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Chi reprime il desiderio, lo fa perché il suo desiderio è abbastanza debole da poter essere represso William Blake

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MARTEDÌ 14 SETTEMBRE 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

È polemica tra professori e studenti da una parte e ministero dall’altra: «Le loro manifestazioni sono assurde», dice Gelmini

Berlusconi non crede all’Italia Incredibile consiglio ai giovani: «Cercate lavoro all’estero»

Quasi nessuno l’ha notato:ma proprio così ha detto parlando ai ragazzi del Pdl.Una scoraggiante apertura dell’anno scolastico (e un’ammissione di colpa) che dà ragione alle proteste dei precari IL PARADOSSO

LA TESTIMONIANZA

LA DENUNCIA

Se l’avessero detto la Merkel o Sarkozy...

Io, ricercatrice, Bonanni: l’ho già fatto. «È un delitto Va bene così? parlare così»

di Savino Pezzotta

di Rita Clementi

di Franco Insardà

uando ascoltiamo i discorsi (in particolare quelli politici) cerchiamo sempre di essere attenti alle parole chiave o a quanto riteniamo sia il centro, il nocciolo duro del ragionamento che ci viene proposto.

ilvio Berlusconi ha detto ai giovani presenti ed acclamanti di cercarsi un lavoro all’estero. Grazie! Non fa piacere sentire che la propria dolorosa scelta di andarsene a lavorare in un Paese straniero ha la benedizione del premier.

o, caro Silvio, i posti di lavoro bisogna darglieli qui in Italia, ai nostri ragazzi: per una volta Raffaele Bonanni non è d’accordo con il premier sulla necessità di andare all’estero per fare esperienze formative.

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di Errico Novi

ROMA. Solito rimpallo. Da una parte il ministro dell’Istruzione chiamato a celebrare l’avvio dell’anno scolastico, dall’altra insegnanti, precari soprattutto, studenti con le loro associazioni, intellettuali critici. Già il ripetersi della scena dovrebbe essere un cattivo segnale. E non depone bene il fatto che Mariastella Gelmini liquidi le proteste di professori e studenti con un rassegnato «ogni anno è così». a pagina 2

I sondaggisti: gli italiani vogliono un’altra legge elettorale

2010, fuga dal bipolarismo (ma Nucara fa il gruppo pro-Silvio)

Dopo l’11 settembre, musulmani in piazza

Kashmir: assalto ai cristiani, tredici morti L’India in fiamme dopo l’assurda minaccia del reverendo Terry Jones

In vista del voto del 28 settembre, il segretario dei repubblicani annuncia: «Ho trovato venti deputati per fondare un movimento di responsabilità nazionale per il premier» Riccardo Paradisi • pagina 8

di Luisa Arezzo

Il caso. La sua vecchia teoria sul “contenimento nucleare” dell’Urss torna attuale con Ahmadinejad

l reverendo Terry Jones ha lasciato il segno: i conflitti di religione hanno ricominciato a infiammare il mondo. Ieri, un istituto retto da missionari cristiani è stato accerchiato da migliaia di manifestanti in Kashmir, regione indiana a maggioranza musulmana. Negli scontri che cono seguiti ci sono stati tredici morti, e 75 feriti. La folla inferocita (e ignara) scandiva slogan contro gli Stati Uniti e contro «i dissacratori del libro sacro dell’Islam». Insomma, consapevoli o no, i manifestanti ce l’avevano contro il presunto «cristiano» che voleva bruciare il Corano.

Come fermare l’Iran: parola di Kissinger I Uno dei più celebri analisti del mondo intervista l’ex segretario di Stato di Robert D. Kaplan el 1957, un membro trentaquattrenne dell’università di Harvard, Henry Kissinger, pubblicò un libro in cui avanzava una proposizione controintuitiva: cioè che all’apice della Guerra Fredda, con gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica intenti ad ammassare scorte sufficienti di bombe all’idrogeno in vista dell’Armageddon, una disordinata, limitata guerra con forze convenzionali e con uno o due scambi nucleari tattici fosse ancora possibile. a pagina 11

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seg1,00 ue a (10,00 pagina 9CON EURO

I QUADERNI)

• ANNO XV •

NUMERO

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• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


la polemica

prima pagina

Una domanda agli under 30 post finiani

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Ma voi di Atreju applaudite sempre il Capo? di Riccardo Paradisi iorgia riusciremo a mantenere la nostra identità»? chiedevano i ragazzi al ministro della gioventù Meloni quando An decise di sciogliersi nel più vasto mare del centrodestra berlusconiano, preoccupati di perderci qualcosa in quel gran travaso che a loro faceva paura e che invece i leader di An, primo tra tutti Fini, indicavano come necessario e inevitabile. Giorgia, come la chiamano gli amici, alle preoccupazioni di questi ragazzi rispondeva ispirata dal palco del congresso di scioglimento di An: «La storia sta facendo il suo corso e il nostro compito non è fermare il vento con una mano, ma dimostrare che siamo all’altezza del tempo che ci è stato dato di vivere senza tentennamenti». Parole alate - condite di citazioni di Marinetti e di Nietzsche - alate e impavide: «La nostra identità perde e vince con noi».

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Un gioco a testa o croce col destino insomma, come nella poesia di Kipling. Ma a vederli all’ultima festa di Atreju, che s’è conclusa domenica mattina a Roma, s’aveva l’impressione che da quel testa o croce fosse uscita la faccia sbagliata della moneta. Insomma facevano effetto quelle risate un po’ pavloviane che esplodevano a ogni battuta di Silvio. «C’è una fila di donne che mi vuole sposare perché sono ricco e ho un po’ di grana», risate. «Mia figlia Marina è libera ed è un buon partito». Risate. Anche di fronte a barzellette come quella sul ritorno di Hitler che un quarantenne di oggi ha sentito la prima volta alle elementari espolode una risata corale. È passato in silenzio invece il messaggio del Cavaliere rivolto ai giovani di emigrare fuori dall’Italia per lavorare e fare impresa. Lo stesso silenzio che l’anno scorso accolse una pesante critica al Risorgimento che non è male per un’organizzazione che mazzinianamente si chiama Giovane Italia. Intendiamoci, cosa sia mai stata questa identità dei giovani di destra sempre rivendicata e mai spiegata resta un piccolo mistero... però insomma un sentimento di diversità autentico, magari confuso e non privo di ambiguità e piccole astuzie, comunque lo coglievi in quello strano mondo che fu prima il Fronte della gioventù e poi Azione giovani. Dove un’idea di cosa fosse il senso della nazione e dello stile ancora lo coglievi, dove qualcuno prendeva ancora sul serio il lascito di Pasolini ai giovani di destra che non erano la sua parte e che pure il poeta friulano non aveva mai demonizzato: «Prega, conserva, difendi». E non basta per salvare qualcosa di quel sentimento indefinito che Giorgia Meloni alle famose “i” di Berlusconi sulla scuola - Internet, Informatica, Impresa e Inglese - aggiunga l’Identità... Parola magica per cui scattano ola e applauso d’ordinanza: «Presidente l’Identità, mettiamoci l’Identità». «Come no - le risponde Berlusconi - quella per prima...». Non basta e anzi dà al tutto un tono un po’ seriale, un po’ triste. Come non bastano quelle citazioni altisonanti mitragliate sui cartelloni e le magliette, «Io sono il capitano della mia anima», «o Roma o morte» e con Maccari verrebbe da correggere «O Roma o Orte»... Non bastano le camicie fuori dai pantaloni di ultraquarantenni che fanno i consiglieri regionali o i deputati e che ad Atreju esibiscono la loro anima militante, ricordano i vecchi campi Hobbit, quando parlavano di rivoluzione magari. Come se non fosse cambiato tutto, come se Atreju non fosse ormai ufficialmente «l’officina giovanile del berlusconismo» come ha scritto giustamente ieri Mattia Feltri su la Stampa. E non c’è niente di male, ma insomma perché non dirselo. Magari ammettendo che la pretesa e la presunzione di fare le mosche cocchiere del berlusconismo è appunto una presunzione.

il fatto L’anno scolastico comincia con una gaffe assurda di Berlusconi

L’emigrazione di governo Mentre la scuola senza fondi protesta, il premier invita i ragazzi ad andare all’estero per trovare un lavoro migliore. Per lui, il futuro non passa per l’Italia di Errico Novi

ROMA. Solito rimpallo. Da una parte il ministro dell’Istruzione chiamato a celebrare l’avvio dell’anno scolastico, dall’altra insegnanti, precari soprattutto, studenti con le loro associazioni, intellettuali critici. Già il ripetersi della scena dovrebbe essere un cattivo segnale. E non depone bene il fatto che Mariastella Gelmini liquidi tutto con un rassegnato «ogni anno è così». La frase tradisce un senso di stanchezza. E di rassegnazione. Se poi alle lamentele dei presidi per la falcidia delle classi si aggiunge l’invito del presidente del Consiglio a tentare la carriera di imprenditori all’estero, se ne ricava proprio una sensazione di resa generale: tra le molte battute concesse da Berlusconi alla festa di Atreju, infatti, ce n’è stata una decisamente sfuggita ai riflettori dei media: «Fare l’imprenditore è rischioso ma è anche una cosa bellissima, potreste anche superare l’aspirazione a trovare un lavoro, magari dipendente, vicino a voi, sotto casa vostra, per abbracciare invece l’idea di fare impresa all’estero». Che tradotto può voler dire andate via, emigrate che è meglio. Cercate fortuna altrove. Prendete a modello i “campioni”della nostra ricerca che periodicamente dicono addio all’Italia ingrata e se ne separano per sempre. Inviti paradossali perché a farli è il capo del governo, perché appunto sembra quasi dire «con questa scuola che abbiamo e questo mondo del lavoro che l’Italia si ritrova, i govani fanno meglio a scapparsene». Non è il viatico migliore, per un anno scolastico in cui il ministro dell’Istruzione celebra la sua riforma come quella «finalmente utile a rimettere in contatto la formazione con il mondo delle imprese». Sulle condizioni del sistema formativo si intravede il pessimismo di fondo dello stesso

governo. E suona sospetto l’invito rivolto dalla Gelmini ai professori: «Abbiamo predisposto questa riforma ma la sfida deve essere raccolta innanzitutto dagli insegnanti, è a loro che tocca l’onere di applicarla». Considerazione scontata che ha tutta l’aria di voler spostare sulla controparte la responsabilità delle molte incognite incombenti. Dall’altra parte si risponde con le mobilitazioni annunciate per inizio ottobre, quando la maggior parte delle associazioni studentesche e una fetta di quelle che riuniscono i professori, a cominciare dai Cobas, scenderanno in piazza per protestare contro il taglio delle cattedre, la mancanza di servizi (a cominciare dalle mense) e di investimenti che rendono vane le buone intenzioni.

La situazione è «catastrofica», secondo Giulio Ferroni, italianista tra i maggiori e ordinario di Letteratura alla Sapienza. «La riforma delle superiori non è nemmeno tanto cattiva, ma passa in secondo piano rispetto alla scarsezza delle risorse. Da anni si fanno le nozze coi fichi secchi». Ferrono elenca le note «difficoltà logistiche, le più gravi, determinate da fondi che non sono sufficienti nemmeno ad avere banchi decenti, dalla bassa retribuzione degli insegnanti. Con il paradosso che dove ce n’è la possibilità si fanno le collette per acquistare un po’di materiale e ci si ritrova con casi come quello di Adro, con il simbolo della Lega impresso sulle suppellettili». Vicenda grottesca, sulla quale la Gelmini ha risposto in modo poco convincente, ricordando che spesso nelle classi sono i simboli «di sinistra» a farla da padrone. Discorso buono per gli striscioni demenziali esposti dalle curve negli stadi, non per una istituzione pubblica essenziale per la società.


la testimonianza

Io, ricercatrice, l’ho fatto: va bene così? L’amarezza della studiosa che scrisse a Napolitano per denunciare l’obbligo di «espatriare» di Rita Clementi al palco di Atreju ieri il Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, ha detto ai giovani presenti ed acclamanti di cercarsi un lavoro all’estero. Grazie!

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Fa piacere sentire che la propria dolorosa scelta di andarsene dall’Italia e lavorare in un Paese straniero ha la benedizione del presidente del Consiglio Italiano che così dicendo regala ad altre nazioni un “prodotto finito”: diplomati e laureati che hanno studiato grazie ai sacrifici delle loro famiglie e grazie alle tasse che, sappiamo bene, solo una parte di italiani paga. Un anno fa, con una lettera aperta al Presidente della Repubblica Italiana Giorgio Napolitano, mentre denunciavo ancora una volta i mali della ricerca italiana, annunciavo che me ne sarei andata dall’Italia, cercando lavoro in uno Stato dove venivano riconosciute le mie competenze, non le mie conoscenze. Non è facile lasciare la terra dove sei nata, cresciuta, dove sono le tue origini. Non è facile andarsene perché sei costretta a farlo. Non è facile perché andarsene è ammettere la sconfitta di chi studiando e lavorando onestamente ha creduto non solo di appagare la propria ambizione, ma anche di contribuire a migliorare la qualità della vita dei propri connazionali. Ed è anche la sconfitta di famiglie che devono accettare una lontananza che, certo, non hanno mai desiderato. Ecco, proprio per

questo sentire il suggerimento del Presidente Berlusconi mi ha fatto davvero male.

Come può una così alta carica dello Stato dare queste indicazioni? Non c’è più futuro, quindi, in Italia? Che cosa devono pensare le famiglie, i ragazzi? Con quale impegno possono studiare se sanno che il loro futuro non potrà essere il frutto di una loro scelta? E chi non potrà andare all’estero: che farà? Ah già, dimenticavo:

Non è facile «andarsene». Per questo sentire le parole del premier l’altra sera ha riaperto la mia ferita sposerà un ricco o andrà in Libia! Come possiamo credere che questo governo si impegni realmente a rendere la formazione dei nostri ragazzi competitive a livello europeo e non solo se il consiglio è «...andatevene». Quale governante direbbe questo a chi rappresenta il futuro della nazione che ha l’onore/onere di amministrare? I risultati della politica scolastica riformatrice di questo governo sono evidenti: meno ore di lezione, meno insegnanti, classi più numerose. Più precari a casa, senza lavoro. Gli studi universitari, poi, sono stati riformati senza toccare diritti ac-

Ferroni infatti se la prende moltissimo: «E come se stessimo svendendo l’Italia».

E quando il premier invita i giovani ad abbandonarla, l’Italia, per tentare la fortuna d’imprenditori in terra straniera? «Sì, magari in Libia...». il professore della Sapienza non concede attenuanti: «Veramente inqualificabile. Ci lamentiamo della fuga dei cervelli, si fa tanto per denunciare la necessità di trattenere le intelligenze migliori e poi si invita a fare impresa altrove. Non ha senso, nemmeno se si pensa di incoraggiare gli investimenti in aree dove la manodopera costa meno, se non altro perchgé presto anche lì le aspettative dei lavoratori cambieranno». E comunque, dice Ferroni, «quelle del presidente del Consiglio sembrano spesso parole in libertà. Sarebbe persino meglio se si trattasse di un vero disegno politico conservatore. Non è così. E altro che disegni conservatori, qui ci sarebbero da conservare tante cose e nemmeno ci si prova».Vuol dire che il governo, la classe dirigente, si rassegnano al declino? «Ci si lascia andare. Ci sono buone intenzioni, il tentativo di riorganizzazione compiuto con questa riforma dei licei contiene aspetti positivi ma non si inquadra in un progetto generale di difesa dell’istituzione scolastica. Se aggiungiamo le frasi di Berlusconi, si capisce che siamo messi male». Non basta nemmeno l’attenzione che l’attuale ministro ha avuto per un’iniziativa a cui si è associato lo stesso Ferroni un paio di anni fa, per «salvare il merito nella scuola». Nelle commissioni per la stesura dei programmi sono stati coinvolti alcuni dei promotori di quell’appello, «ma anche scelte giuste come il ritorno ai voti classici non bastano».

quisiti. In sostanza: non è cambiato nulla. Si vuol forse sottointendere che è meglio anche andare a studiare all’estero?

Negli Stati Uniti ho incontrato moltissimi italiani che lavorano. Per pochissimi di loro emigrare è stata una libera scelta: molti hanno dovuto farlo poiché l’Italia non offriva loro nulla di più che contratti precari sottopagati. Anche negli Stati Uniti i loro contratti sono precari, ma con altre garanzie e ben altri stipendi. Molti, valenti ricercatori, hanno fatto carriera, altri no. È il merito che ti fa progredire. Questa è una garanzia, uno sprone. È triste da dire, ma nessuno, fino a ora mi ha espresso il proposito di tornare, pur ammettendo le mille difficoltà che una scelta del genere comporta. Sapete cosa succede all’estero se ti impegni, sei bravo e ottieni risultati? Ti chiedono rimanere, non di andartene. E di italiani ai quali è stato chiesto di rimanere solo in virtù dei risultati ottenuti grazie alle loro competenze ed al loro impegno ce ne sono tantissimi. Evidentemente abbiamo fatto bene ad andarcene.

Stesso giudizio pessimistico arriva da uno dei maggiori sociologi italiani, Domenico de Masi: «Intanto è avvilente sentire sempre gli stessi discorsi sul futuro dei giovani: uno fa l’imprenditore se ha soldi mafiosi da riciclare. Sa, il principio dell’accumulazione primaria resta insuperabile... certo un giovane che vuol fare impresa, in Italia o all’estero, non troverà ascolto presso le banche». E quindi, Berlusconi?... «Non è più una persona credibile, parla senza freni, non è uno statista: all’estero ci deridono e qui perdiamo tempo a commentarlo». Nessuna speranza per il si-

«Si fanno classi da 40 allievi per risparmiare, e i soldi finiscono alle nostre missioni militari all’estero». Non resta che assecondare l’invito di Berlusconi? «Chissà se si accorge che con un discorso del genere sancisce il bilancio negativo della sua vicenda di leader politico...».

Ma non è detto che una considerazione come quella fatta dal Cavaliere domenica scorsa nasconda la resa di fronte al fallimento del sistema formativo e della valorizzazione dei giovani, secondo lo storico dell’università di Genova Luca Codignola: «Approfittare delle opportunità che possono esserci in Europa e in tutti i Paesi dell’Occidente è un bene per i nostri giovani, le esperienze individuali sono importanti. Ma certo il pericolo è la dispersione delle intelligenze: intesa in questo modo, la ricerca di fortuna all’estero rischia di diventare la soluzione per vicende individuali, non per il nostro patrimonio intellettuale». Lo stesso Codignola, accademico che ha lavorato a lungo in Canada e negli Stati Uniti prima di tornare in Italia, riconosce che «negli ultimi trent’ani il sistema formativo è peggiorato moltissimo, la scuola è precipitata verso il basso e all’università arrivano studenti sempre peggio preparati». All’origine di tutto però «c’è il peggioramento della classe insegnante». È un problema di «selezione» e non di fondi disponibili: «Bisogna mettere un tappo agli sprechi, questo vorrà dire deludere le aspettative di molti ma non c’è altra scelta che tentare di riportare su livelli un po’più alti la qualiutà della classe docente. Anche in un’aula sovraffollata da 40 ragazzi sono sempre le motivazioni e le capacità del professore a fare la differenza».

L’italianista Ferroni: «Andarsene dove, in Libia? Uscita inqualificabile». De Masi: «Il presidente del Consiglio non è più credibile, l’appello va bene per chi può riciclare soldi mafiosi» stema formativo in cui «la maggior parte dei ministri e dei primi ministri ha una formazione modesta, a volte manca persino la laurea, vedi D’Alema, Bertinotti,Veltroni o Rutelli. Se si desse importanza alla formazione in questo Paese non si sceglierebbe la Gelmini come ministro ma si andrebbe a cercare nel mondo accademico». Dunque «la condizione del nostro sistema scolastico non potrebbe essere più nera. Delle riforme non ha senso parlare: in 42 anni di docenza ho visto sfilarmi davanti 42 riforme, ma mai nessuno che abbia pensato di accompagnarle con la necessaria formazione per gli insegnanti. Eppure qualunque manager, o lo stesso Berlusconi, sanno bene che non c’è innovazione se non si formano coloro che devono metterla in pratica». Il che chiude il discorso aperto dalla Gelmini con l’appello alla resoponsabilità degli insegnanti.


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l’approfondimento

Domenica scorsa il premier, tra una barzelletta e l’altra, ha detto anche un’amara verità. Senza volerlo

Il Consiglio del Presidente Berlusconi ha suggerito ai giovani di andare all’estero: un modo per dire che qui non c’è lavoro (non dipende anche da lui?). Se Merkel o Sarkozy avessero fatto altrettanto nei loro Paesi, sarebbero stati travolti. Da noi, invece... di Savino Pezzotta uando ascoltiamo i discorsi (in particolare quelli politici) cerchiamo sempre di essere attenti alle parole chiave o a quanto riteniamo sia il centro, il nocciolo duro del ragionamento che ci viene proposto. È un modo, ci insegna George Lakoff linguista americano, che risale all’illuminismo e che continua a pensare che tutti i discorsi dovrebbero essere consci, logici, letterali e universali, per quanto questi elementi siano importanti per la comprensione tante volte sono mistificanti e nascondono il vero pensiero. Ma c’è sempre una parte marginale nei discorsi alla quale dovremmo dare maggiore attenzione, poiché è quella che sottratta al controllo dell’intelletto esprime più di quanto si pensi e si dica. Questi pensieri mi sono venuti seguendo il discorso che il Presidente del Consiglio ha tenuto all’appunta-

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mento annuale di Atreju, festa di Azione Giovani (ex An, ex finiani?), dove ha dedicato al pubblico giovanile uno show degno dei suoi migliori periodi (pre-)elettorali. I giornali e le Tv sono stati solleciti a riferirci quanto ha detto – il centro del discorso - sui cinque punti, sui finiani, sulla compra di parlamentari, sui centristi che, bontà sua, lo voterebbero, sulla riproposizione di promesse non mantenu-

Così si continua a condannare un’intera generazione all’anonimato

te come quella del quoziente famigliare. Innanzi a una platea di giovani, Berlusconi ha voluto dispensare ottimismo a piene mani, raccontare barzellette e fare l’elencazione di tanti contenuti senza una vera scala di priorità. La logica dei tagli lineare ha predominato ed ora abbiamo anche il programma lineare. L’impressione che si ricava da questo discorso è che , sotto sotto , in modo velato ma non nasco-

sto, più che pensare alla nuova fase di governo, alle riforme e alla situazione economica del nostro Paese volesse diffondere un profumo di campagna elettorale.

Questo mi sembra avvalori alcuni dei ragionamenti che ho già avuto l’occasione di esprimere su questo giornale, e cioè che ci troviamo con un Presidente del Consiglio sempre più insicuro e incerto, tan-

to esitante da dover ripresentare il programma elettorale del Pdl confessando, per tale via, che in questi due anni la legislatura si è prodotto ben poco, tanto che si ripropone di fare quando doveva essere stato fatto o, per lo meno, avviato. Ma quello che più sembra intimorirlo è il dissidio presente nella maggioranza e che non è circoscritto agli amici di Fini, è dentro la Pdl e lambisce la stessa Lega che, non va dimenticato, lo ha minacciato di non votargli la fiducia, e siccome in politica nulla si perde è costretto a cercare di recuperare con il “convincimento” alcuni parlamentari per arrivare al fatidico 316. In questa ricerca di Parlamentari vedo qualcosa di profondamente amorale. Non voglio mettere in discussione la libertà dei singoli parlamentari di passare da una squadra all’altra, è sempre avvenuto e sempre avverrà. Quello che mi turba è il


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Presentata ieri la manifestazione del 9 ottobre a Roma con dieci proposte per il governo

«No, caro Silvio, diamo lavoro in Italia a questi ragazzi» Il segretario della Cisl Raffaele Bonanni replica anche al commissario Ue Olli Rehn: «No alla moderazione salariale, sì all’aumento della produttività» di Franco Insardà

ROMA. Raffaele Bonanni ribadisce il suo invito al governo affinché «sia avviato un confronto con tutte le parti sociali per sostenere la ripresa economica e lo sviluppo del Paese attraverso un’efficace politica economica». Anche dal palco di Chianciano che ha ospitato la festa dell’Udc, il segretario della Cisl si è dichiarato disponibile a un patto di responsabilità che, ha detto, «chiediamo alle imprese e alla politica italiana, a chi governa centralmente, ma anche nelle regioni e nei comuni. Perché siamo stufi delle pagliacciate per cui tutti si indignano e nessuno fa niente». E proprio sulla scia del suo discorso di Chianciano Bonanni spiega a liberal: «Il Paese attende risposte concrete dalla classe politica. Occorre un maggiore senso di responsabilità da parte di tutti. Io spero che nella prossima verifica di governo si metta al primo punto il problema della crescita e dello sviluppo. Tutto il resto viene dopo. Questa è la migliore risposta a chi ogni giorno vuole strumentalizzare la crisi aizzando l’odio sociale e indicando bersagli da colpire come è accaduto a Torino».

Sul consiglio che Silvio Berlusconi ha dato alla platea dei giovani di Atreju, esortati ad andare all’estero per cercare lavoro, il sindacalista commenta: «Non so che cosa abbia detto il presidente del Consiglio. Penso comunque che il problema sia quello di favorire la creazione di posti di lavoro nel nostro Paese. I giovani possono andare anche all’estero a fare esperienze, ma bisogna dare una prospettiva di lavoro a tutti quelli, e sono tanti, che cercano una occupazione, soprattutto nel Sud. Per questo noi abbiamo dato la nostra disponibilità al piano di Marchionne che vuole riportare alcune produzioni della Fiat dalla Polonia a Pomigliano. E non comprendiamo perché Fiom abbia una opinione contraria». Insieme con il leader della Uil, Luigi Angeletti, ieri Bonanni ha presentato la manifestazione del 9 ottobre in piazza del Popolo a Roma e la piattaforma che verrà sottoposta al vaglio del governo. Dieci le proposte per un taglio delle tasse su pensioni, famiglie e imprese, per rilanciare la domanda interna e i consumi «indispensabili per far tornare a crescere la nostra economia. Chiediamo una riforma integrale del fisco che metta al centro la famiglia e incentivi i consumi». Cisl e Uil chiedono l’aumento delle detrazioni da lavoro dipendente e da pensioni contestuali all’equiparazione del no tax area dei pensionati con quella dei lavoratori dipendenti, la riduzione della prima e della terza aliquota Irpef da portare rispettivamente al 20 e al 36 per cento, l’introduzione di for-

me di imposta negativa per affrontare l’incapienza e l’introduzione di un meccanismo automatico collegato all’Ipca che neutralizzi il fiscal drag. Propongono inoltre di confermare l’aliquota di vantaggio al 10 per cento per quel che riguarda il salario di produttività, di rafforzare e semplificare il sistema delle detrazioni e degli assegni al nucleo familiare, di innalzare

«Bisogna dare una prospettiva ai tanti giovani che cercano un’occupazione, soprattutto al Sud» l’imposta sostitutiva sulle rendite finanziarie al 20 per cento e di rafforzare lo statuto del contribuente.

Per Bonanni e Angeletti bisogna fare le riforme, ma evitando la moderazione salariale. È questa in sintesi la risposta che i leader della Cisl e della Uil hanno dato alla sollecitazione arrivata dal commissario Ue agli Affari economici, Olli Rehn agli Stati membri. «Serve diminuire le tasse sui salari - ha detto Bonanni da accompagnare ad accordi sulla produttività in stile Pomigliano. Non c’è alcun bisogno in Italia di moderazione salariale visto che ancora siamo nella

trappola di bassi salari-bassa produttività. Se ne esce dunque solo aumentando la produttività e per questa strada i salari». Per Angeletti «bisogna fare in modo che sia superato il limite di reddito, 35mila euro annui, attualmente previsto per accedere alla detassazione di incrementi salariali derivanti da aumento di produttività».

«L’evasione fiscale - secondo Bonanni - va elevata al rango di priorità nazionale e la riduzione del prelievo sulle imprese dovrà essere funzionale a rafforzare la competitività». E a sottolineare il grande senso di responsabilità, il segretario della Cisl ha annunciato: «Finché perdurerà una situazione di crisi via libera agli scioperi solo di sabato o di sera. Non faremo più perdere soldi ai lavoratori, ma non si può dire che aboliamo gli scioperi». La proposta per Bonanni deve servire «a differenziare il sindacato da chi proclama, in un momento di crisi, undici scioperi di fila». Messaggio chiarissimo indirizzato alla Fiom. E proprio riferendosi ai metalmeccanici della Cgil il leader della Cisl ha precisato che «quando la Fiom la finirà di dire no e quando la Cgil chiarirà la situazione politica al suo interno saremo felicissimi di ricongiungerci, ma diciamo no ad andare in piazza per fare casino. Ma Bonanni ha lanciato un messaggio anche al mondo politico: «È meglio che i politici non si presentino, perché non riceveranno fischi (noi non li facciamo), ma qualche pernacchia virtuale la riceveranno sicuramente. Chi ha simpatia per le nostre opinioni può manifestarla nei consigli comunali o in Parlamento. Noi non abbiamo bisogno di bandiere, partiti e persone che vogliono dare un colpo al cerchio e uno alla botte, perché o si sta con il cerchio o con la botte».

movimento che si è messo in campo che agisce attraverso le lusinghe e le pressioni di vario genere. Così si finisce per discreditare la politica e coloro che, anche con le migliori intenzioni, volessero aderire all’appello.

Ma quello che più mi ha turbato è una frase - marginale del discorso, quando rivolgendosi ai giovani ha detto: «Cercate un lavoro all’estero». «Fare imprenditore – ha detto - è rischioso, ma è anche una cosa bellissima, potreste anche lasciare la considerazione di un lavoro vicino a voi, in Italia. Guardate all’Italia da Berlino, da New York». Nessuno di noi dice che i nostri ragazzi non debbano fare esperienze di lavoro all’estero, ma invitare a cercare un lavoro all’estero e a guardare all’Italia da Berlino o New York è come dire qui non c’è posto, andate altrove. Mi sembrano parole inaudite sulla bocca del Presidente del Consiglio. Come si fa a non dire ai nostri ragazzi rimbocchiamoci le maniche che abbiamo un futuro da costruire per il nostro Paese, dovete studiare, prepararvi perché l’Italia ha bisogno di voi e che l’Italia, il Governo è impegnato a far sì che i sacrifici che fate oggi non si perdano in un domani vuoto? Perché non affermare con forza e decisione che non possiamo essere rassegnati ad un tasso di disoccupazione giovanile che sfiora il 30%? Nulla, nulla, nulla su cosa intende fare il Governo per i giovani e il lavoro, contro un destino che sembra segnato dalla precarietà e dalla disoccupazione. Dalla fatica a costruire una famiglia e a guadagnarsi indipendenza Vi immaginate la Merkel o Sarkozy che fanno un discorso di questo genere ai loro giovani? Provate a pensare a quali reazioni avrebbe suscitato. Da noi il silenzio. Ma non possiamo non notare che in questa frase che sembra marginale e che in pochi troppo pochi hanno notato, c’è l’ammissione profonda del fallimento della politica economica del Governo. Domani Tremonti ci spiegherà tutto, ci farà vedere gli scenari mondiali, ci parlerà della paura e della speranza, mentre la Lega, seguendo una visione totalitaria della politica, dipinge le scuole di verde e issa il sole delle alpi e dà vita al ribattezzo. Mentre celebriamo i riti del Po o andiamo a caccia dei comunisti, ai giovani diciamo cercate un lavoro all’estero e da là guardate all’Italia. Stiamo condannando un’intera generazione all’anonimato, alla perdita di speranza e il massimo che si è in grado di suggerire è di sposare una ragazza ricca. Ci si vorrebbe far ridere, quando invece c’è da piangere.


diario

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Tasse. Malgrado le sentenze del tribunale amministrativo, è in progettazione un nuovo sistema di pagamento

Continua la sfida dei pedaggi L’Anas vuole il «telepass» sul Gra: «Il decreto è stato solo sospeso» ROMA. Pagare è l’unico modo per non sprecare? Dalle ferrovie alle autostrade, il fin troppo tartassato contribuente italiano in questo periodo sta sperimentando un generalizzato aumento delle tariffe dei trasporti. E se nel trasporto aereo la concorrenza permette di risparmiare ancora, nei monopoli naturali è difficile non sentire l’oppressione dell’incremento dei prezzi, specialmente in cambio di servizi che, almeno in alcuni casi, non sembrano voler migliorare alla stessa maniera. Ma il metodo sembra davvero, al di là di proteste e polemiche, l’unico valido per migliorare servizi.

di Alessandro D’Amato

A scatenare ultimamente la tempesta è stata l’Anas che ha annunciato il bando di gara (pubblicato ieri, annunciato di domenica) per l’installazione di quella che in gergo si chiama «esazione dinamica senza barriere». Sarebbe a dire una specie di telepass che costringerà chiunque a pagare i pedaggi senza doversi fermare ai caselli. Il bando riguarda ogni autostrada e raccordo autostradale in gestione diretta. Quindi anche il Gra. Il bando ammonta a 150 milioni di euro e l’appalto durerà 24 mesi dalla sottoscrizione del contratto. Quindi bisognerà ancora aspettare due anni prima che il progetto diventi realtà. L’occhio elettronico che l’Anas sta mettendo a punto sarà in grado di registrare il passaggio di ogni mezzo. Una volta aggiudicato l’appalto si dovrà decidere come esigere il pa-

detto il presidente dell’Anas, Pietro Ciucci a Imperia, a margine delle celebrazioni dei 50 anni dell’Autostrada dei Fiori, allo stabilimento Carli. «Questa norma - ha aggiunto Ciucci - prevede innanzitutto che le autostrade gestite direttamente da Anas, che sono quasi 1.300 chilometri, tra cui ricordiamo la Salerno-Reggio Calabria, il Raccordo anulare di Roma e l’autostrada per l’aeroporto di Roma Fiumicino, vengano assoggettate a pedaggio e che quindi non siano più gratuite.

Anche la concorrenza in ambito ferroviario è piena di contraddizioni, soprattutto per il ruolo di Banca Intesa sia con Fs e sia con Ntv gamento: tramite telepass, internet, telefonia mobile, o bollette inviate direttamente a casa. Il nuovo sistema di pagamento, oltre che il Raccordo, dovrebbe coinvolgere anche la Roma-Fiumicino. Ma il pagamento dovrebbe esserci soltanto per chi esce dalla città per andare fuori dalla provincia, e non per chi invece percorre il vecchio Gra, che quindi dovrebbe rimanere gratuito. «Stiamo dando attuazione ad una norma di legge, chiarissima e semplice, contenuta in poche righe», ha

C’era, inoltre, una norma che prevedeva, nel tempo intercorrente necessario per attivare un sistema di pedaggi sui 1.300 chilometri di strade, di introdurre un onere, un pedaggio forfettario di un euro. Questo è il provvedimento transitorio che è stato oggetto di esame da parte del Tar».

Conclude Ciucci: «Attualmente il decreto è sospeso, non annullato, e attendiamo le decisioni finali della giustizia amministrativa. Rimane pienamente in vigore e,

quindi, Anas è tenuta a dare attuazione a quanto prevede la legge, ovvero al principio generale che la rete autostradale Anas diventa a pedaggio». Attirando su di sé in risposta gli strali dell’intero arco politico, dalla Polverini ad Alemanno passando per Zingaretti. E ha messo il dito nella piaga Fabrizio Palenzona, presidente dell’Aiscat (l’associazione delle autostrade): «L’Anas dovrebbe uscire dalla pubblica amministrazione e diventare totalmente privata». Un problema che anche Ciucci ha ben presente: «L’attuale situazione porta svantaggi perché ci criticano sia se operiamo con logica privatistica oppure se operiamo come pubblica amministrazione».

In attesa della riforma dell’Anas (che di certo sarà in programma prossimamente, come tutte le cose che alla fine non si fanno mai), bisogna ricordare come si è arrivati a questa situazione: «Con una mano è stato aumentato il canone che i concessionari devono versare ad Anas per fare il proprio mestiere, con l’altra gli si è detto: se i conti non vi tornano, aumentate pure il pedaggio. Come dire: l’esecutivo neppure si prende la briga di riscuotere le impo-

ste. Taglieggia un gruppo ristretto di grandi imprese - come già aveva fatto con la cosiddetta Robin Tax su compagnie petrolifere, banche e assicurazioni - e lascia che siano queste a sbrigarsela coi consumatori. Il risultato netto è che tutti saranno più poveri, tranne l’erario», ha scritto Carlo Stagnaro dell’Istituto Bruno Leoni.

Eppure la questione del pedaggio sul Gra e sulle autostrade che finora ne erano prive ha creato molte polemiche, soprattutto al Nord. Dove invece la gratuità era vissuta come grande ingiustizia da chi è abituato a tirar fuori balzelli su balzelli per le tangenziali e i collegamenti. E quindi, si pensa, meglio che paghino tutti. Poi c’è anche da aggiungere che la tassa potrebbe contribuire a snellire collegamenti congestionati, ma – è l’altra faccia della medaglia – potrebbe anche mettere in crisi quelle strade dove tutti si direzioneranno per evitare di pagare. Ma il proble-

ma è tutto qui: ovvero sul fatto che per le infrastrutture o i servizi di trasporti ad ampio raggio la concorrenza in Italia o non esiste perché i monopoli sono naturali, oppure è resa estremamente difficoltosa dal fatto che il possesso della rete è appannaggio di aziende che non hanno nessuna voglia di favorire i possibili concorrenti, anzi. E il problema è ben delineato nel trasporto su rotaia, dove chi entra nel business è comunque un socio pubblico. Fa notare Oscar Giannino su Chicagoblog: «La via alla concorrenza ferroviaria non si presenta meno ostica di quella aerea. Il particolare è che in entrambi i casi è Banca Intesa a giocare un ruolo di primo piano, visto che il capitale di tutti i soci privati di Ntv a cominciare da quello di Montezemolo è sin dall’atto costitutivo retrocesso in garanzia a Intesa. L’unico vero socio industriale del concorrente di Fs è l’incumbent pubblico francese Sncf. A testimonianza che la gara per l’apertura dei mercati nazionali è innanzitutto una gara tra giganti pubblici, con tedeschi e francesi pronti a far piazza pulita degli avversari». Difficile dargli torto., forse anche Mauro Moretti, l’ad delle Ferrovie, lo sa.


diario

14 settembre 2010 • pagina 7

Ancora un incidente per la pesca nel Golfo della Sirte

La Dia teme una vendetta della camorra

Peschereccio di Mazara colpito dalla Libia

Imprenditore sequestrato a Saviano, vicino a Napoli

AGRIGENTO. Un motopesche-

NAPOLI. Un imprenditore campano, Antonio Buglione, 59 anni, fratello di Rosa, sindaco di Saviano (Napoli), è stato sequestrato domenica sera da un commando armato sotto la sua casa a Saviano. La sua Panda è stata ritrovata poco distante dall’abitazione, in via Abate Minichini. Per la sua libertà sarebbe stata avanzata già una richiesta di 5 milioni di euro come riscatto. Dallo stretto riserbo degli investigatori è trapelata questa indiscrezione che però deve essere ancora verificata. Infatti gli stessi investigatori nutrono seri dubbi sul movente del sequestro o se addirittura non si tratti di un rapimento ma di una vendetta. Sulla vicenda indaga la Direzione di-

reccio della flotta di Mazara del Vallo, l’Ariete, è approdato ieri mattina nel porto di Lampedusa dopo essere stato mitragliato da una motovedetta libica. Un’inchiesta è stata aperta dalla Capitaneria di Porto Empedocle che sta cercando di verificare la dinamica dei fatti. Il peschereccio presenta diversi fori su una delle fiancate. L’incidente è avvenuto 31 miglia al largo di Al Zawara, località libica quasi al confine con la Tunisia, nota perché è da qui che partivano le carrette del mare dirette verso Lampedusa. L’area è quella del Golfo della Sirte della quale la Libia rivendicata i diritti di pesca. Non è ancora stato accertato se il motopeschereccio mazarese stesse pescando o se stesse semplicemente navigando. «Stiamo verificando l’accaduto - ha detto il comandante Vittorio Alessandro, capo dell’ufficio relazioni esterne del Comando generale delle Capitanerie di Porto che si trova al momento a Porto Empedocle -. A bordo del peschereccio c’erano dieci persone, tre delle quali di nazionalità tunisina. Stiamo cercando di ricostruire quanto accaduto.Tutti

L’allarme dell’Europa: «L’Italia è debole» Per Bruxelles, il nostro Pil più basso della media Euro di Sabrina de Feudis

ROMA. Da Bruxelles soffia una ventata di ottimismo sui conti europei; ma non per l’Italia. La Commissione dell’Unione europea ha di fatto raddoppiato le stime di crescita nel 2010 per l’Eurozona: il Pil dovrebbe crescere dell’1,7%, contro lo 0,9% previsto a maggio. Ma il quadro globale resta al quanto incerto. Per il terzo trimestre la crescita del Pil dovrebbe attestarsi a quota 0,5% (sul trimestre precedente), nel quarto scendere a 0,3%. Nella Ue 0,5% e 0,4%. L’andamento positivo rispetto a quanto stimato nella prima parte dell’anno,indica Bruxelles, è da attribuire alla crescita avvenuta nei sette maggiori paesi Ue (Francia, Germania, Italia, Spagna, Olanda, Polonia e Regno Unito) che da sole costituiscono l’80% del Pil dell’Unione europea. Germania e Polonia fanno registrare la crescita più alta attestandosi al 3,4% (1,2% stimato in maggio per la Germania, 2,7% per la Polonia); seguono Olanda all’1,9% (da 1,3%), Regno Unito all’1,7% (da 1,2%), Francia all’1,6% (da 1,3%), Italia all’1,1% (da 0,8%). La Spagna resta l’unico paese, dei sette maggiori, a trovarsi in una situazione di recessione: -0,3% rispetto alla stima precedente di 0,4%.

stra, la ripresa dell’Italia appare “moderata” e trainata principalmente dal settore industriale, grazie all’impennata avuta dalle esportazioni dopo il collasso del 2009. La situazione ancora fragile del mercato del lavoro continuerà a pesare sulla dinamica dei consumi privati, questa la fotografia scattata dall’’Unione europea sulla crescita economica del nostro Paese.

Per il commissario Olli Rehn, dunque, nonostante la ripresa, la prudenza è d’obbligo. Restano infatti grandi incertezze intorno all’evolversi dell’economia europea, con i rischi di un ulteriore indebolimento della domanda esterna e di nuove tensioni sui mercati finanziari, che come avverte lo stesso commissario non possono essere escluse. Tra i fattori di maggior rischio anche il fatto che il radicale risanamento dei conti pubblici potrebbe penalizzare, soprattutto in alcuni paesi, la domanda interna, dunque i consumi privati. Ma da Bruxelles la parola d’ordine resta sempre quella degli ultimi mesi:« Avanti con la salvaguardia della stabilità finanziaria e col risanamento dei bilanci. Queste- ribadisce Rehn – rimangono le priorità assolute». Ma le preoccupazioni restano alte, bisogna sperare che le economie dei principali partner mondiali della Ue non influenzino negativamente la ripresa europea. Anche se questa possibilità,come hanno spiegato da Bruxelles, ossia lo scenario della doppia recessione, appare poco probabile. Le parole di Rehn risuonano come veri e propri consigli, insomma: una ricetta per guarire l’Italia dai mali che ne influenzano l’economia. «Sono essenziali le riforme strutturali per creare più competitività e più posti di lavoro. In particolare una maggiore moderazione salariale dovrebbe aiutare l’Italia a ridurre la perdita di competitività e ad aumentare la produttività, i tassi di occupazione e la crescita economica». Insomma, l’economia europea è sulla via della ripresa e i singoli paesi cercano di scrollarsi di dosso lo spauracchio della crisi, ma tutto questo in uno scenario ancora molto fragile.

La relazione della Ue aumenta le stime di crescita per il 2010: «Ma il nodo resta il risanamento dei bilanci», dice Rehn

i membri dell’equipaggio stanno bene. La sparatoria è avvenuta ieri sera».

L’Ariete, iscritto al compartimento marittimo di Mazara, è un peschereccio di trentadue metri ed è comandato da Gaspare Marrone. Già lo scorso 10 giugno sempre al largo delle coste libiche altri tre pescherecci di Mazara del vallo - l’Alibut, il Mariner 10 e il Vincenza Giacalone - erano stati sequestrati mentre erano impegnati in una battuta di pesca nel Golfo della Sirte. Il sequestro era avvenuto a circa trenta miglia dalla costa, in una zona considerata dai libici di propria esclusiva competenza, nonostante le norme del diritto marittimo internazionale: la questione della pesca nel Golfo della Sirte è aperta da anni.

Apparentemente, migliora la situazione per l’Italia, secondo le stime apportate da Bruxelles, ci sarà un incremento del Pil dell’1,1% sull’insieme del 2010, a fronte del più 0,8% indicato nelle stime di maggio. Ma nonostante i dati positivi, il nostro Paese cresce meno degli altri, basti pensare al penultimo posto guadagnato nella classifica, davanti solo alla Spagna. A smorzare l’ottimismo generale ci pensa Olli Rehn, commissario Ue agli affari economici e monetari. «La ripresa c’è, ma resta fragile, soprattutto per la grande incertezza sull’evoluzione della situazione a livello mondiale. Dobbiamo concentrarci sulle riforme strutturali per elevare il nostro potenziale di crescita: prima e più fortemente agiremo su questo fronte, più certi potremo essere di una crescita sostenuta e della creazione di posti di lavoro». Tornando alla situazione di casa no-

strettuale antimafia di Napoli, coordinata dall’aggiunto Rosario Cantelmo che ha attivato il «silenzio stampa». Buglione, originario di Saviano, è stato titolare di aziende attive nel campo della security, come la «Vigilante 2», poi trasformata in «International Security Service», impresa poi sottoposta a un controllo e un’interdizione antimafia da parte della Prefettura di Napoli. Si tratta di un istituto di primo livello nel campo della sicurezza. Tanto che nel 2005 i suoi vigilantes divennero la «guardia privata» della Regione Campania (con una delibera di 4,5 milioni). Una potenza imprenditoriale dovuta anche ai rapporti con la politica: uno degli ultimi colpi, prima delle inchieste, fu quello dell’appalto per il denaro della allora Banca di Roma in Campania, conquistato con un maxi-ribasso.

In passato Buglione fu assolto nel corso di un’inchiesta a carico del clan Alfieri, ma il tribunale (Francesco Soviero era il giudice estensore) scrisse: « I rapporti con esponenti della criminalità, la gestione clientelare della cosa pubblica e i diffusi rapporti con esponenti politici dimostrano che ci troviamo di fronte a un uomo privo di scrupoli».


politica

pagina 8 • 14 settembre 2010

Riforme. In vista del voto del 28 settembre, Francesco Nucara annuncia: «Ho convinto venti deputati a fondare un movimento di responsabilità nazionale»

2010 fuga dal bipolarismo Per i sondaggisti, gli italiani vogliono nuove regole prima delle urne. E invece nel Pdl nasce un nuovo mini-gruppo di Riccardo Paradisi

Anche i veggenti delle urne annunciano che la vocazione maggioritaria non piace più

ascerà il nuovo gruppo a sostegno del governo. I numeri ci sono. Arriviamo a 20 deputati senza iniezioni del Pdl; si tratta di gente che fino ad ora non ha votato la fiducia a Berlusconi». A dare la notizia è il segretario del Pri Francesco Nucara, dopo l’incontro con Silvio Berlusconi. È così che il governo tende a prolungarsi la vita e il bipolarismo italiano a sopravvivere. Questo mentre gli italiani dicono di averne abbastanza della presunta stabilità garantita da questo sistema, della semplificazione politica che avrebbe dovuto generare sembra che Lo dicono in due sondaggi pubblicati a distanza ravvicinata da Repubblica e dal Corriere della Sera sulle preferenze degli italiani rispetto ai sistemi elettorali. Partiamo dall’inchiesta di

Il bipartitismo è finito, avvertite Berlusconi

«N

La gente prende atto che questo sistema ha visto il fallimento del governo Prodi nel 2006-2008 e la crisi della maggioranza di Berlusconi dal 2008 al 2010 Renato Mannheimer pubblicata sul Corriere. Dai rilevamenti dell’Ispo si deduce che il 49% di italiani esprime la propria preferenza per una legge che non penalizzi i piccoli partiti. Una percentuale raddoppiata rispetto al 2007 (quando questa percentuale era appena al 24%). Nel sondaggio Ipr Marketing pubblicato da Repubblica i risultati non sono troppo dissimili: la maggioranza degli intervistati vuol farla finita presto col sistema delle liste bloccate mentre il 41% delle persone sentite di fronte alla domanda su quale sia per loro il modello elettorale preferito, indicano quello tedesco come il migliore: proporzionale cioè con sbarramento al 5 per cento.

Al sistema maggioritario uninominale a doppio turno sul modello francese vanno il 22 per cento delle preferenze, al Mattarellum, il 18 per cento e infine alla Legge Calderoli, attualmente vigente, solo il 12 per cento. Insomma se questi dati sono veri il bipolarismo con premio di maggioranza cessa di essere un tabù. Il maggioritario infatti non sembra essere né nella testa né nel cuore degli italiani e la simpatia verso questo bipolarismo è molto bassa anche tra gli elettori del centrodestra: solo il 31 per

di Giancristiano Desiderio l Pdl si prepara a cercare una maggioranza, anche abborracciata, dove far entrare chiunque, con il solo imperativo di dire sì al premier, mentre il Pd con Bersani, insiste nell’idea di raggruppare tutte le sinistre possibili immaginabili con il solo collante di dire no al premier. Il Pdl e il Pd recitano la parte di sempre e non si avvedono che la storia del bipartitismo è tramontata e il bipolarismo non sta tanto bene. Se prima questa era un’analisi dei lettori più attenti per quanto interessati, ora è un dato che ci giunge dal meraviglioso mondo dei sondaggi. Per noi le domande dei sondaggisti e le risposte dei loro campioni sociali ed elettorali non sono la bocca della verità, ma per il presidente del Consiglio sì. E proprio lui che li ha quasi inventati e voluti fortemente in politica li dovrebbe consultare meglio e tenere in maggior considerazione. Gli ultimi sondaggi pubblicati ieri dai due maggiori quotidiani italiani, infatti, ci dicono che gli italiani hanno un calo di affetto per i partiti a vocazione maggioritaria, riscoprono i partiti più piccoli e sono consapevoli della necessità di giungere al più presto a una riforma elettorale. Come a dire che il paese reale è come al solito un po’ più avanti del paese legale ed è prodigo di suggerimenti utili. Purtroppo, come dicono le vecchie zie, non c’è peggior sordo di chi non vuole sentire.

I

Tra i vari sondaggi, noti e meno noti, pubblicizzati e segreti, che circolano in queste settimane ci sono anche i numeri delle ricerche di Berlusconi. Che cosa dicono? Ad ascoltare il premier si rimane perplessi e disorientati: il capo del governo parlando ai giovani del Pdl ha detto tutto e il contrario di tutto. Prima si è lasciato scappare che i sondaggi non sono tutti rose e fiori, quindi ha voluto rassicurare i giovani del Pdl rivelando che «Pdl e Lega sono oltre il 50 per cento», mentre solo qualche giorno fa si lamentava proprio con Bossi perché un voto anticipato dovrebbe fare i conti con un’astensione che punirebbe proprio il maggior partito di governo. Insomma, girate i dati dei sondaggi come volete e vi renderete conto che oggi chi soffre di più è proprio quel partito unico del centrodestra che, anche dopo la dichiarazione di “morte” fatta dal Cofondatore cacciato a pedate, non si sa se esiste ancora. Senz’altro non esiste il

centrodestra per come lo si è conosciuto negli ultimi anni di vita.

Se ci trasferiamo sul versante opposto, il panorama cambia di segno politico ma non muta quanto a sostanza di partito: anzi, qui la crisi della vocazione maggioritaria del Pd si è fatta sentire anche prima in forza della sconfitta politica ed elettorale e la soluzione del problema non sembra trovarsi né in un nuovo tentativo maggioritario né in una nuova ennesima versione del centrosinistra ulivista. Mettere insieme i cocci della coalizione andata in frantumi non è facile e il rischio è quello di rimanere prigionieri del passato. Ma oggi ciò che conta è la posizione del governo e di chi lo sostiene: il governo Berlusconi sembra il fortino del deserto dei Tartari. Berlusconi vede nemici ovunque e soprattutto li vorrebbe vedere materializzarsi davanti ai suoi occhi per ritrovare unità e coesione tra i suoi uomini. Ma il premier, che una volta annusava l’aria, non si avvede che il vento è cambiato. O, forse, lo ha capito benissimo e si arrocca a difesa dell’esistente. Finché ci riesce bene, ma fino a quando? I sondaggi non dicono ciò che non possono dire: quale legge elettorale adottare. Ma questo è proprio il compito della politica a cui Berlusconi ha rinunciato per serrare le fila e provare a resistere nell’idea di recuperare terreno e consensi. Oggi Berlusconi è il primo avversario del cambiamento. Il suo è davvero uno strano destino: si è presentato da sempre agli italiani come l’uomo che avrebbe cambiato l’Italia e oggi è il primo ostacolo del cambiamento che gli italiani sanno essere necessario per rimettere in moto la politica bloccata nel fallimentare bipartitismo. Il premier ha ancora in mano il pallino, ma è come quel giocatore che non sa cosa bene quale giocata fare e a cui trema il braccino per il colpo che non ha il coraggio di osare. Se solo fosse più lucido, Berlusconi potrebbe ancora guidare un governo e una fase nuova per rimettere in moto politica e società e lasciare ad altri il ruolo scomodo di ostacolo del cambiamento.

cento di loro dice di voler confermare l’attuale legge. Del resto era stato lo stesso Calderoli a battezzare la sua creatura una porcata. Ma che cosa è accaduto agli italiani perché dopo esser stati persuasi per più di un quindicennio che il bipolarismo e il maggioritario erano i migliori dei sistemi possibili decidano ora di fare macchina indietro, di ripensarci?

Certo a ridimensionare l‘aura positiva del bipolarismo bastano le cronache politiche di queste ore dove il premier è costretto a chiedere sostegno a piccole formazioni indipendenti presenti in parlamento per poter continuare a governare con un margine relativo di tranquillità. E dove, dall’altra parte, il segretario del maggiore partito di opposizione da un lato si pone il problema di una riforma della legge elettorale ma dall’altro insiste nell’idea di una grande coalizione per recuperare anche le forze minori. Insomma il dato che i due partiti maggiori del bipolarismo sono costretti a incollare forze politiche satellitari per governare o ambire ad avere una maggioranza alternativa significa che qualcosa non va, che forse esistono sensibilità e culture politiche che hanno necessità d’una rappresentanza propria. Maurizio Pessato della Swg legge con liberal i dati di queste indagini, mettendo però in guardia dal ricavarne deduzioni troppo frettolose ma anche confermando che il trend è quello della fuga dal bipolarismo. «Quello dei sistemi elettorali è un materiale molto scivoloso, non c’è una competenza diffusa in questa materia e le


politica

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Continua l’assurda polemica su chi «si prostituisce per il seggio»

Deputate in vendita? È aperto il dibattito Stracquadanio risponde alla Napoli: «È legittimo che per fare carriera ognuno utilizzi quel che ha» di Marco Palombi

Il dibattito sulla riforma elettorale è aperto anche fra gli elettori. A destra, Giorgio Stracquadanio e Angela Napoli. Nella pagina a fianco, Silvio Berlusconi persone non sono sempre avvertite su cosa sia precisamente un uninominale secca o un doppio turno. Però ci sono alcuni punti fermi che registriamo anche noi. Anzi tutto il rifiuto radicale e convinto dell’attuale legge elettorale che non consente di scegliere i candidati. Poi si registra una delusione palpabile per la qualità del bipolarismo italiano e per i suoi esiti. Insomma la gente prende atto che questo sistema ha visto il fallimento del governo Prodi nel 2006-2008 e la crisi della maggioranza di Berlusconi dal 2008 al 2010».

Malgrado tutto però gli elettori italiani hanno introiettato l’idea che ci possano essere due, tre schieramenti anche articolati che si contendono il governo. Del resto anche il nostro proporzionalismo puro, quello della cosiddetta Prima Repubblica, era un bipolarismo di fatto. Alle elezioni amministrative si configurava di solito uno schieramento di centrosinistra, Pci e Psi insieme da un lato e Dc e partiti laici dall’altro». Va però detta una cosa, che il bipolarismo non interpreta più bene le esigenze di società complesse e frammentate come quelle contemporanee: «perde strada anche in Gran Bretagna e Germania – fa notare Pessato – dove infatti emergono alleanze inedite». Ma c’è un altro fattore che gioca a sfavore del bipolarismo italiano, che è un bipolarismo divaricante. E

«non a caso – dice Pessato – si parla di terzo polo. Un’area in espansione che potrebbe pescare consenso in quel 40-45 per cento delle persone che popolano il grande bacino dell’indecisione. Solo il 50-55 per cento dell’elettorato intervistato per i nostri sondaggi si esprime sulle preferenze di voto il resto si dice appunto indeciso. E il 20 per cento sono pronti a votare una terza ipotesi. C’è un terreno enorme di presa di distanze rispetto ai due giganti della politica italiana ed è evidente che un ulteriore proposta terzista può avere una risposta molto positiva da parte dell’elettorato». Un momento pericoloso insomma per i due partiti maggiori. Alessandro Amadori dell’Istituto Coesis non vede invece una contraddizione tra lo scetticismo manifestato per l’attuale sistema elettorale e un sostegno di fondo al bipolarismo. «Questa alta percentuale di italiani che si esprime per un ritorno ai piccoli partiti può rappresentare un dato contingente, una reazione a questi lunghi mesi di crisi dei maggiori partiti italiani e di rissa continua all’interno della maggioranza. Io leggerei questo flusso come una contingenza traumatica. Anche perché sul piano locale sfido chiunque a dimostrare che ci siano grandi numeri favorevoli al ritorno al precedente sistema». La verità come sempre sta nel mezzo dunque: «L’esigenza degli italiani è quella di rendere più funzionale e più elastico il bipolarismo, renderlo più centripeto, meno ostaggio delle ali estreme. E il sistema tedesco, a cui sono andate molte preferenze, è un sistema di fatto bipolare e più elastico con il suo meccanismo di coalizione a geometria variabile».

ROMA. Doveva succedere, ed è successo. La slavina che ha inghiottito il vecchio, caro, confine del dicibile è dispersa sotto la valanga di scorie dell’incontinenza verbale di questi anni. La maggior parte dei detriti, com’è ovvio che sia, s’intruppa attorno al sesso, al corpo femminile, compresa quella variante spuria che è il devirilizzato corpo maschile. È assiso su questo panorama di rovine che ieri, ospite di quella sorta di salotto pornosoft che è diventato Klaus Condicio, la trasmissione web di Klaus Davi, Giorgio Stracquadanio ha voluto concionare attorno alla legittimità della prostituzione come mezzo per far carriera in generale, e carriera politica in particolare. Come usa in questi casi, l’ex speechwriter del Cavaliere - oggi caduto un po’ in disgrazia nel gioco delle invidie di corte ha ammantato l’inaccettabile di leggiadra sbarazzineria intellettuale: non siate ipocriti, suvvia, è così che il va mondo. «È assolutamente legittimo che per fare carriera ognuno di noi utilizzi quel che ha, l’intelligenza o la bellezza che siano», ha spiegato il deputato del Pdl rispondendo a un’infelice uscita della finiana Angela Napoli: d’altronde «oggi la politica ha anche una dimensione pubblica: ci si presenta anche fisicamente agli elettori, dire il contrario è stupido moralismo!. Se è così, evidentemente, Stracquadanio pensa di soddisfare i pruriti estetico-sessuali dei suoi elettori (la circoscrizione Lombardia 1 per i curiosi o per chi volesse protestare la sua innocenza) visto che la performance di Giorgio Clelio s’è estesa anche alla “dilagante” prostituzione maschile: «La vediamo nel culto del corpo che c’è tra gli uomini. Uno lo cura così maniacalmente e gli dedica fortissime attenzioni perché lo offre. Alla vista. Al contatto».

gli edili. Prostitute o meno sono gli elettori a giudicare, sostiene in buona sostanza Stracquadanio. Solo che, a parte il fatto che i parlamentari si mandano a Roma in liste bloccate, il punto - proprio per non fare i moralisti - è giusto l’informazione sulla faccenda, i diciamo criteri di selezione della classe dirigente: i cittadini dovrebbero poter sapere, prendiamo un caso impossibile, se un ministro o una ministra siano stati nominati dopo una provino di natura sessuale.

Così, giusto per sapere con chi si ha a che fare. Essere sbarazzino però, ovviamente a vantaggio del premier, è l’unica preoccupazione di Stracquadanio, insieme alla voglia di finire sui giornali. Alle parole del nostro, come prevedibile, è infatti seguito dibattito: «Parole degne di un pappone», è il giudizio in perfetto dipietrese dell’Idv Antonio Borghesi. I finiani di Generazione Italia, sul loro sito, si limitano invece alla presa in giro: «Ci verrebbe da riprendere il grande Corrado Guzzanti e il suo famoso sketch,“siamo nella Casa delle Libertà e facciamo un po’come cazzo ci pare”. Ma visto che potrebbero accusarci di flirtare col “compagno” Guzzanti, ci limitiamo al liberalissimo basta che paghino le tasse». Indignate, ovviamente, le donne: «Provocazioni futili e diseducative», mette a verbale l’ex An Barbara Saltamartini. «Affermazioni francamente aberranti», aggiunge la finiana moderatissima Souad Sbai. Si permette di dissentire anche Beatrice Lorenzin, già leader dei giovani berlusconiani: «Le argomentazioni dialettiche di Stracquadanio, assai suggestive, non tengono conto della subcultura che le ammanta e cioè la normalizzazione dell’uso del corpo, in particolare delle donne, come strumento di potere». Il nostro però, sbarazzino ma lucido da par suo, aveva già previsto l’obiezione: «Quando si toccano certi temi prevale l’ipocrisia o il moralismo perché il mondo politico non è capace di raccontare se stesso, non ha una sua narrazione. La politica si racconta in modo diverso dalla realtà e cerca di rappresentare la virtù come qualcosa di sovrumano. Poi, siccome la realtà è spesso qualcosa di subumano, lo iato tra rappresentazione sacrale e comportamento quotidiano spregevole fa sì che prevalga una sorta di disprezzo diffuso».

In tutta risposta “Generazione Italia”, il sito del movimento dei finiani, ironizza: «Basta che paghino le tasse»

E si capisce dal ritmo sincopato delle parole, il fremito che percorreva il nostro, lo stato per così dire di erezione intellettuale in cui versava, soddisfatto come doveva essere da tanto sfoggio di libertà di pensiero o forse dalla memoria di corpi sudati di palestra offerti alla vista, al contatto. E dunque, «smettiamola con le ipocrisie: queste forme fanno parte della vita di relazione. Era così nell’antica Roma e in Grecia», ha concluso evitando però di proporre - com’era prassi in età imperiale - l’iscrizione nel registro de-


panorama

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ragioni&torti di Giancristiano Desiderio

Brunetta, la Lega e la questione meridionale o quarantadue anni e da sette ho passato quello che il nostro comune padre Dante dice essere il «mezzo del cammino di nostra vita». Ho studiato sui banchi di scuola quella cosa strana ma pur esistente che si chiama “questione meridionale” e ne ho fatto la conoscenza diretta vivendo il Sud per provare a dare il mio piccolo contributo alla vita civile italiana e meridionale. So per certo che la “questione meridionale” vivrà più di me perché il suo cuore più antico riguarda il rapporto che le classi dirigenti meridionali intrattengono con se stesse e con il potere negli enti locali. La questione meridionale, come giustamente osservava nei suoi ultimi anni Norberto Bobbio, è la questione dei meridionali. Ecco perché non riesco a dare torto al ministro Renato Brunetta che in un’intervista delle sue ha parlato di Napoli e di Caserta come di un “cancro” e in generale del Mezzogiorno come di un problema nazionale. Tuttavia, si può dare ragione a Brunetta?

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Lasciamo stare i toni e le buone maniere. Paolo Macry si è lamentato soprattutto del galateo di Brunetta e ha detto che se avesse detto le stesse cose in modo più civile avrebbe avuto pienamente ragione. Ma ciò che non torna - come anche Macry ha notato - è che Brunetta è appunto un ministro e soprattutto è un ministro di una coalizione e di un governo che sono alla guida dell’Italia da ormai molti anni. Eppure, la “questione meridionale” non è mai stata posta al centro della politica nazionale del centrodestra che, al contrario, si regge sulla centralità della “questione settentrionale” ben rappresentata dalla Lega. L’ex ministro dello Sviluppo economico era di Imperia: perché il prossimo ministro non potrebbe essere di Gioia Tauro o di Nola o di Bari? Possibile che ciò che il governo Berlusconi sa dire e sa fare sul Sud è che nei punti sui quali sarà chiesta la nuova fiducia settembrina c’è anche il Mezzogiorno? Tuttavia, la “questione meridionale” non è solo un problema economico. Ce lo dice la storia con grande chiarezza: nel dopoguerra il Sud cresce materialmente ma arretra civilmente. Le risorse economiche possono essere tanto un volano per lo sviluppo quanto per il sottosviluppo. Il Sud moderno ha conosciuto un nuovo fenomeno di feudalesimo. La lunga stagione di Bassolino e della sinistra al potere appartiene a questa storia. La gestione e il controllo della spesa riesce ad avvilire contemporaneamente la politica e la società civile. In un contesto del genere il federalismo non è per il Sud una buona soluzione: più i soldi sono vicini al territorio più il crimine organizzato, grande e piccolo, diventa attento e rapace. Il lavoro di Maroni è lodevole e necessario, ma non sufficiente. Quando vuole la camorra spara e uccide chi vuole: come il povero Angelo Vassallo. Il Sud, purtroppo, vive nel fango in senso fisico e morale. Non è davvero un caso se vengono giù case, colline, paesi: Sarno, Cervinara, Giampileri e oggi Atrani. Succederà ancora, purtroppo.

Attaccano il papato, non Benedetto XVI Anche Paolo VI e Giovanni Paolo II hanno subito la stessa sorte di Luigi Accattoli l Papa parte giovedì per la Gran Bretagna preceduto da polemiche che Channel 4 stasera rilancerà con un documentario sulla pedofilia di quel Peter Tatchell che si proclama «gay orgoglioso e arrabbiato» . È certo che infine il Papa – con il suo procedere disarmato – avrà la meglio sui rumori della vigilia, come già a Cipro e in Terra Santa, in Francia e in Turchia. Ma è vero che Benedetto è più avversato fuori della Chiesa e più criticato dentro la Chiesa rispetto ai predecessori?

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Sono usciti su questo argomento almeno quattro volumi, uno negli Usa e tre in Italia. Quello americano – che ha per autori i pubblicisti cattolici Gregory Erlandson e Matthew Bunson: Pope Benedict XVI and the Sexual Abuse Crisis – si concentra sull’attacco al Papa legato allo scandalo della pedofilia, mentre i tre italiani allargano il campo a ogni critica. Il primo ad arrivare in libreria è stato il pamphlet di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro intitolato Viva il Papa! Perché lo attaccano, perché difenderlo (Vallecchi): sostiene che l’avversione a Benedetto XVI sia dovuta anche al rafforzamento del Papato che egli persegue. Più puntuali sono altri due volumi dovuti a vaticanisti. Attacco a Ratzinger. Accuse e scandali, profezie e complotti contro Benedetto XVI (Piemme) è intitolato quello firmato da Andrea Tornielli (Il Giornale) e Paolo Rodari (Il Foglio), in libreria da un paio di settimane. Il vaticanista del Tg1, Aldo Maria Valli, arriva ora con un testo più breve pubblicato da Lindau: La verità del Papa. Perché lo attaccano, perché va ascoltato. La parola che lega i quattro autori italiani è “attacco”. Sia loro sia gli americani si muovono a difesa del Papa. Comune ai quattro è l’idea che l’avversione – mediatica, di opinione pubblica e di centrali ideologiche – nei confronti di Benedetto XVI sia più forte di quella che si trovarono a fronteggiare i predecessori. La mia opinione è un poco diversa e vede una stretta continuità tra gli attacchi al Papa tedesco e quelli che dovettero subire il secondo Paolo VI, quello dopo l’Humanae vitae, che è del 1968; e il primo Wojtyla, quello che «non capiva l’Occidente» ed era «ossessionato» dal comunismo e dal sesso. Gli ottimi colleghi delle tre pubblicazioni studiano

– come casi maggiori – il discorso di Ratisbona sull’islam (settembre 2006), la liberalizzazione del vecchio rito della messa (luglio 2007), il caso Williamson (gennaio 2009), la questione del preservativo in funzione anti-Aids (marzo 2009) e lo scandalo degli abusi sessuali del clero. Ebbene io penso di poter elencare altrettanti casi di chiasso mediatico antipapale per i pontificati di Paolo VI e Giovanni Paolo II. Per Paolo VI menziono la reazione alla già citata Humanae vitae, quella al Credo del popolo di Dio (sempre 1968), l’irrisione al suo richiamo della dottrina su Satana (Il Papa e il diavolo di Vittorio Gorresio è un volume Rizzoli del 1973), le polemiche per l’invito ad abrogare la legge sul divorzio nel referendum italiano del 1974 e quelle per la sua “deplorazione” degli indipendenti cattolici nelle liste del Pci nel 1976. Per Giovanni Paolo richiamo le contestazioni subite in occasione del referendum sull’aborto in Italia (1981) e in Polonia (1993), l’accusa di aver represso i teologi della liberazione (1981) e quella di un ritorno all’indietro rispetto al Vaticano II (La reazione di Papa Wojtyla di Giancarlo Zizola è un volume Laterza del 1985), il caso Marcinkus (1982), l’affaccio alla finestra con Pinochet (1987).

C’è una stretta continuità tra le critiche a Ratzinger e quelle che dovettero subire il “secondo” Montini e il “primo” Wojtyla

Il mio è un richiamo a una veduta di lungo periodo. Ma non nego che vi sia una specificità nell’avversione che si manifesta nei confronti di Papa Ratzinger rispetto alle ondate che colpirono i predecessori. Come loro egli è scelto a bersaglio da una cultura a dominante secolare che non data certo dal 2005, ma a differenza di loro egli non ha mai avuto un momento di incontro con tale contesto quale invece ebbero il Montini riformatore dei primi anni e il Wojtyla “primo Papa non italiano”della storia moderna. Il Ratzinger cardinale e Papa è stato sempre considerato da quel contesto un irriducibile conservatore e quella fama ha impedito che la sua elezione provocasse un qualche moto di simpatia laica. Ma è ragionevole prevedere che la sua conduzione del dialogo con l’islam e della reazione allo scandalo pedofilia, nonché la coerente predicazione della pace e della giustizia siano destinate a procurargli, nel tempo, un sempre migliore apprezzamento anche all’esterno della Chiesa. www.luigiaccattoli.it


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Un libro scritto per un’altra epoca torna utile di fronte all’escalation atomica del regime di Teheran

Come fermare l’Iran. Parola di Kissinger Uno dei più famosi studiosi di geopolitica del mondo “intervista“ l’ex segretario di Stato sull’attualità della sua storica teoria sul «contenimento delle potenze nucleari rivoluzionarie». Quel che si adattava all’Unione Sovietica della guerra fredda può funzionare anche con Ahmadinejad? di Robert D. Kaplan el 1957, un membro trentaquattrenne dell’università di Harvard, Henry Kissinger, pubblicò un libro, Nuclear Weapons and Foreign Policy, in cui avanzava una proposizione controintuitiva: cioè che all’apice della Guerra Fredda, con gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica intenti ad ammassare scorte sufficienti di bombe all’idrogeno in vista dell’Armageddon, una disordinata, limitata guerra con forze convenzionali e con uno o due scambi nucleari tattici fosse ancora possibile, e che gli Stati Uniti si dovessero preparare per un tale conflitto. Nella mente di Kissinger era ancora vivo il ricordo della Guerra di Corea, che solo quattro anni prima si era conclusa con una tregua – «una guerra nella quale,» come scrisse, «una strategia ad oltranza appariva particolarmente inadeguata». Ma Eisenhower riteneva che qualsiasi conflitto armato con Mosca si sarebbe poi trasformato in un olocausto termonucleare. Con il senno di poi, l’assenza di uno scambio nucleare nel corso della Guerra Fredda assurge a riprova della saggezza di Eisenhower e di ciò che divenne noto come dottrina della mutua distruzione garantita. Ma a più di mezzo secolo dalla pubblicazione del libro, esso non smette di offrire un’analisi rapida e diretta della natura umana ed assume una rilevanza contemporanea tremendamente inquietante. L’Eurasia – dal Mar Mediterraneo al Mar del Giappone – rappresenta oggi una fascia quasi ininterrotta puntellata da una gamma di missili balistici: quelli di Israele, della Siria, dell’Iran, del Pakistan, dell’India, della Cina e della Corea del Nord.

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Molte di queste nazioni dispongono di o stanno cercando di acquisire arsenali nucleari; alcune sono guidate dallo zelo religioso; e solo alcune di esse vantano sostanziali meccanismi di controllo burocratico per limitare l’utilizzo di tali armi. Tale coincidenza di circostanze accresce la prospettiva di una guerra nucleare limitata in questo secolo. Molto tempo fa Kissinger considerò questo problema nella sua interezza, e l’attuale impasse nucleare con l’Iran ci fornisce nuovi motivi per riproporre il sopraccitato volume all’attenzione del dibattito pubblico. Kissinger inizia il proprio studio contrastando l’idea che la pace costituisca il «percorso “normale” delle relazioni tra stati». In realtà, egli descrive un mondo che si delinea come tutt’altro che pacifico: «Sul piano ideologico, il fermento contemporaneo è alimentato dalla rapidità con la quale le idee possono essere comunicate e dall’inerente impossibilità di soddisfare le aspettative alimentate dagli slogan rivoluzionari. Sul piano economico e sociale, milioni di individui si ribellano contro le proprie condizioni di vita così come contro le barriere sociali e razziali che sono rimaste perdurano da secoli».

Continuando la sua descrizione di un mondo che ricorda il nostro, egli scrive, «le relazioni internazionali sono diventate pienamente globali... Non vi sono più aree isolate». Nel 2010, ciò suona assolutamente banale; ma allora, ai tempi di Eisenhower, l’idea che la Corea del Nord avrebbe fornito aiuto alla Siria nella costruzione di una centrale nucleare e avrebbe di conseguenza accelerato l’offensiva militare israeliana (come accaduto nel 2007) sarebbe apparsa totalmente improbabile. Kissinger prevedeva un mondo interconnesso funestato incessantemente da ideologie inquietanti e da aspettative non realizzate. Da tale turbolenza emergono inevitabilmente potenze rivoluzionarie, il cui ruolo costituisce un punto centrale del libro di Kissinger: «A più riprese gli stati sembrano proclamare audacemente che il proprio obiettivo è distruggere la struttura esistente e di rimodellarla completamente. E più volte, le potenze che sono le vittime dichiarate rimangono indifferenti o inattive, mentre l’equilibrio di potere viene sovvertito.»

Ovviamente, Kissinger si riferiva in tal senso dell’Unione Sovietica. Come la scorsa primavera mi ha riferito nel corso di un’intervista presso il suo ufficio di Manhattan, egli considerava Mosca una potenza rivoluzionaria in virtù del blocco di Berlino da essa attuato nel 1948-49, ed il suo incoraggiamento alla Guerra di Corea nel 1950, eventi che al momento della stesura del libro erano storia molto recente. Stalin era deceduto solo quattro anni prima. Nel corso di circa cinque decenni, grazie almeno in parte alla strategia occidentale del contenimento che non si è tradotta in confronti nucleari circoscritti, il comportamento del regime sovietico si è evoluto. La potenza rivoluzionaria era stata domata, se non da noi, dalla sua stessa longevità. L’inserire un Iran nuclearizzato al posto dell’Unione Sovietica della metà del XX secolo comporta l’emergere di varie opzioni foriere di ripercussioni. Nel suo libro, Kissinger scrive che, acquisendo armi nucleari, una nazione diventa capace, per la prima volta, di modificare l’equilibrio di potere regionale o globale senza invasioni o dichiarazioni di guerra.

Se i negoziati servono solo a prendere tempo «Non per tutte le nazioni un trattato racchiude un peso legale e morale» upponiamo che l’Iran sviluppi una capacità nucleare; un’eventualità che sembra possibile malgrado l’imposizione di sanzioni e la minaccia da parte di Israele di un qualche tipo di azione militare preventiva. Un Iran nucleare risulterebbe così pericoloso in quanto potenza rivoluzionaria come la vetusta Unione Sovietica? Più precisamente, come dovrebbero gli Stati Uniti misurarsi con la minaccia posta dall’Iran, dalla Corea del Nord, e da altre potenze aspiranti rivoluzionarie che cercano di utilizzare l’arsenale nucleare in loro possesso per sovvertire lo status quo?

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L’analisi del 1957 di Kissinger su come le potenze garanti dello status quo rispondano a coloro che brandiscono lo spettro rivoluzionario sembra tristemente applicabile alla situazione dell’Iran odierno: «I loro istinti li porteranno a cercare di integrare la potenza rivoluzionaria nel quadro di legittimità con cui hanno dimestichezza e che ad esse sembra “naturale”». Esse vedono nel negoziato la via maestra per gestire l’emergente divario. Il problema è che per una potenza rivoluzionaria, un negoziato non è “in sé stesso un sintomo di ridotta tensione,” come le potenze garanti dello status quo vorrebbero farci credere, ma semplicemente una tattica per guadagnare tempo. Mentre per le nazioni normali un trattato racchiude un peso legale e morale, per la potenza rivoluzionaria il dialogo su un trattato rappresenta una mera fase di concessioni nella sua continua lotta. Pensiamo a come la Corea del Nord ha abilmente – e ripetutamente – utilizzato la promessa di abbandonare la propria corsa al nucleare come un sotterfugio negoziale per assicurarsi altri benefici, dal combustibile ad un alleggerimento delle sanzioni. «L’Iran - mi dice Kissinger - si è conferito, sviluppando esclusivamente armi nucleari, un ruolo regionale sproporzionato rispetto al suo reale potere, e ne guadagna ulteriormente dall’impatto psicologico generato dalla sua capacità di essere in grado di sfidare con successo il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite». Nondimeno, continua, egli non considera l’Iran una minaccia dello «stesso ordine o importanza» dell’Unione Sovietica degli anni ’50, anche se «mette in discussione, a livello ideologico e militare, l’ordine vigente in Medio Oriente». Quando chiedo a Kissinger se una guerra nucleare sia contenibile, egli suggerisce che sarebbe opportuno

prendere misure dure per evitare innanzitutto che l’Iran si doti di capacità nucleari. Mi riferisce che gli Stati Uniti hanno «diverse equazioni di deterrenza» da

«Gli indicatori demografici e culturali puntano tutti ad un positivo cambiamento ideologico e filosofico in Iran nel medio-lungo termine. Il contenimento rappresenta dunque la politica più sensata per gli Stati Uniti»

prendere in considerazione: Iran contro Israele, Iran contro gli arabi sunniti, Iran contro i suoi dissidenti, e Islam contro Occidente. Tutte queste dinamiche, spiega, interagirebbero nell’eventualità dell’acquisizione del nucleare da parte iraniana, e porterebbero a «crisi sempre più frequenti» rispetto a quelle che attualmente caratterizzano il Medio Oriente. Ma malgrado il rifiuto iraniano di avvalersi della «genuina opportunità di trasformarsi da causa in nazione», mi riferisce Kissinger, i veri interessi strategici del paese dovrebbero «dipanarsi parallelamente ai nostri». Ad esempio, l’Iran dovrebbe limitare l’influenza russa nel Caucaso e nell’Asia centrale, dei talebani nel vicino Afghanistan, accettare la stabilità raggiunta in Iraq, e fungere da potenza di bilanciamento nel mondo arabo sunnita.

In realtà, sono propenso a sostenere che poiché gli arabi sunniti dell’Arabia Saudita, degli Emirati Arabi Uniti, del Libano e dell’Egitto perpetrarono gli attacchi dell’11 settembre 2001, e poiché l’ostilità sunnita agli interessi americani ed israeliani rimane un problema corposo, gli Stati Uniti dovrebbero teoricamente salutare positivamente il ruolo sciita nel Medio Oriente, se l’Iran dovesse compiere una anche solo parziale trasformazione politica. E gli indicatori demografici, culturali e di altra natura puntano tutti ad un positivo cambiamento ideologico e filosofico in


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Iran nel medio-lungo termine. Data questa prognosi, e l’alto costo e le scarse possibilità di successo di ogni sforzo militare per eliminare il programma nucleare iraniano, ritengo che il contenimento di un Iran nucleare rappresenti la politica più sensata per gli Stati Uniti. Il successo del contenimento dipenderà da un serie di fattori regionali. Ma il suo sine qua non sarà la capacità da parte degli Stati Uniti di sottolineare qualsiasi politica verso un Iran dotato di armi nucleari con la minaccia credibile dell’azione militare.

Come Kissinger mi ha detto, «Voglio che l’America sostenga qualsiasi misura si decida contro l’Iran». Come scrive in Nuclear Weapons and Foreign Policy, «La deterrenza... si raggiunge quando la prontezza di una parte di correre rischi in relazione all’altra è alta; è meno efficace quando la volontà di affrontare rischi è bassa, quantunque potente sia la capacità militare». Kissinger ben sa, per via della propria esperienza personale, che la politica interna modera la volontà statunitense di correre tali rischi. Le guerre limitate – quei conflitti in cui una nazione sceglie per ragioni politiche di non mettere in campo tutte le armi a sua disposizione – sono sempre state difficili per gli americani.

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L’ultima spiaggia della «guerra limitata» L’approccio strategico di Kissinger e la sua attualità nello scenario di oggi l mio libro - mi riferisce - fu scritto dopo un conflitto limitato, in Corea, dove gli Stati Uniti raggiunsero alcuni dei propri obiettivi. Dalla pubblicazione del libro, abbiamo affrontato una guerra limitata in Vietnam, in cui una parte della popolazione statunitense voleva perdere la guerra al fine di purificare l’anima statunitense. In minor misura, si è verificata la stessa situazione in Iraq. È un nuovo tipo di esperienza. Non si può combattere una guerra in funzione della exit strategy». La sua conclusione: «L’America non può più ingaggiare un conflitto a meno che sappia di poterlo vincere». Il punto cruciale del libro di Kissinger e, sotto molti aspetti, della sua vita professionale è questa continua tensione tra la sua convinzione che la guerra limitata sia un aspetto che gli Stati Uniti debbano prepararsi a prendere in considerazione ed il riconoscimento dei sommovimenti interni che tali guerre inevitabilmente generano. Il rifiutare, come questione di principio, di combattere guerre limitate equivale a

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svestire di potere l’America, con una sola politica reattiva contro le subdole manovre degli avversati: «Il nostro empirismo” scrive Kissinger, «ci condanna» a verificare preventivamente tutti i fatti di un caso, processo alla fine del quale è troppo tardi per agire. La ricerca di certezza, continua, ci riduce ad affrontare le emergenze, non ad evitarle. Ma per una democrazia che ha bisogno di mobilitare un’intera popolazione attraverso argomentazioni pazienti al fine di dispiegare truppe di guerra – e, pertanto, richiede una causa bene-contro-male per assicurare il sostegno pubblico – le guerre limitate, con i loro obiettivi sfumati, sono molto più ardue di quelle ad oltranza.

Dobbiamo essere maggiormente disposti, non solo ad accettare la prospettiva di una guerra limitata ma, come argomenta Kissinger nel suo libro di mezzo secolo fa, di accettare la prospettiva di una guerra nucleare limitata tra gli stati. Per la maggior parte degli anni ’50, osserva Lawrence Freedman, un teorico strategico e storico al King’s

Per l’ex segretario di Stato americano, gli Usa hanno «diverse equazioni di deterrenza» da prendere in considerazione: l’Iran contro Israele, l’Iran contro i sunniti, l’Iran contro dissidenti e l’Islam contro l’Occidente

College di Londra, in The Evolution of the Nuclear Strategy, «l’imminenza dello stallo strategico fu vista come una basilare premessa». Kissinger riconosce i pericoli inerenti in tale nuovo approccio strategico. In effetti, scrivendo nel 1957 circa un possibile confronto tra superpotenze, egli descrive altresì un possibile confronto tra India e Pakistan nel XXI secolo: «Una guerra nucleare limitata che dovesse essere improvvisata nel pieno delle operazioni militari verrebbe intrapresa nelle peggiori condizioni possibili... Poiché la necessità di una risposta rapida imposta dalla velocità e dal potere delle armi moderne, una cattiva interpretazione delle intenzioni dell’avversario...» Come Kissinger sostiene nel suo libro, il vantaggio psicologico in una guerra limitata si sposterà costantemente a favore della parte che dimostrerà con convinzione l’intenzione di procedere ad un aumento del conflitto, in particolare se l’escalation comporta l’utilizzo di armi nucleari. Dotato di armamenti nucleari, in altre parole, un Pakistan messo all’angolo in una guerra limitata con l’India potrebbe rappresentare una pericolosa prospettiva a cui assistere.

Al tempo della pubblicazione di Nuclear Weapons and Foreign Policy, alcuni analisti rimproverarono Kissinger per ciò che un critico bollò come “illusione”– in particolare, la sua insufficiente considerazione delle vittime civili in uno scambio nucleare limitato. Inoltre, Kissinger stesso in seguito si distaccò dal suo appello di una strategia Nato basata su armi nucleari di corto raggio tattiche per controbilanciare la potenza delle forze convenzionali sovietiche. Ma ciò non diminuisce l’utilità del ragionamento sull’impensabile di Kissinger. In effetti, ora che il club nucleare è cresciuto, e le armi nucleari sono diventate più versatili e sofisticate, gli interrogativi che tale volume solleva appaiono ancor più rilevanti. La prospettiva di scambi nucleari limitati è inerente ad un mondo non più protetto dal carapace della mutua distruzione garantita. Tuttavia, per quanto la guerra limitata ci abbia arrecato danno, la nostra volontà di ingaggiarla potrebbe salvarci un giorno dalle potenze rivoluzionarie che hanno intelligentemente occultato le proprie intenzioni. Non ultimo l’Iran.


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Turchia. Il sì alla Costituzione di Erdogan ha molti aspetti, non tutti chiari. L’opinione di Lucio Caracciolo e Carlo Jean

Democrazia islamica Ankara si avvia verso la modernizzazione ripudiando Ataturk e la lezione dell’Ovest di Pierre Chiartano turchi hanno detto «sì» al premier Recip Erdogan. Potremmo semplificare così il risultato del referendum di domenica, dove è stato deciso di approvare gli emendamenti di alcuni articoli della Costituzione di Ankara, proposti dall’attuale governo. L’Akp ha infatti celebrato domenica la vittoria, un risultato che lascia presagire la terza vittoria consecutiva del partito di governo alle prossime elezioni di luglio 2011. Erdogan ha ora gli strumenti «più che per modernizzare l’islam, per islamizzare la modernità» ha spiegato a liberal il generale Carlo Jean, esperto di geopolitica e già consigliere militare della presidenza della Repubblica, che però legge in senso positivo il risultato della consultazione «un modo per creare un ponte tra la Turchia laica e quella musulmana».

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Il primo ministro Tayyip Erdogan ha spinto sull’acceleratore alimentando le critiche dei partiti laici, affermando, nel corso del discorso sull’esito del referendum, che il partito Akp inizierà a lavorare a una nuova costituzione. E le diffidenze vengono anche dall’Europa. Ma molti osservatori internazionali si domandano se il premier possa essere considerato un leader affidabile. «Sicuramente per i turchi» afferma Lucio Caracciolo, direttore di Limes, l’altro esperto che ha risposto alle domande di liberal sulle conseguenze del referendum. Il 58 per cento circa dei turchi ha votato a favore delle riforme, il 42 per cento ha votato contro. Nella laica Istanbul però avrebbe vinto il «no» e non sono in pochi a credere che la ventata di riforme sia solo un mezzo per ridurre ulteriormente il potere delle forze armate. I turchi sono infatti andati alle urne in occasione del 30esimo anniversario del golpe militare del 1980, mentre Erdogan ha pubblicamente appoggiato le modifiche della carta, scritta durante il regime militare, ricordando la repressione brutale che ha seguito l’ascesa al potere dei generali. «La Turchia ha posto rimedio al vergognoso golpe», ha detto l’editoriale del

quotidiano filo-governativo Sabah. «Sì, ma non è abbastanza», ha invece scritto il quotidiano liberale Radikal, sostenendo che il risultato ha dimostrato un certo entusiasmo per il cambiamento e la propensione nei confronti di una nuova costituzione, ma non avrebbe ancora messo in sicurezza il Paese dalle derive radicali prossime venture. Gli elettori nelle regioni a maggioranza curda del nord est della Turchia hanno risposto positivamente all’appello del Partito per la pace e la democrazia filo curdo di boicottare il referendum. Nella provincia di Diyarbakir, l’affluenza alle urne è stata solo del 35 per cento, secondo i risultati ancora provvisori (nel 1997, in occasione del referendum per ratificare la riforma per l’elezione diretta del presidente, avevano votato nella stessa regione il 52,9 per cento degli aventi diritto). Anche il Pkk, il partito fuori legge di Abdullah Ocalan, si è schierato per il boicottaggio del referendum. «La chiamata alle urne di domenica in buona sostanza era anche un referendum su Erdogan. È quindi una notevole vittoria politica per l’attuale primo ministro e una sconfitta abbastanza netta non solo dell’opposizione laica e di sinistra – tra cui il Chp, il partito repubblicano – ma soprattutto dei militari. Le misure previste nella riforma costituzionale limitano il potere dei militari già ridotto da Erdogan in questi anni» spiega Caracciolo che considera i militari ormai fuori gioco.

«È il colpo di grazia, probabilmente, nel senso che d’ora in poi le forze armate non avranno più quel potere di ultima istanza che fino adesso avevano, bene o male, conservato». I risultati non sono però univoci. Ad esempio, ad Istanbul ha vinto il «no» e diversi giornalisti e intellettuali laici, che hanno subito le persecuzioni da parte dei militari, non si dicono tanto convinti delle buone intenzione del premier e dell’Akp. «C’è sicuramente una strumentalizzazione da parte del partito di Erdogan in senso antimilitarista di queste riforme e più in generale dei vincoli posti dall’Euro-

pa per un ingresso futuribile della Turchia nell’Unione. Queste riforme dovrebbero modernizzare il Paese e avvicinarlo all’Europa e all’Occidente, non come scopo principale, ma per mettere in un angolo i militari. Non dimentichiamo che non ci sono stati solo i golpe del passato, ma anche recentemente ci sono stati molti segni d’inquietudine nelle forze armate. Questa vittoria elettorale, con i limiti segnalati, ma anche registrando che una buona maggioranza di turchi ha votato a favore, per Erdogan significa una vittoria politica».

Insomma non pare ci possa essere una lettura con una sola tinta. E sembra che le componenti e l’ambiguità di questa vittoria debbano restare la cifra per interpretare una Turchia che cambia, ma non si capisce ancora bene in quale direzione. «Le due cose vanno insieme e voglio ricordare che più democrazia in Turchia, vuol dire un Paese meno occidentale. Come succede un po’ dappertutto in Medioriente, se si lascia esprimere la gente. Il primo senti-

Caracciolo: «Più democrazia significa una Turchia meno occidentale. D’altra parte succede così un po’ in tutto il Medioriente, se si lascia esprimere liberamente la gente»

mento non è particolarmente favorevole alle forze filo-occidentali. Erdogan non è un avventuriero o un islamista sotto mentite spoglie, come alcuni affermano. È un politico molto pragmatico che ha una visione anche economico-commerciale del proprio potere politico. Non per caso è anche un grande amico di Berlusconi. Credo che il voto lo consolidi e sia un primo passo verso la sua riconferma nel 2011. Ricordiamo che l’anno prossimo ci saranno le elezioni politiche». Ma in Europa si resta tiepidi sul percorso di modernizzazione turco e da Parigi il messaggio a urne chiuse è: non c’è fretta per l’ingresso di Ankara nell’Unione.

«Non solo l’Europa non ha alcuna fretta, ma nemmeno Ankara. È un rapporto che conviene continui per entrambi. Bruxelles deve proseguire nel fare finta di negoziare e la Turchia nel fingere di essere ancora interessata alla membership continentale. Intanto si è aperta una serie di alternative geopolitiche e geoeconomiche che gli permettono di stare benissimo anche senza l’Unione europea. Non dimentichiamo che parliamo di un’economia che, que-

st’anno, è cresciuta di più del 10 per cento». E se Bruxelles piange – si fa per dire – del calo dell’euroentusiamo dei turchi, Washington non ride di certo. La Casa Bianca poneva molte speranze sul ruolo stabilizzatore di una nuova democrazia islamica. «Obama aveva puntato moltissimo sulla Turchia, aveva fatto un grande discorso ad Ankara, poco dopo il suo insediamento. Poi i rapporti si sono piuttosto raffreddati. Vuoi per i sospetti americani sull’attvismo turco in Medioriente, soprattutto riguardo l’Iran. A un punto che la Turchia, con il Brasile, ha votato contro le sanzione proposte dagli Usa al consiglio di sicurezza Onu. In parte per la vicenda con Israele. Washington ha vissuto con preoccupazione la crisi della Mavi Marmara».

Nei rapporti tra Washington ed Ankara ci sono alcuni mentori che hanno giocato un ruolo non secondario, fino a poco tempo fa. Tra questi l’intellettuale islamico, transfuga negli Usa, Fetullah Gulen, una delle due gambe su cui si fonda il consenso di Erdogan, visto che possiede una vasta rete di fondazione e una parte dei media


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cluso. Ciò significa, in qualche modo, sfidare il ruolo d’Israele. E guardare a Gerusalemme non più solo come un partner militare ed economico, ma anche come un ostacolo nello sviluppo di questi rapporti». La figura di Erdogan sta crescendo in tutto il Medioriente, si dice stia mettendo in ombra anche il ruolo antioccidentale di Ahmadinejad. «È una lettura parziale. È chiaro che in questo momento Erdogan ha una popolarità molto forte nelle piazze arabe e mediorientali. Sicuramente superiore a quella del presidente iraniano. Fra l’altro è avvantaggiato dall’essere esponente di una parte del mondo musulmano, i sunniti, che vale più o meno il 90 per cento dell’universo islamico. Ahmadinejad rappresenta solo la minoranza sciita. E a differenza di quest’ultimo il pre-

turchi. «Penso che sia una figura importante, ma sopravvalutata. I rapporti tra Stati Uniti e Turchia si basano su realtà geopolitiche piuttosto solide e che continueranno. Entrambi i Paesi hanno interesse a mantenere rapporti di lavoro e collaborazione». Qualcuno in Israele affermava che quando le voci della politica e della retorica si fossero abbassate, gli storici buoni rapporti con i turchi sarebbero rientrati nell’alveo della tradizione. «Sono dei rapporti ormai logorati. Non credo che ci sarà una vera e propria rot-

tura. Non c’è l’interesse, né di Netnanyahu, né di Erdogan, a interrompere le relazioni. Ma certamente non sarà più l’alleanza che è stata negli anni Novanta. La Turchia ha allargato la propria sfera d’influenza economica e politica a tutta la regione, Iran in-

La statua di Mustafa Kemal, il “padre dei turchi” noto come Ataturk. Con il referendum costituzionale approvato nel fine settimana in Turchia, di fatto il governo ha ripudiato la lezione laicista lasciata in eredità al Paese dall’uomo che ha portato Ankara al di fuori del pantano creato dal crollo dell’Impero ottomano. In alto, il generale Carlo Jean, esperto di geopolitica internazionale. Nella pagina a fianco, il direttore del bimestrale “Limes” Lucio Caracciolo

Per il generale Carlo Jean, la nuova politica proposta dal premier turco «è un modello, non tanto per modernizzare l’islam, quanto per islamizzare la modernità del Paese» mier turco appare come un leader calcolatore, abile, relativamente moderato, con buoni vincoli in Europa e in Occidente. Serve contemporaneamente come immagine della resistenza all’arroganza d’Israele e dell’affidabilità».

Tutto vero, ma la domanda delle 100 pistole è quella se ci si possa fidare di Erdogan. «Dipende da che punto di vista. I turchi si fidano. Noi ci dobbiamo trattare. L’Europa avrà come interlocutore il capo di un grande Paese che certamente fa i propri interessi. Quello che noi dovremmo capire e cosa vogliamo fare noi con la Turchia». È il vecchio problema dell’interesse europeo, che non ha una voce politica, laddove spesso anche i singoli interessi nazionali non sempre vengono espressi sui tavoli della politica estera. Ma si riducono a poche e mal proposte guarentigie economiche.

Il referendum non pone solo un’ulteriore limite al potere militare sottoponendolo alla giurisdizione dei tribunali civili. Ma elimina tutta una serie di restrizioni, sulla privacy, la libertà di movimento e il ruolo della donna. Un pacchetto di cambiamenti che dovrebbe lanciare un segnale positivo verso i difensori dei diritti civilie gli estimatori del politically correct.

«Le riforme messe in campo avvicinano sicuramente la Turchia all’Europa. La risposta a caldo della Francia non è stata positiva, perché Parigi è contraria a un ingresso di Ankara in Europa. In più ha annullato il ruolo dei militari come custodi della Costituzione» spiega a liberal Carlo Jean. Il dialogo conviene sempre, ma poi la giovane democrazia turca guarderà altrove. Lo temono in molti. «La strategia politica del Paese si è fondamentalmente modificata con la fine della guerra fredda. Grazie anche all’Akp, la Turchia ha ripreso un ruolo nel mondo islamico. È diventato un membro autorevole nell’organizzazione della conferenza islamica e guarda molto di più agli affari mediorientali di quanto avesse mai fatto in precedenza. Tutto a causa della rivoluzione geopolitica turca». E che ha trasformato Erdogan in un leader non solo acclamato nelle piazze, ma ascoltato dai governi di tutto il Medioriente. «È un modello non tanto per modernizzare l’islam, quanto per islamizzare la modernità». Sul ruolo di stabilizzazione regionale Jean è agnostico. «Può giocare sia quel ruolo che quello di produttore d’instabilità. Ma in linea a di principio, guidando un regime islamico più moderato, può svolgere una funzione positiva». La Turchia è sempre stata un alleato molto affidabile degli Stati Uniti, integrato nell’Alleanza atlantica e nell’economia occidentale. «La crescita economica è robusta e il Paese sta utilizzando alcuni fondi sovrani dei petrodollari dei Paesi del Golfo, per fare investimenti massicci in Medioriente e nell’Africa settentrionale. A completamento degli interventi occidentali nell’area. Il sistema finanziario turco è molto integrato in quello occidentale». Qualcuno affermava che si stesse ricostruendo l’impero ottomano da un punto di vista economico, ma il generale riporta il tema al pragmatismo delle esigenze quotidiane di un Paese che deve crescere. «Il primo posto per gli inevstimenti di Ankara è L’Egitto, poi c’è la Siria, il Libano e Algeria. Alla ricerca soprattutto di mercati per le proprie industrie». Il voto presenta nche una spaccatura anche geografica tra laici e musulmani. «Istanbul e Smirne rappresentano la parte laica più occidentalizzata il resto quella più islamica. La vittoria al referendum può diventare un ponte tra queste due realtà, per stabilire un modus vivendi».


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India. Almeno 13 morti (tutti manifestanti) negli scontri di piazza orna alle stelle la tensione nel Kashmir, la regione dell’Himalaya occidentale divisa tra India e Pakistan. Ma a provocare gli scontri, questa volta, non è stata la decennale contesa tra le due potenze nucleari dell’Asia Meridionale. Ma la guerra di religione. Decine di manifestanti musulmani inferociti per le notizie provenienti dagli Stati Uniti sul rogo del Corano indetto e poi soppresso (dopo le pressioni sia del presidente Obama che internazionali) dal reverendo Terry Jones e sulle copie bruciate da due pastori del Tennesse (a cui ieri si è aggiunto un professore di diritto australiano che si è, letteralmente - fumato in diretta su You Tube alcune pagine del testo sacro per i musulmani), sono scesi in piazza in diverse parti del Paese. E la protesta è velocemente degenerata, lasciando sul terreno un numero di vittime che, al momento della nostra chiusura, oscilla fra gli 11 ed i 15 morti. Ieri a Tangmarg, a 45 chilometri dal capoluogo Srinagar, è stata incendiata la scuola della Christian Society Mission. La notizia di un possibile assalto si era già diffusa fin dalle prime ore del mattino, ma le autorità non sembrano aver subito preso le contromisure necessarie. Anzi, sembra che una folla abbia poi impedito ai pompieri di raggiungere l’edificio di legno, che è stato del tutto distrutto dal fuoco. Tra gli studenti, tuttavia, non ci sarebbe alcuna vittima, visto che l’edificio era già vuoto visto il crescendo della protesta.

T

L’episodio, secondo la polizia, sarebbe legato alla diffusione di alcune immagini di un gruppo di cristiani che strappavano delle pagine del Corano sabato a Washington, davanti alla Casa Bianca. In realtà, nel mirino dei dimostranti, c’era soprattutto un ufficio del governo (non bisogna dimenticare che le tensioni separatiste sono comunque all’ordine el giorno e nella regione vige ancora il coprifuoco indetto lo scorso giugno dopo il riemergere della tensione) e proprio davanti a quest’ultimo si sarebbe consumato lo scontro a fuoco con la polizia che avrebbe lasciato sul terreno almeno 7 morti, tutti musulmani, compreso un poliziotto. Ferma condanna per tale rogo è stata espressa dal Consiglio Globale dei Cristiani Indiani (Gcic), come ha spiegato il suo presidente Sajan K. George. «Ora - si legge in un suo messaggio - chiediamo che i leader mondiali e i media dimostrino la stessa

Incendiata e distrutta una scuola cristiana Lunedì di sangue dopo le tensioni sul Corano. In Kashmir assalto all’istituto dei missionari di Luisa Arezzo

aperta condanna di quando azioni radicali su scala uguale o maggiore sono commesse contro cristiani. Chiediamo che il ministro federale dell’Interno e i governi mostrino la loro grande generosità contro questa violenza immotivata contro i cristiani del Punjab». Forte condanna anche da parte del presidente

no garantire giustizia e protezione alle minoranze. «È inaccettabile la violenza che arriva al punto di attaccare una scuola dei missionari cristiani. Il ministro Frattini e il governo italiano devono pretendere dal governo indiano che sia fatto tutto il possibile per garantire e tutelare la minoranza cristiana in India, una mi-

Dimostranti hanno preso di mira anche una chiesa nel Punjab. Buttiglione: «Frattini pretenda dal governo indiano garanzie per i cristiani» dell’Udc, Rocco Buttiglione: ««Siamo sgomenti e rattristati per le notizie che vengono dal Kashmir. Il governo locale e quello indiano si devono adoperare per la tutela dei diritti umani di tutti gli abitanti della regione, e in particolare devo-

noranza vicina agli ultimi e molto importante per quel grande Paese, basti pensare a madre Teresa di Calcutta di cui ricorre il centenario, ma che troppo spesso subisce intimidazioni, discriminazioni e violenze come quella di oggi e

come quelle degli ultimi anni, i cui effetti sono ancora vivi e dolorosi continuando a colpire i cristiani ad esempio dell’Orissa, dove i gravi problemi non sono stati risolti».

Ma il paventato rogo del Corano sta incendiando gli animi vieppiù. Dimostranti anti-americani, sempre ieri, hanno assaltato e dato alle fiamme anche una chiesa nella città di Malerkotla, nello stato indiano del Punjab. Lo rivela un comunicato dell’ambasciatore statunitense a New Delhi, Timothy Roemer, in cui gli Usa si dicono “costernati” per i due episodi. Invece, in violente proteste scoppiate contemporaneamente in Kashmir a Budgam, Bandipora e Saraf-e-Sharif sono morti altri dimostranti che hanno fatto salire il bilancio dei morti del-

la giornata, probabilmente a 13. Peter Celestine, vescovo di Jammu-Srinagar, ha detto ad AsiaNews che «questo incendio è conseguenza sia delle voci sulla proposta di bruciare il Corano sia della situazione politica. Sin da domenica notte centinaia di persone si erano raccolte nelle strade intorno la scuola, l’hanno invasa e incendiata. Finché è stato imposto il coprifuoco». Nello Stato è forte la protesta islamica antigovernativa e negli ultimi tre mesi la polizia ha ucciso almeno 70 dimostranti. Inutile dire che il Koran Burning Day è diventato anche un pretesto per agitare i sentimenti antigovernativi.

«La proposta di bruciare il Corano, anche se poi ritirata - ha continuato il vescovo di Jammu-Srinagar - ha causato una situazione molto tesa, regnano paura e timore. I cristiani sono solo lo 0,0014% della popolazione. Finora abbiamo avuto rapporti cordiali coi nostri fratelli islamici e con le autorità, ma quell’iniziativa ha causato preoccupazione». Il leader separatista Syed Ali Shah Geelani, al momento posto agli arresti domiciliari da parte della autorità indiane, ha condannato l’attacco alla scuola. «Esorto tutti i musulmani - ha detto Geelani - a proteggere i membri delle comunità delle minoranze e i loro luoghi religiosi. Dobbiamo mantenere ad ogni costo la secolare armonia e fratellanza tra comunità per cui il Kashmir è famoso nel mondo». Ma non sarà facile placare gli animi. Ieri due ayatollah iraniani hanno lanciato un appello che esorta ad uccidere chi brucia il Corano. «Dal punto di vista della giurisprudenza, è obbligatorio e necessario opporsi a questi pensieri ed è obbligatorio uccidere le persone che hanno compiuto questo atto», ha dichiarato l’ayatollah Hossein Nouri Hamedani, citato dall’agenzia iraniana Fars. Parole che nel mondo del fondamentalismo islamico sono in grado di galvanizzare intere folle. Il Kashmir è il crocevia geopolitico del subcontinente indiano, punto di intersezione delle direttrici strategiche di India e Pakistan, e le sue vicende si intrecciano inestricabilmente con quanto sta accadendo sul fronte afgano. Nell’ottica della competizione regionale con l’India, infatti, questa regione contesa ha rappresentato negli ultimi 60 anni per i pakistani una piattaforma da cui lanciare le più serie sfide alla dirompente ascesa politico-miliare del suo potente vicino.


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Ricercato da anni, tradito dal suo nemico: “Barbie”

Presenti al vertice anche la Clinton e Hosni Mubarak

Messico: preso “El Grande” boss della droga ed ex poliziotto

Colloqui di pace: al via in Egitto secondo round Bibì-Abu Mazen

PUEBLA. Sergio Villarreal, detto

SHARM EL-SHEIKH. Dopo i colloqui diretti di Washington, i primi degli ultimi venti mesi, il processo di pace israelo-palestinese vivrà la sua seconda a tappa a Sharm el-Sheikh, in Egitto. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu e il presidente palestinese Abu Mazen sono arrivati ieri nella città sul mar Rosso, dove oggi incontreranno il segretario di Stato americano Hillary Clinton e il presidente egiziano Hosni Mubarak. I colloqui sarano seguiti, informano fonti egiziane, da un’altra riunione senza Mubarak. A Sharm elSheikh oggi arriverà anche l’inviato speciale americano per il Medio Oriente, George Mitchell, che illustrerà poi i contenuti del colloqui. Il paese ospitante ha

“El Grande”, importante boss del cartello Leyva, è stato catturato dai militari a Puebla (Messico). Ricercato da anni, le autorità avevano messo sulla sua testa una taglia di 2 milioni di dollari: è possibile che a tradirlo sia stato un suo nemico acerrimo, il padrino Egdar Valdez “La Barbie”, finito in prigione pochi giorni fa. Ex agente comunale, Villarreal è cresciuto all’interno del potente Cartello di Sinaloa e si è poi schierato con gli scissionisti guidati dai fratelli Beltran Leyva. Ricchissimo, responsabile di numerosi omicidi, il suo nome è stato accostato a quello di Penelope Cruz e Salma Hayek. Nel 2004 le due attrici impegnate a girare un film in Messico hanno soggiornato in un ranchvilla di Durango. Si è poi scoperto che la residenza apparteneva a “El Grande”. Ma le due attrici hanno detto di non sapere chi fosse il proprietario, visto che l’affitto era stato concordato dalla casa di produzione.

Da due anni, la banda dei Beltran Leyva era in difficoltà: da una parte Hector Beltran Leyva e Villarreal, dall’altra “La Barbie”. I due schieramenti si sono affrontati in modo spietato e hanno finito per favorire l’azione dell’esercito messicano. Così i soldati hanno sorpreso “La

In Pakistan va in onda il ritorno del generale Musharraf: «Pronto a candidarmi alle elezioni del 2013» di Antonio Picasso usharraf ci riprova. L’eventualità che l’ex presidente pakistano, Pervez Musharraf, possa tentare di riprendere il potere, partecipando alle elezioni del 2013, deve aver fatto vibrare i polsi all’attuale pletora di Islamabad. Due anni fa, il tandem Gilani-Zardari lo aveva destituito con un colpo di mano sostenuto dai centri di potere nazionale, Forze armate e servizi di intelligence (Isi), e in maniera implicita anche dall’Occidente. Nei suoi 11anni di regno, il Pakistan non era riuscito a trovare pace, come al contrario aveva giurato l’ex generale. Anzi, la promessa di stabilità e il sostegno alla lotta talebana erano e sono rimaste disattese. Gli Stati Uniti hanno speso finora 7,5 miliardi di dollari. Nel solo 2010 gli aiuti hanno raggiunto i 200 milioni. Il controllo del Pakistan era sfuggito dalle mani del governo centrale e dal carisma personale di Musharraf. Il fondamentalismo islamico, già radicato nelle province confinanti con l’Afghanistan, si è esteso, nel corso degli anni, a tutto il Paese. Il terrorismo ha mietuto migliaia di vittime tra la popolazione civile, ma ha anche eliminato alcuni personaggi di elevata caratura in seno all’establishment pakistano. Prima fra tutti Benazir Bhutto, uccisa il 26 dicembre 2007. La vicina India, a sua volta, ha puntato l’indice contro i servizi di sicurezza di Islamabad, ritenuti collusi con i talebani, in particolare con il gruppo di Lashkar-e-Taiba, lo stesso che, nel novembre 2008, sarebbe stato responsabile dell’attentato di Mumbai. Nel frattempo il Paese è piombato in una spirale di corruzione e di intrighi. Agli occhi degli sponsor politici e finanziari di Musharraf, la situazione si era fatta insostenibile. Il presidente, quindi, venne assunto come capro espiatorio del “disastro Pakistan”. I brogli elettorali che pesarono sulle presidenziali del 2007 vennero adottati come giustificazione per metterlo in minoranza e accusarlo di mancata realizzazione delle promesse fatte. Era evidente che Islamabad fosse lungi dal potersi considerare

M

una democrazia. Per il generale non bastò rassegnare le dimissioni da Capo di Stato Maggiore dell’Esercito e limitarsi a indossare esclusivamente gli abiti borghesi di Capo dello Stato. Ritenuto ormai impresentabile, gli Usa e i governi degli altri Paesi occidentali lo abbandonarono. Dal 2008 a oggi, non è mai stato appurato se a Washington e in Europa fossero fondate le speranze di aprire un capitolo post-Musharraf virtuoso per il Pakistan. Gilani e Zardari, anche loro vecchie volpi della politica centro-asiatica, in passato avevano già dato prova della propria inefficienza nell’arginare le profonde criticità del Paese.

Dopo due anni di esilio volontario a Londra, le dichiarazioni di Musharraf lasciano intendere due cose. Prima di tutto, fanno capire che l’ex presidente non ha ancora accettato di essere relegato alla storia. Pagato lo scotto del proprio insuccesso e soprattutto trovate nuove energie, freme per tornare nell’agone politico nazionale e dimostrare l’errore che sarebbe stato commesso detronizzandolo. Musharraf sceglie un momento di congiuntura terribile per l’Asia centrale, ma forse propizia per i suoi interessi. Il suo Paese è in ginocchio a causa delle alluvioni che lo hanno colpito in agosto. In Afghanistan, a sua volta, la guerra avanza con progressiva difficoltà. A Kabul sabato prossimo sono attese le elezioni parlamentari. Esse costituiranno l’ennesima prova per il presidente Hamid Karzai, la cui immagine è sempre più sbiadita. Si tratta di vuoti politici, questi, che Musharraf starebbe valutando come opportunità da colmare. Per farlo, deve aver avuto il nullaosta da Washington e da Londra. È possibile che i due più importanti sostenitori del Pakistan si siano resi conto che Musharraf potrebbe giocare ancora qualche carta interessante. Certo è che, senza il via libera dell’Occidente, il generale non avrebbe potuto rilanciarsi nella corsa delle presidenziali del 2013. Ed è per questo che oggi il governo di Islamabad sta tremando.

Da due anni in esilio volontario a Londra, l’ex presidente deve aver ottenuto il sostegno di Inghilterra e Stati Uniti

Barbie”, un arresto sul quale sono nate molte ipotesi. Fonti statunitensi non escludono che l’uomo si sia consegnato. Anzi, alcuni esperti hanno persino ipotizzato che il boss abbia collaborato con le autorità “vendendo” molti dei suoi rivali. E, alla fine, temendo per la sua vita avrebbe deciso di costituirsi: il piano di “La Barbie”, che è cittadino Usa, è di farsi estradare in America. Gli arresti di alcuni padrini e l’uccisione, alla fine di luglio, di Nacho Coronel, numero tre di Sinaloa, rappresentano un po’d’ossigeno per il governo, chiamato a fronteggiare la sfida dei cartelli della droga, che dal 2006 hanno causato la morte di 28 mila persone.

organizzato una cena finale a cui parteciperanno anche il ministro degli Esteri egiziano Ahmad Abul Gheit. Mentre ancora non è dato sapere se Netanyahu e Abu Mazen parleranno con i giornalisti.

Secondo alcuni media (ma non tutti e non è segnalato nelle agende ufficiali), il dialogo avrà un’appendice mercoledì a Gerusalemme, in cui sarà stabilita la data della terza ronda di negoziati. Secondo il quotidiano in lingua araba con sede a Londra Al Hayat, il prossimo appuntamento sarà il 22 settembre e New York. Al momento mancano conferme ufficiali. La vigilia è stata agitata dalle dichiarazioni di Netanyahu, che ha ribadito di non voler prorogare il congelamento degli insediamenti, che scadrà il 26 settembre, dopo dieci mesi. Lo stop alla costruzione di case per coloni è una delle condizioni necessarie, secondo i palestinesi, per arrivare ad un accordo di pace. «Da un lato bloccheremo la costruzione delle migliaia di abitazioni in attesa di autorizzazione, ma dall’altro non congeleremo la vita e le costruzioni degli abitanti della Cisgiordania», aveva detto domenica il premier israeliano in una riunione con l’inviato speciale del Quartetto Tony Blair.


cultura

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Reportage. Con l’etnografa Barbara Barich alla scoperta del Gilf Kebir, l’enorme bastione scolpito nell’arenaria ai confini con la Libia e il Sudan

La Sistina del Sahara Splendide tracce dell’età preistorica rivivono in un sito senza pari, che vede protagonista una task force italiana di Rossella Fabiani stato definito la Cappella Sistina del deserto. E quando a usare questa immagine è la professoressa Barbara Barich, docente di etnografia preistorica dell’Africa all’università “La Sapienza”di Roma – che notoriamente è parca di complimenti – si può essere sicuri che non è un’esagerazione. Oggetto di tale meraviglia è il Gilf Kebir (letteralmente “la grande barriera”), un enorme bastione scolpito nell’arenaria che si incontra nel punto più meridionale dell’Egitto, ai confini con la Libia da un lato, e il Sudan dall’altro: una regione difficilmente accessibile in gran parte inesplorata e totalmente disabitata.

È

Ma nel passato le genti che provenivano dal Sahara spesso si sono trovate davanti questo grosso sbarramento nel loro cammino verso l’acqua, il Nilo, che sin dai tempi più antichi rappresentò un richiamo vitale. Le valli dei suoi antichi corsi d’acqua (wadi) nascondono le tracce degli abitatori di allora: pietre lavorate, macine, pitture e graffiti. Per questo il Gilf Kebir è una componente importante nel complesso sahariano di arte rupestre. Le scene rappresentate sono opera dei gruppi che si muovevano tra il Sahara e la Valle del Nilo e che svolsero un ruolo fondamentale per lo sviluppo delle prime società pastorali nordafricane. Totalmente sconosciuto fino alle prime esplorazioni di figure leggendarie come il principe Khamal el Din Hussein nel 1926, seguite nel 1932 da quelle del mitico conte Laszo Almàsy, dell’egiziano Hassenein Bey e poi, nel 1938, del cartografo Ralph Bagnold, l’intero territorio, con il più meridionale Jebel Auenat, è diventato famoso perché è stato percorso anche da altri esploratori che sono entrati nella storia: Patrick Clayton, Hans Rhotert e, tra gli italiani, Ardito Desio e il conte Ludovico di Caporiacco. Furono questi gli autori che nella prima metà del secolo passato fecero conoscere per la prima volta, al mondo intero, lo straordinario patrimonio di arte rupestre del Gilf Kebir e del Jebel

Auenat. Queste opere erano la testimonianza lasciata dalle popolazioni preistoriche che qui abitarono per millenni a partire dalle fasi più antiche dell’Olocene (l’epoca geologica in cui ci troviamo oggi e che ha avuto il

Alcune immagini della Grotta dei Nuotatori sono perdute, ma restano porzioni significative e l’obiettivo è salvarle suo inizio convenzionalmente circa 11.700 anni fa) fino a circa 4000 anni fa. I primi scavi sistematici furono effettuati da Oliver Myers nel Gilf meridionale (nella regione di Wadi Bakt e Wadi Akhdar) nell’ambito della spedizione Bagnold-Myers-Winkler del 19371938. I risultati di Myers, fatti conoscere dal geologo americano William McHugh negli anni 70 del secolo passato, furono poi ripresi dalle ricerche condotte nelle stesse aree dal gruppo di Colonia guidato da Rudolf Ku-

per. «Come risultato di queste indagini – dice la Barich – per quanto riguarda l’occupazione del territorio, si può affermare che, tra 8000 e 4000 prima di Cristo, la regione beneficiò di un clima favorevole, divenendo un punto d’incontro tra culture e, da ultimo, una vera area rifugio con l’avanzata del deserto». Per l’interesse culturale del territorio e per preservare la peculiarità delle sue risorse faunisti-

che e botaniche, ma anche nella prospettiva di un incremento delle attività turistiche, tre anni fa, un decreto a firma del primo ministro egiziano ha creato l’area protetta del Parco Nazionale del Gilf Kebir (Gknp) che comprende le due principali strutture geomorfologiche dell’Egitto meridionale – il Gilf e il Jebel Auenat – e rappresenta una delle maggiori aree protette del mondo. Valorizzare questo prezioso patrimonio attraverso la conservazione e il restauro del complesso d’arte rupestre dello Wadi Sura è uno degli impegni del Gknp. A questo scopo, la prima missione si è svolta nella seconda metà di marzo di quest’anno dopo che il Consiglio Superiore delle Antichità Egiziane (Sca) ha attribuito al team italiano guidato dalla professoressa Barich, insieme all’archeologo Giulio Lucarini, la concessione ufficiale per l’intervento nel Gilf settentrionale e per il restauro delle grotte dello Wadi Sura. La missione di valutazione (assessment mission) dell’Italian Gilf Kebir Conservation Project è stata indirizzata verso i tre principali siti dello Wadi Sura, a nord-ovest del Gilf

Kebir, vale a dire la Grotta dei Nuotatori, la Grotta degli Arcieri e la magnifica Grotta Foggini, scoperta soltanto nel 2002.

Lo Wadi Sura – che si trova sul versante occidentale del Gilf settentrionale – è un’ampia arteria lungo la quale si svolge oggi il principale traffico di veicoli che raggiungono la regione, compreso quello dei clandestini nella loro strada verso la

Nella foto grande, l’ingresso della Grotta dei Nuotatori a Wadi Sura. Nella pagina a fianco, dall’alto, immagini di mani “in negativo” nella Grotta Foggini, un particolare dell’affresco e una delle ”Bestie”. Qui sotto, a sinistra, l’ingresso della Grotta degli Arcieri Libia. «Provenendo dal Cairo lungo la strada che passa attraverso le oasi di Bahariya e Farafra, a bordo di quattro fuoristrada, abbiamo percorso il tratto da Dachla in due giorni di viaggio procedendo verso sud-ovest. Abbiamo superato Abu Ballas arrivando ai “Mud Pans” – caratteristici depositi argillosi – al centro di un grande bacino un tempo colmato da laghi. Un primo campo notturno è stato montato non lontano dai “Mud Pans”; siamo poi entrati all’interno del Gilf settentrionale all’altezza della Grotta Al Qantara (chiamata anche Grotta Shaw) che costituisce l’unico punto di accesso al Gilf sul versante orientale ed è punto di comunicazione di due widian: Wadi Wassa e Wadi El Firaq». Si dice che il nome Wadi Sura (“valle delle immagini”) sia stato dato a questa ampia vallata dallo stesso Almásy. I tre ripari si trovano a qualche decina di chilometri l’uno dall’altro. Le pitture della grotta dei Nuotatori sono ad altezza d’uomo sulla parete di fondo che mostra un avanzato stato di spaccatura e di disgregazione delle rocce. «Parte delle immagini, purtroppo, è scomparsa, ma alcune porzioni sopravvivono e il nostro impegno è quello di salvare quanto rimane di questo complesso di grande significato». Il gruppo principale d’immagini è nella parte alta della parete mentre altre scene sono

ancora visibili nell’area centrale dove si osservano anche tracce di segni e di incisioni vandaliche. La scena principale ha due gruppi di soggetti: alcune figure maschili allineate con diversi danni superficiali, forse eseguite ab antiquo e, a un livello più alto, un ulteriore gruppo di figure che si muovono verso l’immagine di quella che, comunemente, è stata chiamata la “bestia”.

In particolare si nota un personaggio di dimensioni maggiori, rappresentato nel classico stile di Wadi Sura, affiancato da un altro individuo stretto da bende, mentre in basso si osservano alcuni dei famosi “nuotatori”che hanno dato nome alla grotta. Questo gruppo di figure termina, più a destra, proprio con l’immagine della “bestia”. Il contorno di quest’ultima è stato disegnato con un tratto rosso sottile, mentre l’interno è colorato in marrone. Sul corpo della “bestia” è stata disegnata successivamente una rete a trama sottile di colore bianco. Sopra ci sono altre figure le cui gambe sono sovrapposte al dorso della “bestia”. A soli 40 metri di distanza, si trova la più piccola Grotta degli Arcieri. Qui soltanto una piccola porzione delle pitture originali è visibile. Nella scena si riconoscono alcune figure longilinee che imbracciano archi. Hanno arti sottili, mentre la testa, a causa della rottura della roccia, non è più visibile. La


cultura

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Ospiterà reperti dell’era faraonica

Un Museo egizio per l’Urbe ROMA. Anche la Caput Mun-

hanno visitato questo luogo. Si possono contare, poi, decine di figure maschili dipinte in posizione frontale e di profilo. Sono rappresentate nello stile che ha preso nome dallo Wadi Sura in cui si può notare la piccola testa rotonda e la forma schematica del corpo. Particolarmente interessanti sono le figure di alcuni “nuotatori” - il nome si deve ad Almàsy - dipinti in posizione orizzontale che sono il motivo più popolare dello Wadi Sura. Anche se non è sicuro che possano davvero rappresentare dei nuotatori, queste figure sono rivestite di un significato simbolico».

presenza di varie figure di bovini, all’estremità opposta della parete, suggerisce la presenza di gruppi di pastori, più che di cacciatori come invece gli archi farebbero supporre. «Le pitture superstiti sono qui anche meno leggibili di quelle osservate nella Grotta dei Nuotatori e ciò è da attribuire alla presenza di una patina biancastra di efflorescenze saline e a depositi di polveri superficiali».

Il terzo sito, la Grotta Foggini, ha la superficie di roccia tuttora visibile interamente ricoperta da pitture e incisioni. «Ci troviamo di fronte a un sito davvero eccezionale che non è esagerato definire come la “Cappella Sistina del deserto” e che è stato decorato da generazioni e generazioni di artisti prima del suo abbandono a causa del cambiamento climatico. Questo riparo ha tramandato la testimonianza del comportamento simbolico e rituale delle popolazioni che in antico hanno abitato la regione. Per questo motivo rappresenta un documento straordinario dell’interazione di un gruppo sociale con il mutevole ambiente sahariano. Tra le numerose figure si possono isolare alcuni motivi iconografici più rappresentativi. Centinaia di immagini di mani, dipinte con la tecnica del “negativo”, sono concentrate nella parte sinistra della parete. Esse offrono una forte emozione perché suggeriscono la presenza di vere moltitudini che

Un altro motivo molto noto nel repertorio di Wadi Sura è quello dei “mostri” o “bestie”: figure ibride, con fattezze al tempo stesso umane e animali. Nella Grotta dei Nuotatori alcune recano sul corpo i segni di danneggiamenti antichi. «L’esatto significato di queste figure non è noto, ma è intuibile la forte valenza simbolica che possiedono. Lo studioso Jean-Loic Le Quellec ha proposto una spiegazione di queste immagini, insieme a quelle dei “nuotatori”, facendo riferimento ai testi funerari egizi. Sulla base di queste letture, i nuotatori sarebbero «persone defunte che abitano nel mondo dei morti, chiamato Nun, l’oceano primordiale abitato da un animale mitico che divora quelle tra loro che sono malvage». Molto rappresentato è anche il motivo dei danzatori che vengono dipinti con strisce di pittura bianca sul corpo. Oltre alle figure umane, sono raffigurati molti animali. Si tratta soprattutto di specie selvatiche (gazzelle, giraffe e struzzi), ci sono poi anche bovidi ma in piccola quantità. Pitture queste che si riferiscono soprattutto a una società di cacciatori». Il grado di conservazione non è lo stesso per le tre grotte e quella dei Nuotatori si trova in condizioni davvero drammatiche. «Il progetto del Parco Nazionale del Gilf Kebir appare come la scelta migliore per proteggere l’area dagli attacchi del turismo da fuoristrada. E la nostra sfida – conclude la Barich – dovrà essere quella di promuovere la consapevolezza del significato culturale di questi luoghi irriproducibili attraverso un incisivo lavoro di formazione e divulgazione».

di potrà esporre preziose e rare antichità nilotiche. Dovrebbe essere imminente l’inaugurazione a Roma del primo Museo egizio della capitale. Il progetto dell’iniziativa culturale è dell’Accademia d’Egitto – ora chiusa per restauro – l’istituto che si occupa di divulgare la cultura egiziana ed araba in Italia. Come ha spiegato il direttore dell’Accademia, Ashraf Reda, il progetto non prevede soltanto il museo, ma anche «nuove sale per le mostre di pittura dove gli artisti egiziani potranno esporre le loro opere al fianco di quelle dei colleghi italiani, una sala dedicata all’arte contemporanea egiziana, un teatro e un cinema». Il tutto dotato delle più moderne apparecchiature, ha precisato Reda, il quale ha ricordato che una sala sarà destinata ad esporre le collezioni personali di Farouk I, ultimo re d’Egitto. Oltre agli spazi espositivi, saranno create una serie di strutture di servizio, come un ristorante, una foresteria e laboratori per giovani artisti. Ma il fiore all’occhiello del progetto è senz’altro il Museo egizio, un’anteprima assoluta a Roma. Lo spazio “egittologico” doveva essere pronto per l’80° anniversario dalla fondazione dell’Accademia, ma ritardi nei lavori di restauro dell’edificio che confina con il verde di Villa Borghese hanno fatto slittare in avanti anche la data dell’inaugurazione.

I pezzi da esporre sono invece già stati selezionati. Si tratta di oltre 120 reperti che coprono la fase faraonica ma anche quella copta e quella greco-romana fino al periodo islamico. «La scelta dei reperti è stata fatta dal ministro della Cultura, Farouk Hosni, e dal segretario del Consiglio supremo delle antichità egizie, Zahi Hawass», ha detto il direttore dell’Accademia, precisando che tra i pezzi vi sono anche «oggetti provenienti dalla collezione di Tutankhamon, mentre altri sono frutto di scoperte recenti». I legami tra Italia ed Egitto risalgono molto indietro nel tempo. E sono legami anche di amicizia personale come nel caso di re Farouk I e Vittorio Emanuele III che dopo la sua abdicazione, diventato conte di Pollenzo, si trasferì in Egitto ad Alessandria d’Egitto, insieme alla regina Elena, ospiti proprio di re Farouk.


cultura

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Tra gli scaffali. La storia dell’ambientalismo di casa nostra in “Puliamo il futuro”, nuova fatica di Aldo Forbice edita da Guerrini e Associati

Ecco l’Italia in salsa verde di Gabriella Mecucci

In basso, un’immagine del giornalista radiofonico Aldo Forbice. Sotto, la copertina del suo nuovo libro “Puliamo il futuro” (Guerrini e Associati). A fianco, un disegno di Michelangelo Pace

na breve storia dell’ambientalismo di casa nostra e, soprattutto, il racconto di come è cambiata la percezione dei temi ambientali fra gli italiani e, in particolare, fra gli imprenditori: è questo il senso del libro di Aldo Forbice, Puliamo il futuro, edito da Guerrini e Associati.

U

Il più popolare fra i giornalisti radiofonici parte dal racconto dell’esplosione di una nuova “coscienza verde” negli anni Settanta, dopo i passi ancora stentati del decennio precedente. Nuove elaborazioni e nuovi movimenti nascono con il primo Rapporto del Club di Roma, ma la svolta vera viene rappresentata dalla tragedia di Seveso. Il 10 luglio del 1976 una nube tossica proveniente dalla fabbrica chimica della elevetica ICMESA provoca il primo vero disastro ambientale che si ricordi nel nostro Paese. Per fortuna nessun morto, ma un inquinamento pesantissimo da diossina che costringe ad abbattere gli animali e a “deportare” ben ventimila persone che vivono nella zona. «È allora - scrive Forbice - che l’opinione pubblica italiana ed europea acquista una sensibilità più forte e una più accentuata percezione del rischio industriale di cui Seve-

so diviene ben presto il simbolo». In quel momento non solo si allargò il consenso verso l’ambientalismo, ma per la prima volta ci fu una presa di coscienza da parte degli imprenditori. Questo mutamento avrà solo alcuni anni dopo un importante riflesso istituzionale quando nel 1983, il governo Craxi decise di creare il Ministero per l’Ambiente. Forbice

briche e il territorio circostante meno insalubre. Queste ultime spesso arrivano ai vertici ministeriali, ma nascono dal basso, da gruppi verdi che ormai si vanno diffondendo sul territorio.

Si diffonde dunque un ambientalismo di stampo pionieristico. Parallelamente, si succedono le catastrofi ambientali.

discussione fra “apocalittici” e “scettici” sul clima. L’autore da una parte critica certe esagerazioni che sono state propagandate in materia di riscaldamento della terra, ma dall’altra non si schiera dalla parte degli scettici ritenendo che il global warming non è un imbroglio né una campagna propagandistica montata da esaltati. Intanto in Italia, nel 2008 si è consuma-

Il volume, oltre a ricostruire il passato, guarda anche al domani: «Un futuro pulito dipenderà certo dalle grandi scelte di tutti i Paesi del mondo, ma - dice l’autore - anche dalle piccole scelte quotidiane di ciascuno di noi» descrive meticolosamente le scelte politiche dei diversi titolari del dicastero.

E non sono cose di poco: da una politica per la nascita dei parchi naturali per la protezione di flora e fauna, a una serie di battaglie per rendere le fab-

La prima è quella del 1984 a Bophal, in India: è un disastro chimico di proporzioni bibliche che comporta diecimila morti. Ma il vero salto di qualità si ha con Cernobyl. È questo l’incidente che comporta le conseguenze più importanti con la “discutibile scelta” che in Italia comporta la fine del nucleare. Nella cittadina ucraina i morti sono una cinquantina, ma da lì si diffonde una paura che sposterà l’asse dell’ambientalismo: l’antinucleare diventerà per anni e anni il suo principale impegno. Una svolta che da noi viene segnata anche da un referendum. Forbice passa poi a raccontare gli eventi più recenti: innazitutto la

ta una vicenda politica importante: la scomparsa dal Parlamento del “partito verde”. Forbice è ambientalista, ma critica gli eccessi ideologici che sono alla base di quella sconfitta elettorale. Come non ricordare, a questo proposito, le insopportabili esagerazioni in materia di clima presentate in un summit internazionale dal ministro Pecoraro Scanio? Dovettero scendere in campo scienziati del calibro di Franco Prodi, peraltro fratello dell’allora capo del governo, per smentire alcune patenti sciocchezze.

Il libro di Forbice, oltre a ricostruire il passato, guarda anche al futuro. «Tutti i sondaggi, anche i più recenti, affermano che i cittadini, le istituzioni, i sindacati, gli imprenditori, i partiti politici tengono in considerazione - scrive Forbice - i problemi ambientali. Nei fatti però

sappiamo, purtroppo, che non sempre questo interesse è così vivo». Eppure, «un futuro pulito dipenderà certo dalle grandi scelte che dovranno fare tutti i paesi del mondo, a cominciare da quelli maggiormente industrializzati, ma anche dalle piccole scelte quotidiane di ciascuno di noi». Il libro di Forbice è di particolare interesse anche perché - accanto al suo saggio ci sono una serie di contributi. La prefazione del ministro Stefania Prestigiacomo mette bene in evidenza come nel saggio di Forbice si spieghi bene che le reazioni alle catastrofi o più semplicemente ai problemi ambientali «non si commisurano alla natura dei fenomeni, ma anche al clima emotivo in cui si manifestano».

Un approccio intelligente questo che chiama direttamente in causa il mondo dell’informazione. Accanto allo scritto del ministro dell’Ambiente, ci sono postfazioni di grande interesse: quella sulle aree urbane di Gianni Alemanno e quella sul rapporto fra ambiente ed economia di Ermete Realacci. E infine uno scritto sul nucleare di Fulvio Conti, amministratore delegato dell’Enel, e sull’energia pulita di Paolo Tommasi, presidente del Consorzio Obbligatorio degli Olii Usati. È stato questo consorzio a promuovere l’iniziativa di scrivere un libro sull’ambientalismo italiano, per ricordare così la sua lunga attività a favore della difesa dell’ambiente.


cultura n mancanza di fortuna, ci aiuterà la disgrazia», questa ottimistica sentenza popolare russa, riferita alla situazione della religiosità dei tempi in cui viviamo, era contenuta nel messaggio augurale del metropolita di Minsk rivolto ai partecipanti al XVIII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa, che si è svolto da martedì a sabato della settimana scorsa presso il monastero di Bose, in Piemonte. Seguendo uno di quegli itinerari nei quali i credenti riconoscono il disegno divino, i rappresentanti delle chiese ortodosse di tutto il mondo hanno confermato la loro disponibilità all’incontro e al confronto in un luogo apparentemente incongruo, appartato nelle Prealpi, non lontano da Biella.

«I

Scorrere l’elenco dei partecipanti alle giornate di studio organizzate dalle comunità raccolta intorno alla figura prestigiosa di Enzo Bianchi è emozionante. I luoghi di provenienza di vescovi, primati, metropoliti e semplici monaci sono i più lontani: dall’Inghilterra alla Russia, dalla Grecia alla Serbia, dalla Francia alla Romania e poi alla Siria, l’Ucraina, l’Armenia, la Svizzera, il Belgio, la Bulgaria, la Germania, l’Egitto e il Portogallo. Molto varie anche le provenienze dall’Italia di partecipanti desiderosi di conoscere una spiritualità prossima a quella cattolica e che siamo destinati a incontrare con intensità sempre maggiore sotto la spinta di flussi migratori imponenti provenienti dai paesi dell’est, Romania, Bulgaria e Ucraina in particolare. Già oggi il cristianesimo ortodosso è la seconda religione del nostro paese come numero di fedeli, superiore anche a quello degli islamici. Una delle motivazioni profonde del convegno sta appunto nell’incontro amicale tra fedeli di confessioni prossime ma non coincidenti, con un passato di contrasti nei quali la politica ha pesato molto, e nell’espressione di un’aspirazione all’unità delle chiese sottolineata dalla liturgia. La giornata iniziale, l’8 settembre, festa della Natalità della Madonna, momento iniziale per la manifestazione storica del mistero dell’incarnazione, è stata scandita dallo svolgimento di due celebrazioni eucaristiche. Di primissimo mattino, secondo la tradizione, si è svolto il rito ortodosso, a mezzogiorno quello cattolico, con la partecipazione congiunta dei fedeli delle diverse chiese, ciascuno attento e rispettoso dell’altro.Tutto il corso dei lavori è stato poi scandito, come di consueto, dai ritmi di preghiera del monastero di Bose, la cui ospitalità comprende il gesto affettuoso del canto comune dei salmi al mattino, a

14 settembre 2010 • pagina 21

In questa pagina, due immagini del monastero di Bose, dove la scorsa settimana si è svolto il XVIII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa, è uno scatto del priore Enzo Bianchi

Incontri. Il XVIII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa

La fede tra solitudine e comunione di Sergio Valzania mezzogiorno e alla sera. L’argomento dell’edizione di quest’anno del convegno di spiritualità ortodossa è stato “Comunione e Solitudine”, tema radicato nella tradizione monastica orientale e che in passato fu motivo per contrasti molto accesi. I due termini hanno una valenza chiara per l’uomo della società contemporanea, timoroso della solitudine, del silen-

zio e dell’isolamento come del peggiore dei mali. Per lui la scelta a favore del rapporto con gli altri uomini, a qualunque costo, appare di tutta evidenza.

Vivere senza telefono cellulare gli appare impossibile. Ben diversa è la condizione del monaco, il cui nome deriva dal greco monos, unico, e individua una vocazione al distacco

Le giornate di studio, organizzate dalle comunità raccolte intorno alla figura di Enzo Bianchi, si sono svolte al monastero di Bose dal mondo e quindi a una qualche forma non superficiale di solitudine. Ma fino a che punto è lecito spingersi in questo processo di allontanamento, e di rifiuto, dagli altri, dalla comunione con i propri simili e con la chiesa stessa, strumento necessario per la salvezza? È consentito a un tralcio della vite pretendere di trovare da solo una via che lo colleghi alle ra-

dici della pianta, o si tratta di un gesto di peccaminosa arroganza? Da queste riflessione nasce la tensione fra la comunione monastica, che esalta l’organizzazione cenobitica del monastero, con le sue regole, le sue gerarchie, la guida autorevole dell’abate, e la ricerca eroica e senza mediazioni di un rapporto individuale con Dio, rischiosa per la difficoltà della gestione di una vita senza conforti né confronti. Le due concezioni divergenti hanno innervato la storia del monachesimo e ancora danno vita alle diverse esperienze esistenti, in un equilibrio in costante ridefinizione. Nel corso delle loro comunicazioni molti relatori hanno fatto riferimento alla figura della croce quale simbolo della situazione spirituale nella quale vive il monaco, chiamato a mediare fra la verticalità di un rapporto diretto con Dio e l’orizzontalità della comunione con i fratelli e con la chiesa, nella consapevolezza che non ci si salva mai da soli.

Il punto d’equilibrio non è univoco e al monaco che desidera addentrasi lungo il percorso dell’eremo, dopo un lungo tirocinio comunitario, è necessaria la capacità di non cedere alla tentazione di chiudersi nel proprio isolamento, con il rischio di rimanerne schiacciato. Molti esempi storici proposti nel convegno di Bose mostrano la tendenza positiva a compiere un percorso che va dalla comunità all’eremo, che si trasforma in nuova comunità raccolta intorno all’eremita, al quale si assegna il ruolo di abate. Dopo un periodo di guida del nuovo monastero di solito segue un ulteriore e definitivo periodo di raccoglimento nella solitudine, interrotta solo da brevi visite di confratelli che si recano dal maestro per chiedergli consiglio. La solitudine vive infatti su due piani, quello immediato e quello esistenziale. Altra cosa per un monaco è stare solo nella cella di un convento, protetto dalla comunità che lo circonda e indirizzato dall’autorità di un abate che regola i momenti della sua giornata, altra è vivere isolato, privo di contatti con altri uomini e soprattutto senza nessuna guida spirituale che lo sostenga nella “lotta contro il demonio” che certo gli capiterà di dover sostenere. Anche in un monastero, la solitudine rimane la dimensione esistenziale del monaco, per addestralo alla quale l’abate gli ordina con metodo e determinazione «vai nella tua cella e lei ti insegnerà ogni cosa». L’obbiettivo dell’isolamento rimane comunque il raggiungimento della capacità di «vedere gli altri come li vede Dio», senza dimenticare mai l’ammonimento di san Basilio «a chi laverai i piedi, se vivi da solo?».


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE

Una questione ridicola la riduzione dello stipendio dei parlamentari La questione dello stipendio dei parlamentari è fumo. L’arrosto è altrove. A conferma della esattezza di tale analisi, arriva la denuncia dei Radicali sugli affitti e servizi, e loro tipologia, pagati dalla Camera dei deputati: 586 milioni di euro (più di mille miliardi delle vecchie lire), in 10 anni. Spese consistenti a fronte delle quali la riduzione dello stipendio dei parlamentari è ridicola. Serve solo ad accontentare gli ingenui. Così come analizzato dai radicali per i locali della Camera, si potrebbe fare per tutte le spese pubbliche: si scoprirebbe, per esempio, che per cambiare una lampadina si spendono 17 euro quando al negozio costa 1 euro. Nella sanità, se venissero applicati i criteri della logistica moderna, si potrebbe risparmiare fino al 20 per cento della spesa, vale a dire qualche migliaio di miliardi. Non siamo noi a dimostrarlo, ma esperti tedeschi di logistica e pianificazione aziendale. Lo spreco dipenderebbe dai troppi fornitori, dai volumi delle giacenze, da ritardi contabili, eccetera. E se lo dicono i tedeschi, che sono maniaci della organizzazione, non possiamo che crederci. Invece, da noi, si fa fumo. Tanto.

P.M.

IL FEDERALISMO E ROSMINI Non posso che plaudire alle parole del cardinale Angelo Bagnasco. Non a caso egli fa riferimento a Rosmini per parlare di federalismo. Non a caso, perché il federalismo di matrice cattolica è stato la vera scommessa perduta di questo Paese, che soltanto settant’anni dopo l’Unità d’Italia riusciva a convincere anche i cattolici che quel tipo di unità era utile per tutti. Cosa che, naturalmente, si dimostrò non del tutto vera. Riproporre oggi le specificità delle singole culture significa dar luogo al rispetto reale delle persone e dei territori. Cosa può esserci di egoistico in un progetto, quello del federalismo, rispettoso com’è del sud e del nord del nostro Paese? Oggi di non rispettoso ed egoistico c’è il fatto incontestabile che tre, quattro regioni pagano il conto per tutte le altre. Una situazione ormai inso-

stenibile per l’ingiustizia che produce. Ciò è chiaro a tutti coloro che, anche in quanto appartenenti alle comunità cristiane territoriali (riscoperte nell’ultimo Concilio), si occupano di politica: non bisogna essere leghisti per propugnare il federalismo. Di sicuro però, bisogna riconoscere che senza le Lega non si sarebbe sviluppata questa coscienza. Parlare oggi di Rosmini e di Gioberti, come ha fatto il cardinale Bagnasco è dentro un processo che, finalmente, può ricominciare.

Ellezeta

I LICENZIATI DI MELFI Non posso non rilevare le gravi contraddizioni di merito nel dispositivo della sentenza dei licenziati di Melfi, allorquando neppure il tribunale, nella sua ordinanza del 9 agosto scorso, esclude «che effettivamente i tre sindacalisti durante lo sciope-

Gorilla ecologista I maschi adulti di gorilla (detti “silverback” per il colore della schiena) trascorrono la maggior parte del tempo a terra, a guardia degli alberi dove vivono gli altri membri del branco. Questo atteggiamento è considerato all’interno del branco una manifestazione di potere.

ro del 7 luglio abbiano operato deliberatamente per ottenere il blocco dei carrelli automatici, in modo da paralizzare l’attivita\u0300 dello stabilimento,nonostante che la maggioranza dei lavoratori avesse rifiutato di aderire all’agitazione, come rileva lo stesso professore Ichino. Il giudice ha solo rilevato che esiste una sproporzione tra l’atto commesso durante lo sciopero e il provvedimento preso dall’azienda, insinuando la possibilità che durante uno sciopero possano realizzarsi azioni contra

legem; quasi come a legittimare questi comportamenti. Dopo che gli ultras del calcio hanno teorizzato per anni che nelle curve può avvenire di tutto, quasi fosse territorio franco, ora anche le fabbriche italiane rischiano di fare la stessa fine delle curve degli stadi: in mano agli ultrà... Nonostante questo il giudice ha emesso un suo giudizio e una sua ordinanza e quella, fino alla sentenza d’appello, deve essere rispettata.

L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

Roberto Di Maulo

dal ”New York Times”

Dakar libera gli schiavi bambini iccola rivoluzione in Senegal. È successo che dallo scranno di un tribunale di Dakar, un giudice abbia emesso una sentenza che molti osservatori, interni ed esterni, hanno già definito rivoluzionaria. Di cosa si tratta? Sette marabout, sorta di santoni musulmani locali, sono stati condannati per aver indotto e costretto dei bambini alla questua.

dei ragazzi. Ma che serve anche alla confraternita per restare a galla, specialmente nei periodi di crisi. Si dice profondamente «rattristato» per la vicenda lo sherif Aidare, uno dei membri del gruppo che ha seguito il processo. «È una tradizione che deriva da nostri antenati» sottolinea con stupore l’anziano saggio mouridee. In pratica, questa sarebbe una maniera in cui viene insegnato il Corano alle giovani leve. E anche il collegio difensivo che ha potuto seguire tutte le fasi dell’imputazione, fa leva sull’aspetto culturale della vicenda.

P

Una sentenza che cancella di colpo una tradizione ben radicata nella cultura e che pone all’ordine del giorno di un Paese africano, a forte componente islamica, una questione fondamentale per il diritto umano: la tutela dei minori. Naturalmente la decisione della corte senegalese, contenendo già una scelta fortemente simbolica, non ha voluto eccedere nella punizione, diremo, «secolare». Solo sette mesi e una multa per i clerici che raccoglievano la carità attraverso le braccia di un piccolo esercito di bambini. La sentenza è stata emessa la settimana scorsa, in un tribunale affollatissimo della capitale. Con una presenza nutrita di uomini bianco-vestiti – l’abito tradizionale si chiama bou-bou – colleghi dei sette condannati. Riuniti in conclave per discutere i risvolti della condanna. I marabout hanno elaborato una particolare interpretazione del Corano, legata alla setta dei mouridee. Potremmo, in maniera semplicistica, definirli dei protestanti dell’islam, perché intendono il lavoro come una sorta di preghiera continua: per loro lavorare è una questione sacra. Ragion per cui

nei flussi migratori (anche verso l’Italia) costituiscono una componente di persone che si integrano facilmente in Occidente. Sono una vera potenza politica e finanziaria in Senegal, con ramificazioni in tutto il mondo.Tanto per dare un senso al valore della decisione della corte di Dakar. E i santoni sanno esattamente cosa ci sia in ballo. Se il governo dovesse dare seguito a ciò che da tempo sollecitano numerose associazioni per la difesa dei diritti umani, migliaia di bambini dediti alla raccolta di un obolo sarebbero «liberati», privando la setta di una importante fonte di finanziamento. Loro si difendono affermando che l’attività di questua sia una forma educativa che, solo in parte, completa un percorso formativo necessario per la crescita

«È una pratica che esiste dalla notte dei tempi in Senegal. Questo è un caso senza precedenti» afferma Aboucracy Barro, uno degli avvocati della setta. E che sia così, non ci sono dubbi, come spiega il corrispondente del Nyt, Adam Nossiter. «Sembra che una parte importante del paesaggio cittadino stia per cambiare» afferma il giornalista. Infatti potrebbe sparire definitivamente un vero esercito di marmocchi – anche di 4 anni – che scalzi e con la ciotola per la raccolta di monetine, invade quotidianamente le strade delle città del Senegal. Un lavoro fatto muovendosi tra le fila di auto in pieno traffico e in mezzo alla folla di pedoni che riempie le strade variopinte si quel Paese. Ora i poliziotti sono attenti a far rispettare la legge e sarà un lavoro non facile. Ogni marabout gestisce fino a un centinaio di talibés, questi piccoli schiavi della carità.


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LE VERITÀ NASCOSTE

di Vincenzo Bacarani

Rapine strane: è finito il tempo delle calze in testa MANCHESTER. È passato il tempo della calza in testa. Un rapinatore ha pensato bene di utilizzare un travestimento piuttosto insolito: ha strappato rami e foglie dagli alberi nel viale e se li è attaccati addosso con del nastro adesivo. A questo punto, ha aspettato l’apertura della Citizen Bank, alle 9 del mattino, è andato allo sportello e ha chiesto candidamente del denaro, senza mostrare alcun arma. L’originale colpo ha avuto inizialmente successo, e il rapinatore si è dileguato con una somma imprecisata e la sua maschera. Ma com’era prevedibile, l’uomo-albero non poteva non attirare la curiosità dei passanti, che lo hanno notato anche dopo la rapina, per-

mettendo alla polizia di catturarlo, e di identificarlo come il 49enne James Coldwell. FORT LAUDERDALE. Juan Canales, invece, mentre era alla sua terza settimana di lavoro come cameriere, ha visto di fronte al ristorante una giovane donna aggredita da un rapinatore armato che voleva impossessarsi della sua auto. Canales è intervenuto, riuscendo a salvare la donna e a bloccare il rapinatore, trattenendolo fino all’arrivo della polizia. Un gesto che molti si aspetterebbero venisse apprezzato e ammirato, giusto? Invece no: tornato all’interno del ristorante, il proprietario lo ha licenziato, per avere abbandonato il luogo di lavoro senza autorizzazio-

ACCADDE OGGI

ROTELLI NON È COME ANGELUCCI Gentile Direttore, abbiamo letto con grande attenzione l’articolo di liberal, dal titolo “La grande guerra del Corriere”, e mi permetto di inviarle alcune precisazioni in merito alla figura e all’attività del professor Rotelli. Sarebbe più corretto definire il professore un imprenditore della sanità piuttosto che delle cliniche, in quanto esiste una sostanziale differenza tra clinica privata e ospedale, e quelli che il Gruppo Ospedaliero San Donato possiede sono 16 ospedali ad alta specializzazione, perfettamente integrati nella rete ospedaliera pubblica e tra i più qualificati della Lombardia sia per l’attività di urgenza-emergenza, che per l’acuzie. Mi permetto, inoltre, di precisare che il professor Rotelli non è professore di medicina, ma nel 1983 ottenne la prima cattedra in Italia di Organizzazione e legislazione sanitaria presso la facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi di Milano. Concludo, infine, con una doverosa precisazione relativa all’inchiesta milanese che ha visto, tra gli altri, coinvolti tre ospedali del Gruppo San Donato: al momento del deposito degli atti per la chiusura delle indagini, avvenuta nello scorso dicembre dopo due anni di indagini, il professor Giuseppe Rotelli non risulta più tra le persone indagate; un conto sono i comportamenti e le responsabilità dei singoli, un conto quelle delle Aziende. Per quanto riguarda l’accusa dei pm, non è stata elevata alcuna contestazione sul numero dei ricoveri, ma sulla codifica degli stessi per prestazioni riconosciute vere e dovute e, quindi, nulla dell’inchiesta che ci riguarda può essere in

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

14 settembre 1993 Okecie, Polonia: durante una tempesta, un Airbus A320 non riesce a decelerare in fase di atterraggio: muoiono un pilota e un altro passeggero 1998 Papa Giovanni Paolo II pubblica l’enciclica Fides et Ratio riguardante i rapporti tra fede e ragione 1999 Kiribati, Nauru e Tonga entrano nelle Nazioni Unite 2002 Il cardinale Dionigi Tettamanzi prende possesso dell’Arcidiocesi di Milano 2003 La Svezia, con un referendum, rigetta l’adozione dell’Euro 2005 Baghdad: una serie di attentati causa 154 morti e oltre 500 feriti, per la maggior parte sciiti. Al Qaeda rivendica le stragi, come rivalsa per i morti causati poche settimane prima durante una celebrazione sunnita. 2007 Uscita del film dei Simpsons in Italia 2008 Fallimento della Lehman Brothers e l’inizio della crisi economica

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

ne. Facile immaginare lo stupore i Canales che della vittima dell’aggressione, Massiel Marquartdt, che non si aspettavano certo una conclusione di questo tipo. Ma il proprietario del ristorante, anche intervistato dai giornalisti non ha cambiato le sue opinioni di una virgola: «Sarà anche un eroe, ma non è un buon dipendente».

qualche modo paragonabile alla vicenda giudiziaria del gruppo Angelucci. La ringrazio per l’attenzione,

Vittoria Cereseto Ufficio Stampa Gruppo Ospedaliero San Donato

ALIMENTI LIGHT Le “rotelline”di troppo sono indubbiamente antiestetiche, soprattutto in spiaggia. Ma come si fa a restare in forma? Con il cibo light, ovviamente! Vediamo di non cadere nelle solite trappole pubblicitarie. Un cibo light è quello cui hanno sottratto o sostituito grassi e zuccheri. I grassi sono sostituiti con acqua, che costa meno, e gli zuccheri sono rimpiazzati da edulcoranti artificiali (saccarina, acisulfame, ciclammati) o da zucchero alveolare (impregnato di aria), a minor apporto calorico e a più basso costo industriale. In sintesi nei prodotti light vengono sottratti ingredienti che costano di più e sostituiti con altri (acqua, aria, edulcorati, fibre) che costano di meno. I prezzi però degli alimenti leggeri sono in genere maggiori di quelli tradizionali. Insomma si paga la moda, la pubblicità e il desiderio di non ingrassare.

Primo Mastrantoni

ANCORA LUI In molte piazze e piazzette del nostro litorale si sono posizionati dei circhi equestri per la gioia di grandi e piccini. Ma quello di Gheddafi però li ha superati tutti: trenta cavalli che si sono esibiti prima del carosello dei Carabinieri, e prima delle polemiche e delle dichiarazioni inutili, perché ciò che Gheddafi pensa e fa della politica internazionale, non interessa ormai più a nessuno.

Br

Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Robert Kagan, Filippo La Porta,

Direttore da Washington Michael Novak

Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,

Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)

Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Collaboratori

Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,

Maria Pia Ammirati, Mario Arpino,

Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,

Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi,

Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,

Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,

Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,

CASSA INTEGRAZIONE A DUE VELOCITÀ Una recente analisi della Cgil pone in evidenza un duplice aspetto della cassa integrazione - un ammortizzatore sociale concepito per evitare licenziamenti immediati - che è stata rilevata recentemente nel nostro Paese. Ad agosto di quest’anno c’è stato il consueto calo fisiologico di utilizzo rispetto a luglio (ovviamente a causa anche delle ferie) mentre c’è stato invece un aumento dell’utilizzo della cassa integrazione in deroga (Cigd) che viene molto usata dal governo in questa fase di crisi per evitare tensioni sociali e che inevitabilmente grava in maniera consistente sul bilancio dello Stato. Come tutti sanno, oltre ai costi a carico della collettività, la cassa integrazione rappresenta comunque per il lavoratore che ne è interessato un robusto taglio di stipendio: un taglio netto, secondo la Cgil, di 4900 euro da inizio anno sulla busta paga. La cassa in deroga, e questo è l’unico elemento positivo di tale strumento, si chiama in deroga perché estende la sua funzione ai lavoratori che finora non erano tutelati. Spiega in un comunicato la Cgil: «Le ore di cassa in deroga ad agosto, pari a 35 milioni 499mila e 955 aumentano su luglio del 5,77 per cento, attestandosi al valore più alto degli ultimi dodici mesi, e del 195 per cento sullo stesso mese dello scorso anno. Inoltre va sottolineato che da gennaio 2009 ad agosto 2010 sono state autorizzate 344 milioni, settecentoquarantamila e otto ore di cassa in deroga e di queste oltre 244 milioni solo da inizio anno. Un monte ore che coinvolge 175.439 lavoratori sui 645.682 interessati dai processi di cassa in generale». Un aspetto positivo è invece rappresentato dal calo sensibile della cassa ordinaria che ad agosto di quest’anno è scesa del 67,52 per cento rispetto a luglio e del 66 per cento rispetto ad agosto 2009. Insomma, un ammortizzatore sociale che viaggia a due velocità. Il governo intende questi dati come positivi in quanto ritiene che la cassa in deroga rappresenti una soluzione temporanea e circoscritta alla crisi internazionale in atto e ritiene che il vistoso calo della cassa ordinaria rispetto all’anno scorso rappresenti un segnale, un sintomo di una ripresa che sarebbe già cominciata. Non sono dello stesso parere i sindacati, soprattutto la Cgil che, tramite il segretario confederale Vincenzo Scudiere, chiede che venga al più presto risolto il problema della nomina del ministro allo Sviluppo economico, poltrona vacante da oltre 4 mesi, da quando cioè Claudio Scajola ha dato le dimissioni. In effetti molti (e non solo i sindacati, ma anche gli imprenditori), ritengono che in un periodo così delicato sarebbe necessario pensare a una politica economica oltre che a una, altrettanto necessaria ma non sufficiente, “politica contabile”. bacarani@gmail.com

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ULTIMAPAGINA Il personaggio. Ritratto di Pietro Calabrese, scomparso domenica scorsa dopo una lunga malattia

L’ultimo saluto al giornalista di Maurizio Stefanini alabrese di cognome. Romano di nascita: l’8 maggio del 1944, quattro settimane prima della Liberazione della città. Siciliano di origine: a Palermo trascorse infanzia e adolescenza, e nelle interviste ci teneva a ricordare di quanto avesse cara una casetta tra gli ulivi che aveva sulle Madonie. E anche milanese per alcuni dei suoi incarichi più prestigiosi, dalla direzione di Capital a quelle della Gazzetta dello Sport e di Panorama. «Milano è l’ideale per lavorare, Roma per vivere», diceva. Una carriera nomade, quella di Pietro Calabrese, come la carriera di ogni grande giornalista dovrebbe essere, e anche più che non la media dei giornalisti italiani di oggi, spesso sospesi tra il precariato e la ministerializzazione.

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Tant’è che da giornalista non aveva neanche cominciato: laurea in Giurisprudenza anche per via dei genitori che lo sognavano notaio, era poi entrato alla Camera a 25 anni come borsista, per poi fare il funzionario parlamentare. Che per essere assunti bisogna vincere un concorso infernale, tra conoscenze giuridiche che bisogna dimostrare e capacità di fare resocontazione sommaria che bisogna avere. Ma poi in tanti lì si sistemano: paghi degli altissimi stipendi e della possibilità di essere i veri ghost writer della legislazione. Ogni tanto, però, c’è pure qualche funzionario parlamentare che non si accontenta, e prova a andare oltre: da Paolo Ungari a Beniamino Placido. Ed è appunto a trent’anni che Calabrese passa dalle comodità del Parlamento alle asperità del giornalismo, vincendo un concorso con l’Ansa che lo manda poi a Madrid. Lui d’altronde raccontava di aver «voluto fare il giornalista da quando aveva memoria» e di sentirsi «felice di esserci riuscito e di averlo fatto tutta la vita». Diceva anche che «quello del giornalista è un mestiere in cui si lavora tanto, si guadagna abbastanza, ma non in maniera eccezionale». Ma resta «il più bel mestiere del mondo». Il nomadismo professionale ridivenne comunque allora anche geografico. Due anni nella Madrid tra fine del franchismo e inizio del post-franchismo. Quattro nella Parigi giscardiana. Due a Bruxelles. Nel frattempo dall’Ansa è passato al Messaggero, il giornale romano per eccellenza. E nel 1988 torna a Roma passando dagli Esteri alla Cultura, come redattore capo e responsabile del servizio. Poi tre anni all’Espresso, capo del servizio arti e spettacoli. Tre al Messaggero, redattore capo centrale e vicedirettore. Un breve periodo di aspettativa, a curare per conto di Rutelli la sfortunata candidatura di Roma alle Olimpiadi del 2004. E tre anni ancora al Messaggero, che con lui direttore arriva a 300.000 copie: il record della sua ultrasecolare storia. Venne ancora un ruolo in Rai, la parentesi milanese e il ritorno a Roma, dove Veltroni lo fece membro del consiglio di amministrazione

della Fondazione Cinema, che organizza la Festa del Cinema di Roma. Il 29 aprile del 2008 si dimise, in concomitanza all’elezione a sindaco di Alemanno. Si era iniziato a parlare di lui come un possibile presidente della Rai, ed aveva continuato a tenere

ti gli altri giornali. Non è che, se non l’avessi pubblicata io, la notizia l’indomani non sarebbe uscita sulle altre testate». «Avrei potuto non offrirla a un lettore de Il Messaggero?... un cittadino acquista una copia di un quotidiano, spendendo 1.500 lire, e avendo a disposizione tutti gli altri giornali italiani che pubblicano, in prima pagina, una delle notizie più importanti del giorno, ossia che uno dei più popolari conduttori televisivi sta morendo. E quel lettore de Il Messaggero, che ha speso 1.500 lire, questa notizia non la può leggere soltanto perché il direttore del quotidiano che legge abitualmente è amico di Castagna. (È) proponibile come comportamento?».

Coerente con questi principi, non solo

rubriche in vari periodici: da Sette a Prima Comunicazione, a Novella 2000. Ma ormai si teneva in seconda linea: uno strano riserbo, an-

non si tirò indietro, ma diede conto dell’andamento della sua malattia: nelle sue rubriche, e in un libro che non ha fatto in tempo a veder uscire, visto che sarà in libreria il 29. Unico pudore: aveva riferito di questa ultima battaglia di cronaca come se fosse non la sua, ma quella di un certo Gino.

NOMADE Romano di nascita ma siciliano di origine, ha vissuto in diverse città italiane dirigendo prestigiose testate come “Capital”, la “Gazzetta dello sport” e “Panorama”. Ma il suo cuore, forse, ha sempre battuto per “Il Messaggero” che se ormai aveva compouto i 65 anni della pensione, di cui spiegò il retroscena nel novembre del 2009. Quando in un’intervista televisiva fece sapere di essere stato colpito da un tumore al polmone. Una volta, in un incontro

con gli studenti un liceo romano lo avevano rimproverato per aver “dato in pasto” al pubblico il suo amico Alberto Castagna, col pubblicare che aveva avuto una ricaduta dall’operazione da lui subita un mese prima a Pavia e che riversava in gravissime condizioni all’Ospedale.

«Non l’ho insultato, non ho detto una cosa sbagliata, non l’ho privato di qualche sacro diritto», aveva risposto. «Ho solo detto quello che la maggior parte delle persone vicine ad Alberto Castagna sapevano e che erano a conoscenza di tut-


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