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Gli uomini, non le case, fanno la città Thomas Fuller

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MARTEDÌ 21 SETTEMBRE 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Ieri le celebrazioni dei 140 anni nel segno dell’identità condivisa. E Alemanno: «Se vuole il federalismo, il Carroccio cambi musica»

«È Roma l’unica Capitale» Napolitano ribatte alla Lega citando Cavour: «Non c’è altra città che vanti la stessa storia cosmopolita». E il cardinal Bertone gli fa eco: «Oggi si ricompone la frattura di Porta Pia» LUOGHI COMUNI

di Errico Novi

Ormai in Italia bisogna battersi per l’ovvio

ROMA. Molto più di una pacificazione. Si potrebbe dire un patto. Tra la comunità civile ed ecclesiale che, come ricorda davanti alla fatale Porta Pia Tarcisio Bertone, «insieme lavorano per il bene comune dell’Italia a vastissimo raggio». Non si tratta semplicemente di riconciliare la memoria risorgimentale con quella dei cattolici. a pagina 2

di Nicola Fano a notizia è che abbiamo una capitale: Roma. Con il permesso di sua maestà Umberto Bossi il re di Padania. «Ma adesso ce ne vuole una per il nord, di capitale», ha detto il sovrano per concedere il suo sì. Non è chiaro se la seconda capitale sarà Pontida o Varese. O Treviso, perché no? Se ne occuperanno i favoriti della corte, forse. Magari il Trota. A questo siamo arrivati: a dover certificare l’ovvio e a dover ricordare che l’ovvio non è un peso ma il prodotto della storia. L’ovvio è che l’Italia è due Italie: il Nord e il Sud. Due Italie messe insieme.

L

Parlano Perfetti e Villari

Parla Giovanni Sabbatucci

Appuntamento con la storia (via Cavour)

Il primo strappo fu quello di Paolo VI

Una città centro del mondo e della cristianità, ma anche luogo di ricomposizione del conflitto fra Stato e Chiesa

«Quarant’anni fa, papa Montini per primo parlò della fine del potere temporale come di un dono della Provvidenza»

Riccardo Paradisi • pagina 4

Francesco Capozza • pagina 3

a pagina 2

Ieri a Roma i funerali del tenente Romani

L’ultimo saluto ad Alessandro, “vittima di pace” di Pietro Salvatori

ROMA. «Combatteva per alimentare la solidarietà e l’amicizia tra i popoli». Queste le parole che sono risuonate dal pulpito, ieri a Roma, durante il funerale del tenente Alessandro Romani, morto in Afghanistan lo scorso 17 settembre. a pagina 7

Domani il decreto sui costi standard

La rottura di Emma Marcegaglia

Ecco il federalismo. Ma è soltanto la fotocopia dell’esistente

Se anche Confindustria abbandona Tremonti

L’unica strada per i Millenium Goals

Montecitorio trasformato in taxi

Sarkozy all’Onu: «Tassiamo le transazioni finanziarie»

Così Berlusconi legittima la pratica dei ribaltoni

Il presidente francese propone un dazio sulle operazioni per raccogliere fondi

Oggi Calderoli spiega le linee economiche della riforma. Ma le Regioni dicono no

In Italia, come in Svezia, una “mezza maggioranza” cerca voti in Parlamento

Nel documento del Centro studi un duro attacco alla politica del governo

Antonio Picasso • pagina 16

Francesco Pacifico • pagina 8

Giancristiano Desiderio • pagina 14

Mario Seminerio • pagina 10

EURO 1,00 (10,00

CON I QUADERNI)

• ANNO XV •

NUMERO

183 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


l’analisi

prima pagina

Tra celebrazioni e luoghi comuni

pagina 2 • 21 settembre 2010

Ormai in Italia bisogna battersi per l’ovvio di Nicola Fano La notizia è che abbiamo una capitale: Roma. Con il permesso di sua maestà Umberto Bossi il re di Padania. «Ma adesso ce ne vuole una per il nord, di capitale», ha detto il sovrano per concedere il suo sì. Non è chiaro se la seconda capitale sarà Pontida o Varese. O Treviso, perché no? Se ne occuperanno i favoriti della corte, forse. Magari il Trota. A questo siamo arrivati: a dover certificare l’ovvio e a dover ricordare che l’ovvio non è un peso ma il prodotto della storia. L’ovvio è che l’Italia è due Italie: il Nord e il Sud. Detta così alla grossa: una guarda al rigore freddo dell’Europa e l’altra guarda alla scomposta vitalità dell’Africa e dell’Oriente Vicino. Il fatto è che le due Italie sono una risorsa, non un scocciatura: una nazione solo padana (o solo sudista) vale meno di un’identità complessa. Oltre a essere una sciocchezza storica e geografica.

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Per dire: i Romani antichi (che per inciso erano più italiani dei celti) intrattenevano ottimi rapporti tanto con i Galli, i Germani, i Britanni e insomma tutti i popoli a Nord quanto con quelli a Sud e a Est, dagli Egizi ai Parsi. Insomma, l’ideale, per questo nostro povero e complesso Paese è avere una Capitale che unisca le due anime e che sappia guardare in tutte le direzioni. Non vi piace Roma perché nel vostro piccolo immaginario è ladrona? Bene, allora facciamo capitale Frosinone. Oppure Terni. Oppure Civitavecchia, che è pure sul mare… Ma, insomma, purché sia un luogo in cui le culture e le tradizioni possano incrociarsi, senza che una sovrasti l’altra impoverendo il prodotto finale. Senza contare che perdere le servitù dei ministeriali sarebbe un bel colpo, per questa nostra città disastrata: qualcuno ricorda quel che ipotizzò Guido Morselli in Roma senza Papa? Il fatto è semplice e drammatico al tempo stesso: c’è qualcuno fra chi ci governa che pensi a un progetto per l’Italia? Qualcuno che sappia che cosa noi si potrà essere in futuro? Una volta – prima dell’Ottantanove – la nostra ragione geopolitica era essere la frontiera della Nato, ma oggi? Oggi il nostro ruolo strategico andrebbe ripensato: non basta fare buoni affari con un dittatore e un oligarca per dire a noi stessi e al mondo da che parte stiamo (se non quella degli affari, appunto, che non è poi una bella parte...). E non basta segare via il CentroSud come fosse una zattera di pietra per essere felicemente riassorbiti nel cuore dell’Europa. Certo, abbiamo perso vent’anni per ragionare sul nostro ruolo post-Ottantanove; abbiamo consumato parole su parole per sciorinare mattarellum e porcellum e per fare distinguo su post-comunismo e neo-riformismo, ma è meglio tardi che mai, come avrebbe detto il maestro Manzi. L’importante è cominciare. Al contrario, l’unica strategia messa in campo da questo governo è quella del Paese diviso in due: vuoi per chiedere l’affossamento del Sud vuoi per andare a pescare qualche voto personale in quello stesso Mezzogiorno altrimenti abbandonato.Visione comune: zero. Unità: zero. Tanto che c’è voluto l’asse inedito Napolitano-Bertone per dare un senso unitario, ieri, alle celebrazioni di Roma Capitale. Possibile che un giorno sì e l’altro pure sia necessario ricordare l’ovvio al re di Padania e il suo gran ciambellano? Roma Capitale non è solo il frutto di un’identità millenaria, è anche un’opportunità. Per chi sappia coglierla, almeno.

il fatto Valori comuni. Cerimonia congiunta di Stato e Chiesa davanti alla Breccia

Anche la Padania è figlia di Roma Napolitano ribatte alla Lega: «Non c’è altra città che vanti la stessa storia». E Bertone: «Cattolici e istituzioni repubblicane lavorano insieme per il bene del popolo italiano» di Errico Novi

ROMA. Molto più di una pacificazione. Si potrebbe dire un patto.Tra la comunità civile ed ecclesiale che, come ricorda davanti alla fatale Porta Pia Tarcisio Bertone, «insieme lavorano per il bene comune dell’Italia a vastissimo raggio». Non si tratta semplicemente di riconciliare la memoria risorgimentale con quella dei cattolici. Alle celebrazioni per i 140 anni dalla breccia che riportò Roma nel suo naturale ruolo di capitale d’Italia, si confrontano e sanciscono la loro alleanza due visioni del Paese. Una, rappresentata dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, è l’idea dell’unità come bene da preservare anche in un quadro istituzionale che si trasforma, come spiega o stesso capo dello Stato. L’altra è quella dei cattolici che si fanno ineterpreti di una missione: quella di difendere il Paese dal rischio della disgregazione, e che vedono nella necessità di un assetto solidale la chiave per vincere le forze centrifughe pure così forti. È chiaro che in una giornata del genere ci sono almeno due parti avverse coinvolte loro malgrado: quell’universo ultralaicista che coglie la ricorrenza per dire che «ci vuole una nuova breccia contro partitocrazia eVaticano», ed è naturalmente il mondo radicale di Marco Pannella, presente con una sua vivace delegazione a Porta Pia; l’altro soggetto chiamato in causa è la Lega, assertrice non solo del federalismo ma di una ristrutturazione delle funzioni amministrative che porti via da Roma, per esempio, i ministeri, e più in generale annunciatrice di un’Italia, separata.

È contro il secondo attore della scena, il neoseparatismo soft del Carroccio, che i difensori dell’unità la e Chiesa si trovano schierati insieme. Unite nella necessità di seminare spirito solidale e di difendere le istituzioni repubbli-

cane. Così il 20 settembre dei 140 anni da Porta Pia trascorre in una sorta di concentrazione di simboli e appelli. Grazie al fatto che nello stesso giorno il Comune di Roma decide di inaugurare il nuovo corso della propria vicenda amministrativa: per la prima volta infatti il Consiglio comunale della città si riunisce sotto la nuova denominazione di assemblea capitolina, in ossequio al decreto su Roma capitale varato proprio venerdì scorso dal governo. È anche l’occasione per insignire Napolitano del fregio di cittadino onorario. E, per il sindaco Gianni Alemanno, di impegnarsi in una lunga dissertazione sull’orgoglio municipale e sull’infondatezza dell’epiteto di Roma ladrona rivolto dai lumbàrd.

La scelta del Vaticano di presenziare alla cerimonia di Porta Pia con il segretario di Stato dà forse il senso del valore di questa ritrovata unità tra Stato e Chiesa nella missione di difendere la nazione italiana. Ne è prova il passaggio più significativo dell’intervento di Bertone: «La nostra presenza a questo avvenimento rappresenta un riconoscimento dell’indiscussa verità di Roma capitale d’Italia anche come sede del successore di Pietro». Affermazione che nella storia della Chiesa si coniuga secondo «la ritrovata libertà del pastore e della Chiesa universale e anche nella ritrovata concordia tra la comunità civile e quella ecclesiale che», appunto, «insieme lavorano a vastissimo raggio per il bene del popolo italiano». Non c’è contraddizione, insiste il sottosegretario di Stato vaticano, tra una simile visione e l’iniziale autoesclusione dei cattolici dalla vita politica dell’Italia: proprio dal «sacrificio e dal crogiuolo di tribolazioni, di tensioni spirituali e morali» suscitati


l’intervista

«Il primo strappo? Quello di Paolo VI» Giovanni Sabatucci ricorda quando Montini lodò la fine del potere temporale di Francesco Capozza

ROMA. «Da vari decenni Roma è l’indiscussa capitale dello Stato italiano, il cui prestigio e la cui capacità di attrarre sono mirabilmente accresciuti dall’essere altresì il centro al quale guarda tutta la chiesa cattolica, anzi tutta la famiglia dei popoli», con queste parole il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato Vaticano, ha evidenziato, in un breve intervento pronunciato in occasione dei 140 anni dalla presa di Porta Pia, il definitivo avvicinamento tra Chiesa e Stato. Ma quella di ieri è stata una giornata di celebrazioni singolare. Da un lato, ed era la prima volta in 140 anni di storia, un segretario di Stato Vaticano si è recato a Porta Pia, dall’altra il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, è andato in Campidoglio per ricevere la cittadinanza onoraria della neonata Roma Capitale. Giovanni Sabbatucci, professore di Storia contemporanea ci aiuta a capire il significato di questi due gesti. Professor Sabbatucci, il cardinale Bertone, davanti a Porta Pia, ha detto: «un evento di riconciliazione tra Stato e Chiesa e di ritrovata concordia tra comunità civile ed ecclesiale». Lei crede sia un fatto storico? Sicuramente è una presa di posizione significativa, tanto più perché pronunciata dal segretario di Stato e non da un prelato

qualunque. Un evento senza dubbio solenne quello di ieri, che tuttavia ritengo non essere quello più importante negli ultimi 140 anni. E quale sarebbe stato, a suo avviso, l’evento più importante nella riconciliazione tra Stato e Chiesa? Ecco, l’ha detto lei: senza dubbio non possiamo dimenticare la portata storica della conciliazione del 1929. Ma per me un’altra svolta è stata esattamente 40 an-

Il presidente ha voluto rispondere alle bizzarre parole pronunciate nei giorni scorsi da Bossi sulla capitale

ni fa, quando Paolo VI disse che la perdita del potere temporale era stato un evento provvidenziale. Le celebrazioni di ieri possiamo dire che sono state un suggello al terreno preparato da altri. «Siamo raccolti in un luogo altamente simbolico - ha detto ancora Bertone - per compiere un atto di omaggio verso coloro che qui caddero». Era mai capitato che un cardinale rendesse onore ai caduti civili contro quelli cattolici? In celebrazioni come queste, rendere omaggio ai caduti è pressoché scontato. Diciamo che

dall’evento della breccia di Porta Pia, «è sorta una prospettiva nuova, grazie alla quale da vari decenni Roma è l’indiscussa capitale dello Stato italiano». E nella Capitale, aggiunge il cardinal Bertone, «il prestigio e la capacità di attrarre sono mirabilmente accresciuti dall’essere altresì il centro al quale guarda tutta la Chiesa cattolica, anzi tutta la famiglia dei popoli».

Napolitano coglie innanzitutto l’importanza del patto tra cattolici e difensori dell’unità, rappresentato dalla presenza del segretario di Stato. «È la conferma del rispetto della Chiesa e della Santa Sede per Roma capitale dello Stato italiano», dice. Dopo la celebrazione a Porta Pia, è in Capidoglio che arrivano le parole più incisive del presidente, nel corso della cerimonia con cui gli viene conferita la cittadinanza onoraria: «Mortificare o disperdere le strutture portanti dello Stato nazionale sarebbe semplicemente fuorviante, esse rappresentano un essenziale tessuto connettivo», ricorda Napolitano, con evidente richiamo alle richieste del Carroccio sulla dislocazione dei ministeri. Richieste che peraltro non cessano nemmeno in una giornata così particolare: a parte le sparate di Borghezio che fa rimbobare il suo solito Roma ladrona, persino un moderato come Roberto Cota ne approfitta per sostenere che «il decentramento dei ministeri sul territorio è qualcosa che esiste anche negli altri Stati e che migliora il rapporto con il territorio». Per non dire del leader dei Giovani padani, il deputato Paolo Grimoldi, secondo il quale «sono gli atteggiamenti di Roma spesso a minare il concetto dell’unità». Quali atteggiamenti? Lo scandalizzarsi

fa parte della scaletta. Certo, diversissimo è il caso – criticabile – di quelli che ancora oggi vanno a rendere omaggio ai caduti zuavi. Lì c’è la volontà, o meglio una vana speranza, di tornare al passato. Nel breve intervento pronunciato davanti alla Breccia di Porta Pia, il porporato ha poi detto: «Gran Dio benedica l’Italia: benedici oggi e sempre questa nazione, assisti e illumina i suo governanti affinché operino instancabilmente per il bene comune», ricordando una preghiera di Pio IX, e invocando la protezione su «questa citta, questa nazione e il mondo intero». Sicuramente dev’essere una preghiera del primissimo Pio IX, prima certamente del 1848. Anzi, glielo cerco subito... Sì, è una preghiera del febbraio del 1848. La citazione è fatta a regola d’arte, ma sbagliata se si vuol far credere che quello fosse il pensiero di Papa Mastai Ferretti. Pio IX è stato eletto nel 1846 perché il sacro collegio riteneva che fosse la persona più adatta per mettere fine alle fratture che minavano il potere temporale e lo stato della Chiesa. Gli eventi hanno invece portato ad un ribaltamento della situazione ma certamente Pio IX era diventato radicalmente contrario alla perdita delle prerogative papali già prima del 1860. Fu un Papa intransigente e non si può certo ridurre il suo pensiero alle parole pronunciate in quella preghiera citata dal cardinale Bertone.

per la richiesta di smembrare l’amministrazione dello Stato, per esempio, o persino il tentativo di «scippare festival del cinema e della letteratura, o gran premi di Formula uno a chi li detiene per tradizione».

Un piano sul quale ovviamente Napolitano si rifiuta di misurarsi. Non gli manca l’occasione però per ricordare che proprio Roma, come disse Cavour, «è la sola città d’Italia che non ha ricordi solo municipalistici». Fino a una dichiarazione che ha un che di solenne: «È mio doveroso

Lasciando per un attimo da parte la Chiesa, ieri c’è stata anche la visita del capo dello Stato in Campidoglio. Nel suo discorso Napolitano ha anche detto: «Rendo omaggio a Roma, più che mai capitale di uno stato democratico che si trasforma restando saldamente stato nazionale unitario». Era forse rivolto...? Certamente alle polemiche degli ultimi giorni innescate dalle dichiarazioni di Bossi. Dichiarazioni peraltro assai bizzarre per uno che tiene così tanto al federalismo. Che intende, professore? L’idea di “spezzettare” le competenze della capitale e di distribuirle in vari luoghi del Paese è quanto di più lontano ci sia dal federalismo. Vorrei ricordare che gli stati federali hanno una sola capitale. Poi ci sono le capitali regionali o dei singoli stati federati. Il solito pretesto leghista per denigrare Roma, insomma? Non posso che sottoscrivere le parole del capo dello Stato...

tuzioni dello Stato repubblicano e della Chiesa», dice appunto Napolitano in Campidoglio, giacché da tali rapporti dovrebbe piuttosto derivare «conforto e sostegno».

Nel suo discorso Alemanno si rivolge in modo più esplicito alla Lega e ai suoi eccessi retorici. Ricorda che «non esiste affatto la Roma ladrona ostinatamente stigmatizzata da alcuni, basta confrontare i dati del gettito fiscale verso lo Stato prodotto dalla nostra città». E poi, sul decreto che ha appena rinnovato la status di Roma capitale, il primo cittadino si affretta a chiarire che non si tratta di un mero contentino per il federalismo strappato ai lumbàrd: «Non si tratta solo di un riconoscimento simbolico ma di uno strumento necessario per equilibrate la dimensione cittadina, la funzione nazionale e la vocazione internazionale dell’Urbe». D’altronde «il patto che fu sottoscritto con la Lega fu molto chiaro e sanciva l’inserimento di Roma capitale nell’impianto complessivo della riforma sul federalismo fiscale: questo atto non può essere violato, se no tutto l’impianto rischia di cadere». A parte le difficoltà che potrebbero esserci con Regione e Provincia per definire le nuove prerogative di Roma, Alemanno si rimette comunque alla rapidità di Calderoli cui spetta il compito di guidare il lavoro per il secondo decreto attuativo: «Roma capitale mette in difficoltà la Lega che deve reagire con polemiche e battute». Può darsi, ma Alemanno pare generoso nel voler minimizzare un conflitto tra due visioni, quella sostanzialmente separatista e l’altra rivolta allo spirito unitario di Napolitano e Bertone, che una giornata come quella di ieri evoca invece in tutta la sua delicatezza.

«Mortificare o disperdere le strutture portanti dello Stato sarebbe fuorviante, e il ruolo di Roma capitale non può essere negato», è la replica del Quirinale ai lumbàrd impegno ed assillo che non vengano ombre da nessuna parte sul patrimonio vitale e indivisibile dell’unità nazionale, di cui è parte integrante il ruolo di Roma capitale». E quindi, nel corso del messaggio rivolto alla prima “assemblea capitolina”, un riferimento ancora più diretto alle polemiche innescate dai leghisti: il ruolo di Roma, dice il presidente della Repubblica, «non può essere negato, contestato o sfilacciato nella prospettiva che si è aperta e sta prendendo corpo, di un’evoluzione più marcatamente autonomista e federalista dello stato italiano». Fino al riferimento al rapporto tra laici e cattolici, evocato già con la“commemorazione congiunta”di Porta Pia, dove Bertone ha letto tra l’altro una preghiera preparata appositamente per la ricorrenza: «Nessuna ombra pesi sull’unità d’Italia che venga dai rapporti tra laici e cattolici, tra isti-


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l’approfondimento

Secondo il grande statista piemontese, solo in questa città così centrale era possibile la sintesi delle culture del Paese

Roma, via Cavour

Centro del mondo; centro della cristianità; luogo della ricomposizione del conflitto tra Stato e Chiesa: ecco perché da 140 anni l’Italia ha una sola capitale «dettata» dalla tradizione. Parlano Francesco Perfetti e Lucio Villari di Riccardo Paradisi oma capitale è come dire l’Italia; perché a Roma, che diventa capitale nel 1870, convergono e s’assimilano le Italie della Penisola, i vizi e le virtù d’una nazione nata tardi come Stato ma che era già patria per essere una koinè linguistica da millenni.

R

Un’unità faticosa sofferta e mai scontata, come dimostrano le polemiche leghiste di questi anni e il consenso che le tesi del Carroccio raccolgono al nord, le spinte autonomiste e isolazioniste che provengono dal meridione del Paese, lo scarso senso delle istituzioni e l’anarchia di fondo diffusa. «Gli italiani – diceva del resto Ennio Flaiano – non sono una razza sono una collezione». Roma capitale dunque, come tentativo di sintesi tra nord e sud, tra le Italie dei mille municipi e campanili ancora e sempre divisi tra guelfi e ghibellini. E siccome è ancora

questa la sfida si spiega perché su questo 140 anniversario della breccia di Porta Pia la presidenza della Repubblica e il Vaticano abbiano investito così tanto in diplomazia e strategia politica. Perché il Colle abbia spinto per dare un tono unitario alle celebrazioni e perché abbia fatto lo stesso il Vaticano. Lo stesso segretario di Stato, il cardinale Tarcisio Bertone, ha spiegato la presenza alle celebrazioni di Porta Pia come «un segnale di distensione», «un evento di riconciliazione tra Stato e Chiesa e di ritrovata concordia tra comunità civile ed ecclesiale», un episodio che «segna anche la ritrovata libertà della Chiesa universale. Dal sacrificio di chi è caduto a Porta Pia è sorta una prospettiva nuova grazie a cui ormai da vari decenni Roma è l’indiscussa capitale dello Stato italiano».

Il presidente Napolitano , davanti all’Assemblea capitolina sottolinea da parte

sua come e perché«Roma sola deve essere la capitale d’Italia». E lo fa citando un discorso di Cavour del 1861, dove il conte piemontese spiegava che «Roma era la sola città d’Italia che non ha ricordi solo municipalistici». Un anniversario speciale, il 140esimo della Breccia di Porta Pia, perché coincide con l’entrata in vigore del primo decreto su Roma capitale e perché per la prima volta un

L’incontro tra nord e sud, tra le Italie dei mille campanili

segretario di Stato Vaticano vi ha preso parte. Sono lontani insomma i tempi del non expedit, di quando il sindaco massone Ernesto Nathan nel 1907 parlava del Vaticano come del «frammento di un sole spento, lanciato nell’ orbita del mondo contemporaneo», «fortilizio del dogma, ultimo disperato sforzo per eternare il regno dell’ ignoranza, il nefando sobillatore della credulità popolare, che dinanzi all’ apparizione di un’ epidemia, appende voti alla Madonna e scanna i sanitari». Lontani anche i tempi di quando Pietro Nenni al neosindaco Giulio Argan che veniva eletto primo cittadino di Roma nel 1976 consigliava di fare come il Papa parlando dal balcone del Campidoglio la domenica mattina. «Questo – dice lo storico Lucio Villari a liberal – è un’anniversario che contribuirà ad unire più che a dividere. Fa piacere che la Chiesa ren-

da omaggio al 20 settembre 1870 con la presenza a Porta Pia del segretario di Stato Vaticano. Certo mi sarei aspettato che Bertone non dicesse solo che da decenni Roma è indiscussa capitale d’italia».

E che cosa avrebbe dovuto dire di più? «Per esempio che con l’entrata dei bersaglieri a Porta Pia è stata portata la libertà politica nello Stato della Chiesa, alla Chiesa è stata data la libertà di aprirsi». Insomma Villari avrebbe voluto anche l’ammissione che «il Risorgimento ha creato le premesse dell’unità degli italiani e della loro libertà». Detto questo era giusto e necessario che fosse Roma la capitale d’Italia: «Perché Roma è piena di una storia universalizzante, non solo per l’antichità classica o per essere sede della cristianità. Crispi – ricorda Villari – diceva che esiste l’universalità


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Promemoria degli eventi che portarono allo strappo “diplomatico” della Breccia

La rottura tra Chiesa e liberalismo che cambiò la storia d’Italia Il conflitto aperto nell’Ottocento tra il Vaticano e le aspirazioni unitarie pesarono sull’Unità che nacque, di fatto, sulla sua incompiutezza di Valentina Meliadò lle 9.30 della mattina di martedì 20 settembre 1870, nell’arco di poche ore, i cannoni dell’esercito italiano aprono un varco nelle mura leonine che circondano il Vaticano, a pochi metri di distanza da una delle porte d’accesso alla città. È la Breccia di Porta Pia, l’annessione di Roma al Regno d’Italia e la fine del potere temporale della Chiesa cattolica. Quando l’ultimo papa re, come lo ha definito Andrea Tornielli, viene avvisato dell’accaduto, Pio IX è nella sua biblioteca assieme ai diplomatici accreditati presso la Santa Sede a ripercorrere con la memoria gli avvenimenti del 1848, e – nient’affatto sorpreso – ordina immediatamente la capitolazione. In realtà il combattimento era durato anche più del previsto a causa della resistenza non strenua, ma comunque attiva, dell’esercito pontificio guidato dal generale Kanzler, il quale – nonostante la direttiva pervenutagli tramite missiva del pontefice il 14 settembre, nella quale si specificava che ci si sarebbe dovuti arrendere ai primi colpi di cannone – pur conscio dell’inevitabile resa ingaggia con l’esercito italiano un breve combattimento che comporta comunque la perdita di vite umane. Il desiderio dei due eserciti di fronteggiarsi è forte: la battaglia, per entrambi gli schieramenti, ha un significato simbolico che va oltre la vittoria o la sconfitta ma è il paradigma dei rapporti tesissimi intercorsi negli ultimi dieci anni tra il neonato Stato italiano e la Santa Sede, e d’altronde, in ballo, da una parte c’era il sogno di Roma capitale del Regno, la legittimazione morale che la storia millenaria della città e ciò che rappresentava erano in grado di dare, e dall’altra la perdita di un potere secolare che la Chiesa riteneva indispensabile alla sua indipendenza e all’azione universale del magistero papale.

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In soli due anni, tra il 1859 e il 1861, in Europa era sorto un nuovo stato e in meno di un decennio Roma era divenuta la sua capitale. Com’era stato possibile? È certamente vero che l’unità d’Italia fu il risultato di un certo numero di fattori esterni a lei favorevoli, ma questi stessi fattori erano figli dei principi e dei valori che si erano diffusi in Europa tra il XVIII e il XIX secolo. La sete di libertà e il desiderio di indipendenza erano il minimo comun denominatore dei liberali, moderati, federalisti, neoguelfi, democratici o repubblicani che fossero, come dei rivoluzionari, ma fu proprio la varietà delle organizzazioni, delle strategie, degli uomini e degli obiettivi da raggiungere a rendere vani i moti ri-

voluzionari e le insurrezioni della prima metà dell’800. La presa di Roma, nell’ambito di questa logica, è irrinunciabile, e il divario tra il liberalismo e la Chiesa non può che ampliarsi.Eppure, solo qualche anno prima, gli eventi avrebbero lasciato presupporre un andamento diverso. Dopo quindici anni di regno di

I combattimenti del 1870 furono duri malgrado l’ordine di arrendersi dato da Pio IX Gregorio XVI, che aveva bollato il liberalismo politico e religioso come un’assurdità ed era talmente refrattario alla modernizzazione da impedire la costruzione di reti ferroviarie nello Stato pontificio, nel 1846 viene eletto Giovanni Maria Mastai Ferretti, Pio IX. Uomo profondamente sincero nella sua devozione religiosa, e sinceramente vicino alle esigenze del suo popolo, nel primo biennio del suo regno attua riforme tali da dare adito alla costruzione del mito del papa liberale. Un mese dopo la sua elezione concede

un’amnistia per i reati politici, riduce le spese di palazzo, gira per la città offrendo il suo personale aiuto ai malati e agli indigenti, non tollera abusi e negligenze, ha un atteggiamento decisamente meno antigiudaico dei suoi predecessori, vuole la modernizzazione dello Stato con la costruzione delle ferrovie e organizza gruppi di studio per la realizzazione di una serie di riforme, tra cui le più importanti realizzate sono la libertà di stampa e l’introduzione dei gruppi politici. Un papa riformatore, dunque, che scontenta non poco le gerarchie ecclesiastiche più conservatrici. Ma nel ’48 il mito del papa liberale frana con il rifiuto del pontefice di muovere guerra all’Austria, nonostante, è giusto ricordarlo, Pio IX non fosse pregiudizialmente contrario alle aspirazioni nazionali dei popoli italiani ed avesse cercato una formula che consentisse la partecipazione alla guerra senza esporsi personalmente. Ma dalla fine di un equivoco all’accusa di tradimento il passo è breve, e a Roma si scatena il caos che porterà il papa, nel novembre 1848, a lasciare segretamente la città per riparare a Gaeta, da cui tornerà solo nel 1850 a seguito della disfatta militare inferta dai francesi alla Repubblica Romana.

Gli sconvolgimenti di quel biennio e l’esilio volontario furono probabilmente tra le cause del ripudio definitivo di quei principi, imputati al liberalismo, che rischiavano di minare dalle fondamenta la legittimazione di quel potere temporale che Pio IX poté esercitare, non senza difficoltà, ancora per venti anni. Non si può dire che in questo lasso di tempo il Papa si sia chiuso in se stesso; le riforme per il miglioramento dello Stato e della vita dei sudditi continuano, e la battaglia contro l’ineluttabilità della Storia si fa sentire forte e chiara attraverso allocuzioni, encicliche e lo stesso Concilio Vaticano I. Quando, però, tutto finisce con la Breccia di Porta Pia, il non expedit, la volontà di far astenere i cattolici dalla vita politica, diventa l’ultimo atto di negazione dello Stato italiano, ma è ciò che permette ai cattolici di concentrarsi sull’azione sociale e che crea i presupposti dell’inserimento nella vita del nuovo Stato, e del consolidamento di un sentimento nazionale di cui i cattolici, successivamente, sapranno dare prova anche in politica con la costituzione di partiti di incontestabile respiro e identità nazionale. Non solo il sentimento religioso, quindi, ma anche un’ampia condivisione dei valori del cattolicesimo alla base dell’azione politica sono stati, e – per molti aspetti – sono ancora, un elemento costitutivo dell’identità nazionale e della sua unione.

dei valori moderni: la scienza, l’arte e la cultura. Perché Roma non può rappresentare queste cose?» Ma allora perché non li rappresenta? O non li rappresenta così bene? È la domanda spiazzante e provocatoria che lo scrittore cattolico Vittorio Messori ha rivolto allo stesso sindaco Gianni Alemanno nel suo intervento in Campidoglio durante la giornata di studi per l’anniversario. Insomma Roma è una città sfregiata anche dal degrado, la cui autorevolezza nel resto d’Italia non è così scontata, che esporta un modello culturale all’Alberto Sordi, autocompiaciuto del proprio modo di essere. Villari però su questo taglia corto: «Non è che a Milano possano darsi tante arie. I guai ce l’hanno anche loro. E a proposito di scandali non è esplosa lì, nella capitale morale, Tangentopoli?» È pur vero che le guide politiche della città sono spesso state carenti. Villari rimprovera per esempio a Veltroni e Rutelli «il rifiuto costante a celebrare gli anniversari di Roma capitale o della repubblica romana di Mazzini. Temevano si potesse offendere il vescovo di Roma. Ci voleva un sindaco di destra per farlo».

E comunque avrà mille difetti Roma ma è qui che l’Italia ha la sua capitale naturale. «Una capitale non nasce per ragioni geografiche, perché Parigi è decentrata per esempio rispetto al resto della Francia. Però nel caso di Roma è miracoloso – come ricordava Cavour – che sia al centro della penisola: una ragione in più per fare di Roma il punto di congiunzione del sud e del nord». Per rendere pacifico anche questo punto forse ci vorranno altri anniversari, intanto, prende atto Francesco Perfetti, possiamo dire avvenuta la riconciliazione tra cultura risorgimentale e cultura cattolica. «Ci si rende finalmente conto che l’idea del Risorgimento nasce nella cultura cattolico liberale. Che la piega anticlericale che ha preso poi il Risorgimento è una deviazione dal suo canale principale, dal pensiero politico e filosofico di Gioberti, di Manzoni, di Rosmini, che è un pensiero compiutamente cattolico, liberale e nazionale insieme. Le sponde del Tevere, per parafrasare Giovanni Spadolini sono diventate più strette». Per quanto riguarda Roma capitale è la stessa Costituzione, ricorda Perfetti, a sancire questo dato: «Ma tanto più lo status di capitale per Roma è necessario in quanto si vara un federalismo fiscale che ha necessità per contrappeso della presenza fisica e simbolica di uno stato centrale e del suo centro».


diario

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Contratti. Dopo Genova e Riva Trigoso, ieri tre lavoratori di Castellammare sono saliti su una gru per manifestare

La Fincantieri in alto mare

La crisi blocca le costruzioni navali. E le proteste s’infiammano ROMA. A Castellammare, Comune, provincia e Regione si rimpallano le responsabilità. Mentre Finmeccanica e Tremonti tacciono. Il problema Fincantieri non sembra ancora aver trovato una via di risoluzione, mentre nelle sedi dell’azienda ex Iri il clima è sempre più teso. Tre operai sono saliti su una gru chiedendo il ritiro del piano industriale 2014, e ci sono rimasti fino all’incontro in Municipio tra le autorità, i sindacalisti, e i vertici, srotolando un grande striscione con scritto «Il cantiere non si tocca, lo difenderemo con la lotta». Intanto le Rappresentanze Sindacali unitarie hanno inviato una lettera ai sindaci dell’area torrese stabiese per sollecitarli a richiedere un nuovo incontro al governatore Caldoro sulla vicenda Fincantieri. Nel documento non mancano riferimenti agli scontri di venerdì scorso tra polizia e operai. «Non è possibile – hanno scritto i rappresentanti sindacali - pensare che la lotta per il lavoro sia un problema di ordine pubblico».

Ieri oltre 300 operai delle aziende dell’indotto che lavorano per l’azienda a Palermo hanno dato il via a un presidio dei cancelli della fabbrica. Davanti allo stabilimento la polizia ha tenuto sotto controllo la protesta scattata dopo le indiscrezioni sul nuovo piano industriale di Fincantieri che dovrebbe prevedere il ridimensionamento dello stabilimento. Gli operai dell’indotto sono impegnati in lavori all’interno della piattaforma della Sai-

sul quotidiano La Repubblica dell’intenzione dell’azienda di chiudere lo stabilimento, hanno occupato la direzione aziendale. «È pazzesco apprendere dalla stampa di una simile decisione - dice Omar Di Tullio della Fim Cisl- un’azienda sana con lavoro per otto o nove anni vara un piano industriale delirante. Questa volta l’hanno fatta davvero grossa e l’amministratore delegato così come il presidente e tutti i più alti in carica devono andarsene a casa». Alcuni lavoratori avrebbero voluto

Oggi a Roma, tutte insieme, le sigle sindacali (per una volta unite) hanno organizzato un incontro per trovare una strategia di lotta pem, che tuttavia ha deciso di trasferire la commessa in un altro stabilimento. «La situazione è grave - dicono i lavoratori - non appena sarà portata via la piattaforma non rimarranno più carichi di lavoro». I lavoratori hanno impedito l’ingresso e l’uscita dei mezzi dalla fabbrica. A Genova gli operai hanno scioperato per due ore, e si sono riuniti in assemblea per protestare contro il ridimensionamento dei cantieri liguri. E anche i lavoratori di Riva Trigoso, scioccati dalla notizia apparsa sabato

re la produzione. Chiameremo a raccolta tutti i politici liguri e tutte le istituzioni. Qui non si tratta di dieci posti di lavoro ma della vita di un intero comprensorio».

di Alessandro D’Amato

uscire all’esterno per effettuare qualche azione clamorosa ma i rappresentanti del sindacato sono riusciti a calmare i più esagitati: «Domani saremo a Roma ed in quella sede chiederemo ragguagli sul piano - dice Sergio Ghio della Fiom-Cgil - fatto da incompetenti quali sono gli attuali dirigenti Fincantieri. Nel cantiere di Riva lavorano a pieno ritmo sia il reparto Meccanica sia quello Navale: dai rimorchiatori ai pattugliatori alle fregate, le maestranze sono specializzate e capaci di diversifica-

Conti a posto, secondo il commissario Ue

Rehn promuove l’Italia BRUXELLES. «Dopo gli avvenimenti di questa primavera, in cui sono stati predisposti meccanismi di sostegno finanziario su scala europea, tutti i paesi stanno prendendo misure rigorose di consolidamento fiscale. Inclusa l’Italia». Lo ha notato il commissario Ue agli Affari monetari, Olli Rehn, spiegando che «l’importante è che l’Italia ora realizzi i suoi programmi di consolidamento fiscale con piena determinazione, e mantenga il rigore fiscale, lo intensifichi, e si dia riforme strutturali in grado di rilanciare la crescita». Inoltre, «l’Italia non rischia alcuna minaccia di contagio di instabilità finanziaria, e sono sicuro che terrà sotto controllo il suo debito pubblico». Quanto alla ripresa economica dell’Europa intera, Rehn ha spiegato che «ha

guadagnato velocità ma le prospettive di crescita nel breve termine sono molto incerte». Il commissario ha aggiunto che «la crescita negli Usa è rallentata e i mercati finanziari sono ancora fragili in Europa. Dovrebbe essere chiaro che non siamo ancora usciti dalle secche». Per una migliore sorveglianza sulle politiche economiche dei membri dell’Ue e sui conti pubblici, poi, secondo Rehn c’è bisogno di regole chiare: «Le sanzioni dovrebbero essere la normale, quasi automatica conseguenza se un Paese infrange le regole e mette a rischio i suoi partner». Di contro, l’Unione europea potrebbe studiare un fondo permanente di salvataggio per i Paesi che dovessero mettere a rischio al stabilità finanziaria; mentre l’attuale schema di aiuti dura tre anni.

Già, l’incontro. Per oggi a Roma è prevista un’iniziativa sulla cantieristica navale organizzata dalle segreterie nazionali di Fiom-Cgil, Fim-Cisl, Uilm-Uil presso il Centro Congressi Frentani, a cui sono state invitati Comuni, Province e Regioni dove ha sede Fincantieri. Poi più nulla, perché la prossima mossa spetta alle aziende. Il ministro del Welfare Maurizio Sacconi, ad esempio, ha fatto sapere ieri di non aver ricevuto «nessuna comunicazione né da Fincantieri né da Alitalia. So che Fincantieri - ha precisato Sacconi - afferma di non aver definito un piano industriale e che, come da mia sollecitazione, ha assicurato che non appena ci sarà non procederà ad atti unilaterali e aprirà un dialogo con le parti sociali e le istituzioni». Secondo il ministro «una indiscrezione di giornale – si riferisce alla chiusura di Riva Trigoso, ndr - non può scatenare un clima conflittuale». Intanto ieri il Partito Democratico ha avanzato tre richieste ai vertici Fincantieri: un nuovo piano di commesse navali pubbliche in Italia, nuove infrastrutture per la cantieristica nazionale e un no deciso ai 2.500 licenziamenti nella Penisola ipotizzati nella bozza del piano aziendale 2010/2014 di Fincantieri in caso di perdurare della crisi. In una conferenza stampa a Genova, alla quale hanno preso parte il responsabile nazionale Politiche del Mare Mario Tullo, il segretario provinciale Victor Rasetto e la senatrice Roberta Pinotti, il partito ha chiesto al governo di rispettare l’accordo del 16 luglio 2009 sulla garanzia occupazionale di Fincantieri in Italia e di soddisfare la necessità della Marina Militare di avere almeno 10 nuove fregate militari dallo stabilimento Fincantieri di Riva Trigoso. Ma quella Fincantieri è soltanto l’ultima delle vertenze sul tavolo del governo, dopo gli esuberi Unicredit, quelli Telecom, i prossimi di Alitalia e la guerra continua di Fiat, tra Pomigliano e Mirafiori. L’autunno marittimo si fa sempre più caldo.


diario

21 settembre 2010 • pagina 7

Il Quirinale revoca l’onorificenza all’imprenditore fallito

Sempre a Messina, due medici ritardano il loro intervento

Calisto Tanzi è «indegno»: non è più un cavaliere

Ennesima lite in sala parto. Grave un neonato

ROMA. Calisto Tanzi non è degno del titolo di Cavaliere del Lavoro. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, accogliendo la proposta del ministero dello Sviluppo economico, ha firmato venerdì scorso il decreto di revoca «per indegnità» della decorazione di Cavaliere al Merito del Lavoro, che era stata conferita all’ex patron della Parmalat il 2 giugno 1984, con decreto firmato dall’allora Capo dello Stato, Sandro Pertini. Dopo le complesse vicende del crac della Parmalat e delle condotte tenute dal fondatore e presidente dell’azienda (per le quali Tanzi è già stato condannato a Milano) il ministero dello Sviluppo economico aveva chiesto di cancellare l’onorificenza ritenendo che sussistessero «le condizioni previste dalla legge per la revoca». Sarà ora lo stesso ministero di via Veneto, come si afferma nel decreto presidenziale, a curare la trascrizione del provvedimento nell’albo dell’ordine, oltre che a farlo pubblicare nella Gazzetta Ufficiale.

MESSINA. Un altro caso terribile di malasanità a Messina, dove già il 26 agosto scorso un parto era stato drammaticamente ritardato da una lite tra i medici al Policlinico. Ieri si è saputo che un caso analogo è capitato una settimana fa all’ospedale “Papardo”. Ieri, un neonato è stato ricoverato in coma farmacalogico nel reparto di terapia intensiva neonatale del Policlinico della città: prima del parto avrebbe avuto luogo una lite tra il primario di ginecologia, Francesco Abate, e il ginecologo Rosario Pino. Le condizioni del piccolo sono in via di miglioramento, come spiega il professor Ignazio Barberi, direttore dell’unità di terapia intensiva neonatale: «Il

Nell’agosto scorso il presidente aveva tolto all’imprenditore anche il cavalierato della Gran Croce. Come si ricorderà, negli anni della sua gestione della Parmalat, Tanzi, pur acco-

L’Italia piange un’altra “vittima di pace” Anche Napolitano ai funerali del tenente Romani di Pietro Salvatori

ROMA. «Combatteva per alimentare la solidarietà e l’amicizia tra i popoli». Queste le parole che sono risuonate dal pulpito, ieri, durante il funerale del tenente Alessandro Romani. «Alessandro in Afghanistan voleva che gli ordigni non spegnessero più i sogni dei bambini, che le donne non fossero più sfigurate e lapidate, che gli uomini non fossero più legati su pali in attesa della morte, dinanzi agli occhi dei figli». L’omelia del celebrante, l’ordinario militare monsignor Vincenzo Pelvi, ha racchiuso la tensione ideale di molti dei nostri militari impegnati al fronte irakeno e afghano. Ad accompagnare l’afflato solidaristico e umanitario, la fierezza del soldato Romani traspariva simbolicamente dalla spada e dalle medaglie adagiate ai piedi della bara. A Santa Maria degli Angeli sono accorse centinaia di persone per tributare l’ultimo saluto al parà. Tra la gente, in prima fila, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, i presidenti di Senato e CaRenato mera, Schifani e Gianfranco Fini e il ministro della Difesa, Ignazio La Russa. Tutte le più alte autorità dello Stato, che per qualche ora hanno lasciato da parte i contrasti istituzionali e le asprezze di una contingenza politica caotica e feroce, per stringersi attorno al feretro del soldato caduto in uno scontro a fuoco lo scorso 17 settembre nella provincia di Herat. Insieme a loro anche il sottosegretario Gianni Letta, i ministri Renato Brunetta e Giorgia Meloni, il governatore del Lazio, Renata Polverini, il presidente della Provincia di Roma, Nicola Zingaretti. Alessandro Romani, della brigata Folgore, era anche un romano verace. Proprio per questo la commozione e il dolore erano quasi percepibili per le strade che hanno fatto da contorno al corteo funebre. Le bandiere a mezz’asta degli uffici pubblici sono stati il segno tangibile del lutto cittadino tramite il quale tutta la capitale si è stretta attorno alla famiglia di Romani. Era «un soldato di Roma, che scelse con tenacia e determi-

nazione di servire la patria in armi e che ben dimostra quello che valgono le nuove generazioni della nostra città». Così lo ha voluto ricordare il sindaco Alemanno. L’amministrazione capitolina ha deciso inoltre di dedicare alla memoria del proprio ufficiale la tre giorni di celebrazioni in corso per festeggiare i 140 di Roma capitale. Il presidente Napolitano ha manifestato ai congiunti del tenente, creato capitano alla memoria, i «sentimenti della sua affettuosa vicinanza e della più sincera partecipazione al loro grande dolore». La famiglia Romani, che ha seguito l’intera cerimonia con compostezza, ha chiesto di non partecipare al lutto attraverso fiori o donazioni, ma con un sms al 45506 dell’Associazione Peter Pan, una onlus romana che si occupa del sostegno a bambini malati di cancro. Un giorno sfortunato per i militari italiani il 17 settembre. Proprio nella stessa data, l’anno scorso, avevano perso la vita altri sei parà della Folgore, sempre nella regione di Herat. Con Romani sale a trenta il numero delle vittime italiane che hanno perso la vita in Afghanistan dal 2001 a oggi. Gli ultimi a tornare a casa dentro una bara sono stati due genieri che nel mese di luglio, sono rimasti vittime di un ordigno che tentavano di disinnescare.

La famiglia ha disposto la donazione delle offerte in margine alla cerimonia a una Onlus che aiuta i bambini malati di cancro

mulando fortune personali assai ingenti, aveva portato al fallimento l’azienda alimentare, coinvolgendo in questa operazione migliaia di risparmiatori ignari che avevano perso tutti i loro soldi. Il caso scandaloso si trascina ormai da anni in ambito giudiziario ma ogni tanto giunge notizia della scoperta da parte degli investigatori - di varie diramazioni del tesoro di Tanzi, ma in realtà il nocciolo delle ricchezze accumulate dall’imprenditore non è ancora stato identificato. La gestione post-fallimento della Parmalat è tornata positiva, ma non per questo i risparmiatori che avevano perso tutto nel fallimento hanno recuperato i propri soldi.

Monsignor Pelvi, oltre alle parole di cordoglio e di stima per il lavoro svolto dalle nostre forze armate, ha indicato anche con risoluzione la strada per uscire dal pantano dell’Afpak e evitare così altre vittime: «Se vogliamo la pace, la costruiremo assicurando a tutti la possibilità di una crescita ragionevole: le ingiustizie prima o poi presentano il conto a tutti». Le poche buone notizie della giornata arrivano dalle condizioni di Elio Rapisarda, il soldato ferito nello scontro a fuoco in cui Romani ha perso la vita: in costante miglioramento, secondo il portavoce dell’ospedale militare del Celio. Attualmente in un struttura sanitaria della Nato a Ramstein, in Germania, Rapisarda verrà rimpatriato nelle prossime 48 ore.

bambino ha avuto una sofferenza post ischemica. Abbiamo proceduto con la ventilazione, l’abbiamo sedato e intubato, ora è in coma farmacologico. Il piccolo ha sofferto perché gli è mancato l’ossigeno ed è andato in asfissia. Al momento le condizioni sono serie ma in netto miglioramento, qualcosa di più preciso si potra dire tra una settimana».

Dopo un colloquio telefonico con il primario, il presidente dell’Ordine dei medici di Messina nega che al ”Papardo” vi sia mai stata una lite tra Abate e Pino. Ma i carabinieri hanno acquisito le cartelle cliniche e stanno cercando di capire se effettivamente ci sia stata una correlazione fra il presunto diverbio sorto tra i medici e il ritardo con cui il bimbo è venuto alla luce. Quattro ore che potrebbero aver determinato una mancata ossigenazione del cervello. Due giorni fa la neomamma, Ivana Rigano, 24 anni, e il marito di 34 anni, Nicola Mangraviti, hanno deciso di presentare una denuncia-querela ai carabinieri. Il diverbio è legato a diversità di vedute sulla scelta tra parto naturale e taglio cesareo per la puerpera, già in avanzata fase di travaglio.


economia

pagina 8 • 21 settembre 2010

Passi indietro. Il governo prova ad accelerare l’approvazione dei decreti sulla fiscalità locale e sul passaggio ai costi standard

Federalismo fotocopia La «grande riforma» fotografa l’esistente. Ma le Regioni già annunciano il loro no di Francesco Pacifico

ROMA. Alle Regioni non piace l’idea di perdere la metà del gettito Iva, che oggi resta sul territorio. In cambio poi di un aumento dell’addizionale Irpef, che davanti ai loro elettori si traduce soltanto in un brutale aumento delle tasse. Spaventa sapere che, come l’Ici, l’Irap possa essere spazzata via senz’alcun risarcimento. Per tutto questo giovedì le Regioni si accingono a bocciare gli ultimi decreti del federalismo fiscale (costi standard per la sanità e autonomia fiscale delle Regioni), quando il governo li illustrerà in seno alla Conferenza Stato-Regioni. Vasco Errani, il giudizio, in parte l’ha anticipato a Roberto Calderoli in un teso confronto alla Festa dell’Unità di Bologna. E se il Popolo viola e i dipietristi hanno fischiato il ministro per la Semplificazione, il leader dei governatori gli ha fatto notare che «non possono essere le Regioni a far pagare ai loro cittadini la demagogia del governo». A dirla tutta il giudizio potrebbe cambiare – o trasformarsi in una bocciatura con riserva – se questo pomeriggio Roberto Calderoli, manderà un messaggio chiaro al mondo delle autonomie. Da lui, ospite del convegno della Fondazione della libertà su “Federalismo fiscale - Un’opportunità per il Paese”, si attendono garanzie sull’emendabilità dei testi, che secondo qualcuno l’esecutivo vorrebbe discutere già al prossimo Consiglio dei ministri. Si rischia uno scontro dai contorni incer-

be riaprire sia la partita dei tagli imposti dalla Finanziaria agli enti locali (4 miliardi e mezzo nel 2011 il conto per i governatori) sia quella sulla proroga per trasferire i fondi regionali verso il monte per la cassa integrazione. Gli ultimi decreti sui quali hanno lavorato all’unisono i ministri Calderoli e Tremonti prevedono, sul versante dell’autonomia impositiva, che le Regioni possano gestire un 3 per cento di Irpef in più (ancora non è chiaro se sotto forma di addizionale o di parte devoluta dallo Stato centrale), in cambio di una decurtazione della quota di Iva mantenuta sul territorio (dal 44,7 al 25 per cento). Eppoi si potrà tagliare l’Irap, se verranno ridotte le altre voci di spesa, a esclusione della sanità. Per quanto riguarda il superamento dei costi storici e la defi-

quozienti finali verranno considerati anche le necessità che gli stessi enti esprimeranno in appositi questionari inviati da Sose e Tesoro, sul modello degli studi di settore. È facile dire che se si applicassero a tutta l’Italia gli standard di spesa della Lombardia, metà del Paese andrebbe in default. Ma a ben guardare non garantisce una reale perequazione neppure allargare il numero dei benchmark. Mettere assieme i conti delle Marche o della Toscana con quelli della Puglia finirebbe paradossalmente per alzare la ripartizione nel fondo sanitario del Pirellone (oggi “congelata” dal patto di stabilità), non certo quella della Campania o della Calabria, che sotto commissariamento sono destinate a dover ridurre la spesa. Eppoi un alleggerimento sic et

Le Regioni non vogliono perdere la metà del gettito Iva raccolto sul loro territorio e temono che ai tagli all’Irap seguano nuove tasse nizione dei nuovi costi standard, è stato deciso che benchmark non saranno soltanto le tre Regioni più virtuose in termini sanitari (Umbria, Marche e Lombardia). Saranno affiancate da altri due enti, uno forse del Sud. Senza dimenticare che nei

simpliciter andrebbe contro il fine primo obiettivo del federalismo: la maggiore trasparenza che ben si traduce nel motto vedopago-voto. Per non par-

prescindibile tentativo di ridurre i costi della spesa sanitaria italiana. Che risentirà anche di una delle popolazioni più vecchie d’Europa, ma che paga soprattutto l’eccessiva ospedalizzazione. E dubbi sorgono anche sul livello di competizione fiscale tra i territori, leva indispensabile per attrarre investimenti. Soprattutto in assenza di un confronto approfondito sui livelli di perequazione. Il governo darà alle Regioni la possibilità di tagliare l’Irap in cambio di tagli alla spesa. Ma fino a quando non fiscalizzeranno le risorse previste per il trasferimento delle materie devolute dalla Bassanini – il quantum per il trasporto pubblico locale o gli incentivi alle imprese – sarà difficile capire cosa va considerato spesa superflua. Più in generale il lavoro del governo finisce per scontrarsi contro due vulnus strutturali nel rapporto tra centro e periferia dello Stato. Innanzitutto la politica non sembra voler intervenire sul perimetro delle competenze scritte nel Titolo V, che alle Regioni dà pieni poteri sulle principale materie, ma non la fa-

lare ti. Che potreb-

del-

l’im-

coltà per recupe-

In alto, il ministro per l’Economia, Giulio Tremonti. A sinistra, il titolare del dicastero per la Semplificazione, Roberto Calderoli. In basso a destra, l’economista Giacomo Vaciago

rare i soldi necessari. E la cosa comporta non pochi problemi in termini di responsabilizzazione di spesa e di definizione delle priorità nazionali. Eppoi ci sarebbe da sanare la contraddizione che è alla base del patto di stabilità interno: definito com’è sulla spesa del 2005, fa sì che indipendentemente da gettito e numero della popolazione, le Regioni del Nord abbiano la facoltà di impegnare il 90 per cento della spesa di competenza, mentre quelle del Sud soltanto il 75 per cento. Con la conseguenza che queste o tagliano l’assistenza oppure aumentano l’indebitamento. E guai a non rispettare i piani di rientro, perché perderebbero tutti i cofinanziamenti.

Domani le Regioni inizieranno a formulare le loro controproposte ai decreti su costi standard e autonomia impositiva. E a peggiorare il clima anche la volontà del governo di reinserire i paletti alla ricandidabilità degli amministratori pochi virtuosi, già presenti nel Codice delle autonomie. «È una vecchia ipotesi», l’ha bollata la governatrice del Lazio, Renata Polverini. Quel che è certo è che saranno non poche la accuse di demagogia all’indirizzo del governo. Non piace lo scambio tra un pezzo di Irpef per uno di Iva. E si farà pressione per mantenere sul territorio


economia

21 settembre 2010 • pagina 9

Il professore della Cattolica attacca: «Troppa fretta, poco metodo»

«È un’utopia, a rischio un milione di lavoratori» Giacomo Vaciago boccia già il decreto in arrivo. «Impossibile fissare dei valori standard a tavolino». di Francesco Lo Dico

ROMA. «Un progetto utopistico». Giacomo Va-

almeno il 33 per cento del gettito complessivo. Mentre spaventa il taglio dell’Irap, perché con i suoi 40 miliardi complessivi finanzia in larga parte i 106 miliardi del fondo sanitario nazionale. Dalle colonne del Sole 24ore, il presidente dell’Alta Commissione per il federalismo fiscale, Luca Antonini, fa sapere che le Regioni potranno tagliare il balzello soltanto in presenza di riduzione della spesa. Ma per i governatori c’è il rischio di ottenere l’effetto contrario: di introdurre nuove

mette in luce le difficoltà create agli locali dalla Finanziaria di Tremonti, il calderoliano Davide Boni, presidente del Consiglio regionale lombardo, attacca Formigoni per le stesse critiche lanciate al governo. Il ministro dell’Economia, capendo il clima, ha promesso giovedì scorso a sindaci e governatori di rivedere i tagli della manovra. «Non essendoci scadenze di finanze pubbliche alle porte», ha dato la sua disponibilità a cercare i fondi necessari. Tanto che in Conferen-

Errani: i cittadini non possono pagare per la demagogia di Palazzo Chigi. In Lombardia Formigoni deve azzerare i fondi per la famiglia tasse. Le parti poi sono distanti anche sulle gestione del bollo auto, con le Regioni che cederanno alle province la parte riferita a camion e motoveicoli. Ma i governatori rivendicano la definizione delle regole per devolvere i tributi tra i livelli di governo territoriale.

Da Palazzo Chigi avrebbero dato mandato a Tremonti e a Calderoli di evitare lo scontro con gli enti locali. E non soltanto perché siamo in una fase di crisi politica non aperta ufficialmente ma dagli esiti incerti. Abbassare i toni sarebbe anche l’imperativo di Umberto Bossi, che registra nel suo movimento – almeno a livello locale – non poche tensioni: se il maroniano sindaco di Varese, e vicepresidente dell’Anci, Attilio Fontana

za delle Regioni si guarda a quel miliardo promesso da Bossi qualche mese fa per allentare i vincoli del patto di stabilità agli enti virtuosi. Se Tremonti si mostrerà meno rigido, il governo otterrà dalle Regioni una proroga per usare anche quest’anno i fondi di coesione europea per la cassa integrazione straordinaria. Ipotesi che i governatori hanno legato allo sblocco dei Fas spalmati sui Por 2007-2013. In caso contrario si andrà allo scontro. E per Berlusconi – che già a Roma fa fatica a respingere le accuse dei finiani – sarà difficile replicare a Roberto Formigoni, che a Milano si accinge a ridurre da 145 a 25 milioni i fondi regionali per la famiglia e da 200 a 3 milioni quella per la casa.

ciago, docente di Politica economica e Economia monetaria all’università Cattolica di Milano, boccia senza esitazione i nuovi decreti sul federalismo fiscale che saranno discussi giovedì mattina dai governatori alla Conferenza delle regioni. «Vorrei capire – si chiede il professore – quale esagitato ottimismo possa spingere a credere di definire dei costi standard comuni a tutte le latitudini del Paese: il Governo ha avuto a disposizione 149 anni, ma non mi pare che in tale senso siano mai stati prodotti risultati di qualche rilievo. E che il federalismo possa riuscirci mi pare abbastanza improbabile». Professore, sono in molti a temere che il modello dei costi standard possa acuire il divario delle prestazioni. In primis quelle sanitarie. Anche lei nel club delle Cassandre? Il punto di partenza del federalismo è ottimo: garantire risorse adeguate ai costi reali e premiare la virtù di gestione onde evitare sprechi. Difficile essere in disaccordo. Il fatto è che però non ci si schioda dall’intento iniziale. Si fissa il punto di partenza, senza disegnare il giusto percorso che conduca all’arrivo. Sta parlando di programmazione, mi pare di capire. Di programmazione, certo, ma anche di un autentico labirinto burocratico. Delineare dei costi standard è possibile se si prendono in considerazione grandi aggregati. Ma come si può pretendere anche solo di immaginare che si possano catalogare un’infinità di elementi base, che dalla otturazione di un dente arrivano fino al costo di una comune biro? Si tratta di un lavoro immane. Per la classificazione dei piccoli aggregati servirebbero 182mila pagine, roba da far perdere la testa anche agli amanuensi dei tempi d’oro. Eppure tutti garantiscono che il federalismo è pronto in tavola. Impresa ardua. Come si fa a determinare la qualità dei capitali umani, a conteggiare le rilevanti differenze di competenze e strutture sulle quali calibrare l’erogazione dei fondi? Trasformare l’assenteismo, l’inefficienza e la sbadataggine in elementi algebrici è un’operazione di alta ingegneria sociale. I divari di prestazione sono lì da un secolo e mezzo, e non credo basteranno un paio di decreti a fare piazza pulita. Ma di questo, sono sicuro che abbia contezza anche Tremonti. Il ministro non è mai apparso troppo scettico, in proposito. I costi medi sono una chimera teorica del Tre-

monti accademico, ma il Tremonti politico non può mentire a se stesso. Sa benissimo che i costi standard, in un Paese come l’Italia, non possono essere stabiliti con lavagna e gessetto. Lavagna e gessetto. Torneranno molto utili tra qualche tempo, visto che l’80 per cento delle spese burocratiche è dovuto al pagamento del personale. In nome della virtù, è possibile immaginare una bella ondata di licenziamenti. Ammesso che i costi medi possano essere fissati, imporre efficienza alle Regioni significa proprio questo: alti costi sociali, e un milione di italiani lasciati per strada come una zavorra. Che cosa ne facciamo di quanti verranno considerati superflui, di tutti gli stipendiati che fanno sforare il budget e rovinano la condotta virtuosa delle singole Regioni? Li mandiamo in Romania in stile Sarkozy? Dei costi sociali dell’operazione non parlano in molti. Ma perché l’Italia è l’unico Paese al mondo dove dici “efficienza” e traduci “licenziamento”? Questo federalismo è la riprova della filosofia di cui ha fatto mostra in molte occasioni questo governo. L’esecutivo ritiene troppo spesso che per decidere qualcosa basti scrivere una legge. La legge consente, ma se poi non si mettono a punto i meccanismi per realizzarla, questa rimane soltanto una noterella scritta sulla Gazzetta ufficiale. Questo federalismo fiscale resta una scatola vuota piena di promesse. Ma per realizzare davvero ciò che lo ispira occorrerebbero vent’anni: si tratterebbe di aumentare la produzione, di far crescere i redditi, di elevare la qualità del capitale umano. Non basta un decreto attuativo scritto in venti minuti per cambiare un Paese che resta immutato da 150 anni. E d’altra parte, i governatori del Sud chiedono maggiori perequazioni. Proprio così. Le perequazioni sono al momento necessarie. Non si può voltare pagina all’improvviso. Per colmare il divario tra Nord e Sud occorerebbe sapere da dove parte il treno, costruire i binari per farlo viaggiare, e sapere qual è la destinazione. Invece siamo in presenza di un disegno confuso appuntato su un foglio, che non elabora soluzioni capaci di colmare queste differenze qualitative. La convince il federalismo in salsa municipale di cui parla il ministro Tremonti? Le faccio io una domanda. Riesce a immaginare che paesini di 61 abitanti abbiano autonomia fiscale e tributaria? A me, francamente, scappa da ridere.

I costi medi sono una chimera del Tremonti accademico, ma il politico non può mentire: gesso e lavagna non sono sufficienti


panorama

pagina 10 • 21 settembre 2010

ragioni&torti di Giancristiano Desiderio

Quando il burqa infiamma solo la televisione utto è bene quel che finisce bene, e l’ultima chiuda la porta, diceva lo slogan di quel simpaticone di Nick Carter (chissà se ve lo ricordate?). E tutto sembra esser finito per il meglio in quel di Sonnino, ridente paesino della provincia di Latina che ultimamente aveva perso un po’ il sorriso e un po’ la sua tranquillità perché una donna maghrebina per accompagnare il figlioletto si recava a scuola con il burqa spaventando così gli altri bimbi e provocando la preoccupazione delle altre mamme. Tutto, però, sembra esser finito per il meglio con un ragionevole compromesso: la signora maghrebina per entrare a scuola mostrerà il suo volto come è uso e costume delle altre mamme italiane. L’episodio aveva provocato titoli a nove colonne, servizi televisivi, dibattiti della domenica fatti apposta per sollevare il “caso”, scaldare gli animi e confondere ancor più le idee. Facendo invece ricorso alla ragionevolezza e al civile buon senso tutto si è risolto con un compromesso che salvaguarda tanto la sicurezza quanto la libertà.

T

Se anche Confindustria molla Berlusconi Critiche al governo nell’ultimo rapporto del Centro studi di Mario Seminerio

La vicenda di Sonnino, anche se è un fatto minore, dovrebbe insegnarci almeno una cosa: che l’incontro tra diverse culture e abitudini, nonché i relativi problemi di vita quotidiana che ne derivano, è possibile se si mettono da parte pretesti, ideologismi e astrattezze e si guardano le cose reali nella loro concretezza. Il più delle volte gli scontri di idee e di culture, che pur hanno alla base conflitti reali di diversi e opposti valori, risultano lontani da una possibile soluzione perché si cerca più l’astratta polemica che la possibile soluzione. I dibattiti televisivi, in modo particolare, sembrano fatti apposta - e, anzi, sono fatti proprio con questa palese volontà - per esacerbare gli animi, per accendere le passioni, estremizzare le ragioni piuttosto che favorire la ragionevolezza. In televisione il litigio viene molto meglio della comprensione. Il tema dell’incontro e dello scontro tra diverse fedi, culture e religioni, poi, è trattato oscillando tra due estremi: o la totale tolleranza per qualsivoglia posizione oppure la chiusura verso gli “infedeli” o gli “altri” che non appartengono a noi. Tuttavia, si tratta di posizioni astratte che il più delle volte hanno cittadinanza solo nei programmi televisivi e nei canovacci che gli autori buttano giù per la scaletta e l’audience. Nella realtà dei fatti, invece, le cose sono più sfumate, più grigie e meno, molto meno divisibili in bianche e nere. Soprattutto è dai fatti concreti che occorre partire se si vuole raggiungere la possibile convivenza civile. Su questo terreno fondamentale è la cultura del compromesso. Purtroppo, la parola “compromesso” è considerata una brutta parola, come se fosse qualcosa di compromettente. Il compromesso, invece, è la possibilità di vivere insieme coltivando valori diversi senza azzannarsi o ammazzarsi per astratti furori. Il compromesso però è antitelevisivo: come la verità e la morale.

l rapporto autunnale sullo stato della congiuntura, redatto dal Centro Studi Confindustria (Csc), conferma quanto già previsto nelle ultime settimane dai modelli macroeconomici di un po’ tutte le organizzazioni internazionali: la congiuntura dei paesi sviluppati sembra nuovamente perdere slancio. Si discute circa il fatto che si tratti di una semplice decelerazione, del tutto fisiologica dopo la prima parte di una ripresa, oppure di una ricaduta in condizioni recessive, che si sostanziano (giova ricordarlo) non tanto in una contrazione del Pil quanto in un suo tasso di crescita inferiore al potenziale, che mette pressione al rialzo al tasso di disoccupazione. Come in effetti prevede il centro studi di Viale Dell’Astronomia, che ipotizza una risalita a fine 2011 al livello del 9,3 per cento. Nel 2011 la crescita italiana è rivista al ribasso, da 1,6 ad 1,3 per cento, mentre il 2010 si chiuderà con una perdita di occupazione, rispetto al 2008, di 480.000 unità, ed un ricorso alla cassa integrazione ancora molto sostenuto. È opportuno ricordare che il tasso di disoccupazione italiana, apparentemente inferiore alla media Ue, è artificialmente compresso sia da un tasso di partecipazione alla forza lavoro storicamente basso (anche a causa della rilevante presenza dell’economia informale e sommersa, di cui parleremo tra poco), sia dal forte ricorso ad ammortizzatori quali la cassa integrazione in deroga, che rischiano di occultare situazioni aziendali non più recuperabili. Per il Csc, con questo passo di crescita, il vuoto di attività causato dalla crisi sarà colmato solo nel 2013.

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ci abbia insegnato, soprattutto durante la direzione di Luca Paolazzi. Colpisce, in particolare, il riferimento alla «brusca accelerazione» del sommerso nel 2009, che il Csc oggi stima «su valori molto superiori ai 125 miliardi stimati» dallo stesso Csc lo scorso giugno. Questo pare essere il principale punto “politico” dell’analisi, poiché da esso discende una revisione della pressione fiscale «ben al di sopra del 54%» del 2009, e del 43,2% della pressione apparente contenuta nei documenti ufficiali.

È piuttosto fisiologico che, durante una recessione, una parte dell’attività economica tenda a spostarsi nel sommerso e nell’informale: il problema è l’entità di questo spostamento e soprattutto la sua reversibilità al momento del consolidarsi della ripresa. Davvero sorprendente è poi un passaggio del rapporto, parole che sembrano scritte da Romano Prodi o Vincenzo Visco: «È probabile che la recente espansione del sommerso sia stata determinata anche dall’abolizione nel 2008 di buona parte delle norme antievasione introdotte negli anni precedenti». Indipendentemente dall’efficacia delle norme abrogate, per Confindustria tali norme avevano «accresciuto la percezione di un inasprimento della lotta all’evasione e quindi aumentato la compliance spontanea». Confindustria esprime in tal modo una crescente insofferenza, al limite della rottura, per l’assenza di un interlocutore di politica economica, ma anche per l’assenza di riforme strutturali, dopo oltre un biennio trascorso ad assecondare gli annunci “epocali”dell’esecutivo, mentre il paese resta inchiodato ad una crescita del tutto insufficiente, che sfocia in stagnazione. Emma Marcegaglia sembra quindi aver rotto gli indugi ed essere in procinto di abbandonare il governo al proprio destino. Nulla è irrecuperabile, anche considerando che simili dialettiche sono più l’eccezione che la regola, ma questa volta pare essere stato compiuto un passo verso il punto di non-ritorno. Da questo momento occorrerà verificare quanta parte della posizione di Confindustria esprime una tensione riformatrice genuina, non limitandosi a chiedere ed ottenere alcune limitate e frammentarie concessioni, come già accaduto nel recente passato. Per il “governo del fare” è comunque un brutto rovescio.

La drastica espansione del sommerso attribuita all’abolizione, nel 2008, delle norme antievasione

L’Italia appare sempre più una “piccola Germania”, ma non si tratta di una considerazione confortante: significa che la nostra economia dipende in misura crescente dall’export, che innesca alcuni spunti positivi dal versante degli investimenti, mentre i consumi delle famiglie continuano a languire, “penalizzati da reddito disponibile e lavoro difficile”. Non esattamente una novità. Sarebbe piuttosto ingenuo pensare che il messaggio proveniente dal Centro Studi di Confindustria possa limitarsi a considerazioni asetticamente accademiche. Il tono usato in questo rapporto appare infatti assai meno ottimista di quanto la tradizione


panorama

21 settembre 2010 • pagina 11

Anche sugli scandali della pedofilia del clero, è stato decisivo l’atteggiamento di “confessione” venuto da Benedetto XVI

Il nazismo visto dal Papa tedesco Sobrio ma schietto, il pontefice ha saputo affrontare bene temi delicati e spinosi di Luigi Accattoli ra già capitato ai polacchi di commuoversi per il Papa tedesco che si inginocchiava ad Auschwitz ed è toccata in questi giorni ai britannici l’emozione di ascoltare quello stesso Papa che li ringraziava per la loro lotta al nazismo. Lo ha fatto due volte lungo la visita durata quattro giorni ed è stato quello, forse, l’elemento sorpresa per gli ospiti così esigenti che Benedetto XVI era andato a incontrare a casa loro. Il sistema cattolico, con la risorsa unica di cui dispone, di rappresentarsi in una sola persona, gode della possibilità di far nuovi gesti e parole ogni volta che affida il proprio messaggio a un nuovo “successore di Pietro” e anche - per qualche aspetto non secondario - ogni volta che quel “successore”lo va a scegliere in un nuovo Paese ed egli visita popoli segnati da una particolare memoria nei confronti della sua origine nazionale. L’origine tedesca di Papa Benedetto poteva costituire una difficoltà per la riuscita della missione in Gran Bretagna e non lo è stato, come difficoltà non sono venute dallo scandalo della pedofilia del clero e per ambedue questi aspetti è stato decisivo l’atteggiamento di “confessione”venuto dall’ospite. Egli è stato schietto sullo scandalo, parlandone già in aereo e poi due volte nei giorni della visita e se ne è assunto il carico - come di una croce - ricevendo cinque persone che ne furono “vittime”. Analoga-

E

mente ha evocato la sua provenienza dal Paese che perseguì la distruzione della Gran Bretagna e che l’avrebbe attuata se ne avesse avuto la possibilità. Un sobrio accenno al nazismo - e ai meriti della Gran Bretagna nel combatterlo - Benedetto lo ha fatto fin dal primo giorno, rispondendo a Edimburgo al saluto della Regina Elisabetta, quando ha ricordato «come la Gran Bretagna e i suoi capi si opposero a una tirannia nazista che aveva in animo di

sradicare Dio dalla società e negava a molti la nostra comune umanità, specialmente agli ebrei, che venivano considerati non degni di vivere». Più intenso e personale è stato il secondo riferimento, arrivato l’altro ieri, in un saluto improvvisato all’inizio delle celebrazione di Birmingham - durante la quale ha proclamato beato il cardinale Newman - che veniva a coincidere con la commemorazione ufficiale del 70° anniversario della Battle of England: «Per me, che ho vissuto e sofferto lungo i tenebrosi giorni del regime nazista in Germania, è profondamente commovente essere qui con voi in tale occasione, e ricordare quanti dei vostri concittadini hanno sacrificato la propria vita, resistendo coraggiosamente alle forze di quella ideologia maligna».

Sono stati 600mila i britannici usciti per salutarlo negli spostamenti e per ascoltarlo nei diversi incontri

La scorsa settimana su queste pagine avevo previsto la buon accoglienza dei britannici al Papa tedesco e tra le ragioni ponevo quell’attitudine di“assoluta sincerità” - parole sue - che aveva fatto propria fin dalla conversazione in aereo con i giornalisti. Le proteste in verità non sono mancate e forse i diecimila che hanno manifestato al motto No Pope sabato per le vie di Londra costituiscono la contestazione più numerosa che un Papa abbia subito in un viaggio, ma non sono mancate le folle e c’è stata una viva risonanza del mes-

saggio papale nei media e nei diretti interlocutori. Si stima che nell’insieme dei quattro giorni siano stati seicentomila i britannici che si sono mossi da casa per salutarlo negli spostamenti e per ascoltarlo nei diversi appuntamenti. Alla messa di Glasgow, alla veglia a Hyde Park e alla messa di Birmingham le folle sono state stimate sui settantamila, centomila e ottantamila. E si è trattato di ottime “assemblee” - a detta di tutti gli osservatori - per ascolto e partecipazione. L’incontro con le vittime degli abusi sessuali del clero, avvenuto sabato, ha ottenuto lo stesso effetto convincente e liberante che si era registrato con i precedenti di Washington (aprile 2008), Sidney (luglio 2008), Roma (aprile 2009) e Malta (aprile 2010). Su queste buone premesse va poi registrata la buona accoglienza che ha avuto l’appello papale perché la società britannica «non lasci oscurare il fondamento cristiano che sta alla base delle sue libertà». Di quell’ascolto possiamo prendere a testimone il premier Cameron che salutando il Papa in partenza per Roma, domenica sera, ha pronunciato queste parole impegnative all’aeroporto di Birmingham: «La fede fa parte del tessuto del nostro Paese». Il premier ha pure ringraziato l’ospite per il suo esigente messaggio: «Tutto il Regno Unito è stato invitato e sfidato da lei a fermarsi e a pensare». www.luigiaccattoli.it

Movimenti. L’uscita di Veltroni ieri è stata criticata dall’ex fedelissimo Franceschini

Il gioco dell’oca delle correnti Pd di Marco Palombi

ROMA. Una premessa: non sta succedendo nulla, non ci saranno scissioni, né gruppi autonomi sul modello finiano, né papi stranieri. Si parla del Pd, dentro il quale l’unica cosa che accade è il riposizionamento continuo di mutevoli gruppuscoli interni, convinti dall’epopea finiana che presto ci sarà da battagliare per peso specifico e poteri relativi (tradotto: posti in lista). Niente di male, una linea politica ha bisogno dei numeri per avere forza, solo che ormai i capetti democrats sembrano solo aver bisogno che il partito sia debole quanto loro. Come si ricorderà, Walter Veltroni ha di recente promosso un documento di critica alla gestione Bersani, soprattutto per quanto riguarda l’addio alla cosiddetta “vocazione maggioritaria” del partito. L’hanno firmato in 75: i veltroniani, gli ex popolari vicini a Fioroni e qualche cane sciolto già rutelliano. Questa eterogenea congerie fa tutta riferimento ad Area democratica, 146 parlamentari, l’associazione di chi sostenne Franceschini (che ora sta con Bersani) al congresso.Tutta questa vicenda non ha portato bene all’ex sindaco di Roma: s’è ritrovato con un quarto dei gruppi parlamentari

(gruppi che aveva in larga parte fatto eleggere lui), snobbato quando non apertamente criticato dalla stampa, abbandonato pure dall’influente partito di Repubblica. Ora Veltroni è tentato dal passo indietro, dalla tregua mascherata da dibattito negli organi di partito, ma è rimasto ostaggio di Fioroni. L’ex ministro dell’Istruzione non ha ambizioni da leader e, dall’alto dei 35 ex

Tutti i «piccoli» leader vogliono contare di più. Anche in vista di possibili elezioni (e quindi di possibili liste per accedere al Parlamento rinnovato) Ppi che si tira dietro, tratta con gli altri leader di tradizione Dc. Stasera, per dire, ci dovrebbe essere una riunione dei popolari convocata da Castagnetti e Marini: una novantina di onorevoli dei quali meno di un terzo (Letta, Bindi) stanno con Bersani, 63 in Area democratica. Fioroni pretende, per concedere la sua presenza, che alla riunione non vengano invitati i reprobi vicini al segretario.

Non è finita. Domani sera è prevista un’assemblea proprio di Area democratica: Franceschini e Fassino spiegheranno la loro linea di sostegno a Bersani o forse gli altri spiegheranno perché non vogliono sostenere il segretario, chissà. «L’errore di Veltroni? - ha scandito ieri il capogruppo alla Camera – Quel documento ci ha collegati alla crisi del centrodestra» e innescato un «dibattito autolesionista». Tutto questo roboante nulla anticipa la direzione del partito in programma per giovedì. Cosa succederà? Assolutamente nulla: Veltroni s’è accorto che il voto non è alle viste e se la giocherà sui tempi lunghi. D’altronde non sa chi è il Papa straniero e non ha idea di come farlo diventare candidato del Pd contro quella parte dello statuto che volle con tutte le sue forze: il candidato premier è il segretario del partito.


il paginone

pagina 12 • 21 settembre 2010

Entrambi di famiglia ebrea, scontarono per anni il carcere sotto il regime fascist

Il Pensiero, la Antifascisti, partigiani, giellini (e poi azionisti), costituenti: a un secolo dalla loro nascita, due convegni ricordano Vittorio Foa e Leo Valiani di Gabriella Mecucci

ono due padri della Repubblica. Con alcuni punti in comune e tante differenze: vite difficili, ma straordinarie. Proprio in questa settimana due convegni riproporranno la loro personalità e il loro pensiero: si tratta di Leo Valiani e Vittorio Foa. Entrambi di famiglia ebrea: il primo era imparentato alla lontana con Theodor Herzl, fondatore del sionismo; il secondo aveva un nonno rabbino capo della sinagoga di Torino. Entrambi antifascisti, hanno scontato il carcere per anni e anni. Entrambi partigiani, giellini e poi azionisti. Entrambi costituenti. Entrambi intellettuali, giornalisti, saggisti. I parallelismi non sono pochi ma finiscono qui. Oggi Leo Valiani avrebbe 101 anni e Vittorio Foa 100: eppure molte delle cose da loro scritte conservano freschezza ed attualità. Del resto hanno continuato a pensare, a battagliare, a produrre sino alla fine, aiutati da una vita lunga e prodiga di riconoscimenti.

S

Leo Weiczen nacque a Fiume, allora ungherese, nel 1909, da una famiglia ebrea di lingua tedesca. Dieci anni dopo assistette alla presa della città per mano di Gabriela D’Annunzio. È figlio della grande cultura mittleuropea di quel periodo, ma giovanissimo arriva in Italia. Una persona-

lità inquieta la sua che si ribella da subito alla dittatura fascista. Il regime non perdona. Nel ’28 lo spedisce al confino a Ponza. Poi lo condanna a sei anni di carcere. Sino al 1936, quando esce. E subito dopo partecipa alla guerra di Spagna dove si consuma la sconfitta della Repubblica e la vittoria di Francisco Franco. Si rifugia a Parigi e qui inizia un percorso simile a quello di un suo grande contemporaneo e grande amico: Arthur Koestler.

Valiani milita nel Pci, ma il suo rapporto col partito comunista, con quell’ideologia e con l’Unione Sovietica è vicino alla fine: se ne andrà però solo quando viene siglato il patto Ribbentrop- Molotov. Valiani fini-

un luogo per vivere: eccettuata l’Inghilterra, rischiava ovunque prigionia e morte. Al Vernet Valiani incontra Arthur Koestler. I due diventano grandi amici e il grande scrittore e giornalista farà di lui proprio nella Schiuma della terra un bellissimo ritratto, chiamandolo Mario. «Avevi diciannove anni quando ti misero in prigione - scrive - ventotto quando ti fecero uscire. Ti permisero due anni di libertà e tu spendesti questi due anni impagabili in cui era compresa la tua gioventù lavorando dodici ore al giorno all’ufficio del giornale degli emigrati italiani e altre quattro ore scrivendo una storia delle rivoluzioni del 1848. E quando i due anni furono finiti e vennero a riprenderti, stracciarono il manoscritto sotto i tuoi oc-

Foa non fu mai comunista, ma nella sua lunga vita non mancarono certo posizioni politiche radicali: sia nella veste di sindacalista sia in quella politica e intellettuale sce nel campo di concentramento di Vernet in quanto italiano e in quanto comunista, inviso alla Francia che ce lo ha rinchiuso, perseguitato dai fascisti e dai nazisti, odiato mortalmente dai comunisti che lo bollano come traditore. Fa parte di quella Schiuma della terra di cui racconterà Koestler nello splendido libro che porta proprio questo titolo. In quegli anni in Europa un uomo libero non trovava

chi e sotto i tuoi occhi insultarono la donna con la quale vivevi e che da te attendeva un figlio. Il bambino nacque mentre eravamo ancora a Parigi, ma tu non avesti il permesso di vederlo; fu battezzato Rolando a ricordo del recinto di filo spinato sotto il segno del quale egli venne al mondo... Questo genere d’esperienza o distrugge un uomo o produce qualcosa di raro e di perfetto – e Mario appar-


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21 settembre 2010 • pagina 13

ta. Oggi avrebbero 100 e 101 anni, ma molti dei loro scritti conservano freschezza e attualità

a Patria, l’Azione dito e non ha mai cercato di scaricarla su altri. Ha sempre detto che fu fu un deliberato del Cln Alta Italia. Condannò invece la «macabra e vergognosa» esposizione di Piazzale Loreto che Ferruccio Parri aveva definito «macelleria messicana». Fu azionista e costituente. Chiuse, come molti, con la politica attiva proprio quando quel partito si sciolse. Tornò al giornalismo, alla scrittura di saggi storici, alla riflessione politologica da cui lo strappò nel 1980 il suo vecchio amico Sandro Pertini che lo nominò senatore a vita. E – ormai anziano – fu persino in predicato per diventare Presidente della Repubblica.

teneva a quest’ultima categoria». Leo Valiani, “rinnegato” il comunismo, aderisce a “Giustizia e Libertà”. Nel 1943 si arruola come agente segreto di Sua Maestà britannica. Partecipa alla Resistenza e il suo diario di quegli anni difficili, pericolosi e avventurosi è stato pubblicato col titolo Tutte le strade portano a Roma. È un libro avvincente e pieno di pacata ironia. E soprattutto traspare da quelle pagine una serenità e una equanimità di giudizio straordinarie. Scrive nella postfazione: «Lo spirito soffia dove vuole. Ha soffiato per qualche anno in Italia e nel mondo intero sugli antifascisti di tutte le tendenze, ma ciò non vuol dire che i fascisti non siano stati toccati dalla sua brezza. C’erano dei cristiani anche fra loro, così come c’erano dei pagani fra noi. Cristianità e paganesimo sono in fondo nell’animo di ciascuno. Se in questo diario si cita la nobiltà dei primi e quasi mai quella dei secondi, ciò è dovuto al fatto che chi l’ha scritto ha vissuto fra i primi e non fra i secondi».

Capace di riconoscere il valore del nemico, era però anche inflessibile: insieme a Sandro Pertini, Emilio Sereni e Luigi Longo decretò la condanna a morte di Benito Mussolini. Per anni gli è stato richiesto di criticare quella decisione, di dire chi la prese davvero, cercando di fargli negare quella scelta. Ma lui l’ha sempre riba-

Leo Valiani avrebbe potuto essere un grande intellettuale cosmopolita come Koestler. Ma preferì l’Italia: a lei si dedicò con passione e rigore. E nel centocinquantesimo dell’Unità è più che mai opportuno ricordare questo intellettuale amante di Beccaria, di Cattaneo e di Mazzini. Del resto il convegno che si terrà su di lui il 24 settembre affronterà il tema del federalismo: una parte importante degli azionisti e Valiani in particolare lo misero al centro della loro riflessione. Bossi avrebbe parecchie cose da imparare da quell’approccio basato prima di tutto sull’unità nazionale. Di Vittorio Foa si parlerà oggi in un convegno alla Camera a cui parteciperanno le più alte cariche dello Stato. Se fosse ancora vivo avrebbe 100 anni e ne sono passati solo due dalla sua morte. La sua è stata una personalità multiforme: sindacalista, politico, intellettuale e anche scrittore di qualità. Non a caso uno dei relatori della giornata in suo ricordo è Ernesto Ferrero. Antifascista, arrestato nell’ambito della “retata” torinese ai danni di Giustizia e Libertà, passò in carcere quasi nove anni. In cella ritrovò personaggi come Ernesto Rossi e Riccardo Bauer che erano dei veri e propri miti per la generazione più giovane di giellini. I compagni di galera discutevano, bisticciavano su Benedetto Croce (Foa lo difendeva, Rossi lo criticava) e riuscivano persino a scherzare, a prendersi in giro. Su quegli anni durissimi Vittorio pubblicò un bellissimo libro, Lettere dalla giovinezza. Nella prefazione scriveva: «“Paiono traversie e sono opportunità”: questo pensiero di Vico ha accompagnato un lungo pezzo della mia giovinezza. L’ho in qualche modo adottato come senso della vicenda raccontata in queste lettere: il travaglio, le privazioni,la sofferenza del presente erano proiettati nel futuro, non erano un patimento da sopportare stoicamente o religiosamente, erano delle possibilità e quindi delle scelte. Con quel pensiero nella testa mi sentivo come pacificato con me stesso, mi sembrava di

Il centenario di Foa alle 11 a Montecitorio La Fondazione della Camera dei deputati, in occasione del centenario della nascita, promuove una giornata di studio su Vittorio Foa sindacalista, politico, scrittore. L’iniziativa avrà luogo oggi alle ore 11 alla Sala della Lupa di Montecitorio. All’introduzione del presidente della Fondazione, Fausto Bertinotti. Seguiranno le relazioni di Guglielmo Epifani, Pietro Marcenaro ed Ernesto Ferrero. I lavori proseguiranno alle ore 16 alla Sala del Mappamondo con gli interventi di Iginio Ariemma, Luigi Ferrajoli, Federica Montevecchi e Andrea Ricciardi, e con le testimonianze di Giancarlo Bosetti, Anna Foa, Carlo Ghezzi, Elio Giovannini, Guglielmo Ragozzino e Andrea Ranieri. Introdurrà e presiederà il dibattito Giovanni De Luna. Il convegno sarà trasmesso in diretta sulla webtv di Montecitorio all’indirizzo http://webtv.camera.it. Il 23 settembre, poi, a Roma alle ore 19 presso la Casa del Cinema in Largo Mastroianni 1, si terrà l’anteprima del film documentario Per esempio Vittorio prodotto dalla Fondazione Giuseppe Di Vittorio con Aamod e Unitelefilm per la regia di Pietro Medioli.

spalle l’azionismo, l’esperienza da costituente,la militanza socialista e un certo estremismo intellettuale da Quaderni rossi, nonchè politico da Pdiup, diventa il padre nobile del Pds. Si schiera con la svolta di Occhetto e sostiene tutto il percorso che va dalla fine del Pci sino alle soglie del Pd.

È un periodo lungo in cui scrive molti bei libri. Il primo è La mossa del Cavallo, in cui sostiene che in politica la mossa vincente non quella della Torre, cioè lineare e un po’ tetragona,. Ma quella “spiazzante” del Cavallo. Poi, insieme al figlio Renzo, pubblica Del disordine e della libertà. Un dialogo fra padre e figlio sul futuro dell’Italia dopo la fine di tutti i grandi partiti e l’esplosione di tangentopoli. In quel libro Vittorio Foa scelse come parola-chiave della sinistra la libertà polemizzando col suo vecchio amico Norberto Bobbio, che nel suo best- seller Destra e sinistra aveva messo al centro l’uguaglianza. «A proposito di libertà - scrisse suo figlio Renzo più tardi, nella postfazione a Noi europei – come parolachiave, mi ha colpito molto una frase che Giorgio Napolitano ha pronunciato quando venne a rendere omaggio a mio padre, nella sede della Cgil dove era allestita la camera ardente. Il presidente disse che, quasi alla fine

Valiani, rinnegato il Pci, aderì a “Giustizia e Libertà”. Nel 1943 si arruolò come agente segreto britannico e partecipò alla resistenza. Nel 1945 firmò la condanna a morte di Mussolini aver vinto il presente e di stare costruendo il futuro». Poche righe autobiografiche che ritraggono meglio di qualsiasi saggio la personalità di Vittorio Foa. Contengono alcune parole chiave per comprenderla. Innanzitutto la parola futuro. Il suo sguardo, infatti, era rivolto sempre oltre il presente cercando di scorgere il percorso per costruire un futuro migliore. E il futuro migliore per Foa era a sinistra: sul che fare per raggiungere la meta, si interrogava e interrogava i suoi interlocutori con quella valanga di di domande che era solito porsi e con le quali incalzava chi lo andava a trovare. Mentre il percorso di Leo Valiani parte dal comunismo per raggiungere approdi più moderati, Foa al contrario non fu mai comunista, ma nella sua lunga vita non mancarono certo posizioni politiche radicali: sia nella veste di sindacalista che in quella politica e intellettuale. Nei primi anni Ottanta però, dopo una lunga riflessione, che appare in un libro difficile ma molto profondo, La Gerusalemme rimandata, dalle “critiche di sinistra” al Pci passa ad una linea più moderata: riformista. Ed è così che Vittorio Foa, con alle

della vita, sia Vittorio che Bruno Trentin (del loro rapporto si parlerà nel convegno di oggi) avevano ricordato pubblicamente con i loro scritti e le loro parole che l’idea di libertà era stata al centro della loro vita».

Foa non ha smesso mai negli ultimi venti anni di intervenire in politica e di accompagnare questi interventi con riflessioni di lungo respiro, di queste la più bella è profonda è quella contenuta in Questo Novecento. Poi, come era nel suo stile, un interrogativo dà vita ad un nuovo libro: perchè i comunisti non parlano più? Pone questa domanda ad Alfredo Reichlin e a Miriam Mafai. Ne scaturisce un saggio a sei mani in cui la parte più brillante è la sua, piena di inquietudine per un silenzio di cui non sa darsi una spiegazione soddisfacente. Nemmeno l’intelligenza e la passione di Vittorio riuscirono a ridare una voce forte e convincente a ciò che era morto. Anche se il comunismo italiano scomparve con maggiore dignità di quello sovietico. Del resto anche la sua vita era stata incomparabilmente migliore. E questo Foa voleva, con quella sua provocazione, riconoscerglielo.


mondo

pagina 14 • 21 settembre 2010

Politica. I Parlamenti si riaffermano come luoghi di discussione, di formazione e di unità di elettorati sempre più divisi fra tematiche opposte e contradditorie

Governi interrotti Il caso svedese è soltanto l’ultimo, in ordine di tempo, a riaffermare che nel mondo il bipolarismo è in crisi di Osvaldo Baldacci vanti un altro. Ora è il turno della Svezia. Ancora un’elezione senza una maggioranza chiara. Ancora un “parlamento impiccato”, come dicono gli inglesi. Una realtà con cui l’Europa (e il mondo) si trovano a dover fare i conti ogni giorno di più. Parlamenti in crisi, dunque, ma attenzione: paradossalmente i parlamenti in crisi allo stesso tempo comportano una rivitalizzazione del parlamentarismo. Da queste crisi, infatti, la via parlamentare, la centralità del confronto politico in aula esce rafforzata, anzi, sembra proporsi come l’unica soluzione naturale ed efficace. Perché forse ci sono delle cause ben precise per questa crisi degli attuali sistemi democratici. Per capire che qualcosa non va, ma che allo stesso tempo si aprono strade nuove, basta l’elenco dei Paesi senza quella maggioranza predefinita cui erano abituati: Svezia, Danimarca, Gran Bretagna, Olanda, Belgio, Austria, e si potrebbe andare avanti, fino all’Australia appena emersa dalle urne. Nelle elezioni di domenica in Svezia si è confermato quel governo di centrodestra che per primo è riuscito a confermare la sua prevalenza sui socialdemocratici. Governo di coalizione, per cui nonostante l’ascesa del Partito Moderato del premier Reinfeldt, il complesso dell’Alleanza per la Svezia ha perso deputati e fermandosi al 49,3% dei consensi ha ottenuto 172 seggi, tre in meno della maggioranza. Con socialdemocratici e sinistra ai minimi storici, anche in Svezia lo sgambetto alla maggioranza viene dalla destra populista, spesso antieuropea e ostile agli immigrati. Cosa farà ora il giovane leader svedese? Dovrà andare in Parlamento a cercare il sostegno per il suo governo. Quattro le ipotesi: coinvolgere direttamente o con un appoggio esterno la destra dei Democratici Svedesi di Akeson, ma Reinfeldt continua ad escluderlo per non sdoganare questa formazione considerata pericolosa; la conquista di qualche singolo parlamentare (soluzione poco svedese) proprio da destra o magari dai ter-

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La Repubblica è parlamentare solo se va bene al capo

Mentre Berlusconi trasforma Montecitorio in un taxi di Giancristiano Desiderio a Svezia non è l’Italia, ma l’Italia ha molto da imparare da quanto è avvenuto in Svezia. Il centrosinistra ha perso le elezioni, ma il centrodestra non le ha vinte e l’estrema destra entra per la prima volta in Parlamento superando di oltre due punti percentuali la soglia di sbarramento del 4 per cento (questi almeno, mentre scriviamo, gli ultimi dati). Il governo che non è uscito dalle urne dovrebbe uscire dal Parlamento, mentre l’idea di ritornare al voto per non riuscire a dare un governo agli svedesi è da scartare se non si vuole considerare inutile il Parlamento e far crescere ancor di più i consensi dell’estrema destra di Jimmi Akesson. Il caso svedese è particolarmente istruttivo per l’Italia: anche da noi, infatti, ci si trova nella situazione di una maggioranza che non è più in grado di sostenere il governo e di un governo che in Parlamento va alla ricerca dei voti perduti ma critica in modo veemente l’idea che i parlamentari possano cambiare schieramento e un governo possa nascere in Parlamento. Ma se in una Repubblica parlamentare, qual è quella italiana, il governo non nasce in Parlamento, dove mai volete che possa nascere? È praticamente inutile stare a girare intorno alla cosa. E la cosa è questa: si è creduto possibile fare in Italia quanto si fa da tempo in Europa: i governi sono fatti dagli elettori e i partiti fanno la loro politica in Parlamento.

L

Sennonché, questa regola aurea di una democrazia matura e responsabile, è entrata presto in crisi o, forse, non è entrata mai effettivamente in vigore: i governi, pur fatti dagli elettori, franano e i partiti non riescono più a svolgere un ruolo parlamentare che non finisca in compravendita e trasformismo. In particolare, il presidente del Consiglio grida al ribaltone, che nessuno fa e può fare, ma si dedica anima e corpo alla ricerca dei deputati da “ribaltare”nella maggioranza e nel sottogoverno. Il capo del governo, in altre parole, ha una paura matta del Parlamento e pensa che l’unico modo di frequentarlo e di farlo funzionare sia quello di utilizzarlo come un taxi. Il convincimento di Berlusconi è molto semplice: il governo nasce in Parlamento se è il mio governo, ma se il Parlamento si mette in testa di discutere e di fare di testa sua allora qui non se ne fa proprio nulla. Per il premier il Parlamento o è uno scendiletto o è una palla al piede, ma in nessuno dei casi è l’istituzione che dà e toglie la fiducia al governo dando un governo al Paese. Il capo del governo delegittima il Parlamento, tranne quando gli torna comodo trovare parlamentari che non eletti nel Pdl gli diano una mano a tenere su il governo che va giù. La situazione italiana è, come al solito, tragica ma non seria. Nessuno vuole ribaltare il governo Berlusconi e soprattutto nessuno può farlo, ma il governo Berlusconi grida allo scandalo del ribaltone impossibile e fa sua la pratica del trasformismo parlamentare. Se un tempo erano i governi ad essere ostaggi del Parlamento, oggi è il contrario: è il Parlamento ad essere ostaggio di un governo forte della sua debolezza e che ha già perso da un pezzo la partita.

ritori di Faroer e Groenlandia, o persino dalla sinistra; l’accordo con i verdi che passerebbero dall’opposizione alla maggioranza; un governo di minoranza che lavori, con mille difficoltà, cercando di volta in volta consensi sui provvedimenti. Gli elettori quindi hanno deciso che sia l’aula parlamentare il luogo di confronto e di costruzione della maggioranza. Niente più schieramenti preconfezionati con la (finta) presunzione che il voto sia il dogma cui tutto deve inchinarsi: se così fosse, infatti, mezza Europa sarebbe senza governo. E per volontà popolare: se infatti gli elettori si piegassero al “voto utile” la scelta sarebbe bipolare, ma questo bipolarismo in Europa è solo un mito senza riscontri, e restano determinanti decine di partiti di diversa natura ma tutti non ingabbiati.

sgaard, che ha dato un contributo importante anche per rinnovare l’immagine degli alleati svedesi guidati da Akeson.

Clamoroso poi il caso delle crisi nel Benelux, nel cuore dell’Europa. Olanda e Belgio, reduci da elezioni prima dell’estate, sono senza governo e maggioranza, perché le urne non hanno dato risultati chiari e le forze politiche non riescono a trovare un accordo. In Belgio questa situazione va avanti

Svezia, Danimarca, Gran Bretagna, Olanda, Belgio, Austria e Australia: sono crollati tutti i sistemi che, storicamente, esprimevano governi forti Su tutti lo dimostra la Gran Bretagna, dove come è noto solo pochi mesi fa è finita l’era laburista ma i conservatori non hanno ottenuto la maggioranza. Neanche appoggiandosi agli altri partiti minori tradizionalmente vicini in Parlamento. E questo nonostante il sistema elettorale britannico sia pensato per favorire in tutti i modi il bipartitismo, a costo di lasciar fuori dalla rappresentanza milioni di elettori, evidentemente senza successo. Oggi il premier conservatore Cameron guida un governo di coalizione (parola quasi inedita per la Gran Bretagna) essendo dovuto venire a patti con il liberale Nick Clegg. E pare che le cose funzionino pure abbastanza bene. Vicino alla Svezia c’è poi il caso della Danimarca, altro Paese scandinavo dove la socialdemocrazia è naufragata ma le conferme del centro-destra passano attraverso governi di minoranza o comunque tenuti a conquistarsi giorno per giorno il consenso in aula, con appoggi esterni determinanti da forze di destra come il Partito del Popolo Danese di Pia Kjaer-

da anni, con la sola felice eccezione dei mesi di governo di van Rompuy, oggi presidente Ue, e il tutto è complicato dalla contrapposizione durissima tra le due realtà gemelle, la fiamminga e la vallone, realtà che duplicano anche i singoli partiti. I vari tentativi di formare una maggioranza stanno fallendo uno dopo l’altro, e se non si vuole dar credito all’ipotesi di secessione o almeno a quella di ennesime elezioni anticipate, è allora possibile che in Parlamento si formi una maggioranza variabile, o una coppia di maggioranze, l’una per le riforme e l’altra per gestire l’economia. Anche qui il Parlamento è quindi confuso, ma sempre più centrale e decisivo, rispetto a una presunta onnipotenza dei governi e a una visione quasi oracolare dei risultati elettorali. Anche in Olanda c’è una situazione di stallo, di pareggio, che costringe i leader politici a cercare accordi in Parlamento: Liberali (31 seggi) e laburisti (30) hanno vinto le elezioni a danno dei democristiani (21), mentre è cresciuto il partito anti-immigrazione PVV (24), ma per ora non si trova modo di comporre


mondo

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I risultati premiano il governo uscente, che però non riesce a sfondare

Il tonfo silenzioso dei socialdemocratici L’estrema destra diventa decisiva a Stoccolma Mentre la sinistra sparisce dal suolo europeo di Antonio Funiciello

Manifestanti “verdi” davanti alla sede del Bundestag tedesco. In basso il presidente del Consiglio italiano, Silvio Berlusconi. Nella pagina a fianco, il leader della destra svedese Akesson una maggioranza, per la quale serve una coalizione di 76 seggi. Pareggi di questo tipo non sono rari: in Austria governa una Grande Coalizione di popolari e socialisti, 68 e 66 seggi, come accadeva in Germania fino alle recenti elezioni che hanno dato la vittoria alla Cdu di Angela Merkel, che dopo il voto ha dato vita a una coalizione più politica con i Liberali: nella stabilissima Germania è normale formare le maggioranze in Parlamento dopo le elezioni. Anche in Spagna il governo Zapatero governa col sostegno di gruppi minori.Tale situazione è arrivata fino alla lontana Australia: anche lì la tradizione anglosassone si è dovuta piegare a un voto che non ha dato a nessuno la maggioranza, e i Laburisti (che oltretutto avevano ottenuto un

condo luogo lì dove esistono sistemi che cercano di imporlo sono essi che stanno uscendo sconfitti (ad esempio è clamorosamente evidente il caso della Gran Bretagna). Al contrario gli elettori cercano sempre nuove soluzioni fuori dai presunti due poli tradizionali, e cercano partiti che possano meglio rappresentarli, partiti in qualche modo identitari. Per evitare che la democrazia naufraghi mentre si combattono i mulini a vento, forse occorre ripartire da questi elementi che gli elettori stessi forniscono con chiarezza: 1) il voto cosiddetto utile non soddisfa e non attira; 2) i grandi contenitori aprioristici che mettono insieme tutto e il contrario di tutto non sono amati perché non garantiscono una vera rappresentanza né politica né valoriale;

Gli elettori cercano nuove soluzioni fuori dai poli tradizionali e cercano partiti in qualche modo identitari, che possano rappresentarli meglio seggio in meno dei conservatori) hanno formato un inedito governo di coalizione. Questa serie di risultati elettorali e queste situazioni politiche dovrebbero forse invitare politici e politologi a qualche riflessione.

Se il mito della stabilità porta ovunque instabilità, qualcosa deve pur significare. I dogmatici del bipolarismo diranno che bisogna sempre più rafforzare i sistemi che riducono forzosamente a due i contendenti, proponendo premi di maggioranza o sistemi maggioritari, ma dimenticano di fare i conti con la realtà. In Europa infatti di questo bipolarismo forzato prima di tutto non c’è traccia, in se-

3) gli elettori amano partiti dall’identità chiara e dai valori forti che sappiano poi mettersi in dialogo per cercare convergenze politiche; 4) il ruolo del Parlamento come luogo di dialogo, di confronto e incontro politico, di ricerca delle soluzioni sta tornando ad emergere come centrale; 5) lo scontro politico aprioristico fra formazioni senza una solida identità lascia spazio alle estreme e al populismo, rendendo sempre più difficile la governabilità, che invece viene rafforzata da forze responsabili, rispettose delle istituzioni, dall’identità solida che si accompagni alla cultura politica della moderazione e del dialogo.

ai così male dal 1914: i socialdemocratici svedesi, battistrada nel secolo scorso dei socialisti europei verso il sole dell’avvenire, sono finiti nelle tenebre di una storica sconfitta. D’altro canto, Fredrick Reinfeld, premier in carica e leader del centrodestra ha battuto il record che voleva, da tempo immemore, il fronte conservatore incapace, in Svezia, di vincere le elezioni dopo aver governato. Gli elettori hanno premiato Reinfeld per aver avviato un graduale (e lento) processo di riforma del pesante welfare svedese, trovando il modo di sanare i conti pubblici e tagliare le tasse. La sua coalizione di centrodestra ha incrementato il vantaggio su socialdemocratici e alleati minori in termini di seggi e voti effettivi. Nonostante il partito democratico (di estrema destra) del 31enne Akesson abbia cercato di sottrarre voti al Partito moderato di Reinfeld, è riuscito soltanto a toglierli ai suoi alleati minori. Purtroppo per Reinfeld, ribattezzato il Cameron svedese anche se è al governo da molto prima che ci arrivasse l’attuale premier britannico, l’affermazione di Akesson ha lasciato la coalizione di centrodestra a 172 seggi, quattro in meno per formare un governo di maggioranza. Reinfeld, insomma, ha vinto, ma non abbastanza per continuare il lavoro cominciato quattro anni fa. Un bivio si biforca davanti a lui: formare un governo di minoranza e navigare a vista nelle acque mosse del Riksdag (il Parlamento svedese), cercando di evitare gli scogli, o provare a stringere un’alleanza coi Verdi, unico partito del blocco di centrosinistra con cui poter tentare l’impresa. In un modo o nell’altro, Reinfeld sa bene che assai difficilmente la nuova legislatura durerà quattro anni. Si tratta di verificare quale delle due vie che il bivio delle elezioni gli para innanzi sia più congeniale a una riconferma in occasione di prossime elezioni anticipare. Reinfeld ha stretto in mano il timone. E, difatti, ha già rispedito al mittente l’implicita disponibilità avanzata dai democratici di Akesson di assumersi responsabilità di governo.

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sua capacità di attrarre voti dai socialdemocratici (com’era già accaduto quattro anni fa) si fonda sulla netta chiusura nei riguardi di Akesson. Reinfeld lo sa bene e, per questo, ribadisce di non voler tornare indietro.

Per l’intera campagna elettorale, Reinfeld ha escluso categoricamente la possibilità di un accordo col partito di estrema destra e non intende venire meno a questo impegno. La

Il maggiore vantaggio del capo del centrodestra svedese è, comunque, la crisi profonda in cui versa la socialdemocrazia svedese. Mona Sahlin, leader sconfitta dei socialdemocratici, ha condotto una campagna elettorale tronfia e aggressiva, certa di poter diventare la prima premier donna di Svezia. Ha accusato Reinfeld di voler distruggere quel welfare state così orgogliosamente rivendicato, in spregio ai cambiamenti occorsi con la globalizzazione e l’ovvia esigenza di rivedere oggi il portato dell’esperienza socialdemocratica. La Sahlin ha tirato dritto per la sua strada, non riconoscendo i risultati di governo buon conseguiti da Reinfeld e portando, così, il suo partito ai minimi storici di consenso. Il Partito moderato non ha perso voti per i motivi denunciati dai socialdemocratici, ma perché ha lasciato scoperto il suo fianco destro, sottovalutanto un malcontento ancora poco diffuso, ma certo esistente, nei confronti del fenomeno migratorio. Gli strenieri oggi residenti in Svezia sono circa 10% della popolazione: lo stesso valore a cui si è attestata la disoccupazione. Nell’equazione tra i due dati, sbagliata quanto facile da proporre presso i ceti meno abbienti, è racchiusa l’affermazione degli xenofobi e il mancato trionfo di Reinfeld. A fine anno le stime di crescita danno il Pil svedese a oltre il 4%. Con un deficit tra i più bassi d’Europa, la Svezia s’incarica di uscire dalla crisi prima di tanti Paesi concorrenti. L’instabilità politica potrebbe, nel medio periodo, condizionare negativamente le ottime performance del sistema-paese, che si è giovato della cura Reinfeld degli ultimi quattro anni. È la stessa contraddizione delle recenti elezioni australiane, che non hanno dato alla nazione un governo stabile, mentre la sua economia cresce oltre il 3%. Brutta storia per la politica questo ritardo sull’economia, che indica la necessità di modernizzare culture e parole d’ordine per porre i partiti al paso coi tempi e metterli al servizio delle nuove sfide che la dimensione globale impone.

Ora il premier Reinfeld deve decidere fra un governo di minoranza o stringere un accordo con i Verdi, difficile ma necessario per governare il Paese


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Summit. I leader mondiali si radunano a New York per la plenaria dell’Onu l presidente francese, Nicolas Sarkozy, cavalca l’onda mediatica che si è guadagnato con la campagna anti-rom e lancia un’ulteriore provocazione. Dal palco dell’Assemblea Generale dell’Onu, che si è aperta ieri, il leader dell’Eliseo propone di tassare le transazioni finanziarie internazionale, al fine di creare un fondo comune da indirizzare a sostegno dei Paesi in via di sviluppo. L’iniziativa mostra toni decisamente contrari a quelli della lotta all’immigrazione che la Francia sta combattendo. E non si può escludere che la comunità internazionale la accolga positivamente. C’è da sperare inoltre che, in questo modo, i giornali di tutto il mondo evitino di concentrarsi su cosa diranno i “cattivi” che prenderanno parte all’evento, senza invece prestare la debita attenzione agli appuntamenti concreti che sono all’ordine del giorno. L’arrivo a New York del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad infatti, sta occupando già troppo spazio rispetto ad altre questioni. Prima di volare a New York, il leader iraniano ha voluto smorzare le dichiarazioni offensive che, pochi giorni fa, l’establishment ultraconservatore del suo Paese aveva rivolto alla first lady francese, madame Carla Bruni Sarkozy. Inoltre ha precisato che Sakineh non sarebbe in pericolo di vita, in quanto nessun tribunale l’avrebbe condannata alla sentenza capitale. Ahmadinejad ha voluto adottare una linea di moderatismo appunto per convogliare l’attenzione mediatica sulla sua persona, ma anche perché così potrà fare il suo ingresso al Palazzo di vetro con quel soprabito di rispettabilità che è richiesto in sede Onu. Tuttavia, negli affari di politica internazio-

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La proposta di Sarkò? Tassare la finanza Secondo l’Eliseo è l’unico modo realistico per raggiungere gli Obiettivi del Millennio di Antonio Picasso

blea Generale affronterà per l’ennesima volta i nodi della povertà, della fame, della mancanza di istruzione, della disparità fra i sessi, che cingono d’assedio la maggior parte dei Paesi membri. L’Unione Europea ha dichiarato che offrirà 1 miliardo di euro ai Paesi in via di sviluppo. Oltre le buone volontà, il quadro generale resta allar-

I leader di tutto il mondo avevano promesso (invano) dieci anni fa di ridurre del 50% il numero delle persone in estrema povertà nale, il semplice marketing cade miseramente se non è sostenuto da una strategia di intenti concreta. Il regime degli ayatollah difficilmente potrà far cambiare le considerazioni negative che il mondo nutre nei suoi confronti se non affronterà nodi delicati quali il rispetto dei diritti umani, l’avvio di una stagione di riforme per la democrazia, ma soprattutto se non fugherà i dubbi sulle proprie ambizioni nucleari. Al di là dell’eventuale show del leader iraniano, l’Assem-

mante. Nel 2000 – sempre a New York e sempre all’Onu – 147 Capi di Stato e di Governo imposero il 2015 come deadline per raggiungere una serie di obiettivi volti al miglioramento delle condizioni di vita della popolazione mondiale. Era la cosiddetta Dichiarazione del Millennio, nota anche come “Millennium Goals”. Da allora i firmatari del documento sono saliti a 190. Tuttavia, sul piano concreto, è cambiato ben poco. Anzi, gli osservatori concordano nel visione

Enorme l’impegno umanitario del cantante

L’utopia di Bono Vox Bono Vox è stato uno dei protagonisti della Dichiarazione del Millennio. Nel 1999, il cantante irlandese ha accompagnato l’allora Segretario del Tesoro Usa, Paul O’Neill, in un lungo tour nei Paesi africani più poveri. Quello è stato il primo impegno pubblico di Bono in una campagna di sensibilizzazione volta a stimolare i governi delle nazioni più industrializzate del mondo affinché prestino soccorso a quelle più arretrate. L’anno successivo, l’Onu ha assunto i suoi impegni verso le aree più povere del mondo, in maniera solenne con i “Millennium goals”. È sempre di Bono, insieme al suo collega Bob Geldof, l’operazione di lobby realizzata in contemporanea con il G8 che si è tenuto a Gleneagles, in Scozia, nel 2005. In quella oc-

casione, i due musicisti hanno saputo sfruttare lo spazio che Tony Blair ha concesso loro. Bono e Geldof hanno richiamato i leader mondiali alle proprie responsabilità e suonato una squilla di allarme. A cinque anni dalla Dichiarazione del Millennio, le promesse effettuate al Palazzo di Vetro non erano ancora state mantenute. Blair, di conseguenza, si è fatto capocordata per il taglio di 55 miliardi di dollari che i Paesi africani avevano contratto con i grandi della terra. Dal summit di Gleneagles a oggi, è passato un altro lustro. Le riduzioni dei debiti sono state effettuate, ma solo in parte. Le inadempienze e le mancanze sono state giustificate in tanti modi. Nel frattempo altri sprechi di risorse e di tempo. (a.p.)

pessimistica per cui, da qui a cinque anni, è molto difficile che le dichiarazioni di intenti di allora possano portare a qualche risultato. Attualmente oltre 1 miliardo di persone sopravvive con 1 dollaro al giorno. Dieci anni fa, i leader di tutto il mondo avevano promesso di ridurre del 50% questo dato. Al contrario, a seguito della crisi finanziaria del 2008, ma soprattutto a causa della mancanza di un intervento strutturale, il delta fra ricchi e poveri tende ad aumentare.

Le risorse fondamentali per la vita quotidiana di ogni singolo Paese si sono ridotte sensibilmente. L’accesso all’acqua continua a essere ostacolato sia da impedimenti politici sia da un preoccupante processo di maxi-desertificazione di vaste aree del pianeta, in Africa e Asia soprattutto. Nell’ambito dei diritti fondamentali, le discriminazioni sono anch’esse incrementate. Il tasso di analfabetismo complessivo della popolazione mondiale è di circa 850 milioni di unità. Nell’epoca della globalizzazione e della comunicazione in tempo reale, per il cittadino occidentale è impossibile immaginare l’esistenza di persone che non sappiano né leggere né scrivere. Per quanto riguarda le libertà individuali, dal 2000 a oggi, i regimi autoritari hanno effettuato un severo giro di vite. Non si registrano dittature che abbiano alleggerito il proprio peso sulla popolazione. Anzi, molte si sono arroccate su posizioni ancora più oppressive. Si veda la Bielorussia, oppure proprio l’Iran. Mentre quei Paesi che speravano in un futuro di democrazia sono stati costretti a ricredersi. Esemplare è il caso iracheno. Nel 2000 Saddam Hussein era ancora al potere. Il suo crollo nel 2003 è stato seguito da una disastrosa instabilità politica, accompagnata dalla guerra civile. L’unico dato in controtendenza è giunto in sede Onu solo la scorsa settimana. In anteprima rispetto alla pubblicazione del rapporto annuale della Fao, “Lo Stato dell’Insicurezza Alimentare nel Mondo”, il Direttore Generale dell’organizzazione, Jacques Diouf, ha dichiarato che il numero di persone che soffrono la fame è in leggero calo. Alla fine di giugno 2009, era stato lanciato l’allarme in quanto il fenomeno aveva coinvolto oltre 1 miliardo di persone. Questa positiva inversione di tendenza non è certo un “goal”. Tuttavia, per il momento, non ci si può aspettare di meglio.


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21 settembre 2010 • pagina 17

La testimonianza del bambino soldato commuove il mondo

Il leader palestinese: «Senza uno stop, non dialogo con Israele»

Ahmed, 15 anni, drogato dagli Shaabab

Abu Mazen: «Le colonie bloccano i negoziati»

MOGADISCIO. Rapito a 15 an-

RAMALLAH. La posizione è

ni, drogato, picchiato e costretto ad unirsi nelle fila degli Shabaab somali. Gli stessi che proprio ieri hanno ripreso i combattimenti nella capitale provocando morti e feriti e assunto il controllo di due stazioni radio per diffondere, via etere, il loro messaggio. A fare breccia nella comunità mediatica internazionale è stata però la drammatica testimonianza di un giovanesoldato “reclutato” a forza dagli integralisti legati ad al Qaeda e poi catturato dai soldati somali dell’Unione africana Amisom. «Mi chiamo Ahmed (il nome è di fantasia), sono un ragazzo somalo di 15 anni, sono stato drogato dagli Shabaab e ho ucciso delle persone».

chiara, e l’affermazione suona molto come un ultimatum. Senza un congelamento definitivo delle colonie da parte del governo israeliano, il leader dell’Autorità palestinese Abu Mazen non negozierà “un solo giorno di più”. I negoziati ha aggiunto, «proseguono finché restano congelati gli insediamenti, ma non abbiamo intenzione di prolungarli un giorno di più». I colloqui diretti tra palestinesi e israeliani hanno preso il via il 2 settembre scorso, ma rischiano di fermarsi per lo scadere, il 25 settembre, del periodo di congelamento dell’edificazione delle colonie in Cisgiordania. Abu Mazen ha aggiunto di «non opporsi a una

Comincia così l’intervista del giovane soldato, un racconto vissuto dal piccolo con grande emozione, dove si parla del suo “addestramento” a base di botte, droga e patimenti. «A darmi le armi sono stati gli Shabaab rivela Ahmed - servivano per combattere. Sono andato a una postazione, a Celasha biyaha e ho sparato». Alla domanda: «Hai ucciso qualcuno?», Ahmed prima nega, ma poi rivela di averlo fatto. «Ho varie ferite continua il giovane, ricoverato in uno degli ospedali di Mogadiscio - a picchiarmi è stato una

Tokyo e Pechino, ritorno al futuro Il governo cinese “congela” i rapporti con il Sol Levante di Vincenzo Faccioli Pintozzi a Storia, si sa, non è un veicolo dal quale si possa scendere. E se è possibile, anzi auspicabile, che antichi rancori possano essere superati e divenire fruttuose collaborazioni (magari senza affetto, ma si sopravviverà) è difficile che chi ha costruito il proprio potere sul nazionalismo possa d’un colpo cancellare il nemico storico, quello che lo legittima. È il caso del tormentato rapporto fra Cina e Giappone, i giganti d’Asia che si sono contesi il continente prima e la supremazia economica mondiale oggi. I due hanno litigato sempre, su tutto. E non parliamo soltanto del massacro di Nanchino, datato inizio Novecento, cui la storiografia contemporanea fa risalire l’odio reciproco: a sapere e voler leggere gli antichi testi, infatti, si scopre che le due nazioni si contendono la primogenitura di quasi tutto ciò che ha reso l’Asia orientale nota in Occidente. Per non parlare poi dei diritti di proprietà e di conquista, con mappe cinesi che indicano il Giappone come “provincia” a yuan falsi che, ancora oggi in circolazione, si fanno risalire alla Zecca del Manchukuo, lo Stato farsa creato dai nipponici nella Manciura dell’ultimo Impero. Quindi non stupisce il fatto che, ieri, il Giappone abbia “deplorato”la decisione cinese di sospendere gli incontri di alto livello tra i due Paesi incitando nel contempo l’amico-rivale a riprenderli. Pechino ha “congelato”i rapporti e minacciato altre misure, dopo che Tokyo ha prolungato fino al 29 settembre la detenzione del capitano della nave cinese che il 7 settembre ha speronato un nave vedetta nipponica presso le contese e disabitate Isole Diaoyu (Senkaku, per i giapponesi), nel Mar Cinese Orientale. Noriyuki Shikata, portavoce del premier nipponico, ha detto che «quanto riportato [dai media] ieri notte è deplorevole, se vero», spiegando che non ha ricevuto comunicazioni ufficiali circa la sospensione dei rapporti bilaterali a livello di funzionari ministeriali e provinciali. Ha comunque invitato Pechino «a un’azione calma

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e meditata, così che questo particolare incidente non colpisca le intere relazioni tra Giappone e Cina». Pechino tuttavia ha già rinviato i programmati colloqui proprio per discutere le ricerche di giacimenti di energia nelle isole contese e ha pure fermato i contatti per aumentare i rapporti aerei civili. Inoltre ha annullato l’invito per circa 1000 studenti giapponesi a venire domani a Shanghai per visitare l’Expo Mondiale.

La Cina insiste che l’arresto è illegale. Sul sito web del ministero cinese degli Esteri, il portavoce Ma Zhaoxu ha ribadito che «la Cina chiede l’immediato rilascio del capitano senza condizioni» e ha ammonito il Giappone a non commettere «un errore dopo l’altro» tenendolo in carcere.Tokyo aveva arrestato l’intero equipaggio cinese autore dello speronamento, ma ha poi trattenuto il solo capitano Zhan Qixiong, che non intende rilasciare in quanto accusato di avere agito in modo intenzionale, per di più presso isole che il Giappone considera proprio territorio. Shikata ha insistito che è “inappropriato e biasimevole” voler “posporre la questione di diritto, al rilascio” del capitano. Per la legge giapponese, dopo il 29 settembre il capitano dovrà avere un’accusa formale o essere rilasciato. I premier dei due Paesi, Naoto Kan e Wen Jiabao, saranno questa settimana a New York per partecipare ai lavori delle Nazioni Unite, ma non sono previsti incontri diretti. Intanto il 18 settembre ci sono state “spontanee” manifestazioni antigiapponesi, di modesta entità, a Pechino, Shanghai, Hong Kong e a Shenyang per l’anniversario dell’invasione giapponese della Manciuria nel 1931. Nei giorni scorsi il premier Kan ha ammonito a sua volta che se la Cina inizia le trivellazione dei giacimenti di gas Chunxiao, in altra zona contesa,Tokyo “prenderà contromisure”, forse anche portando il caso avanti alla Corte Internazionale Marittima. Sono cambiate le mosse, forse, ma la guerra è ancora in corso.

Le isole contese di Diaoyu al centro della protesta diplomatica. Ricche di gas, fanno gola a sette nazioni asiatiche

volta il mio insegnante di Corano. Poi ogni tanto venivo drogato, mi mettevano un mix di droghe nell’acqua o in altre bevande, ma subito dopo mi sentivo bene. Ora vorrei solo andare a casa da mia madre, ho capito che le idee degli Shabaab sono sbagliate». Molti giovani in Somalia vengono prelevati dalle loro case per essere addestrati alla guerriglia. Gli Shabaab sono l’organizzazione guerrigliera antigovernativa legata ad al Qaeda che dal gennaio 2009 ha conquistato la maggior parte del Centro e del Sud della Somalia e gran parte della capitale Mogadiscio. Il loro potere si espande con la forza delle armi, ma anche a colpi di Corano.

proroga della sospensione per uno o due mesi» e che «si può concludere un accordo di pace su tutti i temi se il congelamento degli insediamenti sarà prorogato. Se Israele ferma gli insediamenti e mostra buona volontà, potremmo giungere a un accordo su confini e sicurezza, seguito da intese sullo status di Gerusalemme, l’uso delle acque e le stesse colonie».

Nel frattempo, le autorità giudiziarie di Ramallah hanno preso una decisione nuova e pericolosa: la vendita di terra palestinese a israeliani è punibile con la pena di morte. Il giudice Ta’et At-Twil ha stabilito che la vendita, o il tentativo di vendere la terra a un Paese straniero, è punibile con la morte. In un comunicato diffuso dopo la sentenza, la Procura Generale palestinese ha spiegato che la decisione rappresenta «il consolidamento di un principio giuridico precedente e mira a proteggere il progetto nazionale di creare uno Stato palestinese indipendente». L’anno scorso, un tribunale militare palestinese aveva condannato a morte un uomo per impiccagione perché aveva venduto terreni a una società, una terra che tra l’altro non gli apparteneva.


cultura

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Mostre. Fino al 3 ottobre, un imprevedibile “faccia a faccia” che vede impegnati i mattatori dell’Astrattismo novecentesco e i sacri maestri dell’arte antica

Esperimenti in progress La Pinacoteca di Brera, per la prima volta, confronta i capolavori delle sue collezioni storiche con le opere di Burri e Fontana di Stefano Bianchi ove frammenti di rosso vermiglio, bucati e tagliati, danno vita al Concetto Spaziale. Quanta realizzato da Lucio Fontana nel 1960. Accanto a queste forme che sembrano galleggiare nell’aria, ecco il brulicare di personaggi che affollano il ciclo di affreschi di Bernardino Luini, della prima metà del XVI secolo, provenienti da Villa Pelucca di Sesto San Giovanni. Stoffa, olio, segatura e pietra pomice su tela, sublimano invece il Gobbo Bianco assemblato nel ’52 da Alberto Burri che prende a dialogare coi cromatismi seppiati della passeggiata di Fiumana (1895-1896 circa) di Giuseppe Pellizza da Volpedo. Inizia da Fontana e finisce con Burri, la mostra più accattivante e istruttiva dell’anno. Fra le due opere, ecco snodarsi un imprevedibile “faccia a faccia”che vede impegnati i mattatori dell’Astrattismo novecentesco e i sacri maestri dell’arte antica. Burri e Fontana a Brera, in programma fino al 3 ottobre alla Pinacoteca di Brera di Milano (catalogo edito da Skira, 30 euro, con testi critici di Sandrina Bandera, Maurizio Calvesi, Bruno Corà e Marina Gargiulo), si sposa alla perfezione con una frase pronunciata da Picasso: «Un quadro vive solo attraverso l’uomo che lo guarda». Sicché l’occhio del visitatore, solleticato dagli audaci accostamenti che si susseguono nella mise-en-scène di Corrado Anselmi, si trova ad elaborare con estrema naturalezza nuovi punti di vista, spunti di riflessione, libere associazioni mentali.

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In molte occasioni, le tele e le sculture di Burri e Fontana si sovrappongono quasi “fisicamente”ai dipinti di Brera (quelli più noti e richiesti dal pubblico, ma anche i lavori meno conosciuti che di solito passano quasi inosservati durante una rapida visita in Pinacoteca) con lo scopo di delineare una nuova

unità compositiva. I pannelli dell’allestimento, neutri nelle forme e nel colore, forniscono quella funzionalità utile al raffronto con la collezione permanente. Inoltre, l’identificazione delle opere braidensi (oggetto di confronto) viene semplificata dall’impiego di pedane distanziali del medesimo colore neutro utilizzato per tutto l’allestimento, disposte in modo da costituire un riferimento immediato. Scrive Sandrina Bandera nel catalogo: «L’accostamento fra due artisti dell’ultimo Novecento e i grandi maestri della pittura storica, permette di

Baselitz, Fabro, Kounellis, Morris, Struth (2004) e Robert Mapplethorpe – La perfezione nella forma presso la Galleria dell’Accademia di Firenze (2009), nonché Incontri (2002) e Bacon – Caravaggio (2009) presso la Galleria Borghese a Roma. A Brera stessa, recentemente, ho osservato un’opera in videoproiezione dell’artista Bill Viola inserita temporalmente nel percorso della collezione».Va aggiunta, poi, l’esposizione intitolata Goya e il mondo moderno che la scorsa primavera nelle sale del milanese Palazzo Reale ha visto “dialogare” in maniera alquanto discontinua i dipinti del maestro aragonese con Eugène Delacroix, Paul Klee, Oskar Kokoschka, Joan Miró, Pablo Picasso, Francis Bacon, Pollock, Jackson Renato Guttuso e Willem de Kooning. Lo spirito che anima Burri e Fontana

trebbe sembrare una provocazione superficiale, se non fosse che si tratta di opere di due maestri di grande profondità il cui rapporto con l’arte accademica fu indirettamente molto forte: Fontana acquisito alla cultura milanese, in contatto con l’Accademia di Brera, e Burri poeta meditativo dell’atmosfera di Città di Castello, luogo di sua provenienza, dove la natura e l’architettura risentono ovunque dell’ordine e della filosofia del Rinascimento e di Raffaello».

Puntualizza Marina Gargiulo: «Brera possiede una straordinaria collezione del ventesimo secolo, ma non espone nessun dipinto, nessuna scultura di Burri e di Fontana. I loro capolavori entrano oggi prepotentemente, ma temporaneamente, in Pinacoteca non per completarne le collezioni ma per tentare, per la prima volta in uno dei principali musei pubblici italiani, un confronto con i dipinti dei secoli precedenti.Tutte le sale del museo (tranne quelle dedicate al Novecento) propongono al pubblico il vis-àvis, a volte violento e brutale, a volte immediato e istintivo, a volte solo associativo, fra i due grandi maestri e le opere braidensi di Lotto, Caravaggio, Raffaello, Bellini, Veronese, Luini, Tintoretto, Foppa, Crivelli, Rubens, Tiepolo, Canaletto... Un allestimento che volutamente coinvolge e modifica il percorso di visita della Pinacoteca; un allestimento che non sacrifica (se non in minima parte) l’esposizione permanente. Una mostra che dialoga con il museo, anziché sostituirlo». Le 33 opere, provenienti dalla Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri di Città di Castello costituita nel ’78 per volontà del pittore, e dalla Fondazione Lucio Fontana di Milano nata nell’82 grazie alla tenacia e alla generosità di Teresita Rasini Fontana, si confrontano e intersecano fra stupori e magie coi primitivi italiani, i capolavori del Rinascimento, il valore della tradizione urbinate, i ri-

L’occhio del visitatore, solleticato da audaci accostamenti che si susseguono nella mise-enscène, si trova ad elaborare con naturalezza nuovi punti di vista

inaugurare una forma inedita di visita. I dipinti della Pinacoteca di Brera ora perdono qualsiasi etichetta tradizionale di appartenenza, scuola pittorica, attribuzionistica, storica o documentaria, ma diventano (così come le opere moderne) elementi di proiezione di forme. Forme dotate di una propria esistenza, al di là di ogni rappresentazione prospettica, similitudine, naturalismo, espressione stilistica e significato iconografico». Non è la prima volta che artisti dell’ultimo secolo trovano ospitalità in collezioni pubbliche di carattere storico. Come sottolinea Bruno Corà, «si ricordano negli ultimi anni le mostre Forme per il David –

a Brera, semmai, è paragonabile all’allestimento realizzato nel ’61 per Mark Rothko al Museum of Modern Art di New York che mise in mostra fondamentali riferimenti a Giotto, Masaccio, Piero della Francesca, Édouard Manet e Caravaggio. Scommessa vinta dal curatore Robert Selz, il quale dimostrò l’inscindibilità dell’arte moderna dalle idee antiche ponendo l’accento sull’arte antica intesa come fonte inesauribile di nuove visioni e inediti suggerimenti. Sottolinea Sandrina Bandera: «Avvicinare l’arte non figurativa ai dipinti della Pinacoteca di Brera nello spazio sountuoso e un po’ ancien régime di questo museo voluto da Eugenio dei Beauharnais come Real Galleria alla pari del nascente Louvre, po-

tratti cinquecenteschi, le intense rappresentazioni del Settecento, la forza figurativa di fine Ottocento. La rivoluzione materica e spaziale fatta di tagli, buchi, spessori, ferite, superfici corrose, sfibrate e bruciate, si contrappone all’iconografia del dipingere religioso. Ad esempio, il Concetto Spaziale rosa shocking di Lucio Fontana (’62), con quegli squarci slabbrati a forma di moderna croce, permette all’osservatore di leggere ancor più in profondità la mistica Adorazione della Croce di Tintoretto (1560 circa), mentre il Bianco Nero Cellotex di Alberto Burri (’69) si rispecchia nel plumbeo dramma del Ritrovamento del corpo di San Marco di Tintoretto (1562-1566 circa) che alterna azione e staticità. La bronzea Scultura spaziale di Fontana (’47), tondeg-


cultura

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In queste pagine, alcune delle opere di Alberto Burri e Lucio Fontana in mostra, fino al 3 ottobre, alla Pinacoteca di Brera di Milano. A sinistra, “Concetto spaziale. Quanta” (1960) di Fontana. A destra, “Cellotex” (1979) di Burri. Sotto, “Concetto spaziale. Teatrino” (1965) di Fontana. In basso, “Scultura spaziale” (1947), sempre di Fontana. Nella pagina a fianco, i due dipinti di Burri “Nero” (1951) e “Nero e Oro” (1993)

Francesco medita sulla morte (El Greco, 1606 circa) e le due terracotte con taglio del Concetto spaziale. Natura (’59) che riecheggiano le stigmate del San Francesco in estasi effigiato sia da Giovanni Battista Crespi detto il Cerano, sia da Pier Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone.

giante e raggrumata, trova il miglior confronto possibile nell’Annunciazione di Pere Serra (inizio del XV secolo), al pari delle tre sfere della serie Natura (1959-’60) che ci riconducono al pane spezzato da Cristo nel Cenacolo di Pieter Paul Rubens (1630-1632) e al Concetto spaziale.

La Pietà, poi, si addice a Burri: vedi il Rosso del ’52, che si rimaterializza sulle vesti della Vergine Maria di Lorenzo Lotto (1545 circa) mentre quella “ferita” contornata di bianco si ripropone idealmente nel subligaculum del Cristo deposto; vedi il Rosso Plastica del ’62, crudamente combusto eppure armonioso se confrontato con l’olio su tavola di Carlo Crivelli (1493), sfavillante di ori e di rossi laccati. Altrove, è

la concretezza del materiale puro a imporsi: come quando il Sacco di juta di Burri (’52), lacerato e bruciato, si abbina ai ritratti dei Portaroli di Giacomo Ceruti detto il Pitocchetto (1735 circa); e quando la tela grezza del Nero SC3 (’54) si “trasferisce” negli stracci

rammendati dei vecchi osti della Cena di Emmaus di Caravaggio (1605-1606). Le opere di Fontana, nell’elegante dipanarsi di questi incontri-scontri, esprimono invece quiete e violenza. Morbide, infatti, sono le pennellate d’argento di Venice Moon (’61) e le immacolate idropitture del Teatrino (’65) che si sublimano nelle settecentesche vedute veneziane del Canaletto, nonché il sole di Attese (’59) che si amalgama con l’alone d’oro sprigionato dalla colomba dello Spirito Santo nell’Annunciazione di Francesco Francia (1505 circa). Crudeli, l’abbagliante giallo del Concetto spaziale datato ’67 che ritroviamo nel teschio di San

Il trionfo di Burri e Fontana, in Pinacoteca, oltre a concretizzarsi nella virulenta Plastica combusta nel ’62 che viene accostata al guerreggiare della Vittoria dei Carnutesi sui Normanni (1618, Alessandro Varotari detto Padovanino) e nel ritmo serrato dei tagli (’64) che ricompongono mentalmente l’affollata Cena in casa di Simone di Paolo Caliari detto il Veronese (1570 circa), trova la sua piena ragion d’essere nei capolavori di Piero della Francesca e di Raffaello Sanzio. La massi-

ture della Pala Montefeltro dipinta da Piero della Francesca (1473 circa); la seconda, nel medesimo quadro, al primo istante sfugge per poi fondersi coi bagliori d’acciaio dell’armatura indossata da Federico da Montefeltro. Il Sacco e Rosso SP2 di Burri (’55), nel suo geometrico rigore, riaffiora invece nei cromatismi e nella prospettiva dello Sposalizio della Vergine di Raffaello Sanzio (1504). «Il merito di entrambi gli artisti», conclude Sandrina Bandera, «fu quello di aprire un varco al di là delle forme stesse, nel mondo degli archetipi, nel mondo dell’inconscio, al di là della sembianza reale. Ambedue, Burri e Fontana, vollero superare la retorica della bellezza, e del mito apollineo, per lavorare sulla rappresentazione dei simboli eterni e degli stimoli primordiali dell’uomo, sulle forme arcaiche e sull’ineffabile parentela spirituale che si crea tra esse e le emozioni. Per questo l’uno e l’altro furono fortemente sensibili al debito dell’arte antica e pur nella loro avventura isolata non la esclusero mai dalla loro ricerca». A testimoniarlo, nella sala dedicata alla pittura del XVII secolo, è il riallestimento della Struttura al neon ideata nel ‘51 da Fontana per la IX Triennale di Milano. Moderna, avviluppante fluorescenza che accarezza di luce il fascino dell’arte antica.

In molte occasioni, le tele e le sculture dei due artisti si sovrappongono quasi fisicamente ai dipinti di Brera, delineando una nuova unità compositiva ma suggestione di questa mostra, cioè, viene raggiunta dal Cretto di Burri (’74) alimentato da una miriade di spaccature, e dalla Latta bucherellata di Fontana (’50): il primo, viene idealmente trasposto nelle architet-


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cultura

Tra gli scaffali. In libreria “La goccia rossa sul tappeto nero”, di Roberto Giuliano, la testimonianza scomoda di un socialista non pentito

Diario (riformista) di bordo di Vladimiro Iuliano

Bettino Craxi (a sinistra) insieme a Enrico Berlinguer. Nella foto in basso, Norberto Bobbio. L’autore condanna l’ideologismo che cova sotto le ceneri delle nuove denominazioni assunte da quello che fu il partito di Berlinguer. Ma non disdegna stoccate a chi vi si oppone con acrimonia, rivendicando la propria militanza nel mondo del post-fascismo

ra il 1994, e Norberto Bobbio si interrogava sul significato politico, filosofico ed epistemologico delle categorizzazioni politiche. Destra e sinistra, ragioni e significati di una distinzione politica, questo il titolo di un saggio che destinato a diventare un classico della letteratura del settore. La discesa in campo di Berlusconi ha sparigliato un campo nel quale, durante i confusi anni della Prima repubblica, si era faticosamente consolidata una schematizzazione dell’arco politico. La Democrazia Cristiana da una parte, il Partito comunista dall’altra. Il «bipartitismo imperfetto», secondo la felice definizione del politologo Giorgio Galli.

E

In mezzo i partiti cosiddetti laici: repubblicani, liberali, socialdemocratici e socialisti. Tra le fila di questi ultimi ha militato per oltre vent’anni Roberto Giuliano, che dà alle stampe La goccia rossa sul tappeto nero per le edizioni Ponte Sisto, ritornando ancora una volta sull’annosa questione: cosa sono la destra e la sinistra oggi? quali gli spazi per le ideologie nella società contemporanea? I sottotitoli di copertina esplicano il titolo invero criptico. La sinistra italiana al bivio del terzo millennio; Comunismo e fascismo: i nemici della democrazia e Le analogie delle culture totalitarie sono le tre didascalie che aiutano il lettore a approcciarsi al volume. La storia personale dell’autore è complessa. Cinquantaquattrenne catanese, fin

da giovanissimo si è trasferito a Roma. Dopo l’esperienza universitaria, l’iscrizione al Psi e quella alla Cgil. Una doppia tessera che ha messo Giuliano nella scomoda situazione di essere ospite in casa propria, anche considerazione del fatto che il sindacato lo ha assorbito completamente fin dai primi anni dell’attività lavorativa.

Una rapida carriera che lo ha portato, nel 1990, a ricoprire l’incarico di Segretario generale degli edili nel Lazio. L’autore si propone oggi come un osser-

per caso o per convinzione, sotto l’egida del berlusconismo. Dalle pagine del libro emerge chiaramente più che il risentimento, l’amarezza, di chi è stato convinto per anni di incarnare l’anima riformista della sinistra italiana, combattendo lealmente, ma sen-

Dalle pagine emerge l’amarezza, più che il risentimento, di chi ha pensato di incarnare per anni i valori della sinistra che ha combattuto, senza esclusione di colpi, il massimalismo vatore dello scenario politico italiano. In particolar modo, anzi, delle trasformazioni che sono intercorse tra i turbolenti mesi del 1992 e oggi. In realtà Giuliano manca nel suo obiettivo. Non perché la lettura delle sue pagine non offra alcuni interessanti chiavi di lettura utili a interpretare il tentativo di regime change avvenuto nel nostro Paese. Quanto piuttosto perché il fluire del suo pensiero è indissolubilmente legato alla propria storia personale, dalla quale non riesce a distaccarsi. A torto o a ragione, il libro di Giuliano diventa così un’utilissima traccia per decodificare la posizione, umana e politica, di quella pattuglia di ex-socialisti ritrovatisi a militare,

za esclusione di colpi, il massimalismo radicaleggiante del Partito comunista. E che nel 1994 si è ritrovato orfano di un sistema di valori, di una comunità politica alla quale l’azione di Craxi aveva conferito nuovo smalto e nuova vitalità. Ma non solo. La goccia rossa sul tappeto nero è il grido di stupore e di dolore di quelli che hanno visto la classe dirigente post-Pci accreditarsi come sinistra moderata e riformista.

Un’usurpazione di quello spazio politico così a lungo, e con alterni successi, occupato e rivendicato con orgoglio dai socialisti craxiani. Giuliano racconta così della sua militanza forzista, nata per caso e lentamente maturata nelle sue ragioni. Quelle dell’impossibilità di lasciare ai post-comunisti l’esclusiva delle politiche riformiste in Italia. L’autore condanna l’ideologismo che cova con irriducibile accanimento sotto le ce-

neri delle nuove denominazioni assunte da quello che fu il partito di Berlinguer. Ma non disdegna nemmeno una stoccata a chi vi si oppone con acrimonia, rivendicando la giustezza e la legittimità del proprio passato di militanza nel mondo del postfascismo. Le ideologie sono un retaggio vetusto di un passato che è duro a morire, afferma Giuliano, ma che dovrebbe essere superato e espulso dal dibattito politico italiano.

Il libro è dunque il «diario di bordo» di un «socialista autonomista, immune dal contagio della terza narice, giammai sedotto dalla propaganda del Pci». Definizione di Giancarlo Lehner, giornalista e polemista di successo, nonché deputato pidiellino, che ha curato la prefazione al testo. Secondo Lehner, a suffragio del pensiero di Giuliano, sono stati gli esecutivi di Berlusconi a riaffermare e a consolidare le «idee e i piani del pensiero e dell’agire del socialismo democratico e liberale di Bettino Craxi». Una lettura politica che inquadra perfettamente il testo, nei suoi pregi e nei suoi difetti. Un’interessante chiave di lettura della storia recente del nostro Paese, che non riesce tuttavia a slegarsi da un pregiudizio, pur benevolo, di fondo. Finendo così inevitabilmente a risultare una lettura estremamente interessante per chi ne condivide il pensiero, e da evitare radicalmente coloro che, al contrario, non vi si riconoscono.


cultura

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a scomparsa di Francesco Adorno, uno dei più autorevoli storici della filosofia antica, lascia un vuoto incolmabile nella cultura italiana. Francesco Adorno è morto a Firenze all’età di 89 anni, il capoluogo toscano era diventata la sua città, nonostante le radici siciliane. Era nato a Siracusa nel 1921, ma ha sempre vissuto a Firenze, dove, tra l’altro, insegnò per molti anni e fu presidente de “La Colombaia”, la nota accademia di scienze e lettere.

mente le cosiddette “scienze esatte” dalle discipline morali e filosofiche, che al contrario, in origine, erano tutte “scienze” filosofiche, si basavano cioè su indagini sulle condizioni che rendono possibile un discorso corretto. Aristotele, spiegava Adorno, si limitava a distinguere tra prassi e teoria e, all’interno di quest’ultima, tra filosofia prima, o metafisica, e filosofia seconda. Adorno proseguì successivamente la sua ricerca indagando il significato dei termini platonici “idea”, “ragione” e ”verità”, accennando quindi alla dottrina dell’anamnesi esposta da Platone nel Menone per dimostrare che è possibile fondare non una fisica, ma solo una scienza matematica, la quale, benché esistesse prima di Platone, solo in lui ha trovato una rigorosa fondazione.

L

Il suo nome circolò, oltre che nell’ambito universitario, anche tra gli studenti liceali per un fortunato manuale di Storia della Filosofia pubblicato da Laterza, che scrisse con Tullio Gregory e Valerio Verra. Divulgò il suo sapere non solo attraverso i libri, ma anche in televisione. Nonostante la dedizione del piccolo schermo verso l’intrattenimento e i giochi a quiz, Adorno ebbe lo spazio per proferire le parole del mondo classico. Spesso si rese protagonista di qualche trasmissione della tarda notte per parlare di pitagorici o di Platone. Non ostentava mai la propria cultura, la metteva anzi al servizio degli altri, trattando argomenti alti sempre con estrema semplicità. Sicuramente l’opera che segnò una svolta furono i due tomi de La filosofia antica, che videro la luce grazie a Feltrinelli nel 1961 e nel 1965 (poi ristampati in quattro volumetti), parte fondante di una storia del pensiero però mai completata. Francesco Adorno fu un ex partigiano, si formò nel clima fiorentino degli anni Trenta e di guerra; parte importante, ma non determinante, della sua formazione fu lo storicismo crociano, che lo indusse a concepire la filosofia come riflessione storico-crtica mai separata dalla vita. E se il primo tomo dell’operara edita da Feltrinelli non rappresentò una rivoluzione, il secondo conteneva invece una nuova visione della materia prima delle ricerche di Giovanni Reale e dei contributi più recenti. Detto in parole povere, lui ampliò notevolmente lo spazio concesso ad autori e correnti della tarda antichità, soffermando la sua attenzione su molti Padri della Chiesa, sugli uomini di scienza, spingendosi con ricerche sofisticate e dettagliate sino al VI secolo. Gli interessi filosofici dello studioso sono stati rivolti, in primo luogo, ad una ricostruzione filologicamente rigorosa di alcuni periodi e di alcune figure del pensiero antico, come la formazione della scuola ionica, Socrate, le scuole ellenistiche, Epicureo e Seneca. Per editori come Utet e Laterza, Adorno contribuì alla traduzione delle opere di Platone.

Il personaggio. Ritratto del grande filosofo scomparso a Firenze a 89 anni

Adorno, l’archeologo del pensiero antico di Sabrina de Feudis Il suo stile, taluni sospiri che sapeva elargire dinanzi alle questioni amate, vanno cercati negli Studi sul pensiero greco (pubblicati dalla compianta Santoni nel 1966).

Fu un uomo e un autore preciso, Adorno, spese diverso tempo della propria vita per portare avanti ricostruzioni filologicamente rigorose. Non lasciava nulla al caso, per inseguire a volte anche il più piccolo dettaglio, anche un solo termine. Non rispecchiava il ruolo dell’accademico pedante, forse affibbiato a qualche altro suo collega, né tormentava il mon-

Qui sopra, il filofoso Francesco Adorno, scomparso domenica a 89 anni. In alto e a destra, la celebre opera “Il pensatore” di Rodin

Influenzato dallo storicismo crociano, ha concepito la sapienza come riflessione storico-critica mai separata dalla vita do con questioni dogmatiche irrisolte. Intuì che il pensiero greco e romano aveva ancora infinite sorprese e che nel mondo antico si celava uno specchio nel quale si riflettono molte nostre idee, marxismo compreso. Forse per questo seppe coniugare una buona divulgazione con un rigore che gli veniva dai “suoi” greci.

Come spesso confidava ai suoi amici più cari, l’incontro con alcuni di quei filosofi gli fece perdere la testa a tal punto da non riuscire più a pensare ad altro. In un’intervista rilasciata qualche anno fa, Adorno respingeva lo storicismo hegeliano e marxiano come deteriore metafisica della storia, ma sottolineando la necessità di pensare storicamente le

idee e gli autori. Francesco Per Adorno, poi, lo storico del pensiero, attraverso lo studio delle parole, doveva necessariamente ricostruire la storia della cultura umana. Il filosofo illustrava l’etimologia del termine “filosofia”, che indica non tanto il sapere quanto proprio il “desiderio di sapere”; e suo anche il merito di aver ricordato l’immagine platonica della filosofia come “figlia della meraviglia”: la definiva insomma come problematizzazione dell’ovvio e dell’opinione comune, come superamento della “para-noia” nella “dia-noia”, quale capacità di articolare il discorso.

Nel linguaggio alfabetico, meno statico di quello ideogrammatico, Francesco Adorno indicava la ragione ultima dell’origine della filosofia nell’area culturale della Grecia. La distinzione tra filosofia e scienza, però, è il frutto della moderna epistemologia che ha separato netta-

La fisica epicurea, configurandosi in termini meccanicistici e non finalistici, e fondando l’esperienza su due condizioni - l’atomo e il vuoto - concepisce il mondo come la combinazione casuale di elementi semplici, dentro la quale si realizza la libertà umana e la sua capacità di trasformare la realtà. Francesco Adorno racchiudeva in sé i ruoli che l’hanno accompagnato per tutta la sua esistenza: l’uomo, l’autore e il professore. Detentore di una vasta cultura messa a disposizione degli altri, generoso nel concedere nei suoi scritti punti di vista nuovi ed efficaci per interpretare la filosofia antica. Definito alla pari di un archeologo, riusciva a scavare anche nel terreno più insidioso, per portare alla luce pezzi di cultura immortali.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE

Affidamento dei figli: opinionisti, siate più obiettivi! Scrivo questa lettera perché mi capita spesso di leggere articoli di opinionisti e professionisti che esprimono la seguente aberrazione: «nelle separazioni i figli sono campo di battaglia del potere, la carta prendi tutto: casa, soldi. Genitori cattivi, poveri figli!». Ma stiamo scherzando? È evidente, è statistica che sono le madri a chiedere in massa e ottenere l’affido esclusivo/prevalente dei figli, e dunque a esercitare quel ruolo di potere. Avete mai visto cosa succede a un uomo che chiede l’affido prevalente (magari per fondata ragione) in tribunale? Io sì... risatine, sbuffi e automatico rifiuto dei giudici. Semmai si può dire che il padre cattivo è colui che nella separazione si defila e lascia i figli a se stessi, ma il padre chioccia che chiede l’affido per ottenere casa, soldi e potere è pura irrealtà. I figli continueranno a essere usati come merce di ricatto dalle madri e abbandonati dai padri finché continuerà questa bieca retorica. Qual è il problema? Dover fare qualche critica al femminile? Allora cerchiamo di evolverci e ricordiamoci che, sessanta anni fa, le persone erano disposte a perdere gambe e braccia per onestà e giustizia, mentre oggi no. Se davvero volete aiutare i bambini e i ragazzi nelle separazioni, allora siate più obiettivi.

Un figlio di separati

UNA PROPOSTA INOPPORTUNA La notizia dell’iniziativa dell’on. Mario Valducci del Pdl, di voler porre il limite di 8085 anni, oltre il quale non sarà possibile guidare, è giunta agli interessati come un fulmine a ciel sereno, ed è stata accolta come una punizione non meritata. La motivazione che con l’età diminuisce l’attenzione è un’affermazione gratuita, perché non suffragata da indagini scientifiche. Quello che è certo è che con l’età aumenta la prudenza, che manca spesso ai giovanissimi, e che è fondamentale nella guida quanto l’attenzione. E poi l’età viene vissuta diversamente da persona a persona. Poiché con l’età, aumenta la prudenza e poi l’attaccamento alla vita è maggiore di quello che era nella gioventù, gli anziani non hanno bisogno di steccati per sapere quando devono lasciare definitivamente la patente,

perché hanno maggiore autocontrollo. Porre dei limiti, può risultare anche offensivo per chi si sente ancora nel pieno del vigore. Quanta gente guida mentre usa il telefonino? E che dire dei motociclisti senza casco, o dei sorpassi irregolari? Il problema più urgente non è quello di aggiungere altre norme al Codice della strada, bensì di far rispettare quelle che ci sono.

Luigi Celebre

SOLO UN GIOCO POLITICO Basta con i giochetti politici. Questo governo non lavora nell’interesse del Meridione, né della Puglia e dei pugliesi. La proroga concessa dal governo alla regione Puglia per rivedere il Piano di rientro sanitario altro non è che l’ennesimo gioco di chi voleva tenere sulla corda il governo regionale, ben sapendo che la proroga alla

Mi è parso di vedere un ratto! Il solo pensiero di un topo vi fa saltare sulla sedia? Niente paura, quello che vedete è un sorcio, sì, ma di ultima generazione. Psikharpax, questo il nome del robot, evita gli ostacoli grazie a due piccole telecamere poste negli occhi. Scopo dei ricercatori è rendere il ratto in grado di sopravvivere autonomamente

fine sarebbe stata concessa. È evidente che quella di Tremonti e Fitto è stata solo un’azione politica di disturbo nei confronti dell’avversario. Mentre la Puglia continuava a vivere le sue preoccupazioni quotidiane e cinquemila famiglie di precari da internalizzare attendevano di conoscere il proprio destino, gli autorevoli esponenti del Pdl si divertivano nel gioco del tira e molla per destabilizzare e tenere con il fiato sospeso i loro avversari politici, senza pensare minimamente alle ansie e alle at-

L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

tese dei pugliesi. Un gioco che va avanti da tempo considerato che dopo quasi due anni dall’insediamento del nuovo governo, ancora non siamo riusciti a vedere un solo provvedimento che possa aver portato non vantaggi ma almeno sollievo a questo territorio. Cosa ha dato in questi due anni il governo alla Puglia e più in generale al Mezzogiorno d’Italia? Quali sono le azioni che avrebbero prodotto dei benefici per risollevare le sorti del Sud del Paese?.

Salvatore Negro

dal “The Guardian” del 20/09/2010

Ma i nostri soldi non salveranno lo Yemen l gruppo internazionale “Amici delloYemen”, creato lo scorso gennaio per aiutare la nazione a risolvere i “vari, urgenti problemi” che l’assillano, si incontrerà in maniera ufficiale a New York il prossimo venerdì. Nel gruppo sono comprese circa 30 nazioni: fra queste Stati arabi, Paesi europei, Stati Uniti e Cina, insieme alla Banca mondiale, la Lega araba e il Fondo monetario internazionale. Nessuno mette in dubbio che lo Yemen sia nei guai: non è soltanto un santuario di al Qaeda, ma ha una situazione economica disastrosa e il suo governo (colpito da diversi scandali legati alla corruzione) non riesce a tenere sotto controllo una larga parte del territorio nazionale. La questione è: cosa possiamo fare? Il presidente Ali Abdullah Saleh, che guida il governo di Sana’a sin dal 1978, vorrebbe ottenere il maggior numero di aiuti possibili con il minor numero di richieste possibile. Gli “Amici dello Yemen”, d’altra parte, temono di vedere sprecato il loro denaro e cercano di capire se Saleh vuole veramente mettere in ordine casa propria. Per cercare di avere delle risposte, all’incontro di venerdì verranno ascoltati i rapporti di due gruppi diversi: il primo incaricato di relazionare sull’economia e sul governo yemenita, mentre il secondo parlerà di giustizia e stato di diritto nel Paese. Nel passato, Saleh ha trasformato gli aiuti umanitari in un vantaggio personale: ha trattato separatamente con i vari donatori, che hanno perso così ogni influenza sui propri denari. A questo, il Gruppo spera di non arrivare e

I

Saleh si è reso conto che la musica è cambiata. Ad esempio, il presidente ha accettato una riforma imposta dal Fondo monetario internazionale molto contestata dalla popolazione, che prevede una tassa del 10 per cento sulle vendite e il taglio dei sussidi di carburante. Questa seconda manovra ha, nello Yemen, un’importanza particolare: nati per aiutare i poveri, i sussidi di carburante nel Paese sono divenuti una delle maggiori fonti di introiti per i ricchi, che li comprano a prezzi ribassati in enormi quantità per poi esportarli. L’impeto iniziale che ha dato il via alla nascita del Gruppo va ricercata nella serie di attentati che ha colpito il mondo lo scorso anno, tutti collegati con l’al Qaeda yemenita. Il Comando centrale americano ha proposto un pacchet-

to di aiuti militari da 1,2 miliardi di dollari, da elargire in sei anni, che includa equipaggiamento e addestramento. Ma su questo non c’è coesione fra gli ufficiali statunitensi: molti temono che Saleh possa usare questo aiuto contro i suoi nemici personali, rendendo la nazione più instabile di prima. D’altra parte anche la procedura degli omicidi mirati dei militanti qaedisti (spesso condotti di accordo con gli Stati Uniti) si è dimostrata spesso controproducente. Lo scorso dicembre, un raid ha provocato 42 vittime innocenti che ha costretto il governo a scusarsi pubblicamente. Come è noto, le procedure anti-terrorismo utilizzate male possono essere spesso più dannose che la mancanza stessa di un piano contro il terrore. Soprattutto perché fomentano il risentimento popolare contro le autorità e portano la popolazione nelle mani dei militanti. Ma d’altra parte, Saneh ha molto poco interesse a sconfiggere al Qaeda una volta per tutte.

Se la Rete di bin Laden sparisse dal Paese, infatti, porterebbe con sé anche l’interesse (e i fondi) internazionali. Mentre il Gruppo sembra aver compreso che gli sforzi militari e di sicurezza, da soli, non riusciranno a sconfiggere al Qaeda, il presidente fa finta di non capire quali siano le cause che nutrono la militanza nei gruppi terroristici. E probabilmente ritiene anche di non essere in grado di vincere. Nel frattempo, gli yemeniti sono lasciati soli. E i nostri soldi non potranno aiutarli in alcun modo.


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog osservatorio del lavoro

LE VERITÀ NASCOSTE

di Vincenzo Bacarani

Flatulenze a bordo, atterraggio d’emergenza NASHVILLE. Atterraggio d’emergenza per flatulenza a bordo. Può sembrare impossibile ma è proprio quello che è successo negli Stati Uniti, dove un aereo dell’American Airlines è stato fatto atterrare all’improvviso, dopo che una passeggera aveva acceso un fiammifero per “nascondere” l’odore di una flatulenza. Il volo in rotta verso Dallas è stato immediatamente dirottato a Nashville, in Tennessee, in pieno allarme: diversi passeggeri, infatti, hanno avvertito, molto preoccupati, gli assistenti di volo di sentire a bordo un fortissimo odore di zolfo, dal cerino bruciato. Tutti i novantanove passeggeri a bordo dell’aereo

della più nota compagnia americana e i membri dell’equipaggio sono stati fatti scendere, i bagagli sono stati scaricati e immediatamente ispezionati con cura e attenzione. Poi è stata la volta degli interrogatori da parte degli agenti dell’Fbi e, finalmente, l’inattesa confessione. Una passeggera ha ammesso di essere stata lei ad accendere il fiammifero, nel tentativo iinocente e ancor di più innoquo di camuffare il cattivo odore. La donna, ha riferito una portavoce dell’aeroporto internazionale di Nashville, ha detto di avere una malattia che le provoca gli spiacevoli sintomi, senza specificare quale, che ovviamente non può

MUTUI IMMOBILIARI. AIUTI DELLO STATO PER CHI NON CE LA FA È entreto in vigore il decreto del ministero dell’Economia, che ha finalmente dato attuazione alla norma che consente di ottenere la sospensione delle rate dei mutui prima casa per le quali si possa dimostrare che non si è in grado di far fronte. Un decreto attesissimo, arrivato con un ritardo di piu’ di due anni. La norma che ne aveva annunciato l’emissione e che aveva introdotto l’agevolazione costituendo un ”fondo di solidarieta’”, infatti, è la Finanziaria del 2008. Nel frattempo, l’Abi ha siglato un accordo con alcuni istituti perché, a partire dal 1 febbraio 2010, si prestassero volontariamente alla sospensione delle rate dei mutui in presenza di difficoltà documentate del mutuatario. Accordo tutt’ora in vigore a cui si aggiunge il nuovo decreto che, invece, obbliga le banche ad uniformarvisi. Per aiutare i risparmiatori, abbiamo approntato una scheda pratica:“Mutui per la casa di abitazione: chi puo’ ottenere la sospensione delle rate e come”. http://sosonline.aduc.it/scheda/mutui+casa+abitazione+chi+puo+ottenere+sospensione _18033.php.

Rita Sabelli - Aduc

COME ACQUISTARE IL TONNO IN SCATOLA Praticissima, una scatola di tonno può risolvere il problema di una cena estiva, o di quando manca il tempo e, soprattutto, la voglia di preparare la cena. Già, ma quale tonno? I più pensano che il tonno che consumiamo arrivi dai nostri mari, pescato nelle tonnare e prontamente inscatolato. Non è così perché la maggior

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

ACCADDE OGGI

21 settembre 1984 Il Brunei ottiene l’indipendenza dal Regno Unito 1989 L’uragano Hugo si abbatte sullo stato statunitense della Carolina del Sud 1990 Il giudice Rosario Livatino viene assassinato, a soli 38 anni, mentre percorre la statale AgrigentoCaltanissetta 1991 L’Armenia ottiene l’indipendenza dall’Unione Sovietica 1993 Il presidente russo Boris Yeltsin sospende il Parlamento e annulla la Costituzione in vigore, innescando così la crisi costituzionale 1995 Avviene il miracolo indù del latte, nel quale delle statue raffiguranti la divinità induista Ganesh cominciano a bere latte quando vengono avvicinati alla loro bocca dei cucchiai contenenti tale bevanda 1999 A Taiwan, terremoto di magnitudo 7,6 della scala Richter 2001 In Francia esplode una fabbrica Azf; il bilancio è di 30 morti e 2500 feriti, oltre a notevoli danni materiali

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

controllare. Il volo, poi, è ripartito senza incidenti, ma la donna non è stata fatta risalire a bordo. Contro di lei, però, nessuna accusa.

parte del tonno “nostrano”, cioè il tonno rosso, viene acquistata dai giapponesi che ne sono estimatori, e a noi non rimane che consumare il tonno giallo, o meglio a pinna gialla, pescato negli oceani (magari dagli stessi giapponesi). Anche nel tonno ci sono parti più o meno pregiate, come può essere il filetto e la spalla per il bovino, ma questa informazione non è riportata nell’etichetta della maggior parte dei prodotti. La parte più pregiata è quella ventrale, detta ventresca, poi quella dorsale, chiamata tonnina, e quella caudale e pinnale, indicata come busonaglia. Il tonno dovrebbe essere a trance intere perché quello sminuzzato può provenire da rimanenze di lavorazione. Tutto il tonno è cotto a vapore e l’aggiunta di oli di varia natura è un indice di qualità: l’olio extra vergine, l’olio di oliva, l’olio di semi rappresentano le scale, a scendere, della bontà del prodotto.

Primo Mastrantoni

VALORI PERENNI: LIBERTÀ, CONCORRENZA, LAVORO E RISPARMIO Il collettivismo genera tirannia e povertà. La libertà e il benessere si sviluppano nell’economia di mercato concorrenziale. La competizione stimola il rendimento e l’efficienza. La proprietà privata dei mezzi di produzione responsabilizza l’individuo e ne protegge l’indipendenza dal potere politico e partitocratico. Valori perenni sono: lavoro, risparmio, iniziativa, responsabilità, autonomia, equilibrio e coraggio. E, ancora, rettitudine, pionierismo, assunzione ponderata dei rischi, individualità aperta alla comunità e moneta sana.

Gianfranco Nìbale

Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Robert Kagan, Filippo La Porta,

Direttore da Washington Michael Novak

Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,

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Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,

Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi,

Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,

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Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,

CONTRATTO UNICO? SÌ, NO, FORSE Con la ripresa totale del lavoro e l’avvenuta riapertura delle scuole, tornano d’attualità i soliti, spinosi, temi della disoccupazione giovanile. Le proposte per tentare di risolvere, almeno in parte, il problema ci sono. Ma non c’è nessuno che abbia la voglia di accelerare i tempi e varare una riforma che sia in grado di togliere pesi e legami a un mercato (quello del lavoro) davvero immobile e chiuso su se stesso. I sindacati si stanno finalmente autoconvincendo che è ora di rimboccarsi le maniche e modificare qualche cosa, ma i tempi che si prefiggono sono biblici. Ecco che allora le proposte più interessanti e sulle quali poter discutere vengono dagli imprenditori e dagli studiosi. La grande crisi mondiale, purtroppo non ancora passata, ha messo a dura prova i sistemi più avanzati di altri Paesi europei e l’Italia, che è ancorata a uno schema che privilegia solo chi un lavoro ce l’ha già paga un prezzo più duro di tutti. In questo ultimo fine settimana c’è stato un interessante intervento in materia da parte del presidente della Confcommercio, Carlo Sangalli nel corso del convegno dei giovani imprenditori dell’organizzazione svoltosi a Venezia. Sangalli ha detto in sostanza due cose: che se si vuole smuovere il mercato del lavoro, se si vuole che i giovani abbiano la possibilità di farne parte occorre approntare un nuovo Statuto dei lavori che preveda nuove forme contrattuali e occorre operare più sgravi fiscali sui premi di produzione. Il nuovo Statuto dei lavori non dovrà ovviamente trascurare i diritti dei lavoratori. Il progetto, a cui sta lavorando da tempo il ministro del Welfare Sacconi, potrebbe rendere più appetibile per le imprese le assunzioni (anche temporanee) di giovani. Un progetto che se trova interessate la Cisl e la Uil, vede sospettosa e molto diffidente - al limite del no la Cgil: lo statuto dei Lavoratori non si tocca, dice il sindacato ora guidato da Epifani. C’è tuttavia un altro fronte che si apre a sinistra o, meglio, nel centrosinistra e questa volta lo apre un politico: Walter Veltroni. L’ex-sindaco di Roma ed ex-leader del Pd intende appoggiare la proposta del giuslavorista e parlamentare del Pd Pietro Ichino sul contratto unico. Una proposta elaborata anche dai due economisti Tito Boeri e Pietro Garibaldi. Proposta che si può riassumere così: assunzione a tempo indeterminato per tutti con possibilità di licenziamento per giusta causa nei primi tre anni, salario minimo garantito e 33% di versamento dei contributi previdenziali. Una proposta che potrebbe trovare d’accordo parte dei sindacati e gran parte degli imprenditori. Perché finora i risultati del lavoro interinale, dell’apprendistato e degli stage sono stati davverso scarsi e la disoccupazione giovanile aumenta anno dopo anno. bacarani@gmail.com

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ULTIMAPAGINA Omonimia. Il capo indiscusso dei rom austriaci ha origini ungheresi e porta lo stesso cognome del presidente francese

Si chiama Sarkozy, ma è il re di Luisa Arezzo embra uno scherzo, ma non lo è. Mentre non si placano le polemiche contro le politiche di espulsione dei rom fortemente volute dal presidente francese Nicolas Sarkozy, che meno di una settimana fa hanno condotto la Francia sul baratro di una crisi con Bruxelles, esce allo scoperto il re degli zingari dell’Austria. E lo fa per un motivo ben preciso: porta lo stesso cognome dell’inquilino dell’Eliseo, ma si chiama Rudolf. L’omonimia è presto spiegata: entrambi hanno origini ungheresi: Nicolas è figlio di Paul Sarkozy, un aristocratico nato a Budapest e naturalizzato francese; Rudolf ha visto la luce nel 1944 nel campo di concentramento di Burgenland - il Land austriaco più orientale, più pianeggiante e più recente (fa parte dell’Austria dal 1921) - dove la sua famiglia era stata deportata dall’Ungheria durante la seconda guerra mondiale. «Il nostro cognome - spiega l’uomo - è assolutamente di origine rom, tanto che sia durante che dopo la seconda guerra mondiale, moltissime persone hanno preferito farselo cambiare per non restare vittima di profonde discriminazioni». Evidentemente non è questa la storia del presidente francese, ma non si può fare a meno di notare che la realtà ci regala sempre dei paradossi che superano ogni fantasia. Esattamente come questo. Rudolf Sarkozy - che nell’Austria è stato scritto alla tedesca: Sarközi - oltretutto non cerca pubblicità da questa omonimia. Anzi, preferisce starsene defilato e continuare il suo lavoro di consigliere circoscrizionale e di paladino dei diritti rom. Sì, perché oltre al cognome, l’uomo condivide con l’illustre cittadino francese anche la passione politica. Tanto da diventare, nel corso del tempo, il portavoce più noto della comunità rom austriaca una minoranza protetta dal 1993 come le altre minoranze etniche e linguistiche, sloveni, ungheresi, cechi, croati, slovacchi.

S

Lo zingaro Rudolf Sarközi, viso rotondo e fieri moustache, prima di intraprendere la sua carriera politica, lavorava a Vienna come netturbino. Vecchio militante del Partito socialdemocratico Spo, ha detto di aver seguito «con inquietudine» le misure prese dalle autorità francesi contro i Rom venuti dalla Romania e Bulgaria. Ma non cerca facili polemiche, anzi: «Certo - ha detto al quotidiano francese Le Monde - non si possono lasciar crescere campi senza controllo e non si può difendere in alcun modo la criminalità che magari vi si annida. Ma se a questa gente si offrono campi attrezzati e la possibilità di vivere degnamente, non c’è dubbio che prima o poi faranno un passo verso l’integrazione». A leggerla bene, non è certo entrato in polemica con il presidente francese, piuttosto ha aggiustato il tiro indicando una strada da percorrere. Le sue idee, in materia, sono in effetti molto chiare: «Il nodo principale da risolvere resta quello della formazione dei bambini e dei giovani - ha continuato il re degli zigani, come lo definiscono gli uomini dell’estrema destra austriaca -. A Burgenland, alla frontiera con l’Ungheria, è possibile insegnare nelle scuole pubbliche in lingua romani». L’esperimento sembra funzionare e la comunità zingara dell’Austria - su iniziativa di Sarközi ha investito un milione di euro, avanzo delle

degli

ZINGARI

Nato nel 1944 nel campo di concentramento di Burgenland, dove la sua famiglia era stata deportata, l’uomo è oggi consigliere circoscrizionale a Vienna e si batte per l’istruzione dei giovani nomadi e per i diritti della sua comunità

somme stanziate per i rom austriaci dal Fondo nazionale per l’indennizzo delle vittime del nazismo (9mila Rom e Sinti, su 12mila presenti prima della guerra, vennero sterminati), a favore di una Fondazione per il sostegno alla formazione dei giovani rom a condizione ch’essi diano prova della loro buona volontà. Stanziali in Austria ormai da lunga data, i rom austriaci sono circa 30mila su una popolazione totale di circa 8 milioni e mezzo di abitanti. E come in tutti gli altri Paesi Ue

vivono ai margini della società e non hanno quasi alcuna rappresentanza politica su cui contare.

«Molta della mia gente è arrivata qui negli anni delle guerre nella ex Jugoslavia continua Rudolf Sarkozi «anni in cui abbiamo vissuto una situazione di precarietà simile a quella che si vede oggi in Francia». Nel febbraio 1995, una bomba assassina uccise quattro nomadi a Oberwart, suscitando nel Paese profonda emozione. Dopo quell’episodio, all’estremista attribuito Franz Fuchs, finito suicida in carcere, «in Austria tornò la calma e ripresero i processi di integrazione». Processi ancora in fase embrionale, dice Sarközi, che deplora che la sua comunità, come in altri Stati europei, sia troppo poco presente in campo politico, anche per le sue note divisioni. Divertito dall’improvvisa notorietà, l’uomo sostiene di non aver nemmeno immaginato un incontro con il presidente. Ma gli piace ricordare un episodio storico: «in epoca feudale, il conte Batthyany concesse la sua protezione ai rom del Burgenland ponendoli sotto l’esclusiva autorità del loro “vovoide” (il capo locale, ndr.), che allora si chiamava Martin Sarkozi». Come dire: chi ha orecchie per intendere, lo faccia.


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