eltsin, non solo dei feudi dei nuovi oligarchi – poi azzerati da Putin – ma un buen retiro per molti ex agenti dei servizi d’intelligence sovietica e russa. Anche il settimanale tedesco Stern si era più volte occupato della vita del tycoon austriaco, proprio in relazione ad alcune vicende legate al colosso energetico russo. I settori
in cui ha investito sono veramente tanti, dall’energia al campo immobiliare e a internet, tanto per citarne alcuni. Poi una banca nel Lichtenstein, qualche mese fa.
Ora i soldi che ha accumulato lo renderebbero indipendente dal passato così legato al mondo ambiguo e grigio degli affari col visto della Stasi. Ogni volta che gli veniva chiesto di queste relazioni, Martin diventava di ghiaccio e rispondeva lapidario: «fa parte del passato e niente di quello che stato raccontato su di me è mai accaduto, ormai è storia e non ne voglio più parlare». Ma da alcuni rapporti della Stasi venuti in possesso di Haaretz, Schlaff viene descritto come l’ospite ben preparato d alti rappresentanti del regime della Rdt a Vienna. Tutti alloggiati all’Hilton della capitale a spese dell’allora giovane imprenditore. Con la caduta del muro