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I pensieri, in genere, sono peggiori di noi stessi Thomas Stearns Eliot

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 16 SETTEMBRE 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

La leader di Confindustria: «La maggioranza non c’è più». Intanto Fini e Lombardo annunciano un accordo «non solo in Sicilia»

Una boccata d’aria fresca Napolitano ai partiti: «Coraggio e slancio morale. Come nel ‘45» Il Capo dello Stato rompe lo squallido clima di compravendita politica e chiede al Paese di aprire un’era di “seconda ricostruzione”. Gli fa eco la Marcegaglia:«Basta beghe,occupatevi dell’Italia» Frattini diserta il «question time»

LA LEZIONE DEL COLLE/1

LA LEZIONE DEL COLLE/2

Si è aperta una nuova fase del settennato

L’eresia del Presidente contro la palude

Il governo tenta di insabbiare l’“affaire Libia” C

Il ministro scopre all’ultimo momento di avere altri impegni. E così nessuno spiega come sono andate davvero le cose nel Golfo della Sirte

di Enzo Carra

di Giancristiano Desiderio

on i suoi interventi di Salerno e tra i giovani del Giffoni film festival, Napolitano apre di fatto una stagione nuova del suo settennato. In un clima politico assai poco raccomandabile il Quirinale fa gradualmente a meno di una prassi notarile. a pagina 5

l Giffoni Film Festival è stato proietatto un bel film che s’intitola «L’eresia della normalità». Protagonista e regista della storia è il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che ha parlato a dei ragazzi di cose essenziali e concrete. a pagina 2

Parlano Giovanni Orsina e Gian Enrico Rusconi

L’allarme di Emanuele Macaluso

Quando c’erano le macerie (e c’era anche la Nazione)

«Ormai siamo sull’abisso. Il Quirinale se n’è accorto»

«Anche oggi siamo di fronte a un Paese da rifondare. Ma, rispetto al dopoguerra, manca l’unità»

«Il sistema politico sta crollando, ma nessuno sa come chiudere una crisi che si trascina da anni»

Gabriella Mecucci • pagina 4

Riccardo Paradisi • pagina 3

Il primo round dei colloqui di pace

Polemica infuocata tra Parigi e Bruxelles

Puzzle Medioriente Ora ci prova Hillary

Lo sfogo di Sarkozy: «Prendete voi i rom»

Marco Palombi • pagina 8

Gli spari, le scuse e le amicizie pericolose

Un trattato davvero maltrattato di Vincenzo Faccioli Pintozzi ella lunga querelle politica sull’aggressione del peschereccio italiano Ariete ad opera di una motovedetta libica, la Lega Nord sbaglia una volta di più. Perché la questione in discussione non riguarda le scuse di Tripoli dopo l’errore marchiano compiuto dai propri militari: riguarda invece l’atteggiamento che il governo italiano (e non l’Italia) tiene davanti al regime guidato dal colonnello Gheddafi. Le scuse sarebbero sufficienti, se fossero espresse da un capo di Stato che avesse un atteggiamento nuovo. a pagina 8

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seg ue a (10,00 pagina 9CON EURO 1,00

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I QUADERNI)

• ANNO XV •

NUMERO

Gerusalemme: Netanyahu e Abu Mazen si incontrano di nuovo, sotto l’egida della Clinton. Ma le colonie e Hamas pesano ancora

L’Eliseo non apprezza le critiche sui rimpatri e attacca la Commissaria Reding: «Gli zingari se li porti in Lussemburgo»

Osvaldo Baldacci • pag. 14

Pierre Chiartano • pag. 17

180 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


l’analisi

prima pagina

La lezione del Quirinale al giovani di Giffoni

pagina 2 • 16 settembre 2010

Se la normalità della politica diventa eresia di Giancristiano Desiderio l Giffoni Film Festival è stato proietatto un bel film che s’intitola «L’eresia della normalità». Protagonista e regista della storia è il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che ha parlato e risposto alle domande dei ragazzi con, appunto, una normalità e una linearità che sono proprie delle cose essenziali e concrete. Tuttavia, in tempi come questi in cui - per dirla con Emma Marcegaglia la politica dedica tempi ed energie ai cognati, alle amanti, alle case e alla ricerca affannosa di una maggioranza che non c’è la normalità del capo dello Stato appare un’eresia. Una bella eresia che ha il merito di restituire al dibattito pubblico un senso che sembrava essersi smarrito per sempre nella selva oscura delle dichiarazioni del mercato parlamentare da cui dipende la sopravvivenza del governo Berlusconi.

A

Il presidente Napolitano parlando a braccio come sua consuetudine si è soffermato sulla scuola, sul merito, gli insegnanti, sullo spirito del ’45, sulla Costituzione e soprattutto ha espresso un concetto che nella politica di oggi è andato perduto: «Occorre un rilancio morale e ideale della politica, che è ricerca delle soluzioni possibili ma richiede preparazione e moralità». Sentiamo il dovere di sottolineare e rilanciare quanto detto da Giorgio Napolitano, in particolare quella definizione della politica come «ricerca delle soluzioni possibili» che «richiede preparazione e moralità» è una bussola che ogni leader politico che ha l’ambizione di governare e lavorare nelle cose dello Stato dovrebbe usare nella scelta e selezione dei suoi uomini e delle sue donne. Come non vedere che oggi la politica è fatta alla giornata, con improvvisazione e con un unico obiettivo: garantirsi la visibilità. Il resto - ossia quel piccolo particolare che risponde al nome dei problemi dello Stato e della libertà - è semplicemente ignorato. È probabile che questa improvvisazione della politica italiana sia la principale causa delle riforme sempre annunciate e mai fatte. Per dire le cose come stanno: fatta eccezione per qualcuno, chi ricopre cariche di responsabilità, ma anche chi siede in Parlamento che è pur sempre un ruolo centrale per la vita pubblica, non sa dove mettere le mani che così finiscono regolarmente in posti sbagliati e dove non devono essere messe e manomesse. Il presidente si è anche soffermato su un concetto e una pratica che di solito sono invocate ma non esercitate: la neutralità. Certo, la neutralità in politica è cosa spinosa perché di per sé la politica comporta il coinvolgimento in gioco e la scelta di una parte. Tuttavia, che cosa sarebbe la politica senza un riferimento istituzionale capace di agire in vista dell’interesse nazionale? E il bisogno di neutralità a cui ha fatto cenno Napolitano con parole di verità è proprio questa esigenza che prima di esser detta è praticata nella concretezza delle situazioni come costume politico e istituzionale. Se ci pensiamo bene è proprio questa pratica istituzionale che oggi è assente: non a caso la crisi extraparlamentare del governo e della maggioranza ha assunto i caratteri di una crisi istituzionale in cui il capo del governo ha avuto l’idea ardita e ridicola di chiedere al Quirinale le dimissioni del presidente della Camera. Si può facilmente capire perché in un Paese decente la “chiacchierata”di ieri di Napolitano con i ragazzi di Giffoni sarebbe stata una tranquilla conversazione, mentre in un Paese anomalo come l’Italia contemporanea le parole normali del capo dello Stato sono un’eresia e una boccata di aria fresca.

il fatto Mentre Fini e Lombardo annunciano un accordo «in Sicilia e in chiave nazionale»

Il sogno di Napolitano

Un’Italia che ritrovi coraggio e slancio morale per una “seconda ricostruzione”. Il sasso del presidente nello stagno dei partiti raccolto anche dalla Marcegaglia di Errico Novi

ROMA. S’intromette in una routine fatta ormai di basse manovre, scambi, compravendite di parlamentari. Giorgio Napolitano stona, sa di farlo: intrattiene i ragazzi del Giffoni film festival con una piccola lezione su morale, passione e ideali in politica. Parla di codici quasi sconosciuti al dibattito attuale. Lo fa con grazia, senza accenti censori, per marcare ancor di più la distanza da un confronto avvelenato da «partigianeria e meschinità». Insomma quasi umilia i protagonisti del conflitto ancora in corso nella maggioranza. Non a caso sono in pochissimi a rispondergli, in un clima di malcelato imbarazzo. All’ombra dei pilastri fissati da Napolitano, si svolge ancora un mercato più o meno visibile. Continua la caccia ai parlamentari da cooptare nella maggioranza (o da riconvertire, considerato che molti votarono la fiducia già nel 2008). In vista del discorso del premier previsto per il 28 ottobre i negoziatori del Pdl procedono a fari spenti. Incassano però la sostanziale smentita da parte dei finiani moderati sull’ipotesi del sottogruppo lealista da creare in seno a Futuro e libertà. Si avvitano in una serie di strane contraddizioni riguardo al processo dei probiviri contro Bocchino, Granata e Briguglio: oggi il collegio disciplinare del Pdl dovrebbe riunirsi ma non per avviare l’istruttoria, limitandosi a inviare le lettere di incolpazione ai tre deferiti, con conseguente allungamento dei tempi. Poi c’è l’affanno ormai parossistico del presidente del Consiglio nella soluzione dell’interim allo Sviluppo economico: voci diffuse a metà giornata danno per prossima la soluzione, in ogni caso fuori tempo massimo visto

che lo stesso Berlusconi si era formalmente e pubblicamente impegnato con il Colle a sciogliere il rebus entro domenica scorsa.

Di fronte a tutto questo il presidente della Repubblica ha abbastanza fiducia in un tempo migliore da appellarsi addirittura alle fondamenta repubblicane: «Bisogna costruire qualcosa di simile al clima di grande slancio che c’era nel 1945, dopo la guerra. Si era molto motivati. Occorre un rilancio morale e ideale della politica, che è ricerca delle soluzioni possibili ma richiede preparazione e moralità». Parole capaci di ammutolire i faccendieri del politicume da mercato rionale. Se non altro perché Napolitano sembra quasi compiacersi del contrasto violento tra il suono tono elevato e la pochezza delle contese in corso. Il Capo dello Stato si sofferma sull’imparzialità del suo ruolo, spiega che «da qualunque parte politica si provenga e si sia eletti bisogna sentire di essere il presidente di tutti gli italiani: ho il dovere di essere fuori dalla mischia perché chi ha scritto la Costituzione ha voluto che per il presidente della Repubblica fosse così». Quindi un passaggio che sembra pensato apposta per i duellanti della maggioranza: «È essenziale scegliere obiettivi comuni», risponde Napolitano a un ragazzo che gli chiede come fanno a cooperare persone diverse fra loro, «basta spogliarsi degli eccessi di partigianeria, rinunciare a egoismo e meschinità». Non mancano però un paio di obiezioni alla politica del governo, soprattutto su formazione e cultura, concesse peraltro davanti a un uditorio di giovani e quindi particolarmente interessato alla materia. «Alla scuola bisogna


l’intervista

«Ormai siamo sul baratro. E lui lo sa» Macaluso commenta le frasi del presidente sul bene comune e la responsabilità politica di Riccardo Paradisi

ROMA. La politica è ricerca delle soluzioni, ma ci deve anche essere spessore culturale e moralità». Le parole del presidente Napolitano pronunciate da Salerno in occasione del Giffoni film festival se non luoghi comuni potrebbero apparire generiche, dovute, pedagogia di routine: «Quando si coopera tra persone diverse, con storie diverse, l’essenziale è capire quali sono i problemi e trovare gli interessi comuni. Si tratta di scegliere gli obiettivi da raggiungere e raggiungerli insieme». Che non si tratti però di generica pedagogia civica lo si capisce tenendo presente la situazione parlamentare di queste ore e di questi giorni. Esito d’una crisi di lunga durata che non trova sbocchi e che sembra ormai vicina al grado zero e all’impasse. Calate dal Colle sul terreno della disputa politica dunque le parole di Napolitano, che richiama anche il clima della ricostruzione del dopoguerra, assumono un rilievo particolare, prendono la forma di un allarme. Emanuele Macaluso, direttore delle Nuove ragioni del socialismo e per anni compagno di Napolitano nella corrente migliorista del Pci, commenta con liberal la riflessione del capo dello Stato e la situazione politica di queste ore. Macaluso ha fissato un’impressione sull’ultimo numero delle Nuove ragioni del socialismo della vicenda italiana: «Il ciclo berlusconiano va chiudendosi ma non si capisce come e quando. L’opposizione non sembra avere più rapporti forti con la società». Sono questi gli elementi che spiegano il disorientamento generale che caratterizza la situazione del Paese. «Il presidente si trova in una situazione in cui le forze politiche sono tutte in crisi a destra ormai è imploso il modello però non sanno come portare a termine questa esperienza, non si sa come chiudere una fase politica che si trascina. Il centrosinistra da parte sua non riesce ad

avere una linea comune alternativa; il centro infine si incarta nelle sue contraddizioni siciliane, si divide al proprio interno sulla linea da tenere. È un intero sistema politico che non si riesce a consolidare, è il modello della seconda repubblica che non regge, il bipolarismo che ha prodotto e su cui tanto puntavano Veltroni e Berlusconi». La cosa incredibile secondo Macaluso è che non si vuole prendere atto di questi che sono fatti: «Prodi è caduto su questo sistema elettorale, la maggioranza di Berlusconi, che ha cento deputati in più dell’opposizione è in crisi: ma insomma che cosa deve accadere per convincere questa classe politica che è ora di cambiare strada?» Il problema è come uscire ora da questa situazione. Secondo Macaluso dovrebbe essere lo stesso premier ad avere un sussulto di coscienza: «Dovrebbe essere il presidente del Consiglio a prendere atto della situazione, ad avviare un percorso per cambiare una legge elettorale che è tra le maggiori cause di questa crisi. Invece ricorre alla legione straniera, ad assoldare una pattuglia di “ricattatori” come li chiamano gli stessi giornali berlusconiani. Certo Berlusconi – e non solo lui – ha interesse a nominare i parlamentari e ad avere il premio di maggioranza ma questo la dice lunga sulla nostra classe dirigente, su quale sia la considerazione che ha del bene pubblico».

Tutti sono bloccati sulle loro posizioni mentre infuria una crisi sociale ed economica di gravità inaudita

L’opposizione da parte sua non riesce nemmeno a immaginarla una legge elettorale alternativa. Nel Pd ce ne sono otto. «Ma sarebbero troppe – polemizza Macaluso – anche se fossero due. E allora il presidente della Repubblica che vuole che faccia, non può intervenire in questi processi politici, può solo registrare la gravità della situazione, richiamare alla responsabilità, ricordare i riferimenti essenziali per un convivere civile della politica. Poi però

assicurare più investimenti», dice il Capo dello Stato, «bisogna anche incoraggiare il merito: se non si fa questo, se non si investe nella cultura, spesso è per miopia, perché si guarda alle urgenze e non al futuro». Considerazione che potrebbe essere fatta apposta per sollevare dubbi sui tagli inflitti da via XX Settembre all’istruzione, ma che Napolitano mantiene su un piano generale. Lettura più specifica ne danno in effetti sia il Pd, con la responsabile Scuola Francesca Puglisi che rilancia e parla di «grandissima sofferenza» per il sistema formativo, sia l’Italia dei valori. Il presidente dell’Udc Rocco Buttiglione si sofferma invece soprattutto su un’altra parte del discorso di Napolitano, dedicata alla centralità della ricerca e di uno sviluppo «selettivo» dell’economia, e nota: «L’Italia ha bisogno di costruirsi un futuro e di creare per il futuro un milione di nuovi posti di lavoro qualificati. La competitività va cercata in settori ad alto contenuto tecnologico che siano al riparo dalla concorrenza dei Paesi emergenti».

dovrebbero essere le forze politiche ad agire». Invece la classe politica non vede nemmeno che siamo sull’orlo di un baratro: «Si sta determinando una crisi della classe dirigente senza precedenti mentre dalla società civile non arrivano stimoli. Mi impressiona il fatto che i sindacati siano impigliati in guerriglie che condizionano la vita del sindacato e dei lavoratori, mi impressiona la passività di Confindustria, dell’università, della stampa, quasi tutta legata a posizioni precostituite, incapace di guadagnare uno sguardo critico indipendente che sia stimolo e indicazione d’una via d’uscita».

Nemmeno la proposta di un governo di responsabilità nazionale formulata nei giorni scorsi dal presidente della Commissione antimafia Pisanu convince Macaluso: «Sarebbe una proposta sensata se non fosse che non regge alla realtà delle forze politiche. Non solo Berlusconi, che non accetterebbe mai un suo ridimensionamento, anche la sinistra è divisa, ci sono forze oltranziste, radicali che hanno potere di freno, di veto, di condizionamento. Si dovrebbe fare un’opera di disintossicazione questo si. Si dovrebbe riguadagnare una visione lucida delle cose. Ma io sono pessimista, molto non vedo forze coscienti. Tutti sono bloccati alle loro posizioni mentre infuria una crisi sociale ed economica di gravità mondiale. Non so se ci sarà consentito il tempo per svegliarci e per assumerci le responsabilità a cui dal Colle ci richiama il capo dello Stato. Prima di finire come Paese in un baratro. Io lo spero».

spesa sociale ma allo stesso tempo hanno aumentato la spesa per ricerca e innovazione. È necessario tagliare, ma non lo si deve fare in modo indifferenziato i tutti i settori». Rilievo che in questo caso pare più chiaramente indirizzato alla politica economica dell’esecutivo.

Da Palazzo Chigi prevale il silenzio. Segno da una parte di un certo imbarazzo per l’ennesimo, inevitabile richiamo percepito nelle parole di Napolitano, dall’altra di irritazione, in una fase in cui l’iperreattività del premier

tratto. Il resto è un panorama grigio di trame silenziose, trattative non sempre confessabili, in vista del voto di fiducia sui cinque punti. Lo nota la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia: «Forse la maggioranza non c’è più, è un momento di politica brutta che da mesi parla solo di amanti, cognati e case. Ma il governo vada avanti, i conflitti non aiutano la crescita».

Non si rifugia nei giri di parole il segretario dell’Udc Lorenzo Cesa: «Che sia svanito nel nulla il gruppo di responsabilità nazionale mi sembra ovvio, ma che il presidente del Consiglio si dedichi personalmente all’acquisizione di parlamentari è uno scempio per le istituzioni. E noi dell’Udc», aggiunge Cesa, «non facciamo da strapuntino a nessuno». Non manca un passaggio dedicato a quei deputati eletti nell’Unione di centro che ipotizzano di votare la fiducia: «Se qualcuno nel nostro partito la pensa diversamente, com’è successo già in passato, e se decide di aderire al Pdl e fare da strapuntino, vada: ma guardate che fine hanno fatto quelli che finora sono andati. Spariti nel nulla». La giornata è segnata anche da due prese di posizione forti del presidente della Camera. Da una parte Fini raggiunge con Raffaele Lombardo un’intesa politica «non solo sulla Sicilia», dall’altra pronuncia il suo favore per la scelta francese di vietare il burqa: «Quello che ha deciso il Parlamento di Parigi credo sia non solo giusto ma opportuno e doveroso, rispetto a un valore della nostra stessa Carta come quello della dignità della donna. La quale non può essere sottoposta a violenze o comportamenti indotti da gerarchie diverse da quelle della legge».

Un richiamo anche sulle scelte di via XX Settembre: «No ai tagli indiscriminati, servono più investimenti su scuola e ricerca». Intanto Fini approva lo stop francese al burqa»

Perciò, conviene Buttiglione, «serve una scuola di qualità, una università che funzioni, una ricerca scientifica forte» visto che «proprio in tempi di crisi e di tagli bisogna avere il coraggio di preparare il futuro con investimenti in quei settori chiave». Nessuna esitazione dunque a riconoscere la «consueta saggezza offerta al Paese dal presidente Napolitano», di cui «condividiamo integralmente la riflessione», chiosa il presidente dell’Unione di centro. Nel suo intervento, il Capo dello Stato ricorda tra l’altro l’esempio della Germania: «Dobbiamo fare uno sforzo analogo, lì hanno annunciato notevoli tagli sulla

è al massimo grado.Tra i pochi a commentare le parole del presidente c’è forse non a caso un governatore leghista, Luca Zaia: «Ha ragione Napolitano a richiamare la politica a un rilancio morale e ideale: in un momento di grande sbandamento, personale e pubblico, la moralità è un dovere che la classe politica ha verso la comunità». Dichiara il suo assenso anche un altro presidente di Regione, quello Stefano Caldoro da tempo in freddo con il Cavaliere. E si fa notare, al contrario, un battitore libero e sempre imprevedibile del Pdl, Giancarlo Lehner, con un attacco volgare al Colle: «Nei meandri del Quirinale si aggira da decenni l’incurabile batterio della logorrea, produce esternazioni multiple, coazione a supplire, esondazioni fonetiche, pulsioni di glotta continua». Lehner probabilmente non s’accorge di specchiarsi nel suo ri-


l’approfondimento

pagina 4 • 16 settembre 2010

Il Presidente ha fatto riferimento a uno scenario economico simile, ma assai differente dal punto di vista etico

Lo spirito del ’45

Il Capo dello Stato evoca la tensione morale e progettuale che portò l’Italia fuori dalla guerra. Possiamo ritrovarla? «Anche oggi siamo in crisi, ma manca il senso della Nazione», rispondono Giovanni Orsina e Gian Enrico Rusconi di Gabriella Mecucci

ROMA. L’Italia degli scontri politici, della frantumazione: il luogo in cui si va a caccia di parlamentari e si contesta un sindacalista a una festa della sinistra. Mentre la crisi economica infligge durissimi colpi al tenore di vita, al lavoro, alle speranze giovanili, si risponde dividendosi. E poi c’è anche di molto peggio: chi specula sui terremotati, chi profitta del danaro pubblico. No, non è una buona situazione quella che l’Italia sta vivendo e proprio per questo il Presidente Giorgio Napolitano fa appello allo «spirito del ‘45»,quando gli italiani si rimboccarono le maniche e ricostruirono il paese distrutto da una guerra da cui uscivano sconfitti.

Per Giovanni Orsina , studioso di storia contemporanea lo spirito del ’45 «fu quello di guardare al futuro, di ridarsi un futuro che fosse caratterizzato dalla democrazia: una democrazia da rimettere in piedi dopo il crollo di un regime dittatoriale durato venti anni». «Era un’impresa difficile - osserva - che richiedeva grande tensione morale e intellettuale, capacità di rischiare, di scommettere. E di farlo sentendosi uniti nel tentativo di raggiungere l’obiettivo della rico-

struzione economica, statuale, morale del paese». Già uniti, è proprio quello di cui più di ogni altra cosa si sente la mancanza. «Eppure a ben pensarci allora era più difficile fare uno sforzo unitario. Gli obiettivi di alcune forze politiche erano molto diversi, addirittura inconciliabili. C’era chi voleva dar vita ad un paese liberaldemocratico e chi sperava nella rivoluzione e nel comunismo. Questa divisione non era solo ai vertici, ma percorreva il popolo. E nonostante ciò ci fu una capacità di lavorare insieme in nome del futuro dell’Italia». Per la verità nel ’45 permanevano in alcune zone d’Italia molti episodi di guerra civile che portarono a parecchi assassini politici, basti pensare al triangolo roso. «In effetti - spiega Orsina - ci fu una resa dei conti con gli uomini del regime sconfitto in alcuni casi probabilmente inevitabile, in altri legata a conflitti interni alla Resistenza o a strorie di natura personale. Forse più che lo spirito del ’45, occorrerebbe invocare quello del ’46’48. La sostanza di quello che dice il Presidente è però giusta».

Napolitano infatti invoca uno sforzo politico e morale unitario ed è in-

credibile che proprio oggi, «pur non essendoci grandi differenze nelle opzioni ideologiche di fondo - non c’è nessuno che non si definisca liberaldemocratico - l’operazione appaia molto complicata». Ma perché allora fu possibile ed oggi sembra quasi impossibile? «Allora la guerra fredda rappresentava una grande divisione,ma il fatto che le grandi potenze si fossero spartire le aree di influenza, rendeva chiaro che in Italia non avrebbe potuto vincere il comunismo. Questo probabilmente fece sì che tutti lavorassero per lo stesso scopo, l’alternativa infatti non era percorribile. Naturalmente l’esistenza di forze così importanti e numerose che puntassero ad altro comportò anche che ne scaturisse una liberaldemocrazia con molti limiti, spuria». Oggi invece non si riesce a ricreare «lo spirito del ‘45», perché?. È come se «la guerra fredda non fosse mai finita. Speravo che la svolta ci sarebbe stata con le elezioni del 2008. Veltroni aveva svolto una campagna elettorale in cui non si era attaccato all’antiberlusconismo per prendere voti. Berlusconi, dall’altra parte - fatta eccezione per gli ultimi giorni - aveva rispettato l’impegno a non brandire


16 settembre 2010 • pagina 5

A proposito degli interventi del Colle a Salerno e tra i giovani del Giffoni film festival

Da ieri è iniziata una nuova fase del settennato

In un clima politico poco raccomandabile, è comprensibile che Napolitano faccia a meno di una prassi notarile per indossare i panni dell’arbitro di Enzo Carra on i suoi interventi di Salerno e tra i giovani del Giffoni film festival, Giorgio Napolitano apre di fatto una stagione nuova del suo settennato. I tempi, quelli ci sono. A più di quattro anni dalla sua elezione e in un clima politico assai poco raccomandabile è comprensibile che l’inquilino del Quirinale faccia gradualmente a meno di una prassi notarile per indossare i panni dell’arbitro. «Si può essere neutrali senza tradire le cose in cui si crede», dice ai ragazzi di Giffoni. La sterminata letteratura in materia aiuterà nei prossimi mesi commentatori e politici a stabilire quale sia la figura a cui Napolitano si ispira. Non è escluso che, come successe negli anni della sua lunga milizia politica, il capo dello Stato voglia piuttosto assomigliare sempre di più a se stesso. Adesso non gli basta più di togliersi i sassolini dalle scarpe.

mo. Dire che «bisogna costruire qualcosa di simile al clima di grande slancio che c’era nel 1945 dopo la guerra» e sostenere che «occorre un rilancio morale e materiale della politica che è ricerca delle soluzioni possibili ma richiede preparazione e moralità», tutto questo è nella nostra situazione ben di più che un programma politico. È un appello agli italiani. Napolitano resta «fuori dalla mischia», ma la mischia è esattamente questa: garantire i milioni di cittadini che vedono con paura allontanarsi da loro il sistema democratico inghiottito nel gorgo di semplificazioni, conflitti di interesse, colpi di mano. «C’è un tempo in cui gareggiare e un altro in cui essere garanti» osserva il Capo dello Stato. Il nostro, in realtà, è il tempo di ricostruire gli elementi fondamentali della democrazia e difendere quelli che per fortuna stanno ancora in piedi.

Napolitano, del resto, sembra addirittura compiacersi per le allusive polemiche non sempre garbate nei suoi confronti e per le premurose spiegazioni di chi pretendeva il suo autorevole sostegno ad uno scioglimento anticipato della legislatura. Risponde con garbo alle polemiche, resiste senza difficoltà alle pressioni. Gli errori compiuti da Berlusconi nei suoi confronti oggi evidentemente gli facilitano il compito. Così può accusare Brunetta per le «rappresentazioni fuorvianti e caricaturali di un sud sanguisuga del nord» e il governo per i «tagli indiscriminati» alla scuola. A questo punto tuttavia non si può dire soddisfatto per essere uscito a testa alta dal confronto con il governo. Non basta aver evitato le trappole e aver resistito alle pressioni.

I mesi prossimi ci presenteranno un altro Napolitano . Ed è un bene che sia così.

C

Quel che c’è davvero di nuovo è l’invocazione a un’Italia lontanissima da quella in cui stiamo vivendo

Quel che c’è davvero di nuovo negli interventi del presidente della Repubblica è l’invocazione a un’Italia lontanissima da quella in cui vivia-

Le frasi del Presidente «Bisogna investire di più nella cultura. L’ho detto più volte ma non posso prescrivere al governo come e quanto deve investire ma occorre fare scelte». «Andare all’estero per studiare è cosa molto importante, positiva ed essenziale per la crescita della comunità: sono brevi fughe d’amore, poi si rientra». È necessario costruire qualcosa di simile al clima di grande slancio che c’era nel 1945, dopo la guerra. Si era molto motivati. Occorre un rilancio morale e ideale della politica». «La politica è anche gara, competizione, ma non dovrebbe mai essere contrapposizione totale. Tutti i presidenti della Repubblica hanno avuto un passato politico in cui erano schierati. Ma c’è un tempo in cui gareggiare e un altro tempo in cui essere garanti».

l’anticomunismo. Sembrava fatta. Ma non è andata così. Mi ero sbagliato». Oggi non ci sono più «profondi moventi ideologici negli scontri politici, anzi non si capisce bene quale sia la ragione del contendere: si bisticcia su la cucina Scavolini o su Noemi Letizia». Permane «lo scontro senza che siano chiari quali sono i valori su cui ci si scontra». Insomma, una rissosità vuota.

Gian Enrico Rusconi , storico e politologo, è ancora più radicale: «Non esiste più nessuna forma di solidarietà nazionale perchè non ci sentiamo una nazione. Non c’è nessuna ragione per sentirci una nazione. Non esiste una classe dirigente che ci spiega perchè dovremmo esserlo. Ormai siamo in mano a gente da poco, profondamente ignorante, che non è in grado di dare una motivazione al nostro essere nazione». Tutto questo provoca una disunità d’Italia preoccupante, una rissosità talora senza senso. Non che De Gasperi e Togliatti non «usassero un linguaggio duro, anzi erano pesantissimi e il loro scontro era forte, ma nel 1945 eravamo una nazione». Oggi non ci sono più ideologie ma neanche ideali e nemmeno valori, la materia del contendere è solo l’economia: «E la Lega è un fenomeno politico - interviene Rusconi - che fonda la sua capacità di attrarre consensi su come vengono divise le risorse. Dal punto di vista storico e ideale non ha niente in mano. Lei non può immaginare - incalza ancora - quale devastazione stia producendo la Lega». Mentre in Germania vogliono cacciare Sarrazin dalla Bundesbank e dalla Spd per le sue dichiarazioni razziste, «in Italia Borghezio quel genere di cose le dice un giorno sì e uno no»! «Un tempo l’idea di nazione entrava nella vita quasi spontaneamente: le élite la trasmettevano al popolo. Oggi si acquisisce attraverso la cittadinanza, la civiltà, la storia. Ma chi dà al popolo il senso di queste cose,l’attuale classe dirigente? Per carità non ne parliamo. Ne ho già parlato troppo». L’esortazione di Napolitano è dunque destinata a cadere nel vuoto? «No,non voglio dire questo. Penso che il Presidente abbia chiesto in questo momento difficile situazione difficile di rimboccarsi le maniche, di darsi da fare per uscirne. Non credo che abbia voluto toccare gli argomenti che abbiano toccato sin qui. Si è limitato a chiedere un impegno agli italiani. E di chiedere ai politici un maggiore spirito di collaborazione, maggiore sobrietà, massima concentrazione. È straordinario, però, il fatto che per sollecitare ad andare in questa direzione, Napolitano abbia evocato lo spirito del ’45. In quell’anno la situazione era tragica: uscivamo, sconfitti, da una guerra, l’Italia era distrutta. Il presidente deve essere molto preoccupato perla situazione attuale per fare un simile paragone». Eppure allora trovammo il vigore morale per produrre un grande sforzo con spirito unitario e solidale, nonostante ideologie contrastanti dividessero il paese, e perchè non dovremmo farcela ora? «Questo è il paradosso che stiamo vivendo. A costo di ripetermi rispondo: perché non abbiamo una classe dirigente che sa dire perchè siamo una nazione».


diario

pagina 6 • 16 settembre 2010

Il personaggio. La strategia del leader pugliese va oltre il Pd e spazia dagli antagonisti delusi agli anti-dipietristi dell’Idv

Vendola in cerca di un partito Il governatore-poeta vuol federare gli ultimi pezzi della sinistra ROMA. Il ricompattamento (fittizio) di tutti i maggiorenti intorno a Bersani è un messaggio con un destinatario preciso: Nichi Vendola. Quello che al presidente pugliese aveva permesso di stravincere le primarie in Puglia era stata la divisione acrimoniosa dentro il Pd. Mentre i dalemiani pugliesi gli facevano la guerra, gli altri democratici lavoravano per lui. Così fu arrestata all’assemblea regionale del Pd l’idea di Bersani e D’Alema di non tenere le primarie; così un gran numero di militanti del Pd andò a votare entusiasta per Nichi Vendola contro il povero lettiano Boccia. Oggi Bersani vuole evitare che vada in scena la replica di quanto avvenne in Puglia sul palcoscenico nazionale. Sa bene che se dovesse arrivare alle primarie per la scelta del leader della nuova coalizione con un partito diviso, il rischio di perderle sarebbe forte. E allora la parola d’ordine è: unire. E se per unire è necessario rispolverare la famigerata vocazione maggioritaria di Veltroni, tanto vituperata in passato, sia pure. Tanto nessuno, ormai da un pezzo, bada più a quello che i politici dicono.

Vendola l’ha capito al volo che il nuovo unanimismo costruito nel Pd intorno al segretario nazionale è diretto contro di lui. In più deve guardarsi da Di Pietro, a cui ha chiesto sostegno non ricevendo però alcuna risposta. Certo, Di Pietro si tiene lontano dallo schiacciarsi sul Pd bersaniano, ma non intende affatto accettare un ruolo di

Nel discorso inaugur ale ha anche scritto un bel libro, sfidando sul suo terreno il ”narratore” Vendola. Dovendosi occupare anche un po’ della Puglia, Vendola non è riuscito a parare i colpi del sindaco di Torino, che ha ammesso al massimo che un ticket col presidente pugliese sarebbe possibile solo a condizione che il leader fosse lui e Vendola il suo vice.

Bisogna darsi una mossa, cercare alleati, e Vendola non intende perdere tempo. Si

L’apparente ritrovata unità dei democratici è l’arma che Bersani vuole usare per difendersi dall’attacco di Nichi in vista delle elezioni locali second maker dietro il presidente pugliese. Il prossimo venerdì, a Vasto, Di Pietro aprirà la conferenza programmatica dell’Italia dei valori, per mostrare che il suo movimento ha, o pretende di avere, anche una prospettiva di governo oltre che di protesta radicale. Non bastasse Di Pietro, c’è pure alle porte la possibile «marcia su Roma» di Sergio Chiamparino, che non solo rilascia un’intervista al giorno, ma

da Ferrero all’ultima assise di Rifondazione comunista, per la componente ecologista e anche per un po’ di socialisti che, a disagio nel Psi a guida Nencini, si sono vendolizzati. Troppo poco prendere i resti di altri partiti per fare un soggetto nuovo. Vendola non ha un partito, e questo è il suo più grande limite. Ecco perché procede il suo tentativo di staccare De Magistris da Di Pietro per annettere a Sinistra e libertà parte dell’Idv, come pure il suo dialogo con la Federazione comunista di Ferrero, Diliberto e Salvi. Ed ecco perché Vendola intende aprirsi una nuova breccia dentro il Pd. Non tanto attraverso Veltroni, che pensa ad altro. Quanto sfruttando il movimento di dirigenti del Pd che si muove intorno al sindaco di Firenze Matteo Renzi e che si vedrà nel capoluogo toscano il 5-6-7 novembre per una kermesse politica dal profilo molto vendoliano. Il presidente pugliese vorrebbe farci un salto e sta provando a farsi invitare.

di Antonio Funiciello

tratta di rafforzare la propria posizione nel campo del centrosinistra, creando relazioni dentro e fuori il Pd. Fuori, non basta avere inglobato in Sinistra e libertà quel pezzo del partito dei Verdi che ha perso il congresso contro il neo segretario Angelo Bonelli. Al momento, Sinistra e libertà è la somma dei fuoriusciti dai partiti di sinistra massimalista dopo le rispettive sconfitte congressuali: è così per Vendola stesso, che fu sconfitto

Un’intervista esclusiva al femminile

La «Gioia» di Veltroni ROMA. Continua l’iperattivismo dichiaratorio dell’ex Walter Veltroni che si è concesso anche una bella intervista al settimanale femminile Gioia. «Ho registrato ingiustizie e vigliaccherie. Fossi stato più giovane ne avrei sofferto», dice l’ex segretario del Pd nell’intervista esclusiva al settimanale nel corso della quale ricorda diffusamente la sconfitta del 2008 e le dimissioni del 2009. «Ultimamente - prosegue ho girato l’Italia per partecipare alle feste dl Pd. E ho misurato un affetto più grande di prima. So di essere arrivato fin dove era possibile arrivare, di aver conquistato il risultato migliore della storia del riformismo italiano e di averlo fatto nel momento più difficile, dopo l’esperienza dell’Unione e delle sue intollerabili divisioni». Veltroni dice poi di sentirsi «dentro e fuori» il gioco politico «perché io sono così, sono rimasto così, e continuo a essere convinto che una tavolozza a più colori sia più simile al-

la realtà della vita delle persone. Quello che intendo fare, e lo farò, è tenere viva l’idea del Pd così com’è nato. Senza richiedere ruoli». Ieri, comunque, Veltroni ha anche un commentato documento nel quale si chiede un ritorno allo spirito originario del Pd dicendo: «È un documento politico che va accolto positivamente. Ho contribuito a fondare il Pd e ci tengo che sia forte perché solo un Pd forte può costruire alleanze per l’alternativa. La cosa peggiore è che non si vedano le difficoltà perché così si accrescono». E ha aggiunto: «È un documento politico che esprime una posizione come altre espresse in queste settimane con interviste, documenti e dichiarazioni. Un partito è un partito con unità operativa e per fortuna tante culture e punti di vista».

della Fiera del Levante, Vendola ha poi più volte indicato un’altra fondamentale issue sulla quale intende lavorare per battere i suoi rivali alle primarie per la leadership del centrosinistra: il Sud. Contro un Pd messo malissimo dopo le regionali e una stagione di malgoverno locale di notevoli proporzioVendola ni, vuole provare a diventare il polo d’attrazione maggiore per chi voglia da sinistra provare a ricostruire le condizioni politiche per tornare a vincere nel Mezzogiorno. Banco di prova di questo ambizioso obiettivo vendoliano saranno le prossime elezioni comunali e provinciali della primavera 2011. Ammesso che ci sia il tempo per considerarle un banco di prova, perché - qualora in primavera si unissero le elezioni politiche nazionali al voto amministrativo previsto - Vendola si ritroverebbe a non avere tutto il tempo che spera per rafforzare la sua leadership.


diario

16 settembre 2010 • pagina 7

Dopo i crimini contro i cristiani in India e in Afghanistan

Fermati e identificati dieci ragazzi con la bandiera italiana

Nuovo appello del Papa per la libertà religiosa

Guai esporre il tricolore a una festa del Carroccio

CITTÀ DEL VATICANO. Alla vi-

VENEZIA. Che succede a pas-

gilia del suo viaggio in Gran Bretagna, Benedetto XVI (che oggi partirà per la Gran Bretagna) ieri nella consueta udienza ha affrontato alcuni temi scottanti. Intanto, ha lanciato un appello perché «il rispetto della libertà religiosa e la logica della riconciliazione e della pace prevalgano sull’odio e sulla violenza». Parole chiare all’indomani sia della surrettizia polemica negli Stati Uniti sull’eventualità o meno di bruciare il Corano in occasione della ricorrenza dell’11 settembre, sia dei crimini che i musulmani hanno perpetrato in seguito, soprattutto nel Kashimr, come risposta a quella folle provocazione. Poi il Pontefice ha espresso «preoccupazione per gli avvenimenti verificatisi in questi giorni in varie regioni dell’Asia Meridionale, specialmente in India, in Pakistan e in Afghanistan. Prego per le vittime», ha assicurato agli 8 mila fedeli presenti nell’Aula Paolo VI per il consueto appuntamento settimanale. Quindi con molta fermezza ha aggiunto: «Chiedo il rispetto della libertà religiosa

seggiare con il tricolore nel bel mezzo di una festa del carroccio? «Siamo stati fermati e identificati dalla polizia per avere con noi il tricolore. Insultati e derisi da decine di leghisti esaltati ed urlanti, rischiando il linciaggio da parte di questi ultimi e una denuncia (per manifestazione non autorizzata e per aver provocato disordini) da parte della polizia». Succede questo, secondo la denuncia di un consigliere comunale di Venezia Marco Gavagnin della lista Cinque stelle e del Blogger Paolo Papillo di «Informazione dal basso» che domenica scorsa, durante la Festa dei popoli padani, si sono voluti togliere questa curiosità, per di più por-

e che la logica della riconciliazione e della pace prevalgano sull’odio e sulla violenza».

Inoltre, papa Benedetto XVI ha voluto ricordare «quanto la Chiesa tutta sia debitrice verso donne coraggiose e ricche di fede, che hanno saputo dare un decisivo impulso per il rinnovamento della Chiesa». Lo ha fatto dedicando, per il terzo mercoledì consecutivo, la catechesi dell’Udienza Generale alle «innumerevoli donne che nel corso della storia sono state affascinate dall’amore per Cristo che, nella bellezza della sua Divina Persona, riempie il loro cuore». «La Chiesa tutta - ha aggiunto - per mezzo della mistica vocazione nunziale delle vergini consacrate, appare ciò che sarà sempre: la Sposa bella e pura di Cristo».

Le vacanze abbassano le spese e l’inflazione Gli sconti estivi sui trasporti fanno scendere i prezzi di Alessandro D’Amato

ROMA. Un rallentamento “normale”. L’Istat conferma le stime preliminari e informa che l’inflazione ad agosto è aumentata solo dell’1,6% rispetto a luglio. L’istituto di statistica precisa che su base mensile l’inflazione è aumentata dello 0,2%. «Il lieve rallentamento dell’inflazione ad agosto risente, in primo luogo, della flessione congiunturale dei prezzi dei beni energetici», spiegano i tecnici Istat. Nel dettaglio, ad agosto il carrello della spesa è risultato meno caro: per il raggruppamento dei prodotti acquistati con maggiore frequenza i prezzi sono diminuiti dello 0,1% su base congiunturale, con un incremento tendenziale dell’1,6%, in rallentamento rispetto al +1,8% registrato a luglio. Ma la frenata è dovuta in massima parte alla diminuzione congiunturale dei prezzi relativi al comparto energetico (-0,5% su luglio) che ha portato il tendenziale al +4,2% (in rallentamento dal +5,3% del mese precedente). In particolare, nel settore regolamentato nonostante il lieve incremento rispetto a luglio (+0,1%), i prezzi sono risultati in calo dello 0,9% rispetto all’agosto del 2009. Nel settore non regolamentato, al contrario, i prezzi si riducono dello 0,8% su base mensile e si accrescono del 7,9% rispetto al 2009. Per quanto riguarda la benzina verde il prezzo è sceso dell’1% su luglio mentre è aumentato del 5,8% su agosto 2009 (+8,9% il tendenziale del mese precedente). Il prezzo del gasolio è diminuito dello 0,9% su luglio ed è, invece, aumentato del 9,1% su agosto dello scorso anno (+13,2 il tendenziale del mese precedente). Gli aumenti, comunque, ci sono stati, soprattutto per alcuni prodotti. In particolare i biglietti aerei hanno registrato un’impennata del 26,6% su luglio, mentre i prezzi sono cresciuti del 6,2% su agosto del 2009; per i traghetti si è rilevato un rincaro del 7% su base congiunturale e del 41,1% su base tendenziale; quanto ai treni, l’Istat ha registrato un rialzo dello 0,2% a livello

mensile e del 9,8% a livello annuale. Quanto ai pacchetti vacanza tutto compreso, pur avendo registrato un aumento del 13,3% su luglio, hanno segnato una riduzione del 2,3% su agosto del 2009. Su base tendenziale scendono anche i prezzi per gli stabilimenti balneari. Risultati che hanno portato a una reazione nervosa da parte dei rappresentanti dei consumatori. «Sebbene, secondo l’Istat, in lievissima flessione rispetto a luglio, il tasso di inflazione all’1,6% è un dato che, francamente, continuiamo a considerare gravissimo e inverosimile», dicono i presidenti di Adusbef e Federconsumatori, Elio Lannutti e Rosario Trefiletti. «I principali indicatori economici, infatti, non fanno altro che confermare una situazione di profonda crisi: i consumi continuano a contrarsi, intaccando in modo preoccupante anche il settore alimentare; l’onda lunga di cassa integrazione e disoccupazione è inarrestabile (la prima potrà raggiungere, nel 2010, più di un miliardo di ore; il tasso di disoccupazione invece si aggira intorno a livelli impressionanti 8,58,6%); il potere di acquisto delle famiglie si riduce di giorno in giorno, registrando, secondo i dati dell’Osservatorio Nazionale Federconsumatori, dal 2007 ad oggi, un crollo del -9,6%».

Anche in Europa i prezzi diminuiscono e il costo della vita si ferma all’1,6%, la stessa percentuale registrata in Italia

Intanto anche Eurostat ha fornito i “suoi” numeri. L’inflazione annua dell’eurozona ad agosto è stata pari all’1,6%. L’ufficio statistico dell’Unione europea ha così confermato la prima stima flash diffusa lo scorso 31 agosto. A luglio il dato era stato pari all’1,7%, mentre a agosto 2009 era stato di -0,2%. Per quanto riguarda l’Italia l’inflazione ad agosto resta stabile all’1,8%. Ad agosto 2009 il dato era stato invece di 0,1%. Il tasso di inflazione mensile italiano del mese scorso invece è stato pari a 0,2, in linea con la media Ue%. Secondo Eurostat, il tasso di inflazione annuale più basso è stato registrato in Irlanda (-1,2%), seguita da Lettonia (-0,4%) e Germania (1,0%).

tandosi appresso una telecamera con la quale hanno filmato tutto, insulti dei leghisti compresi. Il risultato per quanto sorprendente è descritto da loro stessi e dal loro video: «Siamo stati identificati noi, non quelli che ci insultavano; e ci avrebbero senz’altro aggrediti, se non ci fosse stato il cordone di polizia a proteggerci. Ci hanno cacciato, accompagnati distanti dal luogo della manifestazione leghista e fatti disperdere».

«Eravamo in una decina raccontano - ci eravamo incamminati lungo il ponte dopo il quale iniziava a svolgersi la manifestazione leghista, ci è stato impedito da agenti in tenuta antisommossa e da uomini della Digos di proseguire. Subito dopo - continua il racconto - decine di leghisti (uomini e donne, vecchi e giovani) ci hanno spintonato e strattonato, cercando anche di sottrarci le telecamere; ci hanno insultato anche pesantemente, con vari improperi che andavano da ”pirla” a ”cretini”, da ”pagliacci” a ”omossessuali” e ”culattoni”. Naturalmente ci hanno accusati di essere ”comunisti”, dei ”rompicoglioni”, o più semplicemente dei ”lazzaroni”: ”andate a lavorare!” ci dicevano, ”andate a casa!”».


il caso

pagina 8 • 16 settembre 2010

Il caso. L’imperativo di palazzo Chigi: non far crescere l’episodio a livello mediatico, non scontrarsi col dittatore di Tripoli

Il peschereccio arenato

Il governo cerca di abbassare i toni sugli spari contro l’Ariete. Frattini diserta il “question time“ e Vito promette: «Vigileremo!» di Marco Palombi

ROMA. «Veda vostra paternità; son cose, come io le dicevo, da finirsi tra di noi, da seppellirsi qui, cose che a rimestarle troppo... si fa peggio. Lei sa cosa segue: quest’urti, queste picche, principiano talvolta da una bagattella, e vanno avanti, vanno avanti... A voler trovarne il fondo, o non se ne viene a capo, o vengon fuori cent’altri imbrogli. Sopire, troncare, padre molto reverendo: troncare, sopire». Il buon conte zio manzoniano è esattamente il ministro che manca a Silvio Berlusconi, ma è presente a palazzo Chigi almeno in spirito se è vero che la sua filosofia per così dire effettuale è l’unica risposta che il governo ha saputo mettere in campo di fronte all’increscioso episodio del mitragliamento di un peschereccio italiano da parte di una motovedetta libica (peraltro fornita gentilmente da noi e con personale italiano a bordo). Sopire, troncare. Troncare, sopire. E che sarà successo mai? Qualche sparo degli ascari di Gheddafi, ma pensavano fossero clandestini - e qui si dovrebbe aprire un capitolo su quando, nell’ordinamento italiano o nelle leggi internazionali, è stata inserita la liceità dello sparo all’immigrato illegale -, gli avevamo detto di andare via, stavano pescando di frodo, è tutto a posto la Libia ha chiesto scusa.

Quest’ultima, straordinaria, uscita è un parto del ministro dell’Interno Roberto Maroni, com’è noto esponente di rilievo della Lega Nord. Poi però Stefano Stefani, leghista e presidente della commissione Esteri della Camera, ha avuto un sussulto: «Si sono scusati è vero, ma in questo caso le scuse non bastano», ha scritto su La Padania: «Bisogna pretendere qualcosa di più, per esempio che vengano ridefinite le regole d’ingaggio e che si risolva una volta per tutte la questione delle acque internazionali tra Ita-

Gli spari, le scuse e gli equivoci delle amicizie pericolose

Un trattato maltrattato (per ragioni commerciali) di Vincenzo Faccioli Pintozzi ella lunga querelle politica (interna ed estera) sull’aggressione del peschereccio italiano Ariete ad opera di una motovedetta libica, la Lega Nord sbaglia una volta di più. Perché la questione in discussione non riguarda le scuse di Tripoli dopo l’errore marchiano compiuto dai propri militari: riguarda invece l’atteggiamento che il governo italiano (e non l’Italia) tiene davanti al regime guidato dal colonnello Gheddafi. Le scuse del dittatore libico sarebbero più che sufficienti, se fossero espresse da un capo di Stato che ha l’onesta intenzione di aprire una nuova pagina con il nostro Paese. Un incidente di percorso (compiuto da due amici che ancora non si conoscono) è comprensibile, ma deve essere comunque rimarcato con severità. Le scialbe parole dell’ambasciatore libico sono insufficienti, questo sì, nel momento in cui provengono da un esecutivo che intende sfruttare l’Italia come ponte di legno per l’Europa, garantendo l’accesso ai propri idrocarburi (ma solo per pochi anni) salvo poi rimangiarsi la parola data una volta “ripulita” a livello internazionale dalla nostra diplomazia.

N

Silvio Berlusconi lo ha spiegato bene nel corso dell’incontro con la Giovane Italia: «Noi – ha detto alla platea di ex aennini riuniti ad applaudirlo – non accettiamo critiche per le posizioni espresse a favore della Libia. E questo perché in quel Paese abbiamo compiuto cose atroci, di cui io mi sono scusato davanti al loro Parlamento, nel periodo della colonizzazione. E poi non accetto lezioni da chi ha osannato l’Unione Sovietica e i suoi satelliti nel periodo dei

due blocchi». In pratica, la presenza italiana nel Nord Africa nei primi anni del secolo scorso è stata derubricata dal presidente del Consiglio a un raid, volto a schiacciare un popolo indipendente. Nessun accenno alle opere infrastrutturali e ai capitali immessi dai nostri industriali in quella che era conosciuta come “la scatola di sabbia”. Nessun accenno alle famiglie integrate nella società libica e scacciate come fossero dei banditi dalla rivoluzione sanguinosa lanciata da un giovane e arrogante militare, che chiede ai rappresentanti italiani di «andarsene senza voltarsi, lasciando per terra le armi della colonizzazione».

Certo, nella storia della presenza italiana in Libia si sono verificati anche episodi di cui è stato giusto scusarsi: ma continuare a farlo significa presentarsi ai negoziati come parte debole, e quindi violabile. Più che un Trattato di amicizia - che comunque vieta esplicitamente ogni ricorso alla violenza fra le parti in causa - viene il dubbio che quello firmato due anni fa da Berlusconi e Gheddafi sia in realtà un normale accordo commerciale, che garantisce all’Italia l’accesso al petrolio libico in cambio di un’ingente somma di denaro e di un’opera di tutela diplomatica. La realpolitik, per quanto amara da digerire, assume la sua propria dignità quando viene presentato al proprio popolo per quella che è. Se si cerca di mascherarla, se si vuole assurgere al ruolo di statista che pietosamente cura le ferite compiute da altri, si ottiene l’effetto opposto: disgusto nei confronti di chi si vede sparare addosso e sceglie di non alzare neanche la voce. In sostanza, se si firma un Trattato di amicizia, si decide di celebrarlo ogni anno con visite reciproche accompagnate dallo sfarzo e non si perde occasione per aiutare e giustificare uno dei capi di Stato meno presentabili al mondo, il minimo che si potrebbe pretendere è che non venga aperto il fuoco contro i propri pescherecci. Ma questo lo si può chiedere a un vero amico, non a un benzinaio.

lia e Libia». Il governatore piemontese Roberto Cota dà un colpo al cerchio e uno alla botte: «Bisogna rivedere le regole di ingaggio, ma Maroni sa quello che fa: è un grande ministro e sta risolvendo un problema epocale». A parte la bizzarria di una Lega che chiede spiegazioni al governo, se ci si pensa la proposizione «rivedere le regole d’ingaggio» non vuol dire nulla: non c’è nessuna possibilità che una regola d’ingaggio attuale o futura preveda la possibilità di sparare a qualcuno che non sia una minaccia, men che meno in acque internazionali. L’unica cosa che accade è che la Libia fa una guerra commerciale all’Italia, guerra in senso letterale, con mezzi e fondi graziosamente forniti dall’Italia stessa.

Un’enormità, ma la strada del governo è quella tracciata dal conte zio: troncare, sopire. Tanto è vero che il ministro degli Esteri Franco Frattini, che doveva ieri riferire sulla vicenda durante il question time a Montecitorio, ha preferito declinare con una scusa incommentabile: pare si sia reso conto all’ultimo secondo di non poter mancare ad una riunione della commissione mista italo-croata a Zagabria a cui

Un colpo al cerchio e uno alla botte arriva da Cota: «Bisogna rivedere le regole di ingaggio, ma Maroni sa quello che fa: sta cercando di risolvere il problema» erano già presenti il ministro Galan e il sottosegretario Castelli. Alla Camera s’è presentato invece il ministro per i Rapporti col Parlamento Elio Vito, il tuttologo del governo: «Le raffiche di mitragliatrice sparate contro il peschereccio “Ariete” di Mazara del Vallo sono un episodio molto grave» che «richiederà un forte impegno affinché azioni del genere non si ripetano più». Parole un po’ loffie vista la situazione, ma che rispondono perfettamente all’imperativo diffuso da palazzo Chigi: non far crescere questo episodio a livello mediatico, non entrare in rotta di collisione col dittatore di Tripoli. Troncare, sopire. Una cosa, però,Vito ha voluto dirla chiaramente agli alleati della Lega: «Nessun accordo, né alcuna regola d’ingaggio consente interventi con armi da fuoco verso imbarcazioni pacifiche», dal che si deduce che, come dovrebbe essere ovvio, il Trattato di amicizia italo-libico non consente di cannoneggiare non solo i pescherecci, ma nemmeno le imbarcazioni di immigrati. D’altronde, sostiene il governo, è implicito nel fatto che «lo stesso comandante libico e subito dopo le autorità di Tripoli, compreso il ministro degli Esteri, hanno formalmente presentato le loro scuse», senza contare che «in Libia è stata aperta un’inchiesta per chiarire le dinamiche dei fatti


il caso

16 settembre 2010 • pagina 9

Il patto firmato due anni fa sembra essere disatteso da Tripoli

Ma l’Accordo di Bengasi vieta l’uso delle armi Nel testo si esclude in maniera esplicita l’adozione di atti ostili fra civili e militari di entrambe le nazioni di Antonio Picasso l Trattato di amicizia Italia-Libia è stato firmato a Bengasi il 30 agosto 2008. Il 2 febbraio dell’anno successivo, il parlamento italiano lo ha ratificato, ricevendo il voto contrario di appena 85 parlamentari, fra senatori e deputati. Questo induce a pensare che le due camere abbiano sostenuto da sempre, e in modo trasversale, la necessità di consolidare al meglio le relazioni con Tripoli. Si tratta di un accordo di “cooperazione e partenariato” fra i due Paesi che dovrebbe essere inserito in una partnership di maggior ampio respiro, relativa all’Unione africana e a quella europea. Roma e Tripoli, praticamente, dovrebbero fare da apripista per una più stretta connessione politicoeconomica tra le due sponde del Mediterraneo. Nello specifico delle relazioni bilaterali, il trattato di Bengasi chiude un capitolo di frizioni costanti, interpretate come un’onda lunga del colonialismo italiano in Libia. Nel preambolo del documento firmato da Silvio Berlusconi si legge, infatti, che l’Italia rinnova “il proprio rammarico per le sofferenze arrecate al popolo libico” prima della seconda guerra mondiale. Inoltre, esprime il desiderio di raggiungere “una soluzione di tutti i contenziosi ancora aperti fra i due Paesi e sottolinea la ferma volontà di costruire una nuova fase dei rapporti, basata sul rispetto reciproco, la pari dignità, la piena collaborazione e su un rapporto pienamente paritario e bilanciato”. L’Italia, in questo modo, formalizza quanto aveva già espresso nel 1998, al momento della nascita del Comitato congiunto, la commissione permanente che avrebbe scritto il trattato e sciolto i nodi diplomatici prima della firma di quest’ultimo. All’atto concreto, l’accordo prevede che l’Italia inizi un’operazione sistematica di investimenti sul territorio libico: cinque miliardi di dollari da destinare all’economia del Paese nordafricano, nell’arco di vent’anni e per un “importo annuale di 250 milioni di dollari”.

I

ed accertare le responsabilità». Comunque, giusto per tenersi aperta ogni possibilità, «il governo italiano approfondirà con le controparti libiche i necessari correttivi che dovessero essere opportuni alle intese tecniche che disciplinano le operazioni di pattugliamento congiunto», oltre al «serrato dialogo» già in corso sulla questione della pesca.

Il ministro Frattini - che pure sarebbe l’uomo che coordina tutto questo, compreso il «serrato dialogo» - è talmente preso a fare finta di niente che il merito della questione è riuscito a non affacciarsi mai alla sua bocca per tutta la giornata di ieri (e si presume di oggi, visto che a riferire alle Camere manderà il sottosegretario Stefania Craxi): «L’opposizione è sempre in malafede e contro l’interesse dell’Italia in questi casi», ha scandito da Zagabria. È riuscito a svicolare anche con chi gli chiedeva conto delle parole di monsignor Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo e presidente del Consiglio Cei per gli Affari giuridici: «È la posizione di un vescovo, per quanto con un incarico importante, e io non commento la posizione di quel vescovo, non è la Cei», ha scandito il ministro. Mogavero, giusto per chiarire, aveva parlato di «inerzia del governo» nell’affrontare «la questione della competenza circa le acque del Mediterraneo». Parla da vescovo di Mazara, replica il Pdl. Da dentro il Pdl, però, parla da sindaco di Mazara pure il deputato Nicola Cristaldi: «C’è paura nella marineria e c’è delusione nella gente che si aspettava sviluppi positivi dopo la visita di Gheddafi in Italia ed invece le cose non migliorano».

In alto il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, che ha accusato i pescatori siciliani di aver sconfinato in acque libiche e di essersi per questo attirati le ire della Marina libica. Sotto il peschereccio “Ariete” - partito da Mazara del Vallo crivellato da circa 30 colpi di mitra. A destra, uno dei numerosi incontri fra il presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi e il dittatore di Tripoli, colonnello Muhammar Gheddafi. I due hanno firmato due anni fa un Trattato di amicizia che viene celebrato ogni anno fra Roma e Tripoli

gnie italiane già presenti in Nord Africa: dall’Eni alla Fiat, passando per Enel e Finmeccanica. Interessante però è sottolineare gli investimenti più in ombra, anch’essi previsti dal trattato. L’accordo ha fissato per esempio la costruzione di duecento unità abitative, l’assegnazione di una serie borse di studio universitarie, nonché un programma di cure specifiche, presso cliniche specializzate italiane, in favore delle vittime in Libia dello scoppio di mine, che non possano essere adeguatamente assistite negli ospedali di Tripoli e Bengasi. Per quanto riguarda il settore dell’immigrazione e la reciproca sicurezza, il trattato formalizza una stretta partnership tra le rispettive forze di difesa e “la realizzazione di un sistema di controllo delle frontiere terrestri libiche, da affidare a società italiane in possesso delle necessarie competenze tecnologiche”. In questo senso, il Governo italiano è già impegnato nel sostenere il 50% dei costi di queste misure bilaterali, mentre per la seconda metà restante è stata demandata all’Unione Europea. Ed è in questo passaggio del trattato che ci si può concentrare per capire, a livello giuridico – ma non giustifica – l’incidente di cui è stato vittima il peschereccio italiano due giorni fa. Italia e Libia si rimettono ai “principi e alle norme del diritto internazionale” e si impegnano a “non ricorrere alla minaccia o all’impiego della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica dell’altra Parte o a qualunque altra forma incompatibile con la Carta delle Nazioni Unite”.

Non vanno poi dimenticate le norme di diritto internazionale, che probiscono agli Stati firmatari di usare la violenza nelle acque non territoriali

Dalla firma del trattato a oggi, di conseguenza, la nostra presenza economica in Libia si è sensibilmente consolidata, al punto che l’Italia risulta essere il primo partner nella bilancia commerciale libica, sia nell’export (38 per cento) sia per quanto riguarda le importazioni (19 per cento). In questo senso, sono più che note le attività delle grandi compa-

La dichiarazione potrebbe spiegare tutto, ma appare comunque sibillina. Nella sua generalità, infatti, il trattato non può prevedere un intervento armato fra le parti, come non può calcolare l’eventualità di incidenti come passato. Essendo un accordo di amicizia, esso esclude il ricorso alle armi. Italia e Libia, infatti,“si astengono da qualunque forma di ingerenza negli affari interni o esterni che rientrino nella giurisdizione dell’altra Parte, attenendosi allo spirito di buon vicinato”. Cosa ancora più importante è che “nel rispetto dei principi della legalità internazionale, l’Italia non adotterà qualsiasi atto ostile contro la Libia e viceversa”. Questo significa che l’attacco al peschereccio non ha alcuna fondatezza giuridica.


panorama

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ragioni&torti di Giancristiano Desiderio

Se Bossi inventa il «Tour de Padanià» errebbe da dire: «Hai voluto la bicicletta? E ora pedala». Umberto Bossi, che della bici è un antico appassionato, ha rivelato di voler organizzare nientemeno che il Giro della Padania. L’inventore della Lega e del leghismo si è inventato Miss Padania, la Nazionale padana e ora vuole anche la gara ciclistica perché «il ciclismo è popolare e fa conoscere alle persone la propria terra». Per tutto ciò che è nazional-popolare, Bossi ha un fiuto naturale e sopraffino superiore anche a quello berlusconiano. Tuttavia, su questa storia del Giro della Padania c’è qualcosa che non torna.

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Il Giro d’Italia non è probabilmente quello che era in passato. Una gara ciclistica che ha intrecciato le sue tappe con la storia nazionale e ha avuto campioni ed eroi ammirati ed amati che hanno unito l’Italia e gli italiani più di quanto non abbiano saputo fare forze e partiti politici, uomini, idee e ideologie. La coppia di amici-nemici per eccellenza del ciclismo italiano - Coppi e Bartali, Fausto e Gino - è la storia di un’Italia che inevitabilmente non c’è più e che, come accade in questi casi, è ritenuta migliore e superiore rispetto alla contemporaneità. L’epica che il ciclismo si porta dietro fin dalla sua primissima comparsa sulle strade sterrate del corpo nazionale, sulle discese e le risalite, su colli e montagne si è affermato perché il Giro è legato all’Italia e agli italiani. La bicicletta - si può dire ha in sé la nazione e la nazione offre la possibilità ai ciclisti di essere qualcosa in più di uomini che corrono su due ruote. Mentre le squadre di calcio possono essere replicate - esempio: la Nazionale dei cantanti, la Nazionale degli attori, scapoli e ammogliati - il Giro non ammette repliche o imitazioni. Il Giro della Padania è una chiara contraddizione in termine. Si porta dietro qualcosa di grottesco. Più che un Giro sarebbe un Giretto o un Girino. Libero, naturalmente, il ministro delle Riforme di organizzarlo, volerlo e sostenerlo, ma anche tra i leghisti sarà inutile sostituire nei loro cuori il Giro d’Italia con il Giro della Padania. Bossi ha avuto l’intuizione del Giro della Padania quando ha visto i militanti leghisti giungere a Venezia in bicicletta dal Monviso percorrendo la bellezza di 560 chilometri. La Monviso-Venezia è già vista come una “classica padana” e Michelino Davico da Bra, sottosegretario all’Interno che ha messo su questa tre giorni di pedalata collettiva, il suo profeta. Lo sport è usato dalla Lega in maniera strumentale e nel contempo con lungimiranza. Se Bossi metterà su la piccola carovana del Giro della Padania lo farà con altrettanta strumentalità e non senza lungimiranza. Eppure, il consiglio che gli vogliamo dare è quello di investire sulla “classica” Monviso-Venezia e lasciar perdere l’idea del Giro della Padania che non potrà mai avere i suoi Coppi e Bartali. E poi stia attento con questa storia della bicicletta perché l’ultimo politico che è salito in sella non è mai giunto al traguardo.

L’etica europea nelle mani dei tribunali Eutanasia e aborto: leggi (e sentenze) in Spagna e Germania di Luca Galantini n Spagna, nel mezzo di una gravissima crisi economica e sociale che mette sempre più in discussione tra la società civile il modello di governo socialista, il leader Luis Zapatero ha inflitto al Paese un ulteriore durissimo colpo alla civiltà della vita: è appena entrata in vigore la nuova legge normativa di riforma sull’aborto, che de facto rende lo stesso una banalissima pratica sciolta del tutto da ogni vincolo etico morale di rispetto per la persona umana. La legge del 1985 che depenalizzò l’aborto in Spagna, rendendo un diritto quello che fino ad allora era un delitto, prevedeva l’autorizzazione solo nelle ipotesi di malformazione del feto, gravi rischi per la salute psichica o fisica della madre, violenza sessuale. Questi limiti giuridici posti dal legislatore alla pratica dell’interruzione di gravidanza sono stati spazzati dalla riforma Zapatero, che sta suscitando una forte alzata di scudi in tutto il Paese, Partito socialista compreso, a causa di una radicale aggressività a-morale già definita di stampo eugenetico che la legge presenta.

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Sul medesimo piano inclinato si muove la giurisprudenza tedesca, mettendo in discussione il principio consolidato dell’etica medica, ovverosia l’impegno a salvare il paziente e non già a cagionarne la morte. La Corte di Cassazione tedesca – il Bundesgerichthof – ha emesso recentemente una sentenza che contribuisce nei fatti ad ammettere l’eutanasia in Germania. La Corte si è espressa sul ricorso avverso una sentenza del Tribunale di Fulda, che aveva condannato l’avvocato Wolfgang Puetz a nove mesi di reclusione in quanto nel 2007 aveva consigliato una cliente di interrompere di persona i trattamenti artificiali di alimentazione e ventilazione della madre, in coma vigile da cinque anni. La Corte di Cassazione ha affermato che – ove il paziente abbia espresso inequivocabilmente il consenso all’interruzione delle terapie – non sia perseguibile chi stacchi un ventilatore o tagli un tubo dell’alimentazione del paziente medesimo. Il diritto all’alimentazione e idratazione del paziente, considerati «trattamenti medici forzati» vengono sviliti, ma è bene rammentare al riguardo come molte associazioni di medici in Europa e in Italia in particolare affermino al riguardo esattamente il contrario ovvero che la sospensione dell’idratazione e dell’alimentazione a una persona in condizioni generali stabili, in stato di coma permanente da anni, senza l’evidenza di alcun peggioramento clinico che ne indichi l’approssimarsi della fine, è eutanasia, cioè atto dal quale deriva la morte del paziente.

Due decisioni clamorose riaccendono le polemiche sia nella politica sia nella cultura del vecchio Continente

Vediamone i punti cardine succintamente. Con la nuova legge si alza la soglia, fino a 14 settimane, entro cui la donna sarà assolutamente libera di scegliere la soppressione del feto. Con la nuova legge, in caso di malformazione del feto, sarà possibile l’aborto fino alla 22 settimana. Addirittura, sfidando il ragionevole margine di errore della diagnostica clinica, la legge prevede che – ove venisse diagnostica una patologia incurabile o «incompatibile con la vita del feto» – sarà eliminato ogni limite all’aborto. Ma il punto ancora più preoccupante – per lo sfaldamento di ogni vincolo solidaristico e pubblico della legge – è il fatto che le minorenni, da i sedici anni in su, sono autorizzate ad abortire liberamente, senza più la necessità del parere vincolante dei genitori, ma dietro una mera comunicazione agli stessi: in altri termini, se per un verso il diritto civile ritiene il minorenne privo della capacità giuridica di agire per il semplice acquisto di un bene o una normale transazione patrimoniale – proprio in quanto minore – per converso lo ritiene pienamente capace di agire laddove, al contrario, disponga la soppressione di una vita umana quale quella del nascituro.

È necessario evidenziare come in questi tragici casi la magistratura, uno dei tre poteri classici dello stato di diritto, abbia l’arrogante pretesa di sostituirsi alla classe medica nello stabilire i criteri clinici con cui dichiarare non più assistibile un paziente. Questo discutibilissimo criterio di funzione “suppletiva” della giurisprudenza, che va in particolare contro ogni codice deontologico della professione medica, ha la presunzione di legittimare nei fatti – oggettivamente – terapie di morte quali l’eutanasia, l’aborto, scavalcando per via “extraparlamentare” la volontà sovrana di ogni popolo, che viene rappresentata dal potere legislativo e non già dalla magistratura, “bocca” e non già “cervello” della legge.


panorama

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L’assessore campano alle Autonomie locali, Pasquale Sommese, illustra il progetto di decentramento amministrativo

«Se il federalismo parte da Napoli» «Trasferendo agli enti locali alcuni poteri snelliamo le procedure e riduciamo i costi» di Franco Insardà

ROMA. Pasquale Sommese da quando il governatore della Campania, Stefano Caldoro, lo ha nominato assessore ai Rapporti con le autonomie locali ha ben chiaro l’obiettivo da raggiungere: «Una grande riforma della pubblica amministrazione, in grado di realizzare risparmi sui costi, la lotta agli sprechi e l’efficienza nei rapporti con i cittadini». E per questo progetto ambizioso l’assessore dell’Udc ci sta mettendo tutto il suo impegno. Assessore Sommese, la Campania viene considerata una sorta di pecora nera per gli sprechi. Siamo alle prese con la drammatica situazione dei conti, dopo lo sforamento del patto di stabilità deciso dalla giunta Bassolino. Ma da qui a essere considerati la pecora nera d’Italia ce ne passa. In che senso? Basta considerare che l’87 per cento dei comuni campani non ha sforato il tetto previsto dal patto di stabilità, a differenza di tanti enti locali del Nord che si vantano, appoggiati da autorevoli esponenti politici nazionali, di essere virtuosi e di non dilapidare le risorse pubbliche. Sono gli stessi esponenti politici che spingono sul federalismo? Esatto: la Lega. Ma la Campania è tra le regioni che chiedono di accelerare sul versante del federalismo fiscale. Come?

Pensiamo di proporre al governo di premiare le amministrazioni che nei loro bilanci consolidati dimostrino di aver rispettato al meglio le regole imposte dal patto di stabilità. Partite da una situazione non certo facile. Il Mezzogiorno ha indici di squilibrio simili alla Grecia, per la quale, non lo dimentichiamo, l’Unione europea e i singoli Stati sono intervenuti in maniera decisa.

Siamo alle solite richieste assistenzialiste? Assolutamente no, chiediamo soltanto il rispetto dei nostri diritti.Voglio ricordare che la Campania vanta un credito con lo Stato italiano di tre miliardi di euro. È giusto che questi soldi ci vengano dati al più presto. E il timore che possano essere sprecati? La riforma della pubblica amministrazione va proprio nella direzione opposta. Quale modello di Regione volete costruire? La Campania paga lo scotto di ritardi decennali e ha il triste primato di essere la Regione con il più alto numero di dipendenti. Ma i correttivi che abbiamo in mente possono essere risolutivi. Ci spieghi. Con il presidente Caldoro stiamo completando il ridisegno della macchina amministrativa, ottimizzando le risorse umane esistenti. Occorre trasferire, come già avviene in altre regioni, alle autonomie locali i poteri decisionali in alcuni settori. Con quali vantaggi? Lo snellimento delle procedure, l’utilizzazione al meglio delle risorse umane. In questo modo si restituirà alla Regione il suo ruolo naturale di istituzione-guida sul territorio nei processi di pianificazione e controllo.

«L’87 per cento dei comuni campani non ha sforato il patto di stabilità, a differenza di quelli del Nord»

Quali sono i settori ai quali pensate? L’agricoltura, il rilascio delle concessioni per le attività produttive, l’ambiente, l’energia, il turismo, l’artigianato, l’istruzione, la formazione e i trasporti. Una vera rivoluzione? Tutti gli enti locali devono comprendere che in base al Titolo V della Costituzione il federalismo impone la metabolizzazione dell’idea di enti che non gestiscono poteri, ma funzioni. Tutto questo semplificherà la vita ai cittadini, evitando sovrapposizioni di competenze, farraginosità e diseconomie. C’è condivisione su questo progetto? Me lo auguro e spero che le forze d’opposizione e sociali della Campania non facciano mancare il loro contributo. Che tempi ci sono? Ci siamo imposti di recuperare i ritardi decennali in pochi mesi. È pronto il regolamento attuativo della legge approvata in Consiglio regionale, la seconda scadenza è quella del decentramento spinto verso gli enti locali. E infine? Il terzo obiettivo riguarda la costituzione della Conferenza delle Autonomie, prevista dallo Statuto, che sarà il braccio decisionale della Regione. Il federalismo, quindi, parte dalla Campania? Spero proprio di sì.

Statistiche. Sono 862mila le ditte individuali al femminile: un quarto del totale

Quando la piccola impresa è donna di Gaia Miani

ROMA. Sono oltre 862 mila le donne che guidano una impresa individuale in Italia. Lombardia, Campania, Sicilia, Lazio e Piemonte, con i rispettivi capoluoghi, sono la loro terra d’elezione. Queste, alcune delle considerazioni che emergono dalla lettura dei dati sulle imprese individuali femminili, presentati ieri in occasione dell’avvio a Cagliari del «Giro d’Italia delle donne che fanno impresa». L’iniziativa, promossa da Unioncamere insieme alle Camere di commercio e ai Comitati per l’imprenditoria femminile, si articolerà in 9 tappe sul territorio nazionale, dando modo alle diverse componenti istituzionali, associative e della società civile di approfondire le peculiarità, caratteristiche ed eventuali criticità dell’universo femminile che svolge un’attività d’impresa privata e, più in generale, dell’inserimento delle donne nel mercato del lavoro. Ebbene, a fine giugno scorso, erano esattamente 862.367 le imprese individuali con titolare donna iscritte al Registro delle imprese delle Camere di commercio, il 25,6% di tutte le aziende con questa forma giuridica esisten-

ti in Italia. Rispetto al 31 dicembre 2009, si riducono di 527 unità, pari allo 0,06%. Poco se confrontato con il totale delle imprese individuali, che, nello stesso periodo, si contraggono dello 0,33%. Alcune regioni segnano addirittura un incremento: la Lombardia per prima, che registra 741 capitane d’impresa in più in sei mesi, seguita dalla Toscana, dall’Emilia

In Lombardia e Toscana c’è la maggior concentrazione. Ma al Sud vanno forte le province di Benevento, Avellino e Frosinone Romagna e dal Piemonte. Il segno meno, invece, precede la dinamica del semestre delle ditte individuali femminili soprattutto di Puglia, Sicilia, Campania e Sardegna. La dinamicità delle ditte individuali femminili all’interno del sistema produttivo nazionale emerge anche dalla lettura dell’andamento negli ultimi 5 anni. Rispetto al giugno 2005, le titolari di impresa sono 25.817 in meno, ma la lo-

ro riduzione (-2,91%) è percentualmente meno consistente di quella totale (-3,63%) e meno accentuata di quella che presentano le ditte individuali gestite da uomini (-3,88%). Salvo la Toscana, unica regione che presenta un segno positivo nel confronto con il 2005, tutto il territorio nazionale registra una riduzione di imprese gestite da donne, compreso tra le oltre 5mila unità della Puglia e le sole 81 imprese in meno delle Marche. Roma, Napoli,Torino, Milano e Bari le province che concentrano il maggior numero di imprese individuali femminili. Da segnalare, tuttavia, la ”vocazione” all’impresa femminile che manifestano alcune province, soprattutto, ma non solo, del CentroSud. È il caso di Avellino, Benevento e Frosinone, dove la percentuale di ditte individuali gestite da donne in rapporto al totale di questa tipologia di imprese supera il 35%.


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il paginone

I lavori di Sofia Coppola, George Clooney e Julia Roberts ci restituiscono il solito Belpaese fatto di sentire Paul Giamatti, straordinario interprete di Barney’s Version, film presentato all’ultima edizione della Mostra di Venezia l’Italia è un posto bellissimo. «Per me che sono abituato alle piccole produzioni indipendenti che di solito usano set modesti e quartieri di terz’ordine visitare Roma, la più bella città del mondo è stata una gioia incredibile». Parola più, parola meno, è stata questa l’impressione che riporta il pensiero del protagonista di Sideways.Vale la pena ricordare che il film, in virtù di una compartecipazione della Fandango di Domenico Procacci, ha trasferito le parti girate in Francia nel nostro Paese. Vale la pena aggiungere anche che Giamatti avrebbe meritato la Coppa Volpi molto più dell’indisponente Vincent Gallo, che non si è nemmeno degnato di salire sul palco a ritirare il premio. Ma cosa si può pretendere da una Giuria che ha assegnato il Leone d’oro ad un film farlocco e vuoto come Somewhere? Nulla, se non costatare che il raffinato Quentin Tarantino ha davvero messo in atto quello che resta (per gli americani) uno dei luoghi comuni più diffusi sul nostro paese: la famiglia innanzitutto. Se poi la famiglia e quella dei Coppola, se poi la regista da premiare è pure l’ex fidanzata, beh, è possibile esimersi?

A

Quello dei luoghi comuni è davvero un bel problema. Nel senso che l’Italia resta per gli americano il paese del mandolino, della pizza, degli spaghetti e della mafia. Avessi dovuto scegliere un titolo per la premiazione di Venezia avrei senza dubbio optato per “La coppola di Quentin”, coppola naturalmente con l’iniziale minuscola. Come il film di quella con l’iniziale maiuscola. Fatto sta che Somewhere, che potete vedere e giudicare andando in sala (ma fate presto perché a causa dei bassi incassi tra un po’lo smontano), non solo è un film modestissimo, ma ci prende anche in giro. Quindi, doppia beffa: Sofia Coppola ci prende in giro e Tarantino la premia, con la complicità di due nostri registi. Uno dei quali è pure molto bravo. E come ci prende in giro? Mostrando i nostri rappresentanti peggiori. E senza nemmeno dover fare ricorso alla classe politica. La scenetta del Telegatto assegnato all’attore (perché pure nel film fa l’attore) protagonista di Somewhere è purtroppo una delle parti più riuscite del film. Simona Ventura, Nino Frassica e Valeria Marini hanno messo in scena il peggio del Belpaese. O meglio, il peggio della nostra televisione becera e sudaticcia. Resta da vedere se i magnifici tre ne fossero consapevoli, ma non è certo questo il punto. Il punto è invece l’immagine che diamo di noi. In questo caso, dobbiamo ammetterlo, ce lo siamo pure meritato lo sberleffo: se questa gente ha colonizzato la tv è anche e soprattutto colpa nostra che la guardiano. Da questo a passare ancora oggi per “i soliti italiani” ce ne corre. Non si spiega quindi perché anche nell’ultimo film di Julia Roberts, Mangia prega ama (ma chi se l’inventa questi titoli?), non si spiega dicevamo il fatto che la protagonista quando viene Italia, a Roma per la precisione, incomincia a mangiare e ad ingrassare. O meglio, si spiega benissimo. In un film che vive proprio su tre luoghi comuni, tante quante sono le mete della protagonista in cerca di una nuova dimensione, l’Italia ha il ruolo del luogo do-

ve ci si rilassa e ci si impingua. In India invece ci si affida ad un guru e si cerca una nuova dimensione, spirituale ma non solo, magari cercando di dimagrire come succede alla protagonista. La bella Julia approda quindi in Indonesia dove, si sa, la preghiera può tranquillamente conciliarsi con la nostra profondità interiore. Ora, io non so se a voi sia capitato di passare qualche ora in mezzo al traffico della capitale, ma noi tutto questo rilassamento non lo abbiamo mai percepito. È anche vero che non cambieremmo Roma con nessun altra città al mondo, ma forse sarebbe il caso di rivedere, amici americani, quello che da anni pensate di noi.

Ma io dico, con tutto quello che succede qui da noi, è mai possibile che continuiate a vederci seduti a tavola accanto a mammà davanti ad una pizza o un piatto di spaghetti con la lacrima che ci scende sulla guancia? Secondo noi si tratta di una reazione ad un evidente complesso di inferiorità: se non ce la fai prendi in giro. D’accordo, apparire così in passato ci ha anche fatto comodo, ma ora le cose sono un po’cambiate. Da quando Renato Carosone cantava Tu vuo’ fa’ l’americano di acqua sotto ai ponti ne è passata davvero tanta. Adesso o cazone cu ’nu stemma arreto, i pantaloni con lo stemma dietro, li fabbrichiamo pure noi. Anzi, li esportiamo pure in America. Come tante altre cose. L’arte ad esempio, quella vera, non quella di risulta. Il che non vuol dire

Italia 2010, allarm che l’arte contemporanea lo sia, anche perché di geni con asini (o cavalli) appesi al soffitto ce ne sono anche da noi. Ma è incontestabile che i nostri amici d’oltre oceano riescono a consacrare come monumento nazionale anche una catapecchia dentro la quale ha magari dormito il fratello di Abramo Lincoln. Anche la più piccola ricchezza viene conservata, confezionata, con una passione che dovrebbe, questa sì, farci pensare. Provate ad andare, che so, dalle parti di Canosa, in Puglia. Ci sono dei siti archeologici che se si trovassero in America ci avrebbero costruito una cattedrale di plexiglas intorno. Lì, invece, tutto è lasciato a sé stesso. Un minimo di cura, quella indispensabile, ma nessuna, o quasi, programmazione di sfruttamento turistico. Pensate che in molte abitazioni ci sono delle cantine che potrebbero benissimo diventare anch’esse siti archeologici. In America questo non avverrebbe mai. Magari farebbero diventare tutto un’americanata. Il luogo, prendiamo ancora ad esempio la casa del fratello di Lincoln, può diventare monumento nazionale perché se intorno gli costruisci qualcosa di mastodontico si realizza quella dimensione di irrealtà che destabilizza lo spettatore (nel senso di visitatore). Che ha la sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di

Tre nuovi film americani sono ambientati nel nostro Paese. Ma purtroppo restano spesso ancorati ai soliti luoghi comuni... di Alessandro Boschi importante perché quello che vede intorno glielo comunica.

Gli americani sono come dei bambini che se vedono una cosa minimamente interessante restano a bocca spalancata. Una volta, credeteci, ci siamo trovati nello stesso autobus di alcuni nipotini dello zio Sam appena giunti a Roma. Ebbene, alcuni di loro nello scorgere alcune anonimissime pietre si lanciarono in un entusiastico: «Colosseum Colosseum...». Raccontiamo questo episodio non per prendere in giro la loro incompetenza, ma per sottolineare il loro entusiasmo. A fronte di tutto ciò resta davvero ancora più bizzarro questo atteggiamento verso il nostro Paese. A meno che non si tratti di un pre-

potente complesso di inferiorità, culturale, s’intende. Il che spiegherebbe perché la troupe di Mangia prega ama abbia fatto trasformato una delle vie più costose di Roma, via dei Chiavari, in un vicolo napoletano, absit iniuria verbis. Perché il fatto che gli scenografi abbiano fatto mettere dei fili per stendere i panni in una via dove in realtà non te lo permetterebbero mai dimostra che loro vedono tutto secondo schemi purtroppo consolidati e vieti. In Italia c’è casino, si mangia pasta a tutte le ore e, come disse anni fa George Clooney, a tavola si pianifica già il pasto successivo. Magari è pure vero, ma a via dei Chiavari i panni non si stendono. Sappiamo anche che una boutique del centro è stata trasformata in una trattoria e, se tanto ci


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di “pizza, spaghetti, mafia e mandolino”. Caricatura o senso di inferiorità? dà tanto, chissà che razza di menù avranno approntato gli sceneggiatori. E anche qui possiamo aprire una interessante parentesi, sul cibo, in particolare sul vino. E sì, perché come ci ha dimostrato Mondovino, il lungometraggio del 2004 di Jonathan Nossiter, i nostri vigneti sono terra di conquista. O per lo meno lo sono le nostre tenute più prestigiose.

Come la toscana Ornellaia, trasformata, “grazie”all’intervento degli americani, una fabbrica di grandi dimensioni dalla piccola azienda che era. Il tutto perché, potendo contare sull’acquisizione del marchio, si è pensato bene di aumentare a dismisura la produzione del prestigioso vino. Come dice uno dei protagonisti del film di Nossiter, oggi il vino non lo produce più la vigna ma l’enologo. Dal vino barricato alle barricate per il vino. Quindi a questo siamo arrivati, alla (legittima) acquisizione di un nostro prodotto e al suo (altrettanto legittimo ma avvilente) impoverimento attraverso la produzione su larga scala. Grazie al cielo il Colosseo non dovrebbe essere in vendita. Anche se di questi tempi perfino in casi come questo il condizionale è d’obbligo. Siamo una terra di conquista, e il fatto che da tutto il mondo si trasferiscano da noi per stare meglio, supponiamo, non basta ad allontanare da noi una consolidata immagine caricaturale.

esasperante. Tutto ciò, in considerazione della mai dismessa smania di colonizzare degli americani, fa sì ai loro occhi noi si appaia sempre alla stessa maniera. Per non parlare poi di come ci vedono gli inglesi. Se siete curiosi date un’occhiata ad un programma televisivo che viene trasmesso da Channel 4. Il titolo è emblematico: Dolce Vito - Dream Restaurant. Non crederete ai vostri occhi, nel senso che è ancora peggio di quello che pensate. Anche noi abbiamo però le nostre colpe, perché in fondo, storicamente, gli italiani sono bravissimi nella pratica della esterofilia. Meglio. Sono bravissimi nel dare addosso a se stessi. È sempre più difficile trovare qualcuno che si dichiari orgoglioso di essere italiano. Ora, a parte che a tutti quelli che vorrebbero andarsene all’estero io procurerei un bel biglietto di solo andata, è possibile che tutto sia così irrimediabile? Se ci pensiamo ci accorgiamo

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poi di un paradosso. Che nonostante tutti questi stereotipi questi film contribuiscono ad incrementare il turismo. Sembra che una guida turistica, durante una escursione nel meraviglioso toscano borgo di Volpaia, si sia così rivolto ai turisti: «On the left you can see typical italian-tuscan cloche». Capito? Adesso anche i panni stesi, prerogativa di Napoli, o al massimo di Roma, sono diventati una caratteristica tipica della Toscana. Allora dobbiamo deciderci. Ci va bene così? È meglio prenderci qualche presa in giro ma mantenere la nostra immagine di paese più bello del mondo oppure è più opportuno riappropriarci di una dignità in parte calpestata (a proposito, e il film di Spike Lee su Sant’Anna di Stazzema? Quello sì è un film davvero indecente)? Ma perché per una volta non proviamo a praticare un po’ di equilibrio? Perché non cerchiamo di ristabilire, senza essere permalosi o scioccamente orgogliosi, un equo bilanciamento tra pro e contro? A me, (non posso prendermi la libertà di condividere questa propensione

Certo, dobbiamo anche riconoscere che qualche nostro rappresentante contribuisce a far sì che questo processo di emancipazione sia particolarmente lento ed

me a Hollywood Siamo una terra di conquista, e il fatto che da tutto il mondo si trasferiscano da noi per stare meglio non basta ad allontanare un’immagine scontata. Dobbiamo però riconoscere che qualche nostro rappresentante contribuisce a rallentare il processo di emancipazione

Julia Roberts in “Mangia, prega, ama”. Nella foto grande, George Clooney in “The American”. Sopra: Stephen Dorff ed Elle Fanning in “Somewhere” di Sofia Coppola

con altri) piace la pizza e piacciono gli spaghetti e la cosa non mi fa sentire minimamente in imbarazzo.

Quando gioca la Nazionale di calcio (non accadeva con quella di Lippi) canto anche l’inno di Mameli. E mi commuovo. Tutto ciò mi fa stare bene. Anzi, sapete un po’? Secondo me gli americano ci invidiano anche quelli, i panni stesi, intendo.Volete mettere? Le terribili lavanderie americane (purtroppo adesso ne abbiamo anche noi) con le nostre tovaglie a quadri stese ad asciugare. Non c’è confronto. Fateci dire anche un’altra cosa: ma perché quando noi andiamo all’estero, in America appunto, ma anche e soprattutto in Inghilterra, noi dobbiamo parlare inglese e quando gli anglofoni vengono in Italia siamo sempre noi a dovere adattare il nostro idioma a loro? Questo è un vero esempio di colonizzazione, come il fatto che un individuo che nasce in un Paese dove si parla l’inglese, in un’ottica di mondo del lavoro globalizzato, parte già avvantaggiato. Senza nessun merito effettivo.Vi sembra giusto? La rivista Forbes, in base ad un sondaggio effettuato da un’agenzia americana tra diecimila persone di venti paesi del mondo, certifica che Rio è la città più felice del mondo, davanti a Sidney e Barcellona. La nostra capitale si trova al settimo posto prima di Parigi e Buenos Aires. Roma, per i viaggiatori del sondaggio, è la città dove la storia millenaria s’incontra con la modernità e la raffinatezza e la gente vede l’Italia come il luogo dove si sta calmi e rilassati. E alla moda. Quindi, come diceva il Pippo Franco “pre Bagaglino televisivo”, America, ma che ce vengo a fa’, io c’ho uno zio, fratello di papà, che fa l’idraulico a Bergamo alta...


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Processo di pace. Israeliani e palestinesi affrontano i primi nodi di una trattativa difficile, destinata a durare a lungo

Lavori in corso Hillary Clinton a Gerusalemme, insieme a Benjamin Netanyahu e Abu Mazen di Osvaldo Baldacci

GERUSALEMME. È lì, nel cuore di tutto, nell’epicentro del Medioriente, che ieri si è tenuto il terzo fondamentale round dei negoziati diretti tra israeliani e palestinesi patrocinati dagli Stati Uniti. Hillary Clinton ha confessato di essersi affidata alle preghiere per la buona riuscita delle trattative, su cui ha espresso cauto ottimismo: «Ho trascorso molte ore con loro e credo che siano sinceri e capiscano le conseguenze delle loro azioni».

Poi ha lodato il lavoro di Peres a favore della pace, e ha esortato israeliani e palestinesi a cogliere «la finestra di opportunità» per la pace perché lo status quo è «insostenibile». Anche il presidente israeliano Peres è sembrato soddisfatto e ha detto di ritenere che i negoziati diretti siano partiti con il piede giusto: «Prima ci muoviamo, meglio

sarà per tutti», ha detto Peres che ha ricordato come «appena pochi mesi fa» nessuno poteva sperare di arrivare in negoziati diretti «ed invece è accaduto».

Dopo l’avvio di Washington e il nulla di fatto a Sharm el Sheikh, la Clinton si è spostata a Gerusalemme insieme al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e al presidente palestinese Abu Mazen. E proprio a Gerusalemme ci sono da sciogliere alcuni punti preliminari e allo stesso tempo essenziali. Come le nuove costruzioni di insediamenti e di unità abitative portate avanti da Israele pur nell’opposizione quasi unanime della comunità internazionale, Washington compresa. La Clinton infatti ha in agenda come uno dei primi obiettivi quello di strappare il congelamento di nuove costruzioni. La Segretario di Stato aveva chiesto a

La situazione è ancora troppo fragile per cercare un accordo duraturo

Ma l’impegno di Obama in Palestina si scontra con un odio atavico di C.M. Sennott

Netanyahu di estendere la moratoria - che scade il 26 settembre - sulle attività edilizie in Cisgiordania, come gesto di apertura verso i palestinesi. Ma il governo israeliano non sembra affatto intenzionato a prolungare il congelamento completo delle costruzioni, anche in linea con la maggioranza dell’opinione pubblica israeliana che secondo i sondaggi è favorevole alla ripresa delle attività edilizie in Cisgiordania. Al massimo, secondo fonti diplomatiche citate dal New York Times, il leader del Likud avrebbe aperto alla possibilità di «non costruire tutte le decine di migliaia di unità abitative previste». Chi esprime cauto ottimismo sulla possibilità di uscire dall’impasse è l’inviato americano in Medio Oriente,

George Mitchell, che parla di «giusta direzione», pur ammettendo le difficoltà nella mediazione. «Il presidente Abbas e il premier Netanyahu continuano ad essere d’accordo sul fatto che questi negoziati, il cui obiettivo è risolvere i nodi chiave, possano

Hillary Clinton insieme ad Abu Mazen e a Benjamin Netanyahu, primo ministro di Israele e presidente palestinese. In basso, Barack Obama

l primo giorno alla Casa Bianca, il presidente Barack Obama ha fatto la prima telefonata ai quattro leader del Medioriente che si sono incontrati a Washington per riprendere i colloqui di pace. Il secondo giorno, per il suo primo annuncio, Obama ha scelto la nomina dell’inviato speciale per la religione, George Mitchell, che ha lavorato per venti mesi soltanto per riuscire a portarli dove sono oggi. Sin dall’inizio, in pratica, Obama ha cercato di dire al mondo, al Medioriente e all’America che la vera intenzione di risolvere uno dei più spinosi problemi contemporanei: il conflitto israelo-palestinese. E quindi oggi, nel momento in cui riesce a portare nella stessa stanza i leader israeliani e palestinesi per i primi colloqui di pace diretti degli ultimi due anni, può ben dire di aver raggiunto lo scopo che si era prefissato sin dall’inizio della sua presidenza.

I

Ma è chiaro a chiunque abbia passato del tempo in Medioriente che, per quanto tragica questa considerazione possa essere, le cose non vanno mai come uno vorrebbe vederle andare. Anzi, e particolarmente in zone come quelle, lo sforzo che si impiega in uno scopo può divenire una sorta di boomerang al contrario, in maniera terribile. Potreste chiedere al presidente Bill Clinton, che ha passato anni concentrato sui due lati soltanto per vedere i propri sforzi culminare in altra violenza e spargimento di sangue. L’unico modo in cui un presidente americano potrebbe condurre con successo il Medioriente a un accordo di pace


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altri: le frontiere del futuro Stato palestinese, la sicurezza d’Israele, il destino dei rifugiati palestinesi, lo status di Gerusalemme, la divisione delle risorse idriche. Temi spinosi, molto legati fra loro. Per questo sembra un po’ difficile da seguire la linea apparentemente ragionevole proposta dall’Amministrazione Obama: risolvere prima possibile i punti risolvibili e lasciare da parte gli altri.

Ma le questioni sono tutte connesse e tutte sensibili. Ad esempio un tema che è poco sotto i riflettori ma è determinante è quello dell’acqua, e

L’inviato Usa, George Mitchell, esprime «cauto ottimismo» sulla possibilità di uscire dall’impasse. Video di al-Zawahiri: «Chi riconosce l’Anp tradisce la causa»

essere chiusi entro un anno», ha riferito Mitchell. Gli Stati Uniti chiedono insistentemente a Israele di prorogar ela moratoria come gesto di buona volontà (anche perché per i palestinesi quella degli insediamenti è una precondizione per continuare le

trattative), ma «anche al presidente Abbas abbiamo chiesto di intraprendere iniziative che contribuiscano ad incoraggiare e facilitare questo processo», ha sottolineato Mitchell. Un faccia a faccia dunque molto teso ma molto importante, quello di ieri,

passa per forza da un ottimo senso del tempo e, molto semplicemente, dalla fortuna di lavorare con leader illuminati, che capiscano quanto la pace potrebbe giovare alle rispettive terre.

Purtroppo, ora come ora, Obama non ha questa fortuna. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il presidente palestinese Mahmoud Abbas non hanno il sostegno delle proprie fazioni; inoltre, manca loro il coraggio di imporre al proprio Paese un accordo finale. La coalizione che ha espresso Netanyahu e che siede insieme all’interno del Parlamento israeliano è tenuta insieme con l’adesivo per i pacchi: fra i banchi ci sono alcuni membri dell’estrema destra che – prima di vedere dei terreni ritornare in mano ai palestinesi – sono pronti a far saltare in aria il governo e destituirne la legalità. Mentre Abbas non naviga in acque migliori: è trascinato dalla Cisgiordania, dove esercita proprio un minimo di potere, e Gaza, dove non ne ha. Lì domina Hamas, che continua a mantenere salda la propria stretta sul governo. A due giorni dall’inizio dei colloqui, il gruppo ha scritto con il sangue dei coloni israeliani uccisi in Cisgiordania il proprio “no”a ogni possibile accordo. L’ultimo presidente americano che avrebbe avuto i giusti pre-requisiti per portare la pace in Medioriente è stato Jimmy Carter. All’epoca l’Egitto era guidato da Anwar Sadat e Israele dal primo ministo Menachem Begin. Entrambi guide fortissime dei rispettivi Paesi, ebbero la lungimiranza di

seguito secondo il programma addirittura da un confronto a due, senza la protezione americana. Quello delle costruzioni israeliane è un tema determinante per capire il contesto e dare l’avvio ai veri lavori, ma i temi reali sul terreno sono ben

capire quale affare fosse, per tutti, la pace in Palestina. Sadat, com’è noto, venne assassinato proprio per aver firmato gli accordi di Camp David, nel 1978, con Israele. Ma gli accordi si sono lo stesso arenati, fino ai giorni nostri. E quindi, dato che le stelle non sembrano allineate per un buon risultato, perché Obama lo cerca in maniera così ossessiva? L’interpretazione migliore è che l’amministrazione americana creda in buona fede, ma in maniera un pochino naive, che possa essere lei a creare il momento positivo in Medioriente risolvendo al contempo tre problemi non da poco: il conflitto israelo-palestinese, le divisioni etniche in Iraq e la necessità di contenere l’Iran. Ma anche qui, il presidente dovrebbe parlare con chi lo ha preceduto.

Clinton cercò di attuare una strategia simile alla sua, nota come “contenimento doppio”, con Iraq e Iran. Qualcuno potrebbe pensare che il governo non sappia bene cosa fare, e alcuni esperti del Medioriente la pensano proprio così. E questo perché sembra che gli americani impegnati nella trattativa semplicemente non capiscano la natura “volatile”in maniera tutta particolare di questa missione. Persino il paziente e lavoratore Mitchell, ex senatore degli Stati Uniti che è riuscito ad ottenere gli accordi del Venerdì santo in Irlanda del Nord. Se pensa che fissare una deadline obbligata e stringente possa funzionare con israeliani e palestinesi come funzionò con inglesi e irlandesi, sbaglia. Eppure, la Storia è fatta da coloro che vogliono fare quello che nes-

questo si intreccia con gli altri, in quanto le colonie ebraiche sono state costruite proprio in corrispondenza delle falde acquifere, e Israele si è riservato finora il pieno controllo delle sponde del Giordano. Quindi acqua, insediamenti e frontiere sono un tutt’uno inscindibile.

Come il tema dei rifugiati palestinesi non investe solo un accordo bilaterale eventualmente risolvibile col ritorno dei palestinesi nei territori dell’Anp o

sun altro è riuscito a fare. E quindi, è giusto che una nuova speranza venga immessa in questa storia particolare, anche se parliamo di una nuova fase – noiosa e lenta come una tortura – i cui protagonisti sono Obama, Netanyahu, Abu Mazen insieme al presidente egiziano Hosni Mubarak e al re saudita Abdullah II. Tutti, d’altra parte, impegnati in questi nuovi colloqui. Le problematiche sul tavolo sono note: l’estensione del bando sulle nuove colonie del governo israeliano e vere garanzie di sicurezza contro l’attivismo di Hamas da parte del governo palestinese.

Superati questi primi scogli, già enormi, rimane da tracciare il confine dei due nuovi Stati; da capire se e come sarà concesso ai palestinesi fuggiti il “diritto di rientro” nelle terre occupate da Israele durante la Guerra dei 6 giorni e, naturalmente, l’eterna questione del controllo della Città Santa di Gerusalemme. Si tratta di problemi perenni, di difficilissima risoluzione e purtroppo destinati a spargere ancora molto, troppo sangue prima di concludersi con una vera e duratura pace. Anche perché nessuna delle due parti intende cedere sulle questioni, ritenute vitali da tutte le fazioni - governative e di opposizione - che compongono gli scenari politici di Israele e Palestina. Ed ecco perché nessuno di noi, neanche coloro che più onestamente credono e sperano nella pace, dovrebbe trattenere il respiro mentre aspetta che gli accordi arrivino su un tavolo, vengano firmati e poi applicati dalle parti in causa.

magari con un risarcimento (soluzione probabile): il fatto è che poi bisognerà risolvere il nodo della bomba demografica dei palestinesi e dei loro diritti nei Paesi attualmente ospitanti e che sarebbero invitati ad assimilarli come cittadini di pieno diritto, cosa che Libano, Siria e Giordania, tra gli altri, non desiderano affatto. Poi c’è la questione controversa della ebraicità dello Stato di Israele: questo tema in realtà è controverso persino in Israele, nato come stato laico, ma in cui si sta affermando sempre di più il concetto di stato ebraico, cosa rivendicata negli attuali negoziati. Ma cosa sgradita non solo ai palestinesi ma anche a buona parte della comunità internazionale che ha sempre appoggiato il diritto all’esistenza dello Stato di Israele ma non vedrebbe di buon occhio uno stato confessionale che rischia di discriminare musulmani e cristiani. Sono gli stessi temi su cui ieri, in contemporanea ai negoziati in corso a Gerusalemme, è intervenuta la Lega Araba, che, pur appoggiando gli sforzi di pace, dopo aver chiesto l’immediato stop di nuovi insediamenti israeliani, ha respinto «le posizioni israeliane che chiedono ai palestinesi di riconoscere l’ebraicità dello stato di Israele» e «le misure israeliane unilaterali che mirano a modificare la realtà demografica e geografica dei territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme Est, imponendo una nuova realtà sul terreno». I ministri arabi hanno poi ribadito la necessità di avviare negoziati sulle cinque questioni aperte: gli insediamenti, la status di Gerusalemme, i rifugiati, i confini e l’acqua.

I negoziati sono stati accompagnati anche da qualche cattivo auspicio. Proprio ieri l’esercito israeliano ha ucciso per errore tre civili palestinesi, tra i quali un anziano di 91 anni, nel nord della Striscia di Gaza. L’anziano agricoltore, suo nipote di 16 anni e un altro parente di 17 sono stati colpiti dal fuoco israeliano mentre portavano al pascolo il gregge vicino alla frontiera israeliana: l’esercito ha ammesso l’errore. Inoltre un ventitreenne palestinese è rimasto ucciso a Gaza in un raid dell’aviazione israeliana contro il sistema dei tunnel clandestini a seguito del lancio di razzi. Gli israeliani hanno dal canto loro manifestato la preoccupazione di aspettarsi altri lanci di razzi da Gaza. Intanto l’ambasciata statunitense ha diramato un invito a tutti i concittadini a lasciare Aqaba per l’allarme di un possibile attacco terroristico imminente. E dei negoziati in corso ha parlato nel suo video messaggio anche il numero due di al-Qaeda al-Zawahiri: «Buona parte dei movimenti nazionalisti arabi ha tradito la causa palestinese, riconoscendo l’autorità dell’Anp di Abu Mazen e incaricandolo di trattare a nome dei palestinesi».


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Economia. Con i contractors, la situazione è destinata a peggiorare opo cinque mesi di pericolosi rinvii, proprio in questi giorni, con la fine della lunga festa per l’Eid ul-Fitr - il termine del mese sacro per i musulmani di tutto il mondo di Ramadan - la situazione di stallo per la formazione del governo potrebbe alla fine sbloccarsi. Persino i sindacati, che avevano spinto per la massima partecipazione popolare al voto, stanno cominciando a dimostrarsi impazienti e minacciano di chiedere lo scioglimento del parlamento e nuove elezioni. Per quanto riguarda i benefici effetti del surge americano [l’aumento di truppe combattenti sul suolo iracheno, ordinato dall’ex presidente americano George W. Bush su richiesta del generale Petraeus ndr], con il ritiro delle truppe combattenti sembra proprio che in Iraq “l’effetto Petraeus”sia del tutto esaurito. Che fosse provvisorio lo si sapeva - lo stesso generale lo aveva ammesso davanti al Congresso durante una delle ultime audizioni - ma ormai non passa giorno senza che i soliti noti, al Qaeda, ex baahtisti scontenti e sciiti riottosi, abbiano compiuto almeno una strage. Ormai è un fatto interno, gli americani non c’entrano più. C’è chi dice che la stessa al Qaeda sia ormai solo un comodo alibi per dissimulare la ripresa del confronto interetnico e religioso.

D

Dissolte le bande sunnite al soldo di Petraeus - anche perchè l’inamovibile al-Maliki ora stenta a pagarle - come retaggio delle elezioni che avevano visto vincitore il laico Allawi restano una situazione estremamente fluida, un esercito etnicamente sbilanciato e un novero di problemi - anche di natura puramente costituzionale - ancora da risolvere. In questo contesto, i quattro ingombranti vicini - Teheran, Damasco, Riyad e Ankara - continuano a mantenere il fiato sul collo. Se gli americani, infatti, speravano di fare del nuovo Iraq

Il ritiro Usa azzera il Pil iracheno Sul settore petrolifero e sulle infrastrutture pesa (troppo) la mancanza di sicurezza di Mario Arpino

Campi petroliferi nel nord dell’Iraq, una zona contesa anche dai curdi che ne minano la sicurezza per ottenerne i diritti di sfruttamento. In basso, Allawi: ha vinto le ultime elezioni per la percezione di maggiore sicurezza, l’assetto economico del Paese aveva conosciuto un sensibile miglioramento, richiamando così investimenti esteri e capitali di casa depositati in altre banche.

La crescita del Prodotto interno lordo dell’Iraq era stata consistente nonostante il calo del prezzo del greggio, l’inflazione era in costante diminu-

Alla fine del 2009, risultavano una sessantina le ditte italiane già operanti in Iraq o intenzionate ad iniziare trattative nel Paese un alleato dell’Occidente abbastanza fedele, i quattro hanno tutto l’interesse di mantenerlo debole e invischiato nelle invisibili pastoie del Medioriente. Si potrà dire che non serviva la palla di cristallo, ma è una delle inutili frasi del senno di poi. Eppure negli ultimi tre anni - sino alla fine del 2009 - proprio

zione, il tasso di sconto era in riduzione e il tasso del cambio dinaro/dollaro era rimasto sufficientemente costante. Il numero degli attacchi subiti dalle infrastrutture produttive, e in particolare da quelle dell’industria pe-

trolifera, spina dorsle del Paese, era stato quasi nullo, avendo il governo trovato la forza di mettere in sicurezza i siti industriali con le proprie forze armate e di polizia, non più ingaggiate nella caccia ad al Qae-

da. A questo, ormai ci stavano pensando le formazioni irregolari sunnite. Anche se il settore idrocarburi continuava a dare risultati deludenti, si prevedeva un incremento di produzione di quattro milioni di barili al giorno, per arrivare a ottomila entro dieci anni. Il settore manifatturiero, anche se contribuisce al Prodotto interno lordo in maniera limitata, aveva iniziato a dimostrare una crescita costante, mentre il programma di risanamento delle imprese pubbliche - reclamizzato anche in Italia - veniva esteso fino al settore agroalimentare. È poi in corso di sviluppo anche l’elaborazione di un master

plan esteso a tutte le zone industriali del Paese, cui la nostra Cooperazione potrebbe essere interessata a partecipare. In questo contesto che sembrava favorevole, l’imprenditoria italiana aveva preso coraggio. Alcune maggiori imprese nazionali del settore petrolifero e dell’energia elettrica avevano avviato contatti promettenti con il Ministero del Petrolio, mentre anche nel più diversificato settore privato c’erano stati segnali di un certo risveglio. Con le nostre iniziative, a metà del 2009 eravamo già riusciti a piazzarci al secondo posto a livello mondiale tra gli importatori e all’ottavo come esportatori, mentre a livello europeo eravamo ben saldi al primo posto sia per l’import che per l’export. Alla fine del 2009, risultavano una sessantina le ditte italiane già operanti in Iraq o dichiaratamente intenzionate ad iniziare trattative, sia nel settore manifatturiero che in quello dei servizi. La nostra industria sarebbe favorita, in quanto nel proprio insieme raccoglie e può offrire tutte le capacità necessarie ad un paese in via di sviluppo.

Con il ritiro delle truppe combattenti americane - restano comunque cinquantamila soldati per l’addestramento e i servizi - gli Stati Uniti stanno transitando ogni responsabilità e competenza dal Dipartimento della Difesa al Dipartimento di Stato. Nulla da eccepire, se questo non lasciasse prevedere un rientro in massa, al posto dei militari, delle compagnie di contractors civili che, presumibilmente a margine dell’accordo a suo tempo firmato con al-Maliki, avrebbero il compito di “affiancare” molti dei settori dei servizi (elettricità, energia, traffico aereo, manutenzione, centrali idriche, ecc.) dove molte Società straniere, incluse alcune italiane, contavano di trovare spazio sufficiente. Con tutto ciò, cui ora si aggiunge il precipitare del livello della sicurezza, rischia di andare a picco anche quel po’ di positività verso cui stava emergendo l’economia e fattori come solvibilità, affidabilità e liquidità non potranno certo non risentirne. Ciò significa che, mentre alcune attività rischiano di diventare esclusive “riserve” di caccia, in un sistema dove l’85 per cento del bilancio e il 65 per cento del Prodotto interno lordo dipendono da un greggio altalenante - del quale rimane inoltre incerta la spartizione - gli investitori stranieri potrebbero tornare a correre rischi assai seri.


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16 settembre 2010 • pagina 17

Il movimento conquista fra le critiche Delaware e New York

Chen Shuqing e Wu Yilong hanno scontato 4 anni

I Tea Party vincono le primarie repubblicane

Pechino, liberi i fondatori del Partito democratico

NEW YORK. Dopo il Delaware,

PECHINO. È stato rilasciato Chen Shuqing, scrittore dissidente e cofondatore del Partito Democratico di Cina (Cdp), dopo che per questo ha scontato 4 anni di carcere per sovversione. Il 13 settembre la polizia lo ha portato alla propria stazione a Hangzhou, e poi lo ha accompagnato diritto a casa. Il 14 settembre è tornato libero Wu Yilong (nella foto, il 2° da sinistra), pure membro del Cdp e fondatore della rivista Du Shu Ren (“Lettori di libri”), che ha scontato 11 anni di carcere per sovversione. Il dissidente Zhu Yufu spiega all’agenzia Radio Free Asia che lui e Wang Rongqing erano andati presso la polizia per dare il bentornato a Chen, ma la polizia non ha loro

i Tea Party di Sarah Palin hanno riportato un’altra importante vittoria: New York. Carl Paladino, ricco imprenditore di Buffalo e alla sua prima esperienza in politica ha infatti battuto in modo schiacciante il candidato dell’establishment repubblicano Rick Lazio. Sarà Paladino quindi a sfidare il democratico Andrew Cuomo nelle elezioni di midterm del prossimo 2 novembre. Si tratta della seconda vittoria-choc per il movimento di Sarah Palin nelle primarie repubblicane. Prima di Paladino, nel Delaware, lo Stato del vicepresidente Joe Biden, un’altra adepta del Tea Party, Christine O Donnell, aveva battuto l’ex governatore Michael Castle, il candidato sponsorizzato dall’establishment repubblicano, nelle primarie per il seggio senatoriale in palio nelle elezioni di midterm del 2 novembre. I successi dei due esponenti del movimento ultraconservatore, che nel caso di Paladino piazza uno dei primi candidati a una poltrona di governatore, rischiano di costare caro al Grand Old Party e di fare un favore a Barack Obama.

Di solito l’establishment repubblicano puntava su candidati moderati per le sfide elettorali più difficili ed è probabi-

Sarkozy attacca l’Ue: «I rom prendeteli voi» Non si placano le polemiche fra Parigi e Bruxelles di Pierre Chiartano

PARIGI. Sembra proprio che volino gli ”eurostracci” tra Parigi e Bruxelles. Il presidente francese, Nicolas Sarkozy suggerisce al commissario Ue Viviane Reding di accogliere i rom nel suo Paese, il Lussemburgo. Una maniera non troppo brillante per esprimere un certo nervosismo che anima l’Eliseo, in calo di consensi. Anche se il «suggerimento» di Sarkozy non sarebbe stato espresso in maniera ufficiale. È stato infatti riportato da un gruppo di senatori che hanno partecipato a una colazione di lavoro con il presidente francese. Martedì, la Reding aveva minacciato una procedura d’infrazione contro Parigi in seguito alle misure adottate nei confronti dei rom. La polemica in Francia era nata per una circolare del ministero dell’Interno, datata 5 agosto e inviata ai prefetti, in cui si afferma espressamente che nell’ambito dello smantellamento sistematico degli insediamenti illegale, nel mirino ci sono «in primo luogo quelli dei rom». Il testo, firmato da Michael Bart, direttore di gabinetto del ministero dell’Interno, era stata inviata ai commissari di polizia per identificare «gli specifici obiettivi» del giro di vite del governo Sarkozy, ma adesso c’è chi dice che la circolare è molto probabilmente illegale.

del testo. «Con la circolare del ministero dell’Interno si unisce al gesto la parola. Nel mirino, ci sono un gruppo di persone a causa della loro appartenenza ad una comunità. Siamo nell’ambito dell’incitamento alla discriminazione», ha tuonato Stephane Maugendre, presidente del Gruppo di informazione e sostegno agli immigrati.

«Vi immaginate che cosa sarebbe stata una circolare che citasse espressamente gli ebrei o gli arabi?», si è indignata ancora Maugendre. Anche l’associazione degli avvocati, il Gisti, ha espresso la sua preoccupazione e annunciato un ricorso dinanzi al Consiglio di Stato ed «esamina» il documento per «vedere se rappresenti un’infrazione penale». Secondo Jean Pierre Alaux, ricercatore del Gisti, «la circolare è contraria alla Costituzione che assicura l’uguaglianza dinanzi alla legge di tutti i cittadini senza distinzione d’origine». Intanto il presidente della Commissione europea, José Manuel Barroso, è sceso in campo, tanto per salvare la forma. Ha espresso «sostegno personale» a Viviane Reding, difendendola dalle accuse di aver paragonato il rimpatrio dei rom in Francia alle deportazioni durante la seconda guerra mondiale, in una giornata caratterizzata dall’aspra polemica tra Parigi e Bruxelles. Le frasi del Commissario europeo alla Giustizia «potrebbero aver dato vita a un malinteso» ha affermato Barroso, nel corso di una conferenza stampa. «Reding non voleva stabilire un parallelo tra quello che è successo durante la seconda guerra mondiale e il periodo attuale» ha assicurato, crecando di buttare acqua sul fuoco di una polemica che non gli fa gioco, vista la già debole posizione di cui gode il commissario Ue. Barroso ha inoltre ribadito il sostegno della Commissione europea a Reding, che ieri ha annunciato l’avvio di una procedura d’infrazione dell’Ue contro Parigi. Le scuse dunque sono arrivate all’Eliseo, ma l’incidente non sembra essere ancora chiuso.

L’Eliseo avrebbe suggerito alla Reding, Commissario europeo, di accogliere gli zingari nel suo Paese: il Lussemburgo

le che oltre a New York, dove peraltro Cuomo era già dato nettamente favorito, l’elefantino sia destinato a perdere anche in Delaware. «Siamo tutti arrabbiati neri, i newyorkesi sono stufi e questa sera la classe dominante l’ha capito - ha detto Paladino salutando i suoi sostenitori dopo la vittoria questa è la rivoluzione del popolo che ormai non ne può più». Parole dal tono fortemente populista a cui si accompagna il disprezzo per le elite liberal che lo criticano e ridicolizzano: «dicono che sono troppo schietto, sì lo sono e non me ne pento; dicono che sono arrabbiato, e anche questo è vero, siamo tutti arrabbiati».

«Trecento campi o insediamenti illegali saranno evacuati entro tre mesi, e quelli dei rom sono una priorità», è scritto nella circolare; «spetta pertanto ai prefetti ovunque nel Paese di assumere un sistematico smantellamento dei campi illegali, in primo luogo quelli dei rom». La circolare contrasterebbe con l’affermazione di Besson che, nel giorno della sanzione dal parte dell’Europarlamento, aveva assicurato che «la Francia non ha adottato alcuna misura specifica contro i rom, i quali non sono considerati come tali, ma come nativi della nazione di cui hanno la nazionalità». Nelle ultime ore Besson ha chiarito che non era neppure al corrente della circolare. Ma intanto le associazioni contestano la legittimità

permesso di incontrarlo.Arrivato a casa, Chen è apparso non demoralizzato, ma ha lamentato problemi fisici. «Sono stato tenuto per 15 mesi insieme a 20 altri detenuti. Ho iniziato a sentire dolori alla sciatica – ha spiegato – se non mi muovevo a sufficienza». In carcere ha dovuto fare scatole e maneggiare colla, i cui vapori gli hanno pure nuociuto. Ha potuto cambiare lavoro «solo dopo che l’ho detto a mia moglie e lei ha detto no».

Spiega che la polizia, al momento del rilascio, lo ha ammonito su come deve comportarsi per non avere problemi. Anche in prigione hanno cercato di “riformarlo”, ma ha risposto loro che “quella era una prigione e nessuno di loro poteva cambiarmi”. Il successivo 14 settembre Chen e Wu hanno festeggiato il rilascio pranzando in un ristorante di Hangzhou, insieme a decine di membri del Cdp. Wu ha raccontato che ha fatto sciopero della fame, per poter ottenere di leggere libri e poter parlare con gli altri detenuti, che all’inizio lo dovevano ignorare. Chen ha fondato il Cdp nel giugno 1998 insieme a Wang Youcai, Wang Donghai e Lin Hui, ora tutti in esilio. È stato arrestato ad agosto 2006.


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Tra gli scaffali. L’autore ci racconta gli stratagemmi floreali per sedurre api, farfalle e uccelli, al fine di farsi inseminare dal variegato popolo dei loro “amanti”

La seduzione in giardino In un volume del pittore e scrittore Jean-Pierre Otte, fragranze e “strategie” erotiche dei fiori da profumo di Dianora Citi

San Pietro Viminario, in provincia di Padova, presso Villa Giustiniani Vanzo, il 18 e il 19 settembre si terrà la IV edizione di Vanzo floreale, la mostra mercato autunnale di piante erbacee, da fiore e da frutto, profumi ed essenze d’autunno per residenze e giardini, con una sessantina di espositori in rappresentanza dei migliori vivaisti italiani. La scorsa edizione registrò più 4mila presenze tra pubblico di esperti e appassionati. Si potranno acquistare piante e fiori rari o insoliti, da mettere a dimora nel proprio giardino o sul terrazzo. L’autunno è un momento importante in attesa degli splendori primaverili. E poi chi l’ha detto che i fiori arrivano solo in primavera o in estate?

A

verno ed è noto come la “rosa di Natale”, ha però un elemento che contrasta con l’idea che ciascuno di noi ha pensando alla rosa: la pianta ha un odore nauseabondo e il fiore particolarmente acre. Non troveremo

Le sue opere più originali girano attorno alla parola e al concetto di amore, esplorando prima il mondo animale e poi quello vegetale

Nell’affascinante opera Il giardiniere appassionato (Adelphi, 2007) Rudolf Borchardt ci elenca, in una dottissima lista di fiori e piante chiamate con le loro originali denominazioni scientifiche greche e latine, i tempi delle fioriture e l’autunno, l’impareggiabile stagione dei colori degli alberi, si prende una rivincita anche con i fiori. Non ci sorprende leggere i nomi della dahlia maxonii excelsa (una particolare specie di dalia), del cyclamen ibericum (il nostro ciclamino), della iberis linifolia (iberide), del japonicum chrysanthemum (crisantemo). E ancora lentaggine, corbezzolo, camellia sasangua (camelia), yucca gloriosa, nandina domestica, gardenia. Pensare ai fiori è immaginarne la fragranza del profumo, avvicinando, in un gesto istintivo, il naso ai petali. L’elleboro, che fiorisce in pieno in-

mai un profumo di elleboro! «L’odore dei tuoi profumi sorpassa tutti gli aromi», dice il Cantico dei Cantici. Che le donne abbiamo fatto uso per il loro corpo di essenze odorose e fragranze estratte dai fiori possiamo leggerlo fin dai poemi omerici; unguenti e oli aromatici erano impiegati nell’antico Egitto e nella Roma imperiale; nella Sacra Scrittura la simbologia del profumo esprime l’intensità dell’amore. La funzione

seduttiva dei fiori e del loro profumo era nota anche nel Cinquecento: c’è chi afferma che san Carlo Borromeo, conscio del loro essere oggetti esalanti una tentazione tanto sottile, per avvilire i sensi, si trattenesse dal guardarli, mentre sembra che san Vincenzo de’ Paoli non abbia mai avuto il coraggio di odorarli. Nel Seicento furono distillate le prime acque di Colonia e di melissa, e le essenze di violetta. Amore e fiori o fiori e amore? Dove e quando nasce il legame tra l’oggetto e il concetto? Jean-Pierre Otte ha la sua soluzione: partito dall’amore, è arrivato ai fiori e ne ha unito i destini nel suo La vita amorosa dei fiori da profumo (Colla Editore, pp. 120, 12,90 Euro). Otte, pittore, scrittore e conferenziere francese si definisce epicureo, innamorato del genere femminile e delle donne. Ha restaurato una parte della propria cascina e con sua moglie, la scrittrice Myette Ronday, organizza ritiri per donne sole o coppie desiderose di dedicarsi alla scrittura. Le sue opere più originali girano attorno alla parola e al concetto di amore: nella collana su “L’amore al naturale” (nove volumi di cui quello sui fiori è l’ultimo) esplora i comportamenti amorosi prima del mondo animale e poi di quello vegetale. Per ciò ha ricevuto il “prix Nature” della Fondation de France per «il rigore scientifico e la qualità letteraria dei suoi lavori in botanica e entomologia».

Otte è stato definito «lo scrittore degli animali, delle piante e dei loro più intimi riti». La precisione delle descrizioni, l’accuratezza del linguaggio scientifico e la delicatezza delle

A sinistra, la copertina del libro di Jean-Pierre Otte “La vita amorosa dei fiori da profumo”. A fianco, un’immagine di una rosa. In basso, da sinistra: dei crisantemi, il mughetto, un garofano, una dalia, dei ciclamini, delle iberidi, dei lillà e un fiore di vaniglia

narrazioni in cui sono coinvolti letterati come Buffon, Jünger, Proust, Rousseau, rendono difficile capire se sia più divulgatore o poeta scrittore. Le sue storie hanno dapprima descritto, come pochi hanno saputo fare, i riti amorosi del mondo animale: l’amore nella foresta e sull’aia, la sessualità di un piatto di frutti di mare (anche provocante titolo di un libro), l’epopea amorosa di una farfalla. Gli amori infedeli della volpe, la tranquilla monogamia dei tassi, la passione acrobatica degli scoiattoli. «Ho visitato una varietà di universi [...] sono penetrato nelle cerchie più intime di questa o quella specie, ho osservato la vita delle pozze e degli stagni [...] i cerchi ora eccentrici ora concentrici di una coppia di nibbi intenti a rinnovare la loro promessa d’amore [...]. In ogni nuovo rituale amoroso scoprivo […] qualcosa di me stesso [...] il mio desiderio amo-

roso mi si chiariva nel cuore». Partendo dai comportamenti amorosi degli animali, Otte rintraccia nell’umanità alcuni di quei tratti, che esplodono al di sopra delle convenzioni sociali, soprattutto nei rituali amorosi e nelle tattiche d’amore. La concezione dell’amore nei secoli è cambiata ma non la conquista amorosa: dalle tecniche antiche di seduzione al nostro moderno “rimorchiare” è sempre fondamentale il “primo passo”, l’approccio, ormai non più solo maschile, cui è connesso il successo o l’insuccesso amoroso (su questo l’interessante saggio di Jean Claude Bologne, La conquista amorosa dall’antichità ai giorni nostri, Colla Editore, 2008). Gli elementi di seduzione sono infiniti. Ovidio ricorda che «i tipi di donna sono molteplici: mille personalità diverse richiedono mille tecniche diverse di seduzione [...]. Se per caso noi maschi decidessimo di


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non fare più il primo passo, la femmina, sconfitta, si assumerebbe la parte di chi prende l’iniziativa. È infatti la mucca che sui morbidi prati rivolge i suoi muggiti al toro, ed è la femmina che nitrisce al cavallo scalpitante». L’etologo Otte diventa poi botanico e il suo sguardo si sposta alla flora, alle varietà di strategie erotiche dei più comuni fiori dei nostri giardini. La vita amorosa dei fiori da profumo è quasi un trattato di botanica. Affascinante e misteriosa è la sessualità del mondo vegetale, il cui rituale ricorda, dice Otte, quello delle donne: «La sensualità femminile non è forse simile a quella dei fiori dal momento che anche la donna ricorre alle attrattive del profumo e del trucco, dell’eleganza del portamento e del colore, e che per sedurre o addirittura ammaliare colui o coloro che essa desidera lo fa attraverso una selezione olfattiva?». Lo

stesso Victor Hugo affermava che «se Dio non avesse fatto la donna non avrebbe fatto neppure il fiore». Le ragioni delle tecniche “seduttive” del fiore sono finalizzate all’inseminazione, preludio della produzione del seme, origine di una nuova pianta. Le modifiche e gli specifici adattamenti, come il colore, il profumo e il nettare, sono vòlti ad attirare con miglior efficacia gli insetti impollinatori. Come le donne davanti allo specchio si truccano per piacere, così i fiori escogitano stratagemmi per sedurre e attrarre api, farfalle e uccelli, farsi visitare e inseminare. Le forme più eleganti, i colori più vivaci, gli aromi più conturbanti: così le donne cercano le armi più sottili ed efficaci per le loro conquiste amorose. Il pretesto originario del libro furono gli studi di Otte e del suo caro amico Jacques-Henri per creare profumi artigianali da rega-

lare alle mogli e alle amiche; spontanea sorse la riflessione e l’interesse per la vita e gli amori dei fiori, origini delle essenze, nei giardini.

Otte ricorda alcune parole di Proust e le “vira” a proprio vantaggio: «“Quando si desidera una donna, si desidera, allo stesso tempo, il paesaggio che è in lei”, o anche, e forse ancora meglio, il suo giardino, come a me piace pensare. [...] Nel curare il suo giardino una donna cura la sua stessa anima crea il suo mondo segreto e lo pone al riparo di occhi indiscreti. È lì che coglie i suoi frutti interiori. Le fioriture e lo schiudersi avvengono dentro di lei, nella sua stessa carne». Non era proprio un giardino l’Eden da cui fummo cacciati? «L’umanità è nata in un giardino [...] la colpa fu commessa in un giardino [...] un giardino è ciò che al di là ci aspetta e ci spetta, Paradiso,

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Campi Elisi, Giardino delle Esperidi» (Borchardt). Emilia, una amica di Otte, ha una passione per il suo giardino dove coltiva molte resede «piante erbacee, di un verde pallido». I suoi fiori, non molto belli, sono «molto odorosi, come per compensare la loro scarsa prestanza e il fascino un po’ triste». Quante volte una fragranza precede una donna, ne prolunga «la presenza, marcandone il carattere, rivelando le sue aspirazioni, i desideri» al di là del suo aspetto fisico? Profumo vuol dire “fumo davanti”,“vapore che si espande” (la radice indoeuropea DHÛ indica “agitare”, “eccitare”, “esalare”). L’olfatto è il senso dell’immaginazione, ha scritto Rousseau nell’Émile. Anche la violacciocca gialla ha «un profumo che sparge in lunghe scie per tutto il giorno e nelle sere. Gli insetti sono abbagliati e inebriati prima ancora di arrivare, come noi stessi lo siamo di fronte a una scollatura o al blu di due occhi in cui si vorrebbe annegare». Il colore dopo le sorprese olfattive e gustative (il nettare, premio per le api impollinatrici) ha grande rilievo: in inverno «le nappe giallo dorate della mimosa inviano il loro richiamo. Le api fanno a gara a imbrattarsi il pelo di quell’oro, passano da un fiore all’altro per fecondarli. Non sanno che stanno rendendo un servigio amoroso». Fiore dell’amore la rosa: «Fiorisce a bottone, si schiude a sottana, mostra le sue parti intime lasciandole intravvedere senza pudore, e conclude il suo ciclo in una sacca di semi: questo è il breve romanzo della sua vita amorosa». Il suo amante: il maggiolino delle rose, la cetonia. «Come tutti i coleotteri, la cetonia è dotata di una mascella molto forte, fa uso di una forza brutale. Più che butinarli, gli stami li maciulla, lacerando il tessuto intimo, procurando ferite e strappi al fiore». La lavanda non accetterebbe un simile trattamento: «Appartiene alla grande famiglia delle labiate – che comprende l’origano, la melissa, la salvia - esibisce una sorprendente gamma di blu – ora intensi, ora slavati, o smaglianti, simili al blu della veronica o a quello del nontiscordardimé. La lavanda esige tatto [dai suoi visitatori] sollecitudine, esprit de finesse, dolcezza nell’assalto». Grazie ai suoi effluvi «attrae soprattutto le api

ma vorrebbe qualcuno che penetrasse davvero la sua intimità, che si insinuasse nello stretto spazio della corolla, nella sua graziosa esiguità. Chiama a sé amanti dotati e finisce per attirare farfalle». Tutti i fiori suggeriscono “pensieri e parole”: il lillà, in inverno spogliato delle foglie mostra la sua struttura; il garofano, un etereo fru-fru che ricorda il tutù di una ballerina gracile e minuta; la vaniglia, esalante un umore madido e un aroma inebriante, profumo di una straniera, fiorisce a febbraio e può essere impollinata solo dal melipona, una sorte di ape priva di pungiglione; il mughetto ermafrodita, la cui piccola campanula si nega ai visitatori di grossa taglia, si sottrae alla corte dei calabroni e dei fuchi, lancia i suoi inviti ai piccoli insetti, ricompensati con un alcol leggero.

Nell’intreccio dei vari livelli espressivi del libro, è taciuto il valore simbolico del linguaggio dei fiori, ufficializzato in Francia nel 1819 quando con lo pseudonimo di Charlotte de Latour fu scritto (e il tema ebbe notevole fortuna in periodo romantico) Il linguaggio dei fiori (pubblicato nel 2008 da Olschki Editore). Si dice che il codice espressivo avesse un’antica origine orientale: attribuiva una connotazione sentimentale ai fiori, che si elevavano così a espressioni dei sentimenti del cuore. I significati? Eccone alcuni: il mughetto è il ritorno della fortuna e della felicità, come pure la civetteria, la gioia, la verginità; il lillà bianco dimostra i primi sentimenti d’amore, la giovinezza e l’innocenza, mentre quello viola i primi palpiti d’amore; il garofano in generale l’amore profondo, quello bianco purezza e disposizione alla fedeltà, quello rosso amore puro e cuore lacerato per amore, quello giallo eleganza, quello screziato fiducia. Anche per la rosa più significati a seconda del colore: dalla bianca in bocciolo (“silenzio, sono troppo giovane per amare”) alla rossa singola (“ti amo”), dalla rosa canina (omaggio poetico, piacere e sofferenza) alla rosa rosa (amicizia, affetto e offerta di fidanzamento) fino alla rosa color pesca (amore segreto). Infine, tra i fiori di Otte, la lavanda (“il tuo ricordo è la mia unica felicità”) e la violacciocca (ricordi e pensieri d’amore). Se gli uomini li conoscessero...


pagina 20 • 16 settembre 2010

cultura

In libreria. Adelphi manda in stampa le “Opere scelte” di Flaiano, oltre 1.500 pagine curate, assai bene, da Anna Longoni

Ennio e le storie tese

di Leone Piccioni sce un grosso e atteso volune sulle Opere scelte di Ennio Flaiano da Adelphi (LXVIII-1516 pagine, 70,00 euro), nel centenario della nascita. Sono più di 1500 pagine presentate e curate assai bene da Anna Longoni, con un centinaio di pagine dedicate all’introduzione. Ritrovo così molti titoli cari al mio cuore e ai quali ho spesso dedicato i miei articoli: Tempo di uccidere (1947), il primo romanzo Il diario notturno del 1956, Un marziano a Roma sia nel racconto che nel testo per il teatro (1960), e trovo anche Le ombre bianche del 1972 insieme ad altri scritti prevalentemente inediti o non raccolti in volume: scritti ricavati anche da collaborazioni giornalistiche di Flaiano su Documento (1941-1942), Risorgimento liberale (1944-45) e Il secolo XX (1945). Non tutto dunque Flaiano ma la maggior parte dei suoi scritti più importanti tra drammaticità, sarcasmo, ironia, e anche malinconia e velata tristezza. Al tema della malinconia si indirizza un’altra bellissima opera come Una e una notte del 1969, chiaramente biografica e scritta con grande e distesa semplicità e forza poetica. Una e una notte è indicata dalla curatrice del volume giustamente in parallelo con la sceneggiatura della Dolce vita. Del celebre film di Fellini Flaiano fu sceneggiatore, e come sceneggiatore ha lavorato moltissimo e molto bene nel nostro cinema. Il racconto è dedicato a una Fregene fuori stagione, priva dei suoi tipici personaggi estivi.

E

Chi abbia seguito i miei scritti su Flaiano saprà che io ho sempre sostenuto la grande drammaticità di Tempo di uccidere che vinse la prima edizione del Premio Strega nel ’47 (viene nostalgia per le prime edizioni di quel Premio, per la sua asciuttezza, per la partecipazione di veri scrittori e di critici letterari come votanti, rispetto alla Babele nella quale ora si svolge per mondanità, per gusto della presenzialità, indipendentemente dai suoi risultati). Ambientato in Etiopia durante la guerra, è un racconto carico di umani dolori, di abusi verificati, di violenze, di delitti spesso gratuiti come si consumano nelle guerre e come fu in Abissinia.Tanto il dolore diffuso in quel libro che da lì, a mio parere, Flaiano scelse una strada tutta diversa per nascondere il suo dolore, portandosi su una descrizione ironica, appunto, per la sua attenzione alla vita di tutti i giorni e al costume. Respingere - insomma - la realtà nell’ironia, nel sarcasmo, perfino nella comicità. Ed ecco questa grande operazione condotta da Flaiano con opere e parti che ti prendono, che possono sembrare a prima vista leggere e

In basso, un’immagine dello scrittore Ennio Flaiano. A sinistra, la copertina del libro “Opere scelte” (Adelphi), oltre 1.500 pagine di scritti dell’autore curate da Anna Longoni. A fianco, un disegno di Michelangelo Pace

vanno invece in profondo e non ti abbandonano. Matteo Collura ha recensito sul Corriere della Sera questa importante raccolta di opere di Flaiano, e insieme a tante pertinenti indicazioni critiche ha scelto una illuminante citazione di Flaiano dal Diario degli errori (1976) che voglio riprendere: «Abbiamo vissuto commettendo errori, l’unico modo di vivere senza cadere. Vivere è una serie ininterrotta di errori ognuno dei quali sostiene il precedente e si appoggia sul seguente. Finiti gli errori, finito tutto». Come se la vita potesse apparire sotto forma di tragica farsa.

più tardi Flaiano: «... trova che Il gioco e il massacro è un libro bellissimo scritto per non morire...Vero è che i critici hanno parlato meglio delle Ombre bianche ma questo è disperante perché uno scrittore non sa più come sbagliare per fargliene azzeccare una. Ma loro seguitano a scambiarli con il mio omonimo (il Flaiano spiritoso) e così non potevano accorgersi che Il gioco e il massacro è un capolavoro scritto con la cenere». Riferendosi a Le ombre bianche in una intervista sul Mondo del ’72, Flaiano risponde alla domanda se sta scrivendo: «No - dice - sto pubblicando. Ho raccolto una trentina di satire, racconti, dialoghi, divertimenti che usciranno tra poco da Rizzoli. Gli ho messo per titolo Ombre bianche, li ho raccolti prima che sia troppo tardi, prima che qui la realtà superi completamente la satira. Sono arrivato al momento - prosegue Flaiano - in cui si fruga nei cassetti e si libera tutto quello che abbiamo messo da parte cre-

Nel volume, uscito nel centenario della nascita dell’autore, testi drammatici come “Tempo di uccidere”, malinconici come “Una e una notte”, ma anche divertenti come “Le ombre bianche” Assai curate e illuminanti sono nelle Opere scelte di Flaiano le note dedicate ai singoli volumi, riportando anche con scrupolo alcune varianti degli scritti tra edizioni edite. Lo spazio più grande è dedicato a Tempo di uccidere. Su Il gioco e il massacro si osserva in Flaiano la trasformazione del moralista in osservatore pietoso di “pietà virgiliana”. I due racconti del libro possono produrre - si osserva - interessanti legami con Tempo di uccidere dove è presente lo stesso «gioco massacrante». Per Geno Pampaloni non c’è più «l’autore che si oggettiva nel racconto, ma al contrario il racconto che si consuma, si annulla per fare spazio all’autore». Aggiungeva

dendo che un giorno avrebbe potuto servirci. Aria, aria. È la premessa per incominciare daccapo, questo è forse un

segno che sono ancora vivo. Ma non vorrei illudermi troppo. Quando siedo al tavolino per scrivere non ho più idee, un momento prima erano tutte lì, nella loro ipocrita disponibilità. Mi restano dei brontolii di malcontento, non più sentimenti ma risentimenti e qualche presentimento».

Ma entriamo anche nel circolo delle battute più impensate e più divertenti che si conoscano, tratte per lo più dal Diario notturno. «Quel giorno che ci sentiamo a sinistra basta la lettura dei giornali di sinistra a salvarci. Se andiamo a destra, ecco in nostro soccorso i giornali di destra. Una volta ci svegliavamo con qualche dubbio sulla libertà di stampa: avevamo letto troppi giornali». «A causa del cattivo tempo la rivoluzione è stata rinviata a data da destinarsi». Oppure: «Decise di cambiar vita, di approfittare delle ore del mattino. Si levò alla sei, fece la doccia, si rase, si vestì, gustò la colazione, fumò un paio di sigarette, si mise al tavolo di lavoro e si svegliò a mezzogiorno». Ecco i vantaggi elencati da Flaiano se uno si iscriveva al Partito comunista (a chi gli chiedeva se aderisse al Partito comunista rispondeva: «Purtroppo no, perché non ne ho i mezzi»): «Essere temuti e rispettati - libertà privata totale - ampie possibilità per il futuro viaggi in comitiva - nessun danno in caso di persistenza del Sistema - guadagno in caso di rivoluzione (almeno per i primi tempi) - facilitazioni sessuali rapida carriera - firme di manifesti vari - impunità per delitti politici o di opinione - in casi disperati alone di martirio». Un rapidissimo accenno all’amicizia tra Flaiano e Mino Maccari e ammirazione per le battute che talvolta si rivolgevano direttamente. Celebre per la marcia su Roma il detto di Maccari: «O Roma, o Orte».


spettacoli stato da poco pubblicato negli Stati Uniti, dalla Shout! Factory, “Tin Can Trust”, nuovo album dei Los Lobos, realizzato in un piccolo studio di East Los Angeles. Nell’album, ballate elettriche, due brani latini ed una cover dei Grateful Dead che supera per efficacia l’originale, West L.A. Fadeaway. Dietro a David Hidalgo (voce, banjo, percussioni, fisarmonica), Louie Perez (batteria, percussioni, chitarra, voce) Cesar Rosas (voce, chitarra, mandolino) Conrad Lonzano (basso guitarron) e Berlin (sassofoni, flauti) soffia ancora l’estro, la bravura, la voglia di fare rock alla vecchia maniera. La loro scrittura è unica, per semplicità ed efficacia, ed il risultato è ottimo anche questa volta. Se con quell’aspetto pittoresco e con quell’appeal da messicani “educati e per bene” facessero musica dalle nostre parti, i Los Lobos troverebbero qualche ingaggio solo tra matrimoni, bar e qualche festa di paese.

È

Invece, partiti da lontano, 1973, i ”lupi” sono la band più trasversale e duttile del rock americano. Lo sono per la versatilità dei componenti, gli stessi da sempre, gente che da quando ha esordito su album (metà anni Ottanta) non ha scelto di stare da una parte ma “ovunque”. E lo sono perchè maneggiano chitarroni e hapanguere, Fender Telecaster e fisarmoniche, Gibson Les Paul da rock duro e, se serve, anche il bajo sexto, una chitarra messicana a dodici corde. Alcuni sono strumenti da musica nortena, quella che dall’alto Messico va a mescolarsi con i suoni del South Texas, per formare il “conjunto”, impasto che si nutre tanto di folk nordamericano quanto di saltellanti ritmi latini, altri vengono dalla scuola più conosciuta del rock’n’roll e del blues. Tutto porta a un repertorio che può spingersi dalla musica popolare messicana fino agli angoli più lontani di qualche stato americano del nord, dove nei bar sulle statali ancora si suonano, e sempre si suoneranno, i pezzi di Hendrix, degli Allman Brothers, di Richie Valens e di Marvin Gaye. Basta questo a dire che ventaglio di generi musicali portano in giro Hidalgo, Rosas, Perez, Lozano e Berlin, e quanti colori sono capaci di spennellare sulle assi nere di un palco. Per chi è abbastanza vecchio da ricordarli è come fare un salto indietro nel tempo ascoltando Tin Can Trust. Un disco vero, rock e coinvolgente con quel cocktail inimitabile di generi, rock, blues e musica latina, folk, country e tex-mex che li ha resi unici. Dall’iniziale Burn It Down, una robusta ballata elettrica resa ancora più interessante dalla voce di Susan Tede-

Musica. Con “Tin Can Trust” torna il suono tex-mex dei Los Lobos

Quei vecchi lupi che ballano ancora di Valentina Gerace

Nati nel 1973, sono una delle rock band americane più duttili. E anche l’ultimo lavoro è all’altezza della loro (meritata) fama schi: un intreccio di chitarre per una melodia solida con il blues dietro l’angolo, un tessuto musicale possente, un riff diretto. Yo Canto, brano latino: una cumbia, allegra e disincantata, ritmata e festaiola. La fluidità degli strumenti, la scioltezza del ritmo, la bellezza della canzone fanno il resto.

La title-track è giocata su una intro lento, poi la melodia fuoriesce lentamente, sfiorata dal blues, con le chitarre che le danzano attorno. Una canzone che prende, cresce, coinvolge. Jupiter On The Moon è un blues rallentato, nel tipico stile dei Lupi: ha la cadenza profonda delle cose migliori dei ragazzi e, come un po’ tutto il disco, entra

lentamente sottopelle e si impadronisce di chi ascolta. Do The Murray cambia completamente registro: è prima di tutto un brano strumentale.

alla ballata introspettiva: voce tipica, chitarre in evidenza ed una atmosfera intensa e misteriosa. Hidalgo al suo meglio in The Lady of The Rose, malinconico, quasi triste. Un lamento Poi c’è una forte reminiscen- elettrico che mostra la solita za degli anni Sessanta, una vo- splendida qualità di scrittura, il glia di tornare indietro a quan- tutto servito da una interpretado Dick Dale sferzava con la zione da manuale: atmosfera, fisua chitarra le spiagge califor- nezza strumentale, risoluzioni niane. Niente surf in questo ca- sonore contenute ma estremaso, ma un brano fluido e lucido mente efficaci. Mujer Ingrata è che ci mostra una svolta inatte- invece una classica canzone sa nel suono del gruppo. Un cre- messicana. Chiude il disco, uno scendo strumentale coinvol- dei più belli della band di East gente e spettacolare. Con All LA, 27 Spanishes: lenta anche My Bridges Burning torniamo questa, rarefatta, sincopata. La ricerca del suono, la cura nel cercare certi effetti sono tipici della grande band che ha ancora voglia di mettersi in discussione, anche dopo 35 anni di grande musica. Cinque pittoreschi personaggi che si muovono d’istinto. Chissenefrega della promozione, del successo. Ancora un volta muovere tutto è l’amore dei chicanos per la musica colombianaSopra: la copertina messicana che nei dell’ultimo album quartieri spagnoli di dei Los Lobos. Los Angeles ha troIn alto e a sinistra, vato una seconda immagini patria. Hidalgo imdella band formata braccia la sua fisarda David Hidalgo, monica a pulsanti, Louie Pérez, Conrad Lozano ànCesar Rosas, cora il suono con le Conrad Lozano sue fluide e solidissie Steve Berlin me scale di basso, Louie Perez lascia la

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chitarra elettrica per strimpellare le corde della piccola jarana o sistemarsi, come ai vecchi tempi, alla batteria al posto dell’agile e muscolare Cougar Estrada. Per un risultato di colori, costumi e culture che hanno segnato la storia del rock negli ultimi decenni. Nati quasi per scherzo nel 1973 in uno scantinato della malfamata zona ”latina” di Los Angeles, sono diventati uno dei gruppi piu` popolari degli Usa. Questi quattro chicani, i primi ad imporsi al pubblico bianco dai tempi di Ritchie Valens (al quale hanno tributato una trascinante cover di La Bamba nel 1987), i primi a riscoprire la tradizione di Doug Sahm e Flaco Jimenez, riciclano un’esuberante combinazione di rhythm and blues e texmex, alternando duetti di fisarmonica e bajo sexto. Il tenore tuonante di David Hidalgo, i ritmi dirompenti del batterista Louie Perez, le roventi fughe chitarristiche di Cesar Rosas compongono una miscela esplosiva. Con quel primo album i Los Lobos conquistarono la palma di principale bar band degli anni ’80. Non poco per un quartetto di stagionati figli d’immigrati che per anni si erano dovuti accontentare di allietare matrimoni e festicciole loali. Il loro primissimo album, Just Another Band From East L.A. (1978), una raccolta di boleros e rancheras, era passato del tutto inosservato. Se non fosse per l’indiavolato shuffle alla John Lee Hooker di Shakin’ Shakin’ Shakes forse il picco assoluto della loro carriera.

L’album acustico cantato in spagnolo La Pistola Y El Corazon (1988) funge da bagno catartico, per recuperare le proprie origini e smaltire l’ubriacatura del successo. Non a caso The Neighborhood (1990) è l’esatto opposto: un lavoro elettrico che non potrebbe essere piu` lontano dalle loro radici “latine”. Sempre fedeli a un loro caustico, fatalista e nostalgico melodramma sociale i Los Lobos rappresentano meglio di ogni altro musicista californiano i miti e le delusioni dell’american dream e del melting pot. Senza mai riferirsi esplicitamente alla politica hanno sempre invece “sfidato” il pubblico in maniera acuta, sottile, risvegliando le coscienze con testi provocatori e pungenti. Due premi fondamentali nella loro carriera, per la canzone Anselma (1983) e per l’album La pistola y el corazon (1989). Un simbolo di come ci si possa unire tra culture diverse, latini e nordamericani. Non è un insegnamento che i Los Lobos danno. È la musica che parla. Semplici accordi, echi di blues, country e rock and roll che “sgretolano” con i loro riff qualsiasi barriera sociale e culturale. Un vero inno alla variopinta società americana.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE

Ogm free a tutela del reddito e della fama delle nostre produzioni Sappiamo ufficialmente che, essendo stato contaminato il mais vicino in percentuale inferiore allo 0,9 per cento, l’“evento”Mon 810 non ha inquinato “a norma di legge”, anche se è è stato piantato violando la legge stessa: un reato che taluno ha definito “dimostrativo”. Noi continueremo a difendere dagli ogm il Veneto per salvaguardare e valorizzare la produzione delle aziende agricole che lavorano la terra e il loro reddito. E invito sin d’ora gli altri assessori regionali a prendere una posizione analoga. A me pare che la commedia degli equivoci continui: quello che dobbiamo dire non è se gli ogm e i non ogm e come e quanto vicini, ma come intendiamo difendere e aumentare il reddito delle imprese agricole e dei contadini italiani e come intendiamo tutelare nel mondo il buon nome di una produzione che è più imitata che prodotta. Invece di darci da fare per qualificare sempre più il “made in Italy”, qui c’è qualcuno che ha violato le leggi italiane “in nome della libertà”e che ha importato mondializzazione a basso valore, in un settore, quello del mais, che non a caso in questi ultimi anni ha registrato un calo di prezzo vertiginoso.Noi sappiamo già qual è la risposta e il Veneto sa come intervenire e tutelare i produttori di qualità. ri possono fissare un’area esente da ogm.

Franco Manzato

SÌ ALLA RIQUALIFICAZIONE, MA CON QUALI SOLDI? Va bene riqualificare alcuni quartieri delle nostre città, ma con quali soldi? L’ultima trovata estiva del sindaco Alemanno risulta completamente scollegata dalla realtà; come ridare dignità urbanistica alle periferie degradate della capitale se la presidente Polverini è riuscita a polverizzare i fondi destinati all’edilizia residenziale sociale? Nel testo dell’assestamento di bilancio, votato dalla maggioranza in Regione, non viene data alcuna risposta né al problema della riqualificazione urbana delle tante periferie abbandonate a se stesse né a quello dell’emergenza abitativa. Vengono, invece, tagliati decine di milioni di euro al finanziamento del programma di completamento e nuova costruzione di edilizia sovvenzionata da

parte di Ater, e cancellati i fondi destinati al finanziamento del piano straordinario per l’edilizia residenziale sociale.

Ivano Peduzzi

PRONTA LA SQUADRA SICILIANO, DELL’ANNA, DE PACE La scelta del consigliere provinciale Giovanni Siciliano è il segnale tangibile dell’attrazione che esercita il Partito della Nazione. Un segnale importante che viene da Nardò, secondo comune in provincia per numero di abitanti dopo la città capoluogo. Il nuovo progetto politico del presidente Casini, progetto che vede già in Nardò la presenza di due personalità di spicco come l’on. Rino Dell’Anna, attuale capogruppo al comune e il segretario cittadino Marcello De Pace è un progetto che esercita una forte attrazione, in

Sguardo autolesionista Non è facile capire che cosa pensi questa Manduca sexta, una specie di falena le cui larve (nella foto) sono ghiotte di foglie di tabacco. Il lepidottero, quando la pianta del tabacco è assediata da parassiti emette dei composti chimici volatili, un sos per richiamare insetti mangiatori di parassiti

quanto sono in tanti in questi giorni coloro che ci stanno contattando per manifestare il proprio consenso e vogliono avvicinarsi al Partito della Nazione. Questo ci incoraggia ad andare avanti, convinti della bontà del progetto. A Nardò, con l’adesione di Giovanni Siciliano, si delinea una quadro politico che consentirà di lavorare al meglio per preparare una nuova classe politica, in grado di affrontare le sfide politiche ed elettorali future

e rilanciare la politica di sviluppo sociale, culturale ed economica della città. Voglio sottolineare che il tentativo di decapitare l’Udc a Nardò ha sortito l’effetto contrario e che le radici del partito, e dei valori che rappresenta, sono profonde. Esprimo soddisfazione e apprezzamento, assicurando un collegamento costante nell’azione tra regione, provincia e comune di Nardò.

L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

Donato Guerrieri

da ”El Pais” del 15/09/10

Guardia civil contro Zapatero nche loro vengono chiamati «la Benemerita», anche loro sono un corpo militare di pubblica sicurezza. Qualche tempo fa il governo spagnolo ha avviato l’iter legislativo per una loro smilitarizzazione che vedeva il Partito popolare contrario. Ora però vogliono manifestare. Di chi stiamo parlando? Della guardia civil che oggi cerca non solo un maggior riconoscimento retributivo, ma anche il diritto di manifestare liberamente le proprie idee ed opinioni in un contesto pubblico.

gnolo (Psoe) prevedeva più ampi spazi di partecipazione democratica ai membri della guardia civil. Dopo l’avvento di Zapatero però il ministro della Difesa del suo governo si era messo di traverso ad ogni riforma, frustrando le aspettative che il centrosinistra aveva alimentato. Già nel 2007 i gendarmi erano scesi in piazza, dopo un lungo periodo di proteste. «Ora non si tratta solo di posti di lavoro e di rivendicare diritti di carriera. In questo momento sono in gioco i nostri diritti civili fondamentali. Abbiamo il diritto di associarsi e di manifestare», afferma l’Augc in un comunicato stampa, chiedendo anche di prevenire «che questi i diritti siano violati da una decisione del governo». Insomma, sembrerebbe che il governo Zapatero e il corpo di polizia più amato di Spagna stiano entrando in rotta di collisione. Tanto che alcuni membri dell’Augc, che hanno avuto degli incontri al ministero degli Interni, hanno lasciato trapelare il loro disappunto.

A

Però è scattata subito la proibizione da parte del ministero degli Interni di partecipare a raduni per i militari spagnoli che tanto assomigliano ai nostri carabinieri. Subito l’Associazione unificata della guardia civil (Augc) – a cui aderiscono circa 25mila membri della forza di polizia – si è organizzata per preparare un assise al chiuso di un teatro, meglio un auditorium. Non solo, perché è stato subito presentato un ricorso all’Alta corte di Giustizia spagnola e oggi dovrebbe esserci un incontro tra i rappresentanti dell’Augc e quelli dell’Unione europea. Quindi pronti alle barricate – si fa per dire – per difendere i propri diritti. L’evento è previsto per sabato prossimo a Madrid nell’auditorium Miguel Rios Rivas Vaciamadrid, come riporta un articolo su El Pais di ieri, dove dovrebbero confluire circa 5mila partecipanti. Sembra quasi che i gendarmi ispanici abbiano voluto mettere subito in chiaro: state facendo una riforma in ritardo rispetto alle promesse e sopra le nostre teste, ora è il momento di rivendicare i nostri diritti. Tutte le as-

sociazioni e i sindacati dei corpi armati spagnoli – in Italia li chiameremmo Cocer – hanno chiesto di partecipare alla manifestazione dei carabinieri iberici. L’Arma fu fondata nel 1844 da Isabella II e ha una doppia dipendenza. Il ministero degli Interni regola la parte amministrativa, servizi, retribuzioni, mezzi e destinazioni dei circa 70mila gendarmi. Il ministero della Difesa decide su disciplina, carriera e missioni, soprattutto in caso di eventi bellici, sono infatti presenti anche in Afghanistan nella missione internazionale. Nel suo programma elettorale il Partito socialista spa-

«Sembra quasi che ci mettano sullo stesso piano dell’Eta» l’organizzazione terroristica basca che ha fatto tanti morti proprio fra i membri del corpo di polizia spagnolo. Una politica dunque che sembra aver perso il contatto con la realtà. Tanto che non sarebbe fuori luogo citare un passo di Cervantes: «si applicava alla lettura dei libri di cavalleria con predilezione così spiegata e così grande compiacenza, che obliò quasi interamente l’esercizio della caccia ed anche l’amministrazione delle cose domestiche». Parliamo di Zapatero naturalmente.


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog LE VERITÀ NASCOSTE

Disabile mandato (gratis) ad Amsterdam per fare sesso LONDRA. Un giovane di 21 anni con difficoltà di apprendimento volerà ad Amsterdam - a spese dei contribuenti britannici - per avere un rapporto sessuale con una prostituta del quartiere a luci rosse. Il denaro arriva dal fondo governativo “Put people first” - 520 milioni di sterline in totale - disegnato per aiutare i portatori di handicap a vivere una vita indipendente. L’episodio viene riportato dal tabloid britannico Daily Mail ed è stato scoperto grazie al Freedom of information act, la legge britannica che obbliga la pubblica amministrazione a condividere i dati con i cittadini. L’assistente sociale che ha in cura il paziente lo ha descritto come un «giovane an-

sioso e frustrato», bisognoso di avere la sua prima esperienza sessuale. «Ha seguito due corsi di educazione sessuale e vuole provare cosa significa», ha detto l’assistente sociale chiedendo di restare anonimo. «Le ragazze di Amsterdam sono molto più protette delle lucciole di strada della Gran Bretagna. Lasciamo dunque che si diverta un po’. Non è meglio che tutto ciò avvenga in un modo in cui lo si possa controllare, offrirgli assistenza, in modo da soddisfare i suoi bisogni di crescita in un ambiente sicuro? Rifiutargli questa possibilità sarebbe come violare i suoi diritti umani». Lap dance o siti d’appuntamenti (sempre gratis): altre richieste presentate sotto il “cap-

ACCADDE OGGI

LIBRI DI TESTO. LI ACQUISTINO LE SCUOLE Ogni anno, ala vigilia della riapertura delle scuole, si ripropone la questione dei crescenti costi dei libri di testo. Questione a cui si è cercato di porre rimedio con il cosiddetto tetto di spesa e osservatori vari, misure simboliche e prevedibilmente inefficaci di fronte alle leggi di mercato. L’unico modo per “obbligare” gli editori a diminuire i prezzi è aumentare il potere contrattuale dell’acquirente. Per fare ciò, possiamo seguire l’esempio degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e di altri Paesi europei: siano le scuole ad acquistare i libri di testo e a distribuirli agli studenti, i quali a fine anno li restituiranno per gli studenti dell’anno successivo. Se i libri vengono danneggiati, lo studente dovrà pagare per ripararli oppure riacquistarli. La vita media di un libro di testo potrebbe così essere di cinque anni, con un risparmio dell’80 per cento per ciascun studente. In questo modo non sarebbero soltanto gli editori a stabilire i prezzi dall’alto, ma anche le scuole o i distretti scolastici, che avrebbero un maggiore potere d’acquisto rispetto al singolo studente. Gli editori sarebbero disincentivati dal produrre una nuova edizione ogni anno con l’intento di evitare il “riciclaggio” dei libri usati, perché le scuole probabilmente non comprerebbero nuovi libri di testo per alcuni anni. Questa è la soluzione adottata dal sistema educativo pubblico degli Stati Uniti, dove il primo giorno di scuola ogni studente, dalle elementari alle superiori, riceve gratuitamente i libri di testo. Per ultimo, visto che i libri di testo rappresentano la maggiore spesa che le famiglie devono affrontare per mandare i

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

16 settembre 1904 In Italia inizia il primo sciopero generale che durerà sino al 21 settembre, innescato dalla strage dei minatori sardi il 4 settembre ad opera dei carabinieri 1908 Viene fondata la General Motors 1940 Il governo degli Stati Uniti avvia il Selective service act, che istituisce la leva militare 1941 Lo scià di Persia è costretto ad abdicare in favore del figlio Mohammad Reza Pahlavi sotto la pressione di Gran Bretagna e Urss 1949 Rilascio del primo episodio di Wile E. Coyote e Road Runner 1959 A Barletta, un crollo causato da sopraelevazioni abusive provoca 60 morti 1963 La Malesia viene formata da Malaya, Singapore, Borneo settentrionale britannico e Sarawak 1981 Sugar Ray Leonard sconfigge Thomas Hearns al 14esimo round, a Las Vegas, unificando il titolo mondiale dei pesi welter 1982 Massacro di Sabra e Shatila

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

pello” del Foia hanno poi rivelato che alcuni “council”britannici hanno usato il denaro del fondo per portare i loro assistiti in club dove si pratica la lap-dance o pagare i costi d’iscrizione a siti internet di appuntamenti. Una realtà che ha mandato su tutte le furie l’associazione dei contribuenti britannici.

propri figli alla scuola dell’obbligo, riusciremmo a rendere effettivo l’articolo 34 della Costituzione, laddove prevede che almeno l’istruzione inferiore sia gratuita oltre che obbligatoria.

Pietro Yates Moretti

OLD STORIES Non capisco quale opposizione si profila all’orizzonte del nostro Paese: un Pd affetto da mali peggiori di quelli della maggioranza, che vuole vivere e mantenere al suo interno, dei muri come quello tra i seguaci di D’Alema e quelli fedeli a Vendola, senza proporre alternative. Intanto, nessuno vuole in fretta le primarie perché si è affetti ancora da protagonismo e bramosia di vecchie poltrone.

Gennaro Napoli

UN RUOLO MODERNO E SINERGICO Costituire un nuovo partito al di fuori del Pdl non significa farlo all’esterno dell’alleanza di governo, perché esso potrebbe benissimo occupare un posto paritetico a quello della Lega, riacciuffando nel tempo proseliti diametralmente opposti perché forniti da molti elettori del centro-sud, ma parallelo a quelli che compongono l’assetto di governo che non può inglobare partiti che non hanno ricevuto il sostegno degli elettori. Del resto, rivedendo tutti i politici che sono con Fini, sembra di rivedere un assetto familiare di quando la destra classica, uscita dall’oscurantismo, si faceva bella arricchendosi anche di personaggi di aree affini, sempre che la volontà sia quella di costituire un partito della destra moderno e sinergico.

Bruno Russo

Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Robert Kagan, Filippo La Porta,

Direttore da Washington Michael Novak

Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,

Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)

Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Collaboratori

Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,

Maria Pia Ammirati, Mario Arpino,

Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,

Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi,

Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,

Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,

Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,

IL FUTURO DELL’ITALIA NELLE MANI DELLA POLITICA Il recente dibattito politico è contraddistinto da una notevole povertà culturale e dall’utilizzo di un linguaggio mediatico che non fa onore ai protagonisti. I toni utilizzati per infangare e denigrare l’avversario di turno ci danno la cifra del decadimento della cultura politica e della bassezza delle argomentazioni addotte. Intanto la società civile, alla prese con problemi seri, ne prende sempre più le distanze. Ciò dovrebbe far riflettere maggiormente tutti coloro i quali invocano il ricorso alle elezioni anticipate come la panacea di tutti i mali anche se, in realtà, molti sanno che queste sarebbero solo uno strumento per consolidare il partito di appartenenza. Non è un caso che a sostegno delle elezioni anticipate si siano espressi in particolare i partiti più oltranzisti e intransigenti dell’arco costituzionale, ossia la Lega di Bossi e l’Idv di Di Pietro, che sentono e vedono l’opportunità concreta di incrementare i propri consensi a danno rispettivamente del Pdl e del Pd, in evidente difficoltà. «Elezioni subito!», urlano i leghisti... tanto dei problemi del Paese chi volete che se ne infischi?, aggiungo io. A ciò sommiamo uno scontro istituzionale mai registrato nella storia politica italiana, tra i due cofondatori della stessa Pdl e attuali cariche dello Stato che, senza risparmiarsi un colpo, hanno ingaggiato una battaglia muscolare e violenta. Per dirla con le parole dell’editoriale di Famiglia Cristiana, diretta dal bravo don Antonio Sciortino, che auspica un governo di unità nazionale, e dice basta con «la politica degli stracci» e l’uso dei dossier per «polverizzare gli avversari», così come con l’uso distorto e irriverente del potere mass-mediatico per eliminare l’avversario o per offendere le alte cariche dello Stato. Una guerra di tutti contro tutti che non risparmia nemmeno i rapporti nel mondo del lavoro, e che vede una tra le più grandi realtà aziendali del Paese opporsi a una sentenza del giudice del lavoro che reintegra tre lavoratori alla Fiat di Melfi, aprendo anche qui un fronte con il sindacato dagli esiti incerti. Un periodo di “ordinaria follia”, insomma, in cui veleni e schizzi di fango volano ovunque. In mezzo a tutto ciò - è questa la vera tristezza - resta un Mezzogiorno con mille problemi: giovani che emigrano, famiglie in serie difficoltà, fabbriche che chiudono, enti locali che non riescono a garantire servizi minimi, popolazione che diminuisce. È necessario ristabilire il rispetto delle istituzioni, delle regole democratiche e della società civile. È necessario quel ritorno al “pensiero” e alla moderazione che, purtroppo, segna ancora scarso esercizio. Vincenzo Fierro CIRCOLI LIBERAL BASILICATA REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE “VERSO IL PARTITO DELLA NAZIONE” SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)

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ULTIMAPAGINA Cinema. Tra poco nelle sale italiane “Buried”, la pellicola di Cortés che ha sconvolto il Sundance Film Festival

La notte del sepolto di Pietro Salvatori rima di iniziare a leggere quest’articolo è necessario fornire alcune istruzioni per l’uso. Parliamo di Buried, film presentato a gennaio al Sundance Film Festival. La regia è del trentaseienne spagnolo Rodrigo Cortés, l’interprete principale è Ryan Reynolds, discreto attore hollywoodiano conosciuto dal grande pubblico più per essere riuscito ad impalmare la bella Scarlett Johansson che non per le sue performance sul grande schermo. Il film uscirà nelle sale italiane il 15 ottobre. A rendere speciale la pellicola è il fatto che non se ne sa nulla. Fatto salvo per lo spunto del plot. C’è un uomo, Reynolds, intrappolato in una cassa di legno. La cassa di legno è seppellita sotto un bel po’ di terra fresca. Dopo la visione al Sundance, nessun critico ha rivelato molto di più, cosa che, nell’ambiente, ha fatto nascere e crescere una spasmodica attesa per l’evento. Noi, qui di seguito, lo faremo per i lettori di liberal.

P

Dunque, se vorrete gustarvi la pellicola in santa pace, sulla vostra poltrona numerata, al buio della sala, fermatevi qui nel leggere. Per chi invece vuole sapere tutto, ecco, per prima cosa, la trama. Come accennato c’è Ryan Reynolds che si sveglia all’interno di una cassa. L’intero film si svolge tra le pareti di questa bara. Niente flashback, niente excursus. 90 minuti di fila sotto terra. Una regia serrata trasmette il senso di claustrofobia, di calura, di sudore che si percepisce sotto tre metri di buona terra. Vi inizierà a mancare il respiro, la fronte vi inizierà a imperlarsi di gocce. Al suo risveglio, il protagonista inizia pian piano a riacquistare la memoria. È un autotrasportatore che, per mantenere moglie e figlia, ha accettato un incarico in Iraq. Caduto in un’imboscata con alcuni colleghi, è stato miracolosamente risparmiato. Scopre di avere con sé un blackberry. I terroristi lo contattano. Deve mettere insieme un milione d’euro entro un’ora, in caso contrario lo lasceranno sepolto. Inizia così una lunga trafila di telefonate. La polizia statunitense lo mette in attesa, la moglie ha attivato la segreteria telefonica, il centro d’emergenza allestito dall’agenzia non solo non lo aiuta, ma gli tira il brutto scherzo di recidergli l’assicurazione sulla vita. «Ah, signor Reynolds, ci conferma che sta morendo? In questo caso dovremmo far scattare un cavillo del suo contratto, tale per cui i suoi cari non vedranno il becco di un quattrino dopo la sua dipartita». Alla fine riesce a mettersi in contatto con il centro di assistenza per i prigionieri in Iraq. Un improbabile «Dicci dove sei, e verremo a salvarti, parola di Zio Sam!». «Stai tranquillo, ne abbiamo tirati tanti fuori», gli dice l’operatore con il quale riesce a mettersi in contatto. «Quanti?». «Tanti, fidati». «Non è vero, dimmi il nome di uno che siete riusciti a salvare». «Billy, lo abbiamo tirato fuori due mesi fa». «Sbrigatevi allora!». I terroristi continuano a fare pressioni, il caldo ad aumentare. Gli mandano un video sul cellulare. È la sua collega, che finisce con una pallottola in testa. Se non vuoi fare la stessa fine, è il senso del messaggio, facci avere i nostri soldi. La cassa inizia a cedere sotto il peso della terra, si riattacca disperato al telefono, con il centro assistenza. «Stiamo arrivando, abbia-

VIVENTE

mo trovato un iraqeno che ci ha detto di un americano sepolto vivo. Tieni duro, siamo già qui!». «Qui dove? Dove siete?». «Siamo sopra di te, resisti!». «Presto!». «Ecco, la apriamo. Oh mio Dio, no... Mi dispiace, mi dispiace tanto. Abbiamo trovato solo un corpo senza vita. Abbiamo trovato Billy...». Terra che cade. Schermo nero. Titoli di coda. Finisce così Buried, seguendo un antico motto secondo il quale la migliore storia possibile è sempre quella con il peggior finale possibile. Ma attenzione. Dalla Moviemax fanno sapere che stanno anche testando con il pubblico un «finale alternativo». E l’unica alternativa possibile a un finale come questo è quella per cui i rinforzi arrivano in

La prima fra tutte è che dimostra che basta una buona idea, un discreto attore, e una buona visione di come metterla in pratica sia sufficiente a fare del buon cinema. La seconda è che Buried non è un film che gioca anzitutto sulla tensione. La manipola, la usa come solido pretesto per costruire una storia in cui i livelli di lettura si articolano, sono molteplici. Così è un film sulla incredibile farraginosità della burocrazia nel mondo moderno, ma è anche un film sulla guerra in Iraq. Così come è una pellicola politica, che ci mostra un uomo andato in una terra lontana non per fare una guerra. Ma per pagare il mutuo della sua prima casa.

Uscirà il 15 ottobre prossimo, ma se ne parla già da mesi. La storia è quella di un uomo intrappolato in una cassa di legno seppellita sotto terra da qualche parte in Iraq. E l’intera trama si svolge nell’angoscia e tra le pareti di questa bara tempo, lo tirano fuori dalla bara e vissero tutti felici e contenti. Ma il fatto che al Sundance, e in tutte le principali proiezioni test con un pubblico campione, si sia puntato sul finale che vi abbiamo raccontato, porta a pensare che la versione che uscirà in sala sarà proprio quella che vi abbiamo raccontato. E non sarebbe un male. Il film di Cortés è un ottimo film, per una serie di ragioni.


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