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Chi è nato per obbedire,

di e h c a n cro

obbedirebbe anche sul trono Luc De Vauvenargues

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • VENERDÌ 15 OTTOBRE 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Il Consiglio dei ministri vara i conti del 2011. Solo Galan esce dal coro: «È una tragedia. Il problema è che non ci sono soldi»

Chi ha votato Tremonti premier? L’università insegna: c’è un solo uomo al comando ma non è quello scelto dagli elettori. È il ministro che blocca tutte le riforme. Mentre Schifani “stoppa”la nuova legge elettorale VUO’ FA L’AMERICANO

di Errico Novi

Caro Cavaliere, almeno li chiami “caffè party”

Tutti salvi i minatori e i soccorritori ROMA. Come sempre in

di Giancristiano Desiderio a campagna elettorale c’è ma non si vede. Il presidente del Consiglio non pensa ad altro. I suoi problemi sono tre: il Pdl perde voti, la Lega li guadagna e Fini non deve avere molto tempo per organizzarsi al meglio. Dunque, ecco la nuova idea importata direttamente dall’America di Sarah Palin: i Tea Party. La strategia elettorale di Berlusconi è elementare e si basa su tre mosse: una macchina che fa voti da affiancare al Pdl che li perde, una macchina televisiva che faccia propaganda in chiaro e sottotraccia, una macchina femminile che sappia mettere insieme tradizione e innovazione e il nome giusto sembra essere quello di Daniela Santanché. segue a pagina 6

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Parlano Augusto Barbera e Giacomo Vaciago

Supergiulio fuori controllo «Ma la politica può fermarlo» Solo il governo e il Parlamento possono verificare le entrate e le uscite. Ma non lo fanno Riccardo Paradisi • pagina 4

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Non si ferma la protesta dei Governatori

Le Regioni alzano il tiro «Blocchiamo il federalismo» Nel mirino c’è il patto di stabilità, ma gli enti locali sperano di recuperare fondi per la sanità Francesco Pacifico • pagina 5

questi casi l’eloquio essenziale di Bossi basta a dire tutto: «Tremonti è come Von Bismark, un cancelliere di ferro. Sapete cosa diceva von Bismarck? Chi ha la borsa ha il potere». E infatti il potere ce l’ha il ministro dell’Economia, non il presidente del Consiglio. È lui, l’inflessibile Giulio, a mettere in riga la schiera dei ministri, a placare le illusioni: ottiene il via libera alla legge di stabilità, che da quest’anno sostituisce la vecchia Finanziaria, ottiene già un preventivo via libera alla questione di fiducia e rinvia tutti gli «aggiustamenti» al decreto di fine anno, «come sempre». Ci sarà poco spazio anche lì, lo hanno capito tutti nella riunione di Palazzo Chigi. Alla quale Silvio Berlusconi non ha partecipato: è convalescente a villa Certosa, in Sardegna. Fuori dal coro dei ministri, il solo Galan ha lanciato l’allarme: «È una tragedia». a pagina 2

Il Cile riabilita il «lieto fine» L’incubo di San Josè si è concluso nel migliore dei modi. Un caso che ha solo pochi precedenti nella storia. Purtroppo Maurizio Stefanini • pagina 10

Il Consiglio Atlantico a Bruxelles

La Nato: dialogo con i talebani «Ora la pacificazione è guidata dagli afghani: per questo noi non ci opporremo», ha detto Rasmussen

Durante la visita nel Sud del Libano arriva l’ennesima provocazione

L’Intifada di Ahmadinejad

Antonio Picasso • pagina 16

Il dittatore al confine con Israele: «Ma presto scomparirà»

Il quarto articolo inedito del Nobel

di Pierre Chiartano

La diplomazia israeliana lancia l’allarme

l mondo deve sapere che i sionisti sono destinati a scomparire. Non hanno altra scelta che arrendersi e tornare nei loro Paesi di origine»: il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad, in visita nel Sud del Libano lungo il confine con Israele, ha lanciato le solite accuse, fra gli evviva degli estremisti libanesi che stavano lì ad ascoltarlo. a pagina 14

«I

EURO 1,00 (10,00

«È l’Europa il vero obiettivo di Teheran»

Adesso basta: svegliati, Dragone! La Cina si è fatta dominare in silenzio per 5.000 anni. È giunta l’ora di scuotere le coscienze. Se non ora, quando?

di Massimo Fazzi l vero problema sembra essere quello di una “Santa Alleanza” fra il Libano degli Hezbollah, l’Iran dei pasdaran e la Turchia sempre meno figlia di Ataturk. Fatto sta che la visita di Ahmadinejad in Libano sembra aver colpito al cuore Tel Aviv. L’allarme è rivolto al Continente. a pagina 15

I

CON I QUADERNI)

• ANNO XV •

NUMERO

201 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

Liu Xiaobo • pagina 18 19.30


pagina 2 • 15 ottobre 2010

prima pagina

il fatto Via libera del governo alla legge di stabilità su cui sarà posta la fiducia. Ma Galan commenta: «Sarà una tragedia»

Le riforme impossibili

Berlusconi annuncia nuove iniziative a cui Tremonti, come sempre, negherà i fondi. Mentre Schifani blocca l’iter della legge elettorale di Errico Novi

non sempre dichiarata. E fa una certa impressione la scena di ieri: Tremonti che mena le danze e zittisce tutti, Berlusconi “contumace”in Sardegna, appena in grado di ricevere ad Arcore, la sera prima, il suo Von Bismarck, e di verificarne ormai la definitiva ascesa a vera guida dell’esecutivo.

ROMA. Come sempre in questi casi l’eloquio essenziale di Bossi basta a dire tutto: «Tremonti è come Von Bismark, un cancelliere di ferro. Sapete cosa diceva Von Bismarck? Chi ha la borsa ha il potere». E infatti il potere ce l’ha il ministro dell’Economia, mica il presidente del Consiglio. È lui, l’inflessibile Giulio, a mettere in riga i colleghi e a placarne le illusioni: in Consiglio dei ministri ottiene il via libera alla legge di stabilità, che da quest’anno sostituisce la vecchia Finanziaria, ottiene già un preventivo ok alla questione di fiducia e rinvia tutti gli «aggiustamenti» al decreto di fine anno, «come sempre». Ci sarà poco spazio anche lì, lo hanno capito tutti nella riunione di Palazzo Chigi. Alla quale Silvio Berlusconi non partecipa: è convalescente e propende per un riposante soggiorno a villa Certosa, in Sardegna. Il Consiglio è presieduto da Altero Matteoli, ministro anziano, ma il protagonista assoluto è il Professore di Sondrio. Tiene tutti a stecchetto, illustra le «rimodulazioni» contenute nel ddl di stabilità (1 milione nel 2011, 2 milioni nel 2012, 9,5 milioni nel 2013). Ascolta le richieste, «tutte meritevoli di attenzione», dirà in conferenza stampa, «ma il problema è l’equilibrio tra le diverse proposte».

Lezione ormai chiara a tutti, nel governo. Un metodo implacabile, quello imposto dal superministro di via XX Settembre, che suscita rassegnazione nella maggior parte dei casi, disperazione esplicita in qualcuno come Galan «è una tragedia, la verità è che non c’è un euro»), indignazione nel solo Sandro Bondi, che a Palazzo Chigi non si fa vedere nemmeno. L’unico soddisfatto guarda caso è Umberto Bossi: prima di tutto difende Giulio sui fondi all’università che «si troveranno, alla fine», grazie a Lui, quindi lo paragona a Bismarck. E in effetti l’unica cosa certa è che i margini di manovra quasi azzerati che Tremonti lascia ai suoi colleghi paiono sempre più una clausola di garanzia per l’unica riforma davvero in agenda, quella del federalismo fiscale. È una strategia chiara, anche se

Fini risponde al presidente del Senato: «Così si fermerà tutto»

Scontro «istituzionale» tra Pdl e Fli ROMA. Sfida istituzionale tra i vertici di Camera e Senato. Oggetto del contendere: la legge elettorale. Con il presidente di palazzo Madama, Renato Schifani che blocca la richiesta di Gianfranco Fini di affidare a Montecitorio l’avvio dell’iter di revisione delle norme. Per Schifani, infatti, l’esame dei disegni di legge in materia elettorale deve proseguire presso la Commissione affari costituzionali del Senato. «Risposta ineccepibile ma è evidente che c’è una questione politica, perché risulta difficile pensare che il Senato manderà avanti davvero la riforma della legge elettorale» avrebbe commmentato Fini con i suoi più stretti collaboratori. Infatti nei giorni scorsi il presidente della Camera - dopo la sollecitazione venuta da Udc e Pd in una riunione dei capigruppo di Montecitorio ad avviare il confronto sulle proposte di riforma della legge elettorale - aveva scritto a Schifani per segnalargli l’opportunità che i due rami del Parlamento trovassero un’intesa di metodo. Fini, nella sua missiva, ricordava l’accordo tra le due Camere che prevede che quel provvedimento sia affrontato in prima battuta

da Montecitorio. Schifani ha detto no: considera «opportuno» che l’esame dei disegni di legge in materia elettorale debba proseguire presso la commissione affari costituzionali del Senato. Sotto il suo controllo, insomma, dal momento che il Pdl non ha alcuna intenzione di cambiare la legge elettorale. Il motivo ufficiale addotto alla risposta è: «Il Senato fin dal 22 dicembre 2008 ha avviato per prima la trattazione della materia su due disegni di legge di iniziativa popolare sottoscritti da diverse migliaia di cittadini, ed estendendo in seguito l’esame alle numerose proposte di iniziativa parlamentare». Sullo sfondo si delinea l’ennesima frizione tra Pdl e Fli. Pdl e Lega, infatti, temono che l’avvio del dibattito sulla riforma della legge elettorale alla Camera possa rappresentare un pericolo per la tenuta dell’esecutivo, visto che non è escluso che in Commissione possa formarsi una maggioranza diversa da quella di governo. Da questo l’intenzione di trattare la materia nel più rassicurante Senato dove il peso dei finiani è inferiore rispetto a quello di Montecitorio.

L’altra riunione chiave è il gabinetto d’emergenza tenuto pochi minuti prima che inizi il Consiglio dei ministri nella stanza del sottosegretario alla presidenza, Gianni Letta. Con quest’ultimo e Tremonti partecipano la Gelmini e il responsabile del Welfare Sacconi. Al titolare dell’Istruzione viene chiarito per l’ennesima volta che lo stop della Ragioneria sulla riforma degli atenei era «inevitabile». E che per la copertura «non c’è da preoccuparsi», nel senso che «si risolverà tutto a fine anno», appunto. Più che altro è un richiamo all’ordine. Al quale non a caso corrisponde l’annuncio di Remigio Ceroni, deputato pdl della commissione Bilancio: «Il ddl Gelmini è rinviato a novembre per verificare la compatibilità dei conti». Importa poco che davanti a Montecitorio si affollino centinaia di ricercatori, studenti, per protestare contro l’ennesima beffa. Clima pesante, al punto che persino il segretario pd Pier Luigi Bersani decide inizialmente di rinunciare all’incontro con i manifestanti: «Da poco ci hanno raddoppiato la scorta, meglio essere prudenti». Ci pensa però il capogruppo dei senatori Anna Finocchiaro ad emettere l’inevitabile sentenza: «La propaganda sta lasciando il posto alla verità: la riforma dell’università è abortita sotto il peso dei tagli che impediscono qualsiasi investimento su ricerca e innovazione». La rassicurazione di Tremonti ha un significato ambivalente: quando nell’one man show in sala stampa i cronisti gli chiedono se ci sarà la copertura per pagare lo stipendio ai 9000 precari dell’università, lui offre una replica sibillina: «Come è avvenuto per gli ammortizzatori sociali, faremo tutto il possibile». Il che non vuol dire soddisfare tutte le attese suscitate dal ddl Gelmini. «I tagli lineari stanno uccidendo il futuro dei nostri fi-


l’intervista

«Il debito, un alibi per non scegliere» Paolo Pombeni: «La maggioranza è divisa anche sui tagli, così il ministro dà la linea» di Pietro Salvatori

ROMA. La scena è questa: mentre Berlusconi parlava alla Camera, il 19 settembre, annunciando meraviglie e riforme, Giulio Tremonti faceva strani gesti e strane facce: come a dire che i soldi per quelle riforme non c’erano. E non ci sono. Come ha dimostrato il no alla riforma dell’Università che il cavaliere aveva promesso pubblicamente. Insomma, professor Paolo Pombeni, vuol dire che il vero premier è Tremonti. O no? È così, è esattamente così: e questo è indubbiamente uno degli aspetti più evidenti della crisi di Berlusconi. Il premier è un leader che raccoglie voti, ma non governa, ha svolto sempre e solo l’ordinaria amministrazione. Adesso c’è una situazione nuova - dovuta anche alla crisi internazinale - e lui non è capace di gestirla. Sicché lo lascia fare all’unica persona capace. IN questo senso non ha alternative. È una scelta concordata tra i due? Questo non lo so. Ma almeno parzialmente non è una condizione che Berlusconi non desidera. Per qualsiasi uomo politico, per qualsiasi leader, è una condizione azzoppante. La subisce. Possimao dire che in consiglio dei ministri Tremonti abbia vinto contro i ministri che non volevano i tagli? Diciamo che i ministri non vogliono andare a casa: in questa chiave, qualsiasi discorso contro Tremonti sarebbe dannoso in mo-

gli, fare una riforma dell’università a costo zero è semplicemente impossibile», dice Pier Ferdinando Casini, «Tremonti e il premier si assumano le loro responsabilità e spieghino al Paese che la Gelmini ha scherzato». Si tratta di vedere se i precari eventualmente esclusi dalla stabilizzazione digeriranno lo scherzo. D’altronde Tremonti accelera e frena sulle scelte dell’esecutivo con grande libertà: annuncia che «da mercoledì passeremo alla riforma del fisco, ci vedremo per individuare le linee fondamentali. Agende permettendo». Può anche passare il grande ristrutturazione immaginata e annunciata da Berlusconi, ma secondo i tempi imposti da via XX Settembre. «La prima cosa era la stabilità. L’Europa ce la chiede e oggi, con l’approvazione del ddl, abbiamo fatto un passo verso l’Europa. La stabilità è anche la premessa indispensabile per qualsiasi intervento sullo sviluppo. E da domani, risolta la prima questione, metteremo la testa sullo sviluppo».

mento di grande difficoltà per la maggioranza. Perché se si impunta lui, cade tutto. Per fare una politica diversa, poi, bisognerebbe fare delle scelte, tagliare da qualche parte, ma il «mal comune mezzo gaudio» prevale come logica tra i ministeri, dove sembra che nessuno sappia elaborare strategie alternative. E allora, proprio per questo, Tremonti è l’unico a prendere decisioni... È l’unico a dare una linea, ed è la

Nella confusione di idee, lui è l’unico a imporre una strada, ed è quella più facile: il pareggio di bilancio

linea del pareggio di bilancio. Una scelta forzosa in un Paese che non è capace di decidere nulla. Bisogna decidere dove si taglia e come, invece si vuole tagliare la spesa come unico obiettivo, senza avere null’altro all’orizzonte. Dopo mesi passati sul rigore molti chiedono lo sviluppo. Lo ha detto anche Montezemolo. Non penso che Tremonti sia contrario pregiudizialmente allo sviluppo. Il problema è che non riesco a capire come riesca a trovare risorse da togliere a qualcuno per darne ad un altro. Qualcuno nella maggioranza va pure scon-

Che tiri un’aria di rassegnazione, nel Pdl berlusconiano, lo lascia intendere Fabrizio Cicchitto, prima ancora che arrivino notizie da Palazzo Chigi: «I conti con cui dobbiamo confrontarci non sono quelli imposti da Giulio ma i conti della nazione che deve evitare di finire come la Grecia». Ma Sandro Bondi non è capace di prender-

tentato: e invece Tremonti non vuole tagliare al sud, né alla Lega, né gli stipendi degli statali). Bisognerebbe imporre razionalizzazioni molto serie: tagliare rami secchi e investire sui punti di eccellenza. Ma in questo Paese non si riesce ad individuare i punti di eccellenza. La crisi di consenso impedisce al governo di fare scelte diverse. Siamo tutti bravi a dire che le cose vanno tutte male, ma sulle cose che vanno bene non riusciamo a metterci d’accordo. Ma l’Europa è un vincolo reale o un parafulmine? Tremonti tiba in ballo continuamente i vincoli europei... È entrambe le cose, ma poiché non si ha il coraggio di fare delle scelte, i vincoli europei diventano principalmente una scusa, per giustificare tagli da spalmare ovunque. Era indispensabile, per il governo porre la questione di fiducia? La fiducia in questo caso è un modo per consentire ai parlamentari di non presentare tutta una salva di emendamenti che non servono a nessuno in questo momento. È un sistema per impedire l’assalto alla diligenza che tradizionalmente si fa con le leggi finanziarie. È una tutela anche per chi preme sui parlamentari. Fa comodo a tutti nella maggioranza, ma anche nell’opposizione, così non può essere accusata di scambismo. Tremonti ha parlato anche di università. La riforma Gelmini è stata molto discussa

la con filosofia. Sulle sue richieste per i Beni culturali è circolata una battuta non proprio incoraggiante di Tremonti, che suonerebbe più o meno così: «La cultura non si mangia». Una specie di de profundis. Debolmente smentito dal presunto autore: «Non fa parte della mia semantica», seguito pochi minuti dopo da un sussulto freudiano: «Andiamo a farci un panino di cultura». È per questo che il responsabile del Collegio romano non partecipa al Consiglio dei ministri: «Con Tremonti

La legge Gelmini è complessivamente una legge accettabile, considerando che una buona legge nel campo oggi è impensabile per il numero di lobby che esercitano le pressioni più disparate. È una legge sufficientemente flessibile per poter essere interpretata dalla autonomia. Con lo sfascio attuale non si può andare avanti in università. Lei ha esperienza universitaria: mancano realmente i soldi? Da un lato lo si sapeva che mancavano i soldi. C’è un taglio che già è stato fatto ai fondi di finanziamento ordinario degli atenei, che i rettori hanno già chiesto di ripianare. E non si riesce a capire che fine si fa. Promettere ai ricercatori soldi che non ci sono è una forma di eccessiva irresponsabilità. Il vero nodo è la ridefinizione del sistema universitario italiano. È una cosa assurda, ma non si sa chi prende una decisione. Bisogna che qualcuno si assuma questo problema e tenga aperte le università d’eccellenza e piano piano chiuda le altre.

risposta alle sue esortazioni, ma il ministro dell’Economia, sulla riforma del fisco, si lascia sfuggire solo una cosa: «Nell’attuale sistema ci sono 242 regimi di esenzioni e agevolazioni, questo vuol dire che l’eccezione è la regola: dovremo discuterne con le forze sociali ed economiche». È un preavviso di risposta negativa, per Bondi, o no?

Sarà Tremonti a chiarirlo nei prossimi giorni. Improbabile che possa farlo Berlusconi, sempre più esautorato e spo-

lità, quel Roberto Maroni che prima di discutere in Consiglio il ddl stabilità già può assicurare che «all’Interno non ci saranno tagli». Nella tabella di marcia preparata da Giulio, infinitamente più attendibile dei cinque punti di Silvio, lo “sviluppo”potrebbe essere sostenuto lungo quattro direttrici: «Il nucleare, la pubblica amministrazione, il Sud, la tematica dei rapporti sociali fino alla riforma fiscale». Tutte cose che dovranno pur sempre passare «al vaglio dell’Ecofin» e dunque essere «coerenti con il piano di stabilità» E gli altri ministri? Giulio chiarisce: «Avanziamo lungo la strada dello sviluppo e per fare questo raccoglieremo tutte le idee che però dovranno essere realizzabili». Poi chiarisce ancora meglio: «Sono benvenute soprattutto le idee traducibili in numeri perché non possiamo mandare in Europa solo avverbi e immagini». Niente avverbi. Al Verbo ci pensa Tremonti.

Gelmini rimessa in riga: «Faremo tutto il possibile per l’università», dice il responsabile dell’Economia. Lo sviluppo? «Idee con i numeri, l’Europa non vuole avverbi»

Qui sopra, Galan. In alto, Paolo Pombeni e Renato Schifani. Nella pagina a fianco, Tremonti

parlerò nei prossimi giorni», si limita a dire. Aggiungendo: «Chiedo solo che siano salvate le defiscalizzazioni per i privati che investono nella cultura: è una cosa che non costa nulla e che ci permette di non estinguere i nostri fondi, compresi quelli per il cinema». Non sarà una

gliato della capacità di attuare i cinque punti illustrati in Parlamento. I tempi, come per il fisco e l’università, continuerà a dettarli il responsabile dell’Economia. Con il beneplacito della Lega. Oltre a Bossi, non a caso, c’è solo un altro esponente dell’Esecutivo a esibire tranquil-


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l’approfondimento

Le regole non prevedono una «autorità terza» che verifichi i conti presentati da via XX Settembre. Solo la Bce può dire la sua...

Fuori controllo

Solo il governo e il Parlamento possono vigilare sulle entrate e sulle uscite decise dal ministro dell’Economia. Ma non lo fanno. Così il Paese deve «fidarsi» al buio di Tremonti. È giusto? lo abbiamo chiesto a Barbera e Vaciago di Riccardo Paradisi icordate quando il ministro dell’economia parlava della necessità di un controllo sulle banche? Erano gli inizi di marzo del 2009 e Giulio Tremonti così parlava: «Serve un sistema di controllo legato al governo che sia in grado di verificare l’effettiva erogazione di credito». Controllo da affidare addirittura alle prefetture».

R

L’intendenza leghista seguiva, confortando e sostenendo la posizione del ministro di via XX settembre: «Noi gli abbiamo dato i soldi alle banche, ma non per tenerseli, per darli alle imprese» chiosava Umberto Bossi. «Tremonti vuole affidare il controllo alle prefetture e ha ragione». Il pallino della vigilanza e del «chi controlla chi» è questione che giustamente occupa gran parte dei pensieri del ministro dell’Economia. Dopo il crack globale, generato dal fallimento di Lehman Brothers, Tremonti si chiedeva chi controllasse i controllori delle agenzie di rating che fino al giorno precedente la grande

esplosione della bolla speculativa alimentata dai hadge founds avevano quotato positivamente aziende che si sarebbero rivelate pozzi avvelenati. Ultimamente Tremonti ha avanzato qualche sospetto anche sull’incontrollato strapotere di Google. «Se guardate Google vi rendete conto che è più significativo di un paese del G7, modella la vita di tutti noi. Ma che democrazia c’è in Google, dove tutto si trasmette in tempo reale? Chi controlla?» Preoccupazioni di una sincera coscienza democratica, di chi oltre alla partecipazione ha a cuore anche l’interesse nazionale. Tra le stesse fila del governo, ma nella stessa maggioranza comincia a farsi largo lo stesso scrupolo che assilla Tremonti su controlli e controllori, con un piccolo particolare, che la questione del controllo in questo caso è rivolta verso lo stes-

so ministro dell’Economia. Insomma dai ministeri e dai settori del Pdl che soffrono la cinghia stretta di Tremonti, che hanno somatizzato i tanti ”no” opposti dal ministro alle richieste di fondi e coperture finanziarie per riforme avviate o promesse e per mettere pezze ai buchi delle amministrazioni sale la domanda su chi controlla Giulio Tremonti. Insomma chi, se non lui stesso, garantisce davvero che i soldi per questo o quel provvedimento non ci sono? In merito alla riforma dell’università, preparata dal ministro competente Mariastella Gelmini, Tremonti ha opposto un nuovo niet, che non smentisce solo la Gelmini ma lo stesso presidente del Consiglio che aveva inserito la riforma universitaria nelle priorità dell’agenda di governo. Persino Giorgio Stracquadanio, deputato Pdl che certo non può esse-

re accusato di frondismo all’interno della maggioranza, rilascia dichiarazioni di rottura verso il titolare dell’Economia: «Tremonti ha negato se stesso, si è smentito da solo. E, pur essendo il primo a volere il rilancio dell’università, fa prevalere la tirannia dello status quo. Rischiamo di avere un Paese in

È l’Europa l’unica in grado di incidere sulle scelte dell’esecutivo tensione e non in crescita. Non possiamo permettercelo e non è il Paese che Berlusconi voleva al momento del suo insediamento al governo». Analisi che coincide curiosamente in molti punti con quella

di Montezemolo: «Non possiamo più accontentarci dell’immobilismo che si trincera dietro un rigore a la carte. Non ci sono soldi da investire per cultura, infrastrutture, ricerca, taglio delle tasse, giustizia,a scuola, servizi alle famiglie. Non ci sono risorse per crescita e investimenti. Mai una volta che mancassero però i fondi per alimentare la spesa pubblica improduttiva (province in testa) o i costi della politica. Chi ha l’onere e l’onore di ricoprire un importante incarico di governo ha anche il dovere di spiegare al Paese le sue scelte senza indulgere in atteggiamenti di autosufficienza. Imprese e lavoratori continuano a combattere. Berlusconi lo sa bene, è stato un grande imprenditore proprio del settore della cultura e dello spettacolo. Il suo dna è sempre stato quello dell’attaccante e soprattutto su questo ha costruito i suoi successi imprenditoriali e politici».

E del resto è lo stesso Berlusconi per primo a subire gli stop di Tremonti, a vedersi


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Slitta il parere sull’autonomia fiscale. Gli ostacoli: la manovra e i piani di rientro degli enti commissariati

Le Regioni sul piede di guerra «Dateci soldi, non il federalismo» Nel mirino il decreto sui costi fissi, ma in realtà i governatori vogliono soprattutto recuperare finanziamenti per la sanità e per i servizi di Francesco Pacifico

ROMA. Fossero tutti come Roberto Cota, Giulio Tremonti e Umberto Bossi potrebbero dormire sonni tranquilli sui destini del federalismo fiscale. Perché se ieri il governatore piemontese ha annunciato che già da quest’anno applicherà «i costi standard sulla sanità per ridistribuire i budget alle singole Asl», i suoi colleghi – del Nord e del Sud – sembrano interessati a partite che hanno effetti già sui bilanci di quest’anno: i tagli da 8,5 miliardi per il prossimo biennio previsti dalla Finanziaria e i piani di rientro per gli enti sotto commissariamento per i buchi della sanità. Al riguardo il governatore emiliano Vasco Errani è stato chiaro: «Il federalismo fiscale deve partire, ma affrontando il problema relativo alla manovra».

Quanto interesse ci sia in questa fase per costi standard e autonomia finanziaria – che se tutto va bene non si inizieranno a sperimentare tra il 2013 e il 2014 – lo si è compreso bene nell’ultima due giorni alla Conferenza delle regioni: non si è entrato nel merito dei criteri che in futuro definiranno la spesa ed è stato deciso di far slittare di altre due settimane il parere che i governatori devono dare sull’ultimo decreto firmato da Roberto Calderoli e Giulio Tremonti. I governatori, invece, hanno raggiunto la piena unanimità soltanto quando è stato dato mandato a Romano Colozzi – assessore lombardo al Bilancio e coordinatore della Conferenza sulle materie finanziarie – di istituire un tavolo per trovare una soluzione sulla manovra. Nella prima stesura Giulio Tremonti ha previsto di recuperare nel prossimo biennio un paio di miliardi di euro dal patto di stabilità interna e, soprattutto, 8,5 miliardi tagliando i trasferimenti per i poteri devoluti dalla Bassanini. E parliamo di materie delicate e costose quali il trasporto pubblico locale o gli incentivi alle famiglie e alle imprese. La questione diventa delicata perché, come ha ricordato ieri Vasco Errani, non si può parlare di costi standard e imposizione regionale, se «prima non si discute di Lea e Lep, cioè di quanto l’ente può spendere per i propri cittadini. E se si tagliano le risorse (quelli per le materie devolute dalla Bassanini, ndr), allora non si capisce che cosa stiamo federalizzando». Dopo le proteste degli enti locali, Tremonti – pare ispirato dal presidente della Copaff, Luca Antonini – ha messo una pezza peggiore del buco: le Regioni possono sia recuperare gli 8,5 miliardi anche dalle risorse destinate in bilancio alla sa-

nità sia mettersi d’accordo tra loro per decidere chi deve tagliare e chi no. Sulla carta è questo il compito dell’assessore Colozzi: mettere il naso nel bilancio dei propri colleghi, imporre loro più rigore o concedere salvacondotti, spalmare in chiave più solidaristica il conto presentato dal governo. Ma è un’impresa titanica quanto il tentativo di Tremonti di spingere i governatori a tagliare sulla sanità. Così non resta che provare a intervenire sul saldo stesso

Errani: «Dopo i tagli della Finanziaria su famiglie e trasporti non si capisce che cosa stiamo federalizzando» della manovra, che fino a qualche settimana fa sembrava tabù. Da mesi Umberto Bossi parla di un miliardo e più da poter stanziare per le Regioni più virtuose. Dal canto suo Tremonti, ha promesso che – libero da scadenze finanziarie – avrebbe studiato il problema. Complici le pressioni di Mauro Moretti e l’impegno di Palazzo Chigi ad aprire un tavolo sul trasporto pubblico locale, si rafforza giorno dopo giorno l’ipotesi che l’esecutivo potrebbe partecipare a saldare i contratti di servizio tra gli enti locali e le ferrovie, indispensabili per “pagare” i treni dei pendolari. Quest’ipotesi potrebbe concretizzarsi con un emendamento al prossimo Milleproroghe, quindi a inizio del 2011. Ma fino ad allora bisognerà far accettare questa soluzione alle Regioni del Sud, che avendo meno binari e pendolari sul territorio rispetto agli enti del Nord, potrebbero sentirsi penalizzati. Dopo aver coagulato intorno a sé le altre Regioni e Province a statuto speciale al grido che «questo fede-

ralismo non si può applicare a noi», ieri Raffaele Lombardo ha posto un altro ostacolo al governo: «Il federalismo», ha detto il governatore siciliano, «vale soltanto se al tempo stesso si avvia un percorso di equiparazione che riguarda le infrastrutture». Il campano Stefano Caldoro e il calabrese Giuseppe Scopelliti hanno presentato ieri mattina ai loro colleghi due pagine di emendamenti alla parte dell’ultimo decreto sul federalismo che si occupa di costi standard. Emendamenti, per la cronaca, sui quali non si è neppure entrati nel merito, perché al momento il problema è politico. Infatti per tutto il Sud prioritario è soprattutto il capitolo sanità. Il prossimo 23 ottobre i ministri Tremonti e Fazio dovrebbero dare il loro parere ai piani di rientro delle sei Regioni sotto commissariamento. Senza il quale le Regioni interessate non potranno sbloccare le cifre già accantonate o attingere ai Fas per pagare i fornitori.

A quanto pare sia i tecnici del Tesoro sia quelli della Sanità sarebbero pronti a chiedere sforzi in più. Con il risultato di aprire l’ennesimo fronte nel centrodestra. In Campania da settimane i farmacisti non accettano più ricette sui farmaci rimborsabili. Dal Lazio, dove i medici sono in agitazione, Renata Polverini ha già fatto sapere che non ha margini per ulteriori tagli. Se Giulio Tremonti si mostrerà più rigido del dovuto sui tagli della manovra e sui conti della sanità delle regioni, difficilmente riuscirà nell’intento di approvare entro marzo tutti i decreti attuativi sul federalismo fiscale. E i dubbi dei governatori sul calcolo dei costi standard diverranno macigni insormontabili.

bloccate le iniziative immaginate e annunciate. Insomma la domanda chi controlla Tremonti non è peregrina. Chi assicura che i soldi davvero non ci sono? E chi assicura per esempio – come ha ipotizzato qualcuno aprendo scenari fantapolitici – che il ministro dell’Economia non tenga in disparte un tesoretto utile a una discesa in campo in prima persona qualora Berlusconi uscisse di scena? Domanda seria appunto destinata però – e questo è il punto – a non avere risposta o ad avere solo una risposta politica. Già perché non esistono authority terze che possano sindacare le scelte insindacabili del ministro dell’Economia. Esistono solo autorità politiche, come il governo e la maggioranza. «Il ministro del tesoro – dice il costituzionalista Augusto Barbera – ha un potere che gli deriva dalla sua diretta responsabilità sui conti pubblici. Ed è giusto che sia così perché l’alternativa sarebbe il caos della prima repubblica dove nessuno si assumeva le proprie responsabilità. D’altra parte se dell’attuale ministro dell’Economia non si condividono le scelte il governo e il parlamento hanno la possibilità di sfiduciarlo. Tanto più che da noi ci potrebbe essere un voto in disaccordo con il ministro del Tesoro in Inghilterra no». Certo, c’è la Corte dei conti, «ma la magistratura contabile può intervenire solo alla fine dell’anno in sede di bilancio consuntivo, non lo può fare adesso. Se il parere della Corte dei conti sarà negativo il parlamento potrà sbarazzarsi del ministro del Tesoro. Così come si potrà tenere conto del fatto che gli stanziamenti sono stati impiegati per obiettivi diversi o minori. Ma insomma il ministero del tesoro e la ragioneria dello Stato hanno una loro sacrosanta autonomia e sono dotati di propri apparati che valutano la copertura finanziaria». Autocrazia tremontiana dunque? «Non esageriamo», dice Giacomo Vaciago, economista e attento osservatore della politica economica del governo. «È già stato deciso dopo il disastro greco che Bruxelles terrà sotto controllo i conti dell’italia e della Spagna con particolare attenzione e darà il suo giudizio sulle scelte fatte e che si faranno per capire se garantiranno crescita e stabilità». Ma non ci guarda solo l’Unione europea. «Basta leggere che cosa ha detto la Bce oggi sull’Italia: ci riservano una tirata d’orecchie da far male sul fatto che non cresciamo abbastanza. Quanto è costata l’abolizione dell’Ici? Non era meglio investire sull’università?». Autorità ”morali” certo, ma non inoffensive. «Capaci di pressioni sufficienti – dice Vaciago – perché non solo Tremonti ma anche il suo successore, non facciano solo di testa loro».


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pagina 6 • 15 ottobre 2010

ragioni&torti di Giancristiano Desiderio

Caro Cavaliere, almeno li chiami «Caffè party» segue dalla prima La quale Santanché, vale ricordardo, è colei che disse «Berlusconi la vuole ma io non gliela do». Ebbene, che cosa c’è di nuovo in questa strategia elettorale dei Tea Party? La strategia stessa. Che cosa c’è di nuovo nella politica del Cavaliere? Niente. Senza contare che: ce li vedete gli italiani alle cinque del pomeriggio che si fermano per il tea? Meglio chiamarlo «caffè party», semmai.

Il fenomeno politico di Silvio Berlusconi è strettamente legato al marketing elettorale. Fin dalla sua ormai lontana decisione di “scendere in campo”. Alla “gioiosa macchina da guerra” del Pds di Achille Occhetto fu opposta la gioiosa macchina elettorale di Publitalia. La differenza tra il 1994 e il 2010 è non solo nell’acqua che è passata sotto i ponti, ma anche e soprattutto che la retorica pubblicitaria del passato era finalizzata a un progetto politico. Forza Italia aspirava ad essere un partito liberale di massa e dopo la fase della rivoluzione liberale passata sotto i ponti come l’acqua già citata si aprì la fase del popolarismo europeo dopodiché Berlusconi decise di salire sul predellino. Oggi per ridare nuova linfa vitale al Pdl Berlusconi dovrebbe salire direttamente sul tetto della macchina: l’idea americana dei Tea Party copiata dalla destra conservatrice e qualcosina in più risponde proprio a questa esigenza. Se nel lontanissimo anno Novantaquattro - quello dello “spirito del 27 marzo”, come si iniziò a dire dopo il ribaltone della Lega - tra marketing e politica c’era una differenza, oggi tra marketing elettorale e progetto politico c’è perfetta identità. La politica è tutta risucchiata nel marketing. È marketing e basta. Berlusconi si prepara a vendere agli italiani una scatola vuota. Quello che a Napoli si chiama “pacco”. Naturalmente, l’idea berlusconiana può essere nobilitata e interpretata in chiave moderna. Si potrà dire, ad esempio, che i partiti sono dei ferri vecchi inutilizzabili, che la gente non sa che farsene e che servono strumenti nuovi per creare partecipazione. Insomma, i Tea Party possono essere visti come un’ulteriore momento di modernizzazione e “liquidità” della politica del nostro tempo. Può darsi che tutto questo possa avere un senso. Tuttavia, c’è un piccolo particolare che rende incredibile - nel senso di non credibile - la traduzione berlusconiana dei Tea Party: il volto politicamente vecchio di Silvio Berlusconi. La strategia nuova esige anche un volto nuovo: il cambio di passo vuole anche un cambio generazionale e una politica innovatrice richiede anche un leader politico che mantenga ciò che promette o che almeno risulti credibile proprio perché non ancora usato. Tutte queste caratteristiche Berlusconi non le ha più. Il suo slogan più noto e felice - meno tasse per tutti - si è rivelato terribilmente falso: le tasse erano alte e sono altissime. L’uomo che voleva cambiare l’Italia si è limitato di volta in volta a cambiare strategia elettorale. È il caso di cambiare l’uomo.

E alla fine Telecom conquista l’Argentina Via libera dall’Antiturst: agli italiani il controllo di Sofora di Alessandro D’Amato

ROMA. «Torniamo ad essere una società normale». Questo scappa detto a un Franco Bernabè raggiante mentre racconta dell’accordo con la famiglia Werthein che permette a Telecom di salire al 58% di Sofora, la holding che a cascata controlla Telecom Argentina. «Ora l’azienda può guardare alla crescita e non solo alla riduzione del debito, e pensare al futuro con meno ansia e meno pathos», ha aggiunto ancora l’ad, segno che il dossier sudamericano era molto più importante di quello che le dichiarazioni rassicuranti dei manager Telecom sembrava far supporre.

L’ok all’aumento della quota in Sofora, riferisce l’Ansa, è stato deciso in seguito all’accordo con la famiglia Werthein che cede l’8%, ed è stato annunciato nel corso di una conferenza stampa alla Casa Rosada, dopo un incontro tra i vertici di Telecom, quelli di Telefonica e la presidente Cristina Kirchner. I Werthein incassano un dollaro simbolico, ma soprattutto la rinegoziazione dell’opzione call che avrebbe consentito a Telecom di salire al 100%. Allo stesso tempo, Telecom accetta una serie di impegni a tutela della concorrenza, visto che Telefonica, azionista di Telecom attraverso Telco, è anche autonomamente attiva in Argentina. Si tratta di impegni, ha spiegato Bernabè, basati su un «compromesso che è più stringente di quello assunto davanti alle autorità brasiliane, con una esecutività più forte». In particolare, Telefonica non potrà partecipare alle decisioni su Telecom Argentina e questo dovrà essere scritto anche nello statuto e nei patti parasociali dei soci Telco. In Telecom Argentina, inoltre, verrà costituito un «Comitato di conformità regolatoria» composto da membri non scelti da Telecom che accerterà che non ci sia un cartello con Telefonica. In pratica, quindi, all’azionista di minoranza Werthein spetterà il compito di vigilare sugli impegni assunti.

di riportare i parametri del debito su Mol a livello non dico di normalità ma quasi». L’ad non si è sbilanciato sui numeri, ma ha spiegato che se Telecom Italia «avesse consolidato nel 2009 il rapporto debito/ebitda sarebbe sceso da 2,9 a 2,7». Telecom Argentina, infatti, è una società sana, senza debiti: ha una quota di mercato del 47% nel fisso, del 35% nell’Adsl e del 31% nel mobile. Nel 2009 ha registrato ricavi per 2,5 miliardi di euro e un ebitda di circa 800 milioni di euro. «Telecom Argentina può essere importante anche ai fini delle agenzie di rating», ha poi aggiunto Bernabè, anche se Standard & Poor’s nel pomeriggio ha gelato gli entusiasmi: «Per noi non influisce, confermiamo il BBB/stabile/A-2» .

I Werthein, nuovi controllori privati dell’investimento argentino, hanno già detto di non voler diluire la propria quota, anche se, hanno aggiunto, «siamo imprenditori...». A margine del via libera delle autorità argentine all’operazione, Adriano Werthein, rappresentate della famiglia Werthein, ha spiegato di non valutare al momento una diluizione della quota in Sofora. «Siamo soci strategici», ha sottolineato. Per la cessione del loro 50% di Sofora, secondo il vecchio accordo, i Werthein avrebbero incassato circa 175 milioni di dollari. Il gruppo italiano, invece, è reduce da anni di battaglie legali, cominciate più o meno in concomitanza con l’arrivo di Telefonica nella compagine azionaria. Telecom sbarca in Argentina (insieme a France Telecom) all’inizio degli anni ’90, nell’era delle privatizzazioni: dopo un periodo di crescita sfrenata, con un indebitamento che raggiunge i 3 miliardi di dollari, arriva il brusco risveglio del default del paese e della società, che per Telecom Italia diventa un vero e proprio incubo finanziario. Si apre dunque un biennio molto difficile, in cui France Telecom esce completamente di scena e Telecom trova un partner nella famiglia Werthein.Tra il 2004 e il 2005 si normalizza la situazione, ma con l’ingresso di Telefonica in Telco le frizioni cominciano a farsi sentire e, in vista della possibilità per Telecom di esercitare la call, i Werthein fanno resistenza e il governo argentino impone a Telecom di vendere. I giudici però danno ragione agli italiani, e a quel punto la famiglia argentina apre la trattativa fino all’accordo di ieri notte.

Quella sudamericana è una società sana, senza debiti: ha una quota di mercato del 47% nel fisso e del 31% nel mobile

Per Bernabè l’accordo «consente di ridare un senso alla dimensione internazionale di Telecom Italia, che con il Brasile adesso può dire di avere una presenza in Sudamerica», anche se ha aggiunto che non sono in vista integrazioni tra i due asset; ma soprattutto «perché permette di consolidare senza esborsi di denaro Telecom Argentina, consentendo


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15 ottobre 2010 • pagina 7

Arrestati diciannove tifosi al loro ritorno in Serbia, mentre Ivan Bogdanov, il capo degli hooligans chiede scusa all’Italia

Maroni ultrà: «Polemiche da ridere» Il Viminale fa l’ironico e continua ad attaccare Belgrado: «Tutta colpa loro» di Marco Palombi

ROMA. Roberto Maroni ha «le spalle larghe» e dunque sulle critiche per la gestione dell’ordine pubblico durante Italia-Serbia a Genova ci fa «una risata sopra». D’altronde, ha spiegato ieri, «sono stato accusato in modo comico dal sindaco della città, Marta Vincenzi, di essere responsabile di tutto. Dico in modo comico perché contemporaneamente il sindaco ha elogiato l’operato delle forze dell’ordine. Allora, quando si arrestano i mafiosi non è merito del ministro ma delle forze dell’ordine, quando succede l’incidente non è colpa delle forze dell’ordine ma del ministro». Il fatto è, sostiene il ministro dell’Interno, che «ci sono tanti professori in giro, ma nessuno prima ha detto “attenzione”, parlano tutti dopo». Sia detto en passant che il ministro dell’Interno a volte ride, altre meno: ad esempio ha querelato la deputata del Pd, Laura Garavini, per alcune sue frasi sui mancati controlli sulla trasparenza delle liste elettorali e sull’infiltrazione della ’ndrangheta in Lombardia.

guarda il mancato controllo alle frontiere sui soggetti ritenuti più pericolosi. Maroni fa finta di non capire ma sa benissimo qual è il punto: «Ho analizzato con il capo della polizia ciò che è avvenuto – ha insistito infatti a Porta a Porta - e non ho nessuna censura da muovere a chi ha gestito l’ordine pubblico, prefetto e questore, in una situazione così difficile. Anzi è stata evitata una strage, poteva essere un Heysel 2». Il problema, allora, riguarda la pre-

venzione, il ruolo dell’intelligence e il rapporto con le autorità serbe. Proprio su queste ultime, Maroni ha scaricato tutta la colpa: «Il messaggio che abbiamo ricevuto dall’Interpol di Belgrado l’8 ottobre parlava di cento tifosi che sarebbero partiti per Genova per assistere all’incontro di calcio, divisi in due gruppi. E si riservavano di comunicare ulteriori notizie nel caso fossero sopraggiunte». Tutto qui, sostiene il Viminale, e questo «ha indotto la nostra polizia a considerarla una partita che si poteva gestire con le forze che abbiamo messo a disposizione. È chiaro che se ci avessero detto che arrivava una banda di criminali che poteva mettere a ferro e fuoco la città, avremmo gestito la cosa in modo diverso». Insomma, «c’è stata una carenza di informazioni». Stessa posizione per il capo della Polizia Antonio Manganelli: i rapporti coi colleghi serbi «restano ottimi», ma gli incidenti di martedì sera testimoniano «evidenti falle nel circuito informativo tra i due Paesi».

Il ministro approfitta della solita platea di «Porta a porta» per fare accuse e negare spiegazioni

Quanto alle critiche di questi giorni, il titolare del Viminale fa finta di non capire che l’elogio è stato rivolto alle forze dell’ordine presenti allo stadio Ferraris martedì sera e che hanno tenuto sotto controllo la situazione («non intervenendo per non rischiare un’altra Diaz», ha sostenuto qualcuno dei responsabili), mentre la critica ri-

Da Belgrado, dopo le bordate di mercoledì («da noi non sarebbero mai entrati allo stadio con tutta quella roba»), ieri sono arrivati toni più concilianti: la polizia serba, ha fatto sapere il ministro dell’Interno Dacic, ha arrestato 19 hooligans ritenuti responsabili degli scontri di Genova. Li hanno

beccati al confine, controllando i pullman dei tifosi che tornavano a casa. «Finora sono rientrati in 529 - ha fatto sapere il governo di Belgrado – e 169 di loro sono già stati individuati dalla polizia». Il bilancio complessivo della serata di guerriglia di tre giorni fa è di 45 persone denunciate a piede libero, 35 decreti di espulsione e otto arrestati che sono nelle carceri del capoluogo ligure. Tra questi c’è l’oramai famoso Ivan Bogdanov, il tizio incappucciato che pareva guidare i colleghi hoolingans. Ieri s’è scusato con l’Italia per bocca del suo avvocato difensore (d’ufficio): «Mai abbiamo pensato di danneggiare questo paese, che ci piace molto. Non c’ero mai stato, ma è bellissimo. Non mi aspettavo che ci fossero problemi politici con l’Italia e non credevo che la partita sarebbe stata sospesa». L’incappucciato «sostiene di non avere nulla a che fare con le tigri di Arkan e il nazionalismo più estremo – ha spiegato il legale – è solo un nazionalista come tutti i serbi, non segue la politica ed è tifosissimo della Stella Rossa». Ivan, che per la cronaca ha trent’anni, punta al patteggiamento: due anni di pena e contestuale espulsione verso casa, l’amata Serbia. Se il giudice non accettasse il patteggiamento, a stare alla legge Pisanu ne rischia fino a quattro: andasse così, mandarlo via potrebbe scontare parte della pena in questo bellissimo paese.

Nomine. L’arrivo di Paolo Romani al ministero accelera il giro di valzer delle poltrone

Veronesi verso l’agenzia nucleare ROMA. L’arrivo di Paolo Romani alle attività produttive coincide con il ritorno di moda dell’energia nucleare, con annesse nomine. La prima è arrivata, ma francamente un po’ delude: alla Sogin (società di gestione degli impeianti nucleari) è tonrato Giuseppe Nucci, malgrado l’ex Francesco Mazzuca si aspettasse di rimanere al suo posto (diceva addirittura di aver ricevuto rassicurazioni dal ministero e visto che Romani non era ancora arrivato, è chiaro che le parole «di conferma» erano giunte dal sottosegretario Stefano Saglia). Invece Giuseppe Nucci l’ha superato in dirittura d’arrivo, chiaramente per l’intervento di Romani. Non è un nome nuovo, quello di Nucci: è un cavallo di ritorno poché appartiene a uno dei periodi più controversi della Sogin. All’epoca - quella del contestato deposito di Scanzano Jonico, per intenderci - Nucci tentò di porre argine al caos dovuto soprattutto all’enorme passivo che la società si trovò costretta a sopportare facendoselo comunque ripianare dallo Stato. Per di più, Sogin tornò sui giornali in virtù delle polemiche seguite alla partecipazione al primo Salo-

ne del Libro Usato, organizzato da Publitalia e fortemente voluto da Marcello Dell’Utri. Un evento per il quale l’azienda spese 257mila euro. Ma la decisione di partecipare era dovuta alla precedente regìa societaria. Intanto, con la gestione Nucci, la spesa per il lavoro della società superarono i cinquanta milioni, mentre i costi del decommissioning (lo smantellamento delle vecchie centrali, eredi della

ti negli uffici di via Torino. Ma ormai era troppo tardi e la Sogin finì commissariata.

Intanto per la presidenza dell’Agenzia Nucleare si fa sempre più seria la candidatura di Umberto Veronesi, senatore del Pd che decadrà dalla nomina in caso di accettazione della carica. Fonti Enel si aspettano la nomina entro un paio di settimane, visto che quello del professore sembra il nome più giusto per rassicurare anche a livello mediatico sul programma nucleare del governo. Lui intanto non arretra di un passo, e conferma che sarebbe disposto a prendere la carica, anche se questo significherebbe l’addio al Partito Democratico. Anche se le critiche della Gabanelli di questa estate (non è abbastanza competente, ed è anche piuttosto anziano per la carica) ancora bruciano. (a.d’a.)

Intanto, alla Sogin è tornato Giuseppe Nucci che aveva già gestito la società prima del commissariamento: ha battuto Mazzuca sul filo di lana precedente stagione del nucleare all’italiana) arrivarono a 4 miliardi di euro totali. Le consulenze scoppiarono e Nucci giocò la carta dell’austerità: stop agli esterni, taglio minimo del 10% alle remunerazioni, concorsi trasparenti, revisione degli appalti, chiusura di una sede romana che costava settecento milioni di affitto l’anno con accorpamento dei dipenden-


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politica

Indecisi. I democratici sono sempre più divisi sul proprio futuro: in assenza di una strategia precisa, finiscono per scontentare tutti (e perdere ulteriori consensi)

Bersani, l’inseguitore Il Pd non sa scegliere? «Alla fine chiederà alleanze a destra e a sinistra» dicono Cacciari, De Giovanni e Pasquino di Gabriella Mecucci

ROMA. «Pier Ferdinando Casini sta interpretando con intelligenza il suo ruolo e aspetta che sia il centrosinistra sia il centrodestra gli chiedano una mano. È pronto a essere il candidato del centrosinistra o, nel caso dell’anatra zoppa, che si formi un governo senza Berlusconi». Il filosofo Massimo Cacciari vede così l’attuale situazione politica alla luce anche del patto tra Bersani e Vendola.

Cacciari disegna uno scenario che vede il leader dell’Udc al centro del quadro politico: «Sarà un vero e proprio film comico. Ora i rapporti con l’Udc dal punto di vista strategico-politico non possono avere alcuno sviluppo, ma quando si accorgeranno che l’alleanza con Vendola vale non più del 25 per cento D’Alema si precipiterà da Casini offrendogli mari monti. Tutto questo senza alcuna preparazione strategia, ma soltanto dettato dalla regola del “primum vivere”. Casini è una persona intelligente e sa che il giorno prima di andare a votare andranno da lui, pregandolo di fare il salvatore della patria. Come al solito invece di costruire un percorso in prospettiva, con una valenza politica si otterrà un risultato peggiore dell’Ulivo. Con Prodi la strategia fu preparata da personalità di rilievo come Beniamino Andreatta e altri, oggi invece le scelte saranno dettate dallo stato di necessità». Il patto tra Bersani e Vendola per Cacciari è «ormai scontato dopo l’uscita di Rutelli e quella di Veltroni, anche se non formalizzata, perché non ci sono più le condizioni per le quali era nato il Pd. Ormai la scelta inequivoca è quella di essere un normalissimo partito, in questo caso partitino, socialdemocratico europeo. Dal canto suo Berlusconi senza Fini avrà una partita difficilissima. Con il sistema attuale non ce la farà a ottenere la maggioranza al Senato e ci sarà, al 99 per cento, l’anatra zoppa. Una situazione del genere Berlusconi la vivrebbe come una sconfitta, potrebbe lasciare il testimone. A quel punto da Napolitano si presenterebbero Tremonti e Bossi con Casini per fare il governo e il Pd con Vendola rimarrà all’opposizione fino alla fine del mondo».

Dietro ai riflettori dell’Assemblea si è consumata una rottura con la minoranza

E adesso Marino minaccia un referendum sui temi etici di Francesco Costa

ROMA. C’è uno buco nero nel Pd, difficile da colmare: è quello dei temi etici che continua a dividere il corpo del partito. In questa chiave, sabato scorso un piccolo caso ha agitato la parte finale dei lavori dell’Assemblea Nazionale del Partito democratico, tenuta a Varese. Se ne sono accorti quelli che hanno notato la sbilenca conclusione del discorso di Pier Luigi Bersani, che finisce il suo intervento, ringrazia i delegati, li saluta e poi, mentre questi si alzano e i fotografi si avvicinano al podio, torna rapidamente ai microfoni per una «comunicazione di servizio». Per capire cos’è successo bisogna fare qualche passo indietro.

Lo statuto del Pd prevede che si possano sottoporre al voto dell’assemblea tutti gli ordini del giorno che raccolgono le firme di almeno cinquanta delegati. Durante il primo giorno di lavori, venerdì, Ignazio Marino e i delegati appartenenti alla sua area hanno raccolto firme e adesioni attorno a tre ordini del giorno inerenti altrettanti temi particolarmente controversi all’interno del partito: il testamento biologico, l’energia nucleare e la disciplina legislativa delle unioni civili. Le cinquanta firme vengono raggiunte su ogni documento, e non era scontato: stando ai risultati del congresso, infatti, Marino può contare su poco più del dieci per cento dei delegati del Pd. Che sono mille, ma aVarese non erano più di quattrocento. Gli ordini del giorno chiedono al Pd di prendere alcuni impegni precisi. Quello sul nucleare impegna le amministrazioni locali a esprimersi proponendo mozioni contro il nucleare, «perché serve una presa di posizione formale e strumenti concreti per contrastare la politica del governo in materia di energia». Quelli su testamento biologico e unioni civili impegnano il partito a chiedere l’opinione degli iscritti su questi temi attraverso l’invio di un questionario online. L’occasione è appropriata a questo

genere di discussione: lo scopo della riunione assembleare è proprio il lavoro attorno ad alcuni documenti programmatici allo scopo di definire meglio l’identità e le proposte del partito. Trattandosi però di temi particolarmente delicati, prima la presidente Rosy Bindi e poi lo stesso Bersani chiedono a Marino e ai suoi di ritirare gli ordini del giorno, in cambio della promessa che il segretario avrebbe affrontato questi temi nel corso della sua relazione finale.

Torniamo quindi al punto di partenza. Bersani inizia e conclude la relazione, senza dire una parola sui tre temi oggetto degli ordini del giorno di Marino. Ringrazia i delegati, saluta e dà a tutti appuntamento a Napoli. Nel frattempo Marino si alza in piedi e agita le braccia verso Bersani. E quindi Bersani torna frettolosamente ai microfoni. Dice che sono stati presentati degli ordini del giorno «sui diritti civili e quelle cose lì» e che se ne discuterà alla prossima assemblea del partito (prevista per dicembre, a Napoli). Dura tutto non più di venti secondi, poi Bersani lascia il podio, stavolta definitivamente. I mariniani sono arrabbiati e delusi. «”Quelle cose lì” sono le vite di milioni di persone. Abbiamo ritirato gli ordini del giorno perché Bindi ci aveva assicurato che Bersani ne avrebbe parlato», ha detto Ignazio Marino. «Adesso siamo pronti ad aprire un referendum tra i votanti delle primarie: lo proporremo alla prossima assemblea, insieme ai tre ordini del giorno». Difficilmente a Napoli si riuscirà a trattenere i mariniani dal sottoporre all’assemblea le tre questioni, e il rischio per Bersani è evidentemente quello di mostrare un partito incerto e diviso su temi di grande rilevanza, per l’ennesima volta. E i mariniani alzano la posta: non più solo gli ordini del giorno, ma addirittura la proposta di un referendum tra gli iscritti.

Il segretario aveva promesso di trattare temi sensibili, ma poi se n’è scordato

Qui sopra, Bersani e Casini. A sinistra, Ignazio Marino. Sotto, Biagio De Giovanni. A destra Massimo Cacciari e, sotto, Gianfranco Pasquino. Nella pagina a fianco, Epifani con Susanna Camusso

Parla di passaggio obbligato anche Biagio De Giovanni, anche se per lui si è trattato di un sistema per «neutralizzare Vendola, inserendolo in un circuito per condizionarne l’azione, dal momento che il leader di Sinistra, ecologia e libertà era deciso a proporsi come candidato alla guida della sinistra. Questa posizione avrebbe creato non pochi problemi al Pd, come ha dimostrato in molte occasioni. Bersani non aveva, quindi, altra strada che quella di “neutralizzare”Vendola inserendolo nella coalizione, con la convinzione di vincere le primarie, anziché trovarselo contro. Nella situazione attuale non mi sentirei, tra l’altro, di escludere una possibile vittoria di Vendola, cosa impensabile negli anni scorsi, quando chi si proponeva in opposizione al segretario del partito collezionava una pessima figura. Vendola sta, invece, ottenendo il risultato importantissimo di partecipare a pieno titolo alla battaglia per la leadership». La necessità di fare delle alleanze per il Pd è sottolineata anche dal professor Gianfranco Pasquino secondo il quale «è l’unico sistema per sconfiggere il Pdl, ma se i potenziali al-


politica

15 ottobre 2010 • pagina 9

A Roma il corteo contro Marchionne e l’accordo di Pomigliano

Sui democratici pesa anche la «grana Fiom» Andare o non andare alla manifestazione di domani? E Maroni annuncia: «Rischio incidenti e infiltrazioni» di Antonio Funiciello

e dei 75, ma anche di Chiamparino e di altri. È chiaro che un Pd Bersani-Vendola non è solo totalmente socialdemocratico, ma è anche per metà meridionalizzato il che rende ancora più difficile l’esistenza del partito al Nord».

leati pongono dei veti la situazione si complica. Bersani tra l’Udc che non vuole Vendola e l’Idv apre a questi ultimi due. Nel nostro Paese, però, le cose cambiano repentinamente e, quindi, fra qualche settimana il quadro e le posizioni potrebbero essere diverse, magari grazie anche a una nuova legge elettorale».

L’altra questione che deriva da quest’accordo Bersani-Vendola è l’alleanza con Di Pietro. «Non è in discussione» per Cacciari e per De Giovanni «viene confermata implicitamente dal patto con Vendola». Secondo De Giovanni «ragionando con un minino di razionalità politica questo nuovo Ulivo non ha una capacità espansiva al di là di Bersani, Vendola e Di Pietro. È improbabile che una coalizione così concepita possa essere affascinante non dico per Fini, ma neanche per l’Udc. Bersani può far finta che questa alleanza non scompagini il suo rapporto con il centro, io sono convinto del contrario». Andando avanti nel ragionamento ci si potrebbe chiedere se questa scelta di Bersani sia in grado di mantenere anche l’unità interna del Pd. De Giovanni ha «dei dubbi sulla tenuta del partito, in considerazione anche di una variante che al momento non si può prevedere: quella di una costituzione di un Terzo polo». Sullo stesso argomento Cacciari ritiene che «bisognerà capire quanti condivideranno la scelta di Bersani. Non parlo soltanto di Fioroni,Veltroni

Sulla possibilità che si vada al voto con una nuova legge elettorale concordano sia Pasquino per il quale: «è diventata una priorità per tutti: da Fini a Vendola. Se si vuole vincere, con l’attuale legge elettorale, bisogna prendere un numero di voti superiore alla coalizione avversaria». Sia De Giovanni: «Fini mira soltanto a una nuova legge elettorale, per evitare una vittoria di

Berlusconi e della Lega. Altrimenti sarebbe politicamente morto. Bisognerà capire quante ipotesi di legge elettorale al momento esistono e su quale si troverà l’accordo». Cacciari, invece, è più pessimista: «Si andrà a votare con questa legge elettorale o con una ancora peggiore. Perché i vertici dei partiti in una situazione confusa come quella attuale non vorranno perdere la possibilità di indicare i propri fedelissimi. È questa l’unica cosa sulla quale tutti saranno d’accordo e si inventeranno un marchingegno che assicuri quanti sono rimasti rimangono nel Pd esclusivamente per questo motivo. La legge elettorale o non si modifica o lo si farà in peggio».

ROMA Al Pd non basta essere l’alleato di tutti i partiti, vuole anche esserlo di tutte le organizzazioni sindacali. La manifestazione di sabato della Fiom dà ancora una volta l’idea di che razza di guazzabuglio politico sia oggi il partito di Largo del Nazareno. Senza contare l’allarme del ministro Maroni: «Il corteo è a rischio incidenti per possibili infiltrazioni di gruppi stranieri» (forse pensa agli hoolinags serbi?) Comunque si dice manifestazione della Fiom, ma in realtà è tutta la Cgil ad essere impegnata in questa prova di forza che ha come obiettivo di scontro l’accordo di Pomigliano e i loro sottoscrittori, ovvero Marchionne e, soprattutto, la Cisl e la Uil. La posizione del Pd è di puro surrealismo politico. Recita il comunicato ufficiale: «Alla manifestazione dirigenti e militanti saranno presenti sulla base della piattaforma del partito in materia di lavoro, che ha nel suo punto centrale l’esigenza di favorire l’unità di tutto il mondo del lavoro». E però l’iniziativa della Fiom-Cgil è dichiaratamente contro l’unità del mondo del lavoro e pretende di mostrare come sia ormai la sola Cgil a difendere i lavoratori italiani.

parlare all’unisono Enrico Letta e Beppe Fioroni, entrambi molto duri contro la fragile posizione ufficiale del loro partito. Nessuno dei principali leader ex-diessini del Pd ha detto d’essere contro la mobilitazione di sabato, neppure Veltroni, che pure era stato l’unico a esprimersi senza riserve in favore della linea Marchionne nel referendum di Pomigliano. Certo, alcuni dei democratici più vicini all’ex segretario non ci pensano neppure a manifestare con

In prima fila ci saranno sia il braccio destro di D’Alema, Matteo Orfini, sia il fedelissimo fassiniano Cesare Damiano. Ma soprattutto ci sarà il responsabile economico Stefano Fassina

Bersani non ci sarà, ma tutti i suoi andranno, in testa il responsabile economico del Pd Fassina, il braccio destro di D’Alema Orfini e il fidato fassiniano Damiano. La lista dei parlamentari del Pd in piazza sabato è lunga e spacca il partito esattamente a metà, da una parte gli ex Ds presenti in massa, dall’altra gli ex Margherita assenti risentiti: più che un amalgama mal riuscito, un amalgama non riuscito. Insieme ai tanti dirigenti e deputati democratici sfilerà la solita schiera di irriducibili: da Emergency a Di Pietro, da Don Ciotti ai Verdi, da Vendola a Camilleri, e poi i centri sociali di estrema sinistra e tutti i comunisti in servizio permanente ed effettivo, da Diliberto al trockista Ferrando. Repubblica e il gruppo Espresso faranno da cassa di risonanza della manifestazione ed è già in corso un pressing sulla Rai per la diretta dell’iniziativa. Sarà, come al solito, annunciato in pompa magna il canonico milione di partecipanti contro il ”ricatto”(così recita lo slogan principale) della modernizzazione del mondo del lavoro, di cui l’accordo di Pomigliano è considerato il primo tassello. È la prima volta che una manifestazione unilaterale della Fiom riscuote tale successo: in particolare, mai in passato l’ala massimalista della Cgil era riuscita a fare tanti proseliti nelle fila del maggior partito dell’opposizione, ieri i Ds oggi il Pd, imponendo l’estremismo dei suoi contenuti e delle sue parole d’ordine. A prenderla malissimo, i cattolici del Pd. La Fiom è riuscita nell’impresa di far

la Fiom, vedi Morando o Tonini. Ma sono eccezioni che non riescono a rendere meno lacerante la spaccatura tra le due anime del partito, una partecipe entusiasta dell’iniziativa, l’altra risolutamente ostile.

Quello che è, però, ancora meno chiaro, è come pensa Bersani, fiancheggiando il più estremo degli antagonismi sindacali, di risultare credibile partner di quel terzo polo, la cui alleanza è stata più volte invocata durante la recente assemblea democratica di Busto Arsizio. Tra la coppia Landini-Cremaschi e quella Casini-Fini non c’è possibilità di continuità politica. Di più, il Pd esce fortemente indebolito nei suoi rapporti con i potenziali alleati moderati, perché in questa vicenda ha mostrato scarsa autonomia d’azione. Quando nel 2002 Cofferati lanciò al Circo Massimo di Roma la sua opa sui Ds, Fassino riuscì, pur con grande fatica, a non appiattire il partito sulle posizioni della Cgil. E Cofferati non era certo né Landini, né Cremaschi. Più che un coerente disegno strategico, il Pd pare oggi campare alla giornata, nella speranza che il governo cada quanto prima e una soluzione di nuova maggioranza scongiuri le elezioni politiche. Che, se dovessero arrivare domani, finirebbero - ha facilmente vaticinato Follini - come nel 1994: «progressisti da una parte, il polo di centro e Berlusconi sicuro vincitore». Con Bersani principale fautore di questo epilogo non proprio esaltante.


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Salvataggi. Indelebili ormai nei ricordi di tutti sono il recupero dei cosiddetti “cannibali delle Ande” e gli astronauti dell’Apollo 13

Il lieto fine riabilitato Il dramma cileno è finito bene. Un caso che ha pochi precedenti nella storia. Purtroppo di Maurizio Stefanini el resto del mondo no, ma in Cile tutti hanno ricordato che la data in cui i 32 minatori cileni e un boliviano che erano rimasti sepolti sotto terra dal 5 agosto sono tornati in superficie, era la stessa in cui 38 anni fa il Volo 571 della Forza Aerea Uruguayana si era schiantato sulle Ande. Più generale è stata invece l’informazione sul ruolo che l’agenzia spaziale Usa, la Nasa, ha avuto col fornire il suo know-how per il salvataggio: in particolare, sul modo per far sopravvivere in buone condizioni i minatori in quell’ambiente chiuso e estremo. L’una e l’altra coincidenza stendono uno straordinario ponte con altre due spettacolari vicende di salvataggio: la storia dei cannibali delle Ande e quella dell’Apollo 13.

N

Il dramma del volo 571, appunto, avvenne nel 1972. Il Fokker Fairchild FH-227D era decollato da Montevideo il 12 ottobre, con a bordo la squadra di rugby Los viejos cristianos del Collegio Universitario Stella Maris, più allenatori e alcuni parenti e amici. Destinazione Santiago del Cile, dove avrebbe dovuto disputare un incontro. Ma la nebbia e il maltempo obbligarono il pilota a atterrare a Mendoza, e i passeggeri a trascorrere la notte in Argentina. La mattina dopo l’aereo ripartì, ma la nebbia continuava a impedire la visuale, e per un errore di rotta iniziò la manovra di atterraggio troppo presto, finendo addosso a una montagna. L’ala destra schizzò via, tagliando la coda all’altezza della cambusa e portando via alcuni passeggeri, mentre l’elica del motore destro bucava la fusoliera. Dei 45 passeggeri, 12 morirono nell’impatto, 5 nella giornata e un diciottesimo nel giorno successivo. L’altimetro sfasato nel botto segnava 2133 metri, invece dei 3657 effettivi. I sopravvissuti erano dunque convinti di stare già in territorio cileno mentre invece erano ancora in Argentina, e quell’errore comunicato via radio del pilota prima di morire mandò le ricerche completamente fuori strada. Non trovando nessuno, queste furono dunque so-

spese dopo otto giorni. I superstiti non erano riusciti a rimettere in funzione la radio ma disponevano di una radiolina a transistor per ascoltare le notizie, e dunque seppero che nessun soccorso sarebbe arrivato.

Sopravvissuti fino a allora razionando cioccolatini, caramelle e snack di bordo e ricavando l’acqua dalla neve, decisero a quel punto di mangiare la carne dei propri compagni morti, con-

to il primo a dare l’esempio del nutrirsi di carne umana. Partirono il 12 dicembre, e proprio perché pensavano di essere in Cile andarono a ovest, invece che a est, dove a soli 10 chilometri avrebbero trovato un rifugio con viveri e legna da ardere. Gli ci vollero invece 10 giorni di marcia, e solo quando ormai non ce la facevano più si imbatterono in Sergio Catalán: un huaso, versione cilena dei cowboys statunitensi e dei gauchos

La tragedia del volo che si schiantò nel 1972 avvenne di 13 ottobre: proprio il giorno in cui sono iniziate con successo le operazioni di recupero dei 33 minatori rimasti sotto terra a partire dal 5 agosto servata dalla neve in cui erano stati sepolti. Ma altri 8 perirono il 29, in seguito a una valanga che si abbatté sulla fusoliera mentre stavano dormendo. L’ultimo a essere tirato fuori dalla neve ancora vivo fu il 22enne Fernando Parrado, che nell’incidente aveva già perso la madre e la sorella, e che la prima notte dopo lo schianto l’aveva trascorsa in mezzo alla neve tra i cadaveri, perché lo avevano ritenuto morto a sua volta. Convintosi di essere un predestinato a salvare i suoi compagni decise allora di mettersi in marcia alla ricerca di soccorsi assieme a Roberto Canessa: un 19enne che a sua volta pur di rivedere la fidanzata e la madre era sta-

argentini, che accompagnava la mandria al pascolo. Il 23 dicembre partirono i due elicotteri di soccorso, uno dei quali con il pilota personale di Allende.

Da allora il luogo dell’incidente, situato sul ghiacciaio Las Lágrimas, è diventato meta di escursioni. I giornali cileni hanno ricordato come, allo stesso modo con cui i minatori cleni hanno fatto sapere di essere vivi attraverso un biglietto, anche Canessa e Parrado lanciarono da lontano a Catalán una pietra con avvolto attorno un messaggio scritto con un rossetto: «Vengo da un aereo che è caduto sulle montagne», era l’inizio. Quattro so-

pravvissuti delle Ande hanno collaborato alle operazioni di assistenza ai minatori. Canessa si sarebbe poi candidato alla presidenza dell’Uruguay nel 1994, con scarsissima fortuna.

«Per il Cile è stato come conquistare lo Spazio», ha pure commentato lo scrittore Rafael Gumucio. Appunto, nello Spazio avvenne un altro clamoroso salvataggio di appena due anni precedente alla storia del Volo 571: la missione dell’Apollo 13. Partito l’11 aprile del 1970 con a bordo gli astronauti James Lovell, Jack Swigert e Fred Haise, avrebbe dovuto essere il terzo sbarco umano sulla Luna. Ma dopo 55 ore l’equipaggio

mandò l famoso messaggio: «Ok, Houston, abbiamo avuto un problema». A 321.860 chilometri dalla Terra il rimescolamento di uno dei quattro serbatoi dell’ossigeno del Modulo di Comando e Servizio che doveva essere appunto azionato in tale occasione esplose, danneggiando gravemente lo stesso modulo. I tre astronauti furono costretti a trasferirsi nel Modulo Lunare Aquarius, cercando di utilizzarlo come navicella per il ritorno anziché come mezzo per atterrare sulla Luna. I giornali popolari si dilungarono in sensazionalistiche speculazioni sull’eventualità che la residua forza di propulsione non arrivasse a bucare l’atmo-

In alto, una delle foto scattate dopo il recupero dei 33 minatori rimasti intrappolati in Cile. A fianco, uno scatto del Titanic. Nella pagina a fianco, un’immagine dei sopravvissuti al disastro aereo delle Ande del 1972 e una foto di Gustavo Zerbino, tra i superstiti della tragedia


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giorno i 25 superstiti si diedero a loro volta al cannibalismo per sopravvivere. Solo il tredicesimo giorno un numero di naufragi variamente stimato tra i 13, i 15 e i 20 venne salvato dal battello Argus, ma cinque morirono la notte seguente. Lo scandalo scoppiò il 13 settembre seguente, quando il foglio anti-borbonico Journal des débats pubblicò il racconto del chirurgo Henry Savigny. Il dipinto fu anch’esso uno strumento della campagna, e per realizzarlo Géricault si era fatto costruire un modellino, frequentando ospedali e camere mortuarie, e facendo posare anche alcuni superstiti. Ma posò anche Eugène Delacroix, che si sarebbe definito in seguito «rispettoso discepolo» di Géricault, e la cui Libertà che guida il popolo cita appunto la struttura e alcune immagini della Zattera. Minacciato dal regime borbonico Géricault andò poi a Londra, dove il quadro considerato l’inizio del Romanticismo servì come cartellone da cantastorie per una mostra itinerante. De Chaumaray era comunque già stato condannato nel 1817 a tre anni

potesse venir lanciato. In effetti la spedizione da un lato era stata voluta a tutti i costi da Umberto Nobile, dopo aver litigato sui rispettivi meriti con il norvegese Roald Admunsen, che aveva portato al Polo Nord sul dirigibile Norge. Dall’altra era stata fatta al risparmio per la poca convinzione del ministro dell’aeronautica Italo Balbo, secondo il quale ormai i dirigibili erano superati e bisognava investire sugli aerei. Mentre piloti e esploratori provenienti da Francia, Finlandia, Norvegia, Svezia e Urss si mobilitavano e nove di loro tra cui lo stesso Amundsen ci rimettevano la pelle nelle difficili ricerche, il governo italiano fece dunque il minimo indispensabile, e anche la nave appoggio Città di Milano brillò per inerzia: in particolare, trascurando di restare in ascolto dei possibili messaggi. Fu infatti un radioamatore sovietico il 3 giugno a sentire l’Sos, anche se fu l’italiano Umberto Maddalena il 20 giugno a avvistarli con il suo idrovolante (nel frattempo era morto di assideramento il metereologo svedese Finn Malmgrem, durante un tentativo di trovare

Storie del genere hanno sempre colpito l’attenzione e venivano spesso tramandate. Un noto dipinto del 1820 di Théodore Géricault, ad esempio, ci ricorda ancora il dramma della Zattera della Medusa sfera terrestre, e che i resti dell’Apollo 13 fossero dunque proiettati verso l’infinito con il loro carico umano a bordo, come da un “gigantesco scivolo”. Un altro rischio era che l’ossigeno si esaurisse, e per risparmiarlo gli astronauti furono costretti a restare sdraiati. Ma dopo un giro attorno alla Luna e quattro giorni infine i superstiti riuscirono a tornare sulla Terra. Swigert sarebbe poi morto di cancro 12 anni dopo proprio subito dopo essere stato eletto Rappresentante per il Colorado, prima di potersi insediare. Haise sarebbe diventato manager della Grumman, prima di andare in pensione. Lovell scrisse il libro da cui nel 1995 sarebbe stato poi tratto il famoso film Apollo 13: con Tom Hanks nel suo ruolo, e lo stesso Lovell in un cameo da comandante della nave che recupera gli astronauti. Anche Nando Parrado scrisse un libro di ricordi: ma nel 2006, e 22 anni dopo l’altro e più famoso volume che sulla storia aveva scritto l’inglese Piers Paul Read.

cinema storie del genere colpivano l’attenzione e venivano tramandate con i media di massa dell’epoca. Un famoso dipinto realizzato nel 1820 dall’allora 29enne Théodore Géricault, ad esempio, ci ricorda ancora La zattera della Medusa. La tragedia era avvenuta il 2 luglio 1816, quando la fregata Méduse si era incagliata su un banco

Dal libro di Read e con la consulenza di Parrado fu tratto nel 1993 il film conosciuto in italiano come Alive-Sopravvissuti, con John Malkovich come narratore. Anche sulla storia dei 33 minatori si annunciano ora libri e film, anche e per il momento nessuno di loro ha intenzione di ricordare quei momenti angosciosi. Ci vorrà un po’ di tempo… Ma anche prima del

Nave della Marina francese, la Méduse era in viaggio da Brest al Senegal per riprendere possesso della colonia, restituita dagli inglesi dopo la caduta di Napoleone. Ma il comandante Hugues Duroy de Chaumaray era un incompetente cui l’incarico era stato solo perché era stato un emigrato anti-rivoluzionario fedele ai Borboni, e sembra che anche le carte nau-

tiche a sua disposizione fossero sbagliate. Poiché le scialuppe non bastavano De Chaumaray fece costruire una zattera di 20 metri per 10 legata alle stesse scialuppe da una cima, discriminando appunto con sistemi da Ancien Régime: 250 privile-

di carcere. Géricault, tornato in Francia, sarebbe morto nel 1824. Il regime borbonico sa-

rebbe stato travolto nel 1830 dalla rivoluzione appunto celebrata da Delacroix in La libertà che guida il popolo.

di sabbia a 160 chilometri al largo della attuale Mauritania.

giati sulla scialuppe, inclusi il governatore del Senegal Julien Désiré Schmaltz, la moglie e la figlia; 139 membri dell’equipaggio e sottufficiali sulla zattera, col medico di bordo. Ma dopo un po’ gli uomini sulle scialuppe si stancarono di trainare, la cima fu tagliata, e la zattera finì alla deriva. 20 dei naufraghi morirono o si suicidarono la prima notte, un’altra metà fini in mare in seguito a risse furibonde dovute alla mancanza di spazio, e dal nono

Polemiche analoghe ci sarebbero state d’altronde anche a proposito del Dirigibile Italia di Umberto Nobile: che dopo aver sorvolato il Polo Nord andò a sbattere sul pack, il 25 maggio 1928, per colpa del ghiaccio che lo aveva appesantito. Distrutta nell’impatto la gondola di comando, sei membri dell’equipaggio furono portati via dall’involucro, e non se ne seppe più niente. Forse si inabissarono nel Mar di Barents, o forse furono carbonizzati da un ulteriore impatto. Gli altri 10, con tre feriti tra cui lo stesso Nobile e con la cagnetta Titina, si rifugiarono invece nella famosa Tenda Rossa, verniciata con l’anilina destinata alle rilevazioni altimetriche. Fu recuperata anche una radio, ma ci vollero quattro giorni prima che l’Sos

soccorsi a piedi. Nei giorni successivi saranno lanciati rifornimenti, il 23 lo svedese Lundborg riuscirà a caricare Nobile, ma al secondo viaggio avrà un incidente e resterà a sua volta bloccato con i naufraghi. Le cattive condizioni metereologiche bloccheranno le operazioni di salvataggio, e anche se il 6 luglio sarà recuperato Lundborg, il 10 resterà invece bloccato il sovietico Chuckhnovsky. Solo con l’arrivo il 12 luglio del rompighiaccio sovietico Krasin inizierà il recupero vero e proprio, mentre il 14 gli idrovolanti svedesi salvano due soccorritori. Mentre Balbo ordina la fine delle operazioni, i sovietici continueranno a cercare i naufraghi e i soccorritori ancora dispersi fino al 22 settembre. Ma senza trovare più nessuno.

E anche ai sovietici si deve nel 1970 il film La Tenda Rossa di Michail Kalatozov, con Sean Connery nel ruolo di Admunsen. Accusato di imperizia oltre di viltà per aver abbandonato i suoi uomini, umiliato in un colloquio con Mussolini, degradato e provato di tutte le cariche, Nobile andrà a lavorare appunto nell’Urss e anche negli Usa, anche se ormai l’epoca dei dirigibili è effettivamente finita, come dimostrerà definitivamente di lì a nove anni la tragedia dell’Hindenburg. Riabilitato dopo la guerra come perseguitato dal fascismo, sarà tra il 1946 e il 1948 deputato alla Costituente col Partito Comunista Italiano.


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l 1910 è l’ultimo anno di vita di Carlo Michelstaedter. Ed è un anno sovraccarico di umori, di tensioni, di inquietudini che crescono, di energie che hanno il bisogno di manifestarsi, di voglia di verità sempre più urgente e frenetica. Nel mese di febbraio, Carlo si occupa della traslazione della salma del fratello Gino, emigrato negli Stati Uniti, dove lavorava presso l’azienda di uno zio, e morto due anni prima. Carlo, come scrive Giovanni Sessa in Oltre la persuasione. Saggio su Carlo Michelstaedter (Settimo Sigillo, 2008), «cura personalmente il disegno della tomba e lavora con un fabbro, grazie alla sua perizia artigianale, per la produzione delle maniglie del loculo» (p. 38). Del resto, non si è mai sottratto all’attività fisica: lui, il giovane filosofo che prende gli appunti in greco come se fosse la sua lingua madre, è appassionato di sport, fa lunghissime passeggiate, da sempre celebra la “vitalità”. E da sempre è come se avesse la morte accanto, a colloquiare con lui: davvero, una presenza e una sfida.

I

Intanto, l’amico Nino Paternolli parte per Vienna, dove si sarebbe presto laureato. Il senso di solitudine che pesa su Carlo viene alleviato dalla presenza del cugino Emilio, un adolescente sensibile e intelligente. Di lui Carlo dipinge diversi ritratti, nei quali risalta «l’animo gentile, quasi femminile» del ragazzo che «per riconoscenza dedicava molto tempo delle sue giornate a copiare, in bella grafia, La persuasione e la rettorica» (op. cit., p. 39). E cioè la tesi di laurea di Michelstaedter: e uno dei libri cruciali del fiammeggiante Novecento, di quel secolo (breve? lunghissimo?), in cui tanti intellettuali si proposero l’assalto al cielo e la trasformazione della terra come loro obbiettivi. Come sempre, Carlo studia, scrive, sogna: come sempre, con l’animo in tumulto. Anche se la mente è ferma in una voglia di riflettere che è poi volontà di illuminare tutto il “paesaggio” all’intorno. E mentre gli interrogativi continuano a premere, senza che lui intenda sottrarsi al loro urto. Ad esempio: ha fatto bene l’amico Rico (Enrico Mreule) a farla finita con la vita “bor-

il paginone che vede in Cristo l’uomo «persuaso», l’uomo che smaschera tutti i «rètori» e che «salva se stesso» accettando la croce? È un procedere ansioso e vorticoso, quello di Michelstaedter, che incalza ed è incalzato da vita e morte: ed è teso come la corda di un arco pronto a scoccare la freccia. Già, ma verso dove? Verso quale indicibile “oltranza”? Dove vuole andare il giovane goriziano che vive quel suo ultimo anno - il ventitreesimo - con tanta febbrile concitazione? È un filosofo, certo, che chiede all’Assoluto di manifestarsi: ma quel lampo accecante lo annichilirà o lo renderà sovrano? Un filosofo (spiritualista? nichilista?), ma anche un esteta, un romantico, un decadente.Terribile cercatore del vero, ma con gli slanci poetici e la tenera fragilità che da sempre contraddistinguono il “battello ebbro”della gioventù. «Lasciami andare - scrive Carlo in una poesia indirizzata alla sorella Paula -, lasciami andare, Paula, nella notte/ a crearmi la luce da me stesso,/ lasciami andare oltre il deserto, al mare». Identità lacerata, conflittuale, quella di Carlo. Carica tutto il tempo su di sé, brucia insieme infanzia, adolescenza e maturità, «non fa in tempo». Ma lancia messaggi. Come questo, ad Emilio: «Il porto non è dove gli uomini fanno i porti a riparo della loro tiepida vita: il porto per chi vuole seriamente la vita è la furia del mare perché egli possa reggere diritta e sicura la nave verso la meta» (op.cit., p. 42). La nave va. Nella notte fra il 6 e il 7 ottobre, Carlo, che sta dando gli ultimi tocchi alla tesi, modifica la conclusione del “Dialogo della salute”, in cui «respinge, a chiare lettere, l’ipotesi del suicidio come massima espressione della rettorica della morte» (ivi, p. 43). Il 13 ottobre dipinge un paesaggio collinare: sotto il cielo coperto di nubi filtra un raggio di sole. A retro del quadro, scrive: «E sotto avverso ciel, luce più chiara». Una massima “salvifica”? Ma per sé o per qualcun altro, visto che

Lui era u

Il 1910 è il suo ultimo anno di vita. Ed è un periodo, per lui, sovraccarico di umori, di fortissime tensioni e di inquietudini crescenti ghese” e la “rettorica” di chiacchiere e indecisioni, estenuanti intellettualismi e contraddizioni, imbarcandosi da Trieste alla volta dell’Argentina, dove iniziare una nuova e avventurosa esistenza? Forse sì, ha fatto la scelta giusta: e infatti, in una lettera a Paternolli del 21 marzo, Carlo prospetta la possibilità di fare il marinaio, una volta conseguita la tesi di laurea. «Intanto continua a studiare nella soffitta di Nino, della quale ci ha lasciato un disegno ricco di particolari e circonfuso di una luce intima e spirituale, mirabilmente resa dai chiaroscuri della matita. Sotto il disegno, scritte in greco, si leggono le seguenti parole: “Qui io vivo una vita che non si può vivere, ma nasce una grande opera”» (ivi). Qual è la “trasmutazione alchemica”in atto nel giovane che sotto il suo autoritratto pone un motto eracliteo: «L’uomo nell’oscurità accende una luce a se stesso» e

Nel volume, Sergio Campailla getta luce su una serie

A cento anni dalla mort arriva un saggio sulle int di Mario Bernardi Guardi

avrebbe dovuto regalare il quadro alla madre per il suo compleanno?

Il 17 ottobre va a trovarla proprio per farle il suo dono: ma vecchie incomprensioni generano un ultimo contrasto tra mamma e figlio. Cresce il senso di oppres-

sione e di solitudine, insieme alla voglia di farla finita. Il sigillo insanguinato è un colpo di pistola. Poi, il triste feretro e la tumulazione nel cimitero israelita di Gorizia. Alle sei del mattino. Scenario quanto mai “romantico” per uno dei protagonisti più coerenti dello “strappo” novecentesco. Qualche giorno dopo Giovanni Papini, scrivendone sul Resto del Carlino, parlò di «suicidio metafisico». Ma fu Julius Evola a “scoprire”nel 1925 l’eccezionalità di Carlo Michelstaedter, segnalando la drammatica originalità di un pensiero che coniugava rigore dialettico e tensione esistenziale. Entrambi portati alle estreme conseguenze. Si legga, a questo proposito, l’“alato” incipit del profilo dedica-

to al pensatore goriziano in Saggi sull’Idealismo Magico (Atanòr, 1925): «Quei in cui con fulgore stordente e in realtà intensa di vita si è affermata nell’epoca moderna la richiesta dell’individuo reale verso il valore assoluto, verso la “persuasione”: quei che nel modo più netto, spezzando tutti i compromessi con cui l’Io, a se stesso deficiente, maschera la sua “àbios bìos”, la sua “vita senza vita”, ha saputo portare la vita al suo termine, costringendola a ciò di cui l’uomo più che di ogni altra cosa al mondo ha “terrore”: a mettersi al cospetto di se stesso, a riconoscersi, a misurarsi alfine con quel punto che, solo, è il punto del “valore”, dell’“essere”- è Carlo Michelstaedter».


il paginone sti dai manoscritti e note di Rinaldo Allais, postfazione di Marco Cerreti).

E su Michelstadter si possono leggere, oltre il citato studio di Giovanni Sessa, due lavori di Giorgio Brianese: il saggio introduttivo al Dialogo della salute (Mimesis, 2009) e L’arco e il destino. Interpretazione di Michelstaedter (ivi,2010). Adesso, nel centenario della morte, Adelphi ha pensato di affidare a Sergio Campailla una nuova esplorazione del “laboratorio” michelstaedteriano. Per trarre da «una quantità di carte impressionanti» non un pensiero sistematico - che non c’è - e nemmeno le «affermazioni assolute e le negazioni sovrane» che dovrebbero essere il contrassegno di uno spirito “autarchico”, ma piuttosto una serie di folgorazioni intellettuali che svelano la precocità e la complessità del genio (La melodia del giovane divino. Pensieri-Racconti-Critiche, pp. 224, euro 14). Un giovane uomo che, tra il 1907 e il 1910, tutto si consacrò alla sua spinta conoscitiva e creativa, radicalizzando la sua passione in un ascetico isolamento. Non odiava la vita, ma sdegnava e denunciava ogni forma di conformismo, di mascheratura e mistificazione: soprattutto voleva essere signore di sé, allontanando ogni gratificante consolazione “borghese”. Un perfetto esemplare, come si è accennato, del Novecento delle cerche e degli azzardi. Un ragazzo - e cos’altro si è a vent’anni? - che era capace di scavare nei testi matematici come in quelli filosofici, che scriveva e pensava in greco, come se i grandi tragici, Platone ed Aristotele fossero i suoi contemporanei, e che non era - e non voleva essere - né paludato pensatore, né novelliere, né critico letterario, ma aveva i talenti per cimentarsi in ogni campo, dalla cultura ebraica (e qui ci sarebbe da dibatte-

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“decidere”. Non voleva bugie né per sé né per gli altri, Michelstaedter. Doveva farsi carico del vero, gli gravasse addosso fino a schiacciarlo. Estetismo titanico del ventenne che, tutto concentrandosi sul “beau geste”, non si espande a quella vasta e articolata attenzione vòlta agli altri, a quella “comprensione”che implica la rinuncia al virtuosismo superomistico e alla compiacenza autodistruttiva? Indubbiamente, il “dibattito” è aperto, e di questi elementi deve tener conto.

Per quel che ci riguarda, pensiamo che Michelstaedter, tra emozioni e contraddizioni, abbia comunque appreso e sperimentato l’arte della fuga responsabile fuga dal carcere della mistificazione come risposta forte alla «tentazione di esistere senza essere». Aveva urgenza di testimoniare, cioè di essere“martire”, anche se continuava a lavorare alla tesi, apportando integrazioni e correzioni, proprio come uno studente che dovesse discutere “al meglio” con la propria commissione di laurea ed anche se, probabilmente, i dissidi familiari (i già difficili rapporti di Carlo con il padre erano cresciuti negli anni fino ad un alto livello di conflittualità; quelli con la madre, pur amata, erano carichi di nodi non risolti: ma su queste intrico affettivo si legga quanto ha scritto Sessa), fecero precipitare gli eventi. Martire, abbiamo detto. Il che signifva operare in direzione del grandioso e terribile Assoluto. Attingen-

e di folgorazioni intellettuali che svelano la precocità e la complessità del genio

un autarchico

te di Carlo Michelstaedter, da Adelphi tuizioni giovanili del filosofo goriziano Amante dell’attività fisica, faceva lunghissime passeggiate e prendeva appunti in greco, come se fosse stata la sua lingua madre Il quale, poco e troppo profeticamente, aveva scritto: «Io so che parlo perché parlo ma che non persuaderò nessuno» (e vien fatto di pensare all’insegna dello Zarathustra nietzschiano, «libro per tutti e per nessuno»). In realtà, se è vero che Michelstaedter non persuade o, se si preferisce, non può (non deve? non vuole?) «persuadere» nessuno, nel

senso che è «irricevibile» il duro appello ad una autarchia talmente paga di sé da «esigere» la morte, è altrettanto vero che oggi è diventato «autore di culto e di nicchia». E di opere da compulsare ce ne sono. Al di là di quella densa e criptica tesi di laurea - La persuasione e la rettorica - che è il suo lascito più significativo e che si può leggere nell’edizione critica curata per Adelphi nel 1995 da Sergio Campailla, sono stati pubblicati, sempre col marchio della casa editrice milanese, Il dialogo della salute, l’Epistolario, le Poesie. Mentre, di Michelstaedter, Aragno ha proposto nel 2004 la raccolta di scritti Sfugge la vita. Taccuini e appunti (a cura e con un saggio introduttivo di Angela Michelis, trascrizione dei te-

re lungamente sul rapporto di amoreodio con le proprie radici che torna anche in altri autori ebrei come Otto Weininger, Simone Weil, Joseph Roth, Irène Némirosvky) alle inchieste su inquietudini e crisi contemporanee, con le improvvise impennate liriche dell’innamorato e la profonda malinconia di chi si appresta a un congedo definitivo. Perché è - e si sente - “solo”.

Ed è dentro questo spazio di solitudine tragicamente esistenziale e sapienziale (anche se non si può ignorare “l’umano, troppo umano” dei rapporti interpersonali e non si possono cancellare le tante impronte di effusione sentimentale, che insieme al cuore rendono “cedevole” di tanto in tanto anche lo Spirito) che deve

do alle fonti della grande filosofia classica. «Risemantizzando la parola», come ha scritto Sergio Campailla, e cioè restituendole la nuda, sconcertante verità occultata da mille travestimenti. Ripercorrere la grecità, anche nel linguaggio, significava assumere la suggestione oracolare e/o l’agonismo dialettico come chiavi interpretative dell’universo. Studiando/evocando - con la disciplina spietata dell’allievo che è già maestro - Carlo Michelstaedter dette “forma” alla rivelazione per sequenze ravvicinate. E compì se stesso nell’atto della “negazione”persuasa, e cioè nell’azione che, negando la “rettorica”dell’esistenza scissa, gusta la morte come conquista piuttosto che come liberazione.


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Blue line. Quindicimila sciiti accolgono il presidente iraniano a Bint Jbeil, la capitale di Hezbollah sul confine con Israele

La terza Intifada? Ahmadinejad in Libano tenta di risollevare le proprie fortune in patria e in Medioriente di Pierre Chiartano ungo le strade che portano a sud oltre il fiume Litani, sono state issate le bandiere iraniane – più del solito – e una foto gigante di Ahmadinejad con su scritto «Noi possiamo» – che ironicamente ricorda lo slogan obamiano – è stata collocata sulla cima della collina del villaggio di Marun al-Ras, da cui si vede Israele. Una delle tappe della visita di ieri di Mahmoud Ahmadinejad nel sud del Libano. Gli sciiti libanesi però si sono dati appuntamento a Bint Jbeil, sulle colline dell’Alta Galilea che tanto assomigliano alla murgia pugliese. Sono arrivati su pulman da Beirut e dalla Valle della Bekaa. «I sionisti volevano cancellarvi e voi avete resistito (…) siete degli eroi a guardia della sovranità del Libano» con la solita retorica Ahmadinejad ha parlato, arringando circa 15mila di sciiti lì convenuti, tra scritte in lingua farsi e in arabo. «I sionisti sono mortali», ha poi aggiunto. La cittadina nel sud del Libano è considerata la capitale di Hezbolland e della resistenza all’esercito d’Israele. Nel 2006 durante la breve invasione, durata poco più di trenta giorni, di Tsahal, fu il caposaldo della resistenza delle milizie sciite. In una gola lì vicino, i mezzi corazzati di Gerusalemme subirono una sconfitta che fu una lezione. Dodici carri Merkavà rimasero intrappolati su quel terreno infido e furono distrutti dai missili Kornet, di fabbricazione russa, in mano agli Hezbollah.

Il presidente iraniano ha usato la solita retorica per arringare i circa 15mila fedeli sciiti giunti a Bint Jbeil: «I sionisti volevano cancellarvi e voi avete resistito. Siete eroi a guardia della sovranità del Libano»

S empre a Bint Jbeil nel Duemila Nasrallah, il capo del movimento sciita libanese, decise di fare un discorso importante in occasione del ritiro israeliano. Non a caso è stata scelta come prima tappa della visita di Ahmadinejad a sud del fiume Litani, in pieno territorio controllato dai baschi blu dell’Onu. In una terra dove i simboli contano, perché manca tutto il resto. È da tempo che Teheran vorrebbe lanciare la Terza Intifada, tentativo che non deve essergli riuscito benissimo, perché do-

gia e soprattutto lavoro. Nonostante lo splendido lavoro svolto dal comandante della missione Onu, per tre anni il generale italiano Claudio Graziano, i finanziamenti internazionali e anche iraniani, la situazione non è facile. La visita in Libano del presidente iraniano sembra più una missione impossibile piuttosto che il coronamento di una politica d’annessione politica di una parte del Paese. Un tentativo per fare pressione sugli sciiti del sud, dove Khomeini è diventata un’icona

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po aver tentato di riaccenderla nella matoriatissima Gaza, ha riprovato in Libano e poi in Cisgiordania. Ma al momento non sono bastati né i soldi promessi, tanti, né le minacce insinuate. Grazie ai limiti della risoluzione Onu 1701, che non permette il controllo dei baschi blu nei centri urbani, Gerusalemme teme che la nuova iniziativa potrebbe essere una rocket intifada. Ma sul campo la situazione è complessa è non c’è tutta questa voglia, oltre le parole, di provocare l’esercito israeliano. Il comportamento di Hezbollah durante l’episodio degli alberi sulla Blue Line del 3 agosto, lo dimostrerebbe. Le milizie sciite non si sono mosse, lasciando che ad agire fosse l’esercito libanese (Laf). La lezione del 2006 è stata imparata anche dalla popolazione sciita di una regione che non sembra essere neanche Libano. Manca tutto: strade, acqua potabile, ener-

esposta lungo le strade, e per togliere la scena al nuovo protagonista politico del mondo islamico: Tayyp Recep Erdogan. E non a caso si parla di un suo arrivo a sorpresa domani a Beirut. Nel tentativo di rubare la scena “all’amico” iraniano, già in crisi di leadership all’interno del suo Paese e in tutto il Medioriente. Ahmadinejad che ama i gesti plateali ha, per molte settimane, accarezzato l’idea di andare sul confine con Israele e lanciare simbolicamente una pietra contro il nemico “sionista”. Ma sembra che col passare delle ore, dopo lo sbarco a Beirut, la situazione sia cambiata e abbia ispirato un programma meno plateale. Dietro le liturgie dell’accoglienza, tributarie soprattutto dell’assegno da 450 milioni di

dollari staccato dal regime iraniano per i «fratelli libanesi», c’è una tensione crescente. Non solo da parte delle forze filo-occidentali, ma anche di alcuni ambienti di Hezbollah. Diventata forza di governo del territorio sembra mal sopportare, adesso, la retorica di Teheran e la sua voglia di trasformare il sud del

Paese in un campo di battaglia contro «l’entità sionista».

Il presidente iraniano, ieri, si è trovato per la prima volta a solo qualche chilometro dalla frontiera con lo Stato ebraico. Una trasferta considerata il momento forte della visita di Ahmadinejad in Libano, criticata dalla maggioranza parla-

mentare filo-occidentale, dagli Stati Uniti e da Israele che accusano l’Iran di armare Hezbollah. Per Ahmadinejad, che è alla sua prima visita in Libano dalla sua elezione nel 2005, sarà anche la prima volta che si verrà a trovare così vicino allo Stato ebraico, suo nemico giurato di cui ha invocato più volte la «distruzione». Nella tour c’è


mondo

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Per i media locali, la visita è paragonabile all’Anschluss

L’allarme di Israele: «Punta all’Europa»

Secondo la diplomazia di Tel Aviv, il vero obiettivo di Teheran è il Vecchio continente di Massimo Fazzi l vero problema sembra essere quello di una “Santa Alleanza” fra il Libano degli Hezbollah, l’Iran dei pasdaran e la Turchia sempre meno figlia di Ataturk. Fatto sta che la visita del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad in Libano, e soprattutto nella parte meridionale del Paese dei cedri (quella confinante con Israele, dove corre la “Blue Line” della coalizione internazionale) sembra aver colpito al cuore Tel Aviv. Tra titoli di giornale che paragonano la visita del dittatore di Teheran all’Anschluss, l’annessione dell’Austria da parte dei nazisti, e proposte di farlo fuori con un cecchino, Israele compatto ha ribadito che è il padrone persiano il nemico numero uno. Intervistato da Sky Tg24, l’ambasciatore d’Israele in Italia Gideon Meir ha dichiarato: «La visita di Ahmadinejad in Libano deve preoccupare soprattutto l’Europa, perché è il primo passo dell’islamizzazione del Libano e quindi dell’iranizzazione dell’intero Medioriente. E quindi è un segnale d’allarme per l’Europa». Secondo Meir, forse troppo catastrofista, «i missili che l’Iran sviluppa sono sufficienti per colpire Israele, ma anche per colpire Roma o l’Europa. Israele non è il bersaglio: l’Europa è il bersaglio. Se fossi europeo sarei preoccupato, non solo per questa visita, ma per l’islamizzazione che viene sfruttata dall’Iran nei confronti dell’Europa per vincere l’Occidente».

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Il dittatore iraniano è in difficoltà con i propri alleati nel suo Paese e sta patendo la crescita di popolarità del premier turco Recep Erdogan, come leader del mondo islamico con credibilità internazionale anche Qana, villaggio simbolo per essere stato obiettivo di raid israeliani costati la vita a 105 civili nel 1996 e a 29 persone, di cui 16 bambini, nella guerra del 2006. E non lontano da Shhur, feudo di Nabi Berri, sciita ex capo delle prime formazioni armate poi confluite in Amal, il partito che fiancheggia Hezbollah e personaggio chiave degli equilibri del Paese dei Cedri. Ricordiamo che si attende ancora la sentenza del tribunale internazionale sull’omicidio, nel 2005, del padre dell’attuale premier Rafik Hariri, anche se molte indiscrezioni sono trapelate indicando come mandante dell’omicidio proprio il Partito di Dio. Sentenza temuta dagli sciiti e che potrebbe riaccendere un periodo di forte in-

stabilità interna in Libano. È chiaro che il presidente iraniano guarda più alle vicende interne iraniane, dove deve riconquistare l’appoggio di una parte dei suoi alleati, sia tra i conservatori che tra il clero. Al momento è meno concentrato sulla scena internazionale, anche se guarda sempre con più diffidenza la figura del premier turco, destinato a soppiantarlo nel cuore di molti arabi in attesa di un nuovo rinascimento islamico.

Ma è più facile che arrivi portato dagli investimenti turchi, che gestiscono anche fondi sovrani del Golfo, che con quelli iraniani, carichi di problemi per il popolo libanese ormai stanco di essere strumento della politica altrui. Comunque nel suo discorso di ieri Ahmadinejad, definito «protettore della resistenza», come si leggeva su molti cartelli, ha ribadito che l’Iran «continuerà gli sforzi per portare a compimento il programma nucleare». Riferendosi alla politica iraniana verso Beirut ha dichiararto l’appoggio verso «tutto il popolo libanese», smorzando un po’ toni per non scatenare le critiche dei partiti filo-occidentali. E sull’onda di questa visita, sarebbe possibile una decisione del Congresso Usa che blocchi gli aiuti all’esercito libanese.

Una bambina libanese gioca nei pressi del luogo in cui il presidente iraniano Ahmadinejad ha sfidato per l’ennesima volta Israele. Sulla “blue line”, la linea di confine che separa Israele dal Libano meridionale, l’uomo forte di Teheran ha definito i sionisti “mortali” che «presto spariranno». A destra il primo ministro israeliano Netanyahu, che ha tenuto un profilo insolitamente basso nel corso della sgradita visita di Ahmadinjad. Nella pagina a fianco alcuni palestinesi fuggono durante la seconda Intifada: il timore è che la visita del presidente iraniano possa riaccendere le violenze

to degli insediamenti o raggiungere uno Stato palestinese che viva a fianco degli israeliani? Io sono molto preoccupato, perché non sono sicuro che vogliano veramente un accordo di pace con noi, e questo deve preoccupare anche l’Occidente».

In ogni caso, la presenza di Ahmadinejad ha preoccupato non poco la società civile e politica israeliana. “Ahmadinejad ha conquistato il Libano”,“Il dittatore e la sua terra”erano i titoli con cui questa mattina i quotidiani Israel ha-Yom e Yediot Aharonot riferiscono del bagno di folla che ieri il Libano ha riservato al presidente dell’Iran. Ormai, scrive il filo-governativo Israel ha-Yom, «Ahmadinejad è il re di Beirut. Le scene di estasi popolare viste ieri nella capitale libanese ricordano l’Anschluss, l’annessione dell’Austria al Terzo Reich nel 1938. Anche in quella occasione i motociclisti della Wermacht hitleriana furono accolti con espressioni di giubilo nelle strade di Vienna. Gli Hezbollah libanesi e i palestinesi di Hamas sono solo uno strumento al servizio dell’imperialismo iraniano». «Ahmadinejad - conclude non è giunto in Libano da ospite, ma da padrone di casa». Yediot Ahronot, da parte sua, ricorda che il presidente iraniano ha invocato, non per la prima volta, la distruzione di Israele: «Ma quando queste parole sono pronunciate nel rione Dahya di Beirut, fra gli applausi delle masse, diventano molto più minacciose». Una soluzione al problema l’ha avanzata due giorni fa un deputato di estrema destra, Israel Eldad: «Se Ahmadinejad entra nel mirino di uno dei nostri cecchini, durante la visita al nostro confine con il Libano, non dovrebbe poter tornare a casa vivo». Le idee innovative del presunto onorevole sono state stroncate ieri dal viceministro della Difesa Matan Vilnay, che in un’intervista ha ricordato quando Begin ordinò di non sparare ad Arafat che si trovava proprio nel mirino di un cecchino israeliano: «Fu una decisione saggia, che portò a grande cose. Idee del genere sono di un semplicismo che lascia sbigottiti ma che potrebbe essere pericoloso».

La destra religiosa propone: «Basta parlare: se entra nel mirino di uno dei nostri cecchini, spariamo»

Sulla moratoria imposta alla costruzione di nuove colonie all’interno del territorio palestinese, la condizione che sta fermando i colloqui diretti fra Ramallah e Tel Aviv, Meir ha spiegato: «Il processo di pace non è stato fermato da Israele, ma dai palestinesi. Per nove mesi Israele ha deciso di congelare la costruzione degli insediamenti per dare un’opportunità alla pace, ma per nove mesi i palestinesi non si sono presentati al tavolo delle trattative. Cos’è importante per loro? Il congelamen-


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Strategie. Fra un mese l’Alleanza si riunirà per votare la nuova Dottrina ra inevitabile che il summit Nato per la definizione del nuovo concetto strategico si concentrasse sull’Afghanistan. Tuttavia, in pochi potevano prevedere che il risultato del vertice potesse essere sintetizzato nella dichiarazione del segretario generale dell’alleanza, Anders Fogh Rasmussen. Il diplomatico danese si è detto favorevole a un graduale dialogo con le forze talebane. Ancora più spiazzante è il fatto che nessun Paese membro abbia preso le distanze da un atteggiamento tanto remissivo. In merito alla guerra in Afghanistan, un conto è che il suo presidente, Hamid Karzai, si dica disponibile a negoziare con il nemico. Di tutt’altro peso è la medesima prospettiva una volta adottata dall’Occidente. È vero che presso le Cancellerie europee e a Washington si sta cominciando a parlare in modo sempre più insistente di exit strategy e, al tempo stesso, se ne ipotizza una data di inizio. D’altro canto, nemmeno una settimana fa, il ministro della difesa italiano, Ignazio La Russa, sottolineava che ritirarsi dall’Asia centrale significherebbe facilitare il flusso di terroristi verso l’Occidente. Adesso Rasmussen si espone sembra muoversi in una direzione diametralmente opposta. C’è da chiedersi come all’interno dell’alleanza si potrà trovare una soluzione che soddisfi sia coloro che, ragionevolmente, pensano che smobilitare dall’Afghanistan significherebbe ammettere la vittoria dei talebani, sia gli altrettanto osservatori realistiche, i quali sostengono che la guerra non può andare avanti all’infinito. Al di là dell’“Af-Pak war” e delle imprescindibili polemiche che ne fanno da

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La Nato: «Sì al dialogo con i talebani afgani» I ministri degli Esteri e della Difesa appoggiano la linea scelta da Kabul di Antonio Picasso

lato di Cina, India e tanto meno dell’Iran.Tuttavia, prima o poi, la Nato dovrà rapportarsi anche con questi Paesi. Il nuovo concetto strategico, quindi, prevede da un lato un disarmo generale, dall’altro un confronto più serrato verso l’esterno. Per quanto riguarda la difesa antimissile,

Hillary Clinton ha definito “eccellente” la nuova bozza preparata da Rasmussen, che verrà presentata al prossimo summit corollario, l’incontro di Bruxelles ha segnato un ulteriore passo evolutivo nella “Dottrina Nato”. La deterrenza nucleare resta il cardine del dibattito interno ai Paesi membri. L’alleanza atlantica si sta adeguando agli accordi bilaterali presi fra Usa e Russia in merito allo smantellamento della maggior parte degli arsenali nucleari. Questo significa doversi confrontare in modo più serrato con le potenze che non rientrano nell’organizzazione, ma con cui quest’ultima vanta una partnership produttiva. È il caso di Mosca. Non si è par-

le stime di Rasmussen indicano che queste non dovrebbero superare i 200 milioni di euro, spalmati su dieci anni, oltre agli 800 milioni già previsti per costruire un sistema a protezione delle truppe alleate dispiegate sul terreno delle operazioni. In questo è evidente l’adesione alla dottrina post guerra fredda adottata dall’alleanza. Fino alla caduta del muro di Berlino, un allargamento della Nato appariva inimmaginabile, per certi versi anche inutile. L’organizzazione, in questi vent’anni, ha saputo trasformarsi e passare dal-

Obbligatorio muoversi su basi comuni

Cos’è la Dottrina Sin dalla fondazione, l’Alleanza atlantica si è mossa seguendo una linea strategica comune. Si tratta della cosiddetta “Dottrina Nato” per il rinnovo della quale ieri si è tenuta la riunione a Bruxelles. Ai tempi della guerra fredda, l’organizzazione non aveva la necessità di modificare le regole politiche e l’operatività militare così

frequentemente come invece sta accadendo negli ultimi due decenni. Il rigido schema bipolare est-ovest, in un certo senso, facilitava le attività della Nato. Le singole cancellerie si concentravano nel complesso dialogo con i Paesi del Patto diVarsavia. A loro volta gli apparati

di difesa e sicurezza nazionali avevano il compito di essere sempre pronti a intervenire nel caso di emergenza. Ognuno svolgeva il proprio compito. Il sistema funzionava meccanicamente perché i singoli attori erano componenti di un sofisticato ingranaggio. Caduto il muro di Berlino, venne meno il motivo dell’esistenza di un apparato così pachidermico. La Nato, per sopravvivere, dovette ingegnarsi per mutare identità e adeguarsi ai continui cambiamenti della geopolitica globalizzata. A Bruxelles, si cominciò a parlare di concetti quali pacificazione e ricostruzione. Le nuove dottrine redatte nel pieno degli anni ’90 prevedevano l’espansione della alleanza e l’accettazione di incarichi di peacekeeping demandati dalle Nazioni Unite. La guerra in Kosovo del ’99 rappresentò il battesimo del fuoco della Nato nella sua nuova veste. (a.p.)

l’essere una forza difensiva a uno strumento di pace e ricostruzione utilizzato dall’Onu. Gli esempi dei Balcani e in Afghanistan, rispettivamente un esplicito successo e un caso di impasse, sono sotto gli occhi di tutti. A questo proposito, va sottolineato la piena unanimità nel perseguire questa linea di apertura internazionale. Il testo integrale del concetto strategico verrà pubblicato solo nei prossimi giorni. Già ora però, il Segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, ha ritenuto necessario definire come “un eccellente progetto” la bozza redatta dalla segreteria di Rasmussen. Sulla stessa lunghezza d’onda si è trovato il nostro ministro degli esteri, Franco Frattini.

Quello che invece sconcerta alcuni decision makers, in particolare quelli d’oltre oceano, è l’eventualità che i partner più importanti della Nato avviino una politica di tagli per quanto riguarda gli investimenti nel settore della difesa nazionale. Il Segretario alla difesa Usa, Robert Gates, ha sottolineato la sua preoccupazione per le misure di austerità che alcuni governi intendono adottare. Il soggetto implicitamente in questione è l’esecutivo britannico. David Cameron non nasconde le sue intenzioni di ridurre le 10% le spese della sicurezza. Nella fattispecie, le forze armate di Sua maestà – impegnate quotidianamente in Afghanistan – dovrebbero rinunciare a circa 42 miliardi di euro. La Germania, a sua volta, ha calcolato un taglio di 9,3 miliardi. Gates si chiede quindi come andrà a finire la questione. «Il mio timore – ha detto – è che più gli alleati ridurranno le loro capacità, più si guarderà agli Stati Uniti per coprire i buchi che si creeranno. E in un momento in cui anche noi stiamo affrontando difficoltà finanziarie simili, tutto questo è per me motivo di apprensione». È un bilancio pari a zero, quello che si può trarre dal summit di Bruxelles. La Nato si dimostra essere un’alleanza in piena salute, robusta come struttura e quindi può confutare i dubbi di una sua disgregazione. Molti dal 1989 si chiedono l’utilità della sua esistenza. Il fatto che essa costituisca la cassa di risonanza di questioni globali, per esempio la deterrenza nucleare, conferma la necessità di conservarla. È sui dettagli, al contrario, che l’organizzazione si sta dimostrando debole. Dettagli, quali il ritiro o meno dall’Afghanistan, che comunque non sono di second’ordine.


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Il delfino designato Kim Jong-un voleva uccidere il primogenito

L’avvocato chiede al Vaticano un aiuto per i diritti umani

Pyongyang, scontro fratricida per il potere

Nuovo appello al Papa del legale di Sakineh

PYONGYANG. La Cina è inter-

TEHERAN. «Vorrei incontrare il Papa, Sua santità Benedetto XVI, per poter parlare con lui della situazione dei diritti umani in Iran e in altri Paesi, e promuovere il loro rispetto e la pace nel mondo». È il messaggio lanciato attraverso l’AdnKronos dall’ex avvocato di Sakineh Ashtiani, la donna iraniana condannata alla lapidazione, e attivista per i diritti umani Mohammad Mostafaei, oggi a Bruxelles per partecipare a un dibattito al Parlamento europeo. La situazione di Sakineh, ha rassicurato il legale, sarebbe “migliore” grazie alla campagna internazionale lanciata per aiutarla. «Il Papa potrebbe chiedere un ruolo più sostanziale dei diritti umani nel mon-

venuta nei giorni scorsi a protezione di Kim Jong-nam, primogenito del leader nordcoreano Kim Jong-il. Pechino, l’unico alleato di Pyongyang nella comunità internazionale, si è mossa contro possibili azioni da parte degli stretti collaboratori del terzogenito Kim Jong-un, designato come successore al vertice del regime comunista. Il primogenito vive infatti a Macao, territorio cinese; due giorni fa si è espresso contro la successione dinastica in Corea del Nord, scatenando le ire dell’erede del Caro Leader. Lo scrive oggi il maggior quotidiano di Seoul, il Chosun Ilbo, secondo cui ci sarebbe un piano contro il primo figlio che vive in Cina e passa gran parte del suo tempo a Macao con la sua famiglia. Le ipotesi si basano su quanto riferito da fonti del governo sudcoreano secondo cui Kim Jong-nam, 39 anni, era la soluzione sostenuta dalla Cina in caso di collasso improvviso del regime nordcoreano.

Lo scorso fine settimana, Pyongyang ha celebrato il 65esimo anniversario della fondazione del Partito dei Lavoratori: in quella occasione il regime ha presentato alla leadership del Paese il giovane delfino. Kim Jong-un è stato prima

I precari della cultura occupano l’Acropoli Scontri con la polizia per il secondo giorno consecutivo di Massimo Ciullo a pesante crisi economica che attanaglia la Grecia non risparmia i luoghi più rinomati del patrimonio culturale ellenico. Ieri mattina, le forze dell’ordine sono state costrette ad usare manganelli e lacrimogeni per riaprire l’Acropoli, occupata per il secondo giorno consecutivo da un gruppo di precari del Ministero della Cultura, alcuni dei quali sono stati fermati e ammanettati. I reparti antisommossa (Mat) sono penetrati dalla parte posteriore della Collina Sacra ed hanno riaperto il cancello principale per consentire il flusso dei turisti. Nell’azione gli agenti hanno lanciato bombe lacrimogene per sgombrare l’entrata del principale sito archeologico greco e vi sono stati alcuni scontri e un numero imprecisato di persone sono state fermate. I manifestanti chiedevano il rinnovo dei contratti e protestavano contro i licenziamenti di centinaia di persone previsti per fine mese nell’ambito del piano di austerità. I manifestanti che avevano presidiato anche di notte la Collina Sacra, mercoledì pomeriggio hanno respinto un primo delle tentativo autorità di convincerli a desistere dalla protesta. «Gli agenti anti-sommossa e la violenza non fermeranno la protesta», hanno urlato i lavoratori all’ingresso del sito. Tuttavia, ieri mattina gli agenti hanno fatto irruzione da un’entrata laterale, a seguito di un provvedimento di ingiunzione contro i manifestanti per aver bloccato l’accesso al sito, e hanno spruzzato anche spray urticante per disperdere i dimostranti. Almeno una persona è stata portata via in manette dagli agenti. Ieri, gruppi di turisti frustrati per non aver potuto raggiungere la Collina Sacra, avevano protestato apertamente. I manifestanti avevano bloccato l’entrata principale al più importante monumento greco e avevano cambiato la serratura del cancello, sostenendo di non esser stati pagati per due anni. «I manifestanti hanno cambiato la serratura dell’ingresso principale, stanno tenendo le chiavi dell’Acropoli», aveva detto il vice Ministro alla Cultura Tele-

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machos Hytiris alla tv prima del blitz della polizia. La Grecia ha sfoltito l’organico dei dipendenti pubblici con contratti a termine nell’ambito dell’accordo con Ue e Fmi per ridurre il deficit. Prima che la bufera finanziaria si abbattesse sul Paese, le agenzie statali procedevano allegramente ad assunzioni temporanee (spesso in coincidenza con appuntamenti elettorali) senza avere la sicurezza dei fondi con cui pagare gli stipendi dei dipendenti.

La protesta era stata organizzata contro la decisione da parte del governo di tagliare i costi della macchina pubblica statale che, in Grecia, ha un numero enorme di dipendenti non necessari, che gravano con i loro stipendi sul bilancio dello Stato. L’esecutivo socialista guidato da George Papandreou ha così deciso di non rinnovare il contratto a circa 320 persone, nell’ambito di una serie di durissimi tagli che si sono resi necessari dalle condizioni delle finanze statali legate a quelle della crisi economica. Lo scorso 30 aprile, le autorità di Atene sono riuscite a siglare un accordo con l’Unione europea e il Fondo monetario internazionale per cercare di salvare lo Stato dal crack finanziario. Un piano di lacrime e sangue, duramente contestato dalle organizzazioni sindacali che a più riprese hanno convocato manifestazioni di protesta in tutto il Paese, sfociate spesso in scontri e disordini con la polizia. I greci hanno accolto malissimo queste misure, che limitano il potere d’acquisto degli stipendi e alzano le tasse per i consumatori. Migliaia di statali sono scesi in piazza per l’ottava volta ad Atene e in altre città della Grecia contro il piano di austerità del governo, paralizzando il Paese. Il premier Papandreou ha cercato di alimentare il clima di fiducia, affermando che il piano di risanamento è quasi a metà del guado. Sono stati previsti tagli della spesa pubblica per circa 30 miliardi entro il 2012, per ridurre il deficit di 11 punti percentuali fino al rientro al 3 per cento così come previsto dalle regole Ue, entro il 2014.

I dipendenti sostengono di non essere pagati da mesi. Proseguono in Grecia le tensioni sociali post-crac finanziario

nominato generale a quattro stelle e poi promosso alla vice presidenza della Commissione militare centrale. Dopo la fine del Congresso è stata pubblicata la sua prima fotografia ufficiale insieme al padre. Kim Jong-il è apparso in quelle immagini molto provato: molti sostengono che il dittatore sia stato colpito da un grave ictus nell’agosto del 2008 e che soffra ora di malattie gravi ormai croniche come il diabete. Kim Jong-nam, tendenzialmente l’erede del dittatore, è caduto in disgrazia nel 2001 quando, con un maldestro tentativo, ha cercato di raggiungere Disneyland a Tokyo con un passaporto dominicano, naturalmente falso.

do e della pace, a cui il rispetto di questi è legata - ha affermato Mostafaei - Sarei quindi interessato ad incontrare personalmente Sua santità Benedetto XVI per parlargli di questo, ci sono infatti molte persone che lo sostengono e lo ascoltano, e il suo messaggio sarebbe sicuramente ascoltato».

La situazione in Iran, infatti, «è sempre più grave; la questione della minaccia nucleare iraniana legata a quella dei diritti umani. I diritti umani sono più importanti rispetto alla questione nucleare, perché se un Paese che calpesta così i diritti della propria popolazione significa che non ha rispetto neanche per nessuna altro Paese al mondo e che è quindi capace di commettere crimini contro l’umanità». È poi importante, aggiunge il legale, «che l’Unione europea e l’Italia intervengano attivamente sulla questione iraniana con tutti gli strumenti e i mezzi di cui dispongono. In particolare, l’Ue dovrebbe mettere un embargo sugli individui specifici , sulle personalità iraniane di spicco perché non possano spostarsi liberamente nei paesi democratici così come ha già fatto il presidente degli Stati Uniti Barak Obama».


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i testi del dissenso/4

Documenti. Il quarto di una serie di articoli scritti dal Nobel per la pace fra il 2005 e il 2008: il tribunale li ha usati per condannarlo a 11 anni di carcere

Svegliati, Dragone! La Cina si è fatta dominare in silenzio per cinquemila anni È arrivata l’ora di scuotere le coscienze. Se non ora, quando? di Liu Xiaobo a Cina ha vissuto circa vent’anni di riforme, ma data la presa di potere assoluta da parte del Partito comunista e la conseguente distruzione delle forze sociali non vedo nel breve termine alcun tipo di forza politica in grado di cambiare il regime. Non vedo neanche, all’interno del circolo delle autorità, una qualche figura liberale che possa cambiare le cose. Non esistono Gorbaciov cinesi. Per questo, la trasformazione della Cina in una società moderna e libera sarà piena di interruzioni e giravolte. Il tempo necessario a compiere questo percorso potrebbe rivelarsi molto più lungo di quanto pensino persino i conservatori. Allo stesso tempo, però, la società civile si presenta debole, il coraggio comune inadeguato, e la fede nel futuro immatura; la nostra società è ancora ai primi stadi di sviluppo, e quindi è impossibile pensare che qualche forza possa presto prendere il posto del regime comunista. In una situazione del genere, un cambiamento nel sistema politica cinese e nel suo regime non può essere altro che un castello in aria. Questa considerazione non deve però far pensare che non ci sia alcuna speranza per una Cina libera. Perché il cielo della politica interna, dopo Mao, non riesce più a essere oscurato da una singola mano; anzi, ha i toni dell’oscurità e della luce.

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Allo stesso modo il rapporto fra popolo e dirigenti non è più come un tempo, quando si aveva il terrore di parlare. La rigidità politica e il risveglio della società convivono fianco a fianco. Il sistema è ancora autocratico come un tempo, ma la società non è più ignorante come una volta; il regime continua a mettere nel mirino gli individui “politicamente sensibili”, ma questi non sono più la pestilenza che erano ai tempi del Grande Timoniere. Quando prese il potere, Mao dovette far coincidere quattro condizioni per poter prendere il controllo in maniera totalitaria. La prima era la “nazionalizzazione comprensiva”: uno strumento economico in grado di trasformare lo Stato in una “tata”per tutti i cittadini, rendendoli nel contempo economicamente dipendenti dal governo. La seconda era l’organizzazione “onnicomprensiva”, mirata a sconfiggere in toto la libertà personale. La terza era la “rigida tirannia”, fatta di violenza imposta sull’intero corpo sociale: un’atmosfera dittatoriale sostenuta dalla mentalità “del nemico”, quella che ti obbliga a essere sempre teso e vigile. L’ultima era la “tirannia mentale”, imposta alla nazione grazie a un’ideologia coesiva e dai

movimenti di massa, dove veniva estremizzato il culto della personalità. Quest’ultimo fattore ha consentito la creazione di una situazione in cui è la leadership a pensare per tutti, e di conseguenza chi la pensa diversamente è un dissidente da piegare.

Oggi, dopo Mao, non esiste più una società interamente basata sull’autorità ufficiale. Una trasformazione enorme verso il pluralismo si è già verificata, e il governo non è più in grado di controllare l’intera società. La continua crescita del capitale privato sta scardinando le fondamenta economiche del regime, e il

Oggi non c’è una forza politica in grado di sconfiggere il Partito. E non si vedono politici riformatori: non esiste ancora un Gorbaciov cinese sistema di valori in via di disgregazione sta facendo lo stesso con l’ideologia. In particolare dopo il 4 giugno del 1989, tre dei quattro pilastri necessari alla stabilità del dominio totalitarista sono entrati in decadenza, per poi collassare. La dipendenza economica dal regime è stata lentamente rimpiazzata dall’indipendenza personale. La dipendenza personale dall’organizzazione è passata, lasciando spazio all’iniziativa libera. I cinesi non hanno più bisogno di vivere in comuni decise dal governo. In pratica, si stanno gradualmente

muovendo verso la libertà di movimento, la mobilità e la scelta di carriera. Nella sfera ideologica, il risveglio della coscienza individuale e la consapevolezza dei diritti personali hanno guidato al collasso dell’ideologia unica, e la diversificazione del sistema di valori ha costretto il governo a cambiare le proprie scuse, basate sulla propaganda. La rivoluzione di Internet, e il flusso di informazioni a disposizione di tutti che questa ha portato con sé, ha fatto crollare una parte della diga messa contro la verità dall’autorità governativa. In effetti, dei pilastri di Mao ne è rimasto soltanto uno: l’accentramento politico e la repressione che ne garantisce l’esistenza. Tuttavia, a causa del senso di giustizia e correttezza della nostra società, non esistono più gli eccessi tipici dei primi anni del regime, come la persecuzione fisica contro centinaia di milioni di persone. È diminuito anche il terrorismo politico. Ma non cambia il problema di cui parlavamo all’inizio. In una società non libera e governata da una dittatura, se non c’è un potere in grado di sconfiggere chi comanda esistono comunque delle strade che la società può percorrere per cercare di migliorare la situazione. Il movimento di cui parlo è pacifico e agisce per difendere i diritti umani, non per arrivare al potere: è impegnato a costruire una società dove chiunque possa vivere con dignità. Per fare questo si devono cambiare alcune cose, attualmente troppo presenti in Cina: l’ignoranza, la codardia e lo schiavismo volontario. Per combatterle è necessario espandere gli spazi di confronto, luoghi in cui il controllo statale sia debole: alla prima ondata di repressione contro un simile luogo se ne costruirà un altro, rosicchiando pian piano metri per la democrazia.

In secondo luogo, il movimento non deve cercare di ottenere una completa trasformazione del Paese. Invece di perseguire questo scopo, deve mettere in pratica i principi di libertà ogni giorno tramite le idee, l’espressione delle proprie opinioni e la difesa dei propri diritti. È necessario fortificare le risorse morali e giuridiche comuni, traendo esperienza da chi conosce questi campi. Quando le forze civili non sono abbastanza forti per smuovere la politica, possono puntare sulle singole coscienze e sui piccoli gruppi, che cooperano per migliorare le loro vite. Un esempio perfetto di quanto dico è la ribellione compiuta contro la censura dai giornalisti del China Youth Daily. È poi molto importante non avere paura della po-

tenza negazionista della verità del regime e delle sue istituzioni: ogni singolo dovrebbe combattere per avere il diritto di vivere come una persona libera, una vita onesta e dignitosa. In ogni società dominata da una dittatura, chi comanda dice in pubblico delle cose in cui non crede e porta avanti un esempio di vita che lo dimostra. Se si vogliono spezzare le catene della schiavitù non ci si deve adagiare su quelle che non sono altro che bugie, ma si deve ascoltare la propria coscienza. In questo modo si illumina anche l’opinione pubblica, e la luce che emana da questo procedimento viene vista e temuta anche dai dittatori. Chi vuole lottare contro il regime, inoltre, dovrebbe impegnare la propria vita ai valori della libertà: il principio della tolleranza e quello del dialogo sono fondamentali, soprattutto quando in una comunità si ascoltano diverse voci e diverse idee. È poi molto importante evitare atteggiamenti da super-eroe o assegnare a caso, in giro per il mondo, il proprio biasimo: se si vuole resistere a lungo, bisogna tenere un profilo basso.

La storia è piena di persone che hanno affrontato sacrifici enormi in nome di un ideale: questo non vuol dire che tutti siano chiamati a fare lo stesso, anche perché altrimenti non resterebbe nessuno a combattere. Un punto chiave, già accennato ma fondamentale, riguarda il diritto di parola: non importa la propria estrazione sociale o il proprio impiego, tutti devono riconoscerlo


i testi del dissenso/4

15 ottobre 2010 • pagina 19

Il Giappone si unisce al coro mondiale

Tokyo: «Liberate Liu Xiaobo» di Vincenzo Faccioli Pintozzi opo Stati Uniti, Unione Europea, Francia e Germania anche il Giappone scende in campo per la liberazione di Liu Xiaobo, il dissidente cinese autore di Charta ’08 insignito del premio Nobel per la pace. Il premier giapponese Naoto Kan ha detto ieri mattina che «sarebbe auspicabile che la Cina liberi [Liu Xiaobo] velocemente». Parlando davanti a una Commissione del Parlamento, Kan ha dichiarato: «Le relazioni fra Cina e Giappone stanno tornando al livello originale, a un miglioramento dei legami strategici benefico per entrambi. In questa situazione [...] la mia posizione è quella di agire tenendo in considerazione gli interessi nazionali, oltre che le mie opinioni personali». Pechino continua a contestare le “interferenze” dei governi occidentali nella questione. Il portavoce del ministero cinese degli Esteri Ma Zhaoxou, ieri, ha dichiarato di nuovo: «Alcuni governi ed esponenti politici stranieri hanno sostenuto il premio Nobel a Liu Xiaobo. Mi chiedo cosa stiano tentando di fare: obiettano al percorso di sviluppo intrapreso dalla Cina, al sistema politico cinese?». Liu, professore universitario, è stato condannato lo scorso Natale a 11 anni di galera per “sovversione contro lo Stato”: la sua vera colpa è quella di aver scritto Charta ’08, manifesto democratico che chiede a Pechino il lancio di vere riforme sociali, e una serie di 6 articoli a sostegno del movimento sociale cinese.Il governo cinese considera l’assegnazione del Nobel a Liu “un’oscenità”, e ha lanciato una serie di arresti a tappeto contro i dissidenti per evitare manifestazioni a suo favore. Secondo Ran Yunfei, attivista per i diritti umani del Sichuan e blogger, sono molti gli oppositori arrestati; inoltre, il governo ha chiuso diversi forum cinesi che trattanto argomenti relativi alla democrazia. Pu Zhiqiang, avvocato e leader del movimento democratico che partecipò anche ai moti di Tiananmen, è stato arrestato. Su Twitter, il dissidente ha scritto: «Da domenica le mie libertà sociali sono state illegalmente ristrette dalla polizia. Sono stato punito per aver continuato a parlare con i media internazionali. Ora sono seguito dalla polizia, che mi ha messo in una piccola casa di Fengtai». Anche la moglie del Nobel, Liu Xia, si trova ai domiciliari: ieri ha ricevuto la visita della madre, 77 anni, preoccupata perché non ne aveva notizie da alcuni giorni. Tuttavia, le autorità hanno impedito per la seconda volta a un diplomatico norvegese di visitarla all’interno della sua abitazione. Ancora incertezza per chi ritirerà il premio a Oslo.

D

e goderne. Anche le dichiarazioni e le azioni dei governanti, fino a che non violano i diritti umani della popolazione, rientrano nella categoria della libertà di espressione: se si premette un rispetto reciproco e un trattamento uguale, si potrà potenziare il dialogo fra la base e il vertice. Entrambi ne avranno giovamento. Serve poi, infine, la voglia di confrontarsi con l’ingiustizia. Si deve sradicare dalla Cina la tentazione di volgere lo sguardo dagli errori e dagli abusi della tirannia: alle persone a cui è stato tolto tutto in nome dell’autocrazia si deve ridare in mano il diritto a combattere per se stesso. Sarebbe profondamente sbagliato lottare per una persona che non vuole essere difesa. In special modo se si è in pochi a cantare una canzone diversa da quella del coro, si deve avere una motivazione inattaccabile per portare avanti la propria vita e la propria lotta.

Se il governo si comporta in maniera dura si deve essere flessibili; se il governo è flessibile, si deve attaccare con durezza. Anche se si sostengono politiche sistematiche utili, si deve per-

Alcuni monaci tibetani pregano per la redenzione del governo comunista cinese e della leadership. A sinistra la celebre foto dello studente che ferma i carriarmati a Tiananmen. Nella pagina a fianco, Michail Gorbaciov: l’ultimo segretario in carica del Partito comunista dell’Unione sovietica

severare nella critica alle modalità dittatoriali. In conclusione, la trasformazione della Cina in una società libera non potrà che essere tortuosa. Abbia-

I pilastri di tirannia su cui è stata fondata la nazione sono crollati. Internet ha fornito a tutti noi gli strumenti per abbatterli mo bisogno di una presa di coscienza da parte della popolazione, che deve impegnarsi per espandere in maniera

continua delle attività di disobbedienza civile. Servono movimenti del popolo per il popolo. In altre parole, si deve iniziare a insegnare il metodo democratico a chi si è fatto governare per gli ultimi cinquemila anni. Non si deve inseguire la ricostruzione sociale con un radicale cambiamento di regime, ma usare la gradualità. È così che si sconfigge il nemico, anche se – come nel nostro caso – questo non ha alcuna legittimità. Perché se si combatte chi non ha legittimità con la violenza, si scatena nuova violenza più forte; serve perseveranza e pazienza, convinzione di essere nel giusto e voglia di impegnarsi in ogni ambito sociale per riaffermare la giustizia degli atti e i diritti, umani, sociali e politici.


cultura

pagina 20 • 15 ottobre 2010

L’intervista. A tu per tu con la scrittrice e critica letteraria Nadia Fusini ROMA. Marc Fumaroli invoca dalle colonne del Corriere della Sera un nuovo Rinascimento e chiede agli italiani di indicare a tutti gli altri europei la «via per uscire dalle sabbie mobili del declino». Lo fa alla vigilia del convegno Idee italiane: osservatorio sulla cultura del Paese, un appuntamento che si ripeterà e che periodicamente farà il punto sulla nostra cultura, sulla sua creatività, sulla capacità di innovare. Nadia Fusini, profonda conoscitrice della lettaratura inglese e scrittrice di romanzi, nella sua relazione al convegno, che inizia oggi a Milano, partirà dai profondi cambiamenti intervenuti nella cultura di genere. La possibilità di perfezionare la natura, l’idea di una realtà sempre più virtuale,hanno dilatato negli ultimi anni l’immaginario del corpo in modo dirompente. La stessa idea del naturale, dell’umano naturale si è dissolta. Mai come oggi i confini di genere vacillano - osserva Fusini - ed è quindi maturato il tempo per un superamento della cultura di genere. Per dirigerci verso un nuovo umanesimo che vada oltre l’uomo. Fusini, lei invoca un cambiamento profondo. Ritiene anche lei come Fumaroli che la cultura dell’Occidente stia declinando o rotolando nel baratro? Penso che bisogna rimovimentare la scena. E che anche la cultura di genere ha bisogno di una grande innovazione. Le categorie uomo-donna infatti, con i relativi valori e con i modi in cui vengono rappresentati, sono arrivate allo stremo. È ovvio che non ho alcuna intenzione di negare il fatto che esistono uomini e donne: la distinzione continua. È però evidente che la performance sociale del proprio genere è radicalmente mutata. Occorre ripensare i modi di rappresentare questa differenza che siano più giusti, più all’altezza della grande trasformazione che è intervenuta. la Rappresentare differenza in modo diverso. Ha qualche idea? Per secoli e secoli la cultura occidentale ha avuto una visione binaria, irriducidibile di uomo e di donna. Attivo e passivo, corpo e ragione: abbiamo affidato queste polarità al genere maschile e a quello femminile. Una separazione che non regge più: le cose sono profondamente cambiate. Abbiamo bisogno di una rappresentazione più ricca e sfumata. Non è vero che la donna è passione e l’uomo è pensiero. Ci sono ormai molti valori che condividiamo. Ci siamo reciprocamente contaminati. In questo senso parlo di un superamento della cultura di genere e di un nuovo uma-

L’Umanesimo nuovo della cultura italiana di Gabriella Mecucci

A fianco, la scrittrice e critica letteraria Nadia Fusini, che oggi interverrà al convegno dell’Istituto Italiano di Scienze Umane dal titolo “Idee italiane: osservatorio sulla cultura del Paese”. Sopra, un disegno di Michelangelo Pace

nesimo. Si tratta di ripensare come fare mondo. Sulla scena sociale abbiamo dunque bisogno di essere più duttili, meno stereotipati, più capaci di incontrare le differenze. Lei parla del «valore della

do la donna sa di più. E quindi - sono ancora parole sue - «superando la categoria binaria uomo/donna potremmo giungere a un oltre-uomo». Il nuovo umanesimo sarebbe dun-

Umberto Veronesi,poi, pensa a un nuovo matriarcato. E anche in un recente articolo di Scalfari su Repubblica c’era il desiderio che certi valori affidati tradizionalmente alla donna, diventassero in qualche modo

Secondo l’esperta, che interverrà oggi a Milano al convegno “Osservatorio sulla cultura del Paese”, occorre «rimovimentare la scena, soprattutto la cultura di genere: le categorie uomo-donna, ormai, sono superate e arrivate allo stremo» recettività, della contemplazione, dell’apertura allo splendore di quel che non è io, ma l’altro, tutto ciò che non siamo noi, il mondo...». Di questo mon-

que più piegato verso il femminile? Sì, penso di sì. Recentemente ho letto il libro di Alfredo Reichlin è ho capito che anche lui invoca un nuovo umanesimo.

universali. Per vivere in società, dobbiamo condividere dei valori. Quelli che sono stati nei secoli coniugati al femminile, devono diventare un patrimonio di tutti. Prendiamo ad esempio

la protezione, contrapposta alla violenza, è questo un valore considerato femminile. Ciò ovviamente non vuol dire che una donna non possa essere violenta. Ma che nel teatro della società - perché la società è anche un teatro - alla donna è stata affidata quella parte. Mi domando: non è arrivato il momento in cui quel valore, o, se si vuole, quella parte diventi comune? Il superamento della cultura di genere,dunque segnerebbe la creazione di un nuovo universale? Sì. In passato l’universale è stato sempre rappresentato dal maschile. Credo che sia arrivato il tempo di un rovesciamento. È il tempo di esaltare i valori femminili se si vuol andare verso un nuovo umanesimo. A proposito di valori umanistici, di recente è uscito un libro di Rob Riemen con una prefazione di George Steiner. Il saggio mette in discussione quello che definisce il mondo di Galileo e di Darwin e denuncia il restringimento della sfera della parola. Mentre - questa la proposta del saggio - occorrerebbe rilanciare proprio i valori umanistici. Anche lei mi sembra in sintonia con questa impostazione... Vado subito a comprarmi questo libro. Quello che dice è giustissimo. Credo che dobbiamo recuperare tutti quei valori che rendono il mondo più umano, più vivibile, più condiviso, meno contrapposto. Il convegno che si apre oggi dovrebbe essere una sorta di osservatorio sulla cultura italiana. A che punto è il nostro Paese? Credo che questa iniziativa presa dall’Istituto Italiano di Scienze Umane sia molto giusta. Rimettere al centro dell’attenzione il pensiero, l’attività di comprensione dei problemi per indicare le vie di uscita. Amo molto l’Italia e non sono soddisfatta di come oggi viene rappresentata a tutti i livelli.Vorrei poter convivere con gli altri più pensiero, più ricerca e più rispetto per l’esistenza. Mi ha molto colpito l’atmosfera di paura e di violenza che si respira proprio in questi giorni a Roma e a Milano. Se non si ragiona, se non si parla, alla fine si viene alle mani. C’è molto bisogno di ascolto, cura e rispetto. Insomma, di maternage. Di quegli storici valori femminili sempre minoritari e che invece devono diventare condivisi. La sua idea di nuovo umanesimo è un’evoluzione del pensiero femminista della differenza? Credo di sì. È molto importante tutto ciò che è stato fatto e pensato negli anni del femminismo. Ora le cose si sono un po’ assopite. Ma ci è rimasto in eredità un modo di essere donna che è profondamente cambiato.


società

15 ottobre 2010 • pagina 21

Nella foto grande, un’azione di gioco della Roma culminata in rete. In basso, da sinistra a destra, Diego Maradona solleva la Coppa del mondo conquistata a Mexico ’86, il campione juventino Michel Platini e Edison Arantes do Nascimento, il celebre Pelè

Libri. Esce per Vallecchi “Il divino pallone”, brillante saggio di Giancristiano Desiderio che coniuga il calcio con la metafisica

Se pensare coi piedi porta a Platone di Francesco Lo Dico i sarebbe piaciuto incominciare con un bell’epinicio alla maniera di Pindaro, con la coppa del mondo che splende più brillante di ogni altra stella tra i guantoni inoperosi di Buffon. E invece sappiamo bene com’è andata in Sudafrica, e perciò ci avanza appena una scolatura di Sartre. Poco raccomandabili per fare baldoria, dal retrogusto amarognolo, i soavi licori del francese sono cose da mescere in occasioni così. Diceva il messieur che il calcio è la metafora della vita. E quello espresso dalla Nazionale, è stato una specie di slide-show del nostro Paese: a prevalenza az-

pagg.15 euro). Se vi state chiedendo che cosa c’entra il Pupone con la gnoseologia, Diego Maratona con la Critica del giudizio, e Pelè con Zenone, è il momento di aprire l’almanacco del pensiero: Heidegger era un’ottima ala sinistra, Derrida un buon centravanti e Camus giocava in porta. E se non pochi impararono a filosofare con i piedi, spiega Desiderio, in molti si servirono dei tacchetti altrui per tenere in piedi le proprie teorie. Ad esempio Wittgenstein giunse alla svolta del suo pensiero guardando una partita di calcio. E Merleau-Ponty snocciolò la fenomenologia parlando di pallone. Se ancora vi sfug-

zurra ma pieno di correnti interne, affidato a una cricca di quattro pensionati al servizio di Cesare, punitivo verso i giovani, tendente alla simulazione e allergico alle critiche.

ge il nesso tra mondo del calcio e mondo delle Idee, chiedetevi come fate a riconoscere di solito una superba punizione, una prodezza dal limite o un dribbling ubriacante. Se vi frullano per la mente filmati d’archivio di Platini, Zico e Garrincha, non perdete tempo con i giudizi sintetici a priori perché sapete già tutto. Nel passare in rassegna le imprese dei calciatori più celebrati, l’autore mette in atto una fulminea serpentina nella storia del pensiero. E ne deduce che al centro del calcio c’è una torma di dualismi che sembra rubata di peso

C

Sarebbe facile rifugiarsi nella nausea. Non fosse che i campionati del mondo, risvegliano con l’allenatore l’esteta che dorme in ogni tifoso di calcio. E che persino quelli più avviliti troveranno adeguato conforto filosofico nel nuovo libro di Giancristiano Desiderio, Il divino pallone, metafisica dei piedi da Platone a Totti (Vallecchi, 312

alla scuola di Atene. C’è la sostanza del singolo gesto tecnico, ma essa si dà nella forma che lo rappresenta, c’è l’individuo, ma questi esiste solo nella molteplicità, c’è la potenza ma essa si coglie soltanto nell’atto. Nel gioco del pallone c’è l’essere stesso che si mostra nell’ente. E c’è la perenne contesa tra gli infiniti condizionali che si

Vivere senza mettersi in gioco, sul rettangolo verde come nella vita, è impossibile: parola di Socrate. Ma anche di Falcao e Pelè...

affollano attorno al calciatore, nello stesso momento in cui questi coniuga se stesso all’indicativo di Eupalla. Può passare, tirare, perdere goffamente il controllo del pallone. E può anche infingersi come un essere che non sarà: far finta di andare a destra per sgusciare a sinistra. Fintare un suggerimento sulla fascia, per dare in mezzo un pallone no look.

altruistico, di spinta verso il limite e conoscenza dei propri confini. La stessa che vibra in uno stop di petto o in un triangolo stretto, in un elastico azzardato o in una sgroppata sulla fascia, in un coast to coast alla Maradona o in un assist al compagno dopo quaranta metri palla al piede. Sul liso campetto di borgata come nel velluto verde del Maracanà, va in scena ogni volta il grande teatro dell’essere. È questa l’intuizione che accompagna le piacevolissime pagine di Giancristiano.

Il calciatore, chiosa Desiderio, è l’uomo stesso alle prese con il paradosso dell’esistenza. Nel momento in cui sceglie, impoverisce l’infinità del suo essere. Ma solo in questa finitezza, riesce a esprimere la sua specifica ricchezza. E qui, siamo a un dipresso del cuore del Divino pallone, che puta caso è lo stesso del pensiero occidentale: nessuno possiede il gioco ma ciascuno ne viene posseduto. E vivere senza mettersi in gioco, sul rettangolo verde come nell’arengo quotidiano, è del tutto impossibile. È la disponibilità al dialo-

Un’intuizione che si accompagna a un ammonimento: bisogna tornare al puro piacere del gioco del pallone, sempre più avvelenato da millantatori, magnati famelici e virus parapolitici. Se Goethe diceva che «i perché sono giochi che solo nelle imprevedibili domande dei bambini trovano la loro dimora», l’autore rovescia la prospettiva d’un balzo: nel gioco del calcio ci sono le imprevedi-

go, la precondizione per il fischio d’inizio di una gara. Ed è la necessità del dialogo, ciò che nutre l’autentica filosofia, quanto la ricerca della verità. Una speciale alchimia che è fatta di controllo e di abbandono, di smania di possesso e slancio

bili risposte che noi adulti non sappiamo più ospitare. Non è un caso che il football più bello sia quello bailado dai brasiliani. Il calcio è una danza. O se Kant non se ne adombra, un twist perenne tra il noumeno e il fenomeno.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE

La pena dell’ergastolo ostativo è una pena di morte al rallentatore È da tanti anni, prima di molti altri, persino degli stessi giudici, avvocati e addetti ai lavori, che ho scoperto che in Italia esiste “la pena di morte viva”. È da tanti anni che dico che la pena dell’ergastolo ostativo è peggio, più dolorosa è più lunga della pena di morte; che è una pena di morte al rallentatore; che ti ammazza, lasciandoti vivo, tutti i giorni sempre un po’ di più; che in Italia ci sono giovani ergastolani che al momento del loro arresto erano adolescenti, che invecchieranno e moriranno in carcere; che solo in Italia esiste la pena dell’ergastolo ostativo, una pena che non finirà mai se non collabori con la giustizia o se al tuo posto non ci metti qualche altro; che la pena dell’ergastolo va contro la legge di Dio e degli uomini, contro l’art. 27 della Costituzione, che dice: «Le pene devo tendere alla rieducazione», e alla Convenzione della Corte europea. Ora, queste cose non le dico solo più io ma anche Paolo Canevelli, presidente del tribunale di sorveglianza di Perugia, che ha affermato «L’ergastolo, è vero che ha all’interno dell’ordinamento dei correttivi possibili, con le misure come la liberazione condizionale e altro, ma ci sono moltissimi detenuti oggi in Italia che prendono l’ergastolo, tutti per reati ostativi, e sono praticamente persone condannate a morire in carcere. Anche su questo, forse, una qualche iniziativa cauta di apertura credo che vada presa».

Carmelo Musumeci, carcere di Spoleto

RIFIUTI: TERZIGNO DISCARICA DA 3 MILIONI DI TONNELLATE L’eventuale ampliamento, la discarica di Terzigno diventerebbe la più grande d’Europa: uno sversatoio da 3.000.000 di tonnellate. E, comunque, un impianto che, pur essendo nel parco del Vesuvio, va aperto. Ma con tutte le precauzioni e le garanzie sanitarie per la popolazione. Per uscire dalla stallo che potrebbe portare a una nuova emergenza rifiuti, si deve accelerare la costruzione di impianti di termovalorizzazione. Anche perché Acerra non può riuscire a reggere il ritmo di produzione di rifiuti della Regione. E per farlo serve una spinta forte: si nomini Bertolaso commissario per la costruzione dei termovalorizzatori. E che si facciano in tempi brevi. Oltre ai termovalorizzatori,

serve poi puntare alla raccolta differenziata, perché senza quella non si può dare origine a un ciclo di smaltimento corretto. Una proposta è, allora, pensare a degli accordi tra Stato e enti locali per dare inizio alla raccolta differenziata unificata su tutto il territorio nazionale.

Sguardi magnetici Se pensate che il make-up di questa ragazza, truccata da “coda di pavone” durante l’ultima Convention internazionale del tatuaggio svoltasi a Taipei (Taiwan), sia un tantino eccessivo, aspettate di sapere quanto misurano le ciglia più lunghe del mondo: ben 7 centimetri

Alfonso Fimiani

PRIMO CHIP PER COMPUTER QUANTISTICI C’è una firma veneta in calce ad una delle più grandi scoperte tecnologiche degli ultimi anni. Questo ci riempie d’orgoglio, ma deve anche essere motivo di riflessione, perché questo suo successo Alberto Peruzzo lo ha concretizzato in Gran Bretagna. Il giovane scienziato veneziano, laureato a Padova, protagonista della ricerca internazionale ha portato a realizzare il primo

chip per computer quantistici, che permetteranno di simulare quello che avviene in una molecola o in una reazione chimica. Peruzzo è il simbolo di una generazione che si sta facendo largo a suon di successi in molti campi della ricerca, della scienza e della tecnologia. È veneziano, si è laureato in una Università veneta, ma per esprimere tutte le sue capacità ha lavorato nel Centro di Fotonica dell’Università di Bristol. Questo deve far riflettere un po’

L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

tutti, politica, istituzioni, università, mondo economico e imprenditoriale, sulla necessità di fare di più e meglio per trattenere in casa i nostri cervelli. Il futuro si costruisce anche così, creando le condizioni perché il sapere e l’inventiva che sappiamo esprimere si possano realizzare e concretizzare nella nostra terra e nel nostro tessuto economico, anziché girovagare per il mondo.

Ellezeta

da ”The Indipendent” del 14/10/10

Iconografia del male in mostra a Berlino ggi sta per rompersi un taboo in Germania e chissà se sarà solo quello. Si inaugura una mostra che più controversa e foriera di polemiche non poteva essere. Al di fuori dell’immaginabile. È la prima volta dalla seconda guerra mondiale che a Berlino si apre una mostra con un soggetto molto particolare: Adolf Hitler. Chiaramente i curatori dell’iniziativa è da qualche settimana che non chiudono occhio. Il timore è presto detto: o essere invasi da nostalgici e diventare il catalizzatore di neonazi e diversamente intelligenti, sul tipo “I love Terzo Reich”, oppure diventare il bersaglio delle giustissime critiche di chi ha subito la persecuzione di quel regime, le vittime dell’Olocausto per prime. Chiaramente i responsabili del Museo storico di Berlino hanno fatto di tutto per presentare il supergaulaiter di Germania sotto la luce più giusta: quella cattiva. Nel tentativo di smorzare controversie e furiose polemiche già pronte ad esplodere. Sia sostantivi che aggettivi che verbi non hanno passato il vaglio della autocensura dei curatori che, alla fine, hanno deciso per un titolo della mostra nudo e crudo: «Hitler». Scelta infelice e ambigua, come sottolinea Tony Patterson inviato dell’Indipendent nella capitale tedesca. Mentre il coté di memorabilia hitleriane si è guadagnato un titolo più articolato. «Hitler e i tedeschi. La comunità nazionale e la violenza». Certo che tanto onore, in mezzo ai musei del Pergamon e altre meraviglie berlinesi, non era prevedibile. E il professor Hans-Ulrich Thamer a capo del team che ha preparato la mostra è

sia invasa da stranieri. Anche se nel Paese il partito nazista è fuorilegge ed è proibito esibire la svastica, sono ormai migliaia i documentari, i libri e gli articoli che si sono occupati di un passato così ingombrante e imbarazzante. Imbarazzante sembra anche la facilità con cui una realtà tenuta per più di mezzo secolo sotto il tappeto della storia, emerga con tanta facilità e naturalezza. Forse è perché si è trattato il tema per troppo tempo con gli argomenti sbagliati.

O

conscio del problema: «Abbiamo cercato di evitare che la mostra diventi una celebrazione del nazismo e fatto in modo che il visitatore non possa mai identificarsi con Hitler». E poi spiega come si è tentato di raggiungere questo “ambizioso”obiettivo. «Non ci sono registrazioni audio dei discorsi di Hitler. Così la gente non può sentirli mentre guarda immagini, quadri e foto» del dittatore nazista. Un dipinto del 1939, ora in possesso dell’esercito Usa, dove posa con un aspetto visionario ed eroico è stato scartato per la mostra. E vorremmo anche vedere. La mostra parte proprio il giorno dopo la pubblicazione di un sondaggio in cui risulta che il dieci per cento dei tedeschi vorrebbe che un uomo politico forte come il «Fuhrer». E tra chi ha risposto alle domande della ricerca c’è un buon 35 per cento che ritiene che la Germania

Si è negata l’evidenza di un Paese intero che ha seguito fino alla fine il folle progetto di Hitler e non si racconta la matrice culturale di una pazzia. Nata dal tentativo di sublimare, al posto della religione, un concetto terreno e molto ambiguo come la razza. Si è cercato di creare un dio in terra, riuscendo ad aprire solo le porte dell’inferno. E la superficialità dell’approccio è sempre un pericolo dietro l’angolo, perché muove dinamica che non è in grado di controllare. Non saranno certo i busti di bronzo o gli olii su tela a costituire il pericolo, ma il non aver cercato di affrontare alla radice il male oscuro dell’Europa. C’è anche chi, come Der Spiegel, è stanco di veder trattati i tedeschi come dei minus habens, non in grado di metabolizzare la storia a 65 anni di distanza. Da Yet Levi Salomon rappresentante del Consiglio ebraico tedesco, che non ha criticato la mostra, arriva una lezione di stile: «dobbiamo abituarci ad affrontare questo difficile tema da tutte le angolazioni possibili». Anche da quelle di un girone infernale.


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LE VERITÀ NASCOSTE

Gps troppo vecchi: automobilisti nel fiume BROOK END. In Gran Bretagna è nato un nuovo tipo di business: la pesca degli automobilisti. Ogni giorno ce ne sono almeno un paio che finiscono dritti nelle acque del fiume Avon. La colpa, a quanto pare, è dei navigatori satellitari montati sulle vetture che passano da quelle parti: di fronte a una strada chiusa per lavori danno l’indicazione sbagliata. Il guado, transitabile nei periodi normali, diventa insuperabile in caso di pioggia. Gli abitanti della zona, stufi di dover intervenire continuamente, hanno deciso di farsi pagare: 25 sterline per ogni auto tirata fuori dalle acque. Poca roba, comunque, rispetto ai danni subiti dalle vetture.

Quello britannico è un caso limite, ma il problema esiste: in tutto il mondo le persone che usano il Gps per muoversi in macchina sono ormai milioni. Hanno a disposizione sistemi sempre più sofisticati, mappe sempre più particolareggiate. Tanto che molti si lasciano guidare dal navigatore «a occhi chiusi». Ma è un errore: le cartine non sono sempre aggiornate e basta una strada chiusa per lavori o una deviazione imprevista per ritrovarsi fuori strada. Il problema è che le mappe non possono essere aggiornate continuamente. È un lavoro che richiede

ACCADDE OGGI

BASTA UN SMS PER RIDARE LA VISTA AI BAMBINI CIECHI DEL CONGO Cbm Italia Onlus – organizzazione non governativa, la cui finalità è sconfiggere le forme evitabili di cecità e di disabilità fisica e mentale nei Paesi più poveri del mondo, lancia una campagna di sensibilizzazione e raccolta fondi tramite sms a sostegno di un progetto che ridarà la vista a tantissimi bambini della Repubblica democratica del Congo. Fino al 31 ottobre, inviando un sms al numero 45505 da tutti i cellulari Tim, Vodafone, Wind e 3, o chiamando lo stesso numero da rete fissa Telecom, sarà possibile donare 2 euro a sostegno del Centro oftalmologico di Isiro. Cbm ha infatti sviluppato, in collaborazione con il ministero della Sanità congolese, un Piano nazionale di salute della vista, un ampio progetto nel quale rientra il Centre ophtalmologique Siloe d’Isiro: una clinica d’eccellenza, prossima all’inaugurazione, che coprirà un bacino di utenza di circa 2 milioni di persone. La struttura ha tutte le potenzialità per essere non solo uno dei più importanti centri oftalmici di tutta la Repubblica democratica del Congo orientale, ma per diventare un punto di riferimento sanitario anche per le zone circostanti e i Paesi limitrofi, tra cui il Sudan.

www.cbmitalia.org

BOMBE SÌ, BOMBE NO Di fronte alla morte e alla tragedia la serietà è un dovere, e si deve dunque aprire una seria discussione sull’intervento in Afganistan, la più impegnativa e costosa missione militare della storia repubblicana. Occorre riconoscere che la missione

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

di Vincenzo Bacarani

15 ottobre 1967 Fidel Castro annuncia la morte di Ernesto Che Guevara 1969 Guerra del Vietnam: centinaia di migliaia di persone prendono parte alle dimostrazioni del National Moratorium, che si svolgono in tutti gli Usa 1970 Nel manicomio di Pozzuoli muore Leonarda Cianciulli, la Saponificatrice di Correggio 1990 Michail Gorbaciov riceve il Premio Nobel per la pace, per i suoi sforzi nello smorzare la Guerra Fredda e nell’aprire la sua nazione 1993 Nelson Mandela e Fredrik De Klerk ricevono il Nobel per la Pace, per aver liberato il Sudafrica dall’apartheid 1997 Sardegna: con una legge regionale, si riconosce il sardo come seconda lingua ufficiale della Regione autonoma 2004 In Austria si perdono le tracce dell’alpinista tedesco Helmut Simon, scopritore della mummia del Similaun 2005 Gli iracheni approvano la Costituzione del nuovo Iraq democratico

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

denaro e molte persone. Bisogna percorrere milioni di chilometri, strada per strada, annotando anche i numeri civici. Gli automobilisti devono tener presente che il navigatore satellitare non è capace di apprendere da sé. Soprattutto quando c’è qualche imprevisto, come è capitato in Gran Bretagna.

internazionale è sull’orlo del fallimento, e cercare il successo con un ulteriore escalation militare è futile. Ci pare poco seria la discussione sulle bombe sugli aerei, che certo non servono per fermare gli ordigni “Ied”, rozzi ma efficaci, posti per le strade, e ancor meno servono alla popolazione afgana. La soluzione non è nel senso dell’aumento della pressione militare, come anche l’amministrazione Obama sta comprendendo, è necessario piuttosto sostenere il governo afgano nella riconciliazione nazionale e nella riduzione del conflitto, anche attraverso trattative con gruppi tribali e parte degli insorti. L’Italia assieme ai Paesi europei impegnati sul campo deve sostenere un percorso di de-escalation del conflitto afgano e di protezione della popolazione civile, un conflitto che non si vincerà con i bombardamenti.

Luca Cefisi

IL VALORE DELLE PRODUZIONI Come Veneto sosterremo compatti la battaglia che il ministro delle Politiche agricole Giancarlo Galan ha annunciato per una modifica della futura Politica Agricola Comune, che non dovrà basare il riparto delle risorse sull’estensione della superficie ma sulla qualità e sul valore delle produzioni. Il problema non è solo della sperequazione attuale e potenziale degli aiuti ma anche di un sistema che in questo momento è più premiale per la rendita e la staticità piuttosto che per l’innovazione, l’idea imprenditoriale e la capacità di stare sul mercato su fasce diverse da quelle della produzione modializzata e dei relativi prezzi.

Franco Manzato

Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Robert Kagan, Filippo La Porta,

Direttore da Washington Michael Novak

Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,

Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)

Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Collaboratori

Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,

Maria Pia Ammirati, Mario Arpino,

Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,

Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi,

Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,

Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,

Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,

LOTTOMATICA, LA FIOM NON GIOCA PIÙ In questo periodo di forti tensioni tra i sindacati, o meglio tra un sindacato e tutti gli altri, anche le relativamente piccole cose fanno un gran chiasso. Succede così che dopo un accordo per i lavoratori di Lottomatica firmato unitariamente dalle quattro sigle sindacali principali (cioè Fiom-Cgil, Fim-Cisl, Uilm-Uil e Fismic) alla fine di luglio, nei giorni scorsi la Fiom ha organizzato un’assemblea dei lavoratori facendo intendere che ci vorrebbe ripensare. Il rinnovo dell’accordo integrativo, approvato anche dai lavoratori, presenta è vero alcuni punti rimasti insoluti che però saranno affrontati in un incontro tra sindacati e azienda in programma nei prossimi giorni. È giunta dunque inaspettata, come un fulmine a ciel sereno, questa iniziativa dell’organizzazione guidata da Maurizio Landini. Gli altri sindacati non l’hanno presa bene e vedono nel comportamento della Fiom una sorta di strategia della separazione che potrebbe davvero concretizzarsi in una divaricazione incolmabile tra le diverse sigle sindacali. In un comunicato congiunto la Uilm-Uil e la Fismic (organizzazione autonoma) spiegano di non comprendere perché «dopo un percorso caratterizzato da comportamenti unitari, la Fiom operi un pericoloso strappo del quale non solo non si sente il bisogno, ma che rischia inutilmente di esporre i lavoratori». A questo punto sembra comunque delinearsi sempre più chiaramente la strategia della segreteria di Landini che non vuole assolutamente rinunciare allo spirito antagonista. Il motivo principale potrebbe essere il timore di perdere per strada quegli iscritti che sarebbero delusi da atteggiamenti moderati e che non ci penserebbero nemmeno una volta a iscriversi ai sindacati autonomi di impostazione radicale facendo così perdere alla Fiom il primo posto nella classifica di tesserati alle organizzazioni metalmeccaniche. Ma questa scelta potrebbe portare a una specie di ideologizzazione delle vertenze. Così appare infatti nello specifico caso di Lottomatica. E le vertenze sindacali che si basano su princìpi ideologici si sono sempre concluse con una sconfitta. Proprio ieri c’è stato quello che qualcuno chiama l’anniversario - termine forse esagerato - della famosa marcia dei quarantamila a Torino che concluse in un solo giorno una lotta durata 35 giorni durante i quali la produzione a Mirafiori era bloccata, la fabbrica presidiata dai picchetti e ci furono anche alcuni episodi di intolleranza e violenza. Ma 24 ore dopo la marcia dei quarantamila per il centro di Torino, la resa dei sindacati fu totale e venne firmato l’accordo per la cassa integrazione di 23 mila dipendenti. Forse a distanza di 30 anni, sarebbe opportuna da parte di tutti una riflessione approfondita, seria e pacata su quei giorni. bacarani@gmail.com

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


ULTIMAPAGINA Storie. Riuscito all’ospedale San Gerardo di Monza il duplice trapianto eseguito dall’équipe di Massimo Del Bene

E Carla riprende la vita tra le sue di Francesco Lo Dico a buona, splendida notizia è che all’ospedale San Gerardo di Monza, i medici italiani hanno eseguito un intervento che ha pochi pari al mondo: un duplice trapianto di mano. E che, per il triste riflesso condizionato ormai connaturato alla sanità italiana, il tutto è avvenuto senza che alcuna garza venisse abbandonata a fluttuare nelle interiora del paziente, che nessun rimborso milionario abbia riempito le tasche di qualche macellaio in camice bianco, e nessun componente tossico abbia gassato il malcapitato con qualche veleno. La vicenda di Carla Mari, donna di cinquantadue anni, casalinga, di Busto Arstizio, può dunque essere raccontata per una volta come una bella favola degna di Inarritu.

L

La trama si dipana in sei ore. Nella notte tra lunedì e martedì, in una sala operatoria. Ma come ogni favola che si rispetti, per almeno tre quarti ha la stessa sostanza dell’incubo. Quello di Carla Mari comincia tre anni fa, quando a causa di una terribile infezione generale scatenata da una cistite, le vengono amputati di colpo mani e piedi. A sostituirli parzialmente, delle protesi che la donna sopporta pazientemente per un anno. Poi non ce la fa più. Nel 2008 Carla chiede di essere messa in lista per un trapianto, e nell’attesa comincia la necessaria psicoterapia che la prepari all’intervento. Ad aprile, i medici danno il lasciapassare: la Mari è pronta. Lasciamola lì in attesa, adesso. E pensiamo a un’altra donna, di cui non conosceremo mai il nome, il volto, le abitudini, la vita. Non lontana da Monza, forse delle parti di Cremona, quasi arrivata ai sessanta non sappiamo se con gioia o con stento.Tutto ciò che sappiamo di lei, è che l’undici ottobre di quest’anno muore, e che ha delle mani. È a questo punto che c’è di mezzo una telefonata, della volontà, del nobile dolore a un capo del filo, e dell’immensa gioia dall’altra. L’ospedale di Cremona espianta le mani della donna senza nome. Le stesse che due ore dopo viaggiano verso la sala operatoria di Monza. Ad attenderle ci sono i polsi di Carla Mari. L’abbiamo ritrovata, in sala operatoria, e ora siamo di

nuovo nel primo minuto di quelle sei ore che le cambiano la vita. Di fronte a lei, prima che l’anestesia le annebbi tutto, c’è il volto di un medico chirurgo che ha iscritto nel nome una benemerenza fiabesca: si chiama Massimo Del Bene. Per sei ore, insieme alla sua equipe, lavora a un doppio tra-

NUOVE MANI La paziente sta bene e non ci sono problemi di natura vascolare. «È una donna fortissima che ha espresso da subito la volontà di operarsi», commentano i medici

Nella foto grande, “Mani che disegnano” di Maurits Escher. Qui accanto, il medico chirurgo del San Gerardo di Monza, Massimo Del Bene

pianto dal coefficiente di difficoltà incredibile. Ma confessa di non aver esitato neppure un minuto. «Una decisione che abbiamo preso senza esitazione – dice Del Bene – Una persona senza mani né piedi non può alzarsi dal letto se non arriva qualcuno ad applicarle le protesi». Al risveglio Carla è nel suo letto, con i parenti intorno, e un paio di mani nuove. Non appena le ha viste si è commossa, ma non ha detto quasi niente perché lei «è di poche parole». Ieri ha cominciato a muovere le dita, piccoli movimenti che devono farle battere il cuore come un tamburo. Entro sette giorni verrà sciolta la prognosi, ma al San Gerardo sono ottimisti. «La paziente sta bene, la profusione delle mani è ottimale e non ci sono problemi di natura vascolare che sono sempre la nostra paura nel primo periodo. Poi ci sarà il problema funzionale e del recupero psicologico. È una donna fortissima che ha espresso da subito la volontà del trapianto», spiega Massimo Del Bene. Su Carla è stata usata una tecnica anti-rigetto basata sulle cellule staminali, che non si sa ancora perché, ma inibiscono gli anticorpi che attaccano i tessuti estranei.

A Monza la vita, Carla, la speranza. A Cremona, una donna senza nome e il buio del dolore. Iscritta all’Aido da vent’anni, Carla sa cosa vuol dire stare in equilibrio tra i paradossi della vita. Prima del difficile intervento, ha guardato i medici dritti negli occhi e ha detto: «Sono qui per ricevere, ma anche per dare».


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