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Riponi in uno stipetto un desiderio; aprilo: vi troverai un disinganno
he di cronac
Luigi Pirandello
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • GIOVEDI 14 OTTOBRE 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
La Uefa, che ha aperto un’inchiesta, punta il dito anche su di noi: «Le responsabilità sono pure della federazione che organizza i match»
Italia-Serbia: uno a uno
È guerra tra governi dopo l’assalto degli ultrà a Genova. Siamo giusti: se è vero che i teppisti non dovevano lasciare Belgrado, è anche vero che non dovevano entrare nello stadio NESSUNO PUÒ ESULTARE
di Riccardo Paradisi
La partita delle colpe è finita in pareggio
ROMA. Tornata la tran-
di Giancristiano Desiderio van “Coi”Bogdanovic detto più semplicemente Ivan il Terribile è una di quelle facce molto poco raccomandabili che non ti auguri di incontrare di notte per le strade buie della tua città o in autobus mentre torni a casa. Il terribile Ivan, invece, pur avendo sulle spalle quattro denunce penali è riuscito a entrare indisturbato al Marassi di Genova e, dietro preciso mandato e piano ben studiato a tavolino per una partita da far finire proprio a tavolino, è riuscito a combinare quel po’ di pandemonio che l’altra sera le telecamere hanno ripreso. Ma il tutto si poteva evitare? a pagina 2
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Ritratto di una terra piena di contraddizioni
Un Paese sospeso tra Arkan e l’Europa Dopo la Jugoslavia, i Balcani sono esplosi creando una frattura non ancora rimarginata tra nazionalisti e progressisti
Il terzo articolo inedito del Nobel, usato dal regime contro di lui
Quel Grande Balzo indietro di Mao L’indottrinamento rosso ha provocato un danno permanente alla Cina: le ha piegato l’anima Liu Xiaobo • pagina 18
EURO 1,00 (10,00
quillità per le strade di Genova e intorno allo stadio Marassi la polemica ora s’accende sugli spalti della politica italiana e tra le diplomazie di Roma e Belgrado. Sul fronte interno l’Idv fa partire le sue rituali richieste di dimissioni del ministro dell’Interno Roberto Maroni accusato di non aver saputo né prevenire né fronteggiare l’offensiva dei teppisti serbi che hanno tenuto in scacco per ore la polizia italiana dopo aver centrato l’obiettivo di far saltare l’incontro di qualificazione per gli europei Italia Serbia. Chiede spiegazioni anche il Pd di come sia stato possibile far entrare nello stadio gruppi violenti e armati di spranghe, bastoni e petardi di vario genere.
Enrico Singer • pagina 4
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Diffusi ieri i dati allarmanti della Caritas
L’Italia è sempre più povera (ma paga sempre più Iva)
Per la prima volta, sono otto milioni gli italiani caduti in miseria. Eppure l’Istat rivela: «È aumentato il gettito» Francesco Pacifico • pagina 11
Nuovo show populista del leader dell’Idv al dibattito sull’Afghanistan
Che c’azzecca Di Pietro col Pd? L’ex pm lo accusa, ma Bersani vuole allearsi con tutti L’errore strategico dei democratici
di Antonio Funiciello
Così inseguono solo la vecchia Unione
ROMA. Lo show di Di Pietro che, ieri alla Camera chiedendo il ritiro immediato delle nostre truppe dall’Afghanistan, ha tuonato contro il governo e contro il Pd, riapre l’eterna questione delle alleanze del Partito Democratico. Bersani un giorno corteggia l’Udc e il giorno dopo stringe un patto di ferro con Vendola senza rompere con Di Pietro sembra solo voler rimettere in piedi la vecchia Unione.
di Savino Pezzotta vevo guardato con una certa attenzione all’assemblea del Pd a Malpensa lo scorso finesettimana. Soprattutto ho seguito attentamente i contenuti programmatici proposti da Bersani. La necessità di abbandonare i “sofismi”, solennemente affermata, mi era sembrata l’indicazione di una volontà a uscire dallo stantio. a pagina 8
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a pagina 8 CON I QUADERNI)
• ANNO XV •
NUMERO
200 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
prima pagina
pagina 2 • 14 ottobre 2010
la polemica
Ma la partita delle colpe è finita in pareggio Da un lato la responsabilità serba di averli fatti partire, dall’altra quella italiana di averli fatti entrare di Giancristiano Desiderio van “Coi”Bogdanovic, detto più semplicemente Ivan il Terribile, è una di quelle facce molto poco raccomandabili che non ti auguri di incontrare di notte per le strade buie della tua città o in autobus mentre torni a casa. Il terribile Ivan, invece, pur avendo sulle spalle quattro denunce penali è riuscito a entrare indisturbato al Marassi di Genova e, dietro preciso mandato e piano ben studiato a tavolino per una partita da far finire proprio a tavolino, è riuscito a combinare quel po’di pandemonio che l’altra sera le telecamere hanno ripreso, le radio hanno raccontato e i siti internet hanno commentato: una vergogna. Ma il tutto si poteva evitare?
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La Serbia e i suoi ministri hanno fatto le doverose scuse all’Italia e al governo di Roma. È inutile stare a girare intorno alla cosa: quei soggetti malintenzionati non dovevano uscire fuori dalla Serbia e
non dovevano mettere piede nello stadio. Roberto Maroni ha fatto sapere – e la cosa verosimilmente sarà ripetuta in Parlamento – che la sporca partita di Genova poteva finire molto peggio e che, in sostanza, è stata evitata una tragedia. Da una parte la cosa fa piacere perché si sottolinea il buon lavoro delle forze dell’ordine nello stadio, ma da un’altra parte la cosa deve far riflettere non poco: martedì sera, infatti, allo stadio c’erano molti ragazzi e molte famiglie. Si sa, giocava la Nazionale. E invece «è stata evitata una tragedia». Ci sono non poche cose da chiarire su quanto è avvenuto l’altra sera dentro e fuori lo stadio. Le voci ufficiali parlano di“smagliature nel sistema informativo”. Qualcosa non ha funzionato per il meglio nel passaggio di informazioni dalla Serbia all’Italia. La Uefa, condannando naturalmente l’operato serbo, ha voluto sottolineare che ci sono colpe dell’Italia. In verità, anche senza conoscere
da vicino e nei dettagli i fatti, l’accusa della Uefa è quasi scontata: il Paese in cui si gioca ha il compito principale di garantire il più normale svolgimento della gara e se ci sono disordini l’organizzazione non può essere esente da colpe. Nel nostro caso, però, c’è un particolare che va sottolineato: quei mille hooligan andavano controllati meglio e nella maggioranza non dovevano entrare allo stadio e dovevano essere rispediti in Serbia come ospiti non graditi. La colpa dell’Italia è proprio questa. Anche la Serbia ha evidenziato questo errore italiano. Tuttavia, l’errore serbo è marchiano. Le scuse saranno accettate, ma la tesi della disgrazia non sta in piedi.
un piano studiato per far scoppiare disordini a Genova e creare un caso in Italia e in Europa. «Abbiamo avuto segnali di ciò che sarebbe accaduto – ha detto il presidente della federazione calcio serba Tomislav Karadzic – questi teppisti sono solo gli esecutori, coloro che hanno organizzato tutto questo si trovano a Belgrado». L’obiettivo finale sarebbero il governo di Belgrado e la Serbia. Insomma, un piano eversivo nel quale si tira in ballo il nome del boss mafioso Darko Saric. Tutto questo intorno a un pallone e una partita di calcio. La partita è stata sospesa. L’Italia se l’aggiudicherà a tavolino per 3 a 0. Quanto al risultato del “campo” possiamo dire che è uno sconfortante pareggio: 1 a 1 con due autogol di governi che hanno agito da dilettanti.
Le voci ufficiali parlano di “crepe”, ma nel pasticcio ligure di martedì c’è anche la nostra firma
Proprio da Belgrado, infatti, sono fin da subito giunte notizie sull’esistenza di
il fatto Comincia il ping pong di accuse per i fatti di Marassi. Bossi: «Quello serbo è un grande popolo, hanno fatto tutto i tifosi»
Malgrado Belgrado
Il Viminale rivendica il merito di aver evitato una tragedia ma Idv e Pd attaccano Maroni. Per Casini la polizia ha agito bene ornata la tranquillità per le strade di Genova e intorno allo stadio Marassi la polemica ora s’accende sugli spalti della politica italiana e tra le diplomazie di Roma e Belgrado. Sul fronte interno l’Idv fa partire le sue rituali richieste di dimissioni del ministro dell’Interno Roberto Maroni accusato di non aver saputo né prevenire né fronteggiare l’offensiva dei teppisti serbi che hanno tenuto in scacco per ore la polizia italiana dopo aver centrato l’obiettivo di far saltare l’incontro di qualificazione per gli europei Italia Serbia.
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Chiede spiegazioni anche il Pd di come sia stato possibile far entrare nello stadio gruppi violenti e armati di spranghe, bastoni e petardi di vario genere. Domanda a cui se ne lega un’altra: come sia stato possibile cioè che certi elemento abbiano potuto attraversare mezza Europa per arrivare a colpire a Genova con relativa tranquillità. Come emerge anche dalla ricostruzione dei fatti di tale Slobo, uno dei capi degli stessi ultras serbi: «Abbiamo acquistato i
di Riccardo Paradisi razzi di segnalazione nei negozi di nautica di via Gramsci, li abbiamo messi nella cintura dei pantaloni sotto la maglia e siamo entrati senza problemi allo stadio». Il metodo usato da Slobo e dai suoi compari per entrare senza problemi di perquisizione è noto: ai cancelli si tenta di entrare a spinta provocando la reazione della polizia e nella confusione si passa tra le maglie dei controlli. Slobo fornisce anche la carta d’identità e le motivazioni della masnada che ha messo Genova a sacco: «Siamo nazionalisti, siamo contro l’entrata della Serbia nell’Unione Europea e contro l’indipendenza del Kosovo, per questo abbiamo bruciato la bandiera dell’Albania. Il palcoscenico di Genova era ideale per fare conoscere le nostre motivazioni, che sono tutte politiche». La risposta del Viminale – «Abbiamo fatto tutto il possibile evitando una tragedia» – arriva dopo l’incontro tra Maroni e il capo
della Polizia Antonio Manganelli che gli ha consegnato una relazione nella quale afferma che «solo il comportamento responsabile delle Forze dell’ordine ha evitato incidenti ancora più gravi». Secondo il capo della polizia era impossibile impedire l’arrivo dei tifosi serbi, sia perché l’abolizione dei visti dalla Serbia rende impossibile il controllo alla frontiera, sia perché non ci sono state
specifiche indicazioni sui movimenti dei tifosi da parte delle autorità serbe che potessero consentire l’adozione di particolari misure di prevenzione. Una spiegazione che collide in parte però con quanto dichiarato invece dal-
le autorità serbe: la polizia serba infatti ha detto di avere l’elenco di tutti coloro che hanno acquistato il biglietto allo stadio e di avere già informazioni sui gruppi violenti, attivi a Genova, gli stessi che vengono usati per diversi obiettivi sia interni ai club, sia di interessi mafiosi e politici. Dunque? Dunque «ci sono state smagliature nel sistema informativo tra le autorità italiane e serbe – spiega il portavoce dell’osservatorio sulle manifestazioni sportive, Roberto Massucci – che però non intaccano l’ottimo lavoro di collaborazione che il Viminale ha con la Serbia». E quanto al non intervento, Massucci ha detto che la decisione «è stata appropriata ed opportuna» perché «un intervento nel settore ultras avrebbe potuto comportare conseguenze assai peggiori». È la stessa lettura che dà dei fatti di Genova il leader dell’Udc Casini: «Attaccare la Polizia di Stato per i comportamenti avuti
ieri per la partita Italia-Serbia è completamente fuori luogo. È chiaro che il loro comportamento responsabile ha evitato una possibile carneficina. È stata una pagina buia per lo sport, ma le autorità serbe devono assumersi le proprie responsabilità e non possono certo riversarle sulla parte lesa». Un difetto di comunicazione tra autorità serbe e italiane deve comunque essersi verificato. Politika quotidiano di Belgrado, sostiene che la polizia serba aveva avvertito quella italiana che sarebbero arrivati gruppi di tifosi intenzionati a provocare incidenti. Incomprensione a cui s’aggiunge un’altro pasticcio: la gestione della vendita dei biglietti. Questione su cui il direttore della federazione italiana Valentini precisa: «I colleghi serbi avevano il diritto di chiedere in base ai regolamenti Uefa un certo quantitativo di biglietti che noi gli abbiamo fornito. Ma loro li hanno venduti senza dare alcuna indicazione alla polizia italiana delle persone che li hanno acqui-
l’analisi «Quel Paese resta prigioniero dei gruppi ultranazionaliasti», dice il politologo
«Dai tempi di Arkan non è cambiato nulla»
Vittorio Emanuele Parsi: «Il loro tifo è sempre lo stesso, c’è stato un vulnus nelle comunicazioni tra le autorità» di Errico Novi
ROMA. Sono passati poco più di dieci anni da quando il più celebre etnologo serbo, Ivan Colovic, pubblicò un piccolo ma decisivo saggio sul legame tra ultranazionalisti e tifoserie a Belgrado, Campo di calcio, campo di battaglia. Nel frattempo l’opinione pubblica europea, non solo italiana, s’era persuasa che il tempo del feroce Arkan, della “tigre” utilizzata da Milosevic prima nella curva della Stella Rossa e poi nella guerra dell’ex Jugoslavia, fosse finito per sempre. «Non è così, purtroppo. È terribile constatare che un Paese meraviglioso come la Serbia sia ancora prigioniero della sua anima più visceralmente nazionalista, nonostante la possibilità dell’ingresso nell’Ue», dice Vittorio Emanuele Parsi, ordinario di Relazioni internazionali alla Cattolica del Sacro cuore di Milano ed editorialista di politica estera per l’Avvenire. Forse l’Italia ha sottovalutato il pericolo anche perché immaginiamo che la Serbia non sia più quella di Milosevic e Arkan. Dal punto di vista del tifo calcistico la Serbia non si è mossa di un millimetro dal tempo di Milosevic. Le tifoserie organizzate continuano a essere costantemente controllate dai gruppi ultranazionalisti. È un incrocio di cui in Italia d’altra parte conosciamo le dinamiche. In che senso? Anche da noi l’estremismo politico si confonde con le sue proiezioni nelle curve. Semplicemente la nostra società non ha mai conosciuto una deriva come quella serba. Ma i saluti romani degli ultras laziali, i cori come quelli ascoltati ancora nei giorni scorsi a Livorno contro i nostri militari, fanno parte di rituali ben consolidati anche nel nostro Paese. Ecco appunto: considerata la nostra conoscenza del fenomeno, considerato che da quest’anno le strategie di contrasto si sono raffinate grazie alla tessera del tifoso, non crede che sia sorprendente non essere riusciti a prevenire la follia di mercoledì sera? L’impressione è che ci sia stato un vulnus nelle comunicazioni tra le autorità serbe e quelle italiane. E poi c’è un’altra cosa: l’insuccesso è sempre orfano. Detto questo, la cosa grave è un’altra. Quale? Che un Paese a un passo dall’ingresso nell’Unione europea sia ancora prigioniero di culture politiche ultranazionaliste, e
che non riesca a fare pulizia. Il vero nodo è la complicazione del percorso europeo intrapreso da Belgrado. Quindi, per chiudere la questione dell’ordine pubblico, lei non vede una particolare sottovalutazione da parte del Viminale. Credo che il prefetto e il questore abbianoagito con tutte le attenzioni possibili, certo anch’io sono rimasto stupito dal fatto che si sia arrivati fino a quel punto. Difficile dire se sia successo per l’astuzia dei tifosi serbi o per la dabbenaggine delle autorità competenti. Ma addossare le responsabilità a Maroni credo sarebbe ingiusto, continuo a considerare il bilancio del suo mandato positivo. Da certe repliche stizzite che provengono dal governo di Belgrado sembra quasi che l’Italia abbia agevolato la scorribanda di un gruppo estremista ostile all’esecutivo liberale serbo. Guardi, quei teppisti non hanno altro modo per manifestare la loro esistenza, e comunque anche se a Belgrado ci fosse stato un governo più vicino a loro, si sarebbero comportati nella stessa maniera. Il punto è che un certo nazionalismo serbo non ha mai fatto i conti con le sconfitte della storia. E anzi non si può esculdere che nell’episodio di Genova pesi un rancore latente per il ruolo avuto dall’Italia in Kossovo. Preso atto che le differenze tra i fenomeni violenti del nostro calcio e quelli diffusi in Serbia sono notevoli, lei crede che gli ultras da stadio a Belgrado siano solo proiezione di movimenti politici estremisti o che a loro volta abbiano un ruolo attivo nelle dinamiche del loro Paese? Una cosa è certa: queste persone hanno sempre bisogno di tenere vivo un clima, di far sentire la loro presenza, altrimenti perdono l’egemonia negli stadi, che rappresentano il luogo nel quale e per il quale vivono. Però è chiaro che hanno una loro presenza nella politica serba. A noi sembra inconcepibile, perché è come se lasciassimo la leadership politica ai capitifosi di Roma e Lazio, ma quei gruppi a Belgrado hanno la loro rilevanza. Non è che Arkan l’ha inventato Milosevic, ma come ieri i punti di contatto tra il primo e il secondo erano evidenti, così è anche oggi.
«Accertare chi ha sbagliato non sarà facile, l’insuccesso è sempre orfano. Ma non può cambiare il giudizio sul ministro dell’Interno, finora positivo»
stati. In casi analoghi la nostra federazione si comporta in modo completamente diverso». Il caso Genova sta diventando anche un caso diplomatico visto che assieme alle scuse i serbi lanciano anche precise accuse. Per il ministro dell’Interno e vicepremier serbo, Ivica Dacic, i preparativi per la partita sono stati maldestri, l’intervento della polizia italiana avrebbe potuto essere molto più efficace: «non si doveva permettere l’ingresso allo stadio a tifosi in possesso di oggetti vari, cosa questa che a Belgrado non sarebbe mai avvenuta». Concetto ribadito dall’ambasciatrice serba a Roma Sanda Raskovic, nell’esprimere il disagio di un ”intero popolo” per le azioni messe in atto dagli ultrà serbi, accusa la polizia italiana e della Serbia di non aver ”agito con cautela”e di non aver saputo ”prevenire”. Insomma un ping pong di responsabilità tra Roma e Belgrado, in cui si inserisce il leader della Lega Bossi che definisce quello serbo un
grande popolo, incolpando solo i tifosi. Dietro tutta la vicenda, però, si profila uno scenario ulteriore ipotizzato dal sottosegretario agli esteri italiano Alfredo Mantica.
Quella di Genova sarebbe stata un’operazione politico propagandistica concertata e messa in atto per allontanare la Serbia dall’unione europea. Una lettura che coincide con la rivendicazione del raid genovese di uno dei capi ultra catturati martedi sera. L’Uefa intanto ha aperto un’inchiesta sugli incidenti di Italia-Serbia. Il caso verrà esaminato il prossimo 28 ottobre. Ma rischia sanzioni anche l’Italia. Infatti la Federazione europea, per voce di Rob Faulkner, ricorda che «oltre alla responsabilità di chi provoca incidenti, i regolamenti Uefa prevedono anche quella della federazione che organizza la partita e che deve garantire la sicurezza nello stadio e il regolare svolgimento dell’incontro».
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l’approfondimento
Ritratto di un Paese a due facce, che rischia sempre di più di fare della violenza il suo “marchio di fabbrica”
Tra Arkan e l’Europa
Dopo la Jugoslavia, i Balcani sono esplosi creando una frattura ancora non rimarginata. Da un lato la Serbia che guarda al futuro, dall’altro quella degli ultranazionalisti che inseguono l’illusione di ricostruire i fasti del passato di Enrico Singer uesta estate l’incubo che, dalla Serbia, aveva investito l’Italia era stato quello di mettere in ginocchio la fabbrica di Pomigliano d’Arco. Di sfilare a uno dei più importanti stabilimenti industrali del nostro Sud, già a rischio di chiusura, la produzione della nuova Panda che comincerà l’anno prossimo. Con il corollario della perdita dei posti di lavoro e dei milioni d’investimenti promessi dalla Fiat. L’altra sera il fantasma che è riapparso sugli spalti dello stadio di Genova e ancora prima e dopo la nonpartita con gli azzurri, è stato il nazionalismo serbo. Violento e organizzato come le falangi cetniche che il comandante Arkan aveva trasformato nelle sue tigri ai tempi, feroci, della guerra civile e della pulizia etnica. Un nazionalismo esasperato, pronto a trasformare anche un campo di calcio in campo di battaglia. Così, nel giro di pochi mesi, la Serbia ha mostrato – e sempre sotto l’occhio della tv – i suoi due volti. Quello di un Paese che bussa alle porte dell’Unione europea, che segue una politica liberista e che cerca di attrarre capitali stranieri offrendo mano d’ope-
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ra a salari più bassi, fiscalità di favore e un corridoio preferenziale verso la Russia con la quale ha un accordo che abbatte i dazi doganali. Ma anche quello di un Paese che non ha fatto ancora tutti i suoi conti con il passato, che insegue l’illusione di ricostruire la grande Serbia mutilata e umiliata dalle secessioni che hanno smembrato la federazione di Stati che Tito, con l’aiuto dell’Armata Rossa, era riuscito a unire nella Jugoslavia.
Da una parte il futuro, con la speranza di diventare uno dei motori della nuova Europa; dall’altra il passato che si alimenta di rivendicazioni territoriali e di valori tradizionali. Due Paesi apparentemente contrapposti, in realtà intimamente legati in un groviglio in cui i sentimenti nazionali e le statistiche economiche si confondono e, a volte, prendono il sopravvento gli uni sugli altri. L’imbarazzo e le scuse delle autorità serbe per quanto è successo mertedì sera a Genova dimostra proprio questo. Il governo di Belgrado, guidato dall’europeista Mirko Cvetkovic, in sintonia con il presidente della Repubblica, Boris Tadic
- anche lui moderato e filoeuropeo - ha espresso tutto il rammarico e la vergogna che prova la Serbia che guarda a Occidente. Ma che deve fare i conti con quella parte di opinione pubblica attirata più dalla rivincita che dall’integrazione. Che, purtroppo, non si può ridurre alle poche centinaia di facinorosi tatuati e incappucciati visti in azione sugli spalti del Luigi Ferraris. Nelle ultime elezioni parlamentari, quelle dell’11 maggio 2008, il partito socialista serbo - che fu di Slobodan Milosevic - ha ottenuto un inatteso 8 per cento e il principale partito contrario all’ingresso della Serbia nella Ue - il partito radicale serbo - è il più forte movimento di opposizione con il 28 per cento dei voti. Questo partito (in serbo Srpska radikalna stranka, Srs) è nato nel 1990 dalla fusione del partito del popolo radicale e del movimento cetnico serbo. Il termine cetnico richiama le formazioni militari - ceta vuol dire truppa - che nacquero per combattere gli ottomani, ma che
hanno poi attraversato la storia della Serbia in nome del nazionalismo più esasperato, fino ai giorni nostri.
Fu Slobodan Milosevic, nel 1989, a legalizzare tutti i movimenti cetnici, tornati attivi dopo il lungo letargo imposto dal regime comunista, e a sdoganarne le attività alla luce del sole. Attività che, sin da quegli anni, incrociavano politica e sport e che trovavano, soprattutto nelle curve degli stadi, nuovo cemento e nuovi adepti. Non è davvero un caso che uno dei più sanguinari capi militari della Serbia di Milosevic, il comandante Arkan, responsabile di massacri in Bosnia e in Croazia, investì il frutto degli innumerevoli saccheggi e del traffico d’armi proprio nel cal-
cio. La squadra di cui fu presidente - l’FK Obilic - partecipò anche alla Champions League nel 1998, due anni prima dell’agguato in cui, il 15 gennaio del 2000, Arkan fu ucciso nel bar dell’Intercontinental Hotel di Belgrado. Il vero nome del comandante era Zeljko Raznatovic: quello “di battaglia”, si dice, lo assunse quando aveva vent’anni riprendendolo dalla tigre Arkan protagonista del suo fumetto preferito. Chiamò le tigri anche le sue unità speciali che furono impegnate nella guerra civile e che dai cetnici avevano ripreso la bandiera con le due ossa incrociate e il teschio su fondo nero - e il saluto con tre dita alzate - indice, medio e anulare - che simboleggia i tre elementi del motto “Dio, patria o morte”. Lo stesso saluto con il quale gli ultras hanno accompagnato allo stadio di Genova i loro slogan che invocavano il Kosovo serbo. Sotto gli occhi di milioni di persone che si aspettavano di vedere in tv una partita di pallone, è andato in scena uno spettacolo di fanatismo imbarazzante. Che, tuttavia, non è fine a se stesso perché cerca di allargare il risentimento di quella parte dei serbi che accusa l’Oc-
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Gli hooligan si “temprano” negli stadi e poi si ritrovano armati nelle strade di Vukovar
Dalla curva alla guerriglia, la parabola degli ultrà Il match fra la Dinamo e la Stella Rossa di Belgrado del 13 maggio 1990 è paragonabile alla morte dell’arciduca Ferdinando: ha incendiato i Balcani di Massimo Ciullo ei libri di storia, l’uccisione dell’arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo, da parte di un giovane nazionalista appartenente alla Bosna Mlada (Giovane Bosnia) che rivendicava l’unione degli Slavi del sud, viene ricordata come la scintilla che provocò la Prima Guerra Mondiale. Se dovessimo rintracciare un episodio di simile portata per datare l’inizio dei conflitti balcanici che, agli inizi degli anni Novanta, portarono alla dissoluzione della Federazione Jugoslava, non potremmo fare a meno di citare la partita di calcio che si sarebbe dovuta disputare allo Stadio Maksimir di Zagabria, fra la Dinamo e la Stella Rossa di Belgrado, il 13 maggio 1990. Anche in quell’occasione, come accaduto la scorsa notte a Genova, di calcio se ne vide ben poco perché gli ultras delle due squadre preferirono mettere in scena un’anticipazione del macello interetnico che sarebbe seguito pochi mesi dopo. Un manipolo non indifferente dei supporter più accaniti della Dinamo Zagabria e della Stella Rossa si ritroveranno infatti, sui campi di battaglia della Slavonia, per le strade di Vukovar nel 1991 o nella Kraijna nel 1995. Il gruppo più noto, che in quegli anni si distinse per lo zelo nell’applicazione della pulizia etnica, fu certamente quello guidato da Zeliko Raznatovic, detto Arkan, già capo dei Delije (gli Eroi), gli hooligan più temibili della Stella Rossa, che da lì a poco assumeranno il tristemente noto nome di “Tigri di Arkan”. Figlio di un militare dell’Armata Federale, Arkan vanta già un lungo curriculum criminale, quando decide di spostare i suoi uomini dalla curva dello stadio Marakana di Belgrado ai fronti più caldi della guerra esplosa nei Balcani.
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Accusato di crimini contro l’umanità e ricercato dall’Interpol, Raznatovic viene freddato il 15 gennaio 2000 in un hotel di Belgrado da un sicario. Nel frattempo, grazie alla protezione del Presidente serbo Slobodan Milosevicera riuscito ad evitare la giustizia internazionale e a vivere come un nababbo grazie a proventi derivanti da traffici poco chiari. Ad un certo punto, decide di abbandonare il suo primo amore calcistico, la Stella Rossa, e fonda un club tutto suo, che decide di chiamare Obilic, in onore dell’eroe nazionale serbo, Mi-
los Obilic, che nella famosa Battaglia della Piana dei Merli del 28 giugno 1389, uccise il sultano ottomano Murad I. La stessa data che Ivan Bogdanov, ha deciso di tatuare sul suo braccio e che ha consentito alla polizia italiana di individuare l’uomo mascherato che ha tenuto in ostaggio l’intero pubblico del Luigi Ferraris a Genova l’altra sera. Bogdanov, detto anche “Coi”, è disoccupato e su di lui pendono 4 denunce penali per traffico di stupefacenti, aggressioni e violenze. L’uomo sarebbe il leader degli Ultras Boys, uno dei tanti sottogruppi dei Delije della Stella Rossa, che occupano la curva nord dello stadio di
In nome della comune fede ortodossa, i serbi si sono gemellati con i tifosi greci dell’Olympiakos Belgrado. Secondo il sito di Politika gli incidenti sarebbero stati scatenati e pianificati da gruppi ultrà della Stella Rossa che non hanno perdonato al portiere serbo Vladimir Stojkovic di essere passato all’altra squadra di Belgrado, il Partizan. La stessa fonte rivela anche che la polizia serba aveva condiviso con gli agenti delle forze dell’ordine italiane le informazioni che a Marassi sarebbe arrivato
un gruppo di tifosi intenzionato a provocare incidenti. Altri organi d’informazione serba hanno messo in relazione gli scontri di Genova con le aggressioni organizzate ai partecipanti di domenica scorsa al Gay Pride, tenutosi nella capitale serba tra imponenti misure di sicurezza.
La polizia di Belgrado in quell’occasione ha arrestato diversi ultras delle due squadre di Belgrado, che messa da parte l’accesa rivalità cittadina, hanno stretto una santa alleanza per attaccare gli esponenti della comunità omosessuale serba. Omofobi, ultranazionalisti, si presentano in
giro per l’Europa come gli ultimi ribelli di una causa, quella serba, invisa al resto della comunità internazionale. Ma gli hooligan serbi non hanno solo nemici: sono riusciti a conquistare alla loro causa tifoserie “sorelle”, in nome della comune fede ortodossa e anti-albanese.
È questo il senso del loro stretto gemellaggio con i tifosi più accesi dell’Olympiakos Pireos, una delle squadre di Atene, accolti a Belgrado, nella prima partita ufficiale dopo la fine della guerra del 1991, con un enorme striscione su cui c’era scritto “Benvenuti fratelli ortodossi”; e con i russi dello Spartak Mosca, che li sostengono nella loro battaglia per il ripristino della sovranità serba sul Kosovo. La commistione tra politica e sport nella ex-Jugoslavia ha origini antiche e nasce probabilmente dalla possibilità offerta dalle competizioni agonistiche di evocare appartenenze etniche e religiose, mascherate da passioni sportive, che il regime comunista del Maresciallo Tito non seppe discernere come focolai di un rinascente nazionalismo.
cidente - e l’Europa in particolare - di usare due pesi e due misure con i Paesi dei Balcani, criminalizzando la Serbia per i reati commessi e dimenticando quelli degli altri. È una strategia che fa leva sul generale nazionalismo di una popolazione di cui si dice che «prima di tutto si è serbi e poi uomini o donne, di sinistra o di destra, credenti o agnostici».
Il vero obiettivo di questa strategia è impedire, o almeno ritardare, l’ingresso nella Ue che segnerebbe la definitiva vittoria di chi vuole lasciarsi alle spalle i rancori dei conflitti interetnici per integrarsi in un’Europa che riconosce le differenze e che le accetta, abbandonando la pretesa di riportare indietro le lancette degli orologi. È la Serbia che, il 20 gennaio del 2008, ha portato nel palazzo presidenziale Boris Tadic - che sconfisse, allora, il nazionalista Tomislav Nikolic del partito radicale serbo Srs - e che tre mesi dopo portò al governo Cvetkovic. Due personalità che hanno pigiato sull’acceleratore della marcia verso l’Unione europea. Il 29 aprile del 2008, dopo due anni e mezzo di negoziati con alterne vicende, è stato firmato l’Accordo di stabilizzazione e associazione tra Serbia e Ue che è stata vincolata alla collaborazione di Belgrado con il Tribunale internazionale dell’Aja e alla consegna degli ultimi criminali di guerra ancora latitanti. Con gli arresti di Stojan Zupljanin (nel giugno del 2008) e soprattutto di Radovan Karadzic (nel luglio dello stesso anno) restano soltanto due ricercati: il generale serbo bosniaco Ratko Mladic e Goran Hadzic. Ma è sul fronte economico che sono stati compiuti i passi più grandi. Nei primi sei mesi del 2009, gli investimenti esteri in Serbia hanno raggiunto gli 894 miliardi di dollari. I più importanti partner per quanto riguarda lo scambio commerciale del primo trimestre del 2010 sono Italia, Russia e Germania con un giro d’affari pari a circa 1,83 miliardi di dollari. Con la Russia è stato realizzato uno scambio del valore di 623,9 milioni di dollari, con la Germania di 621,4 e con l’Italia di 587,7 milioni. In Serbia ci sono già duecento aziende italiane favorite, come quelle di tutti gli altri Paesi, da incentivi fiscali modulati in base al numero di posti di lavoro creati e dalla possibilità del libero rimpatrio di capitale, utili e dividendi. Condizioni che tornando al caso della Fiat hanno convinto Marchionne a produrre negli ex stabilimenti della Zastava, a Kragujevac, le auto che prenderanno il posto di Idea, Multipla e Lancia Musa, anche se la nuova Panda è stata assegnata a Pomigliano d’Arco. Ma è proprio questa integrazione di progetti e di intenti che gli ultranazionalisti serbi vogliono combattere.
diario
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Giustizia. Dopo le accuse al pm De Pasquale, le toghe chiedono alla presidenza l’apertura di un fascicolo a carico di Berlusconi
Attacchi al Csm, Vietti al Quirinale I magistrati: «Il premier mina la credibilità delle istituzioni»
ROMA. In era Berlusconi rischia di essere una non notizia, eppure coinvolge alcune tra le massime cariche istituzionali del Paese: il vicepresidente del Csm, Michele Vietti, ieri è salito al Quirinale per raccontare al capo dello stato – che è pure il capo del Consiglio superiore – che i magistrati si sentono per l’ennesima volta sotto attacco da parte del premier. Non ci sarebbe quasi da meravigliarsene, se non fosse che sia Giorgio Napolitano alla cerimonia di commiato del vecchio Csm (il 31 luglio), sia Vietti all’atto dell’insediamento, pochi giorni dopo, avevano ribadito che l’organo di autogoverno delle toghe non deve esagerare con le pratiche a tutela – fascicoli aperti per proteggere l’onorabilità dei magistrati – e coi pareri non richiesti sulle leggi in corso d’approvazione alle Camere. Troppe pratiche a tutela, in sostanza, diventano un inutile rito mentre a palazzo Chigi siede il Cavaliere: ancora lunedì sera, facendo gli auguri in diretta tv a Emilio Fede, Berlusconi non è riuscito a trattenersi dall’attaccare i magistrati (e i comunisti, quando questi ultimi non siano giudici). Ultimamente però l’attacco del premier è stato frontale, ad personam non nel senso delle leggi, ma del pm dei suoi processi (Mills, diritti tv, Mediatrade), Fabio De Pasquale,“famigerato” magistrato accusato anche per il suicidio in carcere di Gabriele Cagliari, avvenuto nell’estate del 1993 e per cui una serie di ispettori ministeriali –
di Marco Palombi
mato anche da Glauco Giostra, componente laico eletto dall’opposizione. Guido Calvi invece, indicato dal Parlamento in quota Pd, non ha firmato: è presidente della Prima commissione, competente per le pratiche a tutela, e dunque parte in causa nell’eventuale procedimento. Il documento chiede appunto al Comitato di presidenza del Csm l’apertura di un fascicolo contro il premier per le frasi su De Pasquale e, nello stesso tempo, a Vietti di farsi portavoce presso il capo dello Stato del loro allar-
Regge l’accordo Fli-Pdl sulle commissioni
Bongiorno confermata ROMA. Giulia Bongiorno è stata confermata alla presidenza della commissione Giustizia con 40 voti su 48. L’esponente di Fli, dunque, è stata votata anche da Udc e Pd: «La rielezione di Giulia Bongiorno ha una doppia valenza politica - secondo la capogruppo del Pd in commissione, Donatella Ferranti -: non solo si tratta di un soste-
Firma il documento anche il componente laico in quota Pd, Glauco Giostra. Astenuto Calvi come parte in causa nell’eventuale procedimento anche inviati da governi Berlusconi – hanno escluso responsabilità del pubblico ministero. Le accuse del premier, contenute in un video amatoriale reso noto da Repubblica e ribadite ufficialmente alla festa del Pdl di Milano un paio di settimane fa, sono talmente abnormi, talmente viziate dal tipico conflitto di interessi dell’imputato col magistrato che tutti i 16 componenti togati del Csm, di qualunque corrente e orientamento culturale, hanno predisposto un documento sulla questione che è stato fir-
me perché le dichiarazioni del capo del governo «minano la credibilità delle istituzioni e rischiano di delegittimare la magistratura tutta».
Questo accadeva giusto una settimana fa e nello stesso giorno i laici eletti dal centrodestra (Annibale Marini, Matteo Brigandì, Filiberto Palumbo, Bartolomeo Romano e Nicolò Zanon) reagivano con una nota critica: «Il Csm deve svolgere esclusivamente le alte funzioni attribuitegli dalla Costituzione, tra le quali non figu-
gno alla persona ma alla sua presidenza di garanzia”. Ma al di là della convergenza delle opposizioni sull’avvocata finiana, ha retto l’accordo tra Fli, Pdl e Lega sul rinnovo dei vertici degli organismi parlamentari. Infatti Giancarlo Giorgetti (Lega) e Gianfranco Conte (Pdl) sono stati rispettivamente confermati
alla guida di Bilancio e Finanze della Camera, come previsto dall’intesa di maggioranza. Alla Bilancio Giorgetti ha ricevuto 24 preferenze; altri 18 voti sono andati a Bruno Tabacci (Api), le schede bianche sono state due. Nello scrutinio per la presidenza della commissione Finanze, Conte ha ricevuto 29 voti; tutte le altre schede sono risultate bianche. Anche al Senato la prima tornata di rinnovo delle presidenze delle commissioni parlamentari ha visto confermati i senatori del Pdl, che - come dato politico - hanno potuto contare sul voto favorevole anche dei componenti di Fututo e libertà e di Mpa, oltre che quelli della Lega e in alcuni casi di qualche esponente dell’opposizione. Alla prima commissione, Affari costituzionali viene dunque riconfermato Carlo Vizzini, alla quarta commissione Difesa, Giampiero Cantoni, alla quinta commissione Bilancio, Antonio Azzollini, alla decima commissione Industria, Cesare Cursi, alla dodicesima commissione Sanità,Antonio Tomassini.
rano iniziative idonee a inserirlo in dinamiche tipiche della lotta politica, che alimentano polemiche dannose». Concetto ribadito ancora ieri dai cinque, che evidentemente considerano gli insulti di un politico a un pubblico ministero che indaga su di lui come “parte della lotta politica”. Da questo ennesimo guazzabuglio deriva la visita di Michele Vietti al presidente della Repubblica. Solo che, a parte riconoscere la fondatezza delle preoccupazioni dei magistrati, i due non è che abbiano modo di far molto: impedire a Berlusconi di attaccare i magistrati è possibile solo impedendogli di parlare. Per di più in questa fase, e Napolitano lo sa fin troppo bene, nessuno ha interesse a incrudelire ulteriormente la situazione in materia di giustizia: sul Colle tengono sopra ogni cosa al prosieguo della legislatura e il governo, anche se non lo avesse specificato Fini, corre seri rischi sostanzialmente solo sulla linea di faglia tra gli interessi giudiziari del Cavaliere e le riforme organiche di cui il sistema ha bisogno. È evidente, spiegano ad esempio fonti vicine a Napolitano, che il presidente, sottolineando la necessità di ridurre i tempi dei procedimenti, non aveva nessuna nostalgia del“processo breve”. Più in sintonia, per così dire, con le possibilità che il Consiglio superiore ha di incidere sulla realtà politica è il tema del plenum straordinario a cui – lunedì pomeriggio – parteciperà il Guardasigilli Angelino Alfano.
Il cronico problema dei vuoti in organico in Procure e Tribunali, infatti, sta per complicarsi ulteriormente: moltissimi magistrati in questi mesi hanno chiesto il pensionamento anticipato per evitare i tagli contenuti nell’ultima manovra di finanza pubblica. Per un governo che sostiene di puntare tutto sull’efficienza del sistema giudiziario questo dovrebbe essere un incubo, eppure la strategia di via Arenula sul personale non potrebbe essere più confusa: basti pensare alla prossima, ennesima scadenza dei magistrati onorari di Tribunale, da anni in attesa d’una legge che ne prescriva funzioni e tutele. Come per l’università, d’altronde, il problema non è la Gelmini, così per la giustizia non è Alfano, ma il premier, nel senso di Giulio Tremonti.
diario
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È allarmante il rapporto del Consiglio dei geologi
Uova e vernice rossa alla Garbatella. Il ministro Alfano: «Piena solidarietà»
Sono 725 i Comuni ad alto rischio sismico
Cisl, ancora attacchi contro una sede di Roma
ROMA. Sono 725 i Comuni ita-
ROMA. “Meglio un uovo oggi
liani potenzialmente interessati da un alto rischio sismico, mentre quelli a medio rischio sono 2.344. Nelle zone ad alto rischio risiedono 3 milioni di abitanti, nei secondi 21,2 milioni. Quindi il 40% della popolazione italiana risiede dunque in zone a elevato rischio sismico. È quanto emerge il primo Rapporto sullo stato del territorio italiano realizzato dal centro studi del Consiglio nazionale dei geologi (Cng), in collaborazione con il Cresme (Centro ricerche economiche e sociali di mercato per l’edizia), che è stato presentato ieri a Roma. In zone a elevato rischio sismico si trovano 6,3 milioni di edifici, 27.920 scuole e 2.188 ospedali. Lo studio ricorda poi che il 60% degli 11,6 milioni di edifici italiani a prevalente uso residenziale è stato realizzato prima del 1971, mentre l’introduzione della legge antisimica per le costruzioni in Italia è del 1974. Dal 1944 al 2008 «il costo del dissesto idrogeologico e dei terremoti è stato di 213 miliardi di euro, con un investimento di 27 miliardi di euro solo dal 1996 al 2008», ha annunciato il presidente del Cng, Piero Antonio De Paola: «Una spesa ingente, ma inefficace. Sia perché la pianificazione naziona-
che senza diritti domani”. È la scritta apparsa ieri sui muri della sede della Cisl di via Guglielmo Massaia, nel quartiere della Garbatella a Roma. La scritta è firmata da “Quelli della r moscia”. La sede sarebbe stata colpita anche con lanci di uova. Sulle finestre dell’edificio è apparsa un’altra scritta,“B. ko”, di colore giallo, che gli inquirenti stanno analizzando. Il muro sotto le finestre è stato invece imbrattato di nero ed è stata staccata la targa della sede. «Si tratta di un atto ignobile e intollerabile che offende la dignità di milioni di lavoratori che quotidianamente si impegnano all’interno del sindacato per difendere i diritti e il posto
Alla Rai ricomincia la guerra su Santoro Dieci giorni di stop al conduttore. Garimberti si dissocia di Francesco Lo Dico
ROMA. Dieci giorni di sospensione e di mancata retribuzione a partire da lunedì 18 ottobre. Differita, agognata, estorta dal Cavaliere a suon di minacce e insulti rivolti ai suoi stallieri piazzati all’Authority e alla Rai, la fatwa contro Michele Santoro è infine arrivata. Ieri mattina il conduttore di Annozero è stato raggiunto da un provvedimento disciplinare dell’azienda pubblica, che è la naturale prosecuzione del richiamo della direzione generale per la puntata d’apertura del programma di informazione. Santoro non sembra affatto pronto ad obbedir tacendo, faceddo sapere che «reagirà con tutte le forze e in ogni sede», contro un «provvedimento di gravità inaudita, ad personam». E una certa gravità, sembra emergere anche dalle parole del presidente Rai, Paolo Garimberti, che giudica l’intervento di Masi «un provvedimento di esclusiva sua responsabilità», precisando di non condividerlo perché «manifestamente sproporzionato».
rettore generale Rai contesta al conduttore violazioni come «l’uso del mezzo televisivo a fini personali», e reputa il monologo «un attacco diretto e gratuitamente offensivo al dg per una circolare a garanzia dell’equilibrio all’interno dei programmi di approfondimento informativo, che è stata approvata dal Cda». Masi sottolinea però che non c’è «nessuna censura» e e che «non esistono dipendenti più uguali degli altri o zone franche all’interno delle quali sia possibile garantirsi il diritto all’impunità, tanto più quando si arriva a insultare il capoazienda in diretta televisiva con una modalità di contenuti ed espressioni che crea un caso che non ha precedenti al mondo». Un po’ come il fatto che la Rai sia l’unico servizio pubblico al mondo, in cui un conduttore riesca ad andare in onda soltanto grazie a una decisione del Tribunale. Ma la replica di Santoro non si fa attendere: «Una punizione nei miei confronti si trasforma così in una punizione per il pubblico, per la redazione, per gli inserzionisti, per la Rai. E spezza le gambe ad un programma di grandissimo successo – aggiunge – già sottoposto ad una partenza ad ostacoli».
La reazione di Futuro e libertà: Bocchino e Della Vedova presentano una bozza di legge per strappare l’Azienda alla politica
le non completa (e quando c’è viene comunque elusa) sia per la mancanza di un centro di coordinamento nazionale».
Per quanto riguarda il rischio idrogeologico, invece, sono circa 6 milioni gli italiani che abitano nei 29.500 chilometri quadrati del nostro territorio considerati a «elevato rischio». In Italia 1.260.000 edifici sono «a rischio frane e alluvioni. Di questi oltre 6 mila sono scuole, mentre gli ospedali sono 531». Un milione di persone a rischio idrogeologico ivono in Campania; 825 mila in Emilia Romagna, oltre mezzo milione in ogni regione di Piemonte, Lombardia e Veneto.
A scanso di terribili equivoci, il dg Mauro Masi precisa che il confino imposto a Santoro non è in nessun modo «riconducibile ad iniziative editoriali tendenti a limitare la libertà di espressione o il diritto di critica». Postilla alquanto singolare, se raffrontata all’opinione che l’immemore Masi aveva dell’argomento soltanto qualche mese fa, quando il premier gli intimava al telefono l’immediata chiusura diAnnozero. «Dopo la D’Addario – si rammaricava il direttore generale – c’era spazio e modo per poter intervenire mille volte, non lo abbiamo fatto, non è stato fatto, e ci troviamo adesso questa roba qui». E aggiungeva speranzoso: «L’unica cosa che può servire veramente é che se lui (Santoro, ndr) fa la pipì fuori dal vaso stasera...». Da allora, Masi aveva pazientemente atteso sulla sponda del fiume, il sospirato tracimo. Finchè l’illecita minzione non si è addensata nel celebre bicchiere libato dal conduttore a metafora della libera informazione nel corso della prima puntata della stagione. Lo stesso che Santoro aveva rivolto, accompagnato da un “vaffan”, a Mauro Masi. Il di-
Per tentare di rimuoverne qualcuno, del genere di quelli emersi alla procura di Trani, ieri i futuristi Italo Bocchino e Benedetto Della Vedova hanno presentato una proposta di legge sulla privatizzazione della Rai che prevede la vendita dell’intero capitale statale entro il giugno 2011 e una tassa sugli spot per finanziare il servizio pubblico, svolto dalle emittenti private con concessione e con affidamento per gara. Un provvedimento che affianca la mozione sul pluralismo nella Rai, che sarà discussa a metà novembre su impulso di Fli. Il presidente del Consiglio, intercettato, aveva avvisato i suoi scherani: «Mi raccomando perché adesso entriamo in una zona di guerra, veramente brutta». Ma ora che l’obice ha finalmente centrato Michele Santoro, nessuno potrà più negare che quella di Berlusconi sia stata una tempesta in un bicchiere.
di lavoro» ha commentato Mario Bertone, segretario generale del Cisl di Roma.
Il sindacato ieri ha indetto un sit-in di fronte alla sede della Garbatella. Il ministro Alfano si è recato presso la sede nazionale della Cisl, a via Po, per esprimere solidarietà a Bonanni. Il Guardasigilli ha stigmatizzato «il pesante clima di violenza e le vili manifestazioni di odio che da un mese si susseguono con drammatica puntualità. Si tratta di gesti estremamente gravi che vorrebbero rimaterializzare nella nostra società civile quegli spettri di intolleranza dai quali ci siamo faticosamente e definitivamente emancipati. La Cisl - ha concluso - vada avanti sulla linea riformatrice di questi anni». Si è rivelata invece una “bufala”l’azione rivendicata da “Generazione P. Precaria” su Facebook contro una sede Cisl al Casilino. Nel testo si riferiva del lancio di uova e gavettoni riempiti di vernice rossa, «il colore del quale dovrebbero essere i volti dei dirigenti della Cisl, se fossero almeno capaci di provare vergogna». Accanto al comunicato però, una nota spiega che l’azione non è mai stata compiuta e che le foto allegate si riferivano ad altri eventi.
politica
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Dilemmi. Di Pietro, parlando dell’Afghanistan, oltre al governo insulta anche i democratici. Che non si decidono a rompere
L’alleato di tutti Il Pd di Bersani sceglie ancora di non scegliere: corteggia i centristi e si “apparenta” con Vendola di Antonio Funciello
ROMA. Ci mancava solo la formula del patto di consultazione, che riporta indietro l’orologio fino agli anni ’50, dopo i mandati esplorativi delle elezioni regionali e quell’alternativa che Bersani ha eletto parola chiave e fatto scrivere sulle tessere del Pd, dopo essere stato lo slogan degli ultimi tre congressi del Partito comunista italiano. Ma al di là del linguaggio, che pure resta un segnale chiaro di stanchezza, è la strategia complessiva del Pd a rimanere un’incognita tutta da decifrare. Bersani insiste col sostenere che è lo stato emergenziale (altra formula antica) in cui versa la democrazia italiana a motivare l’intesa di un arco di forze politiche che vanno dall’Udc di Casini alla Federazione dei Comunisti di Ferrero, Diliberto e Salvi. E il leit motive non si placa nonostante più di un dirigente dell’Udc abbia chiarito in varie circostanze che, anche ammettendo l’urgenza democratica, non si dà alcuna possibilità che alle prossime elezioni Casini possa andare a braccetto con Di Pietro, Pannella,Vendola, Diliberto e magari pure i grillini.
Ma andiamo con ordine. Il patto di consultazione siglato da Bersani con Vendola, non ha solo l’obiettivo di mostrare al partito che il segretario si muove senza il tutoraggio di D’Alema. Bersani ha chiesto a Vendola, in cambio dell’assicurazione sulla tenuta delle primarie per il leader del centrosinistra e dell’assenso su un possibile governo a scopo che cambi la legge elettorale, di lavorare alla sinistra del Pd. Entrambi hanno convenuto che ricreare sulla scheda elettorale l’effetto Unione, con una pletora indistinta di simboli di partito, è controproducente. La soluzione consisterebbe in una operazione di maquillage, per cui Vendola finirebbe per capeggiare un listone di sinistra radicale che inglobi Sinistra e libertà, Verdi di Bonelli, Socialisti di Nencini e Radicali di Pannella. Un’opaca riedizione di quella lista Arcobaleno che nel 2008 ha mandato in pensione Bertinotti e compagni. Bersani vorrebbe che nel listone ci fossero pure i comunisti di Fer-
L’errore strategico del segretario democratico
Ma così inseguono la vecchia Unione di Savino Pezzotta vevo guardato con una certa attenzione all’assemblea del Pd a Malpensa lo scorso finesettimana. Soprattutto ho seguito attentamente i contenuti programmatici proposti da Bersani. La necessità di abbandonare i “sofismi”, solennemente affermata, mi era sembrata l’indicazione di una volontà a uscire dallo stantio, come l’analisi sulla crisi del berlusconismo mi era apparsa interessante, anche se da approfondire.
A
L’aver posto come centrale il tema della legge elettorale è stato un atto di coraggio e di realismo politico. Anch’io credo che l’attuale legge che consente, con il 35-36% di voti, di prendersi tutto, compresa la maggioranza nelle Camere riunite per procedere all’ele-
zione del capo dello Stato, non vada bene e che debba essere cambiata. Ma sono stato più interessato alle questioni relative alle cause e agli effetti della crisi economica, della disoccupazione, del lavoro giovanile, del sostegno alla famiglia, della riforma fiscale e della scuola. Questi sono tutti temi su cui anch’io ritengo sia necessario rilanciare il dibattito all’interno del Paese, suscitando una discus-
sione pubblica in grado di muovere la passività rassegnata con cui gli italiani stanno vivendo questi tempi. È questo il compito cui i partiti di opposizione, pur nella differenza di proposte, devono dedicarsi con rigore, al di là delle discussioni sulla possibilità o meno di alleanze elettorali. Ecco: credo che la pesantezza della situazione economica avrebbe dovuto obbligare le opposizioni a un confronto sui temi richiamati dal segretario decmocratico nel suo intervento ma soprattutto ben presenti, drammaticamente presenti nella quotidianità degli italiani.
Le speranze si sono attenuate a seguito dell’incontro tra Bersani e Vendola. Non ho nulla di contrario né tanto meno di pregiudiziale nei confronti del Governatore della Regione Puglia. Quello che non condivido è un metodo che premette il tema delle alleanze a quello dei contenuti. Inoltre si vuole scegliere il candidato con le primarie, regola che esclude il modello «coalizionale» e tende a proporre una forma a vocazione maggioritaria. Ciò significa voler racchiudere tutte le scelte nell’ambito del centro sinistra e, pertanto, escludere, di fatto, tutti quelli che non si riconoscono in questa collocazione. Non siamo ancora in vista delle elezioni, ma avverto che si fa fatica a uscire dagli schemi che hanno caratterizzato la seconda repubblica. Da questo bipolarismo non si esce se si continuano a ripetere i vecchi riti, ma essendo uomini di fede continuiamo a sperare che le cose possano cambiare e che il nostro Paese possa approdare a una nuova fase di governabilità’ e di coesione sociale.
Pierluigi Bersani è diviso tra Nichi Vendola e Antonio Di Pietro. Ma negli equilibri entrano anche le aspettative di Luigi De Magistris (al centro nella foto sopra). A destra, Enrico Morando. A sinistra, Massimo D’Alema rero e Diliberto, ma su questo Vendola non concorda.
L’ipotesi di listone a sinistra del Pd, a cui Bersani pensa per risolvere la partita delle alleanze, riconoscendo a Vendola il ruolo di leader unificatore, servirebbe al Pd anche per premere su Di Pietro e disporlo a più miti consigli. Lo schema insiste sui rapporti di forza tra Pd e Idv, che verrebbero ridefiniti in virtù della ghiotta dote recata da un Bersani garante dell’accordo con la sinistra radicale. Al Nazareno si immagina che, a quel punto, Di Pietro non potrebbe che patteggiare, provando al massimo a far pesare il suo canale aperto coi grillini. L’ex magistrato è l’unico ad avere relazioni assidue con Grillo, che in alcune grandi aree urbane del centro-nord ha dato prova di radicamento alle ultime regionali. Bersani non ama molto il populismo di Grillo, che sparla di lui ad ogni occasione. Tuttavia non esclude che in certe regioni sia necessario
includere anche il caotico movimento 5 stelle di Grillo nella grande alleanza democratica che, a marzo o quando sarà, dovrà sfidare Berlusconi.
Che c’entri Casini con tutto questo non è dato sapere, ma il Pd gioca a fare l’alleato di tutti e, dunque, perché escludere proprio l’Udc? Bersani è convinto di poter cementare l’intesa coi centristi attraverso il governo tecnico che nascerà dopo il collasso della maggioranza di governo. Va molto fiero di aver strappato a Vendola l’appoggio a un eventuale governo tecnico per cambiare la legge elettorale da costruire con Casini e i finiani, a patto però di chiamarlo governo di scopo. Bersani dà per ovvio che, dopo l’esperienza comune del governo di scopo che modificherebbe il Porcellum per andare incontro alle esigenze di Pd e Udc, non ci sarebbe alcun motivo per i due partiti di presentarsi divisi alle elezioni. Tenendo a quel punto nell’ac-
politica
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«Dobbiamo intercettare di elettori delusi dal governo Berlusconi»
«I contenuti vengono prima delle alleanze» «È sbagliato strizzare l’occhio agli altri senza aver prima definito i nostri temi forti»: parla Enrico Morando di Francesco Capozza
cordo tra i due partiti anche tutto quanto oggi è a sinistra dei democratici che, nel frattempo, si sarà organizzato in un cartello elettorale unitario sotto la leadership di Vendola, con l’eccezione di un Di Pietro indebolito dal suo autonomismo e, così, più facile da inglobare.
Questa la tattica dei tre forni (Casini, Vendola, Di Pietro) del Pd. Bersani la predilige alle scelte di campo che, invece, più sensatamente molti lo invitano a fare. L’idea che sia sufficiente mettere insieme tutto quello
ta da alcuno. Proprio per rompere i piani del patto di consultazione tra Bersani e Vendola, Di Pietro toccherà la corda viva di quella ideologia pacifista tanto cara alla sinistra italiana.
Allo scopo di scrivere una commedia in cui il servo Truffaldino riusciva a servire simultaneamente due padroni diversi senza farsi scoprire, ci volle nel ’700 tutto il genio di Goldoni. Bersani dovrà fare di meglio per condurre fino alla fine al sua politica dei tre forni, sperando davvero che la maggio-
Franceschini, Fassino e Rosy Bindi appoggiano la “politica dei tre forni”; mentre D’Alema e Letta vorrebbero rompere con gli antagonisti. E così vince l’immobilismo che non sta con Berlusconi per battere Berlusconi, per quanto appaia più un modello aritmetico che politico, piace anche ad altri dirigenti democratici. Franceschini, Fassino e Rosy Bindi sono oggi i più convinti sostenitori di questa opzione. Diversamente, D’Alema e Letta vedrebbero meglio un’alleanza con Futuro e libertà e Udc, facendo diga a sinistra. Il dibattito di ieri al Senato sull’Afghanistan, che ha visto un’Idv scatenata contro Governo e Pd alla ricerca di un ritiro immediato dei nostri 4mila militari, conferma le preoccupazioni di D’Alema e Letta. Di Pietro ha deciso di non lasciarsi sfuggire la possibilità di marcare l’opzione pacifista, che in Parlamento non è oggi rappresenta-
ranza di governo imploda e si vada alle elezioni politiche entro la prossima primavera. Tocca tenere alta la tensione, per fare in modo che i democratici siano pronti, quando il governo imploderà su se stesso, a scattare verso la vittoria con la loro grande alleanza costituzionale. Il Pd sembra oggi come uno di quegli atleti che vengono riempiti di anabolizzanti per far crescere i muscoli a dismisura, in previsione del voto anticipato. È chiaro, però, che se le elezioni non dovessero venire, l’atleta-Pd potrebbe rischiare il collasso, non avendo l’occasione di sfogare le energie accumulate nella gara elettorale. Un pericolo non da poco, che tuttavia al Nazareno pare essere parecchio sottovalutato.
ROMA. Enrico Morando, senatore, esperto di politiche del lavoro, è tra quei 75 parlamentari che hanno sottoscritto il documento proposto da Walter Veltroni e che, com’è noto, punta al riconoscimento di una solida minoranza interna diversa da quella uscita dall’ultimo congresso. Una minoranza che certamente riconosce in Bersani il legittimo segretario politico, ma che sulla sua politica delle alleanze nutre qualche perplessità. Senatore Morando, nel suo partito c’è un gran parlare di alleanze future. Letta apre all’Udc di Casini ma poi Bersani incontra a pranzo Nichi Vendola, cosciente del fatto che Casini ha più di una riserva su un’alleanza di centrosinistra che comprenda anche la sinistra più radicale. Che succede? Innanzi tutto io resto dell’opinione che quello delle alleanze non dovrebbe essere il problema centrale all’interno del Partito democratico. Il vero problema è la conquista del consenso di quell’ampia fetta di elettorato deluso dalla politica del governo e di Berlusconi. Dal 2008 ad oggi ci sono migliaia, milioni di elettori del centrodestra che oggi probabilmente non rivoterebbero quella santa alleanza Pdl-Lega. Ecco, il nostro primo punto all’ordine del giorno dovrebbe essere conquistare quei delusi. Non mi dica che adesso anche lei mi snocciola i sondaggi? I sondaggi sulle intenzioni di voto lasciano il tempo che trovano. Però mi ha interessato molto l’ultimo sondaggio di Renato Mannheimer pubblicato dal Corriere della sera pochi giorni fa. Un sondaggio motivazionale, quindi molto più interessante di quelli sulla virtuale intenzione di voto. Il risultato è molto importante: la credibilità del governo è in caduta libera e coloro che non si sbilanciano nel dire quale partito voterebbero, i cosiddetti “incerti”per intenderci, solo il 67% tra coloro che si definiscono delusi. Un bacino elettorale a cui il Pd deve guardare cercando al proprio interno una soluzione alle risposte che il governo non è riuscito a dare in questi due anni e mezzo. Non crede, però, che un’alleanza con Di Pietro e Vendola sia l’arma peggiore per conquistare quegli scontenti di centrodestra? Infatti io credo che il primo passo sia
un vero e proprio rassemblement all’interno del nostro partito. Che dev’essere il perno centrale del centrosinistra. Poi, francamente, sono ancora scosso dalle parole che ho sentito pronunciare stamattina (ieri, ndr) alla Camera nel dibattito sull’Afganistan dagli esponenti dell’Italia dei valori. Anche sulla politica estera io penso che dobbiamo essere autosufficienti. Che intende per autosufficienza? Come lei sa io sono un convinto fautore del bipolarismo. In quest’accezione il Pd dev’essere la forza di traino, centrale, della sinistra italiana. Una volta raggiunto quest’obiettivo – che ancora è lontano – saranno gli altri a doverci in un certo senso rincorrere. Quindi, se capisco bene, prima dovreste costruire una forza solida e di alternativa a questo governo e solo poi discutere delle alleanze, senza fare la corte a nessuno? Esattamente. Prima costruiamo un’alternativa a Berlusconi e poi vediamo chi ci sta. Ovviamente senza corteggiamenti. Quindi anche l’Udc dovrebbe, come dire…inseguirvi? Con l’Udc abbiamo senz’altro molti punti in comune ma non possiamo nascondere che su altri temi siamo assai distanti. Cito, tanto per fare un esempio, la nostra vocazione maggioritaria e bipolare che non converge affatto con l’idea delle alleanze variabili dei centristi. Ma con Casini si può senza dubbio fare un discorso più ampio, come quello delle riforme. Ecco, le riforme, lei crede nella bontà del progetto di un esecutivo di transizione per farle? Io sono dell’opinione che un governo tecnico che abbia come unico punto in programma la riforma elettorale sia un buon progetto. Con delle precisazioni, però. Sono convintissimo che l’attuale sistema, il cosiddetto Porcellum, vada riformato e vada ridata agli elettori la possibilità di scegliersi il proprio deputato o il proprio senatore, ma sono altrettanto convinto che si debba rimanere nell’ambito di un sistema che individui, già nella scheda, il leader che andrà a presiedere il governo in caso di vittoria. In politichese, io sono convinto che la migliore soluzione per il Paese sarebbe un sistema uninominale, maggioritario, magari a doppio turno. Che ne pensa del Nuovo Ulivo evocato da Bersani? Per me il nuovo Ulivo è il Pd. Cerchiamo di renderlo credibile e affidabile e di dare agli italiani un progetto serio di alternativa a Berlusconi. In un’ottica, come sempre, bipolare. Bipolarismo: fumo negli occhi per chi aspira a costruire il cosiddetto “terzo polo”… Continuo ad essere convinto che terze forze alternative al centrodestra e al centrosinistra non siano di aiuto a nessuno. Ben venga il dibattito con chi pur non stando con noi si oppone a Berlusconi, ma non credo che candidarsi con l’intento di sparigliare i due maggiori partiti sia un progetto vincente.
panorama
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ragioni&torti di Giancristiano Desiderio
Benvenuti al Sud di un’Italia che non c’è l Sud va di moda: o per parlarne male e creare un partito, come ha fatto la Lega; o per parlarne bene e ipotizzare un partito del meridione; o per andare al cinema e vedere il film Benvenuti al Sud con i simpatici Claudio Bisio e Alessandro Siani. Quest’ultimo caso, in particolare, suscita entusiasmo e persino un pregiudizio favorevole da quando Beppe Severgnini ha osservato che è una pellicola che racconta la riconciliazione tra Nord e Sud. E se invece il film andasse molto bene al botteghino solo perché Bisio è il volto simbolo di un programma di grande successo come Zelig? E se la ragione del successo del film di Luca Miniero fosse semplicemente da ricercarsi in una buona operazione di pubblicità e nel favore che i film che discendono direttamente dalla commedia all’italiana incontrano nel pubblico? Insomma, se le ragioni fossero di costume e non politiche?
I
Se ci vogliamo raccontare la favola bella di un Paese unito in cui le differenze sono ragionevolmente comprese all’interno della nazione e dello Stato che lo rappresenta e amministra possiamo anche farlo. Resta il fatto, però, che è una favola perché la realtà sociale e politica dell’Italia che festeggia a grande fatica i centocinquanta anni dell’Unità è incerta se non divisa. E la dis-unità d’Italia è caricata tutta o quasi sulle spalle del Mezzogiorno e dei meridionali. Se guardiamo l’Italia con gli occhi di Benevenuti al Sud operiamo una falsificazione: ci raccontiamo un Paese diverso da com’è. Che lo faccia un film va bene perché per sua essenza una pellicola cinematografica è una finzione, ma che lo faccia anche la critica va male perché per sua natura la critica distingue tra fantasia e realtà, finzione e verità. L’Italia che festeggia l’anniversario dell’unificazione oscillando tra fastidio e retorica è vittima di due pregiudizi: uno settentrionale e uno meridionale. Quello settentrionale è rappresentato dalla Lega che ha imposto alla politica la via del federalismo come fine definitiva della “questione meridionale”: i soldi restino lì dove sono prodotti. Quello meridionale manca di una rappresentanza ufficiale ma è diffuso in modo trasversale in politica e nella società: il Sud ha pagato molto in termini umani ed è stato sfruttato, quindi va risarcito. In fondo, tutto il dibattito sul federalismo e la sua attuazione - il nodo dei costi standard - è la traduzione pratica di questa divisione tra il Nord attivo e produttivo e il Sud passivo e sfruttato. Se le cose non stessero così e se, soprattutto, la rappresentazione politica non passasse attraverso questa sorta di “linea gotica” della contrapposizione tra Nord e Sud il federalismo, oltre ad essere inutile, sarebbe stato il frutto di un parto indolore. Benevenuti al Sud nell’interpretazione che ne ha fatto Severgnini ci racconta la storia di una riconciliazione impossibile perché basata su inesistenti presupposti: il Sud migliore di quanto non sia, il Nord più disponibile di quanto non sia.
Una nuova task-force per battere l’alcolismo Nasce un’associazione delle strutture di pronto intervento di Federico Romano possibile una strategia efficace di lotta all’alcolismo in Italia? La domanda non deve apparire oziosa; il rischio infatti è che lo scenario «sano» della produzione viti-vinicola e del «buon bere» italiano impedisca di vedere gli spettri dell’alco-dipendenza che nel nostro Paese ci sono.
È
Qualche dato è utile per inquadrare il problema. Il 9,4% della popolazione in Italia consuma quotidianamente alcol in quantità non moderate e il 15,9%, pari a più di nove milioni di persone considerate a rischio, non rispetta le indicazioni a tutela della salute. L’età media tra i bevitori giovani è di circa 12 anni. Certo, nei confronti dell’Europa, l’Italia presenta una minore prevalenza del binge drinking, l’abuso di alcolico fuori pasto, ma oltre un italiano su quattro, il doppio della media europea, beve quotidianamente. Sono due modelli opposti: l’ubriacatura occasionale, in genere settimanale, tipica della società anglosassone e l’assunzione giornaliera, magari durante o a margine del pasto oltre le misure indicate per la tavola nei paesi euro-mediterranei. Il risultato è analogo ma gli atteggiamenti cambiano. E, paradossalmente, diviene più facile prendere coscienza della problematica quando si esprime con exploit eclatanti che non laddove viene celata dalle mura domestiche, dalla routine. La valutazione è emersa con chiarezza durante le due giornate di studio svoltesi recentemente a Senigallia su «La Residenzialità alcologica: creatività nella cura e riabilitazione», a cura dell’Associazione Corral (Coordinamento delle riabilitazioni residenziali alcologiche) e della Casa di Cura Villa Silvia, con il patrocinio della Regione Marche). La sostanziale totalità dei pazienti in trattamento residenziale proviene da una situazione di abuso o dipendenza, la cui durata è nel 59,5% dei casi superiore ai 10 anni.
42,8% dei casi consistono in cirrosi ed epatiti. Questo significa che persone con situazioni cliniche devastanti, problematiche sociali e psicosi in atto riescono a «resistere» anche un decennio prima di ammettere la necessità di un aiuto. E che intorno a loro non esiste un contesto privato o pubblico sufficientemente deciso per accompagnarli al percorso riabilitativo. La situazione dell’alcolista «pubblico» che si ubriaca fuori di casa, ostentando la sua condizione, finisce per essere collocata nel binario riabilitativo con più facilità. Negli Stati Uniti, invece, le «rehab» sono un fenomeno di costume, soprattutto dopo film come 28 giorni e dopo che Amy Winehouse, cantante con gravi problemi di alcolismo, ha dedicato loro una canzone autobiografica. Le star dello show biz che si fanno ricoverare spesso per dipendenza, l’ultima è stata nei giorni scorsi l’attrice appena 24enne Lindsay Lohan, finendo per contribuire alla conoscenza di queste strutture e per indicare anche al bevitore patologico «normale» la possibilità di rivolgersi loro. Al punto che, come nel caso della Lohan, si sospetta che i ricoveri vengano pubblicizzati per «ripulire» l’immagine del personaggio, oltre che per ristabilire il suo equilibrio psico-fisico.
È sempre più difficile combattere luoghi comuni e quei miti pop che inducono all’eccesso dei consumi
Per il 30,1% tale problematica si associa ad altre dipendenze o comportamenti patologici, il 50% dei malati presenta una ‘doppia diagnosi’ di dipendenza e problematiche psichiche. Due terzi dei soggetti presentano patologie fisiche conclamate, che nel
In Italia, come si diceva, queste strutture terapeutiche a “regime breve” esistono ma il recupero viene identificato o con i Serd (servizi pubblici ambulatoriali, utili solo come primo intervento) o con le comunità di recupero, dove però i percorsi durano almeno un anno. Per chiedere un riconoscimento adeguato della loro utilità sociale, le “rehab” italiane si sono ora riunite in un’associazione, il Corral, appunto. «Il reparto alcologico deve sempre essere considerato un nodo dell’intervento di rete», spiega infatti Vincenzo Aliotta, Direttore generale della Casa di Cura Villa Silvia, «e quindi solo una parte di un progetto più lungo e complesso. L’alcolismo è una patologia della motivazione e della scelta, non un semplice vizio, e per questo non esiste un intervento risolutore ma una sequenza di interventi sinergici a lungo termine». Il punto di partenza, però, non può che essere l’ammissione del problema.
panorama
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Statistiche. La crisi pesa molto sulle famiglie: la soglia di «fragilità economica» sale a 1007 euro al mese in due
E l’Italia si scoprì povera
La Caritas: «Otto milioni in miseria». Eppure aumenta il gettito Iva ROMA.
Nell’Italia dai tanti campanili può anche capitare che crescano contemporaneamente il numero dei poveri e il livello dei consumi. Secondo la Caritas il numero di persone che guardano alla quarta settimana con terrore è ormai salito a quota 8,3 milioni. E guai a dire, come fa l’Istat, che il fenomeno invece è in linea con l’anno precedente, perché si cadrebbe in «un’illusione ottica, visto che tutti stanno peggio». Sempre ieri il ministero del Tesoro ha comunicato che all’interno dell’ennesimo calo del gettito (-0,8 per cento che invece Bankitalia quantifica in 2,6 per cento) si registra nei primi 8 mesi dell’anno un’importante crescita dell’Iva sui consumi interni (+0,7 per cento) in linea con le rilevazioni sulle vendite al dettaglio.
Nel merito ci sono due facce di uno stesso Paese difficilmente ricomponibili. Nel metodo c’è da chiedersi, come fa l’economista Giacomo Vaciago, «da quando Caritas si è messa a fare statistiche. A me risultano importanti attività di assistenza ai poveri, che però possono fornire uno specchio di società significativo, non certamente un campione scientificamente definito. Non è un istituto che rileva i fenomeni, li risolve». Nel decimo Rapporto sulla povertà e l’esclusione sociale in Italia che la Caritas ha presentato ieri – e che non a caso ha intitolato “In caduta libera”– si punta a ribaltare gli annunci (del governo) e le statiche (dell’Istat), secondo i quali l’impatto della crisi in Italia sareb-
di Francesco Pacifico
re all’Istat che «la linea della povertà relativa si è abbassata, passando da 999,67 euro del 2008 a 983,01 euro del 2009 per un nucleo di due persone. Se però aggiornassimo la linea di povertà del 2008 sulla base della variazione dei prezzi tra il 2008 e il 2009, il valore di riferimento non calerebbe, ma al contrario salirebbe a 1.007,67 euro». Da qui, quindi, la scelta di allargare la fascia della popolazione, con «560 mila persone da sommare a quelle già considerate dall’Istat (cioè 7 milioni e 810mila poveri) con un
Nel 2010 si acuiscono le disuguaglianze sociali. Monsignor Crociata (Cei): «L’impoverimento tocca anche le aspettative e le risorse culturali» be stato meno pervasivo. Sul primo versante monsignor Giuseppe Benvegnù-Pasini, presidente della Fondazione Zancan che ha collaborato alla stesura del volume, ha richiamato l’esecutivo a «un piano organico di contrasto alla povertà e di prevenzione, che coinvolga le varie politiche del lavoro, della formazione professionale, della casa, del fisco, della sanità, dell’assistenza. Perché questo obiettivo finora è stato trascurato». Sui numeri, la Caritas fa nota-
risultato ben più amaro rispetto ai dati ufficiali: sarebbero 8 milioni e 370mila i poveri nel 2009 (+3,7 per cento)». L’ente, poi, sottolinea che «crescono del 30 per cento i nuovi utenti che si affiancano» ai centri Caritas. Tra le quali non mancano «vecchie conoscenze», che si ripresentano «anche dopo cinque o sei anni dall’ultima visita al Centro di ascolto». Se è facile ipotizzare che la crisi abbia peggiorato le condizioni di un
Paese che di fatto non cresce da dieci anni (e che soltanto nel 2014 recupererà quanto perso nell’ultimo biennio), c’è il rischio di confondere povertà con impoverimento. Al riguardo, per capire bene il fenomeno, Giacomo Vaciago nota che «bisogna ricordare che alla Caritas si rivolgono per due terzi soprattutto gli stranieri. Con la conseguenza che i nuovi poveri hanno tre strade prima di rivolgere a questa mensa: la cassa integrazione, quando c’è, i risparmi e la famiglia. La categoria più colpita, i precari, da quando hanno perso il lavoro si
sono fatti mantenere dai genitori o vivono grazie alle pensioni dei nonni. Gli immigrati, invece, da noi non hanno nessuno che li aiuti». Nel 2009 l’indebitamento medio delle famiglie ha sfiorato i 16mila euro, circa 800 in più rispetto all’anno precedente, ma comunque il 60 per cento di quanto registrato all’estero. Il livello di risparmio registra comunque una propensione alta, visto che nei primi tre mesi di quest’anno ha raggiunto quota 13,4, in calo dell’1,6 punti rispetto allo stesso periodo del 2009. E se il reddito disponibile lordo delle famiglie è aumentato tra aprile e giugno dello
0,8 per cento rispetto a un anno fa, il potere d’acquisto ha subito una flessione dello 0,7. Il disagio cresce, ma da qui a parlare di profonda povertà (che secondo l’Istat riguarda il 4,7 per cento della popolazione) ce ne corre. Ma queste tendenze sono indispensabili per capire su quali fasce si è scaricata la crisi. Chi paga il prezzo per un debito pubblico arrivato ad agosto, secondo Bankitalia, alla cifra record di 1.843.006 miliardi di euro. E che si traduce soprattutto in minore spesa sociale e minori risorse per la formazione e il ricollocamento dei lavoratori. Innanzitutto ci sono gli immigrati, che difficilmente riescono a beneficiare delle politiche inclusive. Il rapporto “In caduta libera” sottolinea, non a caso, che il 30,1 per cento di quelli che si presentano ai centri di ascolto, hanno come principale problema quello di trovare un lavoro. E parliamo di figure fondamentali in un sistema come il nostro che deve ampliare il peso dei servizi. E poi se per povertà si intende crollo patrimoniale, inteso come perdita dello stipendio o mancanza di una casa di proprietà, allora non si può fare riferimento a quello che in un suo studio Confesercenti ha definito “un esercito di fantasmi”: due milioni di persone tra precari ai quali non è stato rinnovato il contratto, laureati e diplomati che devono rinviare l’ingresso nel mondo del lavoro, donne che sono costrette a fare le casalinghe.
Non a caso il segretario generale della Cei, monsignor Mariano Crociata, ha sintetizzato quanto sta accadendo parlando «dell’aumento delle disuguaglianze e della sensazione di un impoverimento generalizzato, non solo dal punto di vista del reddito, ma anche delle aspettative e delle risorse culturali». In quest’ottica oggi, all’apertura della Settimana sociale della Chiesa, la prima richiesta sarà quella di un piano straordinario per lo sviluppo. Perché», chiosa Giacomo Vaciago, «il problema vero è che da 15 anni a questa parte gli stipendi degli italiani sono più poveri. E se il Paese torna a crescere si possono superare le disuguaglianze che ci frenano e che colpiscono soprattutto chi ha meno tutele».
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altra metà del cielo alla conquista del potere vive condizioni opposte. Dipende se è di destra o di sinistra. L’onda rosa si è bloccata e impantanata a gauche. Sarà che il Pd non ha potere, ma di posti importanti occupati da donne ce ne sono ben pochi. I volti noti sempre gli stessi: Livia Turco, Anna Finocchiaro, Giovanna Melandri, Debora Serracchiani (la più recente). E l’immarcescibile Emma Bonino. A livello locale, il piatto piange: l’unica poltrona importante al femminile è quella della Presidente della Regione Umbria, Katiuscia Marini. Per il resto, nulla di buono. A destra invece, tutto è in movimento. Le “amazzoni di Berlusconi” sono in piena ascesa. Ci sono i volti arcinoti delle ministre. Quello ormai onnipresente di Daniela Santanchè. E resta sempre in sella, come sindaco di Milano, la Moratti. E poi c’è una nuova leva: giovani e giovanissime attive e aggressive. Sono in genere piuttosto attraenti e lavorano sodo. Tutte molto legate al leader, quasi tutte sue creature. Adesso una di loro potrebbe fare il grande balzo: ritrovarsi coordinatrice del Pdl. Il cavaliere infatti ha lanciato palle di cannone contro il vertice attuale del partito e sembra intenzionato a puntare su qualcuna di queste giovani signore della politica. Si parla con insistenza di Daniela Santanchè. Ma da Giorgia Meloni alla Gelmini, tutte le ministre potrebbero essere candidabili. Per non dire della toscana Deborah Bergamini, una quarantenne emergente e grintosa. Quando a sinistra cresceva l’onda rosa le donne tentavano la scala-
L’
il paginone citorio. Così oggi: il Pdl non brilla per le percentuali di elette in Parlamento, ma adesso potrebbe mettere al vertice del partito proprio una donna. Letizia Paolozzi, femminista storica, riconosce: «Giudico positivo il fatto che una donna arrivi alla leadership di un partito politico. Spero che sia una persona capace e assennata – ne vedo alcune molto agitate e carrieriste – rispettosa di se stessa e in grado di pretendere rispetto. Se fosse così, allora sarebbe un passo avanti». Paolozzi vede una forte quota di misoginia sia a destra che a sinistra, dove «ce n’è addirittura di più». Dice: «A destra c’è una misoginia che vede la donna solo per le misure del suo corpo. Del resto il premier si fà bello delle sue frequentazioni con le escort. E che dire delle sue battute sulla donne? Ma anche la sinistra non scherza. La sua è una sorta di “misoginia paritaria”, pur di infilare donne nelle liste, di arrivare al fatidico 50 per cento si mettono le mogli,le cognate, le suocere. Così alla bisogna queste fanno un passo indietro. Si riempono le liste – quello che dico è accaduto davvero – ma non si scalfisce il potere degli uomini. Credo fra l’altro che le donne ad una politica fatta così come è fatta oggi, non siano più interessate». Tutto cambi purchè nulla cambi, dunque, eppure in Italia c’è davvero bisogno di una rappresentanza femminile più numerosa e qualificata: «Forse per un certo periodo, pur di rimuovere gli ostacoli, sarebbe giusto anche accettare le quote rosa- concede Paolozzi che ne è stata una storica avversaria – per poi toglierle e scegliere restituendo final-
A destra niente movimento, niente rivendicazione collettiva, niente “quote rosa”: si combatte individualmente per arrivare ta, a partire da un movimento femminile e femminista che aveva radici nella società. Entrare in politica per cambiarla: questo era il loro motto. Si mettevano in “rete”per conquistare più spazio. Questo non vuol dire, naturalmente, che non esistessero conflitti fra di loro. Ma la poltrona si raggiungeva al grido di “più spazio alle donne”. Era insomma una lotta di “genere”. A destra è tutto diverso: niente movimento, niente rivendicazione collettiva dell’altra metà del cielo, niente “quote rosa”.
A destra si combatte individualmente per arrivare. La prima a toccare il traguardo fu Irene Pivetti. Quando diventò presidente della Camera era della Lega. Il suo partito e quello di Berlusconi avevano candidato e eletto molte meno parlamentari della sinistra. Ma misero una donna sullo scranno più alto di Monte-
A sinistra i volti noti sono sempre gli stessi. A via dell’Um
Le amazzon La guerra per la gestione del Pdl si combatte tra donne: con quali regole? Conta più primeggiare o stare vicine al capo? di Gabriella Mecucci
mente alla donna tutto quello che ha e che non gli viene riconosciuto: capacità, dignità, intelligenza». Paolozzi condivide il fatto che a destra si preferisce puntare sulle individualità e non è questo che la scandalizza: «Se diventa leader del Pdl una donna che viene scelta per chi è e per quello che ha fatto,meglio così. Credo però che le donne spesso siano anche complici delle operazioni di promozione che vengono realizzate. Si sceglie sulla base delle misure del corpo? Non scorgo però una grande protesta, non sento le critiche, non vedo i rifiuti delle donne. Troppo
spesso si aderisce alla schema. Ci si adegua. Anzi, si cerca di utilizzarlo per puntare alla promozione».
Angela Napoli, deputata del Fli ed ex Pdl su un punto almeno è d’accordo con Paolozzi: «Mettono una donna ai vertici? Il problema è chi scelgono e come la scelgono. Bisogna vedere se il criterio usato è quello meritocratico o se si decide usando altri discutibili criteri». Singolare scambio di cortesie, se la storica femminista di sinistra non esita a riconoscere nella sua parte una quota di misoginia, addirittura più alta di quella che scorge a destra, la Napoli contraccambia con un giudizio più sfavorevole
alla sua parte: «Al centro e a sinistra c’è più attenzione alle problematiche femminile di quanta ce ne sia nella nostra area politica. Anche per questo me ne sono andata dal Popolo della Libertà e ho scelto Fini. Per trovare una maggiore sensibilità verso i problemi e anche verso la cultura di cui sono portatrici le donne». Napoli è convinta comunque che nel Pdl non mancano certo donne capaci e in grado di far bene la leader di quel partito, ma teme che «la scelta non cadrà su una di queste».Teme che l’intera operazione «assuma i toni più dello spettacolo, della propaganda, dell’immagine che quella di una decisione seria e motivata».
il paginone
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Confessioni di un berlusconiano fiorentino della prima ora
Quei toscani leninisti in casa del Cavaliere «Verdini ha creato un’atmosfera da gulag», dice Tortoli, «ma il presidente non c’entra» di Errico Novi
ROMA. Solita storia. Il partito di Berlusconi, dicono, è il più leninista di tutti. Scherzi del destino. O forse anche un pizzico di scientifica determinazione. Perché fateci caso, ma nel Pdl del Cavaliere oggi comanda un toscano. Anzi un toscanaccio della Toscana rossa. Sì, Denis Verdini è un banchiere, ma che c’entra? Sempre da quella tradizione, da quella specie di enclave appenninica del socialismo reale, proviene. E come si fa a dire che tutto succede per caso? Che il Cavaliere non se l’è cercata? Come si fa a non sospettare che in fondo proprio a Berlusconi faccia comodo un capo-partito ruvido, a volte persino brutale nel modo di trattare i sottoposti, capace di condurre la macchina del Pdl con inflessibili metodi leninisti? C’è chi non sospetta affatto e anzi smentisce tutto il teorema. Roberto Tortoli, deputato Pdl e soprattutto berlusconiano della primissima ora, di quelli che nel ’94 sono passati da Publitalia al partito solo per fede nel capo, appunto non sospetta. «È tutta una roba casuale», dice. Esempi: Verdini, toscano. Bondi, altro coordinatore nazionale, toscano pure lui, Lei,Tortoli, è stato un fondatore. Oggi un’altra toscana come Deborah Bergamini, già assistente del premier, guida la fronda dei parlamentari in polemica con Verdini. «Ah, s’è per questo c’è anche Marcello Pera». Un altro che, come Tortoli,Verdini tiene fuori dalla stanza dei bottoni. «E poi c’era Niccolò Querci: prima della Bergamini il segretario particolare del presidente era lui».
Bene: e tutti questi toscani che c’entrano con il prototipo del berlusconiano in blazer blu, dall’inconfondibile tic efficientista brianzolo? «E soprattutto», ci scavalca a sinistra Tortoli, «come si spiega che nonostante tutti questi toscani in cima alla piramide del partito, qui dalle nostre parti i risultati non arrivano mai? Se molti qui sono a disagio è anche per le sconfitte». Ma la leva del Granducato, forse, al Cavaliere non serve per espugnare piazza della Signoria, ma proprio per immettere nel partito una robusta dose di centralismo democratico. O no? «Vede, io come il presidente sono sempre stato per il modello“comitato elettorale”. Ora però ognuno si fa il suo a livello locale, vedi Micciché in Sicilia». Allora, «se si deve rimodulare tutto verso lo schema del partito tradizionale ci vogliono le regole». Perché, adesso non ci sono? «No, ci sono i padroncini, i ras locali, che guardano con sospetto chi si attiva per fare politica». Insomma, l’uomo di Publitalia oggi chiede «chiarezza sul territorio».
È dalla regione rossa che è arrivato il virus del centralismo democratico: «Ma l’ex Pci Bondi non è come Denis»
miltà cresce una nuova leva: giovani, attive e aggressive
oni di Silvio «Di donne comunque se ne parla molto e molto si parla del loro corpo, ma – osserva Paolozzi – appena questo entra in rotta di collisione con una scelta politica, allora si calpesta. Mi domando: quando si sceglie di innalzare l’età pensionabile delle donne, nessuno si chiede se il fatto che abbiano fatto figli, che abbiano lavorato pesantemente all’interno della famiglia in ruoli di assistenza, possa aver reso il
Ci sono le “vallette” del capo, ma anche persone serie e capaci. Una leader intelligente e rispettosa di sé sarebbe un bel colpo. Per tutte. loro corpo più fragile? Più bisognoso di un riposo anticipato? Il corpo conta solo per le tette e i fianchi?» Per Angela Napoli i problemi della condizione femminile debbono «essere affrontati con urgenza». E fra questi ne indica tre: «La reale libertà di scelta, molto spesso infatti, l’altra metà del cielo prende decisioni fortemente condizionate dal contesto, la conoscenza della
situazione autentica delle donne in Italia e l’occupazione».
La promozione, quote o no, di una presenza femminile adeguata nella politica, è questione all’ordine del giorno: ne va della natura equlibrata o non della rappresentanza. E in democrazia la rappresentanza conta parecchio. Ma non è solo questo il problema. Come è possibile rinnovare la politica se non attraverso soggetti nuovi, capaci di portarvi culture nuove, atteggiamenti nuovi? Le donne potrebbero garantire questa spinta. In passato, almeno in parte, l’hanno garantita. La famosa solidarietà femminile batte il passo, lo scontro per il potere fra le donne da una parte si è “mascolinizzato”. E dall’altra, ha preso una singolare e poco commendevole piegatura femminile. Per un meccanismo perverso, la donna che ha lottato per dichiararsi padrona del proprio corpo, una volta avvenuta la riappropriazione ha iniziato ad usarlo per sacrificarlo sull’altare della carriera. Fra le “amazzoni di Berlusconi” ce n’è però di ogni tipo: ci sono le vallette del capo, ma anche le persone serie e capaci. Una donna, intelligente, dignitosa e rispettosa di sè, che diventasse leader del Pdl, sarebbe un bel colpo. Per tutte.
E dunque basta con il leninismo. «In Toscana si è toccato il fondo perché qui anche la legge elettorale regionale prevede le liste bloccate. A livello nazionale il filtro di Berlusconi è la salvezza, ma qui l’aria è pesante. I candidati sono scelti da chi dirige il partito», cioè da Verdini, «il quale vuole anche che democraticamente si decida secondo le sue indicazioni». Lo vede allora che i toscani hanno importato il centralismo democratico nel Pdl? «Uno dei miei amici sul territorio appena trasmigrato in Fli sa cosa mi ha detto quando ho tentato di trattenerlo? “Tra il gulag e la libertà cosa vuoi che scelga?”». Altra conferma, Tortoli: il Pdl è l’arcipelago Gulag, altro che casualità. «Non è una cosa voluta dal presidente». Cioè a Berlusconi non farebbe comodo il partito-monolite? «No, perché poi le grane finiscono a lui, come in questi giorni di processioni infinite a Palazzo Grazioli. E poi, non generalizziamo: Bondi è un ex comunista ma non è leninista. Verdini probabilmente è leninista. E sa, così è più facile fare politica». Irriducibili bolscevichi, capaci di portare la rivoluzione nel tempio del Cavaliere.
mondo
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Medioriente. Il viaggio criticato duramente da Israele: «Una provocazione che mette in crisi il processo di pace»
L’Iran si compra il Libano Hezbollah accoglie con tutti gli onori Ahmadinejad nella prima visita a Beirut di Antonio Picasso l presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, è arrivato ieri in Libano per una visita ufficiale, la prima nel Paese dei cedri dal suo avvento al potere. Il corteo presidenziale ha attraversato due ali di folla, distribuite dall’aeroporto della capitale fino al centro della città. L’evento era atteso e per questo è stato preparato con cura dalle istituzioni libanesi, in particolare da Hezbollah, il quale vede nell’Iran la potenza di riferimento nella sua lotta contro Israele e per l’acquisizione del pieno potere. Tuttavia, così come Ahmadinejad è stato accolto sugli scudi a Beirut, dall’altra parte del confine, in Israele, la sua visita è stata criticata come un provocazione che rischia di compromettere il già tortuoso cammino per la pace in Medio Oriente.
I
La diplomazia israeliana, e con essa quella Usa, ha giudicato la presenza del leader iraniano in Libano come il segnale di una guerra imminente. A giudizio dei suoi avversari, Ahmadinejad, che nei prossimi giorni si incontrerà con il segretario del Partito di Dio, Hassan Nasrallah, avrebbe
compiuto una sorta di viaggio perlustrativo, per verificare la potenza di fuoco delle milizie sciite in vista di un loro prossimo impegno contro le Israeli defence forces (Idf).
«Il presidente iraniano avrebbe dovuto evitare di aizzare le tensioni nella fase più fragile dei negoziati per il processo di pace», si leggeva ieri in una nota del Dipartimento di Stato Usa.Alla propaganda di critica, non sono mancate le repliche altrettanto minacciose. «È necessario compattare il fronte della resistenza contro Israele e per rinforzare la causa palestinese», ha dichiarato lo stesso Ahmadinejad, incontrando la stampa in Libano. A onor del vero era scontato che fosse rispolverato l’adagio anti sionista, ormai fatto proprio da regime di Teheran. «La tenacia con la quale il popolo libanese ha resistito agli attacchi sionisti ci ha resi tutti orgogliosi nella regione. I libanesi sono simbolo di fierezza e libertà e sono stati capaci di cambiare i rapporti di forza e i piani del nemico», ha aggiunto. Va detto però che le cancellerie locali, in primis quella libanese
ma anche il governo di Damasco, temevano esternazioni ben peggiori. Non è chiaro, a questo proposito, quanto sia gradita la presenza di Ahmadinejad a Beirut. La stampa araba ieri parlava di un tentativo operato dal presidente siriano, Bashar el-Assad, di dissuadere il suo omologo a compiere questa visita.Tentativo che, stando così le cose, se c’è stato, è fallito miseramente.
Il Libano sta attraversando una fase di estrema delicatezza. Da una parte si teme che la coalizione di governo imploda per le divergenze interne tra il Movimento 14 marzo, di tendenza prevalentemente sunnita e guidato dall’attuale primo ministro, Saad Hariri, e l’alleanza sciita di Hezollah e Amal, ai quali si aggiungono i sostenitori dell’ex generale di Michel Aoun e i drusi di Walid Jumblatt. Il teatro della tenzone sarebbe la ripresa del dossier Hariri, l’inchiesta internazionale aperta per far luce sull’assassinio dell’ex premier, Rafiq Hariri appunto, morto in un attentato il 14 febbraio 2005. Finora le indagini non hanno portato ad alcun risultato concreto. Il timore, però, è
che vengano implicati alcuni esponenti del Partito di Dio oltre a membri dei servizi segreti siriani. Se così fosse, il Libano sarebbe di fronte a una nuova guerra civile. D’altro canto, il governo Hariri ha ormai quasi un anno di vita.
Il Dipartimento di Stato americano: «Il presidente iraniano avrebbe dovuto evitare di aizzare le tensioni nella fase più fragile dei negoziati». La replica: «Dobbiamo rafforzare il fronte filo-palestinese» Durante questi dodici mesi, le tensioni fra i singoli ministri e le fazioni in seno al parlamento non hanno frenato l’attività di governo. Il Libano, a quattro anni dall’ultimo conflitto che lo ha martoriato – quello combattuto fra Israele ed Hezbollah – ha imboccato la strada della ricostruzione economica e della ripresa. È tornato a essere la meta chic del turismo mediorientale, l’approdo di grandi capitali finanziari e di spe-
culazione industriale. Edilizia, turismo ed energia – idrocarburi e risorse idriche – rappresentano i comparti di maggiore interesse per gli investitori sauditi, ma anche per la Turchia e poche ma coraggiose compagnie europee, italiane e francesi soprattutto.
Osservando il Paese da questa prospettiva, la visita di Ahmadinejad assume tinte più complesse, che superano la semplice finalità della provocazione, com’è invece stato indicato da Israele e dagli Usa. Sarebbe approssimativo limitare i movimento dell’Iran in Medio Oriente esclusivamente con propositi bellici. È vero, a causa dello stato di isolamento diplomatico in cui versa il regime degli Ayatollah, si può facilmente pensare che la sua tattica sia quella di mantenere accese le fiammelle di tensione di impegnano i suoi nemici: nella Striscia di Gaza, in Iraq e appunto in Libano. Ma questo non basta. Ieri il presidente iraniano si è incontrato con il suo omologo libanese, Michel Suleiman. Nei prossimi giorni stringerà la mano ad Hariri, Nasrallah e infine allo speaker dell’Assemblea nazionale, lo sciita Nabih Berri. È interessante notare, tuttavia, che è stato con Suleiman che Ahmadinejad ha firmato una serie di accordi commerciali, 17 per l’esattezza, i quali prevedono un ulteriore consolidamento della partnership eco-
mondo
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«Un segnale pericoloso, contro Tel Aviv»
«Una dimostrazione di leadership» L’ex ambasciatore Usa alle Nazioni Unite, John Bolton, commenta il viaggio del dittatore di Osvaldo Baldacci ohn Bolton sulla situazione in Medio Oriente ha le idee chiare, e non è ottimista. Anche perché l’ex ambasciatore statunitense alle Nazioni Unite non fa mistero di avere ben poca fiducia nell’Amministrazione di Barack Obama e nella sua politica estera. E la trionfale visita del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad in Libano a partire da ieri non è certo un segnale che le posizioni della democrazia e dell’occidente stiano guadagnando posizioni.
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Nei prossimi giorni stringerà la mano ad Hariri, Nasrallah e infine allo speaker dell’Assemblea nazionale, lo sciita Nabih Berri. E firmerà almeno 17 accordi commerciali di partnership con il Paese dei cedri nomica Iran-Libano. In particolare, l’Iran si è offerto di contribuire alla ristrutturazione di due raffinerie libanesi, compiere investimenti nel settore idrico ed elettrico e di coprire il fabbisogno nazionale di gas naturale, che al momento è solo parzialmente assicurato dall’Egitto. La firma dei documenti è avvenuta ieri. In teoria, il Capo dello Stato libanese non avrebbe alcuna voce in capitolo nelle questioni prettamente esecutive. In questo modo Teheran ha scavalcato sia Hariri, in qualità di premier, sia Hezbollah, la cui dirigenza sperava di ricevere un riconoscimento speciale da parte del leader iraniano. Magari sognava che gli investimenti promessi si concentrassero unicamente in suo favore, invece di essere indirizzati alle istituzioni
pubbliche del Paese. La mossa di Ahmadinejad, al contrario, indica un elemento che né gli oppositori al regime né i suoi aficionado hanno messo in evidenza. L’attenzione è stata concentrata sull’eventualità di una guerra che l’Iran vorrebbe eventualmente combattere “per procura”, tramite Hezbollah e le frange oltranziste palestinesi, contro Israele. Teheran, al contrario, si guarda bene dal rischiare un’impresa tanto sconsiderata. La sua crisi economica si fa ogni giorno più endemica. Solo lunedì la moneta iraniana, il Rial, è stata svalutata del 30%. Le sanzioni Onu precludono ai capitali nazionali la necessaria circolazione sul mercato internazionale. Questo significa che, se il regime intende sopravvivere, conservare l’appoggio dell’opinione pubblica e soprattutto perseguire la sua strada verso il nucleare, ha bisogno di un lungo periodo di pace, durante il quale investire in quei settori e presso quei Paesi che non sono stati preclusi dall’embargo internazionale. Ahmadinejad è arrivato in Libano – Paese giustamente indicato come la potenziale sponda dell’Iran sul Mediterraneo – né con un mitra nascosto sotto la giacca, né con un ramoscello di ulivo in mano. Ha bensì piazzato sul tavolo del governo libanese una mazzetta di denaro contante. Con prepotenza e senza inibizioni.
La sua crisi economica si fa ogni giorno più endemica. Solo lunedì la moneta iraniana, il Rial, è stata svalutata del 30%. Le sanzioni Onu precludono ai capitali nazionali la necessaria circolazione sul mercato internazionale. Questo significa che, se il regime intende sopravvivere, conservare l’appoggio dell’opinione pubblica e soprattutto perseguire la sua strada verso il nucleare, ha bisogno di un lungo periodo di pace, durante il quale investire in quei settori e preche non sono stati preclusi dall’embargo internazionale
«Non mi sorprende la visita di Ahmadinejad – dice Bolton al telefono da Minneapolis – e neanche l’imponente accoglienza preparatagli dai sostenitori di Hezbollah. Lo scopo della visita è proprio quello, mostrare ancora una volta la stretta relazione tra il regime di Teheran e il movimento armato libanese, con vantaggi per entrambi, sia politici che militari. Ahmadinejad vuole mostrare a tutti simbolicamente e non solo simbolicamente la sua leadership». Bolton si riferisce al fatto che sia Hezbollah che Ahmadinejad si giovano del fatto di evidenziare che non sono isolati sul piano strategico, e allo stesso tempo sfruttano questa collaborazione e la reciproca legittimazione (ed esaltazione) per guadagnare consensi sul piano della politica interna. «La visita serve a mostrare la loro forza sul terreno, in più in relazione anche all’asse con la Siria ed Hamas. Ad esempio ad Ahmedinejad serve a mandare un messaggio chiaro e forte ad Israele: se Israele attaccasse gli impianti nucleari iraniani, non ci sarebbe solo la forte reazione iraniana, ma Teheran disporrebbe di alleati armati e agguerriti pronti a contrattaccare Israele dai territori immediatamente limitrofi». Proprio nei giorni scorsi il leader di Hezbollah Nasrallah ha detto a gran voce che l’arsenale missilistico del gruppo libanese si è ricostituito più forte che mai proprio grazie all’Iran. «Hezbollah è una forza politica ma soprattutto una forza militare: la visita del presidente iraniano li aiuta anche a intimidire il governo libane-
se per renderlo più docile alle richieste dei guerriglieri sciiti». In effetti il Libano è diviso sulla visita di Ahmadinejad, che però è stato accolto in pompa magna anche dal premier sunnita Hariri e dal presidente cristiano Suleiman, con i quali ha firmato 17 accordi economici. «Sì – commenta Bolton – ma è chiaro che le autorità del Libano sono costrette a una politica del buon viso a cattivo gioco, e devono giocare una politica di sopravvivenza. Inoltre il Libano tende ad essere una democrazia, che deve tener conto delle varie forze. Certo, in questo gioca il fatto che chi guarda agli Stati Uniti ed all’Europa forse si sente meno sostenuto di quanto lo sia chi guarda all’Iran». È possibile che venerdì ci sia un vertice trilaterale di Ahmedinejad e Suleiman col premier turco Erdogan: «Questo è un altro segnale che ci deve preoccupare molto, è un asse pericoloso, c’è il rischio che le spinte occidentali in Turchia siano vinte da quelle islamiche. Per la Turchia è prima di tutto una questione economica, ma a quella segue poi la politica. Anche qui sta a Washington e Bruxelles prendere iniziative adeguate ed essere vigili sugli sviluppi». In questo quadro si inseriscono le iniziative per il processo di pace in Medio Oriente. Chiediamo a Bolton che ne pensa, e lui è piuttosto chiaro: «L’amministrazione Obama sta facendo di tutto per ottenere un qualche risultato, su cui ha investito molta della sa credibilità, ma è sulla strada sbagliata. Non vedo nessuna realistica possibilità di soluzione all’orizzonte».
«L’amministrazione Obama ha investito molto nella regione, ma è sulla strada sbagliata»
La critica a Obama è diretta anche su un altro tema molto caldo in Italia in questi giorni, l’Afghanistan: «Il presidente Obama e il suo staff non hanno fatto un buon lavoro sull’Afghanistan, e non sembrano considerarlo una priorità. Non sono stati bravi neanche sul piano della comunicazione, neanche negli Stati Uniti sono riusciti a spiegare che cosa intendano realmente fare e hanno dato indicazioni confuse su ipotesi di exit strategy facendo pensare che sia opportuno un ritiro prossimo. Per questo non è sorprendente che su questa scia anche altri paesi Nato abbiano approfittato per seguire questa via di uscita, ma questo rafforza solo i talebani».
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pagina 16 • 14 ottobre 2010
Sud America. Hanno funzionato tutte le manovre di salvataggio a terra nel deserto di Atacam li ha partoriti una seconda volta. A metà pomeriggio di ieri, erano quindici ormai ad essere stati tratti in salvo. Quasi la metà dei dei 33 minatori prigionieri nella miniera cilena di San Josè. Il primo ad uscire all’esterno, alle 00.10 (ora locale) era stato Florencio Avalos, 31 anni. Con un paio di occhiali scuri e un elmetto in testa, ha abbracciato la moglie e il giovane figlio in lacrime, per poi salutare il presidente cileno Sebastian Pinera. Secondo in comando alla miniera al momento dell’incidente del 5 agosto, Avalos è stato scelto per uscire per primo, perché considerato il più adatto a fornire informazioni utili sui lunghi 69 giorni passati sotto terra e ad affrontare con calma eventuali problemi durante il percorso di risalita. Bloccato nel sottosuolo anche il fratello minore Renan. Poi il conto alla rovescia per tutti è continuato, circa uno ogni ora. Non basterà la giornata di oggi per vederli tutti liberi, fuori all’aria aperta, respirare di nuovo e abbracciare i propri cari. Il secondo ad uscire, è stato Mario Sepulveda, 39 anni. Lui faceva da presentatore ai video girati dai minatori. Era il legame con la superficie. «Non trattateci come star dello spettacolo, ma continuate a trattarci come Mario, il lavoratore, il minatore» ha detto pochi minuti dopo il primo respiro sotto un cielo terso e stellato. Mario scherzava con i soccorritori durante i 17 minuti del percorso della capsula che lo ha portato lungo un percorso di 622 metri. «Stavo con Dio e con il diavolo, però mi sono aggrappato alla mano di Dio e in nessun momento ho dubitato del fatto che Dio sarebbe venuto a salvarmi». Poi è venuto il turno dell’ex soldato Juan Il-
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Tornano alla luce i “mineros” cileni Sepulveda, il minatore “portavoce”: «Non chiamateci eroi. Siamo operai» di Pierre Chiartano
rella. Poi ancora Osam Arya e Jose Ojeda Vidal, 46 anni, portato immediatamente all’ospedale da campo per i controlli medici. Fu Ojeda, che soffre di diabete, a scrivere il primo messaggio con cui i minatori hanno dato il loro primo segnale di vita il 22 agosto: «Tutti i 33 sono salvi nel rifugio» si leggeva sul pezzo di carta che mina-
La Phoenix è di fabbricazione cinese
La capsula? Made in China La gru che solleva la capsula per portare alla salvezza i 33 minatori cileni? È fatta in Cina. Lo afferma un dispaccio della Xinhua di ieri, che con grande orgoglio afferma esservi un ingegnere cinese a manovrarla. I
Evo Morales è volato verso la miniera per accogliere e riportare in patria l’unico boliviano, il 23enne Carlos Manami lanes Palma, 52 anni e l’unico boliviano del gruppo, il 23enne Carlos Mamani, che farà rientro in patria sull’aereo del presidente Evo Morales, giunto sul posto per riportare a casa il minatore boliviano. Al suo rientro in Patria dovrebbe attenderlo anche un nuovo lavoro come promesso dal presidente Morales. Il quinto minatore tratto in salvo è il più giovane del gruppo, il 18enne Jimmy Sanchez, apparso in condizioni di salute peggiori degli altri e portato via su una ba-
tori erano riusciti ad attaccare alla sonda che stava scavando i primi tunnel nella loro ricerca dopo il crollo del 5 agosto. L’operazione per il salvataggio era iniziata la notte di martedì con l’arrivo di tre soccorritori in fondo al pozzo di salvataggio. Accolto da grida di entusiasmo Manuel Gonzales, il primo che li ha raggiunti con la speciale capsula Phoenix, costruita appositamente per l’operazione. I minatori l’aspettavano a torso nudo, con i soli calzoncini, un abbigliamento
media cinesi sono pieni di notizie sulle operazioni di soccorso, ma nessuno si pone domande sulla situazione delle miniere nel proprio Paese. Il maggior numero di incidenti (esplosioni, crolli, allagamenti,…) avviene in Cina nelle miniere di carbone. Per rispondere alla fame di energia responsabili governativi e pubblici
spingono ad uno sfruttamento intensivo, e per aumentare i profitti riducono le misure di sicurezza. Secondo uno studio, vi sono almeno 2900 morti all’anno nelle miniere di carbone: un morto per ogni milione di tonnellata di carbone estratto. Queste però sono cifre ufficiali. Fonti ufficiose dicono che le vittime per incidenti in miniera in Cina sono almeno 20mila l’anno, ma il numero reale è impossibile da certificare, dato che i proprietari, aiutati da persone del governo, insabbiano ogni incidente minerario. Ai morti in miniera andrebbero aggiunti coloro che muoiono di pneumoconiosi o silicosi (almeno 301mila all’anno, secondo il ministero della Sanità). Negli ultimi tre anni il governo ha approvato regolamenti sulla sicurezza nelle miniere, ma la loro applicazione è molto vaga. Grazie alla corruzione, governi locali e proprietari delle miniere riescono a evitare la chiusura, nascondendo spesso incidenti e morti.
adatto alla temperatura di 35 gradi che si registra sottoterra. Ma per uscire all’esterno hanno dovuto indossare abiti caldi per affrontare il freddo sottozero della notte nel deserto di Atacama. E mettersi occhiali scuri, anche se all’esterno era notte fonda. I 33 uomini sono inizialmente sopravvissuti dividendosi un boccone di tonno e un sorso di latte ogni 48 ore. In media hanno perso dieci chili di peso a testa, sia per le privazioni dei primi giorni, ma anche per l’esigenza di rimanere abbastanza magri da entrare nella stretta capsula costruita dalla marina cilena - 54 centimetri diametro e 4 metri di altezza - che li ha portati in superficie. All’interno della capsula si trovavano bombole di ossigeno, una linea di comunicazione con l’esterno e cinture speciali che monitorano i segni vitali dei minatori.
Prima del salvataggio è stata adottata una dieta liquida per evitare la nausea e ridurre i problemi con la pressione sanguigna. Almeno 1600 giornalisti di tutto il mondo arrivati a campo Esperanza per un evento mediatico globale. «In questa operazione di salvataggio noi cileni abbiamo mostrato il meglio del nostro Paese» ha affermato il presidente Sabastian Pinera che sta seguendo dalla miniera di San Josè il salvataggio dei minatori. «Questa è una notte bellissima che i cileni e l’intero mondo non dimenticheranno mai» ha aggiunto ancora il presidente che è stato tra i primi, dopo i familiari, ad abbracciare Florencio Avalos, il primo dei minatori ad uscire dalle viscere della terra. Pinera ha fatto poi riferimento al “magico numero 33”che ritorna in questa tragedia che a quanto pare è destinata ad un lieto fine: il numero dei minatori bloccati, ma anche la data del salvataggio, 13 ottobre 2010. Il presidente ha concluso ricordando i giorni immediatamente successivi al crollo, «quando non sapevamo se fossero vivi o morti, ci siamo impegnati a cercarli e abbiamo mantenuto la nostra promessa». «L’esempio di questi minatori deve rimanere con noi per sempre», ha aggiunto il presidente ringraziando Dio e le squadre di soccorso per aver portato a termine una missione di salvataggio che per difficoltà e ampiezza non ha precedenti nella storia. Una cosa che «rende orgogliosi tutti i cileni», ha aggiunto assicurando che il suo governo ora cercherà di varare misure di sicurezza maggiori nelle miniere.
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Definite ieri a Bruxelles le prime procedure per la transizione
La leader democratica attacca: «Tutta una buffonata»
Nato, la svolta in Afghanistan «partirà dai villaggi»
Voto “farsa”, Aung San Suu Kyi non voterà
BRUXELLES. Un processo che
RANGOON. Aung San Suu Kyi, leader dell’opposizione birmana, non voterà alle elezioni generali indette dalla giunta militare per il 7 novembre prossimo. Lo ha annunciato il suo legale Nyan Win, che conferma la presenza dell’assistita nelle liste elettorali, ma aggiunge che la Nobel per la pace non intende partecipare al voto. Intanto emergono i primi bilanci del viaggio ufficiale compiuto dal premier thai Abhisit Vejjajiva in Myanmar, lo scorso 11 ottobre, in cui si è discusso – fra gli altri – di economia, cooperazione e controllo dei confini, con un accenno alla questione dei diritti umani. Il 7 novembre prossimo in Myanmar si terranno le prime elezioni, indette
si svolgerà “dal basso in alto”, partendo dai villaggi per salire ai distretti e alle province e che sarà “irreversibile”: così l’inviato speciale della Nato a Kabul, il britannico Mark Sedwill, ha descritto il processo di transizione - Integal nelle lingue dari e pashtun - in Afghanistan. I criteri di questa progressiva via d’uscita da uno dei teatri di guerra più insidiosi per la comunità internazionale sono stati messi a punto in una riunione ieri a Bruxelles tra i rappresentanti dei 28 Stati membri dell’Alleanza e il generale Usa David Petraeus, capo di tutte le forze internazionali e americane a Kabul. L’inizio della transizione «è previsto nella primavera del 2011, il suo completamento alla fine del 2014». Secondo Sedwill, gli sforzi di conciliazione nazionale condotti dal presidente Hamid Karzai con i talebani, non influenzeranno questa road map che sarà approvata dai capi di Stato e di governo dei 28 al vertice Nato di Lisbona, il 19 e il 20 novembre prossimi. «Non credo che i colloqui di pace possano avere un impatto su questo calendario, almeno che non si proceda ad un passo più veloce di quanto non ci aspettiamo ora tanto da ridurre in modo radicale la minaccia», ha detto Sedwill in un incontro stampa. La transizione partirà nel gruppo di province dove sono stati fatti i passi in avanti più importanti in termini di sicurezza e di governo. Alcuni distretti nell’area di Herat, che si trova sotto il controllo dell’Italia, potranno essere tra i primi a sperimentare la transizione. «Nella provincia di Herat sono diversi i distretti che riempiono le condizioni», hanno precisato fonti Nato. Ma anche nelle tradizionali roccaforti talebane, come Kandahar, dove da mesi è in corso un’offensiva delle forze Isaf per cacciare gli insorti, la Nato considera che sono «veramente molti i progressi già fatti dalla coalizione».
Pakistan, le minoranze sempre più nel mirino Aumentano stupri e omicidi contro le cristiane di Massimo Fazzi n aumento impressionante, persino per una realtà come quella pakistana. In un anno, infatti, le violenze sulle donne nel Paese sono aumentate del 13 per cento: un tasso elevatissimo, considerando la base numerica di partenza. E quello che risalta, ancora una volta, è che a fare le spese di queste violenze sono le esponenti femminili delle minoranze. Le cristiane in prima fila, che arrivano a subire violenze sessuali anche in tenera età da parte di fondamentalisti o di semplici esponenti delle caste superiori, musulmani di fede. È la denuncia, riportata dall’agenzia Fides, della Fondazione “Aurat”, attiva da oltre 20 anni nella difesa della donna in Pakistan. Nel 2009 le violenze sono aumentate in generale del 13 per cento. E molti casi restano sconosciuti perché le famiglia, intimidite, non sporgono denuncia. Secondo i dati forniti dalla Fondazione vi sono stati 1.052 omicidi di donne, 71 casi di stupro con omicidio, 352 stupri, 265 stupri di gruppo, 1.452 casi di torture, 1.198 sequestri. Alcuni di questi casi riguardano perfino delle bambine. La discriminazione, specialmente sulle lavoratrici cristiane, «è un fenomeno acclarato, ma spesso relegato nell’indifferenza o nell’impunità». Secondo l’Ong pakistana “Alleanza contro la Violenza Sessuale”, il 91 per cento delle lavoratrici domestiche dice di aver subito abusi o violenze sessuali. Le giovani appartenenti alle minoranze religiose sono particolarmente vulnerabile, nota l’Ong. Secondo l’organizzazione, ogni anno le denunce sono numerose e riguardano anche veri e propri sequestri, subiti dalle lavoratrici: spesso vengono strappate alle famiglie cristiane, costrette a sposare ricchi uomini di affari e a convertirsi all’islam.
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che da esponenti della media borghesia. Le chiese cristiane e le associazioni che difendono i diritti delle minoranze chiedono al governo di adottare seri provvedimenti per garantire la libertà e i diritti delle donne in Pakistan.
La discriminazione sociale contro le minoranze religiose è diffusa, nota la Commissione Giustizia e Pace dei vescovi cattolici pakistani. In particolare sono molti gli abusi sulle donne, perpetrati da gruppi militanti islamici ma an-
Secondo Peter Jacob, il segretario generale della Commissione episcopale pakistana Giustizia e Pace, «il problema deriva dalla legislazione attualmente in vigore in Pakistan. In particolare ci sono due strumenti giuridici che consentono ai musulmani di fare praticamente ciò che vogliono rimanendo impuniti». Le leggi di cui parla sono la legge sulla blasfemia, che punisce con la morte chi dissacra Maometto e il Corano, e le Ordinanze Hudood, una serie di norme che impone alla popolazione diversi comportamenti in linea con gli insegnamenti religiosi. La legge sulla blasfemia è in realtà il peggior strumento di repressione religiosa in Pakistan: secondo i dati di Giustizia e Pace, dal 1986 all’agosto del 2009 almeno 964 persone sono state incriminate per aver profanato il Corano o diffamato il profeta Maometto. Fra questi 479 erano musulmani, 119 cristiani, 340 ahmadi, 14 indù e altri 10 di altre religioni. Essa costituisce anche un pretesto per attacchi, vendette personali o omicidi extra-giudiziali: 33 in tutto, compiuti da singoli o folle inferocite. Tuttavia, nota l’attivista, «i parlamentari pakistani sono molto spaventati dalla questione religiosa, e le lobby estremiste che spingono per mantenerle in vigore lavorano con molta forza. Non credo possa cambiare molto, in breve tempo: sono leggi che richiedono tempo per essere cambiate». Nel frattempo, la comunità delle minoranze cerca di contrastare come può gli abusi: sono attive diverse organizzazioni nel Paese che aiutano le donne violentate. Eppure le Ordinanze Hudood sostengono che non vale la testimonianza di un non musulmano contro una persona di religione islamica. Inoltre, se si vuole denunciare uno stupro, si devono avere 4 testimoni oculari musulmani.
Solo nel 2009 si sono verificati circa 1.052 omicidi di donne, 352 stupri, 1.452 casi di tortura e 1.198 sequestri
dalla giunta militare al potere dopo 20 anni di regime. Un “cammino verso la democrazia”per la leadership del Paese; un voto “farsa”, rispondono gli oppositori, che serve solo a “ripulire” la faccia della dittatura militare, perché il 25% dei seggi del nuovo Parlamento è già assegnato per legge ai membri dell’esercito. Aung San Suu Kyi, leader del disciolto partito di opposizione Lega nazionale per la democrazia (Nld), tramite il legale spiega che “la Nld non parteciperà, per questo lei [Suu Kyi] ha detto di non aver alcun partito da votare, anche se le fosse concesso”. Una secca smentita, rispetto agli annunci dei giorni scorsi della giunta secondo cui la donna avrebbe partecipato al voto.
Nyan Win chiarisce anche un secondo punto che spinge la Nobel per la pace, che ha trascorso 15 degli ultimi 21 anni agli arresti e ancora oggi è confinata ai domiciliari, a non votare. La concessione che le viene fatta di partecipare alle elezioni, riferisce il legale, è “in contrasto” con le stesse leggi della giunta, che impediscono a detenuti e condannati di votare. “Non rispetta le leggi”, avrebbe detto la leader della Nld, libera il 13 novembre.
i testi del dissenso/3
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Documenti. Il terzo di una serie di articoli scritti dal Nobel per la pace fra il 2005 e il 2008: il tribunale li ha usati per condannarlo a 11 anni di carcere
Il Grande balzo indietro Le “tre teorie” su cui il Partito poggia la propria autorità sono contrarie alla Costituzione, al diritto e a Mao Zedong di Liu Xiaobo l 19 ottobre del 2005, il Consiglio di Stato cinese ha pubblicato un documento intitolato “Costruire una politica democratica in Cina”. È stato il primo testo governativo a parlare di democrazia da quando i comunisti sono al potere; ma, a parte il fatto che è stato pubblicato, non ha introdotto alcuna novità”. Nel documento ci sono teorie sulla “condizione nazionale”, sulla “autorità del Partito”e sulla “fede nel comunismo”. La prima teoria non parla dell’arretratezza nel campo della ricerca cinese o delle mediocri (se non pessime) condizioni di vita della popolazione cinese: sottolinea invece la posizione centrale del Partito, che viene definita una scelta «storica e presa in maniera volontaria dal popolo».
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Si sforza di sostenere, in pratica, che sia stata la naturale evoluzione storica a imporre il regime comunista, e che non ci sia stata alcuna forzatura da parte dei quadri. Chiaramente, la teoria “della condizione nazionale” punta a rifiutare la natura universale della democrazia e a giustificare la legittimità al potere del regime con delle “speciali” situazioni interne. La teoria della “autorità del Partito”, invece, ribadisce pubblicamente che il sistema politico corrente si basa sull’autorità suprema dei comunisti. Anche se esiste l’idea di una costruzione democratica della sovranità popolare, anche se la Costituzione protegge e garantisce i diritti umani, anche se esiste un’Assemblea nazionale del popolo e un’Assemblea consultiva (il cosiddetto centralismo democratico “con caratteristiche cinesi”), anche se esistono un processo democratico di base e lo stato di diritto… Tutte queste cose devono sottostare all’autorità del Partito comunista cinese e non hanno nulla a che vedere con la sovranità popolare. Lo scopo della “fede nel comunismo”è, infine, sostenere che tutti i cinesi devono ringraziare il Partito per i successi ottenuti dalla Cina: arrivano a difendere persino i fallimenti, presentandoli come prodromi al successo. Allo stesso modo,
ogni minuscolo avanzamento nell’ambito democratico va attribuito all’illuminata leadership del Partito, e nulla ha a che fare con gli sforzi del popolo. Il risultato di queste teorie è una dichiarazione al mondo intero: sopra la democrazia popolare c’è l’autorità del Partito, che è suprema perché si incarica del popolo e della democra-
La popolazione cinese ha molte colpe: invece di muoversi verso la democrazia, ha deciso di comportarsi come se fosse schiava del Pcc zia. Ma in questo modo si afferma anche che l’Assemblea nazionale del popolo è composta da pupazzi, che la Conferenza consultiva è un ornamento, che il sistema giudiziario è uno strumento in mano ai comunisti e che il vocabolario di diritti umani e democrazia è uno specchietto per le allodole.
Come il documento sui diritti umani rilasciato dalle autorità alcuni mesi fa, anche questo documento sulla democrazia è pieno di bugie. Ad esempio dice che «tutto il potere appartiene al popolo». Ma i 1.300 milioni di cinesi sono semplicemente un branco di pecore, di cui il Partito è pastore: ad esempio, non ha alcuna possibilità di influire la scelta del prossimo presidente. Un’altra bugia recita: «La democrazia si sviluppa dentro il Partito». Ma la stragrande maggioranza dei 68 milioni di iscritti al Partito è inutile e non ha voce nell’elezione del Segretario. Ecco come costruisce la democrazia il Partito! Io non nego che all’interno della cricca comunista attualmente al potere ci sia qualcuno che tratta bene il popolo e che conosce la politica moderna, persone come HuYaobang e Zhao Ziyang. Quando erano la potere, hanno preso delle decisioni improntate sulla buona politica e si sono assunti il rischio di portare avanti delle riforme politiche. Ma anche
quando c’erano loro le persone dovevano aspettare per vedere il rispetto dei diritti di base, che comunque venivano elargiti come fossero carità. E comunque, non sono sopravvissuti molto all’interno del sistema comunista. Facciamo 10mila passi indietro: se fosse ancora in funzione il sistema dei favori imperiali (regalie concesse dall’imperatore a propria discrezione) si potrebbe capire l’inerzia del popolo. Anche se umiliante per la dignità umana, questo sistema elargiva almeno benefici tangibili: oggi, tutto quello che si può sperare di avere dalle autorità è una magra ricompensa e una patetica consolazione, tardiva. Ma allora perché il popolo non si smuove? Tanto più che nelle dinastie imperiali i grandi gesti di benevolenza sono sempre avvenuti o all’inizio del regno, per cancellare le tracce dei precedenti regnanti, o alla fine per evitare crisi sociali: nulla è mai stato fatto per il benessere del popolo. I nostri concittadini sono dunque come dei bambini, che dipendono totalmente dalle cure del genitore: quindi non sanno fare altro che aspettare un nuovo padrone. È possibile che i cinesi non vogliano alzarsi in piedi ma rimangano in ginocchio in attesa del dono dal-
Un soldato cerca di interrompere un fotografo in piazza Tiananmen. Dalla “porta del Cielo”, l’accesso che da Pechino trasporta dentro la Città Proibita imperiale, si sono affacciati tutti i leader cinesi. Nella pagina a fianco, il presidente Hu Jintao
l’alto? Non ci sono dubbi che, dopo Mao, i cinesi abbiano raggiunto alcuni benefici tangibili in termini di cibo e abitazione, oltre a un’estremamente limitata possibilità di scelta in casi personali. La “teoria del gatto” di Deng Xiaoping è migliore dell’ideologia maoista, presenta una flessibilità maggiore. Eppure, nessuno di questi cambiamenti ha cambiato l’esistenza dei cinesi; la relazione fra il padrone e lo schiavo, in questo Paese, è la stessa da generazioni. I diritti e gli interessi della popolazione, il fato della nazione, il progresso sociale e il de-
stino dei comuni cittadini sono tutte questioni strette nelle mani dei dittatori. Ogni miglioria è un regalo che deve essere accolta con tre “urrà”. La situazione dei movimenti per la difesa dei diritti civili è migliorata negli ultimi anni, ma dobbiamo essere realisti: in una situazione come questa non c’è alcuna possibilità che un movimento – sia esso moderno e pacifico o simile a quelli dell’antichità, e quindi turbolento – possa innescare una disobbedienza civile su larga scala. Non c’è modo di scuotere il sistema autoritario e la cultura schiavista. Perché ac-
Le autorità stanno rastrellando i dissidenti democratici della capitale
Dopo il Nobel, la retata di Vincenzo Faccioli Pintozzi assegnazione del premio Nobel per la pace al dissidente cinese Liu Xiaobo, docente universitario e autore del manifesto democratico Charta ’08, ha scatenato un’ondata di repressione contro gli attivisti per i diritti umani in Cina. Secondo il Chinese Human Rights Defender, la polizia tiene al momento sotto controllo o in detenzione temporanea al-
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meno una decina di persone: il governo teme manifestazioni a sostegno di Liu e della moglie Liu Xia, al momento trattenuta illegalmente agli arre-
sti domiciliari. Gli agenti di pubblica sicurezza stanno piantonando la casa di Liu: negli ultimi giorni, è aumentato considerevolmente il numero di poliziotti intorno all’edificio. La polizia segue anche il noto costituzionalista Zhang Zuhua, che viene accompagnato in ogni spostamento. Il 12 ottobre, l’attivista di Pechino Fan Yafen è stato bloccato in casa dalle guardie: doveva rilasciare un’intervi-
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cade tutto questo? Ovviamente c’è la repressione dittatoriale delle autorità, ma l’indifferenza della popolazione è il motivo principale. Nella mente di persone ignoranti, codarde e cieche non c’è differenza fra l’essere usati e l’essere liberati. Quando potranno i cinesi godere della gioia di essere padroni dei propri pensieri? Quando la Cina romperà il circolo vizioso del dominio dinastico? Per generazioni, fino dall’inizio del dominio comunista, abbiamo sentito espressioni come “dopo la liberazione”,“dalla fondazione della nazione”,“da quando è
sta. Al momento, oltre 20 agenti lo stanno controllando. L’11 ottobre è stato chiuso in casa anche l’avvocato Pu Zhiqiang, che difende gli attivisti per i diritti umani. Zhou Tuo, democratico, è uno dei “quattro gentiluomini di Tiananmen”: dal 9 ottobre è ai domiciliari e di lui non si sa più nulla. Ma la repressione ha superato i confini di Pechino: l’11 ottobre a Deyang, nella provincia del Sichuan, l’attivista Li Yu è stato fermato e interrogato. La sua colpa è quella di aver mandato un sms a degli amici per festeggiare il nuovo Nobel. La polizia gli ha intimato di “non organizzare nulla”. Sempre nel Sichuan la polizia sta controllando le case di Li Guohong e Mu Jiayu, di Chongqing, sin dall’annuncio
nata la nuova Cina”; oppure scuse come “senza il Partito non ci sarebbe la Cina”. Sono frasi entrate nel gergo comune, che si ascoltano in tutti i discorsi: persino i liberali del Partito, che conoscono la storia, usano termini del genere anche per giustificare i crimini commessi dalla presa di potere a oggi. Allo stesso modo, se si parla del Movimento del 4 giugno o del massacro di piazza Tiananmen, si sentono dai comuni cittadini termini come “ribellione”: persino i residenti di Pechino, che hanno testimoniato le marce pacifiche e la repressione san-
del premio. Il 12 ottobre, Chen Yunfei è stato riportato a casa dopo che aveva cercato di raggiungere altri dissidenti. Liao Shuangyuan e Wu Yuqin, membri del Forum per i diritti umani di Guizhou, sono spariti dall’8 ottobre: erano a Pechino per partecipare a una cena in onore di Liu Xiaobo, interrotta dalla polizia. Wang Sen, attivista democratico del Sichuan, è chiuso in casa.
Nel frattempo Liu Xia ha protestato contro gli “arresti domiciliari illegali”che le hanno imposto le autorità cinesi in un messaggio postato su Twitter. “Protesto con forza contro il governo che di fatto mi ha messo illegalmente gli arresti domiciliari”. Qualche ora fa Liu Xia aveva afferma-
guinosa, usano lo stesso vocabolario. Tanti anni fa, quando sentivo usare questi termini, li correggevo: prima con rabbia, poi con pedanteria, poi con rassegnazione. Ora lascio correre. L’indottrinamento ideologico forzato delle menti, portato avanti per decenni, ha prodotto danni permanenti alla memoria e al linguaggio. Il “mostro sacro” della filosofia del linguaggio, Ludwig Wittgenstein, ha sostenuto che il linguaggio non è uno strumento di espressione nel senso tradizionale ma è invece azione: il modo in cui ci si esprime dimostra il modo
to, sempre su Twitter, che le autorità cinesi le hanno impedito di incontrare una delegazione diplomatica norvegese venuta a verificare le sue condizioni di detenzione nella sua abitazione di Pechino. Stati Uniti e Unione Europea hanno chiesto a Pechino di concedere alla donna il diritto di muoversi liberamente. Secondo le ultime informazioni in possesso della donna, però, la situazione del marito in carcere è al momento leggermente migliorata: l’assegnazione del Nobel ha convinto le autorità carcerarie a interrompere le molestie a cui il docente universitario era sottoposto subito dopo la condanna. C’è comunque ancora attesa per capire chi andrà a Oslo a ritirare il premio Nobel per la pace.
in cui si sceglie di vivere. Tanto tempo fa, la gente sperava che ai cambi di regime venisse associato un cambio di regime; dopo tante delusioni, non spera neanche più. Quello che è più assurdo è che, invece, non è sparita la speranza in una riforma del Paese da parte del Partito. E perché questa non sparisce? Perché le condizioni nazionali la tengono in vita. Secondo alcuni, una nazione così grande non può che avere un sistema autoritario al governo. Altri dicono che il Partito comunista è troppo potente e che ha troppi monopoli sulle risorse che è impensabile che qualcuno possa sfidarlo. Altri dico-
L’errore è stato quello di non capire che, dietro alla propaganda dei primi anni, c’era la volontà di spezzare l’anima degli oppositori no che i movimenti di opposizione non hanno i numeri dei comunisti, e che se questi andassero al potere staremmo tutti peggio. Poi ci sono quelli che sostengono che vengono prima le riforme economiche e poi quelle politiche, perché per sviluppare l’economia serve stabilità sociale e questa può essere garantita soltanto dall’autoritarismo. Tutti questi fattori portano a una domanda: al posto del Partito, chi potrebbe governare la Cina? Non gli attivisti democratici: hanno tutti troppe opinioni diverse che non riescono a unirsi neanche all’estero. E oltre a loro non c’è nessun altro. Ecco perché, in Cina, la felicità viene da una regalia dall’alto: perché è l’unica opzione disponibile. In un momento in cui i cinesi non lottano, in cui non si preparano a divenire padroni di loro stessi, in un momento in cui hanno ab-
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bandonato ogni speranza di vedere riconosciuti i propri diritti, si può pensare – forse in maniera inconscia – che senza il regime corrente il Paese sarebbe destinato al caos. Questo tipo di pensiero viene sia dall’indottrinamento forzato del Partito che dalla natura “da schiavo” dei cinesi, che a oggi non sembra voler cambiare. C’è un motivo alla base della scelta, fatta dai dittatori, di ignorare la nostra storia e mantenere questi assunti: è perché ogni cosa che fanno, ogni decisione che prendono hanno come scopo ultimo il mantenimento del potere assoluto. Ma non c’è un motivo reale per cui il popolo dovrebbe credere a questi assunti, dato che questi sono sostenuti da una sottotraccia che non considera il popolo come composto da esserei umani. Anche se massacrati, imprigionati, esiliati, privati di tutto o discriminati, è nella natura dei cinesi sentirsi sempre in debito con i loro dittatori “grandi, onorevoli e infallibili”. Un poema di Bai Juyi recita: «Il fuoco non li distrugge, rinascono nel vento di primavera». In Cina questi versi eterni non descrivono le persone che hanno il coraggio di alzarsi in piedi: al contrario ritraggono delle persone che, nonostante siano in ginocchio, sono ancora felici per la loro situazione.
Sotto il trono, si piegano e augurano lunga vita al padrone. Sulla piazza Tiananmen, il dittatore di turno alza la mano e la più grande piazza del mondo diventa un mare di mani che acclamano il loro salvatore. La dinastia Qing è caduta, e nessuno chiede più a un sottoposto di inchinarsi nel metodo tradizionale; il Partito ci ha fatto inchinare l’anima. Un’ammonizione che accomuna le persone rette dice che l’uomo nasce libero e uguale. La schiavitù e la disuguaglianza sociale nel mondo non sono mai provocate dall’eccessivo potere del padrone: nascono dal fatto che ci sono persone disposte a diventare schiave. E che, come in Cina, passano il tempo a cercare e trovare ogni sorta di giustificazione per il fatto che si sono inchinati. Se vogliamo vedere la nascita di una Cina libera, sperare in nuove politiche da parte di chi è al potere è molto peggio che sperare nella nascita di un nuovo potere fra la popolazione. Nel giorno in cui la dignità del popolo sarà stabilita legalmente e tramite un concetto condiviso da tutti, allora vedremo una nuova alba.
cultura
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rorogata fino al 17 ottobre la pregevole mostra ospitata al Villino Corsini di Villa Doria Pamphilj Tutto il Teatro in un manifesto. Polonia 1989-2009. Un racconto visivo del teatro polacco. Grafica, installazioni e video. All’esposizione è stata aggiunta, proprio in virtù della proroga - beati gli ultimi - una significativa rassegna dedicata alla cultura e al cinema polacco che ha preso il via il 17 settembre con titoli di grande impatto: Il manoscritto trovato a Saragozza, Danton, Il pianista, Europa, Europa, Katyn, La classe Morta, La doppia vita di Veronica, Il coltello nell’acqua.
P
Pochi ma importanti gli appuntamenti rimasti: domani alle ore15 Il decalogo, uno (Io sono il signore dio tuo) e Il decalogo, otto (Non dire falsa testimonianza) del 1988, entrambi di Krzystof Kieslovski, per concludere domenica 17 con la proiezione mattutina della pellicola di Zanussi Persona non grata del 2005 (una curiosità: 5 manifesti di Wieslaw Walkuski sono stati utilizzati dallo scenografo della pellicola per arredare un interno). Nata da un’idea di Sergio Mainfredi e allestita in collaborazione con Danièle
Mostre. Prorogata a Roma l’esposizione dedicata al racconto visivo polacco
Tutto il teatro in un manifesto
grado di strappare al visitatore un amaro sorriso. Viene poi la stanza dei grandi maestri, gli ultimi dei mohicani, secondo la loro stessa definizione. Rafal Olbinski, Stasys Eidrigevicius, Tomasz BoguslawWieslaw ski, Walkuski, i sopravvissuti alla concorrenza dei pubblicitari, del Photoshop, loro che del poster hanno fatto un’arte, risultano essere ora inadeguati di fronte alle possibilità compositive dei pc e rischiano l’estinzione. Parliamo di artisti in grado di racchiudere nello spazio esiguo di un rettangolo l’intero universo di un’opera teatrale, di estrapolare dal testo l’essenza del suo contenuto intellettuale e di tradurlo in immagine, dopo averlo filtrato attraverso gli occhi della fantasia. Creare un manifesto è un processo creativo lungo che parte dall’assimilazione del testo per arrivare nell’arco di tre mesi all’immagine finita. Un’immagine unica che verrà utilizzata quasi esclusivamente all’interno del teatro. La quarta sala è dedicata al Nowy Teater
di Enrica Rosso ne politica stagnante ed una censura troppo impegnata a dar spazio alla propaganda del partito per ostacolarne la circolazione. Così una Varsavia distrutta dalle bombe divenne un museo a cielo aperto, i grandi spaccati di palazzi in rovina un ideale spazio espositivo monocromo. In seguito, con l’arrivo dei primi film dall’America arrivarono anche i primi poster in inglese, ma risultavano inSulewic con la consulenza scientifica di Pietro Marchesani, la mostra ci offre nel nuovo allestimento, l’opportunità di apprezzare a Roma quei materiali che esposti nel 2009 al Palazzo Ducale di Genova hanno avuto grande riscontro. Oltre ai 90 manifesti d’artista scelti partendo dagli anni ’60 per arrivare ai contemporanei, una ricca selezione di cinema d’animazione polacco d’autore. Quest’arte anacronistica, rispetto alla fruizione odierna dei manifesti, si sviluppa attraversando guerre mondiali e occupazioni, un regime dittatoriale e la sua caduta, laddove i periodi di massima chiusura dei confini, hanno generato uno sfrenato bisogno di “uscire fuori” creando una situazione di fermento che ha prodotto risultati elettrizzanti. Citando Jerzy Grotowski, «il teatro non è indispensabile. Serve ad attraversare le frontiere fra te e me». Grande energia hanno tratto teatro, letteratura, musica, la stessa pittura, da una situazio-
dovuto alla necessità di passare il filtro della censura elaborando uno stile sempre più metaforico e simbolico. Manifesti, come firme riconoscibili di artisti che lavorando nella quasi assenza di scritte, per non violare l’immagine, evidenziando la necessità, da parte della committenza, di essere riconoscibili come stile, usati come timbri, se preferite loghi. Nel ’66 ebbe luogo in Polonia la pri-
mediatamente l’attenzione e di lasciare la voglia di approfondire il discorso. A seguire ci si immerge nella stanza del potere, da cui si esce frastornati per la pienezza espressiva delle opere: i vari reggenti teatrali si fanno qui carico del peso schiacciante di un potere politico e poliziesco vissuto nella realtà dai realizzatori dei poster. Le teste sorreggono carichi impervi, corone come stru-
Nata da un’idea di Sergio Mainfredi e allestita in collaborazione con Danièle Sulewic, ci offre l’opportunità di apprezzare a Roma quei materiali che esposti nel 2009 a Palazzo Ducale di Genova hanno avuto grande riscontro comprensibili ai più e nacque la necessità di elaborarne di locali. Lo specifico dei manifesti polacchi sono il carattere pittorico (in quanto all’epoca non esistevano scuole di grafica o design) e quello intellettuale,
ma biennale dedicata ai poster: fu l’occasione per i visitatori d’oltre cortina di accorgersi del talento degli artisti polacchi. La mostra ce li si svela attraverso le cinque stanze del Villino come fosse un racconto, accogliendoci con i poster dei più grandi Festival d’arte e di teatro. Una visione d’insieme suggestiva, che racchiude in ogni immagine il compito di raccontarne molte altre. Si tratta quindi di scelte forti, cromatismi incisivi, in grado di attirare im-
In questa pagina, alcune immagini dei manifesti teatrali polacchi esposti al Villino Corsini di Villa Doria Pamphilj di Roma nell’ambito dell’esposizione “Tutto il Teatro in un manifesto. Polonia 1989-2009”
menti di tortura o come trappole di cui è impossibile liberarsi o peggio ancora che spogliano la superficie del volto e la scarnificano, che la penetrano con corde e lacci. Immagini forti, non prive di un’ironia acuta, in
di Poznan, di cui Mainfredi è regista residente. Il Nowy Teater, nel cui edificio è contenuto un intero mondo teatrale (dagli appartamenti per gli artisti, alle sale prove, al ristorante) è tappezzato al suo interno con i poster degli spettacoli ospitati ed è un luogo del cuore per questi artisti grazie al direttore del teatro Janusz Wisniewski che ancora commissiona i suoi manifesti ai pittori.
La quinta e ultima sala è La stanza dei giochi intesi come la possibilità ludica di far convivere oggetti e corpi in un medesimo spazio generando risultati surreali e, ed ospita oltre ad una bellissima installazione di Danièle Sulewic e la postazione per visionare la rassegna dei film d’animazione d’autore, le opere più recenti come quelle di Tomasz Boguslawsi o di Michal Batory (residente a Parigi da oltre vent’anni), che attraverso l’utilizzo della fotografia crea un ponte con i codici immaginativi occidentali.
spettacoli
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Musica. A tu per tu con Antony Hegarty, tornato alla ribalta con il nuovo album “Swanlights”, realizzato insieme con i Johnsons
«Così esprimo il mio equilibrio» di Alfredo Marziano
gni giorno ringrazio la terra di avermi fatto transgender», scrive Antony Hegarty nelle note di copertina del suo nuovo disco con i Johnsons, Swanlights. Sentendolo parlare, ascoltando le canzoni, leggendo i testi capisci di trovarti davanti a un essere mutante, a un ossimoro vivente, a una sintesi di apparenti contraddizioni: un Englishman In New York (nato a Chichester, nel West Sussex, ma da molti anni cittadino della Grande Mela) corpulento ed etereo, timido e gigantesco, intellettuale e primitivo, pagano ma di educazione cristiana. Un alieno nel pianeta del music business, anche, da quando il produttore Hal Willner lo segnalò a Lou Reed, e il vecchio rock’n’roll animal lo volle accanto a sé per l’album The Raven (a cantare Perfect Day), aprendogli le porte alla platea internazionale. Con I Am A Bird Now, secondo album pubblicato nel 2005, spiccò il volo lasciando in molti a bocca aperta: ammaliati da quel pop cameristico e in odor d’opera, stupefatti da quella voce inaudita «al crocevia tra Nina Simone e Jimmy Scott» che cantava le intime sensazioni di un giovane uomo convinto, un giorno, di tramutarsi in una bellissima donna.
«O
Sulla copertina di The Crying Light, due anni fa, volle una foto in bianco e nero di Kazuo Ohno, leggendario ballerino giapponese ultracentenario. Il motivo? «Durante le sue performance», spiegò, «l’ho visto tracciare un cerchio di luce sul palco, danzare nell’occhio di un’entità misteriosa e creativa». Una luce flebile e tremolante illumina anche il nuovo album, per il quale Hegart s’è inventato una parola che non esiste in nessun vocabolario. «Le Swanlights», dice accomodandosi a gambe incrociate sul diva-
In questa pagina, alcune immagini dell’artista transgender Antony Hegarty, che dopo album di successo come “The Raven” (al fianco di Lou Reed), “I Am A Bird Now” e “The Crying Light”, torna alla ribalta con il nuovo disco “Swanlights”, realizzato insieme con i Johnsons
no della sua camera d’hotel, «sono le immagini che gli spiriti riflettono sull’acqua. Ho riflettuto sul fatto che persino un qualcosa che sta a due o tre gradi di separazione dalla sua manifestazione fisica conserva una qualche forma di presenza che è ancora possibile percepire». La canzone che intitola l’album è la perfetta trasposizione di quell’arcano concetto: chitarre e voci spettrali, riprodotte al contrario; bagliori che si rifraggono sullo specchio dei suoni. Difficile, nel mondo del pop contemporaneo, ascoltare qualcosa di altrettanto miste-
rioso, sfuggente, diverso. Musica da un altro mondo, si direbbe... «Come artista», ammette Antony, «credo di muovermi all’ombra di forze molto superio-
dei quali esposti alla Triennale di Milano lo scorso mese di settembre. Musica e immagini, in Antony, vivono di strati sovrapposti, di stati emotivi cangianti.
Panteista e animista convinto, ha spiegato di voler celebrare l’armonia del creato. «Mondo materiale e quello spirituale sono la stessa cosa» ri alle mie. Intendo dire la terra, la massima e più potente espressione di creatività esistente». La celebrazione delle forze naturali e dell’eterno femminino è diventato il tema dominante, quasi ossessivo, della sua espressione artistica. Quando canta, e quando si diletta con le arti visuali: la versione deluxe di Swanlights include un elegante libro di foto, disegni e collage, una selezione
«Anche se le dinamiche sono completamente diverse. La musica, soprattutto quando sono su un palco, è diventata per me una sorta di dialogo con il mondo, la ricerca di un punto di contatto con gli altri esseri umani. Disegnare è un atto molto più solitario. Più intimo, e in un certo senso anche più profondo. Sono un artista naif, non aspiro certo a raggiungere le alte vette delle belle arti. Ma quelle immagini sono il mio diario. C’è un filo che le lega, ed è rappresentato dalla mia visione del mondo». «In tutto quel che fac-
cio», aggiunge, «ho l’inclinazione al collage, all’assemblaggio, all’individuazione di di nessi e di collegamenti tra i numerosi fili che intreccio. La ricerca di un significato, di una struttura, nella maggior parte dei casi viene solo in un secondo momento». Suoni e immagini hanno una matrice comune, si somigliano. A volte enigmatici, al limite dell’indecifrabilità; in altre occasioni espliciti e inequivocabili. Come le iterazioni verbali di Everything Is New e di Thank You For Your Love, unico motivo a presa rapida del disco che omaggia esplicitamente la soul music degli anni Sessanta, Otis Redding e i grandi vocalist della Stax e della Atlantic Records: artisti che - come Antony - con la voce sanno riempire di contenuto sentimenti elementari, parole semplici banalizzate dall’uso corrente.
Quello stesso brano intitola un Ep uscito qualche settimana prima dell’album, in cui Antony rivisita un Dylan minore del periodo “cristiano”(Pressing On) e osa persino rileggere Imagine di John Lennon. «Da una prospettiva diversa, però: non fosse altro che appartengo a un’altra generazione. Mi sembra che la mia versione abbia un che di minaccioso, rispetto all’originale». «Ho scelto quelle canzoni», aggiunge, «perché affrontano questioni esistenziali basilari: mi piaceva, in qualche modo, usarle come preludio a idee e composizioni che sono invece tipiche del nostro tempo». Appoggiate, come sempre, su umbratili tappeti d’archi e pianoforti contrappuntati da percussioni leggere e chitarre discrete: la firma inconfondibile dei Johnsons. Condotte per mano da “quella” voce, che a volte è un tenero sussurro e altre uno svolazzo rococò, un celestiale canto gospel o un sussulto dell’inconscio. Sembra di percepire sofferenza, conflitto interiore, tensione tra corpo e anima, vita e morte (molto presente, nei testi). Ma Antony, panteista e animista convinto, spiega di voler piuttosto celebrare l’armonia del creato. «Per me il mondo materiale e quello spirituale sono la stessa cosa, non percepisco alcuna contraddizione. Per molte religioni il Giardino dell’Eden è un luogo dal quale siamo stati cacciati e in cui un giorno faremo ritorno. Come i nativi americani, io credo invece che il Paradiso sia su questa terra. Datemi pure del vecchio hippie, io mi sento un figlio devoto della Natura».
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE
I giudici tentano il colpaccio contro la Legge 40 e la famiglia Non avevo dubbi che la vicenda fiorentina, che ha infiammato le cronache nei mesi scorsi, sarebbe finita alla Corte Costituzionale. Il dubbio è sempre stato, casomai, che quella stessa vicenda fosse nata esattamente con la finalità di costringere la Corte ad un nuovo pronunciamento e, nelle speranze di qualcuno, di dare una nuova picconata alla legge 40. Nell’interminabile dibattito ci sarà modo di rinverdire le ragioni che hanno portato il Parlamento a consentire la sola fecondazione omologa. Le stesse ragioni che hanno portato gli italiani a scegliere in massa di non modificare quella norma e di rimettere al centro i diritti del nascituro anziché privilegiare i progetti - e presunti diritti - degli adulti. Non posso non notare che i giudici fiorentini, con il loro atto, non si limitano a voler attaccare la legge 40, ma hanno come obbiettivo anche la famiglia. Perché, come nessuno potrà mai mettere in dubbio che il bene del bambino è quello di veder coincidere genitori biologici e genitori legali, è altrettanto chiaro che legalizzare la scissione tra dato biologico e relazione affettiva rappresenta un colpo all’identità della famiglia. È cosa ben diversa dare, attraverso l’adozione, una famiglia a chi non ce l’ha e consentire a degli aspiranti genitori di avere a tutti i costi e in tutti i modi un figlio.
Francesco Belletti
RESPONSABILITÀ PERSONALE La persona viene prima dello Stato. I difetti dello Stato-Provvidenza sono provati dalla sua crisi finanziaria. Data la gravità di disavanzi e indebitamenti pubblici, i cittadini dovrebbero essere così rispettosi di se stessi da non elemosinare più la carità statale. Urge rivalutare il lavoro, il merito e l’ordine, nonché respingere le emozioni e illusioni collettiviste. Per moralizzare la nazione, occorre ridimensionare lo Stato, nel quale la capacità può essere mortificata da corruzione, clientelismo, servilismo e amicizie partitocratiche. La spontaneità favorisce la creatività in ogni campo; perciò l’insieme delle iniziative individuali è preferibile alla pianificazione dell’élite politica. Il teologo americano Michael Novak identifica i valori del capitalismo democratico e quelli del Vangelo. L’economia di mercato concorren-
ziale è oggettivamente più efficiente del collettivismo, che risulta un’invenzione d’intellettuali. La “giustizia sociale” viene strumentalizzata per manipolare le masse e per coprire la megalomania, gli abusi e gli sperperi di burocrati e politici.
La città della spazzatura Se l’emergenza rifiuti in Campania vi sconvolge, pensate agli abitanti di Sidon, in Libano. In 30 anni la città si è trasformata in un’enorme discarica a cielo aperto e in riva al mare. Regolarmente, la montagna di rifiuti frana nel mare. Con gravi danni per l’ambiente e per la popolazione locale
Gianfranco Nìbale
CANCELLATA UNA DELLE DISCRIMINAZIONI TRA FIGLI NATURALI E LEGITTIMI In attesa della riforma del diritto di famiglia che adegui le nostre leggi alla società e alle forme di organizzazione che i singoli cittadini si sono già dati, bisogna eliminare una delle odiose discriminazioni tra figli legittimi e naturali, ossia la loro trattazione in tribunali diversi. Speriamo che questo sia il primo intervento dei tanti necessari sulla riforma del diritto di famiglia. Riforme che vanno dal riconoscimen-
to delle unioni civili e le coppie di fatto, al doppio cognome, dalle adozioni dei single al divorzio breve, tra le altre.
Donatella
A QUANDO LA PARITÀ? Parto ma solo per cronologia dall’ultimo fatto balzato alle cronache nel bolognese: appena sposata lascia il marito dopo una settimana e chiede gli alimenti; la Corte di Cassazione obbliga l’uomo a pagare 250 euro/mese e conferma la sentenza poiché sostiene «lontano dal marito la signora
L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
non riusciva a mantenere lo stesso tenore di vita goduto durante le nozze». La prima considerazione è... ma quali nozze? La seconda ancor più grave riguarda la disparità di trattamento uomo-donna: gli ultimi dati Istat infatti sono chiari, in Italia le donne sono oramai oltre il 43% della forza lavoro (trend in crescità) ma sul totale di assegni divorzili versati, solo il 4% circa è versato dalla donna, mentre il restante 96% dall’uomo. Non credo ci sia altro da aggiungere.
Costantino Costantini
dal “New Yorker” del 13/10/2010
Un Tea Party da Guerra Fredda otremmo definirlo il nuovo degli anni Cinquanta. È un movimento che sta scuotendo i conservatori Usa. La grande crisi finanziaria, le guerre, la comparsa di nuovi competitor internazionali sono tutti elementi che tracciano un quadro d’instabilità. I processi d’identità tendono quindi a catalizzarsi su concetti forti, sul tradimento della storia, sulle grandi menzogne e sui complotti. È quello che sta succedendo in America con il movimento dei Tea party. La destra tradizionalista che supera a destra il conservatorismo. La sinistra infida e manipolatrice che non vuole che i cittadini conoscano la vera storia del Paese, di come la politica conservatrice abbia salvato l’America da una nuova depressione nel 1946. Il pensiero progressista che vorrebbe occultare la verità. Più o meno è questo, con qualche semplificazione, il concetto che anima la fronda conservatrice a stelle e strisce e che tanto preoccupa i repubblicani. E come ogni movimento che si rispetti ha scelto anche un suo rappresentante, un suo cantore, censore e retore. Dagli studi di Fox news tra sbuffi di pipa e invettive spiega agli americani la battaglia contro il secolarismo progressista – che declinato come un’ideologia meriterebbe più di qualche critica. Si chiama Glenn Beck e sembra essere la cifra esatta del nuovo fenomeno politico. Almeno da come lo descrive Sean Wilentz sul magazine progressista e leftist per eccellenza: The New Yorker. «Un rigurgito paranoide della politica stile anni Cinquanta» così l’autore dell’articolo definisce Beck. E si capisce
smo, della divisione dei poteri e del rapporto tra Stato e cittadino. Chissà cose ne penserebbero Hamilton, Montesquiau e i padri fondatori della costituzione americana.
P
quanto il fenomeno dei Tea party stia scuotendo i circoli democratici della East coast oltre i piani alti del Gop. Beck è un mormone convertito, ex alcolista, conduttore radio che sta combattendo la sua battaglia per ristabilire i canoni della storia americana. Nella definizione di “sinistra” mette un po’ tutti, dai liberal ai progressisti, dai socialisti ai comunisti, tutti coloro che hanno condotto nel tempo un progetto comune: separare il concetto terreno di Stato da quello trascendente di Dio. Insomma un contestatore della pace di Westfalia con venature maccartiste che è stato eletto dal popolo dei contestatori di destra come educatore, guida e riferimento del movimento. E lui ha messo in campo seminari, università e scuole dove si insegnano versioni differenti del federali-
Ma in quel Paese di frontiera dove ogni idea deve passare il vaglio pragmatico della realtà questo genere di confronto è sempre esistito e i tea party ne sono solo un’espressione, che già si poteva intravedere ai tempi del fenomeno Ross Perot, candidato indipendente nella corsa alla Casa Bianca. Certo è che vedere Obama descritto come un politico totalitario fa un po’ sorridere, anche se pensi alla frontiera e al popolo del Mid West, dove l’America è il mondo e Washington una sorta di Gomorra da espugnare e redimere. “La lunga marcia”del nuovo presidente verso la dittatura si alimenta solo con il disorientamento di molti, causato dalla crisi economica, dai licenziamenti, dal ridimensionamento di aspettative e ambizioni di un grande Paese. Però la storia riscritta secondo Beck sta facendo proseliti e molti rappresentanti del movimento incominciano ad affermare che l’inizio del declino americano comincia con Wodroow Wilson, qundo sconfisse Theodor Roosevelt alle presidenziali del 1912. Gli ispiratori di Beck, secondo il magazine, sarebbero la Birch’s society foundation e Robert Welch. Insomma la destra più destra del periodo della guerra fredda. E proprio questa sarebbe la cifra per meglio comprendere il fenomeno dei Tea party: guerra fredda e sbuffi di pipa.
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog LE VERITÀ NASCOSTE
Via i giocattoli dal panino: incrementano l’obesità BRASILIA. Un legale brasiliano, Marcio Schusterschitz, ha presentato una dettagliata denuncia affinché sia vietato inserire giocattoli negli “Happy Meal” di McDonald’s e negli omologhi pasti offerti dalle altre catene di fast-food come Burger King. Lo scopo, ovviamente, è quello di eliminare un elemento che, secondo la denuncia, ha l’esclusivo scopo di attrarre bambini e li incentiva a consumare i pasti supercalorici offerti dalle catene di fast food. Pasti che però sono considerati ben poco salutari, soprattutto per i bambini. La denuncia nascerebbe dalla considerazione che i bambini non sono in grado di rendersi conto dei rischi per la sa-
lute che un abuso di questi cibi comporta, e si lascerebbero attrarre dai giocattoli compresi negli Happy Meal, inseriti proprio, secondo l’accusa, allo scopo di incrementare il consumo da parte delle fasce più giovani della popolazione. La preoccupazione relativa all’eccesso di grassi e di calorie in generale del cibo dei fast food è in crescita non solo in Brasile, dato che anche negli Stati Uniti, patria dei fast-food, potrebbero essere introdotte delle normative che quantomeno obblighino ad evidenziare più chiaramente la quantità di grassi e di calorie dei vari panini, nella speranza che questo ponga un limite alla crescente obesità del-
ACCADDE OGGI
FALSI MEDICI, STRETTE LE MAGLIE DEI CONTROLLI Alla luce di vari casi che hanno visto la scoperta di “falsi medici” operanti in strutture sanitarie sia pubbliche che private in varie parti d’Italia, la regione Veneto ha deciso di “stringere” le maglie dei controlli. Lo ha fatto con una circolare, firmata dall’assessore alla sanità e inviata a tutti i direttori generali delle Ullss e aziende ospedaliere venete, dell’Istituto zooprofilattico e dell’Arpav. Con queste nuove indicazioni avremo un doppio risultato: aumentare la possibilità che l’eventuale impostore venga smascherato nella fase preliminare all’assunzione; e costituire un forte deterrente per coloro che volessero provarci. Le nuove procedure introdotte sono estremamente meticolose e riguardano tutto il personale sanitario, di ogni ruolo. Riguardo al personale neoassunto (a decorrere dall’1 giugno 2010), le amministrazioni sanitarie dovranno verificare le dichiarazioni sostitutive di certificazione; verrà anche richiesta all’amministrazione certificante la conferma scritta della corrispondenza di quanto dichiarato dal candidato. Per quanto riguarda i documenti d’identità, la dirigenza delle strutture sanitarie venete dovrà garantire che si richieda l’esibizione della carta d’identità o del passaporto; che si effettui il riscontro visivo diretto della corrispondenza della persona al documento esibito; che si operi la verifica della loro autenticità. Le stesse verifiche andranno fatte anche per il personale assunto dall’1 gennaio 2006, se ancora in servizio. Per le assunzioni
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
14 ottobre
la popolazione e delle malattie ad essa, direttamente o indirettamente, collegate.
precedenti a questa data i controlli saranno a campione.
INVERSIONE STRATEGICA
denza statunitense John F. Kennedy suggerisce per la prima volta l’idea dei Corpi della Pace 1964 Martin Luther King diventa il più giovane vincitore del Premio Nobel per la pace, che gli venne assegnato per la guida della resistenza non-violenta alla fine del pregiudizio razziale negli Stati Uniti 1966 La città di Montreal inaugura il suo sistema di metropolitana 1979 Washington, prima marcia per i diritti gay con la partecipazione di decine di migliaia di persone 1980 Marcia dei quarantamila: quadri, impiegati e operai della Fiat, ma anche di comuni cittadini che manifestano per il ritorno alla normalità della città, scossa dalle proteste per la messa in Cassa integrazione di ben 24.669 operai 1981 Il vice presidente Hosni Mubarak viene eletto presidente dell’Egitto, una settimana dopo l’assassinio di Anwar Sadat 2007 Elezioni primarie per la fondazione del Pd
L’inversione strategica di Berlusconi è direttamente proporzionale all’inversione strategica dei suoi avversari. A cominciare da quella di Fini che ha finito per realizzare che le elezioni anticipate potrebbero riservargli grosse e spiacevoli sorprese. Direttamente proporzionale all’inversione di rotta delle opposizioni, che si rendono conto di quanto sia complicato, azzardato e perfino pericoloso, realizzare il sogno di mettere insieme un governo tecnico col compito di adottare una nuova legge elettorale che favorisca il successo di forze politiche che risultano minoritarie nel Paese. Direttamente proporzionale all’inversione di marcia dei numerosi media contrari al governo, che realizzano pian piano che non basta riuscire a far pressione per far cadere il governo e andare a votare, per rendere possibile la formazione di una maggioranza omogenea alternativa, in grado di dare risposte positive ai problemi. Direttamente proporzionale allo smorzarsi dei toni truculenti di tantissimi oppositori che, ubriacatisi a lungo di invettive e d’improperi di ogni genere, cominciano ora a capire, come lo ha ben chiarito Tony Blair, che per battere il Cavaliere, non basta vomitare insulti e contumelie di ogni genere, ma è assolutamente indispensabile - cosa di cui le opposizioni sono incapaci - proporre soluzioni politiche condivise che riescano a convincere i cittadini ad appoggiarle col loro voto.
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
Carlo Signore
Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Robert Kagan, Filippo La Porta,
Direttore da Washington Michael Novak
Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,
Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)
Luca
1960 Il candidato alla presi-
Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Collaboratori
Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,
Maria Pia Ammirati, Mario Arpino,
Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,
Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi,
Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,
Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,
Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,
ROM: UNA TERZA VIA OLTRE I RIMPATRI DI SARKOZY E I PROGETTI “CITTÀ SOTTILI” (II PARTE) Il patto che il sindaco di Pisa doveva portare avanti, insieme naturalmente agli altri sindaci delle città dove esistono grossi insediamenti rom, doveva essere incentrato sull’individuazione di una o più aree per rom, da rendere poi vivibili da un punto di vista igienico-sanitario con roulotte, prefabbricati o costruzioni di legno; da un controllo periodico per la salvaguardia di tali aree. Si doveva passare poi, con l’aiuto e il coinvolgimento di mediatori culturali, associazioni e magari una o più figure di riferimento-rappresentanza dei rom (a Roma il sindaco Alemanno ha deciso di delegare un Rom, come persona di propria fiducia per i rapporti con le comunità rom e sinte della città) per un percorso di convivenza possibile. E questa convivenza passa nel riconoscere e rispettare una cultura come quella nomade, ma chiede allo stesso tempo con forza che in nome di una certa cultura non si sfruttino ad esempio i minori per l’accattonaggio e non si tollerino furti o borseggi che una parte di questi nomadi usano fare con troppa disinvoltura. Per quanta riguarda la doverosa istruzione e scolarizzazione, invece che costringerli a frequentare le nostre scuole, con costi e risultati insoddisfacenti, forse si poteva pensare a predisporre corsi scolastici da fare all’interno dei campi rom. Costruire insomma un tipo di integrazione e di società più all’americana che alla francese o all’europea, tesa cioè a cercare di costruire una società dove le varie culture convivano, esaltando le differenze, piuttosto che cercare a tutti i costi l’uguaglianza e l’omologazione. Tra le due opzioni “estreme”, cioè le espulsioni alla Sarkozy (e alla Filippeschi) e il tentativo di inclusione sociale di progetti troppo dispendiosi e farraginosi come quello di “Città sottili”, mi pare questa una via possibile per coniugare il rispetto delle persone, delle culture e dei popoli con quella di una cittadinanza che chiede, sempre di più, maggiore sicurezza e il rigoroso rispetto delle regole. Carlo Lazzeroni P R E S I D E N T E CI R C O L O LI B E R A L PI S A V E R S O I L PA R T I T O D E L L A NA Z I O N E
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ULTIMAPAGINA Scatti. Fino al 14 novembre all’Ara Pacis di Roma una mostra dedicata al centenario dell’industria italiana
Dalla 500 alla Tav, un secolo di di Livia Belardelli il 1910. L’Italia, a differenza di Inghilterra e Francia, è un paese agricolo e la rivoluzione industriale non ha ancora investito davvero lo Stato. Nel 1910 viene sancito il monopolio delle trasmissioni radio. Marinetti, che ha da poco pubblicato a Parigi il Manifesto futurista, esalta progresso e tecnologia. Nasce Ennio Flaiano. E due istituzioni si affacciano sul panorama italiano: la nazionale di calcio e Confindustria. La prima in grado di far sognare, la seconda con lo scopo di raccogliere le imprese italiane che avvieranno concretamente la rivoluzione industriale dando lavoro e la possibilità al paese di crescere ed entrare nel futuro. Oggi Confindustria spegne 100 candeline e festeggia con la mostra Cento anni di imprese per l’Italia che, dopo una prima tappa alla Triennale di Milano, arriva a Roma ospitata nella cornice dell’Ara Pacis (fino al 14 novembre, www.arapacis.it).
È
Un viaggio nel passato dell’Italia del secolo scorso, tra immagini che ripercorrono lo sviluppo del Paese e la sua evoluzione ma anche itinerari d’autore in cui il lavoro e il progresso vengono raccontati dagli scatti personali di dodici fo-
CONFINDUSTRIA
tografi. La sede è quella antica dell’Ara Pacis, simbolo di un passato lontano, delle imprese augustee, luogo non nuovo alle commistioni con il presente come già è stato, con non poche polemiche, con la teca di Meier. «Antichità e progresso devono andare insieme», afferma Umberto Broccoli, sovrintendente ai Beni culturali di Roma Capitale. «Dobbiamo considerare la storia come lo specchietto retrovisore, indispensabile per far manovra, per andare avanti, necessario per guardare indietro, poco ingombrante ma che ci serve per procedere nella vita quotidiana». Sulla stessa linea anche Alessandro Laterza, presidente della commissione Cultura di Confindustria e responsabile degli eventi del Centenario. «Si è voluto attribuire a questi primi 100 anni un valore di riflessione profonda sul ruolo che Confindustria e le imprese italiane hanno avuto nello sviluppo del Paese, senza dimenticare quello che avranno in futuro. La mostra si basa, infatti, sul binomio tradizione-innovazione: l’arte contemporanea interpreta e rilegge la storia dell’industria italiana. Il nostro modo di intendere l’impresa è un mix di creatività, sfide, tecnologia e tradizione. Tutti elementi che l’arte contemporanea sa esprimere
Alla base c’è il binomio tradizione-innovazione. L’arte contemporanea interpreta e rilegge la storia della nostra produzione in un mix di creatività e tecnologia
nologica non mancano foto attuali che ritraggono la cabina del treno freccia rossa sulla linea Alta Velocità Milano-Bologna, un operaio al lavoro nello stabilimento Barilla, un laboratorio di produzione di schede per computer. Tanti spicchi di passato vicini e lontani messi insieme dal curatore Cesare Colombo, che accompagna lo spettatore in un viaggio di cento anni d’Italia.
bene». Così, seguendo il percorso storico, ecco che compaiono immagini lontane ma familiari. Il salone da ballo in prima classe della Motonave Saturnia negli anni 30, il lancio della Fiat 500 in una foto sulla soglia della fabbrica nel 1957, una lambretta parcheggiata davanti a una cascina, un gruppo di operaie in sciopero, sorridenti e decise, nel 1969. Seguendo la cronologia tec-
La seconda parte, curata da Giovanna Calvenzi e Ludovico Pratesi, nasce dagli scatti di fotografi contemporanei che, interrogati sul tema, hanno proposto la loro soggettiva interpretazione visiva. Così Gabriele Basilico interpreta lo sviluppo e il lavoro immortalando l’azienda Agusta, fiore all’occhiello dell’industria italiana del secolo scorso. «Penso che il lavoro sia il tema centrale della vita dell’uomo. Ne determina i comportamenti, le abitudini, influenza la società nel suo evolversi», racconta Basilico. Nella stessa direzione anche Luca Campigotto che ritrae un marchio tutto italiano, Piaggio. Anche Gianni Berengo Gardin sceglie la fabbrica, l’Italvapore di Pistoia, un luogo che flirta con il passato, che vuole ricostruire un pezzo di storia restaurando vecchie locomotive in disuso per manifestazioni storiche e commemorative. Uno sguardo diverso, intimo e astratto, caratterizza le immagini di Mario Guerra e Mimmo Iodice. Il primo sceglie un’ottica minimale indagando la natura del marmo di Carrara e la vita nelle cave. Il secondo invece propone i Campi Flegrei, ritratti in bianco e nero, siti archeologici rappresentativi del passato ma per l’autore «spazi in movimento, ricchi di colore, di voci e di personaggi». Lavoro, produzione e sviluppo: il motore per l’innovazione futura.