È più importante la ridistribuzione delle opportunità che quella della ricchezza
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Arthur Hendrick Vandenberg di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 22 SETTEMBRE 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Dal vertice nessuna soluzione per mantenere le promesse e la Caritas accusa: «I ritardi e gli squilibri sono inaccettabili»
Mangiano le nostre chiacchiere Convocato dalle Nazioni Unite per combattere la povertà,“Millennium Goal“ si è rivelato un disastro. Qualche idea alla Sarkò,nulla di più.E un miliardo di persone continua a vivere con un dollaro al giorno PROMESSE INUTILI
ENTI INUTILI
Una cinica passerella del mondo
Che differenza Ma l’equità c’è tra l’Onu converrebbe e Hyde Park? anche a noi
PAURE INUTILI
di Paola Binetti
di Andrea Mancia
di Gennaro Malgieri
avanti alla povertà che c’è nel mondo e alla fame che ne è la naturale conseguenza, da molti anni i governi rispondono facendo promesse che non intendono mantenere; tuttavia non rinunciano a gareggiare tra di loro nel disegnare scenari sempre più rassicuranti, in cui l’economia occidentale si assicura un ruolo di buon samaritano, che non intende affatto onorare. Forse sono proprio queste promesse vuote di impegno che offendono di più la gente comune, quella che crede che finalmente sia arrivata la volta buona.
l dubbio, ormai, è diventato un semplice esercizio accademico: l’Onu è soltanto inutile o, con il passare degli anni, è diventata addirittura dannosa? L’ultima sfilata dei leader mondiali al Palazzo di Vetro, per certificare lo stato dell’arte (traduzione: il fallimento) degli Obiettivi del Millennio non ci aiuta a dirimere la questione. La sede delle Nazioni Unite sembra ormai essersi trasformata in una versione, mediaticamente più sofisticata, dello Speakers’ Corner di Hyde Park.
no spettro s’aggira per il mondo. E sembra che tutti lo scansino. È la povertà. Se ne parla poco, ma sta assumendo dimensioni apocalittiche. Oltre un miliardo di esseri umani vivono con meno di un dollaro al giorno; la metà della popolazione mondiale sopravvive (quando ci riesce) con meno di due dollari. Questi fantasmi che non compaiono sulle prime pagine dei giornali, non hanno voce, sono impossibilitati a presentarsi ai summit internazionali per mostrare il dramma che quotidianamente li accompagna.
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Parlano Giulio Albanese e l’ambientalista Bjorn Lomborg
«Ecco qual è la ricetta giusta» «Annullamento del debito del Terzo Mondo e nuove regole del commercio: queste le cose da fare subito» Vincenzo Faccioli Pintozzi • pagina 5
Rampl prende le deleghe: tre settimane per il nuovo management
Profumo sbatte la porta L’ad si dimette: i tedeschi si prendono Unicredit di Francesco Pacifico
La parabola di «Alessandro Magno»
ROMA. Alessandro Profumo
Un banchiere con troppi nemici
non si è fatto licenziare: prima del cda che doveva metterlo sotto processo ha rassegnato le dimissioni da amministratore delegato del gruppo Unicredit: e così la crisi del più grande gioeiello bancario italiano tocca il suo vertice. Le liti tra soci (alimentate dalle mire finanziarie della Lega) hanno consegnato Unicredit ai tedeschi: il presidente Dieter Rampl, infatti, ha assunto su di sé le deleghe di Profumo e si è dato tre settimane per trovare un nuovo ad.
o chiamavano “Mister Arrogance”, e ha fatto impressione leggere sul Corriere della Sera il quasi piagnucoloso lamento: «Vogliono mandarmi via, dopo tanti anni, mi trattano così». Dopo la lettera di dimissioni, una cosa è comunque certa: nel firmamento degli gnomi della Finanza è implosa quella che per un paio di lustri è apparsa la più lucente delle stelle. Nel mondo bancario ci si divide fra vittimismi e colpevolisti.
andra Mondaini ha aspettato solo cinque mesi per tornare accanto a Raimondo Vianello. L’attrice si è spenta ieri a Milano, a 79 anni: il colpo della morte del marito è stato troppo forte: avevano lavorato insieme tutta la vita.
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EURO 1,00 (10,00
La scomparsa dell’attrice milanese a 79 anni
Sandra Mondaini addio
di Giancarlo Galli
Casa Vianello chiude per sempre
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CON I QUADERNI)
• ANNO XV •
NUMERO
184 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
di Gabriella Mecucci
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IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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la polemica
Che differenza c’è tra l’Onu e Hyde Park? Le Nazioni Unite sono diventate una passerella per le sfilate dei leader (e dei tiranni) mondiali di Andrea Mancia segue dalla prima Ognuno sale sul palco, dice quello che vuole dire, saluta e se ne va. Con una sola, significativa differenza: nel parco londinese, i dittatori (se riconosciuti) non sono in genere accolti a braccia aperte.
Se però scorriamo brevemente il primo e il secondo articolo dello Statuto delle Nazioni Unite, che ne definiscono «obiettivi e principi», il senso strisciante di pessimismo cresce. «Mantenere la pace e la sicurezza internazionale»? «Promuovere la soluzione pacifica delle controversie»? «Sviluppare le relazioni amichevoli tra le nazioni»? Fallimento su tutta la linea. «Promuovere il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali degli individui»? Niente di più semplice, per un’organizzazione che ha piazzato l’Iran nella Commissione per i diritti delle donne; la Libia
nel Consiglio per i diritti umani; Sudan, Cuba, Cina e Pakistan nel Comitato per il controllo delle organizzazioni non governative; Cuba, Egitto e Zimbabwe nella Commissione per lo sviluppo economico e sociale; Angola e Arabia Saudita nella Commissione per lo sviluppo sostenibile. Si tratta di scelte che riescono, contemporaneamente, a tradire lo spirito che ha portato alla creazione di commissioni o comitati e a prolungare la sofferenza delle persone che, in teoria, si volevano proteggere. Ecco allora che il pendolo che oscilla tra inutilità e dannosità inizia inesorabilmente a spostarsi verso quest’ultima. Ma non è finita.
«Promuovere la cooperazione economica e sociale», si legge nello Statuto. Che poi, in concreto, è uno dei motivi per cui - otto anni fa - erano stati approvati gli otto punti degli Obiettivi per il 2015 che spaziano dal «ridurre la
mortalità infantile» al «dimezzare il numero delle persone che vive con meno di un dollaro al giorno», passando per la «parità dei sessi» e la «garanzia di un’istruzione primaria universale».
Naturalmente, nel gergo Onu e in quello dei regimi che ne controllano di fatto gli organi, l’intero costo dell’operazione dovrebbe ricadere sui Paesi “ricchi”. Lunedì il segretario generale Ban Ki-moon ha detto che dei 145 miliardi di dollari promessi alle Nazioni Unite dal G8 di Gleneagles, in Scozia, mancano ancora 26 miliardi. Il degno successore di Kofi Annan si è dimenticato di ricordare che senza una decisiva espansione delle libertà economiche e dei diritti umani - ancora sconosciuti alla mag-
gior parte dei Paesi membri - il raggiungimento di questi obiettivi (o in generale di quelli previsti dallo Statuto Onu) resta una beffarda utopia. Le Nazioni Unite, al contrario, sembrano spingere con tutte le loro forze nella direzione opposta. Assecondano la poltica estera e la repressione interna dei dittatori; danno vita a giganteschi sforzi economici basati su truffe mediatiche (global warming, anyone?); inseguono un terzomondismo d’accatto sconfitto dalla storia e dal buon senso. Il pendolo, a questo punto, si ferma di schianto. E il responso è drastico: oggi le Nazioni Unite sono dannose per lo sviluppo dell’umanità. Meglio, molto meglio, tornare a parlare di una Lega delle democrazie.
Un Palazzo di vetro solo inutile o anche dannoso? Meglio pensare a una Lega delle democrazie
il fatto Ancora una giornata di chiacchiere per i grandi della terra. E Frattini commenta: «La tassa sulla finanza non è praticabile»
Millennium autogoal
Il vertice non trova soluzioni per rispettare le promesse fatte e la Caritas accusa: «Ormai i ritardi e gli squilibri sono inaccettabili» di Osvaldo Baldacci hmadinejad dà lezioni, Chavez all’ultimo momento rinuncia a intervenire perché si deve occupare (come?) delle elezioni di domenica in Venezuela. La Cina vanta i suoi successi. Questo è il parterre dell’Assemblea delle Nazioni Unite dedicata alla lotta alla povertà. Sì, è vero, c’è anche Angela Merkel, ci sarà il presidente Barack Obama, Sarkozy ha lanciato (nel vuoto) la sua proposta di una tassa globale sulle transazioni finanziare per finanziare la lotta alla povertà. Intanto è di pochi giorni fa la notizia che le persone ridotte alla fame nel mondo sono scese sotto il miliardo. Una festa, se la cifra pare poco. Una persona su sei sul pianeta rischia di morire di fame. Se sopravvive ai tanti focolai di guerra e violenza, se sfugge alle malattie, se riesce a bere acqua. Da fare ce n’è molto, ed è bene che se ne parli, ma certo l’impressione che si ha da
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queste grandi riunioni mondiali non è quella dell’efficienza. E l’esperienza insegna che se dovessero arrivare molte roboanti promesse, allora è proprio quello il momento di diffidare.
Visto che finora dei tanti aiuti promessi, molti (Italia compresa) non hanno rispettato gli impegni. Aprendo i lavori, il segretario generale dell’Onu Ban KiMoon aveva spronato i leader a rispettare gli obiettivi per la lotta alla povertà: «Il tempo scorre e abbiamo molto da fare». I Millennium Development Goals vennero fissati nel 2000 con scadenza 2015, con l’obiettivo di dimezzare la povertà e la mortalità. A dieci anni sarebbe tempo di bilanci, ma sembra che tra i 140 leader mondiali presenti prevalga la voglia di fare nuove promesse. Degli otto impegni, proprio la lotta alla povertà sembra essere quello più portata di mano, con la speranza di dimezzare le persone
che vivono sulla soglia della povertà estrema). Anche se ci sono grossi squilibri e le statistiche sono molto influenzate dalla crescita economica dei giganti asiatici, Cina in testa, mentre certo non si può dire che sia migliorata la situazione dell’Africa. Ma ad esempio sul tema della salute la situazione non pare molto migliorata, anzi. È considerata il punto più critico: ridurre la mortalità infantile; migliorare la salute materna; combattere l’Hiv/Aids, la malaria e altre malattie. All’Onu si confrontano visioni molto diverse. Paesi come l’Iran approfittano della tribuna per rilanciare la propria demagogia e la propria propaganda, e accusano l’Occidente mentre in casa loro non si vede alcun progresso economico e la popolazione
vive sempre maggiori disagi. Ahmadinejad ha poi approfittato della gita a NewYork per lanciare minacce e contrattaccare sul caso Sakineh. D’altro canto la Cina vanta grandi successi, approfittando anche di questa occasione e di questo campo di battaglia, per rinsaldare e consacrare il proprio ruolo di superpotenza mondiale. La Cina ha ottenuto un successo “senza precedenti” nella lotta contro la povertà, tanto da poter soddisfare tutti gli Obiettivi del Millennio entro il 2015, ha dichiarato la coordinatrice dell’Onu a Pechino,Renata Dessallien. Già oggi Pechino ha raggiunto alcuni degli otto Obiettivi del Millennio dell’Onu, tra cui quello di ridurre la povertà, garantire l’istruzione primaria universale e ridurre la mortalità infantile. Nel
1990 era il 9,6% dei cinesi a vivere con meno di un dollaro al giorno, percentuale che è scesa al 3,8% nel 2009.
Ovviamente i successi della Cina sbandierati all’Onu sono della serie “chi fa da sé fa per tre”, e poco hanno a che fare con un’azione globale. Senza poi dimenticare non solo la mancanza di libertà, ma anche la mancanza dei diritti dei lavoratori e le grandi diseguaglianze tra zone agricole e zone urbane, zone sviluppate e zone abbandonate. Dall’Occidente invece arrivano soprattutto richieste di maggiore concretezza. Se i governi occidentali sono un po’ sotto schiaffo perché stentano a mantenere gli impegni, stavolta i Paesi donatori intendono anche rimettere in chiaro alcune cose: alle prese con gli effetti della crisi, chiedono di ripensare le strategie e pretendono garanzie che i fondi di aiuti non siano sprecati, o
il commento Quella fatta dal presidente Sarkozy è l’unica proposta sul tavolo
Ma più equità converrebbe anche all’Occidente ricco
Una distribuzione più giusta delle risorse avrebbe grande effetto pure sul fenomeno dell’immigrazione di Gennaro Malgieri no spettro s’aggira per il mondo. E sembra che tutti lo scansino. È la povertà. Se ne parla poco, ma sta assumendo dimensioni apocalittiche. Circa 1,2 miliardi di esseri umani vivono con meno di un dollaro al giorno; la metà della popolazione mondiale sopravvive (quando ci riesce) con meno di due dollari. Questi fantasmi che non compaiono sulle prime pagine dei giornali, non hanno voce, sono impossibilitati a presentarsi ai summit internazionali per mostrare il dramma che quotidianamente li accompagna, sono condannati a vivere esistenze sulle quali gravano fame, malattie endemiche, analfabetismo, Aids, disoccupazione, disparità tra i sessi, mortalità infantile, degrado ambientale, ed altre calamità di analogo devastante tenore. Dieci anni fa, quando 189 capi di Stato e di governo adottarono la Dichiarazione del Millennio, impegnandosi ad eliminare la povertà entro il 2015, il malnutriti, o affamati tout court, erano pressappoco 850 milioni. Oggi, rispetto allo scorso anno, soffrono la fame 925 milioni di persone. L’obiettivo del 2000, dunque, è verosimilmente saltato. La povertà continua la sua marcia nell’irreale deserto dove s’incontrano accartocciate buone intenzioni che finora non hanno prodotto che illusioni. E si continua a morire, in Africa come in alcune aree asiatiche, in parti considerevoli dell’America latina, ma anche nei Paesi industrializzati si contano oltre cento milioni di poveri.
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dispersi in corruzione. Il capo degli aiuti Usa Rajiv Shah ha detto in un’intervista a Reuters che è tempo di ripensare le strategie per incalzare la povertà per focalizzarsi sulla crescita economica, l’affidabilità e combattere la corruzione.
E ha lanciato un appello per standard più rigorosi di responsabilità, programmi che enfatizzano lo sviluppo di economie locali ed uno sforzo più aggressivo per portare innovazioni scientifiche e tecnologiche nel lavoro per lo sviluppo. Su questa linea soprattutto il discorso molto tedesco della cancelliera Merkel: «L’aiuto ai Paesi in via di sviluppo non può continuare all’infinito: il traguardo è utilizzare le risorse limitate nel modo più efficace possibile. Uno sviluppo durevole, nonché progressi economici e sociali, non sono immaginabili senza un buon governo e il rispetto dei diritti umani. La re-
sponsabilità primaria dello sviluppo è nel buon governo dei paesi in via di sviluppo: da loro dipende che gli aiuti siano efficaci». Dure intanto le accuse dal Vaticano, per bocca del card. Peter K.A. Turkson, presidente del Pontificio Consiglio per la Giustizia e la Pace, capo delegazione della Santa Sede al Summit, che oltre ai danni strutturali accusa anche una certa gestione dell’Onu: «Ogni tentativo di usare gli Obiettivi del Millennio per diffondere ed imporre stili di vita egoistici o, peggio, politiche demografiche per ridurre con mezzi economici il numero dei poveri, sarebbe miope e malintenzionato».
L’africano porporato Turkson ha invitato la comunità internazionale a «non avere paura dei poveri» e ha chiesto a tutti i presenti di usare gli Obiettivi del Millennio «per combattere la povertà, non per eliminare i poveri».
Di fronte a questa situazione che ha dell’incredibile se raffrontata al tasso di ricchezza e benessere generalizzati soprattutto nel cosiddetto Primo Mondo, tutte le agenzie internazionali cercano la strada per affrontarla adeguatamente. Fin qui con nessun successo. Eppure c’è chi come Nicolas Sarkozy, non si dà per vinto. In apertura del summit «Millenium goals», nell’ambito della sessantacinquesima assemblea generale delle Nazioni Unite, il presidente francese ha proposto l’istituzione di una tassa universale su tutte le transazioni internazionali al fine di finanziare gli obiettivi di sviluppo globale finora disattesi, nonostante l’impegno dell’Onu che ha dimostrato, una volta di più, di contare poco o nulla. «Bisogna trovare nuove fonti di finanziamento per la lotta alla povertà, per l’istruzione e per la risoluzione delle grandi pandemie sanitarie del Pianeta», ha detto Sarkozy. Perché la finanza non dovrebbe contribuire? Un modo, forse, per arrivare in tempi brevi almeno al raggiungimento della fatidica cifra di 145,7 miliardi di dollari promessi alle Nazioni Unite dai Paesi ricchi nel corso del G8 di Glenea-
gles, in Scozia: mancano ancora, secondo i calcoli di Ban Ki-moon, 26 miliardi, anche se le organizzazioni non governative sono molto più pessimiste e sostengono che ce ne vogliono almeno 120 di miliardi per opporsi con efficacia al dilagare della povertà ed ai fenomeni ad essa connessi.
Comunque sia, lo spettacolo che ci sta davanti, nell’indifferenza di quegli stessi capi di Stato e di governo che immancabilmente mettono sempre al primo punto dei vertici internazionali la lotta alla fame ed alla mortalità infantile, è deprimente. Ed accende inquietudine anche tra chi guarda da lontano allo strangolamento di popoli ed etnie vittime, perlopiù, dell’egoismo di chi ritiene di essere immune dalle conseguenza dello squilibrio. Se soltanto si considerasse che buona parte dell’immigrazione, soprattutto dall’Africa, è determinata dalla naturale ricerca di soddisfacimenti elementari, quali il cibo, l’acqua, farmaci, probabilmente l’impegno nel risolvere, almeno parzialmente il problema, sarebbe più incisivo e le popolazioni stesse si muoverebbero se sollecitate e stimolate. Sarkozy è convinto che un’intesa tra i “grandi della Terra” possa essere trovata. Ma forse pecca di ottimismo. Anche quando i fondi arrivano ai Paesi indigenti, quasi mai si sa come vengono spesi ed in quali tasche finiscono. Abbiamo visto, nel corso degli ultimi cinquant’anni, fiorire dittatori sanguinari proprio nelle aree più depresse, i quali, guarda caso, disponevano di ricchezze immense poste al riparo da occhi indiscreti soprattutto nelle banche europee ed americane. Probabilmente bisognerebbe fare i conti con questa stridente realtà prima di affrontare adeguatamente la povertà. Ma non c’è tempo, purtroppo, e, dunque, bisogna agire. Ottocento milioni di persone affamate, un miliardi di esseri che non hanno accesso all’acqua pulita, undici milioni di bambini al di sotto dei cinque anni che muoiono ogni anno per cause che potrebbero essere evitate, i trentasei milioni di disperati che convivono con l’Aids ed aspettano soltanto di chiudere gli occhi per sottrarsi alla sofferenza, non sanno neppure che da qualche parte si discute di loro. Se lo sapessero, le loro condizioni comunque non muterebbero. E allora?
Abbiamo visto fiorire dittatori sanguinari proprio nelle aree più depresse, i quali, guarda caso, disponevano di ricchezze enormi e nascoste
Sarkozy ha fatto la sua proposta. Sensata, ma restiamo scettici come chiunque. Se non cambia la governance mondiale, continueremo a vivere di suggestioni. E i nostri fratelli sconosciuti di fame e malattie. Non è un bel mondo.
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l’approfondimento
Vertice dopo vertice, si fa sempre più flebile la possibilità di aiuti concreti a quel pezzo di mondo che soffre in silenzio
In parole povere
L’Occidente prima mette a posto i propri bilanci sulle spalle delle popolazioni più sfortunate, poi va in passerella per mostrarsi generoso. E intanto la miseria aumenta. E con i governi indifferenti, solo la Chiesa fa la sua parte di Paola Binetti avanti alla povertà che c’è nel mondo e alla fame che ne è la naturale conseguenza, da molti anni i governi rispondono facendo promesse che non intendono mantenere; tuttavia non rinunciano a gareggiare tra di loro nel disegnare scenari sempre più rassicuranti, in cui l’economia occidentale si assicura un ruolo di buon samaritano, che non intende affatto onorare. Forse sono proprio queste promesse vuote di impegno che offendono di più la gente comune, quella che legge i giornali, guarda la televisione e crede che finalmente sia arrivata la volta buona, quella in cui alle parole seguano i fatti. Ma non è mai la volta buona. E l’Onu sembra che stia diventando il grande sponsor di questa parata di buone intenzione, che ormai di buono non hanno più neppure l’apparenza. Una sorta di vetrina megagalattica in cui rappresentanze sempre più numerose e sempre più costose. Si fanno accreditare per dettare ricette che rivelano una buona dose di arroganza nel tono cattedratico con cui discettano di sviluppo
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dell’agricoltura e dell’industria, di rinnovamento tecnologico e di sperimentazioni avanzate, di economia verde e di biodiversità, senza realmente affrontare l’unico tema urgente e assai poco sensibile alle chiacchiere: la fame che nel frattempo si traduce in malattie da malnutrizione e che conduce rapidamente alla morte intere nuove generazioni.
I governi occidentali, anche se ormai non sono più tra quelli a più forte indice di sviluppo come i Paesi del Bric (Brasile, Russia, India e Cina) non vogliono dire un no chiaro e tondo alla povertà e alla fame di paesi sempre più lontani dalla via dello sviluppo. Non vogliono investire davvero su quel primo obiettivo di sviluppo proposto per il Millennio in una precedente riunione Onu. Accampano scuse che si rivelano facilmente come ragioni senza ragione: perché non c’è alcuna ragione per lasciar morire di fame persone che stanno in una parte del mondo, mentre nell’altra parte del nostro pianeta c’è un’altra metà di persone che soffrono di obesità e mostrano
tutti i segni di una patologia da malnutrizione per eccesso. Morire di fame oggi è il più flagrante segno della sconfitta di quanti si sentono e sognano di essere paladini dei diritti umani. Perché se stiamo parlando di diritti universali dell’uomo, allora niente e nessuno possono lasciar credere che la loro universalità ammette una discriminazione sulla base del luogo di nascita. La Dichiarazione universale dei diritti umani, firmata a Parigi il 10 dicembre 1948 non prevede eccezioni di sorta quando proprio all’articolo 1 afferma: «Tutti gli esseri umani
Dalla Caritas e dalle altre ong gli unici segnali concreti di solidarietà
nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.». Al diritto individuale alla libertà e alla dignità lega inscindibilmente i doveri di reciprocità, usando la bella espressione: spirito di fratellanza. Oggi in un contesto in cui i diritti individuali sembrano marcare stretto il legislatore perché trasformi in diritti anche i semplici desideri, c’è il silenzio assordante sullo spirito di fratellanza, che dovrebbe sostenere la solidarietà tra le persone, tra i popoli e tra gli Stati. Forse questa è la forma più profonda di povertà del nostro Occidente, della nostra Europa, che con il suo disinteresse sta tradendo le sue stesse radici: la fame dell’occidente è fame di valori, a cominciare da quello di spirito di fraternità che fa da argine alle spinte individualistiche di chi insegue solo il proprio benessere, convinto di non averne mai abbastanza.
Quando i governi occidentali affermano di non poter mante-
nere le promesse fatte, i loro discorsi, impregnati di retorica, tracciano una mappa degli obiettivi di sviluppo del millennio, come se le parole bastassero a tradurre in fatti ciò che raccontano, si illudono che a chi muore di fame basti un universo virtuale. Credono che ai milioni di poveri, vecchi e nuovi, si possa offrire una sorta di second life, in cui vivere come se… In realtà ciò che sta a cuore a molti governanti è una pura concessione all’immagine, a quella sottile seduzione che si esercita sugli uomini di potere quando un effimero consenso mediatico li presenta come salvatori della patria, anche per chi a volte non ha più né patria, né suolo su cui vivere. Ma le parole, prive di contenuto e di credibilità, sono ormai diventate un’ennesima offesa ai diritti umani delle persone più povere al mondo. Le scadenze fissate senza alcune concretezza nella mappature dei tempi intermedi sono un’autentica presa in giro per chi ormai dispera della propria sopravvivenza e di quella delle persone care.
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Parlano Giulio Albanese, missionario e giornalista, e “l’ambientalista scettico” Bjorn Lomborg
«La ricetta contro la fame è chiusa da anni in un cassetto» Vanno affrontati con urgenza il debito del Terzo mondo, le regole del commercio, quelle della finanza e l’egoismo dei Paesi sviluppati di Vincenzo Faccioli Pintozzi e c’è la volontà politica di passare dalle buone parole ai fatti, i Millenium Goals sono raggiungibili. Ma fino ad ora non sono state affrontate le questioni cruciali che riguardano l’argomento. In sostanza, la ricetta contro la fame nel mondo è da anni chiusa in un cassetto». L’analisi di padre Giulio Albanese, giornalista e missionario comboniano di lungo corso nel Continente Nero, è lucida e affilata: «Per una serie di ragioni, legati anche alla crisi dei mercati e al fatto che sulla scena internazionale si sussegue da anni una giostra di politici sempre diversi, questa ricetta non è stata ancora applicata. Non è ancora maturata la coscienza di vivere in un mondo-villaggio globale, in cui tutte le nazioni hanno un destino comune». Per il sacerdote, che conosce da vicino la realtà dei Paesi del terzo mondo, «i nodi da sciogliere sono diversi. C’è da affrontare seriamente la quesitone del debito, dato che a seguito della crisi finanziaria i Paesi del sud del mondo si sono drammaticamente ri-indebitati, con logiche anche di strozzinaggio. È necessario poi dare delle regole certe al commercio, quelle del Wto: la verità è che oggi, paradossalmente, nelle capitali africane i pomodori italiani costano molto meno di quelli locali. Questo avviene perché la nostra produzione agricola gode dei sussidi, nazionali ed europei: con questa forma di protezionismo, non si verificherà mai lo sviluppo sperato per i più poveri». Secondo padre Albanese, «a volte si dice che chi ragiona in questo modo ha delle tendenze catto-comuniste. Io non credo che sia così, per un motivo molto semplice: è nell’interesse di tutti, soprattutto dei Paesi in via di sviluppo e quelli sviluppati, dare slancio ai mercati del sud del mondo. Si tratta, detto brutalmente, di molte persone che possono divenire un giorno dei consumatori e degli acquirenti per la nostra iper-produzione. Ma se il numero dei morti di fame continua a crescere a dismisura, a chi venderemo queste merci?». Un altro punto “caldo”, prosegue, «è quello della riforma della finanza. Bisogna riaffermare il primato della politica sull’economia: credo che una tassa sulle trattazioni internazionali, se fosse fatta con oculatezza e venisse applicata da tutti, darebbe un enorme aiuto ai Paesi del terzo mon-
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do». Il concetto di globalizzazione, conclude, «dovrebbe portare con sé quello di cooperazione e di scambio. Eppure non è così: in alcuni Paesi, l’1% della popolazione detiene il 70% delle ricchezze nazionali. Così non si va da nessuna parte, anche considerando che l’agenda della cooperazione internazionale è tornata drammaticamente indietro, soprattutto nel nostro Paese. Come recita un vecchio detto, se la fame si combattesse con le parole essa non esisterebbe più».
Per Lomborg, contro la miseria vanno usati i fondi stanziati per la lotta al global warming Secondo Bjorn Lomborg, una delle voci più critiche del panorama internazionale, sarebbe utile anche affrontare la questione immergendosi nella giusta prospettiva. Ovvero, nella visuale di coloro che muoiono di fame: «Quando in Bangladesh arrivano i monsoni, Momota Begum e la sua famiglia sono costretti a dormire nell’unico letto coperto della loro casa per i rifiuti umani e industriali che vengono gettati con
violenza nelle strade.Vivono in un camp o profughi che ha appena compiuto 30 anni nei pressi di Dhaka. E il riscaldamento globale è veramente una delle preoccupazioni che meno gli interessano, dato che è il cibo mancante il vero assillo». Non che il mondo non dedichi ogni tanto qualche stralcio di tempo alla situazione degli sfollati del Bangladesh (o della Somalia, del Pakistan, del Darfur….). Lo scorso anno, politici di vari colori e di varie nazionalità hanno visitato il campo prima di uno di questi fondamentali summit internazionali: «Hanno visto come si vive in quei posti, ma non hanno fatto nulla per quelle persone. Semplicemente, anche avendo chiara la situazione, non gli importa. Eppure una soluzione ci sarebbe, anche se forse troppo semplice».
L’ambientalista scettico, come ama definirsi e come ha intitolato un suo fortunatissimo libro, spiega: «Dare un sistema sanitario di base e acqua potabile e senza virus ai tre miliardi di persone che, al momento, non ne hanno, costerebbe circa quattro miliardi di dollari l’anno. Al contrario tagliare le emissioni di carbonio in giro per il mondo, con lo scopo di abbassare di meno di due gradi Celsius la temperatura mondiale entro il prossimo secolo, costerebbe 40mila miliardi di dollari l’anno fino al 2100». Questi tagli, inoltre, «non faranno nulla per migliorare la situazione della popolazione che soffre. Non ridurranno il numero di coloro che non hanno accesso all’acqua potabile o un sistema sanitario reale; anzi, tenderanno ad aumentare questo numero, perché alzare la temperatura alzerà anche la percentuale di acqua piovana che evapora». Per la signora Begum, la scelta non è complicata: «Quando i miei figli non hanno da mangiare, è difficile preoccuparsi per il riscaldamento globale». Quello che colpisce di più, è che la Begum ha capito esattamente come gira il mondo civilizzato: «Sono venute a intervistarci decine di persone, e il nostro campo ospita spesso delegazioni nutrite di uomini politici. Ma non è cambiato nulla, e non cambierà mai». Per Lomborg, la conclusione è abbastanza evidente: «Invece di continuare ad ascoltarsi fra di loro il Palazzo di Vetro, chi comanda dovrebbe iniziare ad ascoltare la signora Begum».
Tra i tanti modi con cui è possibile violare i diritti umani delle fasce sociali più deboli e più fragili questa eterna illusione che sposta sempre in avanti il tempo della salvezza sta diventando uno dei più crudeli e mostra un cinismo al quale dovremmo dire tutti insieme: Basta! È giunta l’ora di rispettare le promesse fatte tante volte e mai mantenute, mentre a povertà sta diventando la piaga più grave del nostro tempo.
Dal 2000, le persone affamate nel mondo sono aumentate di circa il 10%. E ieri mentre i potenti del mondo erano riuniti al Summit promosso dall’Onu per il Millennium goals dedicato alla lotta contro la fame e la povertà, Ban Ki-moon, nel suo discorso introduttivo. Non si è limitato a esortare i Paesi a porre tra i propri obiettivi la riduzione se non la fine della povertà estrema entro il 2015, ha ricordato che gli Stati più ricchi non possono pareggiare i loro bilanci sulle spalle di quelli più poveri. Paesi poveri che minacciano di diventare sempre più poveri dal momento che entro il 2050 la popolazione mondiale dovrebbe aumentare del 50% e si deve fornire a 9 miliardi di persone la possibilità di una vita dignitosa. La povertà cresce, ma non crescono i mezzi e le risorse per contrastarla, come se fosse una patologia incurabile e progressiva. Laddove gli Stati tacciono, possono e debbono parlare gli uomini di buona volontà con le loro molteplici iniziative, che spesso debbono la loro ispirazione a quella dottrina sociale della Chiesa che non permette a nessuno di sentirsi estraneo davanti alle necessità altrui. Joseph Deiss, presidente dell’assemblea generale Onu. dietro il silenzio assordante dei Governi, che promettono ciò che non possono e non vogliono mantenere, all’apertura del Vertice del Millennio, ha affermato che ci vogliono più investimenti privati per la lotta contro la povertà: «Abbiamo bisogno di maggiore sostegno sia dal pubblico che dal privato… Molte, molte persone al mondo ripongono tante speranze in questo vertice, noi dobbiamo trasformare queste speranza in realtà. Vogliamo, possiamo e dobbiamo aiutare», ha detto Deiss. «Stati e capi di governo non possono deludere il mondo». E a noi piace pensare che l’Italia ci sarà sul serio e che l’Unione europea farà la sua parte, accanto alla Caritas internazionale e alle altre mille ong che una carità creativa è in grado di suscitare pur tra infinite difficoltà, mettendo in rete da una parte il bisogno di solidarietà e dall’altro il recupero di una sobrietà sociale che si fa garanzia della indispensabile tutela dei diritti umani, a cominciare dal primo dei diritti: quello alla vita e ad una vita dignitosa.
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pagina 6 • 22 settembre 2010
Autostrade. Non aumentare le tasse (come in Spagna), ma puntare sui finanziamenti privati ripagati con i pedaggi (come in Cile)
«Meglio il modello cileno»
Presentato il “Rapporto sulle infrastrutture” dell’Istituto Bruno Leoni di Alessandro D’Amato
ROMA. Seimila e seicento chilometri di autostrade, che fanno dell’Italia il quarto paese europeo per estensione della rete. E l’86% in concessione dai privati, la percentuale più alta dopo quella della Francia. Eppure, come disegna il rapporto dell’Istituto Bruno Leoni, Le infrastrutture in Italia: quale ruolo per i privati, coordinato da Carlo Stagnaro, la situazione nel nostro paese è ancora problematica. Il dossier è stato presentato ieri a Roma in piazza San Lorenzo in Lucina, davanti a un parterre di tutto rispetto: Oscar Giannino a coordinare il dibattito, animato da Roberto Castelli, ex ministro alle infrastrutture, Giovanni Castellucci (ad di Autostrade), Pietro Ciucci (presidente dell’Anas), Marco Ponti del Politecnico e Fabrizio Palenzona della Aiscat, oltre a politici come Luigi Grillo, Enrico Morando, ed Enrico Musso e Salvatore Rebecchini, commissario dell’Antitrust. Di autostrade c’è bisogno perché le vetture aumentano: «A lunghezza quasi invariata, è cresciuto enormemente il traffico: tra il 2002 e il 2008 si è passati da circa 75 a oltre 80 miliardi di veicoli-chilometro l’anno, e contemporaneamente il tasso di mortalità è crollato dallo 0,83 per cento milioni di veicoli-chilometro allo 0,43 per cento milioni di veicoli-chilometro. I tassi di incidentalità e il numero di feriti hanno fatto registrare una dinamica simile», dice Stagnaro nell’introduzione allo studio. La tesi dell’Ibl è
nota: contrariamente a quanto molti sembrano ritenere, realizzare e gestire infrastrutture non è un compito facile.
Le incertezze di natura tecnica ed economica e la portata delle scelte di pianificazione possono risultare critiche rispetto all’efficacia di un investimento. «Da questo punto di vista» si legge nel Rapporto, «esiste ampia evidenza sul fatto che (a) i privati siano più adeguati a investire nelle infrastrutture, quanto meno rispetto alla loro capacità di progettare in modo appropriato gli interventi necessari; (b) inoltre, i privati sono più in grado – e hanno un preciso interesse – nel selezionare quelle opere (che riguardino l’incremento della copertura o
dove si mette a confronto il caso-Italia con Spagna e Cile, oltre che la Francia. Andrea Giuricin segue l’evoluzione degli investimenti e delle modalità di definizione tariffaria sia nei modelli spagnolo e cileno, che in quello francese, e mostra come contesti più “solidi”e affidabili abbiano portato a investimenti maggiori, più efficaci e più rapidi.
«È possibile rilevare la differenza di efficacia tra i modelli considerati (quelli cileno e spagnolo, in particolare, rispetto a quello italiano) – dice l’Ibl – attraverso un’analisi di benchmarking, che fa leva sull’esame del rapporto del World Economic Forum: specialmente, guardando ai risultati dell’indice di competitività (a cui con-
capitale e, al margine, scoraggia i nuovi entranti». E proprio l’analisi dei casi di successo permette di guardare meglio alle criticità dell’Italia. Dalla fase pionieristica caratterizzata dall’intervento dei capitali privati (anche se sostenuti da ingenti sussidi pubblici) si è approdati all’intervento preponderante dello Stato, che ha esercitato in particolare negli anni Sessanta e Settanta un ruolo largamente predominante sia sulle decisioni riguardo quali opere costruire, sia in termini di finanziamento. Molto spesso - rileva l’Ibl - gli investimenti sono stati decisi senza una realistica valutazione dei costi e dei benefici: soprattutto nel caso delle infrastrutture ferroviarie e delle metropolitane sono stati registrati a consuntivo costi di gran lunga più elevati e livelli di traffico (e quindi benefici) inferiori a quelli ipotizzati inizialmente.
Secondo l’Ibl, serve un ripensamento della natura della concessione, che deve essere concepita come un vero e proprio contratto tra lo Stato e il concessionario della capacità della rete autostradale) che rispondano a una effettiva domanda di mercato». E questo è un punto importante: non è vero che qualunque investimento in infrastrutture è di per sé remunerativo e utile; lo sono soltanto quelle che effettivamente servono. Le cattedrali nel deserto non servono a nessuno, e rischiano invece di creare allergia nel cittadino ai grandi lavori; per non parlare, ovviamente, di quelli incompiuti. Ma il succo del dossier è rappresentato dal terzo capitolo,
corrono anche la qualità delle infrastrutture in generale e di quelle stradali in particolare) e a quelli relativi all’indice di attrattività degli investimenti privati. In entrambi i casi, l’Italia si colloca su un livello molto più basso rispetto a Spagna e Cile, e – sebbene a ciò contribuiscano pure molti altri fattori – tra le ragioni occupa un posto prioritario l’affidabilità del quadro legale. Un quadro legale sfilacciato o incerto determina l’acutizzarsi dei rischi connessi all’investimento, e dunque aumenta i costi medi del
Per porre rimedio a questa situazione ed evitare di ripetere gli stessi errori, secondo l’Ibl è necessario ricondurre in capo allo stesso soggetto la responsabilità della decisione e quella del finanziamento. Una prima linea di azione da adottare nel caso di finanziamento pubblico di un’infrastruttura di trasporto è quella di delegare tali compiti agli enti territoriali locali. La criticità più rilevante per il sistema della mobilità nel futuro sembra essere rappresentata dal problema della
congestione, e dunque l’adeguamento dell’offerta infrastrutturale può essere generalmente realizzato senza far ricorso alla fiscalità ma ricorrendo a finanziamenti privati che verranno ripagati tramite gli introiti dei pedaggi.
L’Istituto Bruno Leoni auspica anche un ripensamento della natura della concessione, non più esposta ai cicli politici o regolatori, ma concepita come un vero e proprio contratto tra concedente (lo Stato) e concessionario. Il Rapporto prende in considerazione il caso spagnolo e quello cileno: nel primo caso, la costruzione della rete autostradale è stata finanziata largamente dalla tassazione generale, generando tuttavia delle distorsioni territoriali e un’enorme spesa pubblica. Il Cile ha invece puntato sulla partnership pubblico-privata, dove i rischi sono ben suddivisi tra i diversi operatori. Le regole certe, la trasparenza e un sistema di gare ben congegnate hanno permesso al paese sudamericano di superare il livello di sviluppo infrastrutturale sia dell’Italia che della Spagna. L’esempio cileno porta un altro insegnamento importante – si legge nel Rapporto Ibl – ovvero che i privati necessitano di certezze regolatorie e l’aumento del rischio politico provoca il blocco degli investimenti. Insomma, per ricominciare a pensare alle infrastrutture in Italia è necessario, in primo luogo, annullare i rischi. Sarà la politica così matura da riuscirci?
diario
22 settembre 2010 • pagina 7
Il 27 settembre fissato l’incontro tra i sindacati e l’azienda
Per il rapporto «Blue book» il consumo è di 150 metri cubi
Fincantieri nel caos: occupazione a Palermo
L’acqua costa alle famiglie 200 euro all’anno
ROMA. Si va varso l’occupa-
MILANO. Centotrentaquattro
zione della Fincantieri di Palermo. Gli operai si dicono «insoddisfatti e scontenti» dell’esito dell’incontro con il prefetto Giuseppe Caruso. Per questo ieri hanno deciso di occupare lo stabilimento. In un primo momento le tute blu avevano deciso di impedire l’accesso e l’uscita dei lavoratori, poi hanno cambiato idea decidendo di occupare direttamente le piattaforme. Tra scioperi e mobilitazioni, dunque, la protesta va avanti contro l’ipotesi di tagli alla produzione di Fincantieri. Intanto, dopo che ieri il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, ha annunciato la convocazione delle parti da parte del governo (’’per rimettere nei corretti binari il confronto sul futuro della società), è stato fissato per lunedì 27 settembre l’incontro richiesto dalle organizzazioni sindacali Fim, Fiom e Uilm con l’azienda per avere chiarimenti sul piano industriale 2010-2014.
euro l’anno. È quanto le famiglie italiane spendono per il consumo di 100 metri cubi di acqua. 201 euro se, come avviene più spesso, il consumo è di 150 metri cubi l’anno. Spesa che dal 2008 al 2010 è aumentata del 6,5%. Ma non basta.Tra il 2010 e il 2020 gli aumenti cresceranno. Del 3% in media. Del 7,2% e del 4,3% nelle isole e nel meridione. È la fotografia scattata dal «Blue Book», il rapporto sul mondo dell’acqua realizzato da Anea (Associazione nazionale autorità e enti di ambito) e Utilitatis secondo il quale, per mantenere il ciclo dell’acqua (acquedotto, fognatura e depurazione) nei prossimi trent’anni sarà necessario 64,12
Ma all’indomani dell’annuncio del ministro, arriva la risposta di Maurizio Landini, segretario generale Fiom. «Noi non chiediamo a Sacconi nessun tavolo perché non spetta al ministro del Lavoro discutere di Finincantieri. Ci siamo rivolti al presidente del Consiglio che
Mancati controlli: lo Ior sotto indagine Il Vaticano: «Stupiti per l’iniziativa della procura» di Gualtiero Lami
ROMA. Ettore Gotti Tedeschi, presidente dell’Istituto per le Opere di Religione (Ior) e un altro importante dirigente della stessa banca vaticana la cui identità è ancora sconosciuta sono indagati dalla procura di Roma per violazione del decreto legislativo 231 del 2007 che è la normativa di attuazione della direttiva Ue sulla prevenzione del riciclaggio. La loro iscrizione al registro degli indagati è legata al sequestro preventivo, firmato dal gip Maria Teresa Covatta su richiesta del procuratore aggiunto Nello Rossi e del pm Stefano Rocco Fava ed eseguito lunedì scorso, di 23 milioni di euro (su 28 complessivi) che si trovavano su un conto corrente aperto presso la sede romana del Credito Artigiano spa. Nel mirino dell’autorità giudiziaria, sono finite due operazioni che prevedevano il trasferimento di 20 milioni alla JP Morgan Frankfurt e di altri tre alla Banca del Fucino. L’inchiesta della procura prende il via dalla segnalazione di una operazione sospetta da parte dell’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia con sospensione della stessa operazione per cinque giorni lavorativi. Ciò ha consentito al nucleo di polizia valutaria della Guardia di Finanza e alla procura di attivarsi.
fornisce false». Questa indagine è la prima iniziativa assoluta (da quando, nel 2003, la Cassazione ha attribuito alla giurisdizione italiana la competenza sullo Ior) che chiama in causa la banca vaticana e i suoi vertici. In una circolare del 9 settembre scorso Bankitalia fornisce agli istituti di credito indicazioni sui rapporti da tenere con lo Ior da considerare istituto di credito extracomunitario. Ciò impone per palazzo Koch obblighi di verifiche non semplificati ma rafforzati.
Non si è fatta attendere la replica dello Ior che ha espresso perplessità sugli atti della procura e ribadito piena fiducia nell’operato di Gotti Tedeschi. «La Santa Sede manifesta perplessità e meraviglia per l’iniziativa della Procura di Roma» e conferma «la massima fiducia nel presidente e nel direttore generale dello Ior» si legge in una nota della segreteria di Stato diffusa dalla sala stampa della Santa Sede. «È nota la chiara volontà, più volte manifestata da parte delle autorità della Santa Sede - si legge ancora nella nota di piena trasparenza per quanto riguarda le operazioni finanziarie dell’Istituto per le Opere di Religione (Ior). Ciò richiede che siano messe in atto tutte le procedure finalizzate a prevenire terrorismo e riciclaggio di capitali. Per questo prosegue la nota vaticana - le autorità dello Ior da tempo si stanno adoperando nei necessari contatti e incontri, sia con la Banca d’Italia sia con gli organismi internazionali competenti Organisation for Economic Co-operation and Development (Oecd) e Gruppo di Azione Finanziaria Internazionale contro il riciclaggio di capitali (Gafi) - per l’inserimento della Santa Sede nella cosiddetta White List. La Santa Sede - sottolinea il Vaticano - manifesta perciò perplessità e meraviglia per l’iniziativa della procura di Roma, tenendo conto che i dati informativi necessari sono già disponibili presso l’ufficio competente della Banca d’Italia, e operazioni analoghe hanno luogo correntemente con altri istituti di credito italiani».
Il nuovo presidente Gotti Tedeschi e un altro dirigente sotto inchiesta per una questione di verifiche sul riciclaggio
dovrebbe essere anche il ministro dello Sviluppo Economico - continua Landini - perché Fincantieri è un’azienda pubblica e bisogna discutere di un piano industriale per rilanciarla, come hanno fatto in Francia e in altri Stati». E quindi, «non c’è nessuna disponibilità a discutere di ridimensionamenti». Ma è unanime il “sì” all’incontro da parte dei sindacati. Anzi: Fim, Fiom e Uilm ritengono «non più rinviabile un tavolo di confronto a Palazzo Chigi, oggi, ancora più urgente dopo le anticipazioni di stampa, su un fantomatico piano industriale che produrrebbe solo disastri», ha detto il segretario nazionale della Uilm, Mario Ghini.
Il sequestro - è bene precisarlo - non è stato disposto perchè c’è una prova di riciclaggio ma perché, secondo chi indaga, è già stato commesso, da parte dei vertici dello Ior, il reato omissivo della norma antiriciclaggio. L’articolo 55 del decreto 231 del 2007, infatti, punisce con la reclusione da sei mesi a un anno e con la multa da 500 a 5000 euro «l’esecutore dell’operazione che omette di indicare le generalità del soggetto per conto del quale eventualmente esegue l’operazione o le indica false». E ancora, lo stesso articolo prevede l’arresto da sei mesi a tre anni con l’ammenda da 5000 a 50mila euro «dell’esecutore dell’operazione che non fornisce informazioni sullo scopo e sulla natura prevista dal rapporto continuativo o dalla prestazione professionale o le
miliardi di euro. Qualcosa come 2,13 miliardi l’anno. Vale a dire che le società che gestiscono il servizio idrico potrebbero investire 37,32 euro per abitante all’anno, per i prossimi 30 anni. Una stima a cui il «Blue Book» è arrivato analizzando gli investimenti programmati per i prossimi piani di intervento: 42,11 miliardi di euro, l`11,3% dei quali (4,76 miliardi) finanziati con fondi pubblici. Estendendo a livello nazionale e per trent’anni si arriva ai 64,12 miliardi di euro. Per gli acquedotti si parla di circa 15,75 miliardi di euro (di cui il 60% destinato a manutenzione straordinaria), mentre per fognatura e depurazione sono previsti interventi complessivi per 18,83 miliardi di euro (il 51,7% dei quali rivolto alla manutenzione di opere preesistenti).
Tornando alla spesa degli italiani il rapporto rileva che una famiglia di tre persone arriva a toccare i 21,9 euro al mese. Gli esborsi più elevati si registrano in Toscana (193 euro l’anno per un consumo di 100 mc e 301 per 150 mc), Liguria (rispettivamente 178 e 258 euro l’anno) ed Emilia Romagna (173 euro e 270 euro). La spesa più contenuta si riscontra invece in Molise.
politica
pagina 8 • 22 settembre 2010
Ritirate. Berlusconiani fuori da una delle amministrazioni simbolo del centrodestra. Oggi il voto sulle intercettazioni dell’ex sottosegretario
Ultimi guai a Palermo Lombardo vara la giunta che esclude il Pdl. E a Roma Cosentino si arrende di Errico Novi
ROMA. Prudente ritirata. A metà giornata, dopo aver verificato che non è il caso di forzare sui numeri, il Pdl alza ufficialmente bandiera bianca su Cosentino. È lo stesso ex sottosegretario a spiegare che le intercettazioni sul cui utilizzo la Camera è chiamata a votare il via libera «sono irrilevanti, dunque mi rimetto all’Aula che deciderà liberamente». Resa obbligata, suggerita dal rischio di certificare con un voto sfavorevole la crisi della maggioranza. È lo stesso Berlusconi a chiedere al suo parlamentare di sciogliere la riserva sul discorso da rivolgere ai colleghi. Fino a quel momento, Cosentino si mantiene sul vago, dice di volerci pensare ancora per decidere solo un attimo prima del voto, cioè oggi. Poi i dubbi per un esito molto probabilmente sfavorevole (vista la difficoltà a requisire tutti, ma proprio tutti i deputati di Pdl, Lega e cespugli non solo per il discorso del premier del 29 ma anche per le intercettazioni di Cosentino), suggerisce il chiarimento del dirigente pdl. È soprattutto il giorno del Lombardo quater. Cioè di un governo che certifica il capitombolo del Pdl siciliano, prima diviso nei due spezzoni, quello “istituzionale” e l’altro guidato da Miccichè, e poi messo completamente fuori dalla guida della Regione. Secondo segnale poco incoraggiante, per il Cavaliere. Ai primi due si aggiungono i dati di Ipr marketing: secondo l’istituto di ricerca la fiducia nell’esecutivo Berlusconi precipita al 34 per cento, minimo storico da inizio legislatura. Indicazione agghiacciante, se confrontata al 54 del 2008 ma anche al 44 di un anno fa. Calo di popolarità scontato anche dallo stesso presidente del Consiglio, fermo al 39 per cento. È un panorama desolante, che si riflette nella crescita attribuita da Ipr marketing alla Lega, attestata a un 33 per cento nell’indice della fiducia, quota pari a quella attribuita all’Udc. Il partito di Pier Ferdinando Casini è anche l’unico dell’opposizione ad avvantaggiarsi della crisi del Pdl, giacché il Pd perde addirit-
tura 14 punti rispetto a 6 mesi fa, scivolando verso un rating di 26 punti appena. Quello che è certo è il diffondersi tra i fedelissimi del premier di una malcelata sfiducia: con questo trend e con una mera collezione di cespugli non si ridà certo slancio alla legislatura e all’azione di governo, è il ragionamento più diffuso tra i moderati del Pdl. Non possono bastare i voti di qualche parlamentare siciliano dell’Udc a riequilibrare il quadro politico.
Tanto più che mentre a Roma si tenta di incollare pezzi di una maggioranza raffazzonata, in Sicilia appunto Raffaele Lombardo mette insieme una giunta di soli assessori tecnici senza il sostegno dei berlusconiani. È il segno di un progressivo sfilacciamento dell’arma-
ta Pdl. Se ne vedono i segni nella Toscana di Denis Verdini, dove un gruppo di giovani oppositori interni è in rivolta contro il coordinatore nazionale, che nella sua regione guida il partito attraverso il fedelissimo Massimo Parisi, con metodi giudicati dispotici. «La Toscana è diventata ormai un territorio di caccia per Futuro e libertà», avverte la deputata Deborah Bergamini, che in virtù del suo lungo passato di collaborazione professionale con il Cavaliere fa la parte della colomba nel gruppo di dissidenti. Simili tensioni lacerano il partito del premier anche in Campania, dove il regime da separati in casa tra Cosentino e il governatore Stefano Caldoro rende l’atmosfera sempre più irrespirabile. Non a caso il presidente della Regione, in un’intervista
Duro attacco del Quirinale contro la riforma Gelmini
Il monito di Napolitano: «Basta tagli alla scuola»
al Corriere del Mezzogiorno (dorso campano del Corriere della Sera) arriva a riconoscere alcune buone ragioni nell’iniziativa separatista di Gianfranco Miccichè. A questi casi (il più spinoso dopo quello toscano è non casualmente in Campania, dove il Pdl è guidato da un fedelissimo di Verdini, Cosentino appunto) sembrano aggiungersi quelli di altre due regioni del Centro come l’Emilia e le Marche, come sostiene tra gli altri la Velina rossa di Pasquale Laurito.
di Francesco Lo Dico Occorre «riformare con giudizio, sanare squilibri, disparità, disuguaglianze che si presentano nell’Istruzione», giacchè proprio questa dovrebbe servire a colmare le disuguaglianze stesse. Dal cortile d’onore del Quirinale, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, lancia l’allarme sui disastri scolastici provocati dalla gestione Gelmini, alla presenza del ministro stesso. Di fronte a 1600 studenti provenienti da ogni parte d’Italia insieme ai loro docenti, il capo dello Stato ha onorato la festa d’inizio dell’anno scolastico, senza dimenticare neppure la scandalosa situazione degli insegnanti precari – duecentomila – lasciati per strada dalla cosiddetta riforma. «Servono investimenti per motivare gli insegnanti e occorre riqualificare coloro che aspirano a un contratto a tempo indeterminato», ha spiegato Napolitano agli astanti. Che non dimentica neppure un affondo sulla ricerca perduta: «Sapete che sostengo con convinzione che, nel portare avanti l’impegno comune e categorico per la riduzione del debito pubblico bisogna riconoscere la priorità della ricerca», ha commentato il presidente della Repubblica, che sottolinea tra le righe le iniquità di una riforma che secondo molti apre un canale d’accesso privilegiato all’Istruzione ai più abbienti: «Se vogliamo che la scuola funzioni come un efficace motore d’uguaglianza e come un fattore di crescita, bisogna che si irrobustisca». «Di cambiamento c’era e c’è bisogno – ha chiarito Napolitano – ma serve più qualità, un rapporto più stretto tra istruzione e mondo del lavoro, un maggiore spazio alle competenze necessarie nelle società contemporanee».
Non è un caso se proprio ieri uno dei giornali vicini al presidente del Consiglio, Libero, compie una evidente svolta nell’analisi, e arriva a suggerire una ricomposizione con i finiani, via più percorribile rispetto a quella di una maggioranza garantita dal voto di vari gruppuscoli messi insieme a Montecitorio. Il quotidiano di Maurizio Belpietro non fa altro che riflettere una convinzione assai diffusa tra le cosiddette colombe del Pdl. C’è un vasto cartello di suggeritori, dal fido Gianni Letta ai ministri di Liberamente, che da settimane tenta di convincere il Cavaliere a ricucire con l’ex leader di An. Azione quasi del tutto vanificata però dai falchi, in particolare da La Russa e dagli altri ex colonnelli di An e da Verdini. «Le continue spinte alla rottura proposte al presidente da una parte della dirigenza hanno finito per rendere Berlusconi sospettoso e riluttante a ogni ipotesi di vera pacificazione», lamentano i moderati
Il finiano Italo Bocchino. In alto, Raffaele Lombardo. Nella pagina a fianco, Bersani di casa a Palazzo Grazioli. Così a un pacifista come Cicchitto non resta che scaricare la frustrazione sul presunto tatticismo dei finiani: colpevoli, dice il capogruppo del Pdl a Montecitorio, di un atteggiamento «potenzialmente destabilizzante». Discorso che vale anche per la mozione sull’informazione in Rai che i fedelissimi di Fini si preparano a votare, con il probabile sostegno dello stesso Pd.
Dice no alla «guerriglia parlamentare», Cicchitto, preoccupato che l’atteggiamento “disinvolto” di Futuro e libertà comprometta le residue speranze delle colombe berlusconiane. Nel gruppo che fa riferimemto a Fini per la verità c’è una certa diversità di toni, rispetto al caso Cosentino: se
politica
22 settembre 2010 • pagina 9
Nel Pd è guerra di tutti contro tutti. El Pais: «Un partito in coma irreversibile»
Ormai sui democrat volano gli avvoltoi
Vendola chiede primarie e premierato, Parisi difende Veltroni e attacca i popolari, Bersani è preoccupato di Riccardo Paradisi bastata la lettera di Walter Veltroni sul Papa straniero – una specie di profezia di Malachia – per far venir giù anche l’ultimo simulacro di unità del Pd.“Un partito in coma e senza respiratore lo definisce”El Pais in una corrispondenza che assomiglia a un necrologio,“il puzzle incomprensibile che puzza di naftalina”incalza il governatore della Puglia Nichi Vendola insistendo sul genere. E a dimostrazione che l’atmosfera è da ultimi giorni di Pompei il vicesegretario Enrico Letta parla di ”avvoltoi”sopra il Pd.
È
Fabio Granata non esita a dare per scontato che «voteremo sì alla richiesta di autorizzazione della Procura di Napoli», Italo Bocchino e Benedetto Della Vedova sostengono che invece bisognerà aspettare la dichiarazione in aula dello stesso Cosentino. È un modo attenuato per affermare la stessa cosa, in realtà, visto che l’idea di un via libera da parte dello stesso deputato campano circola da giorni. Futuro e libertà in effetti prenderà alla lettera Cosentino, così farà an-
ieri nell’ufficio di segreteria dei democratici. Accantonata invece la proposta di Arturo Parisi, che avrebbe voluto sfidare l’esecutivo con una mozione di sfiducia generale. In questo momento il Pd trova più semplice allinearsi all’opposizione repubblicana dell’Udc. Che, come spiega Rocco Buttiglione, «non cambia linea politica: la nostra stella polare resta il servizio per il bene del Paese» e dunque «se il governo è in grado di governare lo faccia, si occupi di lavoro e di
«Quelle carte sono irrilevanti, l’aula scelga come vuole», dice il deputato campano. Ma è un modo per evitare che la sconfitta certifichi la crisi che l’Udc, come annuncia il capogruppo centrista nella giunta per le autorizzazioni Pierluigi Mantini. La vera grana si scarica tutta sul Pdl: se si deciderà di votare contro, come lo stesso Berlusconi aveva ipotizzato finora, si rischia di certificare in modo fin troppo palese la difficoltà della maggioranza nell’aula di Montecitorio. E d’altra parte un nulla osta all’uso delle conversazioni rischia di essere un «precedente pericoloso».
Sono in arrivo altri passaggi delicati, per il governo del Cavaliere. Oltre alla mozione di Fli sulla Rai, il Pdl teme anche quella del Pd, che vuole mettere ai voti la sfiducia verso l’interim di Berlusconi allo Sviluppo economico, come deciso
famiglia: l’Udc manterrà dritta la barra della sua opposizione responsabile, repubblicana, che valuta le proposte in base al bene del Paese, mentre i trasformismi serviranno a poco». Un messaggio anche per l’ala dissidente del partito in Sicilia. Dove il governatore Raffaele Lombardo completa l’insediamento della sua nuova giunta tra non poche complicazioni, soprattutto per l’indisponibilità dei finiani a indicare un assessore che non fosse il già prescelto Nino Strano. Il presidente della Regione impone una formazione di soli tecnici, anche per rendere più agevole l’appoggio dei democratici, in quello che rappresenta un esperimento politico non incoraggiante per lo stato di salute del Pdl.
Gli avvoltoi sono Antonio Di Pietro e Nichi Vendola che al capezzale del centrosinistra s’affacciano più come rapaci impazienti di gettarsi sulle spoglie del cadavere che come medici soccorrevoli. In effetti Vendola non lascia passare ormai un giorno senza denunciare il ventennale circolo vizioso della guerra tra D’Alema e Veltroni, senza rilanciare la sua candidatura alle primarie del Pd «Non sono né un capriccio né una rivendicazione personale – dice – ma uno strumento per consentire ad un protagonista al di fuori della nomenclatura di compartecipare a un progetto». Persino Enrico Letta perde la pazienza e a Vendola consiglia di pensare piuttosto ai debiti della sua regione, ”i due e passa miliardi di cui parlano anche i giornali”. Schermaglie che danno la misura del nervosismo all’interno del Pd, dove la ventennale guerra dei Roses a cui allude Vendola sta crepando i fragili architravi della casa comune. Anche perché è una guerra che moltiplica le sue linee di faglia: Area-dem, la corrente dentro cui fino ad oggi hanno convissuto Veltroni e Franceschini è spaccata in due. Per Franceschini Veltroni è ormai ”una grande delusione”, ”sta facendo a Bersani quello che hanno fatto a lui”mentre Goffredo Bettini fa scudo al fondatore del partito che fu a vocazione maggioritaria insieme ad Arturo Parisi, anche lui tornato in qualche modo a difendere Veltroni chiedendo al segretario di bloccare la riunione degli ex popolari: «Difendo il confronto che si è aperto. È per questo che rinnovo il mio rammarico per questi anni consumati all’insegna del conformismo, dell’unanimismo e del totale disprezzo per la fatica della democrazia. Il pluralismo può aiutarci a costruire finalmente il Pd, non ha tuttavia nulla a che fare con ritorno ai partiti del passato». Insomma quello di Veltroni è pluralismo quello dei popolari è frazionismo e sia anatema sulla loro riunione di ieri «sono sicuro che vi attiverete con urgenza per chiedere a chi ha promosso la riunione del Ppi di sconvocarla, e che quanti
tra voi sentono la scelta del Pd come una scelta definitiva, si asterranno dal parteciparvi». Son strani giorni questi per il Pd. Strani e in qualche modo decisivi. Oggi si riunisce il gruppo Areadem ma Fioroni e Gentiloni, sottoscrittori della neocorrente veltroniana, forse non ci saranno: per loro Franceschini è passato in maggioranza sicché che senso ha ancora Area Dem? E in effetti Franceschini è più vicino a Bersani dopo la lettera di Veltroni e le 75 firme apposte al documento: «Non ne posso più di un partito che divora i suoi leader» dice e ironizza sull’idea di Parisi e Veltroni di portare in Parlamento una mozione di sfiducia contro il governo: ”una tafazzata”. Clima teso e non è servito a distenderlo completamente nemmeno il fatto che Paolo Gentiloni e Marco Minniti hanno visto Dario Franceschini in qualità di ambasciatori del ”documento dei 75” del Pd in vista dell’Assemblea di Area democratica. Gentiloni descrive un ”clima più disteso”, anche se la decisione se partecipare o meno alla riunione della minoranza verrà oggi.
Pesa sulla valutazione anche il lavoro di preparazione della Direzione nazionale di giovedì con l’ipotesi che il segretario Pier Luigi Bersani possa decidere di mettere ai voti la sua relazione costringendo l’area che fa capo aVeltroni, Fioroni e Gentiloni a contarsi. Il veltroniano Gero Grassi, vicepresidente della commissione Affari Sociali della Camera dei deputati tra gli organizzatori della kermesse veltroniana di Orvieto domenica prossima è ottimista: «In questi giorni, in queste ore, sta crescendo, lo tocco con mano, lo percepisco per strada, tra la gente, me lo confermano gli amici. L’incontro di Orvieto sarà l’occasione per raccogliere tantissime idee e allargare la partecipazione». Da qui Grassi impenna verso il climax: «Il Pd diverrà puo’ forte di prima. Presto tornerà ad essere Partito di Governo». È l’ebrezza che prende i naufraghi, roba da manuale, ed è uno dei sintomi di un disfacimento progressivo, d’una decomposizione anche fisica d’un partito che registra nell’elettorato crolli di fiducia. Intanto anche Rosi Bindi riunisce la sua componente, ”Democratici per davvero”, dal 24 al 26 settembre a Milano Marittima. Obiettivo: riprendere con forza il cammino dell’Ulivo come un progetto di allargamento della democrazia e soggetto portante di un nuovo centrosinistra. Infine s’adunano anche gli under 40 capeggiati dal sindaco di Firenze Matteo Renzi. Si vedono nel capoluogo toscano il 5 novembre. «Io andrei di corsa alle elezioni anticipate», dice Renzi in vista dell’appuntamento. Quando si dice l’ottimismo della volontà.
Per Franceschini Walter è ormai «una delusione, fa a Bersani quello che hanno fatto a lui. Sono stanco dello sterminio dei leader»
economia
pagina 10 • 22 settembre 2010
Le dimissioni affidate al Cda
Un altr o g iorno s u l l a gr ati co la . E pr i ma de l “ proce sso” Profumo sbatte la port a
di Francesco Pacifico
ROMA.
Il “coccodrillo” più gradito gliel’ha riservato il Financial Times. «Alessandro Profumo Alla fine si era fatto qualche nemico di troppo». Ma ora che il bocconiano cresciuto in McKinsey si è dimesso dalla guida di Unicredit, alcuni di questi nemici – come i signori della fondazioni Fabrizio Palenzona (Cassa di risparmio di Alessandria), Paolo Biasi (Cariverona) o Dino De Poli (Cassamarca) – si sono resi di aver fatto il passo più lungo della gamba. E non soltanto perché i soci libici, casus belli in uno scontro che viene da lontano, restano al loro posto.
A caldo De Poli ha commentato: «Mi pare che quanto è successo abbia un significato evidente». Ma lui, i Biasi e i Palenzona avranno anche vinto una guerra (per lo più di logoramento) durata 3 anni, ma che senso ha liberarsi di un capoazienda accentratore e spregiudicato per poi finire nelle mani di manager non meno deciso come il presidente, il tedesco Dieter Rampl? Già da oggi – quando i sindacati inizieranno a trattare su 4.700 esuberi annunciati nei mesi scorsi – si capirà come cambieranno gli equilibri in una banca, dove gli stranieri controllano il 60 per cento del capitale e i soci italia-
ni, le fondazioni quanto i privati, sembrano non aver le risorse necessarie per accompagnare il rafforzamento di Unicredit come player mondiale. Nei mesi scorsi si è parlato di un piano studiato dal famoso consulente tedesco Roland Berger per trasferire la sede giuridica della banca a Monaco di Baviera, storica centrale della controllata tedesca Hvb su input dello stesso Profumo. L’ipotesi è stata in più occasioni smentita, ma sono molti a temere che, pur lasciando formalmente il cuore a piazza Cordusio, il cervello del colosso bancario finisca in Germania. Sulle intenzioni dei tedeschi qualcosa l’ha fatta trapelare anche Profumo. E l’ha fatto ricordando alle fondazioni inviperite per lo sbarco dei libici tra gli azionisti (con la Banca centrale di Tripoli al 4,99 per cento e il fondo Lya al 2,59) sia che il presidente Rampl era a conoscenza di queste trattative sia che il fondo sovrano di Abu Dhabi (4,99 per cento la sua quota) era stato sponsorizzato proprio dai soci di Monaco. Ieri mattina Profumo ha lasciata la sua casa di Brera alla solita ora per recarsi in banca di buon mattino. «Il dottore era sorridente, prima di salire in auto mi ha salutato persino agitando la mano, non sembrava per nulla preoccupa-
Dalla stima di Cuccia alla firma per il Pd: vita (morte) e miracoli di un banchiere con due vizi: l’arroganza e l’esterofilia
Addio Alessandro Magno La crisi è scoppiata sulla crescita dei libici nell’azionariato, ma era da mesi che la politica scommetteva sulla caduta dell’«enfant prodige» di Giancarlo Galli o chiamavano “Mister Arrogance”, e ha fatto impressione leggere sul Corriere della Sera il quasi piagnucoloso lamento: «Vogliono mandarmi via, dopo tanti anni, mi trattano così». Dopo la lettera di dimissioni, una cosa è comunque certa: nel firmamento degli gnomi della Finanza è implosa quella che per un paio di lustri è apparsa la più lucente delle stelle. Nel mondo bancario ci si divide fra vittimismi e colpevolisti. Altrimenti detto: Profumo pugnalato o finito a un passo dal ko per eccesso di supponenza? Partiamo dal personaggio per poi passare ai fatti, ai supposti sodali trasformatisi in avversari.
L
Genovese, classe 1957, padre ingegnere, ha avuto una folgorante carriera. Studente-lavoratore (primo impiego in un’agenzia milanese del Banco Lariano in piazzale Loreto), approdato all’università Bocconi, incrocia Mario Capanna, leader del movimento studentesco, e il suo cuore comincia a battere a sinistra.Tifoso dell’Inter, sugli spalti di San Siro conosce Marco Tronchetti Prove-
ra e Massimo Moratti. Nascerà un sodalizio, calcistico e non solo. Le “buone relazioni” sono preziose. Con una brillante tesi di laurea in economia sulle aziende di credito, sbarca alla McKinsey, pouponnière di manager. Innanzi al giovanotto, bello aitante, che si tiene in forma col jogging, si spalancano gli orizzonti dell’Alta Finanza. Il vecchio boss del Credito Italiano, Lucio Rondelli, dopo averlo assunto, lo porta da Enrico Cuccia in Mediobanca, che ne ricava un’ottima impressione. Ed eccolo sulla plancia di comando del Credito (presto Unicredit). Appena insediato, fa il botto, licenziando una dozzina di dirigenti, beccandosi l’appellativo di “Iena”. Se ne frega, prosegue. Fiutata l’aria, morto Cuccia, ben si guarda dal difendere in Mediobanca il fragile Vincenzo Maranghi. Ha altro a cui pensare, anche perché in quel di Roma, il governatore della banca d’Italia, Antonio Fazio, lo vede come il fumo negli occhi. Comprensibile: in una stagione di fusioni, Profumo vorrebbe rastrellare banche; senonché Fazio, amico e sodale di Cesare Geronzi
in Capitalia, ha progetti suoi. La rottura col Governatore (destinato presto a finire disarcionato) è per Profumo un’occasione straordinaria, imprevista ma subito sfruttata: può muoversi nel risiko bancario senza interferenze. In aggiunta, una visione non provinciale, avveniristica: trasformare Unicredit in istituzione a respiro europeo. Chi lo aiuti resta un mistero, che forse potrebbe trovare spiegazione nei “contatti” in cui il vecchio ma sempre indomito Enrico Cuccia lo favorì.
Ed eccolo, nell’estate 2005, celebrare con un’Ops (pubblica offerta di scambio azionario) il matrimonio con Hpv, quarta banca tedesca, che controlla Bank Austria e la polacca Pbh. Mentre i banchieri nostrani paiono medusati, all’estero è il trionfo. Financial Times e Frankfurther Allgemaine lo definiscono «Alessandro il Grande». La svizzera Ubs gli offre una poltrona nel consiglio d’amministrazione. Per un biennio, sino alla nascita di San paolo-Intesa, Unicredit è leader italiano, il quarto dell’area euro, 28 milioni di clienti, 7mila
economia to», ha raccontato Tino, il suo portinaio. Infatti, come se il copione fosse stato studiato con calma nei minimi particolari, ha passato l’ultima giornata a limare la lettera di dimissioni (inviata ai consiglieri prima del Cda che ne ha sancito l’uscita), ha risposto alle telefonate di politici e salutato la prima linea. Nella mattina di ieri sono circolate voci di febbrili trattative per provare a ricucire lo strappo, mentre i legali si occupavano della liquidazione. Che sarà sicuramente sarà lauta visto che il banchiere guadagnava circa 8 milioni di euro all’anno e a fine 2009 possedeva inoltre quasi 3,4 milioni di azioni che alla quotazione odierna valgono circa 6,8 milioni di euro.
Certo, qualche telefonata i presidenti di Fondazione a lui fedeli (Andrea Comba di Crt o Giovanni Puglisi del Banco di Sicilia) ai loro colleghi più riottosi. Ma che Unicredit fosse il passato Profumo l’ha capito già nella serata di lunedì, quando dopo l’ennesimo scontro con Rampl ha deciso di lasciare per evitare uno stallo ingestibile. Ieri, inviata la lettera di dimissioni, ha lasciato la banca nel primo pomeriggio, preferendo disertare il consiglio d’amministrazione nel quale il banchiere te-
desco ha comunito la decisione. E che, stando alle prime indiscrezioni, avrebbe dovuto essere teatro di un duro scambio d’accuse tra le parti. Proprio Rampl dovrebbe fare da traghettatore in una fase che di transizione che si annuncia complessa. Il mercato – che ieri ha bocciato quest’operazione come dimostra il -2;11 per cento registrato dal titolo - pretende chiarezza sui cantieri lasciati aperti da Profumo: innanzitutto la nuova riorganizzazione della parte retail (il cosiddetto Bancone) che taglia le direzioni intermedie tra il territorio e la prima linea manageriale, quindi le possibili espansioni in Germania o oltre Atlantico. Serve un nuovo capoazienda, quindi, e già circolerebbe una short list di candidati alla successione, nella quale figurerebbe anche Enrico Tommaso Cucchiani, manager che si è fatto le ossa in Ras e che adesso guida per Allianz, socio forte di Unicredit, le attività assicurative in Italia, Spagna, Portogallo, Turchia, Grecia e Sud America. La sua nomina potrebbe essere un compromesso tra le richieste dei tedeschi (che vogliono più deleghe al presidente Rampl e un manager
di primo piano nel Bancone), le garanzie di remuneratività chieste dai soci finanziari e quelle sui rispettivi territori avanzati dalle fondazioni. Ma non sarà facile trovare un equilibrio. E di questo sarebbe certo anche Giulio Tremonti.
Il ministro dell’Economia ha usato tutte le sue armi a disposizione per salvare Profumo. Considerato, nonostante la diversità di vedute, l’unico argine contro un sempre più probabile trasferimento della prima banca italiana in Germania. E parliamo di una banca che dà lavoro nel nostro Paese a quasi 13mila per-
sportelli in 19 Paesi, oltre trecentomila azionisti entusiasti che hanno visto lievitare la quotazione borsistica di Unicredit da 1 a 7 euro. Profumo ha tenuto per sé la carica di amministratore delegato, accentrando i poteri operativi. È però generoso nel distribuire lauti dividenti e poltrone. Al tedesco Dieter Rampl la presidenza. Nel Consiglio austriaci, tedeschi, polacchi. Oltre ai fedelissimi industriali Luigi Maramotti e Carlo Pesenti jr.
Qui sopra, Dieter Rampl, vero vincitore della sfida con Alessandro Profumo (in alto nell’altra pagina). Umberto Bossi e Giulio Tremtoni in passato lo avevano molto attaccato
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È comprensibilmente orgoglioso dell’internazionalità di Unicredit, Alessandro Profumo. L’inglese è la lingua preferita (in questo in sintonia col nuovo governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi). Dei giornali italiani, memore degli insegnamenti di Enrico Cuccia, si tiene alla larga. Privilegia il Financial Times, al quale dichiara (22 marzo 2007): «Unicredit è un player italiano, ma non è vero che siamo una banca italiana. (…) Ci poniamo l’obiettivo di essere la prima banca europea!». Qualcuno torce il naso: gli azionisti delle Fondazioni Crt-Torino e Cariverona, Fabrizio Palenzona e Paolo Biasi. Sono preoccupati dal distacco del territorio, dalle alchimie finanziarie. Ma finché la barca va, macinando sviluppo e profitti, gli oppositori si fanno cauti. Poi succede quel che pochi s’aspettavano: Unicredit ingloba Capitalia di Cesare Geronzi, che non è proprio un gioiello. Chi glielo ha fatto fare (ordinato?) il matrimonio? Cosa sta scritto nelle clausole dell’accordo con Geronzi, sino a poco prima tenace oppositore? Il gigante Unicredit prende a scricchiolare, sotto i colpi del ciclone che investe il sistema
sone e raccoglie circa tre miliardi del risparmio degli italiani. Emblematica al riguardo la decisione della Lega di correggere chi, come il sindaco di Verona Tosi, ieri ha cantato vittoria. Il tremontiano Giancarlo Giorgetti ha infatti sottolineato: «Non è la politica né sono i partiti che decidono la rimozione di un amministratore delegato».
bancario mondiale. Oltre confine non è tutto oro quel che pareva luccicare. Anzi. Acquisizioni avventate? Sarà la storia a giudicare; nel frattempo, tuttavia, Unicredit ha bisogno di cash, aumenti di capitale; i dividendi, un tempo pingui, s’immiseriscono. Le Fondazioni, perno dell’azionariato, entrano in fibrillazione, apertamente contestando la “linea Profumo”. A guidare la ribellione i veronesi di Paolo Biasi, che prendono a suonare il refrain: prima i nostri territori, poi il resto… Profumo, tuttavia, sembra tenere botta, sebbene la scorsa primavera, in un attimo d’irritazione, faccia balenare l’ipotesi di andarsene. La crisetta rientra, senonché alle elezioni, i leghisti vincono e s’apprestano a governare in Veneto e Piemonte.
di Unicredit in Borsa, i tripolini di Gheddafi hanno continuato a rastrellare titoli. Poteva, Profumo, «non sapere»? Lui lo sostiene, ma il primo a non credergli è il presidente bavarese Dieter Rampl. I tedeschi non accettano di venire scavalcati dai libici; idem per le Fondazioni di Verona e Torino. E “Alessandro Magno” si ritrova con le spalle al muro. Malgrado Tremonti, pur legato com’è alla Lega, paventi uno tsunami nel mondo creditizio. Malgrado la prevedibile solidarietà di Mario Draghi, amico d’antica data. Profumo, non scordiamolo, era andato a mettere la firma sul manifesto del Partito democratico. Mossa goliardica (ai tempi di Romano Prodi), oggi un boomerang. Berlusconi, impegnato ad ege-
Si apre una stagione di sconvolgimenti: sulle varie plance di comando della finanza c’è troppa gente che ha fatto il suo tempo Attraverso le Fondazioni vogliono pesare, ricondurre Unicredit sull’antico binario del “territorio”. Profumo replica, apparentemente con successo, attraverso un processo di ristrutturazione che va sotto il nome di “Banca Unica”. Senonché, nel frattempo, è esplosa, deflagrata, la bomba della vieppiù massiccia presenza libica nell’azionariato Unicredit. Ormai superiore al 7 per cento, tutti gli altri soci surclassando. Interessante: il “nocciolo” di questa partecipazione proviene dalla quota che i libici avevano in Capitalia. Nessuno ci aveva fatto caso?
Inquietante. Negli ultimi mesi, sfruttando la debolezza
monizzare con una strisciante infiltrazione ogni istituzione, non l’ha sicuramente dimenticato. Comunque, con la crisi di Unicredit targato Profumo, nel sistema bancario-finanziario nazionale si apre una stagione di sconvolgimenti, ribaltoni. Sulle varie plance di comando c’è troppa gente che ha fatto il suo tempo, mentre l’economia, le imprese, attanagliate dalla crisi, hanno bisogno di un ricambio di energie. Forse Alessandro Profumo, a 53 anni, potrà apparire la vittima sacrificale meno opportuna. In un contesto di cariatidi. Potrebbe però anche esser vero questo: le cariatidi non hanno mosso un dito per difenderlo, onde salvare se stesse.
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er annunciare la morte di Raimondo aveva semplicemente scritto: «Se n’è andato». Sopra e sotto uno spazio bianco. Non una parola, nemmeno il nome. Sandra Mondaini aveva dato così, con grande stile e compostezza, il senso del vuoto, del silenzio che avvertiva dentro di sé dopo la morte dell’uomo col quale aveva vissuto, recitato, scherzato per cinquant’anni. Una straordinaria storia d’amore la loro e un’altrettanto straordinaria carriera di cui solo la morte ha decretato la fine. Un rapporto intenso, fatto di lavoro e di gioco. Non potevano stare separati e così lui è scomparso ad aprile e lei lo ha seguito a settembre. Sandra se n’è andata ieri alle 13, dopo 10 giorni di ricovero al San Raffaele di Milano e dopo 5 mesi che Raimondo l’aveva lasciata. Del resto lo aveva ben detto monsignor Faccendini nel celebrare i funerali del marito: «È innaturale pensarli divisi». Quel giorno lei fece una breve apparizione. Era seduta in una sedia a rotelle, gli occhiali scuri, il volto tumefatto, sconvolto. L’enorme folla presente avvertì la sua sofferenza e appena scorse il suo arrivo, gli regalò il più lungo e affettuoso degli applausi di tutta la sua carriera. Era già molto malata, ma non era stato il cancro, contro cui lottava da anni, a ridurla in quello stato. Due i fattori: la morte del compagno della vita e un terribile quanto raro morbo che aveva colpito i vasi sanguigni e che le procurava dolori lancinanti.
P
L’esistenza di Sandra era diventata negli ultimi tempi molto dura. Dopo tanti anni di affetti e di allegria, un cerchio di sofferenza sembrava essersi stretto intorno a lei. E poco riusciva a fare anche l’amore di Gianmarco e Raymond, i due bambini filippini che la coppia Vianello aveva adottato: i ragazzini e il loro genitori erano entrati a far parte della famiglia.Vivevano tutti insieme all’ultimo piano della Residenza Acquario a Milano 2. Una normale casa borghese col divano a righe, la libreria, la mensola con i Telegatti vinti in decenni di luminosa attività, e la gigantesca televisione, voluta da lui per vedere le partite di calcio, la sua più grande passione. Come una scena della loro ficton più divertente: Casa Vianello. Raimondo era un grande comico, un uomo pieno di stile, colto, raffinato, di buona famiglia, sua moglie poteva correre il rischio di diventare la sua ombra. Sandra invece ha sempre tenuto bene la scena sia nella vita sia in teatro e sia in tv. Non era certo né un arredo elegante, né la silenziosa ispiratrice dei successi di Raimondo. Non era nemmeno la sua spalla. Gli stava accanto da protagonista in modo allegro, ironico, rumoroso. Si beccava le sue infinite battute: «Vuole parlare con Sandra? Meno male così io guardo la partita», ma restituiva pan per focaccia anche solo lanciando il famoso: «Uffah! Che barba!». Sandrina - come la chiamava lui - era una milanese doc: era nata non lontana dal Duomo nel 1931 da un padre che faceva il disegnatore al Bertoldo. Giovanissima aveva iniziato a fare la soubrette nella compagnia di Macario. Non era il tipo di bellona prosperosa che andava di moda all’epoca e che animava quel genere teatrale che andava sotto il nome di “rivista”. Sandra era piccolina, magra, un visetto delizioso dove scintillavano i grandi occhi chiari. Ha sempre scherzato sul fatto che, pur essendo molto graziosa, non venisse considerata una vamp, una di quelle donne per le quali -
il paginone
Dopo la morte del suo Raimondo, lo scorso aprile, la sua esistenza era diventa
Cala il sipario su
di Gabriella
È scomparsa ieri, dopo un ricovero all’ospedale San Raffaele
di Milano, Sandra Mondaini, l’ultima signora della risata così si pensava allora - gli uomini perdono la testa. Quante scenette con Raimondo che inseguiva queste “divine”e lei che lo sferzava con battute ironiche. Proprio due sere fa la tv ha mandato un breve spezzone in cui lei, travestita da signorina attempata e moralista, apostrofava Lelio Luttazzi così: «Mica si sarà montato la testa ora che lavora con quel bocconcino della Mondaini». Nel 1958 conobbe Raimondo, quel giovanotto - uno spilungone biondo con l’aria elegante quanto l’eloquio - aveva deciso di fare il comico e si incontrarono a teatro. Lei raccontava che le chiese di sposarlo quattro anni dopo: era il 1962 ed erano a cena con Gino Bramieri. La proposta fu così irrituale che la povera Sandra non capì se gliela facesse sul serio oppure fosse una delle sue tante gag.
Si sposarono e le gag non ebbero più fine. Lei aveva lasciato gli studi quando era ancora molto giovane e se se ne dispiaceva. Lui ne approfittava consigliandola «di non arrampicarsi in discorsi che non sai bene dove possano finire». Era gelosa? E giù lui a sfotterla. Ma lei tranquilla: «Ce ne sono più belle di me? Beh, alla fine, eccoci qua. Dove vuoi andare ormai alla tua età». Fra spettacoli teatrali e divertenti scenette di vita vissuta, i nostri approdano al piccolo schermo. E lì matura il trionfo. C’è l’edi-
zione di Canzonissima del 1961 quando ancora non sono sposati. Sandra interpreta insieme a Paolo Poli, un altro grande ormai dimenticato, i due bambini terribili: Filiberto e Arabella. Un assaggio di quello che sarà il grande successo del Signore di mezza età dove Marcello Marchesi crea per la Mondaini il personaggio di Crudelia Delor, caricatura che s’ispira alla Crudelia della Carica dei 101. Finalmente anche in tv la coppia si ricompone. È il 1963 quando ne Il giocondo i due si ritrovano. C’è anche la spendida Abbe Lane, una di quelle vamp cui Sandrina proprio non somigliava. Raimondo la chiamava la “sora Abbe”e sognava di corteggiarla e di “farla sua”, ma in realtà era sempre più legato alla moglie. E lei, dal canto suo, andava a gonfie vele. Un trionfo dietro l’altro: dal Tappabuchi a Tante scuse. Di nuovo tante scuse, sino a Noi no. Elegante, al massimo dello splendore fisico, la Mondaini inonda il pubblico di comicità, ma non solo: canta, balla, presenta, conduce. Insomma, è ormai una donna di spettacolo a tutto tondo, con un repertorio vasto e vario. È arrivato il tempo di inventarsi qualcosa di nuovo, di andare oltre e Sandra crea per lo spettacolo abbinato alla lotteria di Capodanno del 1978 , Io e la Befana, il personaggio che forse ha amato di più perchè la fece diventare popolarissima fra i bambini: si tratta di Sbirulino. Sin qui è la Mon-
daini versione teatro e versione Rai. Nel 1982 la coppia sbarca a Canale 5. Comincia con spettacoli tipo Attenti a noi due, poi attraversa con la consueta originalità e autoironia il quiz. Intanto sia Raimondo sia Sandra vengono colpiti dal cancro: prima lui si opera al rene, poi tocca a lei: l’intervento è al seno. Si impegnano nelle campagne contro la malattia. Lui con aria corrosiva racconta: «Siamo andati a spiegare in un incontro con i giovani che abbiamo il tumore, chissà quanto si saranno divertiti». E lei: «Quando fate la doccia, toccatevi e guardate che tutto sia al suo posto», mentre Raimondo sollevando gli occhi al cielo: «Che dice, che dice...».
Un’attività questa della coppia che consentirà di raccogliere molti fondi al professor Veronesi per la sua ricerca e che restituirà il sorriso e la speranza a tanti ammalati. Sembra incredibile, ma le cose più belle Sandra e Raimondo le hanno fatte proprio alla fine della carriera. Il loro capolavoro è sicuramente Casa Vianello. Va in onda il pomeriggio della domenica e delizia le famiglie italiane quando già si ricomincia a pensare al lavoro del lunedì. Le battute di una vita, sperimentate sui palcoscenici teatrali, in decine di gag televisive, nella vita famigliare confluiscono in quella che diventerà la sit-com più famosa della tv. Un panorama dell’inferno-
il paginone
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ata molto dura. Un cerchio di sofferenza sembrava essersi stretto intorno a lei
u Casa Vianello
a Mecucci
La commozione di amici e colleghi: «Con lei se ne va un pezzo importante di storia della tivù» «Ora Raimondo non riposa più in pace». Facebook si è subito riempito di commenti in ricordo di Sandra Mondaini, mattatrice televisiva di epoche che furono ma amatissima anche oggi dai giovani fruitori della rete. Il pensiero degli internauti, in particolare, è andato ai bisticci bonari che erano il marchio di fabbrica della coppia Mondaini-Vianello, e che si riproporranno ora lassù nel cielo. Sandra e Raimondo, Raimondo e Sandra. Inseparabili lo sono stati anche nel lasciare agli affanni terreni i propri cari. «Senza il suo adorato Raimondo si è lasciata morire», ha tristemente commentato Mara Venier, da anni amica della coppia. Ha fatto passare poco più di cinque mesi dalla scomparsa del marito, morto lo scorso 15 aprile, per raggiungerlo. L’ha voluta ricordare anche il presidente del Consiglio, ricordandola come «un’amica carissima», che insieme al marito «accettò tra i primi di impegnarsi» in Mediaset, assicurando un insostituibile «contributo di qualità artistica, di ironia e di libertà». Maurizio Costanzo, unico invitato al matrimonio della coppia, era certo che «Sandra non avrebbe retto a questa scomparsa. Era impossibilitata a vivere senza il marito». Due parti inscindibili di un’unica cosa, secondo tutti gli amici. Compreso Pippo Baudo: «Si è conclusa una grande storia d’amore: da quando Raimondo ci aveva lasciato, Sandra non era più in grado di vivere». «Hanno vissuto una bella vita, intensa, di grandi successi, con grande ironia. Non capita a tutti», la ricorda con affetto e un pizzico di invidia Paolo Bonolis. «Quindi sono contento per quello che ci ha dato con la sua arte e l’energia», ha continuato il conduttore, «per chi ci crede, oggi si riunisce a Raimondo lassù da qualche parte». Salita alla ribalta per il suo mitico Sbirulino, e per i «che barba, che noia!» con i quali tartassava il malcapitato Raimondo, secondo Sergio Zavoli, presidente della Commissione di vigilanza della Rai, «Sandra Mondaini era una creatura molto più malinconica di quanto apparisse nella realtà». Negli ultimi giorni le condizioni della Mondaini si erano aggravate, come conferma don Walter Magni, che ieri era andato a trovarla per darle l’unzione degli infermi. «Il suo desiderio era quello di ricevere l’ultimo saluto presso la stessa chiesa di Segrate dove è stato celebrato il funerale di Raimondo». E così sarà, probabilmente nella giornata di domani, anche se la famiglia non ha ancora diramato una comunicazione ufficiale. Pietro Salvatori
Tutti concordi sull’aspetto più umano: «Da quando se n’era andato il marito, lei non riusciva più a vivere»
In queste pagine, alcuni degli scatti più significativi della vita e della carriera di Sandra Mondaini. Sopra e a destra, anche con il suo Raimondo Vianello
paradiso domestico in cui lei gioca a fare la moglie annoiata in cerca di qualche brivido, di qualche novità che la porti fuori da quel “piattume”. Lui si propone come il marito permaloso, noioso ed eternamente in pantofole, che si sveglia solo quando vede la bellona del piano di sopra e quando sta per iniziare la partita della sua adorata Inter.
Su questo scheletro nascono e crescono scenette esilaranti con Raimondo che corteggia la vamp in questione, la invita a casa e oreganizza con lei la fuga. Mariti gelosi, scenate, tentativi di riconquista, notti passate dentro un armadio, oppure ricette di cucina per pranzetti prelibati che mandano i commensali all’ospedale: è uno scoppiettare di idee, di battute, di movimenti scenici che riempono l’imprevedibile di Casa Vianello. Giornata che, per una sorta di rovesciamento teatrale, termina con Sandra e Raimondo a letto e con lei scalcia e urla: «Che barba, che noia!». La sit-com è talmente divertente e raggiunge un tale successo che inizia nel 1988 e terminerà solo nel 2007. E poi ci sarà Cascina Vianello e Crociera Vianello. Lui continua a prenderla in giro incessantemente. Quando il presidente Scalfaro li insignisce dell’onorificenza di Grandi ufficiali della Repubblica, lei si commuove e Raimondo sbotta: «Ormai è una fontana». E quando
insieme salgono per l’ultima volta sul palco di Sanremo e lei, ammalata, comincia a tossire, lui per sdrammatizzare grida: «Basta. Portatela via». Un grande amore e una grande carriera. Una vita felice, come riconosceva Sandra. Insieme per divertirsi, per stigmatizzare i propri difetti e, accanto a quelli, i difetti, le piccole e grandi meschinità degli italiani. Una fotografia esilarante e talora impietosa della famiglia media italiana: questo ci hanno restituito i Vianello. Poi, quando hanno sentito che non ce la facevano più, se ne sono andati in punta di piedi. Lui ad aprile, lei ieri. Perché l’uno non poteva stare senza
l’altro. Qualcuno ha ricordato, subito dopo che era stata resa nota la morte di Sandra, che quell’uscire di scena quasi contemporaneamente, ricordava la fine di Giorgio e Germaine Amendola. In quel caso lei non resistette più di qualche giorno. Lo spettacolo televisivo leggero ha perso con i Vianello due dei suoi fondatori. Erano già mancati Tortora, Corrado, Panelli, Bice Valori, Delia Scala, Mike Bongiorno, tanto per citarne solo alcuni. Un’ epoca si sta chiudendo. Finisce un modo garbato, divertente, ironico e persino autocritico di fare intrattenimento. Un modo di cui Sandra era una delle ultime sopravvissute.
mondo
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Reportage. Il Paese assiste alla nascita di una nuova classe borghese, che definisce “obsoleto” l’insegnamento di Ataturk e guarda all’Unione europea con disinteresse
Stato senza aggettivi Viaggio nella Turchia del post-referendum, in bilico fra Oriente e Occidente e costretta a mediare con se stessa di Pierre Chiartano agazze velate col niqab che prendono appunti. Ma con parte del volto scoperto, linee asimettriche di tessuto nero che esaltano lineamenti delicati e timidamente determinati. Sedute accanto a una teenager persa nella musica dell’ipod. Ombeli-
R
co scoperto e tanti anelli alle dita. Non riesci a contarli. La metro ha appena lasciato la stazione di Aksaray, poco fuori Sultanhamet e dal Corno d’Oro. Due trentenni in gessato parlano, probabilmente di lavoro, sorridono mentre una signora grassa e col velo leggero dell’hijab, tiene a bada una bella bambina dagli occhi celesti. Facce consumate dal sole si mischiano ai raffinati make up delle universitarie. Non puoi vedere una donna in piedi che subito c’è un ragazzo a cedergli il posto. La metro è pulita, efficiente, nessun segno di graffitari o di vandalismi. Stazioni che sembrano costruite da poco, linde - al contrario di certe strade - passano una dopo l’altra verso Yenibosna, poco prima dell’aeroporto Ataturk. È la Turchia nuova, quella più democratica uscita dalle urne del 12 settembre scorso. Un Paese che sembra ormai libero dallo spettro della triste custodia dei militari, scorre sotto gli occhi di chi ha voglia di osservare, tra una stazione della metro e l’altra. Moderna, giovane, dina-
mica e con un pil che, crollato al 4 per cento nel 2009 (dopo aver raggiunto il 14 per cento) ora sta risalendo vertiginosamente. In mezzo a quella folla eterogenea e incredibilmente giovane si nasconde la formula vincente di un Paese che cerca e vuole il cambiamento.
«Certo è il cambiamento che abbiano cercato con questo voto» racconta a liberal Bulent Kenes, firma di punta di Today’s Zaman, uno dei quotidiani che fa capo alla rete di Fetullah Gulen, “gamba” su cui si regge il consenso dell’Akp e del premier Tayyp Erdogan. «Oggi siamo una democrazia senza aggettivi». Il Paese negli ultimi anni è cambiato, il suo premier è fra i più popolari di tutto il Medioriente e il governo, con la politica economica del zero problem, maximum trade, sta attuando nei fatti l’unificazione del Mediterraneo meridionale. Un progetto che Nicolas
scendo i timori di una svolta autoritaria dell’Akp, in parte a causa di una gigantesca causa fiscale intentata contro il gruppo editoriale Dogan. Uno dei giornali del gruppo ha definito quella turca una “repubblica del terrore”. «Altro errore confondere i piani del problema. Il gruppo Dogan ha negli ultimi anni effettuato una gigantesca evasione fiscale, con pratiche salariali illegali. Lo sapevano tutti e un’altra grande società è stata condannata in Turchia per lo stesso motivo. Ma i media del gruppo Dogan si guardano bene dal riferirlo, preferiscono vestire i panni delle vittime». Kenes pare conoscere a fondo molte controversie che sembrano pesare sulla reputazione del partito del premier. A onor del vero sono argomenti che lo stesso Zaman ha più volte trattato dalle sue pagine. Ma negli Usa c’è chi vede nel procedimento contro il gruppo un segnale verso
Dopo i risultati che hanno visto il 58% dei cittadini a favore delle riforme, qualche giornale turco ha titolato: «Sì, ma non è ancora abbastanza» Sarkozy voleva guidare coi soldi tedeschi. Ma se Ankara unifica fuori dai propri confini, sembra spaccata all’interno dopo il referendum. Kenes rifiuta la definizione che danno molti quotidiani della Turchia secolare, colta, ma conservatrice: una specie di tripartizione turca del dopo voto. «Non è vero che il sud sia curdo, l’interno del Paese filogovernativo e le coste, Istanbul compresa, appoggino i militari e i partiti kemalisti. Come non è vero che chi abbia votato no faccia parte della Turchia, laica, culturalmente preparata e ricca - quelli che vengono chiamati white turks - e il sì sia stato votato dalla parte più arretrata e religiosa. È una semplificazione che sentiamo spesso oggi in Turchia, ma è sbagliata. Fa comodo a chi vuole presentare un Paese spaccato. Stranamente, i turchi che appaiono più occidentali sono quelli che frenano il cambiamento, che difendono i privilegi». A Washington stanno cre-
una restrizione della libertà di stampa. «C’è anche chi ha definito dei traditori della Patria chi ha votato sì», aggiunge l’editorialista del quotidiano che ha una sede, a Yenibosna, degna del New York Times. Ma La Turchia non è certo la Russia ed Erdogan non è Putin. Fetullah Gulen, riferimento di Zaman e di un gruppo che spazia dall’editoria al terzo settore, alle scuole è un personaggio, è un intellettuale amatissimo da una larga fetta di turchi.
Specie se giovani e con la voglia di cambiare un Paese che era fondato sui privilegi e sulla tutela dei militari. Un potere fondato sul consenso, visto che da anni Gulen vive negli Stati Uniti. «I militari sono ancora molto stimati dalla maggioranza dei turchi, ma non devono poter ingerire nelle questioni politiche ed istituzionali. Come succede in tante democrazie occidentali, devono essere sottoposti al controllo civile» chiosa Kenes che intorno ha una re-
dazione giovane, molti da un perfetto accento anglosassone che tradisce frequentazioni di college abbastanza esclusivi. Inseriti in una struttura che rimanda un’immagine positiva di modernità e voglia di cambiare, che ormai sembra persa in tanti Paesi europei. Ma la Turchia del dopo voto è anche la cifra di come andrà a finire la battaglia, che c’è anche in Europa, tra il secolarismo - meglio sarebbe chiamarlo laicismo - coniugato come una vera ideologia, e una visone della persona che apra una porta anche all’aspetto trascendente della natura umana. «Da noi è stato come una chiesa ateista, con le stesse estremizzazioni. Un Paese moderno deve essere secolare, ma non nel modo in cui si è fatto in Turchia, escludendo ogni rapporto tra religione e modernità» continua l’editorialista di Zaman. E poi il padre della Patria, Kemal Ataturk, non viene criticato più di tanto, anzi. «Sono i suoi interpreti che hanno sbagliato. Il Chp, il partito repubblicano, che ne ha voluto raccogliere l’eredità, ne ha tradito lo spirito, che era quello del riformismo. Il Chp voleva essere un interprete della socialdemocrazia, ma ha finito per non fare gli interessi dei deboli e ha difeso quelli dei privilegiati. È diventato una sorta di partito del no. No alla democrazia liberale, no al libero mercato - almeno all’inizio - no alla globalizzazione, no all’Europa. Si è messo su di un piedistallo, guardando dall’alto e giudicando chiunque volesse introdurre dei cambiamenti in una società totalmente rigida e ingiusta».
mondo
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Preoccupazione Usa per le manovre bancarie
Ma Ankara tratta anche con l’Iran Le industrie turche ignorano le sanzioni dell’Occidente di Massimo Fazzi
Una manifestante a favore del “sì” al referendum costituzionale promosso da Erdogan. Nella pagina a fianco, Abdullah Gul Ma con un’epoca al tramonto, serve un cambio non solo generazionale. Le truppe, cioé i votanti, ci sono, ma esiste una classe dirigente, una specie di borghesia islamica che si proponga di guidare la nuova Turchia? Kenes è preso dall’analisi su laicismo, la religione e la possibilità di costruire un Paese nuovo e moderno. Per lui risponde un altro esperto ospitato sulle pagine di Zaman, Omer Taspinar, esperto della Turchia della Brookings Institution. Per lui questa borghesia economica che appoggia l’Akp esiste e presto sarà classe dirigente. Kenes, invece, non ama, come tanti suoi connazionali, il cinismo con cui un certo giacobini-
co - ma non con chi pensa che sia un problema. Solo nelle dittature ci sono consensi sopra certe percentuali. Dobbiamo partire dal fatto che possiamo diventare una democrazia senza aggettivi». Qualcuno in Europa pensa che più democrazia significhi qualcosa che assomigli a quella occidentale, ma molti credono - tra questi il direttore di Limes, Lucio Caracciolo - che sarà invece coniugata secondo un modello che piace di più ai turchi. Si parla dunque di democrazia islamica. «Non sono d’accordo con certe definizioni, con i 26 punti della riforma la Costituzione si avvicina oggettivamente agli standard richiesti dall’Unione Eu-
L’editorialista di punta del “Zaman Today” spiega: «Molti devono solo rendersi conto che siamo un Paese diverso, che merita un’altra considerazione» smo intellettuale ha bollato il voto del 12 settembre. E ripete spesso, argomentando con la stoffa del politico, “la miseria del no e la potenza del sì”. Gli slogan piacciono e uno in particolare era stato coniato durante la campagna elettorale per le riforme costituzionali. Con tutti i limiti che comportano delle traduzioni, poteva significare: “Non è ancora abbastanza, ma vota sì”. Dopo i risultati che hanno visto il 58 per cento dei cittadini a favore delle riforme costituzionali, qualche giornale turco ha titolato: “Sì, ma non abbastanza”. «Sono d’accordo spiega subito il giornalista tur-
ropea. È un dato incontrovertibile. L’obiettivo è un modello di democrazia che potremmo definire universale e siamo in grado di raggiungerlo» chiosa Kenes. E anche nel campo delle relazioni internazionali, quelle con Israele in particolare, il giudizio dell’analista interpreta il pragmatismo che ha improntato storicamente le relazioni tra turchi ed ebrei. Il 23 il presidente israeliano dovrà incontrare il ministro degli Esteri turco. «Penso che i rapporti potranno normalizzarsi e ricostituirsi. Molti, tra cui Israele, devono solo rendersi conto che siamo un Paese di-
verso che merita un altro tipo di considerazione. Poi la storia ci insegna che Israele è sempre stato un alleato della Turchia, anche nei momenti difficili e potrà tornare ad esserlo».
La Turchia dei white turks o forzando il significato - della nuova borghesia islamica sarà sicuramente una nuova protagonista nel Mediterraneo e nel Medioriente. Ma non ci sono buone notizia dal fronte occidentale. I sondaggi danno l’euroentusiasmo ai minimi. Secondo un recente studio (Transatlantic trends) del German Marshall fund, i turchi favorevoli all’entrata in Europa sarebbero solo il 35 per cento. Insomma, sarebbe passata l’onda lunga che spingeva verso ovest. Ma a sentire alcuni rappresentanti della nuova Turchia di Erdogan & Co. è solo questione di tempo. E il tempo è anche quello che le minoranze religiose stanno contando per vedere i propri diritti di professione di fede rispettati in Turchia. È di lunedì la notizia che, dopo 95 anni, gli armeni ortodossi hanno potuto celebrare di nuovo una messa nell’antica chiesa di Akdamar. Chissà quando anche la comunità cattolica riuscirà a non sentirsi più minacciata. Erdogan e l’Akp su questo fronte hanno fatto molte promesse. E se fosse introdotto un sistema di reciprocità, cioè che ciò che viene garantito, a livello di libertà religiosa in un Paese, sia concesso anche in Turchia, sarebbe una vera rivoluzione. Allora quella della nuova Turchia sarebbe veramente una storia da raccontare. E non solo sulle pagine dei giornali.
arà anche cambiata nell’animo, la Turchia di Recep Tayyp Erdogan e Abdullah Gul. Avrà anche abbandonato l’estremismo laicista dei figliocci di Ataturk, mantenendo nello stesso tempo a bada il fondamentalismo dei figliastri di Maometto, ma continua a covare nel profondo dell’animo l’ambizione di divenire guida e sostegno del mondo arabo. Orientale come occidentale. Arabi gli iraniani non sono: eredi di Ciro il Grande, rivendicano con orgoglio la tradizione persiana e – in pieno spirito ereditario – hanno deciso con successo di diventare la peggiore spina nel fianco del molle Occidente. Con una forte repressione interna e una militarizzazione senza precedenti, il presidente Ahamdinejad ha ricostruito un programma atomico che fa molta paura. In grado di colpire Israele, potrebbe tranquillamente arrivare alle coste europee. Per fermare questi propositi, ma con il terrore di scatenare un conflitto aperto, il mondo ad Ovest ha lanciato uno splendido balletto fatto di minacce e sanzioni, teoricamente in grado di fermare l’industria bellica del bellicoso Iran.
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l’industria nucleare iraniana, schermandosi dietro l’anonimato garantito ad alcuni operatori scelti della finanza internazionale.
Peccato però che, proprio in nome della sovracitata ambizione, la Turchia “europeista”abbia deciso di ignorare i diktat occidentali e abbia aperto le proprie banche ai traffici di pasdaran e ayatollah. Lo rivela l’agenzia internazionale Reuters, secondo cui Ankara (alleato degli Stati Uniti nella guerra al terrore globale) ha approvato transazioni finanziarie molto sospette, collegate proprio al-
Secondo un’analisi di documenti riservati, e come confermato da alcune fonti, i boiardi di stato turchi avrebbero preso accordi con gli assistenti di Ahmadinejad, garantendo loro il passaggio di denaro e merci all’interno dei propri confini. Lo scopo è abbastanza chiaro: aumentare il proprio prestigio nel mondo musulmano che non è composto soltanto da bellicosi terroristi ma anche di influenti banchieri. E di alcuni fra gli uomini più ricchi del mondo. Il premier Erdogan, d’altra parte, si è alzato come un vessillo di Allah quando gli incursori della Marina israeliana hanno assaltato in acque internazionali il vascello turco Mavi Marmara, che portava aiuti umanitari (e alcune casse molto sospette) verso la Striscia di Gaza strozzata dall’embargo di Tel Aviv. Le sue proteste, vibrate e dolenti, gli hanno garantito il plauso incondizionato del mondo di Maometto: bambini chiamati con il suo nome, un rispetto mai avuto prima in seno alla Lega araba e l’incarico (non concesso ma nell’aria) di leader incontrastato del mondo del Vicino Oriente. Ora il referendum ha raffreddato gli interessi: l’aspetto laico delle nuove norme e il mancato riferimento alla legge islamica hanno fatto recedere leggermente i leader musulmani estremisti, che hanno smesso di spellarsi le mani al passaggio di Erdogan. Questi, preoccupato, ha aperto i forzieri a Teheran. E tanti saluti all’Occidente.
Un’inchiesta giornalistica rivela traffici sospetti fra i capienti forzieri ottomani e le armi vendute ai pasdaran
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Africa. Uomini e mezzi avveniristici per sconfiggere i fondamentalisti er quanto paradossale possa apparire, il rapimento di cinque ingegneri nucleari francesi in Niger la scorsa settimana – sequestrati insieme a due colleghi, uno del Madagascar e l’altro del Togo, probabilmente dai miliziani di al-Qaeda – offre a Parigi un’opportunità per tornare a farsi sentire in terra d’Africa come potenza economica e geopolitica. Negli ultimi anni la preponderanza di Cina e Stati Uniti hanno ridimensionato sensibilmente l’influenza che la Francia vantava nel suo ex impero coloniale. Oggi si offre all’Eliseo una carta per invertire questa tendenza. Con una decisione unilaterale, Parigi ha inviato un piccolo ma ben equipaggiato contingente militare nel cuore del Sahara per recuperare i sette rapiti. Si tratta di un’unità composta da 80 militari che disporranno della migliore tecnologia transalpina per quanto riguarda il pattugliamento e il monitoraggio aereo. Il Ministero della Difesa francese, infatti, ha messo a loro disposizione un velivolo Breguet-Atlantique e un Mirage. Al-Qaeda nel Maghreb Islamico (Aqmi) pesta i piedi alla Francia e quest’ultima, di conseguenza, mostra i muscoli. Interviene a fianco del governo di Niamey, ma soprattutto invoca la concertazione del Mali e della Mauritania, altri due Paesi sue ex colonie, dove la sua influenza appare in declino. Tuttavia l’Aqmi è uno spauracchio sia per le potenze occidentali, che investono nelle risorse minerarie della regione, sia per i soggetti locali, che sperano di ricevere i benefici provenienti dai capitali stranieri che lì si stanno consolidando. Il pericolo che i fondamentalisti si leghino a filo doppio con le tribù locali, soprattutto quel-
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Al Qaeda aiuta Parigi a tornare nelle colonie Per recuperare sette ostaggi, la Francia invia un piccolo esercito nel Maghreb di Antonio Picasso
lando del terzo Paese al mondo per risorse di uranio. La sua produzione annuale è stata valutata intorno alle 3300 tonnellate, e rappresenta il 48% delle esportazioni nazionali. Nel 2003, dopo vent’anni di stagnazione, il prezzo del minerale è tornato a cresce, soprattutto in correlazione come il rialzo della domanda mondiale di
Cina e Stati Uniti esercitano troppa influenza emarginando di fatto gli Stati europei che traevano ricchezza dall’area le tuareg, era stato annunciato già anni fa. Ormai si tratta di un fenomeno concreto. Questo non fa che rendere difficili le attività delle grandi compagnie straniere, interessate all’estrazione di minerali – petrolio, gas e uranio soprattutto – ma anche i governi locali, i quali sperano di sollevare le sorti di ogni singolo Paese, grazie alla neocolonizzazione di stampo economico di cui è soggetta l’Africa in questi ultimi vent’anni. Nel caso specifico del Niger, stiamo par-
elettricità. In questi sette anni, gli osservatori dell’Aiea, l’Agenzia internazionale dell’energia atomica, hanno calcolato che, entro il 2030, la produzione di energia nucleare aumenterà del 20%. L’accresciuto bisogno di combustibile nucleare è strettamente connesso al timore per l’esaurimento delle risorse di idrocarburi. A fronte di questo, la World nuclear association (Wna) prevede che, nei prossimi anni, oltre ai 34 reattori elettronucleari attualmente in costru-
Unione di sigle salafite, opera in Algeria e Marocco
Aqmi, il “trust” del terrore Al-Qaeda nel Maghreb Islamico (Aqmi) nasce all’inizio del 2007 dalla fusione dei tre gruppi salafiti per la predicazione e il combattimento attivi in Algeria, Marocco e Tunisia. Dopo oltre un decennio di attività smembrate e parallele, i jihadisti nordafricani decidono di unirsi in un trust del terrore, con l’obiettivo di colpire sia gli stranieri presenti nei tre Paesi che i governi locali, colpevoli di essersi alleati con gli infedeli. Dall’Aqmi restano esclusi la Libia e l’Egitto, dove i fondamentalisti scelgono di conservare la propria autonomia, pur appoggiando la strategia del neonato gruppo. La nascita di Aqmi raccoglie il plauso di Osama bin Laden e del suo numero 2, al-Zawahiri, i quali riconoscono la necessità di rinforzare la rete
del terrore proprio nel nord Africa, area fondamentale per gli scambi commerciali, industriali e migratori con l’Occidente. L’organizzazione poi mette a segno i punti più efficaci nello stesso 2007, quando colpisce più volte l’Algeria e il Marocco. Il 22 novembre di quell’anno infatti, l’attentato alla sede dell’Onu provocò 12 morti, ai quali se ne aggiungono altri 10 in un’esplosione contemporanea presso la Corte suprema. Da allora Aqmi si è concentrata prevalentemente sul sequestro e sul sabotaggio delle attività industriali straniere. Come nel caso dei 7 ingegneri nucleari rapiti in Niger la scorsa settimana. Ma soprattutto ha esteso il suo raggio di azione anche ai Paesi dell’Africa sub sahariana e del Sahel. (a.p.)
zione, ne seguiranno altri 93, realizzati soprattutto in Cina, India, Giappone e Russia. Per il soddisfacimento di questa grande ambizione mondiale, il Niger – vera e propria miniera di uranio – fa gola a tutti. Il Paese sahariano, però, è anche uno dei più poveri al mondo – il 174esimo secondo le stime più recenti. Niamey considera il nuovo interesse per il combustibile nucleare un must senza precedenti nella battaglia per lo sviluppo economico e sociale.
Per aumentare i proventi minerari, il governo ha diversificato i partner commerciali. L’uranio è estratto da due società franco-nigeriane, di cui Areva Nc è azionista di maggioranza: la Société des mines de l’Aïr (Somaïr), al 63,4%, e la Compagnie minière d’Akouta (Cominak), al 34%. Nonostante questo, la popolazione locale, prevalentemente nomade e dedita a un’attività di pastorizia estremamente arretrata, cade spesso vittima di gravi crisi alimentari. Le tribù tuareg premono affinché dallo sfruttamento dei giacimenti emergano proventi anche per loro e per il rilancio dell’economia nazionale. La sensazione che però nutrono di essere esclusi dai giochi li porta ad assumere un atteggiamento di ostilità nei confronti delle potenze straniere che, a loro giudizio, vorrebbero depredare il Niger della sua unica ricchezza. Da questo alla possibilità che la causa tuareg venga sposata da Aqmi il passo è breve. C’è poi la scelta francese che, a ben guardare, potrebbe spiazzare i suoi competitor nel continente. Parigi ha deciso di muoversi in assoluta autonomia. Si è imbarcata in una micro-operazione militare senza confrontarsi con l’alleato maggiore, Washington, e senza rendere pubbliche le sue intenzioni proprio in questi giorni in cui è in corso l’Assemblea Generale dell’Onu. Nel rispetto di una tradizione che affonda le radici ancora nella force de frappe del generale de Gaulle, l’Eliseo ha deciso di mettere un freno al terrorismo qaedista, intervenendo in soccorso dei rapiti, senza chiedere la collaborazione di nessuno fuorché i governi locali. Tuttavia quei suoi 80 uomini in uniforme hanno un peso specifico a livello geopolitico ben superiore. Con essi la Francia ha lasciato intendere a tutti coloro che sono interessati all’uranio del Niger che qualsiasi accordo preso con Niamey dovrà avere il suo nullaosta.
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Ahmadinejad e il caso di Teresa Lewis, condannata a morte negli Usa
Sharmarke cede alla crisi istituzionale. Paese allo sbando
Teheran al contrattacco sulla “Sakineh” americana
Somalia, il premier si dimette. Ed è il caos
TEHERAN. Quella che per Mahmoud Ahmadinejad è la “Sakineh americana” si chiama Teresa Lewis, bianca di 42 anni con problemi mentali che sarà uccisa domani con un’iniezione nello Stato della Virginia. La prima donna a essere messa a morte in questo Stato dopo oltre un secolo, la prima negli Usa dal 2005 quando in Texas fu uccisa Frances Newton. Nel 2003 Teresa è stata condannata a morte perché ritenuta colpevole di aver organizzato l’omicidio del marito e del figlio adottivo allo scopo di incassare i 350mila dollari dell’assicurazione sulla vita del giovane e ereditare la casa del marito. Secondo la Corte la donna avrebbe chiesto di compiere l’omicidio a due uomini. Per la difesa Teresa sarebbe stata invece manipolata da uno dei due killer.
MOGADISCIO. La crisi istituzionale nella leadership somala sembra giunta al capolinea dopo le dimissioni di ieri del primo ministro Omar Abdirashid Sharmarke, seguite a mesi di polemiche che hanno accompagnato il suo mandato, mentre nelle strade di Mogadiscio continua ad infuriare la battaglia fra i ribelli Shabaab e i soldati del governo transitorio, sostenuti dai peacekeeper dell’Amisom. Una scelta «per il bene del Paese» - ha spiegato Sharmarke - dopo mesi di tensioni con il presidente Sharif Sheikh Ahmed, che ha accolto le dimissioni definendole una «coraggiosa decisione», ma fonti locali parlano di una decisione presa in seguito a pressioni in-
La sentenza all’epoca fece discutere molto. Il giudice condannò all’ergastolo i due esecutori materiali degli omicidi, mentre punì Teresa con la pena di morte, argomentando che lei «era chiaramente la mandante». Il processo d’appello non cambiò le cose, nonostante molte perizie avessero dimostrato i «gravi disturbi della personalita» della donna. Pochi mesi dopo il processo, uno dei due kil-
Nasce “Russia Avanti!” il partito filo Medvedev E a Mosca traballa la poltrona del sindaco Luzhkov di Laura Giannone l sentore che qualcosa bollisse in pentola, i giornali russi lo avevano da giorni. Troppo nervosismo fra i parlamentari della Duma, e proprio mentre il malcontento popolare si fa sentire più forte. Da una parte i cittadini senza più remore - nei caffè, in metropolitana, nelle chiacchiere al telefono con amici e parenti esprimono l’insoddisfazione per una vita troppo cara, per una corruzione dilagante nella quotidianità e per una classe politica poco rappresentativa. Dall’altra un potere - quello rappresentato da Vladimir Putin (sempre più silenzioso, al netto delle foto sugli aerei antincendio e le dichiarazioni sulle prossime elezioni) - che mostra qualche logorio. Ma il punto è un altro: in Russia starebbe per nascere un’alternativa al“partito di Putin”Russia Unita, ancora oggi una macchina macina consensi, ma per molti superata nell’ideologia e nella struttura. Si tratta di Russia Avanti!, che dovrebbe essere annunciato - come anticipato da Apcom - sabato prossimo. Il nome non è scelto a caso, ma si ispira all’omonimo articolo firmato dal presidente russo Dmitri Medvedev e pubblicato su Gazeta.ru il 10 settembre 2009. Articolo che fece molto rumore - tanto da far parlare di frattura fra il presidente e il premier - dove il leader del Cremlino si mise a criticare il corso fino a quel punto intrapreso: velatamente dal punto di vista politico, apertamente per il mancato sviluppo tecnologico e un’economia troppo legata all’energia.
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vogliono accelerare le riforme: i nostri leader non resteranno da soli». Chiamando a partecipare a Russia Avanti! anche Pravoe Delo e i filo occidentali di Yabloko, partito storico del dopoUrss, caduto nel dimenticatoio negli ultimi anni ed escluso dalla Duma nelle ultime elezioni.
I fondatori del movimento si riuniranno il 25 settembre. Ilya Ponomaryov, un altro deputato di Russia Giusta, ha detto che i piani di ammodernamento di Medvedev hanno bisogno di più sostegno nella società. Nel frattempo Russia Giusta sta guardando sia agli elettori liberali che ai conservatori. Proprio quando il sindaco di Mosca Yurij Luzhkov, in sella dal ’92 e membro fondatore di Russia Unita, è bersaglio di un attacco senza precedenti voluto dal Cremlino. Affondo che potrebbe portare entro sette giorni il potente primo cittadino della capitale alle dimissioni.Volontarie (per evitare scandali) ma figlie dell’ira di Medvedev. Da giorni ormai i giornali riportano - dopo 18 anni di silenzio - le malefatte più o meno gravi del sindaco. Spigolature comprese: come la foto pubblicata ieri dal giornale Tvoi Den che immortala al polso di Luzhkov un orologio Patek-Philippe da 400mila dollari: niente di particolare, peraltro, per un potente che ha fatto della moglie la donna più ricca della Russia e una delle quattro signore più facoltose al mondo. Ma cosa sta accadendo? Il Cremlino sta ripudiando la sua creatura, Russia Unita, e una bandiera della stabilità come il discutibilissimo Luzhkov? O vuole cercare il consenso altrove? Di fatto l’opposizione extraparlamentare nelle manifestazioni di piazza, nonostante il rumore creato dalla stampa internazionale, non ha mai rappresentato l’opinione pubblica. I russi non si identificano nei nemici di Putin: nè nell’ex vicepremier Boris Nemzov nè in Limonov. Si potrebbero ritrovare nel nuovo movimento, ma è presto per dirlo. Anche se ormai da mesi circolano accendini con la scritta Russia Avanti!, testimonianza di qualcosa che è stato preparato con cura.
I fondatori del movimento si riuniranno sabato 25 settembre per ribadire di aver scelto la via delle riforme
ler, Matthew Shallenberger, scrisse una lettera dal carcere in cui confessava di aver manipolato Teresa per portare a termine il suo progetto criminale: «Incontrai Teresa in un supermercato - scrisse - e capii subito che sarei riuscito facilmente a circuirla. Uccidere marito e figlio fu un’idea totalmente mia». Raccontò che subito dopo averla conosciuta ne divenne l’amante e che pochi giorni dopo Teresa lasciò la porta di casa aperta permettendo ai due di entrare e uccidere figlio e marito. Dopo la confessione Shallenberger si suicidò in prigione e così i difensori di Teresa non poterono utilizzare la lettera come prova nel processo d’appello.
Che Medvedev abbia sempre fatto del progresso e della democrazia (rigorosamente alla russa), la sua bandiera e il suo programma politico, non è un mistero. Ma dalla critica alla nascita di un partito alternativo, ne corre. Certo, bisogna dire che il suo nome non è fra quelli che stano dando vita al neo movimento. Ma in Russia nulla è casuale e non può essere un caso che fra i fondatori di Russia Avanti! ci sia uno dei suoi più fidati ideologi: Vladislav Surkov, vice capo della sua amministrazione al Cremlino. E che Gennady Gudkov, membro pro-Cremlino di Russia Giusta, abbia dichiarato: «Ci uniremo a coloro che
ternazionali, anche se non specificano chi abbia spinto in tale direzione.
Il braccio di ferro tra le più alte cariche dello Stato era iniziato in maggio, quando il presidente Ahmed aveva annunciato che avrebbe designato un nuovo premier, dopo che il governo era stato battuto in Parlamento su un voto di fiducia. Sharmarke aveva rifiutato quel voto definendolo incostituzionale. Le fratture avevano anche investito il presidente della Camera, poi esautorato, fino ad arrivare a sabato scorso quando si sarebbe dovuto tenere un voto di fiducia al Parlamento, rimandato per la mancanza del quorum necessario. Nei giorni scorsi le Nazioni Unite avevano espresso preoccupazione per le divisioni, invitando i più alti vertici dello Stato alla coesione interna. Sharmarke ricopriva da gennaio dello scorso anno la carica di primo ministro, ed è il figlio dell’ex presidente Abdirashid Ali Sharmarke, ucciso nel 1969 prima del colpo di stato che portò Siad Barre al potere. La Somalia adesso si trova davanti a un bivio, e mentre non è ancora chiaro chi prenderà il suo posto, l’obiettivo primario resta il contrasto all’avanzata dei ribelli.
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L’intervista. Il regista racconta le baby gang scozzesi degli anni Settanta, scavando nella mente dei piccoli criminali da strada
«Le mie vite spericolate» A tu per tu con Peter Mullan, in gara al Festival del Cinema di San Sebastian col film “Neds” di Andrea D’Addio
SAN SEBASTIAN. Ritornare nella propria Glasgow dei primi anni ’70 e raccontare ciò che succedeva quando era ragazzino, con la sicurezza che mostrare oggi le baby gang di allora riesca a far comprendere come il fenomeno criminale abbia radici ben più profonde di quanto si possa supporre. Peter Mullan non è cineasta tradizionale. Il suo secondo film da regista, dopo una carriera da attore, lo portò al Leone d’oro al festival di Venezia. Si trattava del controverso Magadalene, storia di tre irlandesi fattesi suore a metà degli anni ’60 e accolte nel rigidissimo Magdalene Asylum. Dopo quel successo Mullan ha aspettato ben 8 anni per tornare dietro la macchina da presa. Lo ha fatto con Neds, titolo che richiama direttamente l’acronimo scozzese utilizzato per i Non Educated Delinquent, delinquenti senza istruzione. Incontriamo Peter Mullan al Festival di San Sebastian, dove ha presentato in anteprima europea la sua ultima fatica. Barba lunga, un bel viso rosso da vecchio marinaio e un sorriso travolgente, ben lontano dalla malinconia delle sue opere. Quello delle baby gang è un problema più che mai attuale. C’è la possibilità di risolverlo? Penso che le cose andranno sempre peggio. Quello dei Neds è un problema che nasce, purtroppo, da due sistemi che stanno andando assieme in malora: la società e la famiglia. In Gran Bretagna chi è ricco manda i figli nelle scuole migliori e chi va in quelle pubbliche sconta il fatto di essere figlio di genitori della classe operaia. Si creano così delle gerarchie che è difficile poi superare, ci sono delle eccezioni, ma a lungo andare un ragazzo a cui vengono chiuse fin da piccolo le migliori porte si trova più facilmente in contatto con altri ragazzi che, come lui, hanno genitori che rimangono al lavoro tutto il giorno. E così passano i pomeriggi ciondolando nei parchi. Le bande sono il loro intrattenimento. I genitori non pensano mai che si tratti dei loro figli.
Che cosa può fare la politica in tal senso? Non c’è un’unica via da percorrere e purtroppo io non ho una ricetta magica da consigliare. Bisogna cercare di dare più tempo alle famiglie di stare con i propri figli, assicurando un tessuto e un aiuto sociale che possa dargli non solo ore in più da dedicare a loro, ma che accompagni maggior-
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Il problema nasce, purtroppo, da due sistemi che stanno andando assieme in malora: la società e la famiglia
gna impegnarsi a non perdere di vista il fatto che i ragazzi di ora saranno gli adulti di domani e, se non investiamo sul loro recupero, non possiamo che andare incontro ad un tracollo. Bisogna poi capire che non si può pretendere da tutti un titolo accademico. Ci sono tanti ragazzi che oltre un certo livello di studio non vogliono e non possono andare e non è offensivo scegliere lavori diversi. Imponendo a tutti lo studio, si creano conflitti, invidie e frustrazioni che ci si porta dietro spesso per tutta la vita e che spesso trovano purtroppo spesso sfogo nello scontro fisico. Quanti elementi autobiografici sono presenti in Neds? Non è un film sulla mia gioventù, ma tante idee e scene fanno parte della mia memoria. Ho girato nella stessa scuola dove andavo io, il pro-
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mente la crescita dei ragazzi. Purtroppo non è un problema di destra o sinistra. Quando la sinistra è andata al governo in Scozia ha fatto peggio che la destra in quest’ambito. Biso-
Castellitto,McGrath, Aspesi:la giuria a Roma ROMA. Sarà Sergio Castellitto ad avere l’ultima parola su chi dovrà aggiudicarsi l’edizione 2010 del Marco Aurelio d’oro, il premio conferito al miglior film che transita sul red carpet de Festival di Roma. L’attore, considerato uno degli italiani «più prestigiosi» dal presidente della kermesse, Gian Luigi Rondi, coordinerà un team che annovera tra le sue fila Natalia Aspesi, critica cinematografica di Repubblica, i registi Ulu Grosbard, che ha diretto nella sua carriera cavalli di razza del calibro di Robert De Niro e Meryl Streep, e Edgard Reitz, firma della celebre serie televisiva Heimat. Insieme a loro Olga Sviblova, direttrice del museo delle Arti Multimediali di Mosca e, tra la sorpresa generale, Patrick McGrath, autore di best-sellers come Spider e Follia, che negli scorsi anni sono stati oggetto di importanti riduzioni cinematografiche.
tagonista ha la mia stessa età di allora e il rapporto con mio padre (che, non a caso, interpreta lo stesso Mullan dopo averla inizialmente offerta a Brendan Gleeson, ndr) era altrettanto conflittuale. Anche i miei genitori erano della classe mediobassa e anche a me, come a John nel film, fu impedito di accedere alla migliore sezione del mio istituto perché
mio fratello era un mezzo delinquente e non credevano che fosse possibile che io fossi diverso da lui, ma per mia fortuna io alla fine sono riuscito a studiare, ho prima frequentato economia all’università e poi recitazione. Mi sono allontanato sempre più dalla mia famiglia. Diciamo che in Neds ci sono le atmosfere e le emozioni della mia infanzia, ma non la mia storia. Lavori spesso con attori esordienti o semiesordienti. È una scelta precisa o solo casualità? Cerco persone che conoscano ciò che vanno ad interpretare. Se anche non hanno vissuto le esperienze dei loro personaggi, devono sapere ciò di cui si tratta. Così è capitato anche con Connor McCarron, il ragazzo che interpreta John, il protagonista. Ho visto lo sguardo fisso che riusciva a tenere verso la camera e ho capito che poteva avere sia la delicatezza che la violenza di un ragazzo imprevedibile. Mi ha trovato lui dopo un annuncio che avevamo messo sul giornale per il casting.
spettacoli
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Nei prossimi giorni sarà il turno dell’italiano “Le quattro volte” di Frammartino
Intanto il red carpet si popola di successi
Finora alla kermesse sono stati proiettati solo film di qualità: da “I saw the devil” di Kim Ji-woon a “Abel” di Diego Luna
Tre immagini del film “Neds” e, a sinistra, uno scatto del regista Peter Mullan. A destra, una foto di Javier Bardem insieme con Julia Roberts Come mai hai scelto San Sebastian per presentare il tuo nuovo film dopo che con l’ultimo avevi vinto a Venezia? Non volevo tornare al Lido, avrei avuto un’ottima visibilità, ma non avrebbe avuto senso tornare in competizione. Anche se il film fosse piaciuto molto, avrei avuto pochissime possibilità di ricveere un riconoscimento. Sono stato invitato a Cannes, ma inizialmente mi avevano offerto solo la Semaine de la Critique, e la cosa non mi ha fatto piacere, così ho rifiutato. Poi ci hanno ripensato, mi hanno detto che sarei stato in concorso, ma a quel punto ho realizzato che preferivo un festival più accogliente e popolare come San Sebastian che il lusso e i problemi organizzativi legati alla Costa Azzurra. Chissene importa di Cannes, qui si sta benissimo e ti sembra davvero di partecipare ad una festa. Oltretutto il mio film è stato anche a Toronto, quindi non
ho bisogno di andare a cercarmi i distributori, se hanno voluto, il film hanno avuto modo di vederlo... Hai lavorato spesso con Ken Loach. Quanto ti ha influenzato il suo cinema sociale quando sei stato tu a dovere scrivere e dirigere un film? Molto, soprattutto fino a qualche anno fa. Ora però che ho un po’ più di esperienza, devo dire che i miei lavori risultano più segnati dal cinema di Luis Buñuel, dal suo L’angelo sterminatore, che vidi quindicenne e che entrò nella mia testa senza più lasciarmi. Anche If di Lidndsay Anderson, il cinema di Vittorio De Sica, La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo, tutto Kurosawa e Eisenstein. Ora continuo ad andare al cinema e a comprare pacchi di dvd. In questo momento sto finendo un cofanetto con tutta la filmografia di Federico Fellini, ogni volta che metto su un suo dvd è un piccolo regalo che mi faccio.
SAN SEBASTIAN. «Javier!!! Javier!!!», «Julia!!!! Julia!!!». Davanti all’Hotel Maria Cristina, a una cinquantina di metri dal Kursaal, il centro operativo e sala principale del festival di San Sebastian, la gente si accalca in preda alla follia collettiva. Vedere i due divi, il locale Javier Bardem e una Julia Roberts che, anche alle nove di sera, va in giro con gli occhiali da sole, sembra essere diventato lo scopo principale di migliaia di persone. Chi scrive quest’anno è stato a tutti i maggiori festival del cinema europei, da Berlino a Venezia passando per Cannes, e mai aveva visto un tale assiepamento di grida, flash e partecipazione popolare. Dal terrazzino del primo piano dell’albergo, il colpo d’occhio è straordinariamente coinvolgente. Il glamour, grimaldello da sempre usato dal cinema per entrare tra i bisogni di persone sempre più distratte da tanti altri tipi di intrattenimento, ha ancora un suo potenziale, soprattutto alla luce degli spalti mezzi vuoti di Venezia solo dieci giorni fa. Siamo al quinto giorno del festival e la città è in fermento. La presentazione di Eat, Pray, Love ha calamitato l’attenzione di questo inizio e, seppur, per fortuna, la visione del film non sia stata un successo («una gran stupidaggine, a tratti offensiva per la quantità di cliché» ci dice Rosa, proprietaria di una taverna sul lungomare, raccogliendo cenni di assenso di alcuni clienti appena usciti dalla sala) quanto meno è stata vissuta come un evento dai molti della zona accorsi appositamente (Bilbao è a un’ora circa, Santander due, la francese Biarritz a 45 minuti). Il «Gracias de todo corazón» pronunciato dalla Roberts la sera dopo al momento del ritiro del premio alla carriera, ha caratterizzato le prime pagine di tutti i quotidiani spagnoli. Nell’anno dei mondiali, dell’exploit di Nadal e del premio a Cannes a Bardem, nella candida Spagna ancora ci si emoziona per la star americana che pronuncia tre parole in lingua.
norvegiese Home for Christmas e il ritorno di Raúl Ruiz con il lungo (oltre quattro ore) Mistérios de Lisboa. Da Berlino è arrivato il vincitore dell’Orso d’oro, Miele, mentre da Venezia uno dei film che, fino all’ultimo, si pensava (erroneamente) avesse molte chance di portare a casa un premio, ovvero il cileno Post Mortem, ambientato durante il golpe di Pinochet.
Tanta commozione e una vera standing ovation ogni volta che il cast ha sfilato all’interno dell’area del festival, ha poi suscitato il film Bicicleta, Cullera, Poma, documentario sulla battaglia all’Alzheimer combattutta dall’ottobre del 2007 da Pasqual Maragall, uno dei più importanti politici iberici dell’ultimo ventennio. Ex sindaco di Barcellona e capo della regione catalana, Maragall è stato per anni una delle punte del partito socialista, prima di prendere le distanze, nel 2006, da Zapatero e dalla sua politica. Poco dopo, gli fu diagnosticato il morbo e da allora la sua memoria è sempre più a breve termine. È da qui che deriva il titolo della pellicola, “bicicletta”, “sapone” e “mela” sono le parole che nel gergo clinico vengono utilizzate per esaminare il grado di gravità della situazione delle persone affette da Alzheimer. Il regista Carles Bosch si è concentrato tanto sulla vittima principale che sull’assistenza quotidiana datagli da moglie e figli. Ottimo successo l’ha riscontrato anche Abel, debutto registico di Diego Luna dopo una giovane carriera passata tra cinema messicano e Hollywood. Prodotto da John Malkovich, che per l’occasione lo ha accompagnato qui in Spagna, l’interprete di The Terminal e Y tu mama tambien, la pellicola è una malinconica commedia sull’importanza della presenza e dell’unione dei genitori sul benessere dei figli. Protagonista è infatti un ragazzino di un undici anni che, dopo l’abbandono del padre a causa di un’altra donna, perde totalmente il proprio equilibrio mentale. Pensa di essere lui stesso la figura maschile di riferimento, il “capofamiglia”, e così tratta di conseguenza il fratellino, la sorella e l’affettuosa mamma che glielo lasciano fare per non chiuderlo in una sorta di autismo. Il risultato è una storia commovente che meriterebbe una distribuzione italiana che, per ora, non è programmata. Nei prossimi giorni al festival sarà il turno dell’italiano Le quattro volte di Frammartino, dello street writer Bansky e del suo spassoso Exit through the Gift Shop (già visto a Berlino) e di un documenatario sulla carriera di Yves Saint Laurent. Non troppi, ma buoni titoli, per un fe(a.d’a.) stival più che mai ricco di spunti.
San Sebastian non richiede che i titoli siano in anteprima internazionale, e questo aumenta il bacino di pellicole a disposizione
Passando al valore del festival, c’è da dire che finora ci sono stati solo buoni film. È vero che San Sebastian non richiede che le pellicole siano in anteprima internazionale, e questo aumenta il bacino di titoli a disposizione, ma bisogna pur sempre convincere produttori, registi e qualche volta il cast, ad accompagnare di persona il prodotto. Escludendo i film spagnoli, che qui trovano spesso appoggio incondizionato (differentemente dagli italiani a Venezia o Roma), molto apprezzate sono state le proiezioni dell’horror coreano I saw the devil, dell’autore di culto Kim Ji-woon, il dramma giovanile Neds di Peter Mullan, la commedia
cultura
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Tra gli scaffali. Esce in Francia “Le conflit”, provocatorio saggio di Elisabeth Badinter che ridimensiona la maternità
Donne che odiano i bebè di Valentina Gerace
Qui sotto, la copertina di “Le conflit, la femme et la mère” nuovo saggio di Elisabeth Badinter che contesta la centralità della maternità all’interno della condizione femminile. In basso, la scrittrice e filosofa francese
uesto é un libro che brucia. É un pó di piú della risposta neolatina al filone anglofono del childfree. In Francia é uscito da Flammarion, l’editore di Zola, a febbraio di quest’anno. S’intitola Le conflit, la femme et la mère.
Q
Il titolo é autoesplicativo come quasi tutti i libri dei saggi, quelli che sono fatti, univocamente, per riflettere. Riflettere su risposte date a domande inespresse (nel senso che non tutte e non subito diventano libri!). L’autrice é Elisabeth Badinter. Femminista. Sposata. Madre di tre figli. É un libro che brucia perché affronta una questione delicata, dibattuta, sviscerata, ingrandita, aggiornata, eternamente reiterata: la maternità. Meglio detto, il conflitto che, naturaliter, origina quando una donna diventa mamma tra la sua dimensione di donna (la femme) e la sua dimensione di madre (la mère), appunto. L’equazione donna uguale mamma non richiede dimostrazione. È così e basta. Va da sé che una donna non mamma è incompleta, difficilmente catalogabile (sfigata, sterile, zitella, egoista, donna in carriera), priva di un’esperienza essenziale. Dopo la mistica della femminilità che relegava le donne nella riserva indiana della casalinghitudine, una nuova mistica della maternità alimenta il senso di colpa e semina il dubbio che ai figli sia necessa-
rio dare di più. Succede in tempi di crisi e le incertezze del presente ne sono la conferma: il posto di madre non è a rischio di cassa integrazione. Ecco perché il saggio di Elisabeth Badinter – aggressivo come possono essere aggressive le filosofie francesi – sta suscitando un putiferio. Elisabeth sostiene che l’identità femminile non ha bisogno della maternità per definirsi. Segnala un rovesciamento dei valori che minaccia la libertà delle donne e dichiara senza mezzi termini che il bebè è «il migliore alleato della dominazione maschile». E giù l’e-
rezze che ci segnano da bambini, quando siamo separati troppo presto dalla nostra mamma. Tutto questo prelude al ritorno alla madre “naturale” che allatta, lava, cura il suo bambino, e non ha tempo per altro. E Badinter polemizza con tutti, ambientalisti compresi: lottano per la libertà degli alberi e dell’ambiente. Ma perché invece di proporre dei pannolini lavabili (e chi li lava poi?) gli ecologisti non propongono prodotti biodegradabili? Al di là del problema delle donne, la società attuale è molto regressiva.
Il tema dell’indipendenza economica non è più centrale. E il femminismo di conquista,
ciare a troppe cose, se allatti sei una sottomessa, se non allatti sei una egoista. Se non rientru subito a lavoro sei una senza ambizione, aspirazioni. Se rientri sei una cattiva madre. E dove lo lasci il bambino? Ti senti chiedere. Allora ecco la faticaccia, lo sforzo di fare la madre acrobatica. Una madre che fa tutto, rischiando di farsi venire un esaurimento nervoso. Poi ci sono le parole per dirlo. “Childfree”, ovvero libere dai figli. Termine coniato in America negli anni Settanta, e non “Childless” (senza figli). Childfree, a differenza di childless , sottolinea la decisione di non mettere al mondo bambini. Oggi Childfree è il nome di
lità” o a chi ha deciso che la maternità non è tutto. La psicanalista Corinne Maier arriva a dire che «invece di girarsi il mondo, si trova a svegliarsi ogni mattina per cucinare ai figli e fargli fare i compiti». La società insomma discrimina chi i figli non li vuole fare. Una donna senza figli manca di qualcosa. Un donna con un figlio è una mamma oltre che donna. Peccato che ha 20 kili di troppo, non può bere, fumare o andare a ballare.
L’autrice vede nel neonato una minaccia alla libertà femminile e dichiara senza mezzi termini che un figlio è il migliore alleato offerto alla dominazione maschile
lenco dei segnali di pericolo: forte pressione sociale per l’allattamento al seno, crociata ecologista contro i pannolini usa e getta in nome dell’ambiente, critiche agli asili nido, che non sarebbero il posto migliore dove lasciare un neonato. Una vera mamma, ha osato affermare il famoso Yehudi Gordon, del St. John & St Elisabeth Hospital di North London, ginecologo inglese, non tornano subito a lavoro ma restano a casa dopo il parto almeno 24 mesi. Stress, attacchi di panico, insonnia, sono dovuti alle insicu-
quello che difende l’eguaglianza, dorme. Badinter smantella la retorica che circonda la “dolce attesa” e il “lieto evento” perché in concreto il ruolo sociale delle madri è irrilevante. Malviste sul lavoro, costrette a pesanti rinunce, invisibili, le donne con bambini restano sole. Anche le ragazze che non hanno niente contro la maternità, considerando i pro e i contro, fiutano la trappola, si interrogano, rinviano. Poi qualunque sia la scelta, pensano di aver sbagliato. Un giro per i blog rende chiaro il dilemma: se non fai figli sei frustrata, se li fai sei nevrotica perché non riesci a fare tutto o devi rinun-
un vero e proprio movimento a cui hanno aderito molte madri “mancate” di tutto il mondo. Ma la mistica della maternità resiste anche a Hollywood. Solo Cameron Diaz in una recente intervista ha ammesso di stare benissimo senza figli. E quando si chiede cosa le manca per raggiungere la massima felicità l’ultima cosa che le viene in mente è il figlio. Nello star system è impopolare dichiararsi poco sensibili al desiderio di figliolanza. Sacra l’immagine di Angelina Jolie col pancione, due bambini per la mano e accanto il suo Brad che ne porta altrettanti. Un vero e proprio schiaffo alla “norma-
Insomma, nascere
donne non è facile. L’importante è non aderire a dei pensieri comuni e schematici. Non dare definizioni consolidate di donna o di mamma. Una cosa è fondamentale. La libertà di scegliere. Avere un figlio non deve diventare il fine di una donna. Ma è solo un valore aggiunto. Un istinto che si può avere come anche non avere. Sicuramente tra una madre frustrata e una donna che rimpiange di non aver avuto un bambino, meglio la seconda. Un bambino non è un oggetto per realizzarsi. È un essere umano. Con esigenze, paure, sensibilità. Ogni donna nel suo intimo lo sa. E lo ammette a se stessa, giorno dopo giorno.
cultura n tempo era perlopiù la bevanda del contadino, frutto del lavoro della terra, semplice piacere quotidiano da accompagnare a un pasto frugale. Oggi il vino è arte, storia, cultura. Ed è architettura. Oggi, dalle colline pettinate a vigna del Piemonte fin giù alle pendici dell’Etna punteggiate da tralci vecchissimi e intricati, il mondo del vino sfoggia contenitori ad hoc, moderni o tradizionali, cattedrali del vino che con l’aiuto di forme, angoli e linee, ne esprimono e ampliano il significato. Lo stereotipo della cantina buia e polverosa, del vecchio casolare tra colline di vigneti disordinati lascia sempre più spazio a costruzioni nuove, efficienti e suggestive, a volte grandiose, altre volte completamente inglobate nel territorio circostante.
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U
É un flirt tutto nuovo, un’attrazione reciproca e inarrestabile che ha portato sempre più spesso a matrimoni solidi e duraturi tra architettura e vino in cui la prima si fa non solo contenitore ma soprattutto mezzo di espressione del secondo. Così, da Nord a Sud, tante aziende italiane si rifanno il trucco con l’aiuto di celebri “make-up artist” del calibro di Renzo Piano, Giovanni Bo, Mario Botta, per affascinare in maniera diversa ma altrettanto seducente, senza tradire l’origine ancestrale dell’alcolica bevanda. Smentire l’equazione architettura=modernità è quanto mai necessario. L’obiettivo è spesso la compenetrazione col territorio, la valorizzazione della tradizione accompagnata dall’efficienza. Ultimo esempio ne è il Museo del vino a Barolo (tour virtuale sul sito www.wimubarolo.it) che apre i battenti questa settimana e promette non una visita stantia tra sale museali impolverate e immobili ma un tour interattivo e multisensoriale che nasce dal progetto di François Confino, uno fra i più apprezzati specialisti al mondo in allestimenti museali. Usciti dal museo un itinerario enologico singolare ci porta in giro per l’Italia dei nuovi templi di Bacco dove si osserva che le nuove architetture del vino sono voce della Storia, espressione e rivelazione del territorio da cui traggono identità. L’azienda Petra a Suvereto, progettata dallo svizzero Mario Botta, è un esempio calzante. «Il progetto», dichiara Botta, «vuole essere una reinterpretazione delle antiche dimore di campagna to-
Società. La new-wave delle aziende vinicole italiane, dove la tradizione si abbina al design
Piano & Co: le cantine in una botte di ferro di Livia Belardelli mantiene nella sua nuova azienda in Maremma, progettata dall’architetto Giovanni Bo, la stessa volontà di compenetrazione col territorio.
Corpi seminterrati celati da scane in cui il disegno delle coltivazioni, in questo caso i vigneti, era parte integrante del disegno architettonico». Il piano dell’azienda, così come l’ha voluto il produttore Vittorio Moretti, nasce dall’intento di rendere esplicito il lavoro in vigna e sottolineare il legame con la terra che prende forma in una
un tappeto di erba e ulivi, pietre originarie del posto per le murature esterne, il tutto per preservare l’armonia del paesaggio. Senza spostarsi di molto, a Castellare in Maremma si trova un’altra azienda d’autore, Rocca di Frassinello, progettata da Renzo Piano. Qui la cantina, nella forma di un suggestivo anfiteatro, è incavata nella collina; la struttura presenta due li-
materiale lapideo all’esterno e gli interni geometrici che ospitano sovente mostre d’arte. E poi Colle Massari, alle pendici del Monte Amiata, considerata insieme a Petra tra le 10 cantine più belle al mondo, che gioca sulla simbologia dei pilastri atti a indicare l’unione tra uomo, vino e ambiente. Fuori dalla To-
A Castellare in Maremma si trova Rocca di Frassinello, edificio d’autore su due livelli progettato dall’archistar romana: ha la forma di un suggestivo anfiteatro, omaggia il celebre rosso della casa ed è incavata nella collina lunga galleria scavata nella roccia. È un percorso misterioso che porta idealmente verso il ventre della montagna, un cordone ombelicale che lega metaforicamente alla terra madre. Il legame con la terra è il fil rouge del dialogo architettura-vino in Toscana. Anche il produttore Angelo Gaja, sceso dalle terre piemontesi per l’occasione, Nella foto grande, la cantina Petra. A centro pagina, Ca’ Marcanda e la Rocca di Frassinello. Qui accanto, da sinistra, alcune aziende toscane
velli sotterranei edificati in materiali tradizionali e l’uso di un intonaco colorato al rosso di Maremma all’esterno. In questa regione d’elezione per il matrimonio architettura e vino troviamo anche l’azienda Icario vicino a Montepulciano dove l’impatto della struttura ricerca un connubio tra tradizione e modernità grazie all’uso del
scana tante altre sono le nuove cantine di design, da quella di Alois Lageder in Alto Adige dove, più che alla mimesi col territorio, si è posto l’accento sulla sostenibilità e sul risparmio energetico creando sul tetto un impianto fotovoltaico, fino alla campana Feudi di San Gregorio. Il progetto, ci spiega Antonio Capaldo, presidente dell’a-
zienda, nasce dalla volontà di esprimere una rottura rispetto alla tradizione austera del territorio. «Abbiamo realizzato una struttura molto moderna perché siamo giovani e volevamo essere coerenti con noi stessi ed esprimere una novità rispetto alla visione della nostra terra fatta di vini difficili che necessitano di essere attesi a lungo. È una struttura moderna e ospitale ma al contempo un tempio del vino tradizionale». Due mondi giocano e si compenetrano qui, quello tradizionale della cantina e dell’anfiteatro greco-romano e la struttura moderna, che vuole rompere la tradizione di un Sud immobile e abbandonato dai giovani. Queste non sono che alcune delle grandi cattedrali del vino italiano. Per gli scettici che non vogliono abbandonare un’idea antica di cantina, pittoresca e odorosa di mosto una visita è d’obbligo. Solo per comprendere che quasi sempre le nuove architetture non portano via nulla del sapore antico del lavoro del vignaiolo ma piuttosto aiutano ad esprimere meglio le peculiarità di una terra e delle sue tradizioni. Non c’è il rischio di trasformare l’antica Enotria in un parco giochi stile Napa Valley, intriso di quel “monumental kitsch” che ritroviamo nelle aziende mastodontiche di Francis Ford Coppola, Chandon, Beringer e tante altre.
E anche lì, a riequilibrare il tutto, c’è comunque la vigna, geometrica e arcaica, che pennella di fascino un panorama a volte urlato, contaminato da colorati edifici a cui mancano soltanto le insegne al neon. E poi va bene così, quella è l’America! E come i suoi chardonnay vanigliati e i suoi cabernet tutto muscoli non tradisce se stessa. A ognuno il suo stile, i suoi vini e la propria storia. Architetture diverse portatrici di storie differenti, rappresentazione di un’essenza che può piacere o non piacere ma che di certo sa affascinare, che si tratti del lunapark californiano o delle cantine italiane che giocano a nascondino in un paesaggio fascinoso di colline e natura. Insomma, come spiega con semplicità Botta: «Forse, fra le qualità più sorprendenti e fra i segreti più preziosi dell’opera di architettura dobbiamo annoverare quella particolare capacità di dare immagine anche a quelle emozioni sfuggevoli e incerte che tessono il territorio della memoria».
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE
La vita si è allungata... Purtroppo non per tutti! Care bambine e bambini di tutto il mondo, siate felici. Ho buone notizie per voi! Gli scienziati e i ricercatori ci dicono che l’aspettativa di vita media si è ulteriormente alzata. Wow! Che splendida notizia! Peccato, però, che non tutti potranno approfittare di questa opportunità. Come i trentamila bambini che muoiono ogni tre secondi per malnutrizione e altrettanti per mancanza d’acqua potabile. Quelli dilaniati dalle bombe intelligenti, quelli affetti dall’Aids e dalla lebbra, i piccoli migranti finiti in fondo al mare, i bambini sfruttati, abusati, espiantati, i bambini combattenti, i neonati affetti da patologie tumorali indotte dall’amianto, diossina e metalli pesanti. E una moltitudine di adolescenti devastati dalle droghe, dall’alcol, dagli psicofarmaci e da un’infinita lista di malattie neurologiche. Bambini anoressici, bulimici, celiatici, vittime di messaggi mediatici deliranti e altri ancora, asserviti alle ingannevoli seduzioni e lusinghe di un benessere inanimato. In alto i cuori e buona fortuna!
Gianni Tirelli
CARCERI: RIAPRIRE PIANOSA E ASINARA A ogni ferragosto, la politica corre in mutuo soccorso ai carcerati. Come ogni anno noi chiediamo la riapertura delle supercarceri di Pianosa e Asinara, dove possono essere trasferiti i detenuti mafiosi e quelli sottoposti a un regime detentivo speciale di 41 bis. Detto questo è chiaro che 24mila detenuti in più rispetto alla capienza delle carceri è un numero che fa pensare a un totale disinteresse per tutto l’anno davanti all’emergenza carceri. Il totale disinteresse da parte della politica, salvo questo attacco isterico ferragostiano, che regolarmente non porta da nessuna parte rispetto alle condizioni di vita dei detenuti, mette in discussione il regime di 41 bis per i mafiosi, rei di strage, che a 41 bis non vogliono più stare.
Giovanna Maggiani Chelli, Associazione Georgofili
NESSUN ATTACCO ISTERICO MA RICERCA DELLA GIUSTA PENA Spiace che su questioni fondamentali per uno Stato di diritto si debbano subire dichiarazioni affrettate come quelle dell’associazione Georgofili. Le visite ispettive di questa estate non sono un episodio della attività parlamentare, sicuramente non di quella dei Radicali, e son volte alla documentazione e denuncia di una situazione letteralmente illegale, contraria alla nostra Costituzione e alla Convenzione europea dei diritti umani. È vero inoltre che fin dalla sua istituzione i Radicali sono contrari al regime del 41 bis, anch’esso contrario alla Costituzione in quanto una vera e propria codifica di una “tortura democratica”. Per quanto efferati possano essere, i crimini commessi da un individuo non possono far arrivare la società a privarlo della dignità umana e dei fondamentali di-
Forse ho esagerato... Vi è mai capitato di ordinare al ristorante un piatto troppo ricco per le dimensioni del vostro stomaco? Questo scoiattolo tamia si è appena cacciato nella stessa situazione: dopo vari tentativi di infilare una nocciolina troppo grossa nelle “tasche” presenti nelle sue guance, ha desistito
ritti costituzionali che prevedono che scontare una pena sia prodromo del re-inserimento nella comunità. Pianosa e l’Asinara possono offrire molto di più al nostro Paese se tutelate come riserve ambientali piuttosto che isole di illegalità.
Donatella e Marco
ALPINISMO, SPORT ESTREMO L’alpinismo come sport estremo detta anche d’estate le sue vittime, ma la gente
L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
non sa a quali regole ferree dovrebbero sottostare tali sportivi, per parare slavine e bufere. Orbene, in tali casi ci sono delle accortenze millimetriche a cui tutto il gruppo si deve attenere, perché se uno rischia tutti possono rimetterci la pelle. In sintesi, anche negli sport estremi la compattezza di un gruppo è fondamentale per ottenere successi e tornare sani e salvi a casa.
Bruno Rosso
dal “Chosun Ilbo” del 22/09/2010
Corea del Nord, il prossimo Imperatore lla fine ce l’ha fatta. Dopo un lungo periodo di transizione, in cui si pensava persino che potesse essere caduto in disgrazia, Kim Jong-un (terzogenito ed erede designato di Kim Jong-il, dittatore nordcoreano) sta per essere incoronato prossimo leader del Paese. La nomina dovrebbe avvenire la prossima settimana, quando in Corea del Nord si terrà un nuovo Congresso del partito, la prima volta dopo 30 anni. L’agenzia ufficiale della Nordcorea, la Knca, riporta oggi che il 28 settembre vi sarà il Congresso del partito dei lavoratori per “scegliere la carica di suprema leadership”. La scelta di Kim Jongil, come successore di Kim Il-sung è avvenuta nel 1980 in un Congresso simile. Il “Caro leader” ha però preso il potere solo nel 1994, quando è morto suo padre. Da mesi si discute sulla salute di Kim Jong-il, che l’estate scorsa è stato colpito da un ictus, e sul suo possibile successore. Nel giugno scorso i media del Nord avevano preannunciato che ci sarebbe stato un Congresso ai primi di settembre. Il ritardo ha fatto supporre che vi fosse una lotta interna per il potere. Nelle scorse settimane Kim Jong-il ha compiuto un viaggio a Pechino. Per molti analisti il viaggio era il passo necessario per la “benedizione” della Cina sulla successione. Il leader nordcoreano ha presentato il terzogenito al presidente cinese Hu Jintao in occasione della visita a sorpresa in Cina effettuata a fine agosto dal numero uno di Pyongyang. Kim Jong-un in Cina è stato costantemente scortato da tre guardie del corpo personali, ma ha viaggiato in un vagone separato per confondersi con il nutrito seguito di persone che ha accompagnato il dittatore nordcoreano.
A
di Joseph Yun Li-sun
L’incontro di padre e figlio con il presidente cinese sarebbe avvenuto il 27 agosto nella città nord-orientale di Changchun, durante una cena nell’hotel scelto per il pernottamento di Kim Jong-il. La scelta del luogo non è casuale, dato che proprio in quella città il “presidente eterno” della Corea del Nord Kim Ilsung aveva compiuto alcuni anni di studio. Le indiscrezioni, inoltre, riferiscono di una serata particolarmente allegra e informale, durante la quale il leader nordcoreano, dopo aver presentato il figlio a Hu e ad alcuni alti funzionari di Pechino, avrebbe bevuto più di una bottiglia del liquore cinese “Maotai”.Il nome di Kim Jong-un come nuovo leader nordcoreano è emerso quasi un anno fa. Di lui si conosce solo che deve avere sui 25 anni; è il secondogenito di Ko Yong-hee, terza moglie del “Caro leader”, morta nel 2004; ha studiato in Svizzera, all’International School a Berna. Secondo alcune fonti interne al Paese, Kim Jong-un «sarà un dittatore peggiore del padre. È molto più autocratico e crudele del “Caro Lea-
der”, e noi questo lo sappiamo bene. Abbiamo paura per il futuro. La sua educazione occidentale lo rende molto pericoloso: sa come funziona il mondo al di fuori dell’Asia, e non gli piace». Secondo alcuni analisti, questa sua natura “pericolosa” deriva dall’ambiente in cui è nato e vissuto. Nonostante una breve parentesi di studi in Svizzera, Kim Jong-un ha frequentato la corte del padre ed ha dovuto affrontare i fratelli maggiori, nati dal primo e dal secondo matrimonio del “Caro Leader”, che ne hanno ostacolato in tutti i modi la scalata al potere.
La fonte anonima spiega che il padre «ha apprezzato questo spirito. Kim Jong-il avrebbe persino dato il suo permesso a un’eventuale uccisione degli altri candidati al trono: la sorella più giovane del dittatore Kyong-hee, il marito Jang Song-taek e la ‘first lady’ Kim Ok». Il candidato più pericoloso sembra essere Jang: dopo un allontanamento dal potere, che ha causato alla moglie una forte depressione, ora è considerato il secondo uomo più potente del regime. Al momento, zio e nipote sembrano lavorare in accordo all’ambizioso progetto di modernizzare Pyongyang. Come Kim Jong-il prima di loro, infatti, al cambio di dittatore viene accostata una ripartizione delle commesse e degli appalti statali. Questo per tenere buoni i pochissimi imprenditori del Paese, la cui fuga metterebbe in serio rischio l’economia interna. Rimane da vedere in che modo la successione al potere influirà sulla nazione, messa in ginocchio da carestie, inondazioni e da una disastrosa gestione economica. Quello che è certo è che, in ultima analisi, il terzo Kim a guidare Pyongyang avrà fra le mani una bomba atomica che il mondo non sa come disinnescare.
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog LE VERITÀ NASCOSTE
Non membrana della verginità ma corona vaginale MALMO. Un gruppo svedese di attivisti per i diritti delle donne, l’associazione svedese per l’educazione sessuale, pretende che l’imene cambi nome, e sia chiamato “corona vaginale”. La motivazione, secondo i sostenitori dell’iniziativa, è che intorno all’imene si sarebbero generati tutta una serie di “miti”, legati anche alla verginità, che non favoriscono la corretta informazione sulla sessualità, da parte delle donne stesse. In particolare, l’iniziativa è nata perché, secondo il gruppo, il termine svedese era fuorviante, perché mödomshinn ha il significato letterale di “membrana della verginità”, ed era accusato di dare idee sbagliate sulla
sessualità femminile. Poiché l’imene non è comunque mai una membrana chiusa, e neppure scompare dopo il primo rapporto sessuale, il termine era considerato scorretto e fuorviante: «in alcuni casi, la “mitologia” sull’imene diventa un punto centrale della vita delle giovani ragazze, e fa perdere loro il rapporto con il loro corpo». L’associazione ha anche stampato un opuscolo informativo sull’organo riproduttivo femminile, e dopo aver portato avanti l’iniziativa in Svezia, il gruppo ha ritenuto di dover portare avanti la campagna a livello internazionale, per l’interesse riscontrato all’estero, e quindi ha proposto un
ACCADDE OGGI
NOMADE LIBERATO DOPO LA RAPINA: NON SI PENSA PIÙ ALLE VITTIME Io sono un garantista e sono convinto che i primi cittadini a dover essere garantiti siano le vittime dei reati. Ma ormai alle vittime sembra non pensarci alcuno. È stato infatti scarcerato uno dei due nomadi che, in fuga in auto dopo una rapina, hanno causato la morte di una casalinga. Rimane invece in carcere l’autista, fratello della scarcerato con l’accusa di omicidio colposo: ah queste auto assassine. Mi chiedo in quale mondo vivono certi magistrati, se hanno ancora la mente in questa parte dell’emisfero boreale, se non pensano che lo scopo primo delle istituzioni debba essere di tutelare gli onesti, non coloro che delinquono. Oggi constato che non sempre è così, che sta avvenendo il contrario. Forse ci vorrebbe un codice per le vittime. Auguro veramente di tutto cuore al giudice che ha deciso la scarcerazione che a sua moglie o a persona a lui vicina non capiti mai un simile “sfortunato incontro”.
Ellezeta
CANI CHE NON POSSONO BERE ALLE FONTANE PUBBLICHE La notizia della multa di 160 euro inflitta al proprietario di un cane, che si era abbeverato ai bordi della fontana del Biancone in piazza Signoria a Firenze, è sintomatica per due aspetti: l’ignoranza del vigile rispetto al regolamento comunale. L’ufficio diritti degli animali del comune, interpellato da chi ha ricevuto la multa, ha consigliato di presentare ricorso perché non esiste un divieto per quel che ha specificamente fatto il cane, ma un divieto di «far bere gli animali direttamente all’erogatore
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
22 settembre 1961 Fondazione dei Corpi della Pace 1965 La guerra tra India e Pakistan per il Kashmir finisce dopo il cessate il fuoco richiesto dalle Nazioni Unite 1975 Sara Jane Moore cerca di assassinare il presidente Gerald Ford 1979 Due satelliti Vela rilevano il flash di un’esplosione nucleare, avvenuta nei pressi dell’isola Bouvet nell’Atlantico meridionale 1980 L’Iraq invade l’Iran 1981 In Francia François Mitterrand inaugura ufficialmente il servizio Tgv Parigi-Lione 1985 Il concerto del Farm Aid si svolge a Champaign (Illinois) 1993 Un Tu-154 della Transair Georgian Airlines viene abbattuto da un missile sopra Sukhumi, Georgia 1994 Negli Usa la Nbc trasmette il primo episodio della serie Friends 1996 Levon Ter-Petrosian viene eletto presidente dell’Armenia 1997 Massacro di Bentalha in Algeria; oltre 200 abitanti uccisi
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
nuovo termine anche per la lingua inglese. «Il linguaggio ha molto più potere di quello che normalmente pensiamo», spiegano.
di fontane pubbliche ad uso potabile» (art. 15 comma J del regolamento di polizia municipale), che sembra non sia il caso del motivo della multa. Chi rimborserà il multato per tutto il tempo e denaro che avrà dovuto perdere per far valere i propri diritti? La scoperta dell’esistenza di questo articolo del regolamento in un comune che ha anche l’ufficio dei diritti degli animali: è il secondo dato anacronistico Ufficio che evidentemente non si è posto il problema di come i cani possano bere quando sono in giro coi loro proprietari. Probabilmente il divieto è stato concepito in temi andati quando, per esempio, i cavalli in circolazione non erano solo quelli dei pochi fiaccherai che ora trasportano i turisti, e quindi aveva un intento igienico. Ma sta di fatto che al tempo d’oggi i cavalli non si abbeverano nelle rarissime fontanelle pubbliche e le vittime maggiori di questa anacronistica situazione sono i cani.
Vincenzo Donvito
È il momento di controllare i vitigni autoctoni. Perché in questo periodo, con frutti e foglie, è possibile individuarli con facilità. Il motivo della richiesta, che facciamo al ministro per le Politiche agricole, Giancarlo Galan, è dovuto agli scandali del settore che, ogni tanto, assurgono agli onori della cronaca: far passare come vitigno autoctono e quindi vino, con i relativi prezzi, un vitigno internazionale. In Italia i vitigni autoctoni sono 350; siamo i primi nel mondo. Occorre valorizzare questo patrimonio ineguagliabile.
Primo Mastrantoni
Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci,
Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)
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APPUNTAMENTI OTTOBRE VENERDÌ 1, ORE 18 - HOTEL JOLLY - TRIESTE Coordinamento regionale Circoli liberal con il presidente Ferdinando Adornato
VITIGNI AUTOCTONI: È IL MOMENTO DI CONTROLLARLI
Robert Kagan, Filippo La Porta, Direttore da Washington Michael Novak
MODIFICARE LA LEGGE ELETTORALE Ai grossi e gravi problemi dell’agenda politica: manovra economica, intercettazioni e federalismo fiscale, si è aggiunto anche quello delle correnti all’interno del Pdl, che fanno temere, a ogni piè sospinto, a qualche scivolone del governo. Le ricorrenti, prospettate ipotesi di formazione di nuove maggioranze parlamentari avvelenano il clima, per cui più volte è stato minacciato o invocato il ricorso alle urne. In tale situazione, non sarebbe bene pensare anche alla modifica delle legge elettorale per renderla più democratica, abolendo il premio di maggioranza, la soglia di sbarramento, e reintroducendo per il Parlamento nazionale il voto di preferenza? È incontestabile che le motivazioni che hanno determinato le modifiche non hanno prodotto il risultato che si prefiggevano. Il continuoo ricorso ai voti di fiducia, malgrado la grande superiorità numerica, è la riprova della fragilità della maggioranza. Il bipolarismo, che ormai da più lustri si sta cercando inutilmente di introdurre, così come pure gli sbarramenti, appartengono ad altre culture, che non si adattano al nostro modo di intendere e di vivere la politica. È pacifico che spesso dalle minoranze giungano pregevoli contributi, ed è grave che lo sbarramento del cinque per cento abbia privato considerevoli forze politiche di una rappresentanza. Non bisogna mai dimenticare che quasi sempre sono le minoranze che fanno la storia. Privare le minoranze, sia a livello nazionale che regionale, provinciale e comunale, con gli sbarramenti, della loro rappresentanza, equivale a un dannoso e controproducente autolesionismo, perché ci priviamo di conoscere e di confrontarci con contributi cospicui di idee. D’altra parte, le crisi di governo, a qualsiasi livello, sono frutto sovente di implosione, in quanto le maggioranze, molto spesso, sono dei cartelli elettorali con poche cose in comune. Luigi Celebre CIRCOLI LIBERAL MILAZZO
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SABATO 2, ORE 11 c/o SEDE ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI - TRENTO Coordinamento regionale Circoli liberal con il presidente Ferdinando Adornato VENERDÌ 15, ORE 11 - PALAZZO FERRAJOLI - ROMA Consiglio Nazionale Circoli liberal ORE 16:30, FONDAZIONE LIBERAL - ROMA il presidente Ferdinando Adornato incontra i giovani dei Circoli REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE “VERSO IL PARTITO DELLA NAZIONE” SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)
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ULTIMAPAGINA Miti. Il critico culturale più importante d’America demolisce l’icona del pop (che sta per diventare un reverendo)
Lady Germanotta è un bluff di Luisa Arezzo amille Paglia, la guerriera bastiancontrario, snobbata dall’establishment femminista (perché capace di metterlo in crisi), lesbica, classicista col culto dell’arte trash e obamiana liberal con una dichiarata predilezione per Sarah Palin e Madonna, non ha usato giri di parole e ha detto forte e chiaro quello che pensano un po’ tutti: Lady Gaga - all’anagrafe Stefani Joanne Angelina Germanotta - «si è ispirata talmente pesantemente a Veronica Ciccone, la “material girl”più famosa del pianeta, che ci si deve chiedere se a questo punto si tratti di omaggio o furto». L’accusa ha fatto tirar un sospiro di sollievo ai critici musicali di mezzo mondo, che non sapevano più come glissare il paragone e che adesso possono contare su una “etichettatura” certo arbitraria, ma illustre: quella dell’autrice di Sexual Personae - novecento pagine che vanno dal busto dell’inquietante Nefertiti alle metafore sadomasochistiche delle sincopate poesie della Dickinson - praticamente il guru mondiale dell’estetica della sessualità. E che dopo aver riconosciuto in Madonna l’erede di Marlene Dietrich, ha fatto un’equazione al vetriolo: Lady Gaga sta al sesso come un bella ribaltina tirata a lucido a un secretaire rococò. Insomma, non ci azzecca nulla. «Marlene e Madonna davano l’impressione, vera o falsa, di essere pansessuali. Lady Gaga, per quanto si contorca e si atteggi, è asessuale». Di più: «Per quanto si venda come l’icona di tutti i freak e i perdenti della vita, è una semplice millantatrice: visto che ha frequentato i college privati più esclusivi d’America, gli stessi di Paris e Nicky Hilton».
C
La generation Gaga è avvisata: sta inseguendo un falso mito, che ruba lo stile di Lady Ciccone e vorrebbe essere la crasi di due giganti della musica: Janis Joplin e Tina Turner. Alla prima si ispira per la voce, alla seconda per la passione. Ma il paragone non le riesce. Mentre ben le calza il mondo della discografia ultra tecnologica, costruita, liftata, ritmicamente house, ripresa da registi di chiara fama e scarsa inventiva. Quelli che si esaltano per il sesso mordi e fuggi, meglio se orgiastico, completamente disinibito e fine a se stesso. «Ma chi se la sognerebbe mai, di notte» alla Miss Germanotta - si chiede la Paglia? Di sicuro nessuno se avesse usato quel cognome. Così mascherata, checché ne dica la polemista americana, in molti. C’è da giurarci. Ma il risultato finale non cambia comunque: perché il suo stile è lontano anni luce da ispirare sensualità e vera sessualità. E così, per la seconda vol-
del SESSO La generation Gaga è avvisata: sta inseguendo un falso mito, che ruba lo stile di Lady Ciccone e vorrebbe essere la crasi di due giganti della musica: Janis Joplin e Tina Turner. E invece ricorda Paris Hilton ta nel giro di qualche mese, Lady Gaga incassa il colpo e fa spallucce (la prima volta era stato quando - sempre la Paglia - si era chiesta dalle colonne di Saloon, il sito per cui scrive - «Ma chi ci crede che abbia 23 anni?» (e a guardar la foto che qui pubblichiamo il dubbio è lecito...). Nessuna risposta dal suo entourage, eh sì che la cantante ama creare un nuovo caso almeno una volta a settimana. La sua provocazione è sistematica. Anche se ieri era su tutte le Tv - con abbigliamento insolitamente sobrio - per difendere i diritti dei gay nelle forze armate. Al grido di «abrogate la politica del “don’t ask, don’t tell” sennò andate a casa!» urlato dal palco di Portland, è nuovamente scesa in dife-
sa dei militari discriminati o cacciati dall’esercito per effetto della norma del “dont’ ask, don’t tell”, appunto, che prevede l’arruolamento dei gay a patto che non rivelino il loro orientamento sessuale. «Se non siete convinti di dare il meglio di voi come soldati americani perché non credete nell’uguaglianza, andate a casa; se non siete in grado di combattere senza pregiudizi e se non siete in grado di mantenere la promessa di difendere l’America dai vostri nemici, in patria e non, anche se nella vostra unità c’è un militare gay, andate a casa».
Bise ssuale dichiarata, Lady Gaga ieri ha galvanizzato il suo uditorio (anche se la legge è già stata giudicata incostituzionale dal tribunale della California) e guardato avanti. Come sempre. Adesso sta studiando da vicario per sposare le coppie gay durante i suoi concerti. Stando alle indiscrezioni del britannico Daily Star, alla popstar mancano solo poche settimane per completare i corsi. E poi esordirà nel suo nuovo ruolo da “reverendo” durante il prossimo tour mondiale. «Un modo per ripagare i suoi fan per l’amore che le hanno dimostrato» - dice un anonimo amico della famiglia Germanotta. Sarà, ma se fossi in voi io non manderei i miei figli all’esclusivo e cattolicissimo Convent of Sacred Heart di NewYork che ha frequentato assieme a Paris Hilton. L’unica icona alla quale riesce ad assomigliare e che però, diciamolo, è meno finta della sua controfigura.