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ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA

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QUOTIDIANO • SABATO 23 OTTOBRE 2010

di Ferdinando Adornato

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Il Colle: «Provo pena e allarme. L’intervento dell’esecutivo era necessario e urgente»

Il discaricabarile

GRANDI INEDITI 1946: una lettera-memoriale dello scrittore al presidente del Consiglio per difendersi dalla causa di epurazione

Il premier dà ogni responsabilità ai poteri locali e dice: «Tutto a posto in dieci giorni». L’Ue ci blocca i fondi: «Problema serio, fate in fretta»

LA DÉBACLE BERLUSCONI-BERTOLASO

di Pietro Salvatori

Nella pattumiera il fallimento del governo-spot

ROMA. Berlusconi si ripete: contro l’immondizia servono i miracoli? E lui dopo averne fatto già uno (un po’ incerto nei risultati, pare) nel 2008, torna in campo con il secondo miracolo: entro dieci giorni l’emergenza rifiuti sarà un ricordo. Con questa promessa, il premier ha risolto la questione dal punto di vista propagandistico (i tg della prossima settimana faranno il resto); per i fatti, si è affidato come al solito a Bertolaso. Benché la stella del capo della Protezione civile nell’ultimo anno non abbia proprio brillato. Anzi. E comunque Napoletano ha applaudito alla decisione del governo di prendersi le proprie responsabilità: «Era necessario e urgente». a pagina 2

di Errico Novi ittorio Feltri dà la caccia a Fini da oltre un anno. Fa male, perché lui, il direttore del Giornale, è un vero futurista e dovrebbe dunque riconoscersi pienamente nella leadership di Gianfranco. Solo uno spericolato (quasi dannunziano) genio del giornalismo popolare poteva rubare un titolo d’apertura agli striscioni dei tifosi razzisti: «Napoli pattumiera d’Italia», così recita in prima pagina, nell’edizione di ieri, il quotidiano della famiglia Berlusconi. segue a pagina 2

V

Caro De Gasperi, sono un poeta non un favorito del fascismo

Il Pdl: «Lo modificheremo secondo le indicazioni del Colle». Fini: «Mai più leggi ad personam»

di Giuseppe Ungaretti

«Tenetemi fuori dal Lodo» S Napolitano boccia la legge: «Niente scudo per il Quirinale» di Riccardo Paradisi

I tormenti della maggioranza

ROMA. Napolitano vuole rimanere

Ma le elezioni restano dietro l’angolo

fuori dallo Lodo: «Non serve lo scudo per il Quirinale», dice al relatore della legge. Gasparri e Quagliariello replicano subito: «Modificheremo il ddl secondo le indicazioni del Colle». Ma nella maggioranza è già saltata la tregua con Fini. «Non ci saranno mai più leggi ad personam», ha spiegato. Poi, sulla legalità: «Non credo che ci si possa dividere tra destra e sinistra sulla volontà di varare una leggina che preveda che chi è condannato in via definitiva per reati contro la pubblica amministrazione debba rinunciare a vita a qualsiasi incarico pubblico». Gli ha fatto eco Pier Ferdinando Casini che ha rilanciato: «Io mi auguro che Berlusconi vada fino in fondo, ma se getta la spugna con un auto-ribaltone si risponde con un governo politico coinvolgendo anche chi nel Pdl ci starà, e vi assicuro che saranno in tanti». a pagina 8

di Enrico Cisnetto ini che pare aver spianato la strada al lodo Alfano, fino al punto di suscitare non pochi mal di pancia dentro il neonato Fli. Bossi che ha smesso di parlare di elezioni dietro l’angolo. Berlusconi che ha smesso di oscillare tra voto anticipato e continuità della legislatura, scegliendo di galleggiare, consapevole che gli italiani sono scontenti e che la vicenda dei rifiuti in Campania dimostra come non lui non possa più fare appello al complotto giudiziario per fare il pieno dei consensi.

F

a pagina 9 s eg ue a (10,00 pagina 9CON EURO 1,00

I QUADERNI)

• ANNO XV •

NUMERO

207 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

ignor Presidente, Mi permetta di esporLe per dovere alcune osservazioni, prima che venga presa dal Consiglio dei Ministri una decisione nei miei riguardi. La questione fu posta, e doveva essere posta, dalla Commissione d’epurazione. Essa si chiese: era avvenuta la mia nomina a professore nell’Università di Roma per ingerenza indebita delle gerarchie fasciste, oppure era essa realmente dovuta ad alta fama? Su relazione di Luigi Salvatorelli, la Commissione, archiviando la pratica e dichiarando che nessun addebito poteva venirmi mosso, riconosceva la mia alta fama non solo in Italia, ma fuori d’Italia; ma anche riconosceva che avevo reso segnalati servizi alla nostra cultura nel Brasile, dove avevo tenuto per cinque anni la cattedra di letteratura italiana all’Università di San Paolo, e che si doveva a me se nell’ordinamento delle Università brasiliane l’insegnamento dell’italiano era stato reso obbligatorio in tutte le facoltà di lettere e nei due anni di scuola preuniversitaria. Alla constatazione della Commissione aggiungerò l’elogio dell’opera incancellabile che avevo svolto in Brasile fatta dai neolaurendi dell’Università di San Paolo.

IN REDAZIONE ALLE ORE

a pagina 16

19.30


la polemica

prima pagina

Dietro i titoli di Feltri c’è il disastro del Pdl campano

pagina 2 • 23 ottobre 2010

La «pattumiera» è il fallimento del Cavaliere di Errico Novi segue dalla prima Peccato solo che Napoli-Milan lunedì prossimo si giochi al San Paolo e non a San Siro. Altrimenti la curva di casa avrebbe potuto esibire un’inedita e spettacolare coreografia: migliaia di copie del Giornale esposte orgogliosamente (per quanto, quelli più versati nella materia sono gli interisti, capaci anche di interpretazioni estensive del concetto di inceneritore, con striscioni del tipo «Hitler, dopo gli ebrei anche i napoletani»). Grevità a parte, il punto è che proprio un giornale vicino al presidente del Consiglio non dovrebbe giocare con una faccenda tragica come quella di Napoli. Proprio perché è vero: Napoli è la pattumiera d’Italia. E la cosa non può essere presa per solleticare il cinismo becero di qualche lettore di Feltri. Si tratta di un’infezione tremenda, da prendere sul serio. Senza dare addosso a chi ne denuncia l’eziopatogenesi, come Roberto Saviano, uno che dalle parti del Giornale non è esattamente un idolo.

Con l’immondizia o con Saviano? Berlusconi, e Feltri, scelgano. O il male, o la possibile cura (che inizia sempre con una buona diagnosi). E allora: Napoli e la sua terra sono infestate, ora dal lerciume dei rifiuti, ma più nel profondo da una classe dirigente che li ha trasformati in emergenza. Dovrebbe riflettere, il presidente del Consiglio, sul fatto che in Campania non è più valido l’alibi del malgoverno della sinistra. Il motivo è banale: due delle tre amministrazioni del capoluogo (Regione e Provincia) sono oggi guidate da uomini del centrodestra. Ed è proprio uno dei due, il presidente della Provincia Luigi Cesaro, che avrebbe dovuto coordinare secondo il decreto del 2009 il ciclo della spazzatura.Tanto per cominciare, dunque, tale dettaglio illustra come il miracolo berlusconiano del 2008 si sveli oggi per quello che è: un fallimento. Non attribuibile solo a colpe altrui, ma anche a responsabilità totalmente riconducibili alla parte politica del premier. Si possono aggiungere altri particolari. Primo: resta senz’altro una decisiva parte in causa, nello scempio campano, per gli avversari politici del Cavaliere. Basti pensare che la terza delle amministrazioni partenopee, il Comune retto dalla Iervolino, persevera ignobilmente nel fallimento della raccolta differenziata. Ed è talmente sfatto – peggio della spazzatura che traborda dai cassonetti – che non riesce nemmeno più a convocare riunioni del Consiglio, e quindi ad approvare la location del secondo termovalorizzatore, previsto a Napoli Est. Secondo: le colpe altrui, comprese quelle pregresse di Bassolino, non bastano a spiegare tutto anche per un altro motivo. A Terzigno c’è il rischio di una letale saldatura tra la rivolta di popolo, inquinata già dai teppisti, e gli interessi del potentissimo clan locale dei Fabbrocino; che vede probabilmente svanite alcune opportunità di lucrare sull’affare immondizia e per questo è pronto ad alimentare ulteriormente il conflitto. Di fronte a un simile, terrificante scenario, c’è da chiedersi come possa essere affrontato il caso campano se alla sinistra che già si aggrappa a Saviano si oppone Cosentino, uomo guida del centrodestra che ha sulle spalle un mandato d’arresto per collusioni camorristiche.

Ce n’è abbastanza perché il premier prenda atto che a Napoli è passato dal miracolo al fallimento, con riflessi anche più gravi rispetto all’altro mito traballante della narrazione berlusconiana, la ricostruzione dell’Aquila. E dunque piuttosto che contemplare la pattumiera sbattuta in prima pagina da Feltri, il premier dovrebbe provvedere a ripulirla, e non solo dai cumuli maleodoranti.

il fatto L’Unione europea blocca i fondi e chiede una soluzione immediata del caos-rifiuti

Tra miracoli e scaricabarile

Berlusconi: «Tutto risolto in dieci giorni» Per farlo getta la colpa del caos su Comune, Regione e Provincia e manda di nuovo Bertolaso a Napoli. Basterà? di Pietro Salvatori

ROMA. Berlusconi si ripete: contro l’immondizia servono i miracoli? E lui dopo averne fatto già uno (un po’ incerto nei risultati, pare) nel 2008, torna in campo con il secondo miracolo: entro dieci giorni l’emergenza rifiuti sarà un ricordo. Con questa promessa, il premier ha risolto la questione dal punto di vista propagandistico (i tg della prossima settimana faranno il resto); per i fatti, si è affidato come al solito a Bertolaso. Benché la stella del capo della Protezione civile nell’ultimo anno non abbia proprio brillato. Anzi. Comunque, andiamo con ordine e ricominciamo dall’inizio. E l’inizio ha un nome e un cognome; anzi due: Stefano Caldoro e Nicola Cosentino. Con il primo in difesa e il secondo all’attacco. Solo che il primo non è stato impeccabile, nella difesa.

Negli scorsi mesi il governo aveva dato per risolta l’emergenza rifiuti. E invece il caos-immondizia non s’era mai risolto. Al punto da costringere il governatore Caldoro ad aprire un’ulteriore discarica per smaltire l’enorme flusso di immondizia che sta seppellendo la regione, e che non riesce a essere assorbito interamente dal termovalorizzatore di Acerra che, da quando è stato inaugurato in pompa magna da Berlusconi e Bertolaso, non ha mai funzionato a pieno regime, e dalle discariche di Chiaiano e Terzigno. Proprio i cittadini di Terzigno imputano a Caldoro gran parte delle responsabilità della nuova crisi. E su questo ha fatto leva Cosentino, che più volte ha inviato il Governatore a prensersi le sue responsabilità. Come se non bastasse, Caldoro ha prestato il fianco alle critche dichiarando, in un’intervista uscita ieri su Repubblica, che «non è vero

che la camorra vuole sic et simpliciter l’apertura delle discariche» («le organizzazioni criminali ci guadagnino nel disordine») e accomunandosi all’odiato predecessore Bassolino («Siamo vittime di un’emergenza che parte da lontano»). E la gente di Terzigno l’ha presa male, continuando la sua strategia della guerriglia: «Questa è la nostra democrazia - ha inveito un manifestante -: state proteggendo i mafiosi. Vergognatevi, invece di protegge noi, persone perbene, difendete chi porta i rifiuti nella discarica». I disordini si sono verificati in particolare nei pressi della rotonda Panoramica, situata tra i comuni di Terzigno e Boscoreale, vicino alla quale è stato segnalato anche il lancio di alcune molotov da parte della popolazione locale. Sempre nella notte gli agenti delle forze dell’ordine hanno disposto l’arresto di una persona e il fermo di altre due, poi rilasciate, con l’accusa di adunata sediziosa, detenzione di esplosivi, resistenza a pubblico ufficiale e danneggiamento. Una situazione che potrebbe precipitare, anche se sembrano esserci ancora i margini per tenerla sotto controllo. Nel frattempo però, i manifestanti hanno raggiunto un primo obiettivo: nessun camion di rifiuti è infatti riuscito a sversare nella discarica esistente, le cui strade di accesso sono ostruite dalle vere e proprie barricate. Solo nella mattinata di ieri venti auto-compattatori sono riusciti a passare lungo la strada che conduce verso la discarica, dopo la rimozione di alcuni blocchi stradali e scortati in forze da mezzi della polizia. Tutto questo mentre altre bandiere tricolori venivano date alle fiamme. Caldoro, pur ammettendo di star vivendo «giorni complicati» non sembra essere eccessivamente preoccu-


gli sviluppi

La prossima emergenza? Il Lazio Alemanno butta acqua sul fuoco e Polverini promette nove inceneritori, ma Malagrotta scoppia di Lucio Rossi

ROMA. «La situazione è perfettamente governata e non c’è nessuna allarmismo da fare. Le alternative a Malagrotta saranno illustrate entro la fine dell’anno e poi approvate nei vari contesti decisionali». Parola del sindaco di Roma Gianni Alemanno che ha risposto Francesco Rutelli che aveva segnalato il rischio che un’emergenza come quella di Napoli potesse investire a breve anche la regione Lazio. Ma forse la situazione è più complessa di come la descrive Alemanno. Che la discarica di Malagrotta sia centrale per quel che riguarda il Lazio lo dicono, senza commenti, i numeri: il piano presentato dall’ex governatore Marrazzo a ottobre di un anno fa prevedeva, in mancanza di un’alternativa a questo sito un aumento di quelle che i tecnici chiamano “volumetrie” autorizzate per circa 2,5 milioni di metri cubi. Non attraverso un’estensione, ma con una sorta di sopraelevazione. In som m a

il

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Marrazzo (elaborato da un’associazione di aziende che si è vista assegnare l’appalto dalla Regione il 24 dicembre 2008) prevedeva nel triennio che gli oltre 17 milioni di tonnellate di rifiuti che si prevedeva di produrre fino al 2012 fossero in parte avviati alla differenziata (circa 5 milioni), 7,4 milioni a trattamento meccanico biologico per produrre in parte le eco balle destinata ai termovalorizza-

tori, e quasi 4,5 milioni in discarica. Un piano, quello siglato il giorno della vigilia di Natale di due anni fa, destinato ad essere depennato. A metà novembre prossimo il nuovo piano regionale dei rifiuti arriverà in giunta, ha annunciato l’attuale presidente della Regione Renata Polverini che ha spiegato: «Come è noto abbiamo in atto una procedura di infrazione avviata dall’Unione Europea. Per questo abbiamo intensificato il lavoro già per il nuovo piano dei rifiuti che

siti che potrebbero rilevare l’eredità di Malagrotta individuando tutti siti al di fuori del perimetro della città. In pole Allumiere che potrebbe ospitare contestualmente discarica e termovalorizzatore la cui gestione si vorrebbe affidare proprio alla municipalizzata capitolina che entrerebbe così nel business dello smaltimento che attualmente frutta al patron di Malagrotta 44 milioni di euro ogni anno a valere sulle casse capitoline.

Il piano presentato dalla giunta Marrazzo è stato accantonato. Per ora sul tavolo ci sono solo nuove ipotesi

Inutile dire che le sole indiscrezioni sui nuovi siti hanno provocato polemiche e proteste. Gli ultimi mesi dell’anno dunque saranno decisivi per la regione su questo fronte, anche per quel che riguarda le decisioni della magistratura. «L’impianto di Albano laziale, attualmente sottoposto al giudizio del Tar, che dovrà decidere ad ottobre (il 27, ndr), in caso di esito favorevole, potrà essere completato entro il 2013» ha detto qualche mese fa Renata Polverini durante l’audizione in commissione d’inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti. La governatrice ha poi ricordato che è «in corso l’ampliamento di San Vittore che si completerà entro la metà del 2011 e la realizzazione della seconda linea del gassificatore di Malagrotta, prevista in funzione per la stessa data». Per quanto riguarda, invece, l’impianto di Colleferro, ha aggiunto, «il Consorzio pubblico che gestiva gli impianti è stato posto in amministrazione controllata. Il commissario, dopo aver avviato una prima gara per l’individuazione dell’assuntore,

porteremo in giunta a metà novembre. Subito dopo affronteremo la questione del nuovo sito che sostituirà Malagrotta, perchè questa discarica non sarà nel piano, visto che non rispetta più alcun parametro nazionale né comunitario». Si parla, secondo le indiscrezioni, di nove inceneritori e di una nuova discarica interprovinciale. Spazio dunque alle alternative per scongiurare l’ennesima proroga della discarica più grande d’Europa e che spettano al comune di Roma: l’anno scorso l’Ama ha predisposto per conto del sindaco uno studio sui

pato: «la seconda discarica si farà senz’altro - ha detto in giornata - ma sarà sicura, moderna, e priva di qualsiasi tipo di rischio per i cittadini». Anche il ministro della Salute, Ferruccio Fazio, ha cercato di rassicurare sui rischi del deposito di immondizia a cielo aperto: «Non esiste un’emergenza sanitaria in Campania, legata all’emergenza rifiuti», annunciando che, proprio per questo motivo, non avrebbe partecipato al vertice che ha visto riunirsi ieri a Palazzo Chigi tutte le autorità interessate.

verno garantisce anche le disponibilità dei fondi per le opere di compensazione, per un totale di 14 milioni di euro che riguardano solo Terzigno». Come a dire: basta con la gestione locale della situazione, ora tocca a Bertolaso. Il sottosegretario è trasferito già ieri sera a Napoli, da dove coordinerà le operazioni delle forze impegnate nella normalizzazione della situazione. «Il piano rifiuti è molto preciso e per Terzigno prevede impianti di depurazione, bonifiche, impianti idrici e fognari, nonché di riqualificazione urbana. La soluzione

andata deserta, sta oggi provvedendo alla dismissione dei beni, inclusi gli impianti di termovalorizzazione».

Ma sul Lazio, oltre a quelli dei magistrati che l’anno scorso hanno avviato tutta una serie di inchieste che hanno praticamente coinvolto tutti gli impianti laziali, diversi mettendone sotto sequestro, sono puntati anche gli occhi puntati dell’Ue. A fine settembre la Commissione europea ha deciso di inviare all’Italia una lettera di costituzione in mora in quanto, a tre anni dalla sentenza di condanna emessa dalla Corte di giustizia del 2007, il piano programmatico per la gestione dei rifiuti nel Lazio, non risulta ancora conforme alla legislazione europea. Si tratta della prima fase di una nuova procedura d’infrazione al Trattato Ue e qualora le autorità italiane non intraprendessero le azioni necessarie, la Commissione potrà decidere di adire di nuovo la Corte e chiedere che l’Italia sia condannata a sanzioni pecuniarie. Insomma: non siamo ancora all’emergenza e al caos campani, ma certo gettare troppa acqua sul fuoco non è la scelta migliore per risolvere i problemi. affermando che se a Napoli si sta iniziando a intravedere un nuovo barlume di emergenza nel capoluogo campano è esclusivamente dovuto al mal funzionamento di Terzigno. Anche se il governo, con la decisione di “provincializzare” la gestione dei rifiuti, ha contribuito non poco al caos in cui si è ripiombati dopo due anni di apparente calma. L’eccessivo squilibrio di popolazione tra Napoli e le altre provincie, e l’incapacità di aumentare la soglia del 18% della raccolta differenziata, hanno portato al sovraccarico delle discariche di Chiaiano e di quella di Terzigno già entrata a pieno regime. Per di più la gestione della crisi da parte del governo sta andando incontro alla disapprovazione da parte della comunità europea. Bruxelles già due anni fa aveva avvertito Roma che, se non avesse risolto strutturalmente l’emergenza, avrebbe tagliato i fondi speciali stanziati per la Campania, fino ad arrivare a considerare l’apertura di una procedura di infrazione. Il portavoce del commissario all’ambiente, Janez Potocnik, ha parlato di «situazione seria», esprimendo la preoccupazione della Commissione, che sta valutando il dossier presentato dal governo italiano lo scorso 5 ottobre sulla gestione della situazione campana. Sugli sviluppi della situazione, il portavoce Joe Hennon non ha escluso nessuna eventualità: «Non posso dire quanto tempo ci vorrà, quante settimane saranno necessarie per analizzare tutti i piani per la gestione dei rifiuti in Campania, per valutare se sia stata data esecuzione alla sentenza della Corte europea di giustizia, e per direse i piani sono accettabili rispetto ai requisiti della direttiva Ue».

Al centro delle polemiche stavolta c’è il governatore del Pdl, Stefano Caldoro che non è riuscito a gestire direttamente la crisi chiedendo poi al governo di intervenire

Infatti, dopo che negli scorsi giorni il leader campano del Pdl aveva escluso una partecipazione attiva del governo in quelle che erano vicende «delle quali si devono occupare gli enti locali», ieri è stato clamorosamente smentito dai fatti. Nella sede della Presidenza del Consiglio si sono infatti riuniti Gianni Letta, Guido Bertolaso, i ministri Roberto Maroni, Stefania Prestigiacomo, Mara Carfagna, guidati da Silvio Berlusconi, oltre che proprio il governatore Caldoro, il quale, cambiando radicalmente linea rispetto a quella tenuta nei giorni precedenti, ha ringraziato il governo per «il tempestivo interessamento» sulle vicende di Terzigno. Al termine del vertice, i partecipanti hanno tenuto una conferenza stampa: «Il governo interviene con una ordinanza urgente da parte del prefetto di Napoli che solleverà la società Asia che gestisce la discarica di Terzigno dalla stessa gestione - ha detto il premier - La nuova gestione verrà assunta dai professionisti della Protezione Civile. Prevediamo che in dieci giorni la situazione potrà tornare nella norma. Il Go-

che avevamo individuato al problema rifiuti in Campania è assolutamente valida e duratura nel tempo». Così Berlusconi ha risposto alle critiche di chi gli ha chiesto conto del riacutizzarsi di una vertenza che si dava per risolta.

Bertolaso ha assicurato che «entro novembre il termovalorizzatore di Acerra funzionerà a pieno regime». Proprio al mal funzionamento dell’impianto sono da imputare molte delle difficoltà sorte negli ultimi giorni. Ma «Acerra funziona e funzionerà sempre meglio - ha detto Bertolaso - due linee sono già in funzione e la terza linea a fine novembre sarà aperta». «Nessuno ha mai detto che il problema era risolto definitivamente», si è difeso il capo della Protezione Civile,


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l’approfondimento

NAPOLI 2008. Siamo in piena emergenza rifiuti. Qui siamo a ridosso del porto del capoluogo campano: la gestione Bassolino-Rosa Russo Jervolino non riesce a risolvere la questione

CHIAIANO 2008. È il 15 dicembre: il governo Berlusconi ha annunciato l’apertura di nuove discariche. La gente di Chiaiano, in provincia di Napoli, non ci sta e porta in piazza la sua rabbia

Tutto cominciò nel 2001, quando la città per la prima volta fu invasa dai rifiuti. Poi nessuno ha saputo risolvere il problema

I galli sulla munnezza

Dicono così a Napoli per indicare quelli che vogliono farsi belli vantandosi di meriti che non hanno: ed è esattamente questa la fotografia di dieci anni di emergenze e di fallimenti. Fino al prossimo miracolo... di Francesco Lo Dico

ROMA. Dopo sedici anni, chiamarla emergenza sarebbe uno sgarbo alla grammatica. Non c’è inizio e non c’è fine in questa storia di politica e malaffare. C’è solo l’eterno ritorno della monnezza che galleggia per le vie della Campania lungo il putrido fiume della camorra e della corruzione. Tutto comincia l’11 febbraio del1994, appunto, quando l’allora presidente del Consiglio, Carlo Azeglio Ciampi decreta l’emergenza in Campania. La giunta regionale presieduta dall’aennino Antonio Rastrelli vara nel 1995 il primo bando di formazione per operatori ecologici che porta all’assunzione di 2500 persone. Le prime di 12mila totali, oggi addette in Campania al ciclo rifiuti. L’emergenza si rivela da subito una grande occasione: un gigantesco ufficio di collocamento, a spese dello Stato, per estendere i consensi a costo zero. «Fu una spartizione tra destra e sinistra, e ciascun ne guadagnò bacini di voti», racconta un ex dirigente provinciale. Bacini di rifiuti e bacini di voti. È in questi anni che nasce l’equazione letale che azzera lo Stato. Nel marzo 1996, il governo Dini lascia nelle mani del prefetto la gestione del servizio di raccolta. Tre mesi dopo, il governatore Rastrelli presenta il Piano Regio-

nale per i i rifiuti solidi urbani. Prevede la costruzione di due termovalorizzatori e di sette impianti per la produzione di combustibile derivato dai rifiuti, il cosiddetto cdr. In qualità di commissario, Rastrelli indice una gara d’appalto che affiderà a un soggetto privato l’intera gestione del ciclo dei rifiuti. La gara si conclude nel 2000, sotto la presidenza del nuovo governatore, e nuovo commissario, Antonio Bassolino. Si aggiudica il bando un’Associazione Temporanea di Imprese chiamata Fibe. A capitanarle c’è la Fisia del gruppo Impregilo, di cui è presi-

dente Cesare Romiti. Sulla carta, la Fibe garantisce velocità e risparmio, ma il progetto tecnico è di qualità modesta ed è di tecnologia vecchia. Il controllo dello Stato svanisce, le valutazioni di impatto ambientale diventano lasche e l’individuazione delle discariche produce enormi speculazioni sui terreni da adibire allo stoccaggio. Spesso sono proprietà dei clan, e vengono pagati a prezzi stratosferici. Risultato, una mappa dei siti di stoccaggio paradossale, punteggiata da luoghi in cui impera presto un tasso di morbilità allarmante (il fisiologo Al-

fredo Mazza computa nel 2004 un’incidenza tumorale superiore al 35,9 per cento della media nazionale). Come se non bastasse, Fibe non rispetta la chiusura dei lavori. Il termovalorizzatore di Acerra non è pronto, mentre i sette impianti che dovrebbero produrre cdr, producono qualcos’altro. Ne deriva che le ecoballe sfornate dalla Fibe si ammonticchiano in ogni angolo della Regione. Sono più di 5 milioni, pesano sei milioni di tonnellate, e non possono essere bruciate per due motivi: sono troppo umide e poi manca il termovalorizzatore. Il nuovo preACERRA 2009. È il 26 marzo: il fido Bertolaso porge a Silvio Berlusconi il pulsante con il quale il premier “accenderà” il termovalorizzatore al quale il governo affidava la speranza di risolvere per sempre l’emergenza rifiuti

fetto di Napoli, Carlo Ferrigno, denuncia il disastro.Noncurante, la politica continua a riscuotere i suoi crediti, grazie ad assunzioni messe in atto con quelle che Corrado Catenacci definisce«procedure romanzesche». Il grimaldello di tutto si chiama società mista pubblico-privato. Uno speciale lacciuolo che annoda la clientela agli affari, gli affari ai servizi pubblici, i servizi pubblici agli amici, gli amici ai voti e poi di nuovo, da capo, in un ciclo che riparte con le campagne elettorali. Logica conseguenza di tutto, all’inizio del 2001 c’è una nuova crisi. Ma prima di lasciare, Bassolino completa il capolavoro. Nonostante le inadempienze, il governatore uscente concede ulteriori agevolazioni alla Fibe: via i controlli sui tempi e sulla qualità del ciclo dei rifiuti trattati dalla società. Via penali e risarcimenti correlate agli obblighi contrattuali. E poi altri soldi. Un fiume di soldi per saldare i debiti di Impregilo con le banche e adeguare gli impianti. È come se la scena del crimine venisse ripulita prima dell’arrivo della polizia. La magistratura interviene nel 2005, il governo Berlusconi rescinde il contratto con Fibe, e per l’impresa non c’è nessuna conseguenza. A seguito dell’inchiesta Cassiopea, nel 2007, la procura di Napoli rinvia a giudizio Antonio Bassolino, Pier-


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NAPOLI 2001. La crisi dei rifiuti arriva da lontano. Il lungomare campano risente del caos che segue a un lungo sciopero e alla cattiva gestione delle discariche (già piene) nel territorio della Regione

giorgio e Paolo Romiti e altri 25 indagati con le accuse di truffa aggravata e frode in pubbliche forniture. Ma l’emergenza continua. Il governo Prodi autorizza la costruzione di tre nuovi inceneritori e nomina Gianni De Gennaro nuovo commissario per l’emergenza. I rifiuti riprendono a viaggiare verso la Germania, e si individuano nuove discariche a Pianura e nella cava di Chiamano. La protesta della popolazione esplode immediata, il governo Prodi cade e tutto finisce fuori controllo in un clima di guerriglia tra Stato e cittadini.

Il 21 maggio 2008, seduto in groppa ai «disastri della sinistra», Silvio Berlusconi inaugura il nuovo governo a Napoli. L’uomo della provvidenza, unto commissario, è il capo della Protezione civile, Guido Bertolaso. Viene varato a tempo di record un decreto legge che prevede la costruzione di quattro nuovi inceneritori e dieci nuove discariche dichiarate di interesse strategico nazionale. Sono sorvegliati dai militari, e chi ne ostacola la costruzione può finire in galera. Ma cinque milioni di ecoballe restano in giacenza. Apre la discarica di Chiaiano, e il 3 giugno parte lo stabilimento di Acerra. Berlusconi, presente all’inaugurazione, lo proclama «un gioiello». Peccato che invece del cdr produce “tal quale” ed emissioni di Pm10 oltre i limiti di legge. Il 15 giugno apre anche la discarica di Terzigno. Manca un compiuto ciclo integrato dei rifiuti, ma non importa. Il 17 dicembre il governo dichiara la fine dell’emergenza per decreto. Nella realtà, la crisi riesplode a Terzigno in questi giorni. Costata un miliardo e trecento milioni di euro e debiti per cinquecento milioni, l’emergenza rifiuti non è mai finita. «Riporteremo la situazione nella norma entro 30 mesi», aveva promesso il premier Berlusconi al suo insediamento. È stato di parola. Perché dopo 30 mesi è tornato tutto come prima. Nessuna fine, nessun inizio, nessuna emergenza. Soltanto l’eterno ritorno della monnezza.

BOSCOREALE 2010. Esplode la protesta dei cittadini contro l’apertura della discarica di Terzigno nella provincia napoletana. La gente scende in piazza: prima calpesta e poi brucia un tricolore

È il sistema clientelare a impedire le decisioni, secondo l’editorialista del “Corriere del Mezzogiorno”

«Ora Napoli va commissariata, non c’è che il modello prefettura» Lo storico Paolo Macry: «La capacità di governance del territorio si è sbriciolata, se non interviene lo Stato dall’alto non si risolve nulla» di Errico Novi

ROMA. «Ci vuole sempre l’intervento dello Stato: è amaro constatarlo, ma dalla crisi della Prima Repubblica in poi la capacità di governance del territorio, in Campania, si è andata sbriciolando. Perciò non resta che il modello prefettura: quello del governo centrale che assume poteri straordinari esautorando gli enti locali». Lo dice Paolo Macry, ordinario di Storia contemporanea della Federico II ed editorialista del Corriere del Mezzogiorno. Di fronte alle puntuali dimostrazioni di inadeguatezza delle amministrazioni campane, dunque, l’unico rimedio è in una sorta di commissariamento straordinario permanente per scongiurare, a Napoli, nuovi disastri non solo nel settore dei rifiuti. Viene un sospetto: che rivolte come quelle di Terzigno svelino un più generale disconoscimento di qualsiasi pubblica autorità, a Napoli. È il “respingimento della legge”che avviene quando una volante si azzarda ad arrestare uno spacciatore a Scampia. Un momento. Lì parliamo dell’immediata periferia iper-urbanizzata, ad alta densità camorristica. Nel caso di Terzigno si tratta piuttosto di un’area rurale, magari con un forte tasso di legalità, ma non parlerei di rifiuto dello Stato. Anzi, sono contesti in cui ha sempre prevalso un forte assistenzialismo, trasfigurato adesso in assoluta sfiducia per le istituzioni, di fronte all’idea di doversi accollare i rifiuti di una Napoli percepita come lontana. Quindi è piuttosto il rapporto clientelare perverso con gli amministratori a innescare la scintilla. È il modello che ha portato al fallimento di Bassolino, dimostratosi incapace di gestire le spinte locali quando si è trattato di

assumere decisioni impegnative, come l’apertura del termovalorizzatore. Non a caso Berlusconi e Bertolaso, venuti da fuori e quindi svincolati dal rapporto elettorale con i sindaci, sono riusciti dove lui aveva fallito. Cero, lo hanno fatto con una legislazione speciale, con la definizione delle discariche come aree di interesse strategico. Ora però Provincia e Regione, pure governate dal centrodestra, sembrano ricadere nella sindrome di Bassolino.

«Cesaro è afflitto dalla sindrome di Bassolino, l’inadeguatezza a gestire le spinte del territorio» Distinguerei il caso di Cesaro da quello di Caldoro. Il primo in effetti ha avuto lo stesse difficoltà nel gestire le spinte locali, Caldoro invece ha saputo appellarsi alla legge: la seconda discarica si fa perché così dice il decreto. Va chiarito se la sua sia efficienza o piuttosto debolezza politica, legata alla scarsa rappresentatività elettorale del governatore, che può dunque osare dove Cosentino e Caldoro sconterebbero prezzi alti in termini di consenso.

Scusi, ma il discorso che lei fa sull’imbarazzo dei poteri locali richiama l’idea che l’unica chance di governo per Napoli e la Campania sia proprio quella del commissariamento dall’alto. È amaro dirlo, ma sembra proprio così. Anche questo nuovo intervento della protezione civile pare concepito in questa forma. Probabilmente Tremonti vide giusto, con quel suo modo brutale di dire cose vere, quando sentenziò che Napoli si era riotta a una prefettura, governata cioè dal prefetto che è il rappresentate locale del governo nazionale. Il modello prefettura ritorna, sui rifiuti, anche perché le responsabilità del governo nazionale sono sicuramente limitate rispetto a quelle degli amministratori locali. Incapaci di governarsi da soli. A Terzigno è l’appalto dato dalla Provincia che non ha funzionato. Il Comune di Napoli non ha saputo mandare avanti la differenziata, non sono state realizzate le strutture intermedie di smaltimento, per i nuovi termovalorizzatori manca persino la gara d’appalto. Tutte cose da ascrivere alla mancanza dei municipi e della Provincia. Aggiungiamo il disastro pregresso delle ecoballe, il cui smaltimento richiederà una ventina d’anni. Altrettanti ne sono passati da quando è entrato in crisi il vecchio sistema dei partiti e si è assistito a un progressivo peggioramento politico e amministrativo. C’è stato uno sbriciolamento della capacità di governance del territorio. Spesso segnata proprio da quell’intreccio clientelare perverso di cui si ha un esempio con gli abusivi di Ischia appoggiati dal sindaco. E di fronte a questo l’unica prospettiva è l’intervento dello Stato.


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pagina 6 • 23 ottobre 2010

Informazione. Berlusconi polemico con il Tg3: «Secondo alcune trasmissioni di informazione, voi non esistete»

Santoro vince la guerra dello share Annozero fa il pieno in prima serata con oltre 6 milioni di spettatori robabilmente aveva ragione Enrico Mentana, giornalista di lungo corso e per molti anni dell’ammiraglia direttore Mediaset: l’Italia, intesa come sistema-Paese, non è in grado di reggere un’informazione che non sia schierata. Con una parte o con l’altra – sia che parliamo di politica, di sport o di vallette – non conta: il Belpaese vuole poter tifare. E i dati dell’ultimo Annozero lo confermano: minacciato di chiusura a tempo, di sospensione, di congelamento dei contratti Michele Santoro ha reagito. Chiamando a sostegno il suo popolo, la sua “curva” si potrebbe dire, che ha reagito compatta: la trasmissione andata in onga giovedì sera ha inchiodato alla poltrona 6 milioni e 199mila spettatori, pari a una fetta di share del 22,68%. In termini puramente aziendali, considerando la natura “tecnica” del programma e i suoi costi, un successo. Condiviso, questo va detto, con il resto del pianeta Rai che – nel prime time – si è aggiudicato un totale di 13 milioni e 150mila telespettatori.

P

Si tratta di uno share del 44,83%, in seconda serata con il 45,10% e nell’intera giornata uno pari al 43,74%. Annozero e Porta a Porta, sopra tutti, si aggiudicano lo scettro delle due fasce serali. Bene anche Parla con Me di Serena Dandini e La Vita in diretta trainata dai tragici fatti di Avetrana. Che si accoppiano con la brutta morbosità del pubblico televisivo. Se scendiamo più nel particolare, Rai1 si è piazzata in seconda posizione con il doppio appuntamento della fiction Ho sposato uno sbirro 2. Il primo episodio ha totalizzato 5 milioni 76mila telespettatori con uno share del 16.78 e il secondo 4 milioni 489mila pari al 17.23. Su Rai3 il film 007 La morte può attendere ha ottenuto 1 milione 885mila telespettatori e uno share del 6.66. E sempre su Rai1 il game show Soliti ignoti, è stato seguito da 6 milioni 654mila telespettatori pari al 23.37 di share. La seconda serata è stata invece vinta da Bruno Vespa. Su Rai1 Porta a porta è stato il programma più visto con 1 milione 781mila telespettatori e uno share del 19.38. La puntata di Parla con

che è meglio». Il merito della vittoria schiacciante di Annozero è molto probabilmente imputabile anche alla presenza di Roberto Saviano, giornalista di Repubblica anche lui invischiato nelle polemiche Rai per gli ostacoli sul cammino della sua trasmissione con Fabio Fazio. Saviano ha esordito due giorni fa al teatro Volksbuehne, aprendo probabilmente l’ultima edizione del festival “Autunno Teatrale italiano a Berlino”. Al pubblico riunito, Saviano ha detto: «È vero, a teatro sono un abusivo, ma ho scelto il teatro per incontrare le persone, poterle guardare in faccia, cosa che posso fare raramente». Il riferimento è alla sua vita sotto scorta, dopo la pubblicazione del libro Gomorra che gli è valsa una minaccia di morte da parte dei clan camorristici del napoletano.

di Massimo Fazzi

me, su Rai3, ha realizzato il 10.05 di share con 1 milione 461mila telespettatori. Sempre grandi ascolti nel pomeriggio di Rai1 per La vita in diretta, che nella prima parte ha registrato il 32.78 di share con 2 milioni 940mila telespettatori e nella seconda 3 milioni 371mila pari al 30.57. Da segnalare su Rai2 il programma Pomeriggio sul due, visto da 2 milioni 20mila telespettatori con il 16.00 di share. Leader del preserale resta L’Eredità su Rai1, che ha ottenuto con La sfida dei 6 il 28.14 pari a 4 milioni 993mila telespettatori e nella sfida finale 6 milioni 362mila con il 28.20.

Tuttavia, nonostante i dati lusinghieri, l’approfondimento politico di Santoro rimane nel centro del mirino della politica del governo. A riaccendere il focolare dello scontro i dati presentati dal giornalista durante la trasmissione, secondo i quali lo squilibrio dell’attenzione dei mezzi di informazione a favore del governo è enorme. Secondo il TgZero - piccolo contenitore di informazione all’interno della trasmissione, che si conclude sempre con il “buona notte e buona fortuna” reso celebre da un giornalista americano durante l’era McCharty – l’atten-

La presenza di Roberto Saviano ha contribuito al successo del programma. Lo scrittore dice da Berlino: «La felicità è sempre contro il potere» zione delle reti pubbliche è a senso unico. Tuttavia i dati e le tabelle presentate dal TgZero non hanno inserito la terza rete, storicamente di sinistra. E proprio su questo punto è intervenuto ieri il presidente del Consiglio. Durante la conferenza stampa al termine della riunione sui rifiuti, una giornalista del Tg3 ha preso il microfono per fare una domanda e si è presentata, con nome e testata. Berlusconi però l’ha interrotta: «Il Tg3? Quello che non esiste secondo alcune trasmissioni Rai, giusto?». Durante la conferenza stampa è intervenuto anche Guido Bertolaso: «Parliamo di spazzatura, quella vera,

Michele Santoro, conduttore di Annozero. A fianco Milena Gabanelli di Report

Saviano ha presentato per la prima volta in Germania il suo monologo “La Bellezza e l’Inferno”, realizzato per il Piccolo di Milano con la regia di Serena Sinigaglia e portato con successo anche al Theatre de la Ville a giugno scorso a Parigi. Davanti a una platea completamente esaurita, con un pubblico composto in prevalenza da italiani e tedeschi che sanno la lingua del Bel Paese (ma per gli altri erano a disposizione le radiocuffie collegate con un traduttore simultaneo), Saviano ha parlato per due ore non solo delle sue esperienze in Italia, ma anche delle iraniane Neda Agha-Soltan o Taraneh Mussavi («bellezza e felicità sono sempre contro il potere») e di Miriam Makeba, la cantante sudafricana che e’ morta a Castelvolturno, dopo essersi sentita male durante uno spettacolo per protestare contro sei omicidi di camorra tra gli africani immigrati in Italia e residenti in quel paese. Rimangono comunque i dubbi per “Vieni via con me”, la trasmissione che dovrebbe essere condotta appunto da Saviano e Fabio Fazio, che il direttore generale della Rai Masi ha bloccato impedendo la firma dei contratti con ospiti prestigiosi. Galimberti, alto vertice Rai, si è proposto come garante della libertà di stampa dei due. Ma al momento la querelle sembra essere ancora irrisolta.


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23 ottobre 2010 • pagina 7

Il leader di «Sel» lancia la sua “opa” sul centrosinistra

L’ex direttore del Sismi: «Così non posso difendermi»

Vendola a congresso, da Gramsci a Oscar Wilde

Pollari contro il governo: «No al segreto di Stato»

FIRENZE. Da Antonio Gramsci a Oscar Wilde è ritorno: è il percorso poetico-politico del nuovo sacerdote della sinistra, Nichi Vendola. Ieri, con un’ora e un quarto di discorso scandito con un tono ispirato che alcuni commentatori hanno definito «quasi evangelica», il portavoce e leader di Sinistra Ecologia e Libertà ha aperto il congresso fondativo del partito che si augura di rifondare la sinistra ma al tempo stesso vuole concorrere alla leadership del centro-sinistra passando per quella del Pd. Malgrado ciò, Vendola ha citato solo una volta il Pd: piuttosto ha preferito paragonare (buon ultimo e un po’fuori tempo massimo, per la verità) l’avvento del berlusconismo alla nascita del fascismo («Si è sottovalutato quel processo culturale come nei primi anni ’20 si sottovalutarono le squadracce»). In compenso ha attaccato Marchionne e Tremonti sempre e soltanot nel nome di quella che si presenta come la sua parola chiave: il lavoro.

MILANO. L’ex direttore del Sismi Nicolò Pollari, imputato nel processo milanese d’appello sulla vicenda del sequestro di Abu Omar, ha chiesto ai giudici che interpellino la presidenza del Consiglio dei ministri perché accetti finalmente di far cadere il segreto di Stato sulle vicende che lo coinvolgono. «Ho il diritto di difendermi e le accuse a mio carico sono infondate», ha protestato Pollari, nelle dichiarazioni spontanee rese in apertura del processo d’appello. Pollari, per il quale il primo grado è stata pronunciata sentenza di non doversi procedere per l’esistenza del segreto di Stato, ha spiegato nelle dichiarazioni spontanee davanti ai giudici della

La kermesse si aperta con i saluti del sindaco di Firenze Matteo Renzi, ma anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano manda il suo messaggio ai delegati: «È importante che la politica eviti di rinchiudersi nel localismo e

Parte il nucleare del dopo-Scajola Sarà Veronesi a dirigere l’ente per la scelta dei siti di Lucio Rossi

ROMA. I giochi sembrano fatti per l’Agenzia nucleare: malgrado la “fumata grigia”al consiglio dei ministri di ieri, non ci dovrebbero essere più dubbi: Sarà l’oncologo (e almeno per ora senatore del Pd) Umberto Veronesi a dirigere l’organismo che dovrà farsi garante della validazione tecnica dei siti destinati ad ospitare le centrali e del rapporto con gli operatori interessati a entrare nel business dell’energia dall’atomo su cui, almeno sulla carta lo Stato non dovrebbe mettere un centesimo. Il ministro Tremonti che però tiene stretti i cordoni della borsa, non si stanca di ripetere come il pil italiano risenta negativamente dell’elevato prezzo dell’energia, in mancanza del nucleare. Ma già due anni fa il ministero dell’Economia aveva scongiurato l’ipotesi che la Cassa Depositi e prestiti potesse funzionare come cassaforte del rientro dell’Italia nel nucleare: una partecipazione anche minoritaria della Cdp ai consorzi per lo sviluppo degli impianti di energia nucleare potrebbe determinare infatti effetti pregiudizievoli per la finanza pubblica anche in relazione al rischio di una revisione da parte di Eurostat della classificazione della Cassa come istituzione finanziaria esterna all’aggregato delle amministrazioni pubbliche, aveva sottolineato il dicastero di via XX settembre indicando agli operatori la strada dell’autofinanziamento del business con il ricorso agli strumenti ordinari del credito.

annunciato una joint venture aperta alle utility locali, evidenziando però la necessità di aggregare Cassa Depositi e prestiti come partner finanziario.

In attesa di sciogliere i nodi sulle risorse e gli investimenti, gli occhi sono puntati sul Cipe che dovrà dire quali tecnologie troveranno spazio in Italia e che con tutta probabilità rimetterà in corsa anche la Westinghouse americana che sembrava essere esclusa dopo gli accordi avvenuti ai massimi livelli istituzionali sull’Epr francese. Per la verità gli accordi sottoscritti con la Francia a febbrai del 2009 avevano lasciato tutti perplessi. Di qui – si azzardano ad ipotizzare gli esperti del settore – la “caduta in disgrazia”del ministro dello Sviluppo Scajola, ma soprattutto un lungo periodo di stasi che ha fatto accumulare un ritardo che è tutto nei numeri. La legge prevede l’adozione di 34 provvedimenti necessari per riuscire a posare la prima pietra nucleare in Italia: ad oggi ne sono stati varati solo due, mentre almeno altri tre ritenuti fondamentali per lo start-up sono rimasti nei cassetti, anche complice il ritardo con cui si è giunti alla nomina del nuovo ministro, Romani che, alla prima uscita pubblica sull’atomo ha prodotto una sorta di cataclisma in Lombardia. Invitato lunedì a un convegno organizzato dal presidente della provincia di Milano, Podestà, il ministro si è lasciato andare ad una previsione: «Mi sembrerebbe strano che una centrale nucleare non sia installata in Lombardia». Il Pd lombardo ha chiesto immediatamente una seduta speciale del consiglio regionale per dichiarare il territorio inidoneo ad ospitare centrali. Guido Podestà ha sottolineato come la zona «non risulta ideale per ospitare una delle quattro centrali nucleari che il Governo intende realizzare». «Non abbiamo bisogno di impianti nucleari», ha aggiunto seccamente il sindaco di Milano, Letizia Moratti, facendo eco alle parole del governatore, Roberto Formigoni.

In Lombardia il centrodestra litiga. Il ministro Romani: «Sì a una centrale». Contrari Podestà, Moratti e Formigoni

nella mera difesa di interessi corporativi e sappia invece riscoprire la dimensione dell’interesse generale». IN prima fila, naturalmente, c’era il creatore del fenomeno-Vendola, Fausto Bertinotti, ma anche esponenti di tutto il centrosinistra: da Anna Finocchiaro (Pd) a Paolo Ferrero (Prc-Fed. Sinistra), da Fabio Evangelisti (Idv) a Riccardo Nencini (Psi). D’altra parte, a loro era rivolto l’intervento di Vendola, specie nella sua parte autocritica: «Dobbiamo riconoscere le nostre sconfitte». E il modo per uscire dall’angolo è appunto rilanciare il lavoro messo in crisi dal «turbocapitalismo finanziario».

A luglio Cassa Depositi e prestiti ha ceduto (al Tesoro) l’intera quota della sua partecipazione pari a oltre il 17 per cento in Enel che grazie alla partnership con la francese Edf si è candidata a realizzare almeno metà delle centrali che consentiranno all’Italia di produrre il 25 per cento dei consumi energetici dal nucleare. Ma intanto non c’è traccia di eventuali investimenti sull’atomo nel piano fino al 2013 dell’ex monopolista elettrico italiano. Gli altri operatori interessati sono invece E.On e Gaz de france che un mese prima, a giugno, hanno

terza Corte d’Appello che ci sono «88 documenti che dimostrano la mia estraneità» alle accuse. Sul punto, però, i governi «con diverse maggioranze parlamentari», ossia quello Prodi e quello Berlusconi, hanno apposto il segreto di Stato. «Cosa può fare un cittadino, un pubblico funzionario, un militare di fronte a ciò?», si è lamnettao Pollari, precisando che «io finisco per subire il segreto e non me ne giovo».

È proprio la posizione del segreto di Stato, infatti, secondo Pollari, a non dargli la possibilità di dimostrarsi «assolutamente estraneo alle accuse». Gli ordini di non violare il segreto di Stato, ha aggiunto Pollari, «sono stati sistematicamente confermati» dai governi, riguardo alla sua posizione nella vicenda del sequestro Abu Omar. Al termine delle dichiarazioni spontanee, dopo che Pollari ha ribadito «l’opposizione del segreto di stato su ogni precisa circostanza», è intervenuto il legale dell’ex funzionario del Sismi, l’avvocato Nicola Madia, che ha chiesto ai giudici con un’istanza di interpellare la presidenza del Consiglio dei ministri. I giudici si sono riservati la decisione sulla richiesta del legale di Pollari.


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politica

Al tramonto. Il capo dello Stato scrive al presidente della commissione Affari Costituzionali: «Niente scudo per il Colle»

«Tenetemi fuori dal Lodo» Napolitano esprime forti dubbi sulla legge. Fini attacca sulla ricerca e Casini rilancia: «Se c’è un auto-ribaltone, nuovo governo politico» di Riccardo Paradisi

ROMA. È un venerdì nero per Silvio Berlusconi: su di lui e il suo governo piovono contemporanenamente la dura critica di Napolitano al nuovo Lodo Alfano, la crisi dei rifiuti di Napoli, l’ulteriore strattone di Fini interno alla maggioranza su giustizia, riforma universitaria e Rai e l’ultimatum del leader dell’Udc Casini, pronto per una nuova maggioranza in caso di fine anticipata della legislatura. In una lettera inviata al senatore Carlo Vizzini, presidente della commissione affari costituzionali del Senato, presso la quale è in corso l’esame della proposta di legge costituzionale il presidente della Repubblica esprime ”profonde perplessità”sull’estensione al capo dello stato del cosiddetto scudo giudiziario previsto dal Lodo Alfano. «Visto l’esito della discussione svoltasi sulla proposta di legge costituzionale e nell’imminenza della conclusione dell’esame referente – scrive Napolitano – ritengo di dover esprimere profonde perplessità sulla conferma da parte della commissione della scelta d’innovare la normativa vigente prevedendo che la sospensione dei processi penali riguardi anche il presidente della Repubblica. Questa previsione non era del resto contenuta nella legge Alfano da me promulgata il 23 luglio 2008».

Nella lettera Napolitano ribadisce di voler restare ”estraneo” all’elaborazione della legge sul Lodo. Ma osserva come lo scudo giudiziario per il capo dello Stato ne riduca l’indipendenza. «Come già ribadito più volte, è mia intenzione rimanere estraneo nel corso dell’esame al merito di decisioni delle camere, specialmente allorché - come in questo caso - riguardino proposte d’iniziativa parlamentare e di natura costituzionale». Una critica che mette in imbarazzo il governo e che, come si diceva, arriva in un giorno no per la maggioranza che non aveva ancora finito di tirare il sospi-

Per Barbareschi (Fli) «Il conflitto di interesse sta monopolizzando il mercato e danneggiando la Rai» ro di sollievo per la distensione interna generata dal voto favorevole di Fli proprio sul Lodo Infatti la polemica interna al centrodestra riprende col suo ritmo invariabile e oltre all’attacco di Napolitano incrocia la drammatica recrudescenza della crisi rifiuti, un danno d’immagine serio al governo Berlusconi che sui temporanei successi su quel fronte

aveva investito gran parte dell’ultima campagna elettorale. Sono di nuovo Gianfranco Fini e il suo movimento Futuro e libertà a riaccendere il fuoco del confronto interno alla maggioranza intervenendo a raffica su altri tre fronti caldi: legalità, università, Rai e conflitto d’interessi. Sulla legalità il presidente della Camera torna a chiedere certezza della pena per chi è responsabile di atti di corruzione. «Non credo che ci si possa dividere tra destra e sinistra sulla volontà di varare una leggina che preveda che chi è condannato in via definitiva per reati contro la pubblica amministrazione debba rinunciare a vita a qualsiasi incarico pubblico» ha detto Fini durante la sua visita a Foggia, ricordando che «i cittadini onesti sono la maggioranza e vanno sostenuti anche con una adeguata legislazione per tenere lontano i corrotti dai luoghi dove si amministra denaro pubblico». Nessun riferimento diretto all riforma della giustizia ma insomma, come sempre, Fini parla di cose generiche con riferimento implicito a questioni particolari: e il passaggio sulla certezza del diritto e la lotta all’impunità è chiaro per chi vuole capirlo. Sulla riforma dell’università Fini è altrettanto severo anche se il bersaglio privilegiato stavolta è Giulio Tremonti:

«Si tradisce lo spirito della riforma e si impedisce la carriera ai meritevoli – ha detto parlando stavolta alla cerimonia di inaugurazione dell’anno accademico all’Università di Foggia – se vengono confermati i tagli e se non si mettono a disposizione posti di associato per i ricercatori meritevoli». ”Meglio ritirarla” insomma la riforma se si deve fare con queste mutilazioni. Anche perché senza copertura finanziaria si vanifica anche quel buono che secondo il presidente della Camera è contenuto nella riforma Gelmini, come la trasformazione degli scatti da automatici a meritocratici. Per questo i tagli «Non sono proprio sopportabili perché ci sarebbe uno sbilanciamento tra la spesa per il personale e i fondi ordinari tale per cui sarebbe impossibile dare gli stipendi del personale». Poi sempre più polemico: «È vero, come ha detto un autorevole ministro, che la cultura non si mangia, ma se non c’è cultura e un’istruzione accessibile a tutti non si nutre lo spirito di un popolo, non gli si dà la ragionevole certezza di potersi costruire un futuro». Il ruolo della cultura è importante per tutti i popoli e «lo è in particolare per il nostro che si accinge a celebrare il centocinquantesimo anniversario dell’unità e vanta una millenaria tradizione culturale». Una stoccata infine Fini la riserva


politica

23 ottobre 2010 • pagina 9

Ma le elezioni restano dietro l’angolo Bossi sta per scoppiare, il premier pensa solo a difendersi e nessuno si occupa del Paese di Enrico Cisnetto ini che pare aver spianato la strada al lodo Alfano, fino al punto di suscitare non pochi mal di pancia dentro il neonato Fli. Bossi che ha smesso di parlare di elezioni dietro l’angolo. Berlusconi che ha smesso di oscillare tra voto anticipato e continuità della legislatura, scegliendo di galleggiare, consapevole che gli italiani sono scontenti e che la vicenda dei rifiuti in Campania dimostra come non lui non possa più fare appello al complotto giudiziario per fare il pieno dei consensi. Sempre Berlusconi che “congela” il vertice del Pdl e cerca di evitare che il frazionismo s’impadronisca del suo partito, fino al punto – per lui costoso, non fosse altro in termini di mentalità – di concedere un po’di democrazia interna. Il Pd che continua a farsi del male, dilaniato da spinte centrifughe interne che lo rendono impreparato ad affrontare le urne. Insomma, tutto sembra congiurare contro l’ipotesi di elezioni anticipate a marzo.Vero?

F

In realtà, a fronte dei molti e buoni motivi per cui questa conclusione appare fondata, altri elementi non meno significativi potrebbero far pendere la bilancia dal lato opposto. Per esempio, il comportamento della Lega. Finora si è indagato poco su cosa bolla nella

pentola di Bossi, ma l’impressione è che sia sul punto di esplodere. Le linee di frattura interne sono più d’una e la capacità di tenuta del leader storico – certificata dalla forzatura a favore del figlio – è al minimo storico. In più, sul piano politico la Lega è, dalle scorse

elezioni regionali in poi, sempre meno in grado di usare lo schema da anni vincente del “partito di lotta e di governo”. Perché prima era di governo a Roma e di lotta sul territorio, mentre ora è vincolata al ruolo romano ma non può più usare il linguaggio d’opposizione (magari al sistema) in quei territori dove è diventata istitu-

anche alla Lega partecipando a Foggia anche ad un’assemblea di Generazione Italia: «Quando la Grecia ha traballato si è spaventato un grande Paese come la Germania: se il Sud va da solo non ce la fa neanche il Nord. Possibile che gli amici della Lega non capiscano?» Solo un ruolo centrale del Sud, secondo il presidente della Camera, può aiutare il rilancio dell’economia nazionale, «ma noi non vogliamo l’assistenzialismo, non diremo mai che da soli non ce la facciamo e siamo consapevoli che bisogna contenere la spesa pubblica».

Mentre a Foggia Fini martella su questi tasti futuro e libertà lancia contemporaneamente un appello a Berlusconi sul futuro della Rai: «Se il premier non si rende conto che il conflitto di interesse sta monopolizzando il mercato disincentivando qualsiasi gruppo di comunicazione che vuole investire qui, il declino della Rai sarà irreversibile. La politica deve fare un passo avanti e uno indietro, deve confrontarsi con il mercato vero». Luca Barbareschi, deputato Fli, annuncia anche un convegno con Gianfranco Fini dedicato all’etica della comunicazione: «Uno dei primi passi della battaglia per riportare i contenuti al centro della programmazione Rai e, in generale, dell’offerta culturale in Italia, ora soffocata dalla cappa sulla libertà

zione e dove comincia a pagare il prezzo di qualche amministratore preso con le mani nella marmellata. E questo proprio mentre la crescente nausea degli italiani per la politica richiederebbe per la Lega, al fine di continuare ad accrescere i consensi o quantomeno di mantenerli, di tornare a pescare nel vecchio armamentario dell’anti-politica su cui Bossi ha costruito la sua fortuna. Sì, ci prova con le battute sui romani “porci” o mantenendo alto il volume delle grida contro gli immigrati, ma rischia che siano i grillini, i viola, i giustizialisti del Fatto di Travaglio e i dipietristi della prima ora a fare il pieno tra gli incazzati. Dunque, Bossi deve al più presto trasformare in voti il consenso che defluisce dal Pdl prima che raggiunga l’alveo sempre più grande dell’astensionismo, e per farlo non può che usare toni e parole d’ordine incompatibili con il permanere della Lega al governo. Ergo, tra chi potrebbe staccare la spina il principale indiziato di volerlo fare è proprio Bossi. Quando? Entro la fine dell’anno. Cioè prima che si girino le carte sul federalismo fiscale e si scopra che sotto non c’è nulla.

Ma anche taluno nel governo potrebbe essere tentato dalle elezioni anticipate. E

d’informazione e, appunto, dal conflitto d’interessi. Ma non c’è solo l’alleato Fini a dar pensiero a Berlusconi. Sembra che anche l’Udc di Pier Ferdinando Casini voglia imprimere un’accelerazione politica alla situazione di stallo polemico in cui s’avvita sempre di più il Paese: «Io mi auguro che Berlusconi vada fino in fondo – ha detto il leader centrista parlando all’assemblea dei coordinamenti regionali dell’Udc – ma se getta la spugna con un autoribaltone si risponde con un governo politico per il Paese coinvolgendo anche chi nel Pdl ci starà, e vi assicuro che saranno in tanti». Del resto, è

non solo Maroni, che oltre alle ragioni di tutta la Lega potrebbe averne di sue, legate alle dinamiche interne del suo partito, ma anche altri ministri. Inoltre, va considerato quello che potremmo chiamare “effetto inerzia”. Cioè la tendenza, il trend. Che era ieri e rimane anche oggi, nonostante i tentativi di “frenata” sia del premier che di Fini, quello di uno scollamento tale interno al governo, alla maggioranza e agli stessi partiti che vi partecipano che spinge in modo quasi inevitabile il sistema verso il punto di rottura. La stessa crisi del Pd, che pure vede le elezioni come un pericolo, rischia di accelerare

Sottotraccia è in corso uno scontro sulla legge elettorale che continua a minare gli equilibri politici il processo di sfaldamento del sistema politico: quanto può durare la segreteria di Bersani sottoposta alle critiche, interne ed esterne, da “destra” di Chiamparino, Cacciari e dei Popolari (Follini e Fioroni), da “sinistra” di Vendola e compagni, e di Veltroni dal lato dei fans del bipartitismo? Chi pensa di portare le truppe fuo-

il ragionamento di Casini – se si va alle elezioni vuol dire che qualcuno ha getto la spugna per la presunta possibilità, in un momento difficile per l’economia, di ricavarne un vantaggio Allora dobbiamo assumerci la responsabilità di guidare il Paese con un governo non solo per la legge elettorale ma che risolva i problemi economici». Poi Casini ha lanciato un affondo diretto nei confronti del premier: «Non si governa solo con slogan e promesse di grandi riforme mai attuate. La fiducia del Paese nel Pdl e nel governo Berlusconi si sta sgretolando». Secondo il leader centrista tutto questo accade

ri dal partito o chi, come il governatore della Puglia, immagina di poter vincere delle eventuali primarie, potrebbe avere l’interesse alle elezioni, o comunque potrebbe comportarsi in modo da finire per favorirle.

Come si vede, dunque, la partita è del tutto aperta, e la sua conclusione è condizionata tanto dalla battaglia che il premier conduce sul piano legislativo per tutelarsi giudiziariamente – con scarsa lucidità, mi sia consentito di osservare mettendomi nei suoi panni – quanto ai venti che spirano sia dalle varie inchieste giudiziario-mediatiche presenti e future sia dal gossip che continua a produrre “materiale per il ventilatore” in gran quantità. Senza contare, naturalmente, gli effetti della situazione economica e delle decisioni in materia di finanza pubblica che l’Europa si accinge a prendere, a cominciare dalla modifica del Patto di stabilità. E non dimenticando che sottotraccia è in corso uno scontro sulla legge elettorale – di cui abbiamo parlato dettagliatamente in questo giornale la settimana scorsa – che non sarà meno influente di tutti gli altri elementi del gioco politico messi assieme. Il tutto mentre il Paese osserva, attonito. (www.enricocisnetto.it)

«non certo per le vicende personali di Berlusconi ma perché il premier ha fatto solo una piccolissima parte delle cose che aveva promesso nei suoi programmi».Per Casini, però, «la conta di questo processo di sgretolamento dei consensi al Pdl risiede anche nella Lega nord. È da qualche tempo che Silvio Berlusconi è presente solo con i suoi comunicati inquietanti a manifestazioni alle quali non va. Sta franando la sua idea di politica».

Infine, a proposito di un eventuale voto politico in primavera, il leader dell’Udc ha sottolineato come il suo partito abbia ”predetto da tempo quello che sarebbe successo”. «Ma - ha concluso - ora dobbiamo convincere con il nostro impegno la gente a darci il suo consenso. Per rendere visibile la nostra proposta alle prossime amministrative dobbiamo andare prevalentemente da soli. È autolesionista allearsi con il centrodestra o con il centrosinistra». Ma appunto non ci sarebbe solo un’emigrazione dal Pdl verso il centro. Anche dal Pd ci sarebbero forze in uscita dalla sinistra che potrebbero convergere nell’area del partito della nazione: «Tanti che lasciano il Pd vengono da noi – ha detto Casini, citando il caso della Lombardia – dove pensavamo a una catastrofe e invece abbiamo guadagnato voti».


economia

pagina 10 • 23 ottobre 2010

Equilibri. Dal vertice in Corea soltanto un monito a cooperare contro il dumping ROMA. Cooperazione sì, ma guai a parlare di accordo, di firmare un armistizio nella guerra delle monete. C’è stato soltanto un piccolo passo avanti nel G20 che si è aperto ieri a Gyeongju. Nell’antica capitale della Corea l’unanimità tra i grandi del mondo si è vista soltanto per accelerare la riforma del Fondo monetario, con l’Europa che ha confermato di essere pronta a cedere spazio e poltrone. Perché accanto alla Cina, anche Germania, India e Giappone – economie mature e realtà emergenti – hanno respinto la proposta di Timothy Geithner di porre un tetto del 4 per cento del proprio Pil al surplus o al deficit delle partite correnti. Questa mattina i ministri finanziari e i banchieri centrali dovrebbero rinviare la soluzione del problema al prossimo G20 che si terrà tra un mese a Seul, se non al G2 UsaChina, al vertice Usa-China in programma a gennaio, quando Hu Jintao è atteso a Washington da Barack Obama. Ma che le tensioni continueranno finché Pechino non rivaluterà lo yuan, lo si è compreso dall’andamento dei mercati ieri dopo l’annuncio di una lettera di Geithner inviata ai ministri delle Finanze impegnati al G20. Nella missiva il segretario al Tesoro Usa rimandava alla Cina (pur senza citarla) un monito inascoltato in questi mesi: le maggiori economie «si impegnino ad astenersi da politiche dei tassi di cambio tese a delineare un vantaggio competitivo, sia indebolendo la propria valuta sia impedendole di apprezzarsi, quando è sottovalutata». Eppure questo concetto è bastato a far rafforzare il dollaro sull’euro e a stabilizzarlo sullo yen. Nonostante il sempre più probabile quantitative easing che la Fed si accinge a mettere in campo, sui mercati si continua a vendere il biglietto verde, con quello che comporta in termini di indebolimento

G20, rinviato l’armistizio sulla guerra monetaria Cina, Germania, Giappone e India respingono il tetto voluto dagli Usa ai surplus commerciali di Francesco Pacifico

In alto, il sottosegretario al Tesoro americano, Timothy Geithner, che ha proposto ai colleghi del G20 di porre un tetto del 4 per cento al surplus delle partite correnti. In basso, Silvio Berlusconi pegnati in Corea che «i Paesi del G20 con persistenti avanzi commerciali dovrebbero adottare delle politiche strutturali, di bilancio e dei tassi di cambio per aumentare le fonti di crescita e sostenere la domanda mondiale». Un discorso che non vale soltanto per la Cina, forte di un avanzo cor-

Il segretario americano Geithner e la Ue chiedono ai grandi di fare le riforme strutturali per sostenere la ripresa.In stallo i consumi in Italia contro l’euro o lo yen. Serve una soluzione, ma difficilmente arriverà d’imperio. Così non resta che ripartire da dove il Wto ha fallito: una lotta a 360 gradi contro ogni forma di protezionismo. E su questo sono d’accordo quasi tutti, partendo dagli Usa. Non a caso Geithner, prendendo in prestito parole che sembrano uscite dai documenti del Fondo monetario, ha consigliato ai ministri im-

rente pari al 6 per cento del proprio Pil ma che è foriero di pericolose bolle speculative. Non si fa illusioni sulla questione monetaria il governatore della Banca del Giappone, Masaaki Shirakawa, spiegando che in questa fase bisogna “accontentarsi” dei rialzi dei tassi da parte della Cina, visto che «le sue autorità hanno compiuto questo passo nella prospettiva di garantirsi una crescita sostenuta».

Per il premier non c’è un conflitto valutario globale

Silvio va controcorrente Quando si dice un campione di realpolitik. Silvio Berlusconi è impegnato a Roma a porre il freno a un’emergenza dei rifiuti, che oltre al capoluogo campano rischia di travolgere anche il suo governo. Ma si sa, per il Cavaliere, la diplomazia resta una tentazione. Così ieri, attraverso la tedesca Faz, ha mandato il suo messaggio d’incoraggiamento ai ministri delle Finanze del G20 impegnati a frenare il dumping monetario cinese e le conseguente speculazioni. «La sottovalutazione dello yuan», ha sentenziato, «è stimata dagli esperti tra il 20 e il 30 per cento e questo rappresenta un problema per il commercio ma non vedo il rischio di una guerra valutaria globale». E via, con un colpo di bianchino, a tutti gli sforzi che stanno facendo gli Usa, la Ue e il Giappone. Da stratega sopraffino, forse il premier sapeva che anche questo G20 andrà verso il fallimento. Quindi meglio non far arrabbiare la Tigre cinese. In fondo, quando aveva incontrato Wen Jiabao a Roma, si era complimentato anche per come la Cina trattava i conflitti sociali…

E proprio la presenza dell’incombrante vicino, costringe il ministro delle Finanze nipponico, Yoshihiko Noda, a respingere la proposta di Usa di portare il surplus o il deficit delle partite correnti al 4 per cento del Pil entro il 2015, chiedendo allo storico alleato di considerarlo «un valore di riferimento non vincolante». Dal canto suo, l’Europa – apripista nel lanciare una strategia di dialogo – anche ieri non ha nascosto i timori di essere stritolata tra gli oltranzismi di Usa e Cina. Ha sottolineato il commissario europeo agli Affari monetari, Olli Rehn: «È decisamente meglio se puntiamo a ribilanciare la crescita globale attraverso un effettivo coordinamento delle politiche piuttosto che prendere azioni unilaterali». Paradigmatico in questa situazione quanto sta accadendo in economie mature come l’Italia, che vedono legate la loro ripresa solamente all’export, ma che sono gravate da un alto costo del lavoro e da una bassa competitività. L’Istat ieri ha comunicato che nel Belpaese, ad agosto 2010, le vendite al dettaglio sono rimaste invariate rispetto a luglio 2010, segnando soltanto un +0,3 per cento rispetto a 12 mesi fa, nel pieno della crisi. In Italia, si sa, non è quella dei consumi la determinante del Pil a preoccupare maggiormente, ma questa stabilizzazione al ribasso finisce per dimostrare la debolezza del mercato interno. Per spingere gli italiani a spendere bisogna far sì che guadagnino e producano di più. Difficile farlo se nella spesa sociale la parte per le pensioni supera è estremamente sbilanciata rispetto a quella per il welfare to work e se la chiusura di alcuni settori mantiene salati i servizi.

Proprio il combinato disposto tra gli effetti della crisi e l’assenza delle riforme ha fatto salire il deficit italiano nel 2009 al 5,3 per cento del Pil. La via delle riforme è la stessa che potrebbe spingere Pechino a stimolare la domanda interna senza giocare con la moneta e gli Usa ad aumentare il risparmio e le esportazioni. Questo l’obiettivo delle nuove relazioni mondiali, a meno che – come dimostra la decisione dei Paesi del G7 e di quelli del Bric di vedersi separatamente prima dell’inizio del vertice – si riscrivino i confini di un consesso come il G20 che si sta dimostrando troppo ampio e inconcludente.


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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

Elementi per una nuova letteratura

IL ROMANZO

IERI OGGI E DOMANI di Pier Mario Fasanotti

acchilide era un poeta greco coetaneo del più celebre Pindaro. Della so ormai disinvolto dell’elettronica pone quesiti nuovi. Già Singer asseriva sua vastissima produzione ci è rimasto purtroppo poco. Nel 450 con straordinaria lucidità che «più avanza la tecnologia, più le persone Entusiasmi a.C. scrisse: «Un autore rubacchia il meglio da un altro e lo saranno interessate a quello che saprà produrre la mente umana chiama tradizione». Il commediografo romano Terensenza l’ausilio dell’elettronica». La frase viene riportata nella e critiche zio (circa 160 a.C.) sosteneva che «è impossibile dire ripubblicazione di alcuni importanti saggi comparsi su ha suscitato in America qualcosa che non sia già stato detto». Queste due ciThe Paris Review (a cura di Philiph Gourevith, Fantazioni servono a rinfrescare la memoria sul dango editore). In essi ricompare quanto Faulkil libro di David Shields fatto che il ragionare sulla scrittura, sia ficner disse a proposito del suo «mestiere»: (ora pubblicato in Italia) che ribalta tion sia saggistica, è un’attività antica. Che, «L’artista è completamente amorale, per cui la prospettiva tradizionale visto che l’interrogarsi continua, ha inevitabilnon esiterà a rapinare, prendere in prestito, elemente lasciato domande aperte. In questi ultimi anni si mosinare o rubare da tutto e da tutti, pur di portare a della narrazione. All’insegna è ripresa in mano l’affermazione secondo cui «il romanzo è termine la sua opera». Lo stesso concetto è stato ribadito del copia-incolla morto». Ma più seriamente, in questi mesi, s’infittisce la discusda altri in tempi diversi. Picasso: «L’artista è un ladro». Eliot: «I sione attorno all’opera narrativa, alla sua essenza, a come è stata fibravi poeti citano, i grandi rubano». Emerson: «Il genio prende edunora, a come è oggi e a come potrebbe essere domani o dopodomani. L’ucatamente in prestito».

B

Parola chiave Roma di Sergio Belardinelli La via crucis del Duca bianco di Stefano Bianchi

NELLA PAGINA DI POESIA

Il cuore indomito del moderato Carducci di Filippo La Porta

Una lettera inedita di Ungaretti a De Gasperi con interventi di Leone Piccioni e Mauro Canali

“Fair game” un’occasione mancata di Anselma Dell’Olio

Islam, la geometria al servizio del divino di Guglielmo Bilancioni


il romanzo ieri oggi e

pagina 12 • 23 ottobre 2010

Sulle orme di Keats eterno apprendista he ne pensa del romanzo, o del futuro del romanzo, Zadie Smith, una delle più brillanti scrittrici inglesi? È importante, anzi essenziale, dar retta a chi suda sul computer. L’autrice di Denti bianchi, L’uomo autografo e Della bellezza (tutti editi dalla Mondadori) è nota anche per la sua affilata intelligenza. L’editore minimum fax ha appena mandato in libreria una sua raccolta di saggi (Cambiare idea, 422 pagine, 19,00 euro) che sono un ragionare sottile sull’arte del romanzo. Nella prima parte viene riportato quanto la Smith disse in una conferenza alla Columbia University. Il tema era «Parlare di qualche aspetto del proprio mestiere». Zadie comincia a indicare due diverse specie di scrittori: il Macropianificatore e il Microgestore (categoria cui lei afferma di appartenere). Il primo prende un sacco di appunti, elabora minuziosamente la trama ed elabora la struttura narrativa. «Conosco Macropianificatori - racconta la Smith - che sostituiscono ossessivamente un finale con un altro, tolgono personaggi dal libro e ce li rimettono, invertono l’ordine dei capitoli e compiono frequenti e ra-

C

Il collage o il copia-e-incolla è seriamente e meticolosamente analizzato dall’americano David Shields, che ha scritto un bizzarro saggio, a forma di citazioni, sulla narrativa. L’editore gli ha consigliato di citare le fonti e lui, obtorto collo, ha obbedito, considerando però marginale l’apporto delle note. In America ha già sollevato entusiasmi e critiche (l’inglese Zadie Smith disapprova in quanto tradizionalista e promette una replica). Il testo di Shields è ora tradotto in italiano: Fame di realtà (Fazi editore, 262 pagine, 18,50 euro). Pagine eccezionalmente stimolanti proprio perché non vanno in un’unica e ossessionante direzione, semmai sollevano quesiti e riflessioni senza sosta. L’autore ha come baricentro la consapevolezza che oggi non è più possibile (o auspicabile) scrivere come cinquanta o duecento anni fa. Dice che il cinema, passando dal muto al parlato, si è inevitabilmente trasformato, e non solo nel suo apparire formale. Lo stesso vale per la letteratura. C’è una citazione sulla quale varrebbe la pena di soffermarci: «Viviamo un tempo di notiziari». Di qui il ragionare sul rapporto tra realtà, rappresentazione della realtà e fantasia.

La tesi abbracciata da Shields è che il romanzo, inteso come opera di immaginazione, con trama e punti di vista, sia davvero atrofizzato. O che comunque siano atrofizzati gli scrittori, in specie quelli che si ostinano a «mescolare» la propria vita, o quella altrui, pur di narrare. Spunti di novità non mancano: il premio Nobel Coetze scrive una simil-autobiografia, la stessa Zadie Smith salta su terreni non ortodossi, e Dave Eggers si sperimenta in «docu-romanzi». Fiction o non fiction? Risposta: esiste solo la letteratura, poco importa come sia costruita. E poi basta con lo snobismo in base al quale si deve giudicare sempre e aprioristicamente male le telenovelas o i reality show. Se questi generi trasmettono alla fine qualcosa, che siaanno III - numero 38 - pagina II

domani

dicali interventi sul romanzo». Come arredatori che spostano di continuo poltrone, divani e tavoli da una stanza all’altra. Il Microgestore invece costruisce pian piano la casa, «procedendo per singoli elementi fino all’interezza». Ognuno, precisa la scrittrice inglese, è ovviamente libero di far quel che vuole. La sua esperienza la porta a insistere sulle prime venti pagine. Fondamentali. Le è capitato di riscriverle per quasi due anni. Ma se funzionano, lei procede velocemente. Cinque mesi per un romanzo. Sempre col rispetto degli altri, sempre senza sentirsi un dio: «Basta con la dissezione umana, basta entrare nella testa dei personaggi, spaccarla come una noce, estirparne ogni segreto». E a questo punto cita una frase fondamentale di Derrida: «Se non si mantiene il diritto al segreto si entra in uno spazio totalitario». E Zadie aggiunge: «In realtà il personaggio nasce da una pennellata leggerissima».Verissimo! E questo vale a ribaltare l’idea sbagliata che spesso abbiamo dei lettori, ossia persone sprovvedute, ignoranti, soprattutto impazienti. Chi scrive romanzi deve vedersela con il problema delle impalcature: danno sicurezza a chi non ne ha, creano un obiettivo, riducono il senso dello smarrimento. E che male c’è, lei aggiunge, leggere altri testi quando se ne scrive uno proprio? «Le parole altrui sono il ponte che si usa per passare da dove si è a dove si vuole andare». Lo sapeva bene John Keats che divorava le pagine degli altri mentre ne scriveva di sue, anche plagiando e citando. Keats è un modello in quanto eterno apprendista, mai timoroso delle «influenze». «Anzi racconta Zadie Smith - se ne pasceva con avidità: voleva imparare dagli altri, anche a rischio di lasciare che le loro voci sommergessero la sua. Cosa che, si sa, non successe: Keats è un grandissimo poeta». (p.m.f.)

no considerati una sfida e non più un oltraggio. È comunque certo che Shields non le manda a dire. I colpi li dà con una certa violenza: «Amo la letteratura, ma non perché ami le storie in sé.Trovo quasi tutte le mosse del romanzo tradizionale incredibilmente prevedibili, fiacche, improbabili ed essenzialmente inutili. Non ricordo mai i nomi dei personaggi, gli snodi della trama, i dialoghi, i dettagli dell’ambientazione. Non mi è chiaro cosa dovrebbero rivelare sulla condizione umana narrazioni simili. Invece sono attratto dalla letteratura come forma di pensiero, di coscienza, di sapienza. Mi piacciono le opere che mettono a fuoco non solo pagina dopo pagina ma riga dopo riga quello che importa veramente allo scrittore, invece che sperare che tutto questo emerga chissà come misteriosamente dalle crepe della narrazione, che è quello che accade oggi in quasi tutti i racconti e i romanzi. Le opere-collage parlano quasi sempre di quello di cui parlano - che può sembrare un tantino tautologico - ma quando leggo un libro che mi piace davvero, sono emozionato perché sento l’emozione che in ogni paragrafo sta palesemente esplorando il suo soggetto». Parti di questa asserzione sono francamente arroganti, ascrivibili forse al logorio di Shields come lettore. Il quale, nell’indicare la direzione dei suoi sogni letterari, non dovrebbe essere così irriverente proprio verso quei giganti della prosa che gli hanno permesso di formulare ipotesi nuove o speranze di invenzioni. Del resto lo ricorda lui stesso: romanzo in inglese si chiama novel, contiene cioè un germe di novità. Ma dovrebbe ben sapere che le stagioni di fioritura sono più lunghe rispetto al tempo elettronico della nostra epoca.

David Schields e la copertina del suo discusso saggio dedicato al romanzo. In alto, John Keats modello della scrittrice inglese Zadie Smith (nella foto a destra)

Come dovrebbe essere più prudente quando afferma che «il romanzo in quanto romanzo è una forma di nostalgia». Sacrosante le sue preferenze: «I romanzi che mi piacciono sono quelli che non hanno l’aria di esserlo». Furia di novità, insomma.

Tanto è vero che il terreno sul quale il disincantato e brillante americano saltella è intriso da una consapevolezza difficilmente contestabile. Ossia che il cosiddetto spirito del tempo (zeitgeist in tedesco) contiene la possibilità, anzi il dovere, di abbattere certi schemi, di superare quei limiti entro i quali siamo comodamente o pigramente abituati a stare, come scrittori e come lettori. I tributi alla sua opera non mancano. Coetze scrive che Fame di realtà «è un manifesto per la nuova generazione di scrittori e artisti. Shields ci conduce in un viaggio intellettuale affascinante e, a tratti, esilarante». Jonathan Lethem: «Questo libro mi ha illuminato, intossicato, entusiasmato, sopraffatto. È un vetro attraverso cui guardare il mondo». Ci sono in effetti certi passaggi shock che non possono non indurci a ragionare. Per esempio: «La trama è roba per gente morta»; «Il genere è un carcere di minima sicurezza»; «La trama sembra affermare che tutto accade per una ragione, mentre io voglio dire: eh no che non è così». Davvero interessante quanto riportato in uno dei brevissimi capitoli del libro di Shields. Riferisce che nel 1830 il bostoniano Ralph W. Emerson si dichiarò stufo dei sermoni con tutte le loro «fredde, meccaniche preparazioni per un’enunciazione più decorosa - il giusto, il bello, il saggio - ma prive di alcuna freccia, alcuna scure, alcun nettare, alcun ringhio». E si ricorda di quando un ciarlatano tedesco di nome Maelzel sbarcò in America con il suo panharmonicon, un organo senza tasti. Faceva girare tre volte la manovella e la macchina sputacchiava una sorta di sinfonia. Questo congegno era visto da Emerson come sorta di nuova letteratura. Perché tutto diventava ammissibile, tutto era mischiato. A briglia sciolta. Episodio da ricordare a coloro che considerano la prima metà del XIX secolo come «il paradiso perduto del romanzo».


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parola chiave

ono venuto per imparare Roma». Con questa espressione un po’ insolita Giovanni Paolo II si rivolse una volta agli studenti e alla autorità accademiche di una celebre Università pontificia. «Imparare Roma», dunque. Ma che c’è di così importante da imparare in una città certamente bellissima nei suoi monumenti e nei suoi musei, grondante di storia un po’ da tutte le parti, ma anche più caotica e, per molti versi, più trasandata di tante altre? Mi è capitato spesso di riflettere su questa domanda e la risposta è sempre stata la stessa; una risposta che ha forse il difetto di essere un po’romanocentrica o italocentrica, ma che tuttavia mi sembra plausibile: a Roma si impara qualcosa che è autenticamente universale (cattolico) e nel contempo autenticamente «sensibile alle differenze», secondo la nota espressione di Juergen Habermas; si impara il senso dell’appartenenza a una storia antichissima e variegata, incompatibile con qualsiasi forma di fanatismo etnocentrico; il senso di un’identità flessibile, aperta, mai esclusiva o aggressiva; si impara ad apprezzare la bellezza, il gusto per la vita e - perché no?- a prendere la vita con la giusta misura, con distacco e allegria: tutte caratteristiche che la città di Roma e molti suoi abitanti sanno rendere visibili in modo incomparabile e che qualificano non soltanto lo spirito di una città, ma la vitalità e la ricchezza di tutta una cultura: un patrimonio di dimensioni gigantesche che potrebbe essere estremamente utile proprio in un momento storico difficile quale è quello che stiamo attraversando. Eppure di tutto questo né i romani, né gli italiani sembrano rendersi conto.

«S

N at u r al m e n t e

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ROMA C’è ancora qualcosa da imparare da questa bellissima e caotica città, antica come i nostri vizi decisamente italiani più che romani. E, a guardare in controluce, ecco che affiorano anche le virtù...

La contraddizione come risorsa di Sergio Belardinelli

c o no s c o

bene i problemi, alcuni dei quali addirittura drammatici, della città di Roma e dell’Italia; so bene che, a Roma come altrove, il limite tra le nostre principali virtù e i nostri peggiori difetti risulta spesso quasi impercettibile. Il disincanto, l’inventiva, la flessibilità, legami familiari ancora piuttosto forti, un marcato policentrismo socio-economico degenerano facilmente in incredulità, birberia, cinismo, «familismo amorale», esasperato particolarismo. Ma questo nostro deficit endemico di «cultura civica», le difficoltà che abbiamo a trasformare le nostre grandi risorse culturali in una cultura e in istituzioni politiche veramente efficienti e all’altezza di una liberaldemocrazia europea, una certa nostra inclinazione al campanilismo e alla tifoseria, che qualche volta sembra mandare in frantumi tutto ciò che il nostro popolo ha costruito nei secoli, non possono costituire un alibi per accantonare ulteriormente i nostri doveri civili, per addormentarci nel torpore della decadenza o addirittura per assecondare l’idea che l’Italia non sia mai esistita e che Roma sia semplicemente la «ladrona». Già nel 1824, circa quarant’anni prima che la difficile unità d’Italia si realizzasse, il grande Giacomo Leopardi,

La nostra lunga storia, le vestigia dell’Urbs Aeterna, culla del cattolicesimo, rendono la nostra cultura «la più difficile ad esser mossa da cose illusorie». E grazie alla nostra tradizione conserviamo una sensibilità per i valori universali, che ci pone al riparo dai fanatismi ideologici, comunque questi si manifestino nel suo celebre Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani, denunciava invero come gli italiani, anziché occuparsi dell’«onore» e dell’«opinione pubblica» come facevano gli altri popoli «civili» dell’Europa, coltivassero invece il «passeggio, gli spettacoli e le Chiese». Sono queste, commentava amaramente Leopardi, «le principali occasioni di società che hanno gli italiani, e in essi consiste, si può dir, tutta la loro società», e con essi, si potrebbe aggiungere sempre con le parole del poeta e pensatore marchigiano, si spiega «il poco o niuno amore nazionale che vive tra noi». Assai antichi sono dunque i nostri vizi e hanno principalmente a che fare, co-

me del resto abbiamo già accennato, con l’egoismo, il particolarismo, il cinismo, la sostanziale mancanza di «amor proprio» e la conseguente «indifferenza per la propria reputazione», come direbbe Leopardi, che sicuramente non hanno favorito né lo sviluppo della «morale privata», né lo sviluppo della «morale pubblica». Su questo nostro deficit di cultura civica si è sviluppata negli anni una ricca letteratura anche internazionale. Ricordo soltanto il celebre studio del 1958 di Edward Banfield sul mitico paesello di Montegrano, Le basi morali di una società arretrata; l’altrettanto celebre volume su The civic culture di Almond e Verba, pubblicato nel 1963; il

libro di Robert Putnam, su La tradizione civica nelle regioni italiane, pubblicato nel 1993; per non dire della ricchissima letteratura italiana sull’argomento, sviluppatasi soprattutto a seguito del triste fenomeno di Tangentopoli. Nel suo famoso studio sulla fiducia (Trust, 1995), Francis Fukuyama parla addirittura di «confucianesimo italiano». L’Italia sarebbe cioè un Paese, la cui struttura socio-culturale sarebbe più simile alla Cina non comunista che ai Paesi occidentali. Come nelle società cinesi non comuniste, anche in Italia esisterebbe insomma una strutturale debolezza del grado di cittadinanza e di identificazione con le istituzioni pubbliche a tutto vantaggio di quello che Edward Banfield aveva definito come «familismo amorale».

L’inefficienza delle nostre istituzioni pubbliche, il diffuso particolarismo clientelare, certo «confucianesimo» che contraddistingue la nostra cultura civile e altro ancora che mi voglio risparmiare sono purtroppo qualcosa di più che un semplice stereotipo; esprimono vizi reali dell’Italia, su alcuni dei quali ci dilunghiamo ormai da circa duecento anni. Ma questa, lo ripeto, è soltanto una faccia della medaglia. I nostri vizi mostrano infatti in controluce anche le nostre virtù. La nostra lunga storia, le vestigia di Roma e del cattolicesimo romano, possono indurre senz’altro a guardare il mondo e gli uomini con disincanto e scetticismo. Ma forse anche per questo la nostra cultura, uso ancora parole leopardiane, è «la più difficile ad esser mossa da cose illusorie»; è sicuramente grazie alla nostra tradizione millenaria che conserviamo una particolare sensibilità per i valori universali, ponendoci così al riparo da pericolosi fanatismi ideologici, comunque questi si manifestino. Siamo pressoché privi di senso dello Stato, quindi del bene comune, ma abbiamo un numero incredibile di persone impegnate nel volontariato (circa cinque milioni); l’individualismo sembra prendere il sopravvento su qualsiasi forma di solidarietà sociale, eppure devolviamo cifre ingenti in opere di carità; la famiglia e il campanile della propria città sembrano essere i nostri unici valori comunitari, ma siamo anche uno dei popoli più aperti e cosmopoliti. Nemmeno l’immondizia che vergognosamente ricopre alcune nostre città o la cultura mafiosa che persiste in diverse regioni del nostro Paese tolgono ai cittadini italiani l’ironia e la voglia di vivere. Siamo insomma un coacervo di contraddizioni. Ma resta pur vero che, specialmente nei momenti in cui la nostra crisi sembra più profonda, quando occorre soprattutto capacità di lavorare sodo, «ragionare» e di utilizzare l’«immaginazione», la nostra abitudine a convivere con le contraddizioni potrebbe rivelarsi come una preziosa risorsa. Pur con tutti i problemi, e concludo, mi piace pensare insomma che a Roma (anche per i romani) ci sia ancora qualcosa da «imparare».


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Miti

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musica

C’erano una volta I CENTRI SOCIALI di Bruno Giurato

di Stefano Bianchi tation To Station del 1976, sta giusto a metà strada fra la black music di Young Americans e la virata elettronica di Low. È il breve (trentotto minuti per sei brani) ma intenso capolavoro di David Bowie or ora ripubblicato con l’aggiunta del doppio cd Live Nassau Coliseum ’76. L’anno prima, Bowie è reduce dal film L’uomo che cadde sulla Terra di Nicholas Roeg. Torna a Los Angeles che pesa a malapena quaranta chili, sopraffatto com’è dall’abuso di cocaina. Dichiara: «Ho fatto la mia parte. Non ci saranno più dischi di rock and roll né concerti, per quanto mi riguarda. La musica rock è morta. È come un’imbarazzante, vecchia sdentata». Ma poi ci ripensa (come nel ’73, quando si rilanciò dopo aver «ucciso» l’alter ego Ziggy Stardust) e incide Station To Station ai Cherokee Studios di Hollywood alternando stati di grazia e precipizi depressivi. Thin White Duke, si fa chiamare: Sottile Duca Bianco. Difficile per i musicisti stargli dietro, perché Station To Station è la sua via crucis: umana e professionale. Per poter risorgere dalle ceneri, deve raggiungere l’Albero della Vita descritto nella Kaballah. Nel 2006, in un’intervista, ricorderà: «È stato uno dei più cattivi periodi della mia vita. Una sfuocatura, alimentata da un’ansia cronica che sconfinava nella paranoia». Eppure, quel miscuglio di nichilismo e misticismo produce pezzi che entrano di diritto nell’eccellenza bowiana: gli undici, trascinanti minuti di Station To Station, con quello sferragliare del treno che omaggia i Kraftwerk di Autobahn; il funky perfetto di GoldenYears (l’album, all’inizio, doveva intitolarsi così) registrato e completato in una decina di giorni; la melodia, la soul music, lo struggimento e la catarsi di

S

Jazz

zapping

Milano si sgombera un centro sociale (la Bottiglieria okkupata, nome che fa simpatia da subito) e non si mobilita nessuno, nessuno fa manifestazioni, appelli, bevute, suonate grunge e reggae, nessuno chiama Manu Chao che faccia almeno ciao. Niente. E non è che i centri sociali fossero un prodotto ideologico a ben pensarci, per tutti gli anni Novanta, a Muro abbondantemente caduto, erano diventati il rifugio di una bella fetta di ragazzi non ideologizzati, no global, solo sui bordi e per caso. Gente che lì, nel centro sociale, rimaneva ottimamente, solo perché si entrava a prezzo politico, si beveva a prezzo politico, e si faceva l’amore in modo impolitico. I gruppi rock and reggae giravano, i rapper delle posse inventavano, mezzo in dialetto e mezzo no, e la gente ci andava. Il Leoncavallo a Milano con tutti i guai giudiziari era solo un caso estremo, a Roma c’era il Villaggio Globale sempre pieno, le macchine parcheggiate fino al Lungotevere ogni sabato. C’era una volta il «centro sociale occupato/ e mo c’o cazz ce cacciate» (99 posse) e adesso a girare per gli stessi posti e gli stessi quartieri si incontrano posti riconvertiti, con un grado di confort maggiore, per esempio certe librerie/vinerie dove entri e senti (questa volta sì), l’aria ideologizzata, in genere sintonizzata sul clima di Sinistra critica. Sinistra va bene, ma «critica”» non tanto ti va giù, sa di critica di tutto. Tipo: «Andiamo al cinema?»; «Ma....»; oppure: «Ci beviamo una birra?»; «Ma...». Sui centri sociali non abbiamo molte speranze ormai, adesso che anche Manu Chao li ha abbandonati. Ma continuiamo a sperare per la sinistra, noialtri impolitici cattolici meridionali. E speriamo che arrivino presto alla critica della critica, cioè tornino felicemente acritici e ricomincino a fare rap.

A

La via crucis del Duca bianco Word On A Wing, col pianoforte suonato da Roy Bittan (preso in prestito dalla EStreet Band di Bruce Springsteen) in primo piano; l’eleganza sgangherata di TVC15, con le sue bizzarre virate nell’honky-tonk; l’alchimìa di funk, soul e hard rock che riempie Stay fino all’orlo; l’epilogo, ardentemente romantico, di Wild Is The Wind: scritta nel ’56 da Ned Washington e dal compositore Dimitri Tiomkin, già tema conduttore dell’omonimo film western. Poi c’è la tournée, che culmina nel concerto del 23 marzo ’76 al Nassau Coliseum di Uniondale, nello Stato di New York. Bowie, scheletrico dandy dai capelli impomatati, indossa pantaloni neri, gilet, camicia immacolata. Sembra un cantante di kabarett della Repubblica di Weimar. Si fa precedere da una sequenza di Un chien andalou, il cortometraggio muto di Luis

Buñuel e Salvador Dalí. Poi, accompagnato da Carlos Alomar e Stacey Heydon (chitarre), George Murray (basso), Tony Kaye (tastiere) e Dennis Davis (batteria), serve su un piatto d’argento le vertigini di Station To Station e il rock and roll di Suffragette City, Queen Bitch e Panic In Detroit; declina i Velvet Underground di Waiting For The Man e dipinge Rebel Rebel di rhythm & blues; schiaffeggia il funk con Fame e Stay; fa l’entertainer con TVC15 e il visionario con Diamond Dogs; distilla ineffabili melodie con Life On Mars?, Changes, Five Years e Word On A Wing. Alla fine, con The Jean Genie, si mette a cavalcare il rock-blues. Sta per uscire dal suo anno sabbatico, il Duca Bianco. C’è Berlino, ad attenderlo. Dal ’77 al ’79, risorgerà definitivamente con Low, Heroes e Lodger, complice Brian Eno. Ricorderà Station To Station come «un’opera tenebrosa concepita da un uomo totalmente diverso». Ma una tappa fondamentale della sua carriera. David Bowie, Station To Station + Live Nassau Coliseum ’76, Emi, 21,90 euro

Quel genio (trascurato) di Art Tatum di Adriano Mazzoletti er tutti, musicisti, critici e storici, è stato il più grande pianista di tutti i tempi. Unica voce controcorrente quella di André Hodeir, uno studioso francese che in un famoso saggio pubblicato nel 1955 - un anno prima della morte di Tatum - sulla rivista americana Down Beat, apriva una discussione riferendo anche l’opinione di Lucien Malson, altra personalità della critica francese: «Un solista brillante come Art Tatum, le cui“improvvisazioni”seguono un lavoro di preparazione alquanto evidente appare come un professore che, nello svolgere una serie di scintillanti dimostrazioni alla lavagna, con un colpo di spugna annulli quella appena terminata per affrontarne un’altra di soggetto del tutto differente. Tatum ha tutti doni possibili, fuorché quello della continuità». Le reazioni furono violente. Hodeir dovette af-

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frontare pesanti critiche provenienti non solo dai colleghi, ma anche e soprattutto dai musicisti, soprattutto quelli che avevano suonato con Tatum. Ciò che colpì sfavorevolmente fu la l’affermazione che le «improvvisazioni» fossero preparate. Il chitarrista Everett Barksdale che suonò a fianco di Tatum per un decennio, smentì drasticamente Hodeir: «Art diceva sempre che non“udiva”in anticipo ciò che si accingeva a suonare, ma che si limitava a “sentirlo”e, poiché gran parte di ciò che facevamo era improvvisato, qualche volta se ne usciva con delle trovate che mi lasciavano disorientato». Altri come i chitarristi Oscar Moore e Tiny Grimes hanno più volte affermato che «l’assoluta imprevedibilità delle sue improvvisazioni ci metteva spesso in difficoltà». Chi invece eresse a Tatum un vero e proprio monumento fu Norman Granz. Fra il 1953 e il ’56, il celebre impresario americano, che aveva costituito anche una

casa discografica, la Verve, pubblicò un numero impressionante di incisioni che apparvero con il titolo The Genius of Art Tatum in cui il cinquantenne pianista suonò da solo, in trio e con alcuni grandi del jazz come Benny Carter, Ben Webster, Roy Eldridge. Fu probabilmente l’imponente numero di queste incisioni che spinsero Hodeir e Malson a trovare una mancanza di continuità nello stile di quello straordinario pianista le cui caratteristiche erano la grande velocità della mano destra e la grazia e la sensibilità armonica che anticiparono anche le strutture del Bebop. Da almeno vent’anni però la sua popolarità è diminuita.Tutti i pianisti moderni discendono da Bud Powell e Thelonious Monk e dai loro allievi, Bill Evans e McCoy Tyner e in epoca successiva da Keith Jarrett. Mentre la scuola di Tatum si è fermata ad Oscar Peterson. La recente pubblicazione, da parte della Poll Winners, di due cd in cui Ta-

tum suona con Ben Webster e Roy Eldridge e in cui sono state inseriti altri brani in Trio, giungono in un momento in cui il jazz è caratterizzato da una sempre maggiore assenza di musicisti di genio e dimostrano, se ancora ce ne fosse bisogno, il suo grandissimo talento.

Art Tatum-Ben Webster Quartet, Poll Winners; Art Tatum-Roy Eldridge Quartet, Poll Winners, Distribuzione Egea


arti Architettura MobyDICK

uarda l’intimo della cupola, è lì che vedrai meraviglie». Così dice l’Altissimo e Sommo a Maometto, in Il Viaggio Notturno e l’Ascensione del Profeta. «Guardai con attenzione e vidi che la cupola era a portata di sguardo. C’era dentro un’altra cupola fatta di smeraldo verde, e all’interno di questa un divano d’ambra bianca tempestato di diamanti e di pietre preziose». «Il Trono fa da soffitto, l’interno è fatto della misericordia di Dio, gli angeli lo abitano e il Compassionevole è il vicino di casa». La cupola, kubba, è il fiore più prezioso offerto al mondo dall’architettura islamica. Graduale e amoroso adattarsi alla totalità della volontà divina, l’architettura sacra crea uno spazio per la preghiera e per la prostrazione collettiva, fra muqarnas scavate come alveolate absidiole a stalattite e gli orientati mihrab aperti sulla qibla, perpendicolare alla Mecca, i minbar per le predicazioni, giganteschi ivan aperti come nicchie su grandi recinti, elevati minareti -al-manara «torri lucenti», chioschi per le abluzioni e giardini che sono il Paradiso. In poligoni di smalti purissimi parati a cerimonia e mirabili arabeschi, Sacra Scrittura stilizzata, la Geometria fa apparire il divino. Alireza Naser-Eslami ha scritto una storia dell’architettura islamica, la prima in lingua italiana: Architettura del mondo islamico. Dalla Spagna all’India (VII-XV secolo) (Bruno Mondadori, 403 pagine, 38,00 euro). L’autore mostra da subito i limiti di una storiografia eurocentrica, e cristocentrica, che ha limitato, fin dal Medioevo, la piena conoscenza della civiltà islamica e dei suoi capolavori. Questo fondamentale libro mostra gli sviluppi dell’architettura islamica nelle sue differenti qualità, finora nascoste o ignorate, e permette di superare la percezione ottocentesca di tutto il Medio Oriente come un unicum esotico, spaziale e temporale. Errori e omissioni gravi che hanno ritardato, e anche deformato, la comprensione

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Design

Geometrie dell’Islam al servizio del divino di Guglielmo Bilancioni piena dell’Islam, Terra Incognita, e della sua grande arte. In questo studio vengono analizzate le reciproche influenze culturali, fecondazioni incrociate o «contaminazioni» di strati e sedimenti, traversando le quali si perviene a quella «complessa trasformazione sincretica», al «sincretismo come modello progettuale» che ha prodotto edifici meravigliosi proprio in virtù della mescolanza di stili. Il Gotico ad esempio, con i corsi a colori alternati e con gli archi appuntiti: «se ne attribuisce l’invenzione ai saraceni», diceva già Francesco Milizia. Con la precisione che tende alla comple-

tezza, Naser-Eslami studia tutte le tipologie dell’architettura islamica, sacre e secolari: il caravanserraglio, il mercato, la madrassa, la darsena dar as-sina o arsenale, e ospedali, torri, castelli, osservatorî astronomici, mura poderose, riserve d’acqua, i padiglioni che derivano dalle tende regali, i palazzi dei califfi, i giardini, i mausolei e le strutture militari. Questo libro, come gli edifici che studia, è un tesoro di cultura. Offre molte conoscenze: la grandiosa fioritura di forme e la loro ciclica decadenza, il «disuso» che impone trasformazioni alle forme e al significato degli edifici, la raffinatezza lussuosa di

grandi monumenti e gli elaborati assetti urbani, la liturgia e la politica, le tecniche costruttive e l’avvicendarsi di potenti dinastie: gli Omayyadi di Siria, gli Abbasidi della Mesopotamia, i Selgiuchidi, i Fatimidi, gli Idrisidi, i Mamelucchi e gli Ottomani. E i Moghul dell’India. Punto di origine dell’architettura islamica è la Casa del Profeta, attorno alla quale venne tracciato il primo sacro recinto. Fra i numerosi esempi esaminati hanno grande rilievo il Santuario della Ka’ba, che custodisce la pietra cubica nera e velata portata dall’Angelo, la Cupola della Roccia di Gerusalemme, «paragonabile al prestigioso Santo Sepolcro» e modellata nella poligonale concentricità dei Martyria protocristiani, in una di quelle terre-crogiolo dove si fondono, non senza contese, culture differenti: come a Tiro, Antiochia, o Bisanzio. E il leggendario minareto a spirale di Samarra, una città il cui nome significa «gioisce chi la vede», che evoca nella forma l’antico ziqqurrat di Babilonia; la Moschea di Ibn Tulun al Cairo, perfetta geometria con una fonte a cupola che è sintesi di tutte le forme dell’Islam; la Moschea di Cordoba, il cui spazio magico si moltiplica in una «selva di colonne»; e ancora la Cuba di Palermo, la Casa della Gioia a Samarcanda, le Türba, torre-tomba a pianta centrale in Anatolia, e la Moschea di Ahmadabad, nel Gujarat in India, di stile originale e di splendida fattura. Il trattato di NaserEslami infiamma il desiderio di sapere, di viaggiare e di vedere, spinge a venerare la bellezza, e conferma che soltanto il sacro è il «completamente altro». È scritto nel Corano che «Allah ama che quando uno porta a compimento un’opera, la perfezioni», e, sempre e dovunque, l’architetto deve essere «l’umile servitore di Dio».

Mobili, anzi edifici in miniatura: firmati Bugatti n occasione della XXIV Edizione della Rassegna di Antiquariato Nazionale che si svolge annualmente a Vaprio d’Adda, una rara occasione è stata offerta agli amanti del design d’antan. La Villa Castelbarco Albani ha ospitato un evento collaterale: una mostra dedicata a Carlo Bugatti (fino a domani, salvo eventuale proroga), artista mobiliere che merita un capitolo speciale nella storia delle arti decorative italiane del Novecento. Milanese, figlio d’arte (suo padre è Giovanni Luigi, scultore e architetto), già nella seconda metà dell’Ottocento, durante gli anni di frequentazione dell’Accademia di Brera, dimostra una forte inclinazione verso l’architettura che gli suggerisce una visione dell’arredamento come un insieme di edifici in miniatura. I suoi mobili saranno quindi composti da archi, colonne, capitelli, torri merlate, intagli e intarsi secondo una moda eclettica, allora molto in voga, con palesi richiami all’arte orientale. Dopo aver completato la sua formazione presso la scuola di Belle Arti di Parigi è di nuovo a Milano, fre-

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di Marina Pinzuti Ansolini quenta Giacomo Puccini e il pittore Giovanni Segantini; alla fine degli anni Ottanta dal suo laboratorio diVia Castelfidardo, dove si avvale della collaborazione del raffinato ebanista Eugenio Quarti, escono pezzi unici, per i quali il concetto di funzione sarà sempre più pretestuoso. Nel 1902 presenta, alla Prima Esposizione Internazionale d’Arte Decorativa Moderna di Torino, la Toilette, un insieme composto da una sedia e da un piccolo tavolo con specchio. Come in un quadro futurista, attraverso una composizione elegante di archi, cerchi e semicerchi, i due oggetti sono protesi l’uno verso l’altro, creando l’illusione del movimento. Sempre meno «mobili» e sempre più «sculture», le sue creazioni abbandonano la rigida simmetria architettonica degli esordi; le forme sono dinamiche e la realizzazione di altissimo livello artigianale. I materiali rappresentano una vera novità rispetto a quelli della tradizione italiana: cuoio, madreperla, pelle di cammello, avorio, rame, crine, corda e seta.

All’inizio del secolo gli italiani, da sempre appassionati collezionisti ma decisamente conservatori nel gusto dell’abitare, non sono forse ancora pronti ad arredare la propria casa come la tenda di un re berbero. Allora Bugatti si trasferisce in Francia dove già nel 1900 i suoi mobili erano stati premiati all’Esposizione Universale di Parigi. Nel 1907 il mercante d’arte Adrien A. Hèbrard esporrà, nella sua galleria, una serie dei suoi «mobili scultura». Bugatti non è affascinato dalla riproducibilità seriale dell’oggetto, lo immagina piuttosto come un’opera unica; la sua espressione artistica rappresenta quel delicato e complesso passaggio tra la tradizione del passato e il concetto moderno dell’arredamento, passando ancora attraverso l’artigianato. Fu vero designer? La domanda è lecita e la risposta può essere affidata ai collezionisti che oggi si contendono i suoi mobili come delle vere e proprie opere d’arte. Carlo morirà nel 1940 in Alsazia, a Molsheim, dove il figlio Ettore aveva aperto la fabbrica delle rinomate automobili Bugatti (in mostra anche la storica T 23 Brescia). Oltre a una serie completa di mobili, arredi e vetrate firmati da Carlo Bugatti, a Villa Castelbarco sono esposte 500 piastrelle in ceramica provenienti da una collezione privata italiana. Piccole delizie floreali in ceramica create per decorare l’architettura del periodo liberty e provenienti dalla Germania, dall’Inghilterra, dal Belgio e dall’Austria.


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il paginone

Una lettera inedita di Ungaretti ad Alcide De Gasperi emersa dall’epistolario conservato da Un memoriale accorato per chiarire una volta per tutte i suoi rapporti con il fascismo, alla vigil definitiva, affidata al Ministero dell’Istruzione dopo il ricorso di Scoccimarro, sugli esiti del proc

Autodifesa di un po Pubblichiamo il promemoria redatto da Giuseppe Ungaretti per Alcide De Gasperi, emerso dalle trecento lettere di Ungaretti conservate da Leone Piccioni, in allegato a una lettera inviata dal poeta al suo allievo prediletto. L’epistolario è in corso di pubblicazione a cura di Silvia Zoppi Garampi.

di Giuseppe Ungaretti Ad Alcide De Gasperi Presidente del Consiglio dei Ministri Roma, il 7 luglio 1946

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ignor Presidente,

mi permetta di esporLe per dovere alcune osservazioni, prima che venga presa dal Consiglio dei Ministri una decisione nei miei riguardi. La questione fu posta, e doveva essere posta, dalla Commissione d’epurazione. Essa si chiese: era avvenuta la mia nomina a professore nell’Università di Roma per ingerenza indebita delle gerarchie fasciste, oppure era essa realmente dovuta ad alta fama? Su relazione di Luigi Salvatorelli, la Commissione, archiviando la pratica e dichiarando che nessun addebito poteva venirmi mosso, riconosceva la mia alta fama non solo in Italia, ma fuori d’Italia; ma an-

che riconosceva che avevo reso segnalati servizi alla nostra cultura nel Brasile, dove avevo tenuto per cinque anni la cattedra di letteratura italiana all’Università di San Paolo, e che si doveva a me se nell’ordinamento delle Università brasiliane l’insegnamento dell’italiano era stato reso obbligatorio in tutte le facoltà di lettere e nei due anni di scuola preuniversitaria.

Alla constatazione della Commissione d’epurazione aggiungerò che, terminata appena la guerra, e in occasione della solenne distribuzione delle lauree ottenute quell’anno all’Università di San Paolo, il deputato a prendere la parola a nome dei neolaureandi, Paolo Emilio Salles Gomes, consacrava, per in-

carico preciso dei suoi compagni, il suo discorso a fare l’elogio dell’opera incancellabile che avevo svolto in Brasile. La sentenza della Commissione d’epurazione venne confermata dai giudici di secondo grado.

Non sono un giurista, ma credo che a questo punto la questione nei miei riguardi dovesse ritenersi chiusa. È sempre stato in facoltà del Ministro fare nomine per alta fama, e Flora, uno dei due periti (l’altro era Pancrazi)

chiamati dal Consiglio Superiore a pronunciarsi sul mio caso, pare osservasse nella sua relazione che un Ministro tanti anni fa, credo Ruggero Bonghi, ne nominasse addirittura un’infinità in una volta.

I retroscena. Il ruolo del comunista Mauro Scoccimarro, commissario per l’epurazione

Il mondo diviso in buoni e cattivi lla caduta del fascismo, il governo del Cln avviò una resa dei conti con il regime mussoliniano che passava anche attraverso la ricerca delle responsabilità individuali di chi si era eccessivamente compromesso con esso. Venne istituito per questo l’Alto commissariato per le sanzioni dei reati fascisti. Vennero passate al vaglio le responsabilità dei gerarchi e dei politici, e il grado di compromissione con il regime da parte degli intellettuali. Particolare attenzione venne riservata a coloro che, secondo le accuse, avevano fatto carriera e avevano ricevuto riconoscimenti e prebende a fronte del loro attivismo a sostegno del regime. Per i colpevoli vi era l’e-

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anno III - numero 38 - pagina VIII

di Mauro Canali purazione, cioè l’allontanamento da qualsiasi incarico che costoro avessero in precedenza ricoperto nella pubblica amministrazione. Naturalmente anche i docenti universitari vennero passati al setaccio e molti di loro vennero in prima istanza epurati. Occorre anticipare che, passata la prima fase di furore epurativo, alla fine nessuno pagò per il proprio passato. Tutti colpevoli e nessuno colpevole. L’amnistia Togliatti del giugno 1946 venne a sanare tutto e, sull’onda della necessità di una riconciliazione nazionale, si passò un colpo di spugna su provvedimenti epurativi e su procedimenti e sanzioni penali.

La vicenda di Ungaretti è molto significativa del momento storico per diversi motivi. L’iter epurativo nei confronti di Ungaretti era stato avviato nel luglio del 1944, quando l’allora ministro della Pubblica Istruzione del

governo Bonomi, Guido De Ruggiero, aveva firmato il decreto di sospensione di Ungaretti dall’insegnamento presso l’Università di Roma, poiché, - come sosteneva l’accusa egli era stato nominato senza concorso e senza che venisse raccolto il parere della Facoltà. Si adombrava, tra i motivi della nomina, la sua antica amicizia con Mussolini, che risaliva al primo dopoguerra. Pronta era stata la replica del poeta, che, in un memoriale difensivo presentato in agosto, sosteneva che la nomina era venuta con l’applicazione della legge Casati che prevedeva appunto tale riconoscimento per personalità intellettuali in possesso di chiara fama e competenza nella materia. In questo caso, celiava Ungaretti, si trattava di «fama e competenza che da nessuno può essermi negata». Ungaretti ricordava anche di aver preso a un certo punto le distanze dal regime a causa delle scelte sciagurate di Mussolini relative alle leggi razziali e alla decisione di far entrare il Paese in guerra. La commissione di prima


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Leone Piccioni. lia della decisione cesso di epurazione

oeta

Sulle mie doti di insegnante, che solennemente mi furono riconosciute dai miei colleghi e dai miei discepoli dell’Università di San Paolo (un’Università di prim’ordine, dove hanno insegnato o insegnano, accanto a professori

Quella “perla” di Pancrazi iuseppe Ungaretti fu nominato negli ultimi anni del fascismo (lui reduce dal Brasile) per «chiara fama» professore all’Università di Roma per la letteratura moderna e contemporanea. Fu sottoposto a processo di epurazione per la sua adesione al fascismo e l’amicizia con Mussolini che risaliva al tempo dell’intervento nel 1914. Fu assolto da ogni addebito. Ma entrò in funzione il Consiglio Superiore del Ministero dell’Istruzione per decidere di annullare questa nomina (e anche quella di Giuseppe De Robertis che era un caso analogo). Il ministro dell’Istruzione Guido Gonella saggiamente non tenne conto della decisione del Consiglio Superiore e demandò alle singole facoltà universitarie la decisione di confermare o meno le nomine di Ungaretti a Roma e di De Robertis a Firenze. Le facoltà decisero che i due professori rimanessero all’insegnamento. Ungaretti si difese anche se preso da forte scoramento. In una lettera ai primi di luglio del ’46 mi scriveva: «Tutta questa iniqua faccenda è stata architettata dai De Ruggero e dagli Omodeo (studiosi di origine crociana e militanti nel Partito d’azione, pur criticato dallo stesso Croce, ndr) che volevano diventare i dittatori della scuola. Si sono aggregati - siccome di Letteratura Contemporanea non c’era nessuno a saperne

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tra i migliori delle nostre università, insigni maestri tedeschi, ebrei rifugiati, francesi, portaghesi), non si pronuncerebbero diversamente gli studenti romani, per i quali sono uno dei professori più amati, che vengono in gran numero ad assistere alle mie lezioni, tenute nell’aula magna della facoltà, che si presentano agli esami della mia materia (circa 80 quest’anno), che preparano accuratamente con me tesi di laurea, fra le quali alcune condotte con novità di metodo critico e profondità di gusto. L’istituzione della mia cattedra fu richiesta per pressione dell’opinione pubblica. Essa è sorta a

istanza chiamata a decidere su Ungaretti era costituita da tre personalità, tra le quali spiccava lo storico Luigi Salvatorelli, designato a quel ruolo dal commissario per l’epurazione, il comunista Mauro Scoccimarro. Nel novembre del 1944, la commissione decise per l’archiviazione degli atti, perché nessun addebito poteva essere mosso al professor Ungaretti. Salvatorelli in particolare non riteneva che le espressioni di ammirazione e talvolta di esaltazione del fascismo indubbiamente manifestate da Ungaretti potessero rientrare nella categoria dell’apologia di regime. La sentenza sollevò le ire di Scoccimarro che, convinto della fervida adesione di Ungaretti al fascismo e della nomina a docente di carattere politico, la impugnò presentando ricorso, nel gennaio 1945, contro di essa. Scoccimarro sottolineava che la nomina di Ungaretti era stata decisa da Mussolini in persona, e ricercava i motivi di essa nel lungo periodo, 1936-1942, trascorso da Ungaretti in Sud-America, come docente di letteratura italiana all’Università di San Paolo, nel corso del quale maggiormente, secondo Scoccimarro, il poeta si era compromesso nella propaganda a favore del regime fascista. A prova di ciò, Scoccimarro esibiva lettere dal Brasile di Ungaretti a Bottai, Galeazzo Ciano e Federzoni, nelle quali il poeta cal-

nulla al Consiglio Superiore - per il caso di De Robertis e mio, quella perla di Pancrazi con i suoi rancori da sfogare: il rancore specialmente di non essere mai stato preso sul serio come critico da nessuno in Italia». A queste righe Ungaretti allegò il promemoria per Alcide De Gasperi del 7 luglio 1946 qui pubblicato. P.S. Non sorprenda la candida espressione di Ungaretti quando si definisce «forse il maggior poeta vivente». Un grande poeta deve essere sicuro della sua forza. Ne erano giustamente sicuri in quegli anni Montale, Saba e altri. Altrimenti perché rinunciare a una vita comoda e senza pensieri, perché soffrire sempre entro se stessi e per gli altri, perché sostituire il sonno a una veglia sempre pronta a illuminarsi nelle tenebre per far scattare l’ispirazione, perché sacrificare all’ispirazione stessa il quieto pensiero, perché tanto amore da soffrirne dentro e da distribuire al mondo intero? Del resto Carlo Ossola nella sua introduzione al nuovo Meridiano Mondadori del 2009 sulla poesia di Ungaretti indicando, a suo parere, i quattro poeti più grandi del secolo, nominava proprio Ungaretti.

Leone Piccioni

somiglianza di quelle già esistenti in Università straniere, e che dovunque hanno dato ottimi risultati. Esse vengono affidate a scrittori che, sulla base dell’arte da essi esercitata e dalla dimostrata diretta conoscenza delle lingue e delle letterature straniere contemporanee, siano in grado di recare sui fatti letterari, tecnici e spirituali, un’esperienza sofferta.

Così furono nominati Valéry al College de France, Eliot in Inghilterra. Non era cattedra che sorgeva in contrasto con altre, di carattere necessariamente più filologico, ma che veniva a inte-

deggiava una sistemazione in una università italiana. Scoccimarro esibiva anche le prove del pagamento mensile da parte del Minculpop di 1500 lire a favore del poeta per un arco di tempo che andava dal 1934 al 1942.

Questa volta, nella replica a Scoccimarro, Ungaretti dovette affrontare la questione dei finanziamenti ricevuti. Questione che nel precedente memoriale aveva prudentemente taciuto. E non poté che rifarsi ai sistemi di finanziamento del Minculpop, sostenendo, con non poche ragioni, che tali finanziamenti erano stati elargiti a quasi tutti gli scrittori e gli artisti, per la maggior parte «persone onorevolissime». E quindi le sovvenzioni non potevano rappresentare un capo d’accusa serio. In realtà, Scoccimarro sbagliava a insistere nell’accusa che il denaro era stato elargito «ai servi più fedeli del regime», poiché troppo esteso era il numero dei beneficiati per poter concludere che si trattasse di tutti servi fedeli. Naturalmente vi era nella visione del dirigente comunista un errore di prospettiva che gli impediva di comprendere la natura totalitaristica del fascismo e la sua capacità di penetrare in tutti gli strati della popolazione. Inoltre vi era la volontà testarda e assurda di giudicare il mondo in modo ma-

grarne la funzione educativa. Sulla mia eccezionale competenza dal lato tecnico e spirituale della materia ch’ero chiamato a insegnare, cioè la letteratura romantica e contemporanea che le necessità della mia espressione poetica mi portavano a studiare, nelle sue manifestazioni italiane e nelle sue manifestazioni straniere, attraverso saggi e traduzioni, nessuno, credo, potrebbe in buona fede, muovere contestazione. Lo prova il fatto che fui chiamato a dirigere per cinque anni, fino alla cessazione delle pubblicazioni al momento dell’occupazione tedesca della Francia, la rivista Mesures, che

nicheo, in cui da una parte vi erano i buoni antifascisti e dall’altra i rei, cioè tutti coloro che avevano avuto in qualche modo rapporti col regime. Ungaretti era stato naturalmente un fascista convinto, ma certo non un fanatico e un apologeta del regime. Era stato fascista come lo erano stati quasi tutti gli intellettuali vissuti sotto il regime mussoliniano e che con esso avevano dovuto in un modo o nell’altro convivere o scendere a patti, chi più che meno in modo convinto. Era opera alquanto velleitaria cercare di perseguire e punire chi si era sentito almeno una volta vicino al regime, chi aveva simpatizzato per esso. Tanto più che nello stesso partito di Scoccimarro, il Pci, non pochi erano i militanti intellettuali con trascorsi fascisti, in alcuni casi più imbarazzanti di quelli di Ungaretti.

fu la principale rivista internazionale di studi estetici e di documentazione letteraria uscita negli ultimi cinquant’anni. La condirigevano insieme a me, uomini come Jean Paulhan, Bernard Groethuysen, Henry Church, Henry Michaux.

Confermando che la cattedra era stata reclamata per me dall’opinione pubblica, lo prova anche il fatto che i principali scrittori e critici italiani senza distinzione di partito (dai comunisti ai liberali) hanno chiesto recentemente con lettera al Ministro dell’Educazione che fossi mantenuto al mio posto e fosse mantenuto al suo De Robertis. Dico tutti i principali critici (da De Benedetti a Apollonio, da Solmi a D’Amico, da Bo a Bellonci, da Anceschi a Falqui, da Contini a Luzi, da Macrì a Cavazzeni, da Gatto a Ferrata, ecc.), compreso uno dei due periti nominati dal Consiglio Superiore, Francesco Flora, il quale mi fece dire che non firmava la lettera, data la delicatezza della sua posizione verso il Consiglio Superiore (s’era del resto astenuto d’intervenire alle sedute, ma l’approvava). Non ho da insistere sulla mia alta fama di poeta. Le richieste che mi giungono da riviste di ogni Paese per la pubblicazione di cose mie tradotte, le prove di deferenza che continuamente ricevo da parte di eminenti personalità di ogni Paese, ne sono quotidiana testimonianza. Mi permetta solo, Signor Presidente, di rivolgermi la domanda se può recare giovamento all’Italia diminuire moralmente e danneggiare, nella difficile vita economica della sua famiglia, un uomo che da molti critici nel mondo è considerato come forse il maggior poeta vivente. Ho fede nella sua giustizia e in quella del Consiglio dei Ministri. In alto, un soldato guarda un’immagine sfigurata di Mussolini. A sinistra, Giuseppe Ungaretti. Sotto, Alcide De Gasperi


Narrativa

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l linguaggio è apparente neutro o distaccato, ma pagina dopo pagina si comprende che è questo lo strumento più efficace, e anche letterariamente alto, per descrivere la vita quotidiana. In queste vicende, poco importa se ambientate negli Stati Uniti e non in Europa, ci siamo noi, tutti noi: con la fatica del vivere, le piccole gioie, i ricordi, i rimpianti, le sopportazioni, la volontà di andare avanti. Ma soprattutto con la straordinaria capacità di circoscrivere emotivamente quanto accade o può accadere tra le persone, spinte dalle circostanze a esprimersi con una sessualità che non è mai violenta o narcisistica, semmai rispondente a bisogni ficcati nel fondo dell’anima. L’autrice di questa serie di racconti inanellati dal leit motiv cui ho accennato è Amy Bloom, che insegna scrittura creativa alla Yale University ed è stata finalista al National Book Award con Come me (la Einaudi ha pubblicato di recente il suo Per sempre lontano). Come si intuisce facilmente dal titolo (Dove si aggira il Dio dell’amore) è quel che si chiama amore e ha mille sfaccettature ad attraversare le istantanee di vita ordinaria. Nel racconto Lionel e Julia si parla d’una donna, Julia appunto, rimasta vedova di un musicista di colore (lei è di origini italiane, e bianca). Rimane con il figlio naturale e con Lionel junior, nato dal precedente matrimonio del coniuge. I funerali non sono cosparsi di lamentazioni. Al contrario, viene posta in evidenza l’accanita volontà di tirare avanti, di vivere guardando il mondo pur nella consapevolezza che la vedovanza è ferita sempre aperta («Mi dico che non sto aspettando nessuno, è solo che non sono ancora sveglia»). Se il figlio più piccolo, Buster, ha bisogno di piangere sul grembo della mamma, che lo coccola, l’altro, diciannovenne, ha sbandamenti tipici dell’adolescenza. Compresi quelli che lo portano ad agire con la madre adottiva in modo non del tutto intimamente corretto. Ma Julia com-

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libri

Amy Bloom DOVE SI AGGIRA IL DIO DELL’AMORE Neri Pozza, 243 pagine, 16,00 euro

Una specie di amore chiamato

famiglia

La fatica del vivere, gioie, rimpianti, sopportazione e la volontà di andare avanti nei racconti “americani” di Amy Bloom

Autostorie

di Pier Mario Fasanotti

prende, così come comprende la propria nostalgia verso la giovane età. Tenta di allontanarlo di casa, per il suo bene, e alla fine, con estrema dolcezza, riesce nell’intento: sarà il ragazzo a decidere di andare a studiare a Parigi. L’episodio scabroso è vissuto e ricordato come appartenente ai milioni, e tutti diversi, casi della vita. La stessa descrizione dell’accaduto allontana, senza peraltro annullarlo, quel pizzico di «orrore» che altri, forse, denuncerebbero con parole enfatiche: «Lion alzò la testa e mi fissò, gli occhi come pozze di caffè che brillavano alla luce della luna. Mi sfiorò la guancia, poi mi diede un bacio e il mio cervello smise di funzionare. Chiusi gli occhi». Nel racconto intitolato Da qui a qui c’è il ritratto di una famiglia della middle class americana ove comanda il marito e padre, sgarbato, insensibile, fortemente egotico. La figlia Alison confida il desiderio di vederlo morto: sarebbe una liberazione per la madre che vive sopportando, immersa com’è nella dolorosa accettazione di un destino. Ma è la madre a morire per prima. Alison e il fratello si occupano a distanza del benessere di un uomo che invecchia inacidendosi, che non riesce a considerare gli altri come persone indipendenti e buone ma solo se stesso e le sue piccole e arroganti esigenze. Un borghese di basso profilo che fa un dramma se le costolette d’agnello non sono cotte a puntino. Quest’uomo ha inciso troppo, e ovviamente male, sulla crescita dei figli. Una famiglia che poi non è tanto diversa da altre, un’America normalmente odiosa, mediocre, disgregata nel suo nucleo fondante. Anni dopo Alison torna periodicamente nella casa dei genitori per verificare se il padre, assistito da una ordinatissima badante polacca, stia bene e abbia tutto il necessario. Gli parla, con la disinvoltura dettatale dall’età: «Noi cerchiamo di essere gentili con te. Ci proviamo, ma non è facile, perché sei un egoista anafettivo, un figlio di puttana più freddo ed egocentrico che abbia mai conosciuto. Ci sforziamo in ricordo di nostra madre». Quando la polacca deve assentarsi, è lei a preparargli pranzo e cena. Lui riconosce la premura con un vago «sei una brava ragazza». Tutto qui. Il fratello non si fa illusioni, non ne ha mai avute d’altronde. E il «papà cattivo», in una delle rarissime riflessioni sulla propria vita, conclude una sera: «Be’, siamo stati una famiglia fortunata… la gente divorziava a destra e a manca… sai, alle feste o roba del genere ripetevo sempre: “Questa è la mia moglie originale”. Siamo stati fortunati». Lui sì, gli altri molto meno.

Peugeot, un’avventura lunga duecento anni li entusiasmi suscitati, sul finire dell’Ottocento, dalle prime quattroruote a motore portarono in pochi anni al proliferare di molti costruttori. Diversi poi scomparsi, mentre alcuni hanno tagliato un traguardo centenario, come è accaduto quest’anno ad Alfa Romeo; dopo la fondazione, nel 1910, di quell’Anonima Lombarda Fabbrica Automobili la cui originaria sigla fu associata, nel 1915, al cognome del nuovo proprietario Nicola Romeo. Vi è però una casa, nell’intero panorama automobilistico mondiale, che nel corso del 2010 si è permessa di celebrare ben due secoli di storia: apparente paradosso temporale ma inattaccabile record industriale, legato a una vicenda che prende l’avvio in una regione collinare della Francia nord-orientale, solcata da fiumi la cui corrente turbinosa fornisce energia alle attività molitorie. In questo contesto operano i fratelli Peugeot, che nel 1810 decidono di trasformare il mulino di famiglia in industria metallurgica, mettendo a punto un innovativo sistema di laminazione a freddo che permette di realizzare attrezzi da lavoro e per l’agricoltura,

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di Paolo Malagodi ben presto ricercati anche all’estero per robustezza e durata.Vengono così aperte nuove fabbriche e a cavallo del 1850 compare sui prodotti dell’azienda il marchio del «leone», destinato a distinguersi in vari settori. Il primo approccio, nel 1882, fu con la mobilità delle persone e con la presentazione di un velocipede a ruota anteriore alta, presto seguito da una più moderna e agile bicicletta con trasmissione a catena e dotata di cambio di velocità a due o tre marce, mentre le opzioni comprendono manubrio piatto o sport, copricatena e sterzo con cuscinetto a sfere, sella rigida o a molle. La diffusione della bicicletta inizia però a essere affiancata dall’applicazione di motori sia a vapore sia a scoppio ed è Armand Peugeot a installare, nel 1889, una piccola caldaia a vapore su un triciclo a due grandi ruote posteriori. È la Peugeot Tipo 1 che se non raccoglie consensi apre la strada alla prima vera automobile della casa francese: un quadriciclo biposto, con motore a petrolio della tedesca Daimler che sospinge

Il successo della marca francese dal mulino di famiglia a un futuro tutto elettrico

la Tipo 2, subito evoluta in una quattro posti denominata Tipo 3, della quale si avvia la produzione in piccola serie dal febbraio 1892 e per un totale di sessantaquattro esemplari. Tra questi figura la prima vettura circolante in Italia, condotta da Gaetano Rossi sulle strade della provincia vicentina in avvio del 1893 e oltre sei anni prima della nascita, nel luglio 1899, a Torino di Fiat. Il successo della marca francese è accompagnato, nel 1896, dal primo motore di progettazione propria e alla morte di Armand, nel 1915, Peugeot è ormai una grande industria, destinata a svilupparsi sotto l’egida della stessa famiglia fondatrice sino a figurare tra i massimi produttori automobilistici del mondo e con una produzione che si evolve oggi verso l’ibrido e il tutto elettrico. Come ben documenta uno splendido volume (Moments choisis, ed. L’Aventure Peugeot, 246 pagine di grande formato, 39,00 euro) curato da JeanLouis Loubet, docente di storia contemporanea, con la collaborazione di vari autori. Per un testo di piacevole lettura e riccamente illustrato, che può essere richiesto via web (www.boutiquemusee.peugeot.com) nell’edizione italiana, rivista da Fabrizio Taiana quale segretario del Club Storico Peugeot Italia.


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poesia

23 ottobre 2010 • pagina 19

Il cuore indomito di Carducci di Filippo La Porta robabilmente non c’è poeta di cui io, e molti altri miei coetanei, abbia mandato a memoria tanti versi come Carducci! Ora, può darsi che oggi il Carducci più interessante sia quello ultimo, delle Odi barbare, in cui sdogana il verso libero, ma non potevo evitare di scegliere una poesia tratta dalle precedenti Rime nuove, che ogni tanto, nei momenti più imprevedibili, mi canticchio tra me e me - Davanti San Guido -, quella che comincia con la celebre quartina «I cipressi che a Bólgheri alti e schietti/ Van da San Guido in duplice filar,/ Quasi in corsa giganti giovinetti/ Mi balzarono incontro e mi guardâr». Carducci è un poeta per definizione memorabile. Come scrisse perfidamente Carlo Dossi nelle Note azzurre «la forza che molti vantano della poesia di Carducci è di quelle imparate a memoria». Anche perciò la sua poesia conserva così spesso un sapore scolastico. Più tardi ho cominciato a ridimensionarla drasticamente, anche perché la mettevo a confronto con quella coeva del simbolismo, con I fiori del male di Baudelaire, che escono nel 1852, mentre appena quattro anni dopo Carducci conclude la sua Alla musa odiernissima (Juvenilia), con questi versi rivolti contro la poesia che rivendica il «brutto» e il deforme: «or ti/ conosco io tutta,/ O barattiera svergognata putta./ Deh via, sudicia e brutta,/ Lascia, via, di menar tanto fracasso;/ Uccella a’ barbagianni, e statti in chiasso».

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Perfino il suo radicalismo roboante a favore della Rivoluzione francese (si veda Ça ira, dove «Udite, udite, o cittadini. Ieri» riecheggia involontariamente il più bel verso della poesia italiana secondo Saba: «Udite udite del mio cor gli affanni» dall’Ernani verdiano), la sua fama di repubblicano mangiapreti che denuncia il tradimento degli ideali risorgimentali, avevano a ben vedere un segno moderato. Perfino la celebre A Satana rivela una fiducia nelle magnifiche sorti. Se si pensa alla sua irresistibile vocazione pubblica me lo immagino come un coerente Foscolo di fine Ottocento. Anche in poesia l’avversione al sentimentalismo romantico non era disgiunta dalla condanna degli eccessi scapigliati. Dunque, poeta professore (Nicola Merola ha osservato che tutti i poeti italiani fine-secolo sono professori, di università, di liceo o anche mancati come D’Annunzio, che pure si presentava come «sgobbone»), abile e pedante metricologo, cantore della classicità (si legga al-

il club di calliope

DAVANTI SAN GUIDO (…) O nonna, o nonna! deh com’era bella Quand’ero bimbo! ditemela ancor, Ditela a quest’uom savio la novella Di lei che cerca il suo perduto amor! (…)

meno l’ode Alle fonti del Clitunno), senatore Deh come bella, o nonna, e come vera a vita, premio Nobel. L’uomo tende a sparire dietro il monumento a se stesso. La sua vita È la novella ancor! Proprio così. affettiva, appassionata e dolente (disseminaE quello che cercai mattina e sera ta di lutti), quasi si dissolve nello sterminato repertorio di metri (classici e moderni) che Tanti e tanti anni in vano, è forse qui, volle dispiegare: distici elegiaci o pitiambici, strofe saffiche, alcmanie, alcaiche... Eppure non tutta la sua opera andrebbe relegata enSotto questi cipressi, ove non spero, tro un ambito nobilmente «istituzionale» (quella in prosa meriterebbe un discorso a Ove non penso di posarmi più: parte: alcuni saggi sulla letteratura italiana Forse, nonna, è nel vostro cimitero sono straordinari). Fin dall’inizio in Carducci accanto alla figura del vate (ripieno di eruTra quegli altri cipressi ermo là su. dizione) e dell’eroe civile, c’è quell’altra, di misantropo refrattario alla mondanità e al «chiasso», nostalgico della sua Maremma, Ansimando fuggìa la vaporiera degli animali domestici come il mite bue e Mentr’io così piangeva entro il mio cuore; l’umile asino, tutto ripiegato su una dimensione intima - di amori segreti e trepidi - o ciE di polledri una leggiadra schiera miteriale. I versi che ho scelto - a testimoAnnitrendo correa lieta al rumore. nianza della sua vena malinconico-intimistica - sono di una sincerità disarmata, e forse anche Battiato si sarà ricordato nella sua canzone di quel «perduto amor»... Ma un asin bigio, rosicchiando un cardo Nella celebre Alla stazione (1875), dalle Odi Rosso e turchino, non si scomodò: barbare, che è una poesia d’amore per Lidia, ossia Carolina Cristofori Piva (moglie Tutto quel chiasso ei non degnò d’un guardo di un garibaldino), Carducci percepisce se E a brucar serio e lento seguitò stesso come un fantasma, e la realtà intorno a lui come fantasmatica («il cielo e il mattino Giosuè Carducci d’autunno/ come un grande fantasma m’è intorno»). Il da Rime nuove Poeta Laureato, la massima autorità letteraria del proprio tempo, che qui canta l’elogio del suo amore proibito (con il petrarchesco ve, o cari, in breve - tu calmati, indomito cuore -/ giù al «stellanti occhi di pace») avverte una silenzio verrò, ne l’ombra riposerò». pulsione regressivo-estatica: alla fine esprime il desiderio di sprofondare in un In una lettera a Lina nel 1875 dopo aver protestato «tedio che duri», in un torpore quieto e sme- contro la condanna «ai lavori forzati della simulazione morato. E chissà che in questi versi il poeta non nelle galere della nostra società», aveva scritto la sua sentisse come evanescente il proprio mondo, quella utopia: «Ecco, una cosa che io dovrei avere: una bella stessa idea di letteratura, di impegno civile. Sempre dal- villa con bosco, lago, cani, asini… lì porterei tutti i miei le Odi barbare trascrivo questi versi di Nevicata (1881), libri, e addio!». In Davanti San Guido quest’uomo dagli che mi evocano indirettamente il bellissimo racconto di ardori foscoliani rievoca da adulto la favola della nonJoyce I morti: «Lenta fiocca la neve pel’ cielo cinereo: na, smarrita tra i cipressi: «come vera è ancora la novelgridi/ suoni di vita più non salgon de la città/ (...)/ In bre- la...». Più vera della Storia e di ogni sfera pubblica.

SEDIA, FORBICI, SCIARPA... GLI OGGETTI IN VERSI in libreria

DONNE Quando le donne ridono mostrano i denti bianchi come perle preziose e allargano le bocche a mezzaluna, rischiarano il buio della notte, o anche il buio in pieno giorno. Il grigio dell’anima che piange vede il sorriso e si ravviva come un uomo che torna a respirare dopo una brutta malattia. Quando le donne sorridono con gli occhi hanno sollevato l’anima dall’affanno che il mondo ha destinato loro. Antonella Berni

certamente originale il libro bilingue Tangible RemainsToccare quello che resta di Barbara Carle, che inaugura una nuova collana di poesia dell’editore Ghenomena di Formia. È un libro sulle cose di cui ci serviamo: sedia, guanciale, forbici, sciarpa, scarpe, finestra, ecc. È un libro curioso che si può quasi intendere come un gioco enigmistico, perché le poesie non sono titolate e quindi si può cercare di indovinare a cosa l’autrice si riferisce. Ma, attenzione, non è un libro che sa di divertissement, sono poesie che ci calano nella quotidiana vita, nel bisogno di strumenti necessari, nella dimensione semplice delle necessità; ma pure dicono del fluire del tempo. Quella tenaglia che ci incalza e a cui paradossalmente loro, le cose, in buona parte è destinata a resistere. Sono le «reliquie che esistono da centinaia o migliaia di anni e sono sopravvissute ai vari crolli delle civiltà» e che, intatte o logorate, conservate o meno, ci sopravanzano da generazioni e sono la testimonianza di una applicazione umana infinita.

È


Teatro Nel nome di Scarpetta per la spina bifida MobyDICK

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spettacoli

di Diana Del Monte

abato prossimo, 30 ottobre sarà la Giornata nazionale della spina bifida e idrocefalo, momento dedicato all’informazione e all’aggiornamento sull’evoluzione della ricerca in questo ambito. Per l’occasione, l’Associazione «La strada per l’arcobaleno» Onlus ha organizzato una raccolta di fondi affidandosi all’arte teatrale del celebre comico Eduardo Scarpetta e alla sua più fortunata commedia ‘Na santarella. Presso il Teatro Auditorium San Leone Magno, dunque, andranno in scena le disavventure della maschera resa celebre dal comico napoletano, Felice Sciosciammocca, alle prese con i ricatti della giovane di Nannina, detta Santarella. ‘Na santarella, rappresentata per la prima volta il 15 maggio 1989, è stata senz’altro una delle commedie che ha dato a Scarpetta il maggior successo di pubblico. La gratitudine per i lauti guadagni derivanti dalla commedia fu tale che Scarpetta pose all’ingresso del palazzo di sua proprietà nel centro di Napoli tre statue raffiguranti i personaggi principali della commedia. Rappresentata al teatro Sannazaro di Napoli per centodieci sere consecutive, la commedia è entrata nella storia anche grazie a Villa Santarella, la piccola Versailles di Scarpetta, che l’attore e autore napoletano si fece costruire con i proventi della commedia, in cima alla collina del Vomero con la facciata rivolta verso il mare; «nu comò sotto e ‘ncoppa!», la definizione di Scarpetta per l’aspetto dell’edificio, caratterizzato da quattro torrette poste ai quattro angoli, con la dicitura incisa nel granito del portale della villa, «Qui rido io», hanno fatto il giro del mondo incre-

S

Televisione

DVD

CHELSEA HOTEL, L’ARTE È PASSATA DA QUI lla numero 100 finì nel sangue la storia di Sid Vicious e Nancy. Alla 822 una giovane e pressoché sconosciuta Madonna accalappiò Basquiat. E al piano di sotto, strimpellava un certo Bob Dylan. Sono molte le vite transitate al Chelsea Hotel, albergo bohemienne costruito sul finire dell’Ottocento a New York. Un luogo di arti e perdimenti, che un grande irregolare come Abel Ferrara racconta in Chelsea on the rocks attraverso filmati d’archivio, interviste e testimonianze degli ospiti celebri. Lavoro prezioso: Ferrara ci porta nella reception dell’arte contemporanea.

A

PERSONAGGI

TALENT-SHOW IDIOTI, L’INVETTIVA DI SIR JOHN mentando il mito di questo «re borghese». Lì, Scarpetta organizzava feste memorabili, come quelle in onore della figlia Maria, che si concludevano a mezzanotte con degli spettacoli pirotecni offerti dal commediografo ai suoi ospiti e a tutta la cittadinanza. «Io so’ Sciosciammocca», dichiarava esplicitamente Scarpetta. Il personaggio protagonista di tante commedie napoletane, inclusa ‘Na santarella, è stato interpretato per la prima volta da Scarpetta in un’opera di Antonio Petito - Totonno ‘o pazzo - al fianco della maschera di Pulcinella. Sciosciammocca entra nella tradizione napoletana in un momento di profondo mutamento della gestualità teatrale partenopea, volta a rispondere alle nuove esigenze estetiche, più pacate e moderate, della borghesia di fine Ottocento. Il nome Sciosciam-

mocca, che letteralmente significa «soffia in bocca», descrive un personaggio un po’ svampito, credulone, che cerca di districarsi da una serie di equivoci e di guai nei quali viene immancabilmente a trovarsi. Al centro di numerose farse, Sciosciammocca, oltre al volto di Scarpetta, ha avuto le sembianze di Eduardo De Filippo, figlio naturale di Scarpetta, e di Totò che nella versione cinematografica della commedia scarpettiana Miseria e nobiltà, interpretava proprio il ruolo che fu del grande drammaturgo. I proventi dello spettacolo andranno a sostenere le attività della «Strada per l’arcobaleno»; istituita nel 1992, l’associazione opera in stretto contatto con il Centro spina bifida del Policlinico Gemelli per promuovere la prevenzione, la cura e la riabilitazione di questa grave patologia.

reality ti proiettano subito nello stardom, ma non ti danno gli strumenti: l’unico modo per reggere alla fama è fare gavetta nei piccoli locali e conquistarsi ogni piccolo successo». Contro il dilagare del collaborazionismo catodico, Elton John racconta il suo disprezzo per i talent show in un’accesa intervista a una radio britannica. Una filippica senza risparmio che denuncia lo scadimento del pop a genere senza più inventiva. Colpa degli autori («oggi fanno pietà»), e di una televisione sempre più omologata da format narcotizzanti che sfornano semplici interpreti in balia dei brani altrui, e incapaci di sviluppare creatività in proprio. Meno male che Elton c’è.

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di Francesco Lo Dico

Chiambretti archeologo del para-erotismo er capire meglio la penosa deriva dello spettacolo Chiambretti night (Canale 5 dopo le 23) con un ex Pierino che fa spogliare le sue ospiti nel tentativo di raddrizzare l’audience, vale la pena passare in veloce rassegna quella che ormai è l’archeologia del para-erotismo televisivo italiano. Nel 1977 c’era un’antenna commerciale che si chiamava Tele Torino. Divenne famosa, anche sui giornali stranieri, perché trasmise lo spogliarello di una casalinga (con maliziosa mascherina sul viso). Lo spettacolino s’intitolava Spogliamoci insieme, lo share fu notevole. Poi venne Colpo grosso (su reti della Fininvest, che ora si chiama Mediaset) con il cabarettista Umberto Smaila. Studio arredato alla maniera di un casinò. Una Las Vegas «de noantri». I concorrenti giocavano e scommettevano: il premio era una donna che si spogliava poco alla volta (alla fine si poteva vedere anche il volto, ma che stupor nell’accezione latina ovviamente). Ci furono varie edizioni: Portafortuna, Ragazze Cin Cin. Antesi-

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gnane delle attuali veline, di diverse nazionalità. Il made in Italy pecoreccio attecchì in Germania. Nel 1990 il format venne esportato in Spagna (trasmesso da Telecinco). Altri giochinishow finirono in Giappone, Turchia, Brasile, Albania. Nel 1994 la soubrette Carmen Russo, assente da diversi anni dagli schermi italiani perché impegnata in Spagna, fece la conduttrice di Notte italiana (su Italia 7) assieme al comico Ric (partner di Gian). Sempre spogliarelli, con otto «ragazze bon-bon». Ora tocca a Chiambretti, il dispettoso torinese che ha così dimostrato d’avere nessuna fantasia nel costruire uno show.Tutto è replica, dai perizoma della bellona di turno alla petulante e nevrotica raffica di battutelle, ammiccamenti e risate che vorrebbero (sic!) essere scorticanti e sardoniche e invece appartengono solo all’infanzia spettacolare di

chi si ostina a pronunciarle. Che guaio non procedere avanti, che guaio (personale) scegliere di fare il guitto, che è poi plateale autocondanna di chi non ha mai avuto il talento del mattatore nel gabbione comico. Il pubblico è scarso? Il rimedio è la sentina dell’Italia volgarotta, della parolaccia al posto della parola. Piero chiama Nina Senicar, che oggi si potrebbe definire il lato più morbido della Serbia (dopo quel che è capitato allo stadio Marassi di

Genova), e Melissa Satta. Il penoso tentativo di recuperare lo share va in onda venerdì su Canale 5. La ridottissima lingerie delle ospiti note a chi sfoglia giornali pettegoli e a chi si beve d’un fiato i talk-show pomeridiani è la bandiera del fallimento televisivo in onda in certi, anzi tanti, canali. Qualcuno si dice sicuro che Chiambretti recupererà ascolti. Se vince la scommessa - e può darsi - noi tutti perdiamo la fiducia nei confronti di una televisione che non deve necessariamente mettere sotto il burka le donne (anticipo un’obiezione idiotissima), ma che deve cominciare a ragionare, inventare, far divertire evitando di pensare che l’Italia non è solo uno sgangherato bar di periferia, dove imperano la pernacchia, il rutto da birra e il grido «la vogliamo nuda». Per l’altra Italia non sono disponibili (p.m.f.) ripetitori tv.


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Cinema

air Game, del regista d’azione Doug Liman (Bourne Identity, Bourne Ultimatum, Mr. & Mrs. Smith) è un film scisso. Nella prima parte, la più affascinante, è un thriller politico realista, parecchio romanzato ma basato sulle vicende di una coppia vera. Valerie Plame (Naomi Watts) era un agente Noc della Cia (sotto copertura non ufficiale), corpo di tale segretezza, pare, che gli agenti non si riconoscono nemmeno tra loro. Ufficialmente la bionda e bella spia era manager in una società di capitali a rischio. Suo marito Joe Wilson (Sean Penn), un ambasciatore in pensione, aveva trattato con Saddam Hussein nella ritirata delle truppe dal Kuwait; si era riciclato come consulente finanziario internazionale. Plame era addetta al reparto anti-proliferazione nucleare, che indagava su voci di una vendita del Niger all’Iraq d’uranio arricchito (yellowcake). L’amministrazione Bush era alla ricerca di armi di distruzione di massa irachene per giustificare l’immediata destituzione del brutale tiranno, e una trasferta simile di un minerale essenziale per le «bombe sporche» sarebbe stata la classica «pistola fumante», ragione sufficiente (insieme ad altro materiale sospetto intercettato) per invadere il principale regime-canaglia del Medio Oriente. Valutare il film prescindendo dalle posizioni politiche pro o contro la guerra al terrore di Bush, Blair, Aznar e Berlusconi è arduo ma non impossibile.

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non rinunci alla facile soluzione del melò sulla coppia in crisi. Se ci fosse fino in fondo lo scontro tra opposte visioni politiche (ambiguità e scaltrezza del potere liberale, legittimate da un mondo pericoloso, contro una salvifica sincerità assoluta, igiene della democrazia) sarebbe un film indimenticabile. N.B. Lo script fa dire a Wilson, forse per fugare ogni dubbio sulle sue simpatie politiche: «Saddam diceva, dopo aver ucciso un fedele collaboratore,“Preferisco uccidere gli amici per errore, che lasciare in vita i nemici”. Per me, è la definizione di un mostro». Se quel giudizio arrivasse alla fine del film, anziché a metà, la coppia sarebbe meno eroica e le conclusioni politiche ben diverse.

F

La Cia chiede a Wilson, ottimo conoscitore del Niger, il favore di andarci in missione per cercare le prove della vendita di yellowcake all’Iraq. Al ritorno riferisce di non averne trovato traccia, mentre il trasferimento di una merce tanto sensibile in quelle quantità lascerebbe indizi burocratici (paper trail). Forti della convinzione che Saddam, che nega l’accesso libero ai siti iracheni agli ispettori Onu, vada rimosso a ogni costo, Bush e Cheney decidono che la guerra si fa e danno per certo l’acquisto di yellowcake. Wilson, una notoria testa calda (cosa insolita per un diplomatico) scrive un editoriale sul New York Times sbugiardando la storia dell’uranio arricchito, usata per dare urgenza all’invasione. In seguito una soffiata svela l’identità top secret di Valerie alla stampa, rovinando per sempre la sua carriera. (È inventato di sana pianta lo scienziato iracheno collaboratore degli Usa, che nel film è ucciso da Saddam con tutta la famiglia, e che Plame non riesce a salvare come promesso, poiché la Cia sospende tutte le sue operazioni dopo l’outing.) A questo punto inizia una sparatoria mediatica tra oppositori e sostenitori della guerra, e la famiglia Wilson è il bersaglio più esposto. Il titolo Fair Game deriva dalle parole attribuite a Karl Rove, lo stratega di Bush, secondo cui dopo il «tradimento» di Wilson, la moglie era preda legittima. Terminata la parte politica, inizia una telenovela matrimoniale, scontata e melodrammatica. Lei, allenata da 18 anni a servire il suo Paese in silenzio, ha orrore della battaglia pubblica con la Casa Bianca ingaggiata dal marito rompiscatole e pieno di sé. Watts è perfetta, e non solo perché è quasi sosia della Plame. È eccezionalmente brava, trattenuta e credibile in ogni sfumatura del personaggio. Penn delude, paradossalmente perché allinea fin troppo con il cavaliere tutto d’un pezzo e la sua furiosa insistenza su una verità assoluta; sembra recitare con il pilota automatico. L’attivista Sean Penn si sovrappone a Joe Wilson, togliendo verosimiglianza e immedesimazione. La Watts è da Oscar; Penn rende un cattivo servizio alla sua causa. È un peccato che il film

Fair Game

occasione mancata di Anselma Dell’Olio

Sarebbe stato un film indimenticabile quello di Doug Liman basato sulla vicenda di Valerie Plame e Joe Wilson, personaggi realmente coinvolti nella ricerca delle “bombe sporche” di Saddam Hussein. Se non avesse ceduto ai richiami melò... Da non perdere “Uomini di Dio” e “Séraphine”, dedicato alla pittrice Senlis

Des hommes et des dieux, titolo superiore a Uomini di Dio, ha vinto il Gran premio della giuria all’ultimo Festival di Cannes. Il regista Xavier Beauvois ha girato una delle più limpide apologie della vocazione religiosa mai vista. È liberamente ispirata alle vicende di monaci trappisti cistercensi francesi, realmente esistiti, che fino ai primi anni Novanta vivevano pacificamente con la popolazione musulmana sulle stupende alture del Maghreb, in Algeria. Il racconto alterna la quotidianità del monastero, il lavoro nell’orto e nei campi che nutrono l’economia della comunità, le lezioni per i bambini, le cure mediche nel piccolo ambulatorio di frére Luc (il sempre incisivo Michael Lonsdale, memorabile capofamiglia in Munich di Steven Spielberg) con preghiere e liturgie monacali. I brani religiosi recitati sono scelti con sapienza, e illuminano azioni e decisioni dei frati nel corso degli eventi. Otto anni prima dell’attacco alle Due Torri, 14 operai edili croati immigrati sono assaliti e sgozzati nel cantiere da terroristi islamici algerini. Il capo del comando assassino arriva in minacciosa visita al monastero, e nasce la paura. Alcuni monaci vogliono partire ma il priore frére Christian (un perfetto Lambert Wilson) vuole restare e rifiuta la protezione dell’esercito, non confacente alla loro regola di neutralità. Infatti curano un ribelle ferito e la situazione degenera. Il vero soggetto del film non è la spaventosa violenza scatenata, ma lo sforzo di onorare fino in fondo la vita che si è scelta, senza negare la paura, fedeli alla propria missione. La fotografia è bellissima, la regia semplice e senza ricercatezze, affidata a una recitazione corale superba, spesso silente. Si astengano i nichilisti. Da vedere subito. Il film di Martin Provost sul mistero della creatività è la migliore introduzione possibile a Séraphine Louis, in arte de Senlis (18641942) orfana, povera, incolta. A 18 anni la ragazza fa la domestica in un convento, poi presso famiglie borghesi del paese. L’angelo custode le dice di lottare, ma non per un re, come Giovanna d’Arco, ma per l’arte. Per potersi permettere di dipingere (di notte) mangia poco e non paga l’affitto. È la schiodata, innocua e utile del paese, finché nel 1912 un raffinato collezionista tedesco, Wilhelm Uhde, scopritore del Douanier Rousseau e di Picasso, è folgorato dal talento della strana governante, scoperto casualmente; chiama il suo stile primitif modern, termine che preferisce a naif. In due periodi diversi si fa suo benefattore, le regala benessere e successo, poi sparisce. Alla terza, tremenda delusione della vita (la prima riguarda il suo unico fidanzato), l’intensa spiritualità dell’artista sfocia in psicosi. Un film biografico ispirato, elegiaco, terragno, panico, misterioso. La regista, sceneggiatrice e attrice belga Yolande Moreau (Louise-Michel), d’inaudita bravura, ottiene una perfetta fusione con l’anima dell’anomala pittrice. Séraphine ha vinto sette meritati Oscar francesi (i César) per miglior attrice, film, sceneggiatura, fotografia, scenografia, costumi, musica. Da non perdere.


Fantascienza

pagina 22 • 23 ottobre 2010

di Gianfranco de Turris

ell’arco della sua quasi sessantennale esistenza la fantascienza italiana - la cui data di nascita si pone convenzionalmente nel 1952 con l’uscita di Urania - non ha mai avuto al suo attivo una vera e propria rivista: quelle che ci sono state sono durate assai poco non avendo avuto così il tempo di incidere sui gusti dei lettori. Le eccezioni sono due: Oltre il Cielo, il quindicinale (di nome non di fatto) pubblicato a Roma fra il 1957 e il 1975, fondato e diretto da Armando Silvestri e Cesare Falessi, che però era sostanzialmente una rivista di divulgazione scientifica specializzata in astronautica e missilistica che pubblicava anche racconti di fantascienza (solo dal 1961 le due parti vennero nettamente divise) ma sulle cui pagine esordirono tutti i maggiori autori degli anni Sessanta-Ottanta; e Robot (1976-1978), mensile milanese diretto da Vittorio Curtoni, l’unica vera rivista in senso proprio che però durò troppo poco tempo per dare una svolta al gusto dei lettori italiani. Che sarebbe stata poi un maggior gusto per la narrativa breve e l’attenzione per la parte critica grazie a recensione di libri, film, fumetti, nonché informazioni varie. Magari, come già avvenuto prima della guerra negli Stati Uniti, avrebbe potuto essere anche l’occasione di un contatto fra i vari appassionati.

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A questa tendenza generalizzata dell’editoria e del pubblico si è aggiunta da qualche anno la rivoluzione prodotta dall’elettronica con l’avvento del computer e soprattutto del Rete. Oggi non esistono

MobyDICK

ai confini della realtà

Benvenuti nel peggiore

dei mondi possibili

Tolkien e pubblicò parecchi libri fantasticofantascientifici, e alla passione del suo direttore Carlo Bordoni, narratore, critico e sociologo della letteratura. Al loro coraggio si deve questo trimestrale dedicato, così la sua sigla, all’Insolito e al Fantastico nella più vasta delle accezioni,pur ricordando il termine inglese che vuol dire «se», anch’esso significativo, e che si può acquistare o direttamente per abbonamento (rivistaif@yahoo.it), oppure nelle librerie specializzate il cui elenco si trova anche qui in Rete (www.insolitoefantastico. blogspot.com/2001/01/librerie), dato che l’unico modo per garantirne la continuazione è ovviamente acquistarla. Perché

che induce a leggerla. Infatti, Bordoni da «specialista» ma anche da sociologo ha pensato bene di dedicare ogni fascicolo a un tema o genere diverso poiché ritiene, come ha scritto nell’editoriale del quarto fascicolo: «Non dovremmo dimenticare che il fantastico è il grande oceano comune da cui tutti i generi si alimentano. Ben venga la contaminatio a ridare vigore, perché di una cosa siamo certi: la nuova letteratura del terzo millennio sarà fantastica e passerà attraverso i generi letterari». E poi: «La narrativa“non mimetica”è il più grande patrimonio dell’uomo perché fondata sulla sua straordinaria facoltà di immaginare. L’Insolito e il Fantastico da cui pren-

Compie un anno la rivista trimestrale “IF”, laboratorio dell’Insolito e del Fantastico, che, senza faziosità e rissosità, promuove la “letteratura di genere”. Dopo “Oltre il Cielo” e “Robot”, un felice ritorno specialistico nel mondo della carta stampata più da un bel pezzo riviste professionali o amatoriali (i cosiddetti fanzines) «su supporto cartaceo» (ugh!), ma tutte sono affondate nel Web, sono discese negli abissi di Internet dove forse ne esistono anche troppe accanto a molti blog e siti specializzati. Tutte, eccetto una che oggi raggiunge l’anno di vita: IF dovuta alla testardaggine (è abruzzese doc) dell’editore Marco Solfanelli che non ha dimenticato gli amori giovanili degli anni Ottanta e Novanta quando ideò il Premio

mai lo si dovrebbe? Perché è una pubblicazione fatta bene, seria ma non seriosa, al di sopra delle fazioni e aperta alla collaborazione dei saggisti e dei narratori delle più diverse tendenze e idee con l’unico scopo di analizzare e promuovere la «letteratura di genere».Il che non è poco in un ambiente che ha fatto nel corso dei decenni della rissosità e di un certo tipo di faziosità una delle sue peculiari caratteristiche. «Letteratura di genere» si è detto, ed è uno dei suoi punti di forza

de il titolo la nostra rivista, è proprio il terreno ideale su cui sperimentare insoliti innesti per una letteratura non realista senza più distinzioni». Non può non essere d’accordo con queste affermazioni - che ricordano anche il Borges secondo cui «tutta la letteratura è fantastica» - chi usava i termini contaminatio, nonmimetico, nonrealistico sin dagli anni Settanta, quando la faziosità era giunta all’acme… Ora che le riscopra Carlo Bordoni, che fu uno dei protago-

nisti di quegli anni, fa indubbiamente piacere anche perché ne fa un uso corretto. Che le rialtri, scoprano pensando di averle inventate loro, quasi di possederne il copyright fa meno piacere: ma per fortuna il tempo è galantuomo. Si consideri poi che queste parole Bordoni le ha scritte nel fascicolo dedicato a… Giallo & Noir, per capire cosa egli abbia in mente, che cosa intenda per «narrativa di genere». Infatti altra caratteristica di IF è, come detto, di essere monografica: in precedenza gli argomenti sono stati nell’ordine Robot e Androidi, Oltretomba, Ucronia. Chi volesse avere una informazione ampia e variegata su questi temi può essere sicuro di venire accontentato: segnaliamo, dati i nostri interessi, soprattutto il numero sulla storia alternativa, il più ampio contributo critico sull’argomento sino a oggi edito in Italia, con sette saggi e sei racconti per tutti i gusti e i punti di vista.

Rassegne varie e recensioni completano ogni fascicolo splendidamente illustrate dalle copertine di Franco Brambilla.Anche l’occhio vuole la sua parte. Il fascicolo n. 5 gronderà sangue: sarà infatti dedicato aiVampiri & C. che da un po’impazzano nei libri e sugli schermi, anche qui con saggi e racconti. In seguito si passerà dalla fantascienza tradizionale con Altrimondi (che si può riferire a molte cose diverse) e Alieni (qui non si può equivocare) a quella dai risvolti politici e sociali con Distopie (altrimenti dette Antiutopie) che sono il contrario delle Utopie: quindi non il migliore dei mondi possibili, ma il peggiore dei mondi possibili. Lunga vita a IF e buona lettura.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando,Giuseppe Baiocchi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato,Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza

Reato di negazionismo? Reato di opinione!

LE VERITÀ NASCOSTE

Il presidente della Comunità ebraica di Roma, in seguito a nuove polemiche sul fatto che esistano o meno documenti storici sulla politica nazista, che nel secolo scorso portò allo sterminio di milioni di ebrei, ha rilanciato una vecchia proposta che nel 2007 si arenò: introdurre il reato di negazionismo. Sembra bizzarro che ci sia una legge che debba punire chi non crede che la storia sia quella piuttosto che un’altra, o chi metta in dubbio che la storia debba essere quella dei vincitori, pur se sulla pelle di milioni di ebrei e di tutti gli altri morti (Hiroshima inclusa) della seconda guerra mondiale. Crediamo, inoltre, che sia cosa pessima, per tener vivo nella memoria quanto gli esseri umani sono in grado di fare, usare proprio il metodo di chi si vuole condannare: negare la libertà di pensiero e di opinione a chi pensa in modo opposto al proprio. Creare il reato di negazionismo è pericoloso: chi verrà punito alimenterà un mito - basato solo su convincimenti ideologici e non su fatti storici - che ha bisogno di martiri, persecuzioni, messe al bando, galere, disprezzo da parte delle istituzioni. È questo che vogliamo? E non piuttosto mantenere viva la memoria storica perché ciò non accada mai più?

Lettera firmata

È GIÀ INIZIATO IL GRANDE FRATELLO Il Grande Fratello è già iniziato ma nessuno se ne accorge. È la quotidiana puntata della vicenda Scazzi, che promette sempre nuovi colpi di scena, come profetizza la conduttrice di turno, dando l’impressione che sia effettivamente iniziata la kermesse annuale della casa più famosa d’Italia. Tra questa realtà e il cosiddetto turismo dell’orrore, che sta portando un vero e proprio pellegrinaggio nei luoghi del brutale omicidio, c’è solo una considerazione da fare: l’assurdo ci sembra fuori dal mondo e ci prende, fino al giorno che si rivelerà per incanto nella nostra vita, sconvolgendola.

Gennaro Napoli

UNA SANATORIA MASCHERATA Pare che con il prossimo decreto flussi verrà autorizzato l’ingresso di circa 150170mila cittadini extracomunitari, e dovrebbe essere pubblicato in Gazzetta Ufficiale a novembre. Le domande, come già accaduto negli anni passati, dovrebbero essere presentate dai datori di lavoro per via telematica. Si tratta di un provvedimento molto atteso, a quasi tre anni dall’emanazione dell’ultimo decreto flussi, che risale al 2007. Nel 2008 non fu emanato alcun decreto che consentisse la presentazione di nuove domande, ma fu solo este-

so il limite numerico del decreto precedente, autorizzando così l’ingresso di 150mila lavoratori “ripescati”dalla graduatoria dei flussi precedenti,“miracolati”dell’ultima ora. Niente flussi nemmeno per il 2009, anno della sanatoria per colf e badanti. Per il 2010 è stato finora emanato solo un decreto flussi stagionale, che ha autorizzato l’ingresso di 80mila ingressi per lavoro subordinato stagionale e 4000 per lavoro autonomo. Riparte quindi la “sanatoria mascherata” cui parteciperanno (tramite il loro datore di lavoro) altissime percentuali di stranieri già soggiornanti in Italia ma privi del permesso di soggiorno, e dunque impiegati a nero. E anche questa volta dovranno attendere mesi e mesi prima di ottenere l’auspicato nullaosta all’ingresso, con il quale uscire clandestinamente, pena l’espulsione e l’invalidazione dell’intera procedura - dall’Italia, tornare nel proprio Paese per poi recarsi alla rappresentanza diplomatica italiana per il rilascio del visto di ingresso, e infine per tornare in Italia da “regolari”. Una pantomima pietosa, e costosa, sia per gli stranieri che per la pubblica amministrazione. Non sarebbe meglio abolire le quote pre-stabilite e disporre durante tutto l’anno la possibilità di lavorare regolarmente, previo esame dei presupposti (lavoro, casa ecc...). La clandestinità che re-

L’IMMAGINE

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30

LONDRA. Chi pensava che le bambole gonfiabili fossero l’ultima frontiera dell’erotismo “fai da te” si sbagliava. E la smentita arriva dalla compagnia di assicurazioni britannica Sheilas’ Wheels, che propone il “Buddy on demand” per le single alla guida. Il “compagno su richiesta” non è altro che uomo gonfiabile lanciato allo scopo di far sentire meno nervose le donne sole alla guida della loro auto durante la notte. Facile da usare, il bambolone si può tenere nel cruscotto della macchina e, se necessario, si apre in un attimo. Quando una donna ha finito di usarlo, può staccare la spina e lui si sgonfia. Secondo una ricerca del creatore dell’amico gonfiabile, la compagnia di assicurazioni Sheilas’ Wheels, l’82 per cento delle donne si sentono più sicure con qualcuno che siede nella macchina accanto o dietro di loro, e quasi alla metà non piace guidare di notte. «Non sosteniamo che un uomo gonfiabile sia l’unica risposta possibile, ma speriamo che riuscirà a dare alle donne più sicurezza e a rendere meno timorosi i loro viaggi al buio», ha detto Jacky Brown, la portavoce di Sheilas’ Wheels.

sterebbe non sarebbe più indotta, ma reale e quindi da combattere severamente.

Emmanuela Bertucci

CONTROLLI ANTIDROGA A SCUOLA I blitz antidroga negli istituti superiori non sono una novità per l’Italia in generale, e il risultato è sempre irrisorio rispetto allo spiegamento di mezzi e persone: in genere qualche grammo di sostanze leggere. Due gli aspetti preoccupanti: chi paga per questa lotta alla droga con risultati uguali allo zero? Tutti i contribuenti ovviamente sono coinvolti in una strategia di lotta alla droga che colpisce anche i consumatori e non solo spacciatori e produttori. Strategia che, però, se va avanti così non solo non sembra essere di grande prospettive ma è anche dannosa. Perché distrarre le forze dell’ordine da controlli su spaccio e produzione? I carabinieri sono anche entrati nelle aule per dare lezioni sulle conseguenze penali e sulla salute che l’uso delle droghe illecite provoca. Ma siamo sicuri che debbano essere le autorità di sicurezza a parlare agli studenti di diritto e codice penale? E siamo sicuri che debbano essere sempre le medesime autorità a parlare di pericoli alla salute? Sembrerebbe normale avere dei carabinieri nelle scuole per fare prevenzione penale e sanitaria su droghe più pericolose, per esempio, della marijuana, e che mietono una marea di vittime ogni giorno, droghe tipo alcool, tabacco e dipendenze da gioco? Solo a pensarlo verrebbe un sorriso...

Vincenzo Donvito

La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc

e di cronach

Più sicurezza alle donne alla guida

Strato su strato Quella finita sotto al microscopio è la pelle del seno. La più superficiale, in azzurro, è lo strato corneo, poi c’è il derma (in verde scuro) contenente i vasi sanguigni. In verde chiaro, infine, lo strato sottocutaneo o ipoderma, composto di tessuto adiposo, che funziona da isolante termico e riserva di energia

CHE ASPETTIAMO AD ADEGUARCI? Rendere l’armamentario italiano più conforme alla condizione bellica dell’Afganistan deve diventare una necessità. Armarsi di bombe del resto non farebbe che allinearci ad altre potenze straniere, e a salvare i nostri soldati.

Br


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grandangolo Le “madri di Tiananmen”, le dottoresse anti-Aids, avvocatesse e operaie: ecco chi sono le avversarie del Dragone

Il lato rosa del dissenso Liu Xia, moglie del Nobel, è solo l’ultima arrivata: ma sono tante le donne che lottano per la libertà in Cina di Vincenzo Faccioli Pintozzi iu Xia, moglie del Premio Nobel per la pace 2010 Liu Xiaobo, è assurta agli onori della cronaca per il suo ruolo di custode dell’impegno del marito – che sta scontando in carcere undici anni, la pena inflittagli per aver scritto il manifesto democratico Charta ’08 – e in queste ultime settimane si è parlato anche di lei. Gli arresti domiciliari che le sono stati imposti dal regime di Pechino hanno indignato la comunità internazionale, che ora spera di vederla l’8 dicembre ricevere il premio destinato al dissidente. Ma pochi hanno ricordato l’impegno della stessa Xia – in Cina il nome proprio è il secondo – che da anni lotta per il rispetto dei diritti umani nel suo Paese. Senza mollare, senza desistere, senza indietreggiare. Come lei, nel dragone d’Asia, ce ne sono molte altre. Chi segue con regolarità i fatti della Cina può conoscere, o quanto meno può aver sentito i nomi di alcuni famosi dissidenti: Chen Guangcheng, Hu Jia, Gao Zhisheng.Tutti maschi, tutti in galera (o appena usciti). È vero che la cultura tradizionale cinese chiede alla donna, in ogni ambito, un passo indietro: ma è anche vero che il maoismo ha spazzato via questo modo di pensare, ed è impossibile ritenere che non ci siano donne che lottano per la democrazia.

L

Mentre le donne hanno dato e continuano a dare un contributo significativo per la promozione dei diritti umani in Cina, i loro sforzi sono spesso mascherati. Il motivo va ricercato nel fatto che, a differenza dei loro “colleghi”maschi, le

donne che lottano contro il regime sono molto spesso donne del popolo, che vivono con il popolo e per il popolo. E questo attira molto poco l’attenzione dei media internazionali, che hanno invece consegnato al grande pubblico le avventure dell’avvocato cieco Chen e dell’attivista anti-Aids Hu. Eppure, molto spesso sono queste protagoniste occulte a pagare il prezzo più alto per la lotta democratica. Le dissidenti “rosa”sono atti-

sta è divenuta una garanzia di onestà da parte del regime: non potendo controllare tutti i dirigenti locali, il Partito aveva ufficialmente delegato questo compito ai “bravi compagni” del Paese, che avevano facoltà di denunciare le malefatte compiute dalle mele marce del comunismo cinese. Scavalcati dalla modernità, i “petizionieri” non hanno perso la speranza e continuano ad affolare Pechino nella speranza di avere giustizia:

Le dissidenti sono attive in tutti i frangenti della lotta per i diritti umani: hanno svolto un ruolo fondamentale per molti decenni ve in praticamente tutti i frangenti della lotta per i diritti umani, e hanno svolto ruoli fondamentali in alcuni dei casi più importanti degli ultimi tempi. Alcune, come Liu Jie, lavorano con i “petizionieri”: si tratta di un neologismo coniato dai media cinesi per indicare quella categoria di persone che – da tutte le province dell’impero – si spostano nella capitale per presentare al governo centrale i propri reclami. La pratica, che ha radici nella dinastia Tang, in epoca maoi-

relegati nelle periferie e maltrattati dalla polizia, hanno bisogno di qualcuno che li aiuti a presentare le loro richieste nella forma legale consentita e che li indirizzi nei posti giusti. Liu Jie è una di queste persone. Oppure c’è Ai Xiaoming, regista e docente presso l’Università Sun Yat-sen, che dopo il disastroso terremoto che ha sconvolto il Sichuan nel 2008 ha voluto raccontare il dolore delle famiglie e l’inefficenza del governo locale. Il film I nostri figli è disponi-

bile soltanto su internet: si concentra sui genitori di quei bambini morti nelle scuole della provincia settentrionale, scuole che «sembrano costruite con il tofu [un formaggio di soia morbidissimo nda]». Altre ancora sono impegnate nella più classica delle battaglie: la riforma politica. Nel gruppo di firmatari originali di Charta ’08 ci sono alcune delle più importanti esponenti femminili della dissidenza cinese: Woeser, scrittrice tibetana e attivista per la libertà di espressione; Liu Di, blogger della capitale e Shen Peilan, da Shanghai, che combatte contro le requisizioni forzate dei terreni dei contadini. Senza contare l’impegno profuso dalle donne nella distribuzione del testo anche nelle falde più capillari del Paese. Nonostante il loro sia un approccio diverso alla battaglia per i diritti umani, meno aggressivo e frontale rispetto a quello dei colleghi maschi, hanno in comune un’eccezionale resistenza alle pressioni del governo di Pechino. Pubblichiamo di seguito una serie di piccole biografie delle più famose fra le dissidenti anti-comuniste. Duan Chunfang ha 49 anni e vive a Shanghai. Il suo campo d’azione è quello della difesa dei diritti umani di base in una delle metropoli più spietate dell’intera Cina. Il 3 luglio del 2009 è stata trascinata dalla polizia fuori di casa e arrestata: in quel periodo stava trattando il pagamento di una fattura ospedaliera, che si rifiutava di saldare in quanto costretta al ricovero per le violenze subite dalla polizia alcuni giorni prima. Duan è stata accusata di aver “ostacola-


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Woeser, attivista tibetana, prima di essere arrestata dalla polizia durante gli scontri della primavera del 2008. Nell’altra pagina Liu Xia, moglie del premio Nobel per la pace Liu Xiaobo. La donna è stata costretta agli arresti domiciliari dopo l’assegnazione del premio al marito, autore di Charta ’08. Potrebbe essere lei a ritirare il riconoscimento

to il lavoro della polizia” e condannata al carcere. Nei primi sei mesi di detenzione, la sua vista è peggiorata rapidamente; ha inoltre fortissimi dolori alla schiena, ma la polizia rifiuta di farla visitare in quanto “non vuole pagare”. Duan nasce nella battaglia per i diritti umani come “petizioniera” insieme al fratello, Duan Huimin: insieme si erano recati a Pechino per evitare la requisizione della loro casa di famiglia. Il fratello è morto nel gennaio 2007 a causa delle botte ricevute dalla polizia. Fan Yanqiong ha 48 anni e vive nella contea di Nanping, nella provincia del Fujian. Fan è stata arrestata il 26 giugno del 2009 dopo che aveva pubblicato su internet una dettagliata denuncia delle violazioni compiute da alcuni quadri comunisti locali, che avevano condotto alla morte di una giovane donna di una contea confinante. Fan e i due avvocati difensori della famiglia della vittima sono apparsi a giudizio l’11 novembre del 2009, ma fino ad oggi non è stata ancora emessa alcuna condanna contro di loro. Se riconosciuti colpevoli di “calunnie contro lo Stato” rischiano fino a dieci anni di carcere. Al momento si trovano nella prigione numero 2 di Fuzhou. Le è stata negata la scarcerazioni per motivi medici, e si teme che il verdetto non venga emesso per il peggioramento delle sue condizioni di salute. Da dieci anni, Fan denuncia e combatte i governanti corrotti. Hou Ying ha 35 anni e vive a Changsha, nell’Hunan. È stata arrestata il 21 gennaio del 2009 mentre aiutava i “petizionieri”di Pechino. La polizia della capitale l’ha trattenuta per cinque giorni consecutivi per aver “osato” aiutare 97 contadini a presentare una dettagliata denuncia contro un ufficiale della pubblica sicurezza della loro provincia rurale. Fermata di nuovo per aver “causato disturbo all’ordine pubblico” è stata condannata a tre anni di carcere. Al momento non si sa dove si trovi. Ni Yulan ha 48 anni e vive nel distretto di Xicheng, a Pechino. Avvocato di chiara fama, da almeno dieci anni sostiene gli abitanti poveri del suo distretto a richiedere risarcimenti per gli abusi delle autorità. È disabile a causa di una malformazione congenita, che non le ha impedito agli inizi del 2008 di mettersi davanti a una ruspa che voleva demolire la sua casa. Le autorità, da alcuni anni, hanno

iniziato a distruggere in maniera arbitraria interi quartieri nelle aree migliori delle città più importanti della Cina: Ni non ha voluto mollare, e per questo è stata arrestata e picchiata così selvaggiamente che per due giorni è rimasta in coma. Ni è conosciuta e amata dalla polizia della capitale, che ha vegliato davanti all’ospedale fino a che non si è ripresa dal coma. Ora è in carcere.

Wu Huaying, circa 40 anni, è di Fuqing. È stata arrestata insieme a Fan Yanqiong e poi ritenuta colpevole di aver piazzato degli ordigni esplosivi davanti a una caserma dell’Esercito di Liberazione popolare, la stessa accusa con la quale, una decina di anni fa, venne arrestato e poi condannato a morte suo fratello. Proprio l’arresto del fratello ha convinto Huaying a divenire una dissidente: in cerca di giustizia per l’accaduto, ritenendo il fratello completamente innocente, si è accampata a Pechino aiutando le persone come lei. Negli ultimi quattro anni, davanti al muro di gomma delle autorità, aveva abbandonato la lotta per il fratello e si era dedicata al sostegno degli altri “petizionieri”. Fino a che non è stata condannata. Zhou Li ha 51 anni e viene da Pechino. Anche lei ha deciso di dedicarsi alla dissidenza dopo aver rischiato di perdere la casa in una demolizione forzata. Nel 2005, ha convinto il suo quartiere a ribellarsi alle ruspe e ha lanciato un sit-in davanti a Zhongnanhai – il quartiere blindato dove vive e lavora l’esecutivo cinese – per chiedere giustizia davanti a un vero e proprio furto. In quell’occasione, la sua battaglia venne vinta. Da allora ha seguito un’infinità di casi, fino a che non ha deciso di difendere la famiglia di Deng Yujiao, una giovane ragazza di Pechino uccisa da un dirigente del governo durante uno stupro. Il caso attirò l’attenzione

dei media, e il coraggio dell’avvocato quella della polizia. Li viene fatta sparire il 12 agosto del 2009: riappare alcuni mesi dopo nel centro di detenzione di Chongwen. Contro di lei, per ora, non c’è alcuna accusa ufficiale, e questo è ancora più pericoloso.

non decide di aiutare persino un gruppo di tibetani coinvolti nelle proteste di Lhasa: a quel punto, viene di fatto radiata dall’Ordine degli avvocati. Oggi vive ai domiciliari.

Ding Zilin, 70 anni, è considerata la“madre della dissidenza rosa” dell’intera Cina. Ex docente universitaria, lotta da 20 anni contro il governo cinese a cui chiede verità e giustizia su una delle pagine più nere della Cina contemporanea: la strage di piazza Tiananmen. Invece di nascondersi in silenzio, dopo il massacro Ding ha fondato insieme al marito le “Madri di Tiananmen”: un gruppo formato da 125 familiari delle vittime della strage del 4 giugno 1989 in piazza Tiananmen, quando le truppe dell’esercito nazionale, appoggiate dai carri armati, massacrarono i manifestanti inermi che da oltre un mese invocavano democrazia e la fine della corruzione per la società cinese, nelle strade della capitale. Il bilancio di quel massacro non è mai stato pubblicato dal governo, ma organizzazione internazionali indipendenti dicono che attorno alla piazza, nelle vie laterali e nei giorni seguenti al 4 giugno sono stati uccisi alcune migliaia di persone. Il gruppo è guidato da Ding Zilin, che perse negli scontri il figlio 17enne, Jiang Jie-

Fra i primi firmatari di Charta ’08 ci sono alcune delle più importanti esponenti della dissidenza: Woeser, Liu Di, Shen Peilan e Ding Zilin Liu Jie ha circa 50 anni e vive a Beian, nella provincia settentrionale dell’Heilongjiang. Anche lei da “petizioniera” è divenuta attivista ma ha fatto evolvere la pratica, convincendo tutti coloro che erano in fila sin dal 2003 a chiedere nelle loro lettere al governo riforme politiche e stato di diritto. Il capolavoro arriva l’8 ottobre del 2007, quando Liu pubblica una lettera aperta firmata da 12.150 persone in cui si chiede ai leader comunisti – in quei giorni chiusi nel 17esimo Congresso del partito – una vera riforma anche della selezione della dirigenza politica. Tre giorni dopo, sparisce anche lei. Nel novembre del 2007 riappare in un laogai, un campo di “rieducazione attraverso il lavoro”, dove si trova ancora oggi. In questi anni, denunciano alcuni suoi compagni di cella, è stata torturata ripetutamente. Liu Wei, avvocato, vive a Pechino. Era uno dei membri del prestigioso studio Shunhe, uno dei più rinomati della capitale. Il 31 maggio 2009 le viene tolta la licenza: nel corso dell’anno ha iniziato a difendere aderenti del Falun Gong e soprattutto malati di Aids, che ufficialmente in Cina hanno iniziato a esistere soltanto nel 2008. Chiede e ottiene risarcimenti per questi due gruppi sociali, considerati paria nella società cinese, e viene progressivamente estromessa dalla vita dello studio. Fino a che

lian. Il carattere peculiare della sua battaglia è la lettera annuale che Ding, insieme alle altre “madri”, invia al governo. Nell’ultima c’è scritto: «Le vostre mani sono sporche del sangue dei nostri figli. Ridate loro almeno l’onore che gli avete strappato, oltre al sangue, chiamandoli contro-rivoluzionari».

Il coraggio e la forza di Ding Zilin la iscrivono di diritto in quel ristretto numero di persone che, nel prossimo decennio, sarà chiamata a testimoniare una rivoluzione nuova in Cina. Anche se profondamente difficile, infatti, questa breve - e assolutamente lacunosa - carrellata di donne dissidenti dimostra una volta di più la diversità della protesta cinese da quella di tutto il resto del mondo. A differenza degli oppositori dell’ormai defunta Unione Sovietica, fra coloro che contestano più duramente il regime di Pechino non ci sono grandi scienziati, drammaturghi o poeti. Non ci sono autori teatrali noti in tutto il mondo o personalità di spicco nel mondo politico. Sono tutte persone estremamente normali, che un giorno - complice l’ennesima ingiustizia - hanno deciso di rialzare la testa e protestare. Queste donne, a differenza di Liu Xiaobo e Wei Jingsheng - non hanno neanche una remota possibilità di finire sulle prime pagine dei giornali, ma mettono sulla bilancia vita e salute. Perché mosse dal desiderio di rendere il loro Paese veramente migliore, il prima possibile.


mondo

pagina 26 • 23 ottobre 2010

Diplomazia. Israele studia centinaia di nuovi avamposti in Cisgiordania: l’ultimo colpo al processo di pace. L’analisi dell’ex ambasciatore Usa all’Onu

La carica delle 600 colonie Non c’è da illudersi: anche gli ultimissimi colloqui fra Israele e Palestina falliranno. Sugli insediamenti di John R. Bolton e trattative dirette tra Israele e Palestina, per 21 mesi il fulcro della politica mediorientale dell’amministrazione Obama, si stanno inevitabilmente avvicinando al collasso. Con grande difficoltà i colloqui si protrarranno fino alle elezioni di midterm, ma poi sono condannati al fallimento. L’autorità palestinese ha ben chiaro che i colloqui e la soluzione dei due Stati non hanno margini di trattative. Dunque serve un “piano b”. Ecco allora un fiorire di idee per bypassare le ingombranti trattative con Israele e arrivare direttamente alla “Stato” palestinese. Due gli approcci tattici: il primo vede l’Anp convincere gli Stati Uniti a riconoscere uno Stato palestinese in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza entro le linee di tregua pre-1967 (spesso erroneamente indicate come “confini”). L’altra opzione ha il medesimo scopo ma un interlocutore diverso: il Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Cruciale, in questo caso, l’impegno statunitense sia per sostenere un’eventuale risoluzione di riconoscimento da parte del Consiglio di Sicurezza, sia (almeno), per non respingerla.

L

Tutte le manovre in corso fanno riferimento all’autoproclamazione dello Stato palestinese che l’Olp annunciò al mondo nel 1988 Per certi versi, tutte queste manovre si riferiscono all’autoproclamazione dello Stato palestinese che nel 1988 l’Olp (l’organizzazione per la liberazione della Palestina di Arafat) annunciò al mondo e che venne sostenuta e riconosciuta da decine di membri dell’Onu, tra cui molti Paesi europei. L’Olp cercò all’epoca di trarre vantaggio da questo riconoscimento tentando di entrare in alcune agenzie dell’Onu - come l’Oms - il cui requisito d’ingresso è che i membri siano, formalmente, degli “Stati”. Un modo, è evidente, per cercare di ottenere quella legittimazione internazionale che l’organizzazione non era stata in grado di raggiungere con la forza. Questi tentativi in passato sono falliti, (praticamente svaniti, è più corretto) a causa della ferma opposizione di Washington all’interno del sistema Onu. E l’unico asset conseguito dall’Olp è stato riuscire a modificare “il cavaliere” sul banco dell’Assemblea generale, dove ormai è scritto Palestina e non più

Per i due Stati non ci resta che attendere. Ma con poche speranze

La politica di Washington, “un anno, un risultato”non funziona di Mario Arpino opo una lunga serie di dispiaceri, la fretta di Obama di risolvere tutti i mali del mondo in tempi compatibili con il rinnovo del mandato, lo sta portando un’altra volta verso strade senza uscita. Prima ha puntato tutto sull’Afghanistan e ora sta cercando di investire in Medioriente. Ha scommesso ancora sul cavallo sbagliato, visto che - come d’altra parte era prevedibile - i colloqui israelo-palestinesi sono entrati in stallo dopo solo cinque settimane. Un solo anno per l’Iraq, un solo anno per l’Afghanistan, un solo anno per la Palestina: appare tutto così declaratorio da indurre perfino dubbi sulla serietà delle intenzioni. Nel senso che, come tali, sono sicuramente serie e lodevoli, ma assai poco credibili in termini di fattibilità

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Fatto salvo il doveroso rispetto per il presidente Barack Obama, mi viene in mente che, parafrasando una delle frasi celebri del mitico Andreotti, qualcuno alla Farnesina di recente ha ricordato che «…nel mondo esistono due categorie di folli. Quelli che si credono Napoleone e quelli che vogliono disegnare un assetto stabile per il Medioriente». Non per questo non ci si deve provare, e da qui la lunga serie di tentativi che ha origine prima ancora della fondazione dello stato di Israele. Alla luce di questa esperienza, la questione della proroga dello stop delle costruzioni a Gerusalemme e nel West Bank ha chiaramente i contorni di un pretesto per entrambi i contendenti, che di voglia di risolverla sembra-

no averne pochina.Vediamo Abu Mazen. Dopo dichiarazioni di fuoco, non ha mai detto di volersi ritirare dai colloqui, ma, di fatto, non vuol procedere. Allo stesso modo Netanyahu che, minimizzando, afferma di non voler più concedere proroghe.

Probabilmente sa che, anche se lo facesse, come sempre sorgerebbe subito qualche nuovo impedimento. Il pretesto del premier palestinese per ritornare al tavolo era la necessità del parere della Lega Araba, in procinto di riunirsi in Libia. Questa, dopo un paio di rinvii, finalmente si è riunita, ha discusso, e ha deciso di non decidere. In altre parole, non ha fornito ad Abu Mazen alcun parere di merito, ritenendo la questione di esclusivo carattere bilaterale, pur biasimando la ripresa delle costruzioni. È stallo, perché - almeno formalmente - non essendo stata ancora convocata la successiva tornata di colloqui, in realtà nessuno può essere accusato di essersi ritirato. Ma anche qui, come in tutti i mercati, di fronte al nuovo attivismo statunitense sta entrando in campo la concorrenza europea, che in queste acque torbide cerca di guadagnare qualche punto di vantaggio. I ministri degli Esteri francese e spagnolo, Couchner e Moratinos (quest’ultimo è appena stato cambiato nel rimpasto voluto da Zapatero) in visita a Israele, hanno infatti proposto un vertice dei contendenti a Parigi per fine mese. Sembra che Abu Mazen e Netanyahu abbiano inizialmente lasciato trapelare una velata intenzione positiva, come pure il presidente egiziano Mubarak, invitato da Sarkozy. Più esplicito è stato invece l’affondo del ministro degli Esteri israeliano, il solito Lieberman, secondo il quale gli europei, prima di immischiarsi nei problemi degli altri, devono risolvere i propri. Che farà la Clinton? L’invito era stato inoltrato anche al Segretario di Stato, ma fonti di Parigi parlano di una “risposta gelida”, dove non si accetta e non si nega. Si può capire, gli sgambetti non piacciono a nessuno! A questo punto, non resta altro che attendere.

la sigla, per esteso, dell’Olp. Questa volta è diverso. Una volta superato il 2 novembre e fatto fronte all’imminente e imbarazzante crollo dei colloqui diretti, il presidente Barack Obama potrebbe sentire il bisogno di punire Israele o almeno di trarre una lezione da questo fallimento diplomatico.

L’amministrazione Obama ha un’opinione astiosa di Israele, tuttavia il reale riconoscimento della “Palestina” pare una prospettiva remota nel breve termine.Vista la caotica situazione in politica

Una via indolore e indiretta, sempre efficace, sta nel lasciare che lo Stato emerga con una risoluzione del Consiglio di Sicurezza interna del presidente - che con molte probabilità uscirà ferito dalle elezioni di midterm e si troverà costretto a concentrarsi sui suoi due anni finali di mandato - la Casa Bianca non avrà troppo spazio di manovra per spingere sull’acceleratore. Sarebbe troppo. Un corso indolore e indiretto, che è sempre efficace, sta nel lasciare che lo Stato emerga attraverso una risoluzione del Consiglio di Sicurezza. Le precedenti Amministrazioni statunitensi, votando all’occasione un netto “no”, respinsero una simile proposta, ma l’inclinazione di Obama - che è quella di mettere sotto pressione pubblicamente Israele - fa presagire che Washington possa decidere di non svolgere il suo ruolo tradizionale. Così, benché sembri che Obama non voterà a favore della risoluzione del Consiglio di Sicurezza (che garantirebbe l’ingresso nel consesso Onu della Palestina) si può prontamente prevedere un’astensione dell’Amministrazione. Il che potrebbe dar luogo ad una maggioranza quasi certa, circa 14 a 0, a favore della risoluzione.


mondo

23 ottobre 2010 • pagina 27

Tel Aviv guarda con apprensione al rinnovo della Camera americana

Netanyahu aspetta le midterm e tifa Gop

I sondaggi parlano chiaro: i repubblicani appoggiano Israele senza condizioni e da molto più tempo di Daniel Pipes

Israele si troverebbe quindi a dover affrontare un cambiamento drammatico nella sua posizione internazionale, trovandosi di fronte ad una “equivalenza politica”con il nuovo Stato palestinese. Inoltre, la consueta definizione legale internazionale di “Stato” richiede che questo abbia confini definiti e certi. E dunque la potenziale risoluzione del Consiglio di Sicurezza si rivolgerebbe alla Palestina come Stato all’interno dei “confini del 1967”, o qualcosa di simile. Delineare confini è un gioco a somma zero. Proprio adesso, come fu nel 198889, la Palestina non ha confini reali, a parte quelli attorno alla Striscia di Gaza controllata da Hamas. Inoltre, Israele ha a lungo sostenuto che non sarebbe mai tornata alla sua configurazione pre 1967 e che avrebbe anzi insistito su confini sicuri e difendibili. I suoi ampi insediamenti nel West Bank e le fortificazioni rappresentano una prova concreta di questa determinazione. Ma c’è di più: una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che stabilisse le linee del 1967 come confini, chiamerebbe in questione anche la legittimità di Israele, tagliando drammaticamente le prospettive di sicurezza e difendibilità. Una simile risoluzione, affermando l’inclusione di territori israeliani, delegittimerebbe sia l’autorità di Israele e i suoi insediamenti oltre le linee del 1967, che il suo obiettivo di una Gerusalemme unita come capitale. Obama ha inevitabilmente lasciato aperta la possibilità di venir meno ai confini del 1967. Nel discorso che tenne a settembre 2009 all’Onu, ad esempio, si era dichiarato a favore di uno Stato Palestinese «con un territorio contiguo in grado di porre fine all’occupazione iniziata nel 1967». Nessuno dovrebbe sottovalutare la gravità di una simile minaccia alla posizione di Israele, sebbene Obama potrebbe eliminarla in un colpo solo se parlasse chiaro. Presto assisteremo a quanto è pronto ad essere ostile ad Israele.

Una ruspa israeliana nei territori contesi fra israeliani e palestinesi in Cisgiordania, mentre scava il basamento di nuovi insediamenti per la popolazione di Israele. In basso Abu Mazen, presidente dell’Anp. A destra Barack Obama. Nella pagina a fianco, Benjamin Netanyahu

ome dovrebbero orientarsi gli elettori americani riguardo al bene e alla sicurezza di Israele nel voto del 2 novembre per il rinnovo del Congresso? Una cosa è chiara, dopo quasi due anni di controllo democratico sul ramo esecutivo e legislativo del governo: i democratici appoggiano regolarmente Israele e il suo governo molto meno dei repubblicani. Lasciamo ora da parte Barack Obama (lui non è in lista) e concentriamoci sul Congresso e sull’elettorato. Lo schema di un debole sostegno democratico ebbe inizio appena una settimana dopo l’Inauguration Day del 2009, dopo la guerra tra Hamas e Israele, quando 60 deputati democratici, e non un solo repubblicano, scrissero al Segretario di Stato per chiedere «ossequiosamente che il Dipartimento di Stato autorizzi la concessione di fondi d’emergenza all’Unrra [organizzazione anti-Israele] per la ricostruzione e gli aiuti umanitari a Gaza». Nello stesso spirito, un anno dopo, nel gennaio 2010, 54 deputati democratici, e non un solo repubblicano, sottoscrissero una lettera indirizzata a Barack Obama, chiedendogli di «patrocinare degli immediati progressi per Gaza nei seguenti settori», e poi elencarono dieci modi per aiutare Hamas. Al contrario, a distanza di qualche mese, 78 deputati repubblicani scrissero una lettera per esprimere un “pieno appoggio” allo Stato ebraico. Pertanto, si contano 54 democratici per Hamas e 78 repubblicani per Israele. In seguito alla crisi del marzo 2010, quando Joe Biden si recò a Gerusalemme, 333 membri della Camera dei Rappresentanti firmarono una lettera indirizzata al Segretario di Stato ribadendo l’alleanza UsaIsraele. Dei 102 deputati che non la sottoscrissero 94 erano democratici (incluso il presidente della Camera dei Rappresentanti Nancy Pelosi) e 8 repubblicani, con un rapporto di 12 a 1. Anche 76 senatori firmarono una lettera simile e dei 24 che si astennero dal farlo 20 erano democratici e 4 repubblicani.

C

detto contrario a un impegno di Washington con Hamas. E il 61 per cento degli elettori di Obama ha approvato “un diritto al ritorno”per i palestinesi, mentre solo il 21 per cento degli altri è d’accordo.

L’elettorato è simile. Un sondaggio sulla politica americana condotto nell’aprile 2009 rilevò che il 10 per cento degli elettori di Obama e il 60 per cento degli elettori di John McCain volevano che il presidente appoggiasse Israele. Alla domanda se occorresse adottare una linea d’azione dura con Israele, l’80 per cento dei sostenitori di Obama ha risposto sì e il 73 per cento degli elettori di McCain ha detto no. Al contrario, il 67 per cento degli elettori di Obama si è dichiarato favorevole e il 79 per cento dei sostenitori di McCain si è

Quasi un anno dopo, la stessa società di sondaggi chiese agli americani quale fosse il modo migliore per affrontare il conflitto arabo-israeliano e riscontrò “un forte divario” su tale questione. Il 73 per cento dei democratici voleva che il Presidente interrompesse il legame storico con Israele, ma che si trattassero allo stesso modo arabi e israeliani; solo il 24 per cento dei repubblicani ha approvato questo cambiamento. Un sondaggio di questo mese ha chiesto agli elettori se siano “più o meno propensi a votare per un candidato che sia considerato pro-Israele”. Il 39 per cento dei democratici e il 69 per cento dei repubblicani preferiscono il candidato pro-Israele. Con un’inversione di tendenza, il 33 per cento dei democratici e il 14 per cento dei repubblicani sarebbero meno propensi ad appoggiare un candidato perché è pro-Israele. I democratici sono regolarmente un po’ divisi riguardo a Israele, mentre i repubblicani sono a favore, con un rapporto di 5 a 1. Ma è opinione generale che le due parti si differenziano sempre più col passare del tempo. Il conservatore pro-Israele Jeff Jacoby rileva che «il vecchio consenso politico che avvicinò repubblicani e democratici a sostegno di una fiorente democrazia in Medio Oriente sta venendo meno». James Zogby dell’Arab American Institute, sostenitore della sinistra e contrario a Israele, è d’accordo, scrivendo che «la tradizionale politica statunitense verso il conflitto israelo-palestinese non ha un appoggio bipartisan». Grazie ai cambiamenti avvenuti in seno al Partito democratico, quella di Israele è diventata una questione bipartisan nella politica americana, uno spiacevole sviluppo per quest’ultima. Alla fine di marzo 2010, durante uno dei momenti più critici nei rapporti tra Usa e Israele, Janine Zacharia ha scritto sul Washington Post che alcuni israeliani presumono che il loro premier «cerca dei modi per temporeggiare fino alle elezioni americane di medio termine [del prossimo novembre] nella speranza che Obama perda il sostegno e che vengano eletti più repubblicani pro-Israele». Il fatto che si pensi che un leader israeliano cerchi di guadagnare tempo augurandosi che ci saranno meno democratici in seno al Congresso conferma i cambiamenti sottolineati in questo articolo e fornisce altresì un aiuto all’elettorato.

Un gruppo di 54 deputati democratici ha scritto al governo chiedendo di appoggiare le Ong di Hamas


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pagina 28 • 23 ottobre 2010

Francia. Il Senato vota la riforma delle pensioni, altri due giorni di sciopero l Senato approva la riforma delle pensioni, i sindacati proclamano altre due giornate di sciopero generale, il blocco dei rifornimenti di carburante mette in pericolo il weekend di Ognissanti - uno dei più attesi in Francia - ma l’opinione pubblica è preoccupata soprattutto dal ritorno in piazza dei casseurs, le bande di teppisti che si mischiano alle manifestazioni pacifiche, spaccano vetrine, incendiano auto, picchiano e approfittano per rubare. Gli incidenti più gravi li hanno provocati a Lione, ma episodi di violenza ci sono stati anche a Parigi, a Marsiglia e a Tolosa. E in una fase di estrema difficoltà per Nicolas Sarkozy, un aiuto per il capo dell’Eliseo potrebbe arrivare proprio da loro, dai casseurs. La popolarità della protesta contro l’innalzamento dell’età pensionabile da 60 a 62 anni - ma anche contro altre misure di austerità, come il blocco delle assunzioni nel settore pubblico - è altissima. Ma la paura che il Paese scivoli nel caos è ancora più forte. Il nemico dei sindacati e, al tempo stesso, il miglior alleato di Sarkozy, si chiama proprio radicalizzazione. Tutto ciò che porta alla paralisi, alle violenze, tutto ciò che è disordine, costituisce il modo migliore per far crescere, come reazione, la domanda di sicurezza e di autorità. In altre parole, può essere il cemento capace di ricompattare la destra che in questo momento è delusa e in grande difficoltà.

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La controffensiva di Nicolas Sarkozy parte da qui. «La legge è legge e va rispettata», ha detto il presidente. Nella sua strategia è imperativamente necessario superare lo scoglio della riforma delle pensioni per poter affrontare altre riforme che dovrebbero consentirgli di recuperare consensi, a parti-

Saranno i “casseurs” a salvare l’Eliseo Se la protesta si trasforma in violenza può ricompattare la destra col Presidente di Enrico Singer

crifici.Torna, così, d’attualità un documento che conteneva ben 316 proposte di riforme liberali che, se realizzate, avrebbero consentito alla Francia di raggiungere, entro la fine del 2012, obiettivi economici e sociali che oggi sembrano un sogno. Un punto in più di crescita all’anno, calo del tasso di disoccupazione al 5 per cento, costruzione di due milioni di case,

La maggioranza dei francesi è ancora a favore della protesta, ma ovunque cresce l’allarme per i disagi e il caos re dalla creazione di una nuova branca della previdenza sociale che sarà dedicata agli anziani non autosufficienti. Ma anche scegliendo tra le varie proposte che erano state suggerite, nel 2008, dalla Commissione Attali per rendere più competitivo il sistema economico francese e che potrebbero riportare il confronto con i sindacati sui temi dello sviluppo dopo lo scontro sui sa-

crollo di due terzi della disoccupazione giovanile attualmente assestata al 22 per cento. E ancora: riduzione del numero dei poveri da 7 a 3 milioni, creazione di 10mila nuove imprese, riduzione del debito pubblico al 50 per cento del Pil. Di tutte le riforme suggerite dalla Commissione presieduta da Jacques Attali, ex consigliere del presidente socialista François Mitterrand, l’attuale inquili-

Mario Monti e Franco Bassanini tra i consulenti di Attali

Due italiani per Sarkò no dei primi atti di Nicolas Sarkozy presidente fu l’istituzione di una commissione di esperti che doveva rispondere a una sola domanda: come “liberare la crescita” dell’economia francese. Con decreto del primo agosto 2007 (le elezioni presidenziali c’erano state il 6 maggio) la guida della commissione fu affidata a Jacques Attali, socialista, ex consigliere di Mitterrand. Era il tempo della rupture che Sarko aveva teorizzato durante la sua campagna elettorale: rottura con le vecchie logiche della politica francese che aveva già portato al governo - nello strategico ruolo di capo della diplomazia - un ex sessantottino come Bernard Kouchner, fondatore del movimento dei Medici

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senza frontiere e ministro della Sanità nell’esecutivo socialista di Pierre Bérégovoy (1992-1993). Attali, a sua volta, scelse i quarantuno componenti della commissione in modo bipartisan. Ed anche sovrannazionale, tanto che inserì nel gruppo di saggi uno svedese, un inglese, un austriaco e ben due italiani: Mario Monti e Franco Bassanini. Anche questa una scelta bipartisan di due professori, il primo ex commissario europeo alla Concorrenza, il secondo ex ministro della Funzione pubblica del governo Prodi. Nel gennaio del 2008 la commissione presentò un documento con 316 proposte per modernizzare e liberalizzare. Sarkozy disse: «Faremo quello che avete proposto». C’era anche la riforma delle pensioni.

no dell’Eliseo ne ha messe in cantiere soltanto alcune: la riforma degli straordinari e quella della procedura di licenziamento, la legge di modernizzazione dell’economia (Lme), che aumenta la concorrenza dei prodotti sul mercato, mira ad abbassare i prezzi e ad aumentare l’occupazione, la riforma che attribuisce all’università una maggiore autonomia finanziaria e, infine, le tre riforme che devono assicurare lo sviluppo sostenibile della finanza pubblica: sanità, pubblico impiego e pensioni. Ma proprio su questa il meccanismo si è inceppato.

Anche Marc Lazar, storico e politologo francese, sostiene che soltanto le violenze e i disagi possono riequilibrare il piatto della bilancia in favore di Sarkozy. Proseguire sulla strada della protesta tout court «finirà con il danneggiare, alla lunga, il movimento di lotta». E lo stesso quotidiano Le Monde, che è di orientamento progressista, contesta le modalità con cui i sindacati organizzano la mobilitazione. «La gente non partecipa allo sciopero, ma va alle manifestazioni; a fare sciopero è una minoranza, ben organizzata, poi anche all’interno dei sindacati esistono delle divergenze: sanno che non vinceranno e per questo cercano una via d’uscita, cercano di ottenere alcune concessioni dal governo per non perdere la faccia e, per questo, organizzano altre proteste». Secondo Lazar, il presidente Sarkozy ha in programma un rimpasto di governo e una svolta nel programma per presentarsi come l’unico riformatore nel Paese e l’unico candidato per la destra in vista delle elezioni presidenziali della primavera del 2012. Lazar è convinto che Sarkozy, alla fine di questa crisi, uscirà più forte tra i suoi elettori e sbarrerà la strada agli altri esponenti della destra che si preparano a dargli battaglia: da Marine Le Pen, figlia di Jean-Marie, all’estrema, a Dominique de Villepin, ex primo ministro e nemico di Sarkozy, tra i moderati. «La sua strategia va al di là della riforma, la sua attitudine è già quella del candidato che pensa al 2012», dice Marc Lazar. Che assegna - un po’ controcorrente - un altro vantaggio a Sarkozy: «Il fatto è che la destra ha un leader e la sinistra no».


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23 ottobre 2010 • pagina 29

La Npr si “libera” di Juan Williams dopo un suo intervento su Fox

Nuove imponenti manifestazioni per salvare la “lingua madre”

Usa: licenziato per una frase “politicamente scorretta”

Tibet, non si ferma la protesta degli studenti

WASHINGTON. «Quando salgo

LHASA. La protesta studentesca esplosa il 19 ottobre a Rongwo, contea di Rebkong nel Qinghai, si è estesa alle zone tibetane dell’intera provincia e migliaia di studenti, tra cui molti giovanissimi, sono scesi in strada dimostrando contro l’abolizione della lingua tibetana nelle scuole. Cresce la tensione e le città sono presidiate dalla polizia in forze. La Cina vuole introdurre il cinese come lingua ufficiale nelle zone tibetane, nonostante la gente parli tibetano e consideri il mandarino una lingua straniera. In molte zone è già avvenuto e peraltro il cinese è la lingua ufficiale nella vita pubblica e i tibetani sono discriminati negli uffici. Ieri mattina sin dall’alba

su un aereo se vedo persone vestite da musulmani e penso che si stanno identificando prima di tutto e soprattutto come musulmani, mi preoccupo. Mi innervosisco». Questa frase è costata a Juan Williams, commentatore della “radio pubblica” americana, National Public Radio. Williams stava parlando al un talk show condotto da Bill O’Reilly su Fox News. La decisione di licenziare Williams è stata spiegata così sul sito della Npr: «Le sue considerazioni hanno minato la sua credibilità come analista presso l’Npr».

Le frasi di Williams sono l’ultimo capitolo di un rapporto molto teso con l’Npr, per via della sua partecipazione a talk show “conservatori” sulla Fox, dove gli era già stato vietato di qualificarsi come analista dell’Npr. La polemica sul suo licenziamento è diventata rovente nel giro di poche ore. Il commentatore è tornato sulla Fox, difendendo la sua affermazione e ricordando come avesse anche detto che «è obbligatorio proteggere i diritti costituzionali di tutti» e «stare attenti a prevenire focolai di bigottismo». O’Reilly, il popolare conduttore della trasmissione, ha detto che «Npr ha licenziato Williams perché non gli piace

Spagna, maxi-retata contro l’Eta: 14 arresti Madrid vuole bloccare la ricostituzione del gruppo di Massimo Ciullo ll’alba di ieri, trecento agenti della polizia spagnola hanno effettuato una maxi-retata in diverse località dei Paesi Baschi, arrestando quattordici giovani legati ad un’organizzazione giovanile, sospettata di avere legami con il gruppo indipendentista Eta. Secondo fonti giudiziarie citate da El Pais, gli arrestati, che hanno tra i 20 e i 30 anni, sono sospettati di appartenere al Segi, un’organizzazione dichiarata fuori legge per il suo supporto politico al gruppo armato basco. I mandati di cattura sono stati emessi dal magistrato Fernando Grande Marlaska, nell’ambito di un’inchiesta sulla ricostituzione dell’organizzazione giovanile, quasi ad un anno di distanza da analoghi provvedimenti dello stesso giudice, che portarono alla cattura di 35 membri di Segi. I giovani sono accusati, tra l’altro, di aver partecipato ad atti di guerriglia urbana durante recenti manifestazioni pro-indipendenza. Tredici arresti sono avvenuti nei Paesi Baschi e nella vicina comunità di Navarra mentre una studentessa, Marina Sagastizaoriginaria bel, della provincia di Araba, è stata bloccata a Barcellona, dove risiedeva per motivi di studio. L’operazione, secondo gli investigatori, non è ancora terminata, e in queste ore si sta procedendo alla perquisizione delle abitazioni e dei luoghi di abituale ritrovo dei sospettati. Secondo il Ministero degli Interni, l’obiettivo della retata è quello della «totale disarticolazione della struttura direttiva di Segi». Per arrestare alcuni elementi di spicco del gruppo, gli agenti di polizia sono stati costretti ad usare i manganelli ed ad esplodere colpi di pistola in aria, per respingere i tentativi di impedire la cattura da parte di congiunti ed amici dei giovani fermati. Alcuni sospettati, probabilmente avvertiti dagli altri arrestati, sono riusciti a sfuggire alla polizia, non facendosi trovare negli abituali luoghi di residenza. Nelle ultime settimane le forze dell’ordine hanno effettuato varie retate contro le organizzazioni vicine all’Eta, nonostante l’annuncio del gruppo della

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cessazione delle azioni armate a tempo indeterminato, avvenuto lo scorso settembre. La tregua unilaterale annunciata dall’organizzazione armata, per l’Esecutivo di Madrid, è giunta fuori tempo massimo e non è più sufficiente per avviare una soluzione negoziata del conflitto. Zapatero non si fida delle vere intenzioni dei separatisti baschi, dopo il fallimento del “processo di dialogo”, iniziato nel 2005, e sospetta che il gruppo armato possa approfittare del “cessate il fuoco” per riorganizzarsi dal punto di vista militare.

All’interno di Batasuna si moltiplicano nel frattempo le voci che chiedono all’Eta di deporre le armi. Allo stesso tempo, i leader del movimento politico indipendentista hanno concordato sul fatto che la nuova tregua offre un’opportunità eccezionale per la soluzione del conflitto. Una possibilità che il governo di Madrid non deve assolutamente rigettare senza prima aver preso in considerazione la riapertura di negoziati. La soluzione prospettata dai partiti e dalle organizzazioni della sinistra nazionalista consiste nell’apertura di un tavolo di trattative modellato sui colloqui che hanno permesso al Governo britannico di raggiungere un accordo di pace con i nazionalisti cattolici dell’Irlanda del Nord. Intanto, le organizzazioni vicine a Batasuna, il partito considerato il braccio politico dell’Eta, dichiarato fuorilegge alcuni anni fa, hanno duramente protestato nei confronti del Governo di Madrid per l’uso sproporzionato della forza nei confronti dei giovani che simpatizzano per la causa indipendentista. «Mentre nel Paese Basco si fanno passi in avanti (per il processo di pace, ndr), da Madrid l’unica risposta che giunge è la repressione, la tortura, il carcere e il divieto di associazione» hanno dichiarato in un comunicato congiunto. Nello stesso comunicato, i movimenti vicini alla sinistra nazionalista hanno chiamato alla mobilitazione generale tutti i baschi per protestare contro la repressione messa in atto dal Governo Zapatero.

I baschi criticano il pugno duro centrale: «In altre parti del Paese facciamo passi avanti, qui avvengono soltanto raid»

la Fox». E che avrebbe invocato «la sospensione immediata dei finanziamenti pubblici». Ma non sono solo la Fox o i politici repubblicani a criticare la Npr. Per gli ultra-liberal del New Yorker, ad esempio, si tratta di un «un brutto divorzio»; The Atlantic titola «Juan Williams licenziato senza una vera ragione»; per il Washington Post, «si trattava di parole che difficilmente possono giudicare un licenziamento». Addirittura la Npr è stata criticata dal suo stesso obudsman (l’autorità interna preposta a difendere i diritti degli ascoltatori). Un altro, discutibile, capolavoro del “politicamente corretto” a stelle e strisce.

a Tawo, capitale di Golog nel Qinghai, migliaia di studenti di scuole media hanno protestato contro la proposta riforma.

Dal 14 la polizia ha presidiato le strade, controllando i dimostranti e tenendo la gente lontana dalla protesta. Sempre ieri è proseguita la protesta nella città di Gedun Choepe, contea di Tebkong, anche se si è svolta dentro la scuola media perché agli studenti, di età da 12 a 14 anni, è stato impedito di lasciare l’edificio. Il 20 ottobre sono scesi in piazza oltre 2mila studenti a Chabcha, nella contea Chabcha nell’Hainan, che già il giorno prima erano stati fermati da polizia e insegnanti. I dimostranti si sono radunati davanti al municipio della prefettura gridando slogan come: Libertà per la lingua tibetana. Anche nella contea Tsigorthan il 20 ottobre gli studenti medi sono scesi in piazza. Le autorità sono andate a incontrare gli studenti, nel tentativo di diminuire la tensione. Qualcuno ha persino promesso che il tibetano rimarrà lingua d’insegnamento, nonostante documenti ufficiali stabiliscano il contrario. In queste zone sono arrivate ingenti forze di polizia, che finora si sono limitate a tenere sotto controllo le proteste, svolte sempre in modo pacifico.


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il personaggio della settimana Vita, infortuni e soprattutto miracoli del più grande campione di tutti i tempi

I piedi del Novecento Da bambino pensava di non saper nemmeno giocare al calcio e invece poi è diventato Pelè. Ha vinto tre Rimet, ha segnato 1281 gol, ha dribblato la miseria e ha incantato il mondo. Oggi compie 70 anni, ma è il ragazzo di sempre di Francesco Napoli a più bella su di lui l’ha scovata Massimo Maria Veronese, autentico maestro della notizia curiosa sul calcio e autore di due incredibili raccolte di questo tipo di perle, Tuttepalle e il recente Tuttepalle mundial, e chissà dove l’ha trovata, forse tra quegli inediti di cui si và a caccia per autori letterari. Una lettera o una pagina di diario, non so, dalla quale ha trascritto queste parole di un Pelé ancora bambino: «Cara mamma, oggi ho fallito un calcio di rigore. Era decisivo per la mia squadra. So tuttavia che non potrò mai essere un grande calciatore. Non sono fatto per questa carriera»! E per fortuna, visto che ha vinto tre mondiali (1958, 1962 e 1970) con la sua Nazionale, non so quanti campionati paulisti e brasiliani segnando nella sua carriera appena 1281 gol in 1363 incontri.

L

“O Rei”, viene ancora chiamato così e chi ha avuto la fortuna di vederlo sul prato verde di un campo di calcio sa bene il perché. Una generazione intera ha davanti ai suoi occhi quel gol di testa nella finale di Messico 1970 fatto contro l’Italia, rete numero 100 del Brasile a un mondiale. Era appena il 18° minuto del primo tempo: sospeso nell’aria come un immenso airone nero, inutilmente contrastato da Burgnich, era lì in cielo ad attendere il pallone che puntualmente gli arrivò e con la naturalezza del volo di un uccello vibrò il colpo decisivo. 1-0 per il Brasile, l’inizio della fine che attendeva gli azzurri reduci dalla battaglia di Italia-Germania 4-3. Pensando a quella finale il pur combattivo Tarcisio Burgnich, riferendosi a Pelé, dovette ammettere: «Prima della partita mi ripetevo: è fatto di ossa, carne e sangue come me. Be’, mi sbagliavo». A riguardo, qualche anno dopo ricordando quella prodezza, il brasiliano raccontava che per lui «era una sensazione speciale quella di segnare con un colpo di testa. Mio padre una volta realizzò cinque colpi di testa in una sola partita, un record che non sono mai riuscito a battere». Il Brasile vinse la Coppa

Rimet per la terza volta con quella che fu senza ombra di dubbio la miglior squadra di tutti i tempi. Pelé era diventato una leggenda vivente. Il giorno dopo la finale il Sunday Times scriveva in prima pagina: «Come si scrive Pelé? DI-O».

Chi era poi a San Siro quasi cinquanta anni fa in occasione di una amichevole di lusso, Italia-Brasile, avrà pur gioito. La storia è nota e risale al 1963. Era un caldo pomeriggio di maggio. Da una parte i verde-oro di sua maestà il calcio, dall’altra l’Italietta di Mondino Fabbri. Pelé era già Pelé, Trapattoni era quasi Trapattoni. Lineamenti lisci, indole e piedi ruvidi. Gli si incollò, lo cancellò. E al 26° minuto del primo tempo la Perla nera chiese il cambio. Da quel momento in poi il Trap si attaccò a Quarentinha, il sostituto, con vigore ancora maggiore. E l’Italia dilagò. Come mai prima, come mai più dopo: Sormani al 35°, un rigore di Sandro Mazzola quattro minuti più tardi, Bulgarelli a metà ripresa. Una specie di “Gronchi rosa”: il regista del Bologna segnava solo negli anni bisestili. Tutto molto bello, tutto un poco falso. Fuorviato da quelle che De Gregori chiamava “curve della memoria”, dall’indulgenza che si riserva ai ricordi e alle persone più care. Tale, nel frattempo, è diventato il Trap. La cui ascesa anche da allenatore è stata salutata da un entusiasmo unanime. E dal luccichio di antiche medaglie. Compresa questa, la solita, forse pù patacca che medaglia. «Un milanista - ha esultato, ad esempio, Silvio Berlusconi quando Trapattoni divenne ct della nazionale che annullò il grande Pelé». Ma lui, il Trap, in tutta onestà non se ne fece mai vanto, forse sapeva che O Rei aveva il mal di pancia. Il dio del calcio, anche in questo modo chiamavano Pelé. Come lo si voglia appellare ciascun termine riconduce allo stesso ricordo, quello di una superstar che dominò il mondo, un’icona vivente che superò ogni primato. Al di sopra e oltre i suoi ineguagliati record, Pelé fu un genio che a ogni occasione reinventava costantemente il gioco del calcio.

Edson Arantes do Nascimento, così sulla carta identità, ha cominciato giusto settanta anni fa a respirare calcio tanto che se non fosse nato calciatore, sarebbe nato pallone. «Era nato in una casa povera, in un paesino remoto, e arrivò alla vetta del potere e della fortuna, dove i neri solitamente hanno l’entrata proibita. Noi che abbiamo avuto la fortuna di vederlo giocare, abbiamo ricevuto un regalo di rara bellezza: momenti a tal punto degni dell’immortalità, che ci consentono di credere che l’immortalità esiste»: racconta così la nascita dell’astro Pelé il grande scrittore Eduardo Galeano. Il padre, un modesto semiprofessionista, lo portava con sé sui campi di gioco contagiandolo. Possedeva, come tutti i ragazzini della sua età, solo un pallone fatto di stracci e di carta con in quali aveva riempito un suo calzino. Aveva un idolo, ironia della sorte un portiere, Bilé, compagno di squadra del padre. E così ha iniziato tra i pali, a farsi tirare quello strano pallone, come avran fatto tanti, a soli tre anni e a ogni parata, piccolo per poter pronunciare la “b”, gridava “Pilé, Pilé”. Nacque così il nomignolo di gioco di quell’«ineguagliabile artista del calcio che ha fatto per decenni la felicità del cuore della gente» come scrisse Jorge Amado, aggiungendo poi che «ogni gol era un capolavoro» e che «è un genio del pallone, il simbolo della dignità sportiva».

Con ogni tocco, ogni passaggio, ogni dribbling, Pelé era capace di fare qualcosa di nuovo, qualcosa che i tifosi mai avevano visto prima. Il suo istinto infallibile per il gol, il colpo d’occhio per i passaggi perfetti e le doti leggendarie di dribbling, fecero di lui il perfetto calciatore. E se la Seleçaõ era sinonimo di bel gioco agli occhi di tanti appassionati di tutto il mondo, ciò può essere tranquillamente attribuito alle doti straordinarie del suo osannato numero 10. Un numero una garanzia, un abbinamento nato perfino per caso. Si celebravano i mondiali di Svezia 1958 e il Brasile aveva portato con sé un giovanotto di belle speranze ma poiché la federazione brasiliana consegnò la lista dei giocatori senza specificare i numeri di maglia, fu


23 ottobre 2010 • pagina 31

Dopo la sconfitta azzurra del 1970, Burgnich disse: «Prima della partita pensavo: è fatto di ossa, carne e sangue come me. Mi sbagliavo»

Qui sopra Pelè esulta per il suo millesimo gol, il 19 novembre del 1969. In alto, gli azzurri delusi nella finale all’Atzeca di Città del Messico nel 1970 (Pelè esulta sullo sfondo). Nella pagina a fianco, il campione oggi

un dirigente del Comitato organizzatore, l’uruguaiano Lorenzo Vilizio, a provvedere alle assegnazioni. Garrincha, l’ala destra, ebbe l’11; viceversa Zagalo, che giocava a sinistra, il 7; Gilmar, mitico portiere di quella formazione, addirittura il 3. E al giovanissimo Pelé toccò il 10 e da allora non solo non se lo tolse più, ma quella magica cifra nella numerologia del calcio assunse un valore unico e inconfondibile, riconosciuto in tutto l’universo pallonaro, e non solo in quello.

Una stella dall’inizio. Scoperto all’età di 11 anni dall’ex giocatore della nazionale brasiliana Waldemar de Brito, si unì al Santos a quindici anni e non ne aveva ancora compiuti sedici quando segnò un gol nel suo primo incontro ufficiale contro il Corinthians, nel settembre del 1956. Era nata una leggenda. Nel 1958 giocò la sua prima Coppa del Mondo a soli 17 anni. Il mondo era stupefatto da quel minuto adolescente venuto dal nulla per illuminare il torneo con le sue doti straordinarie. Di fatto fu proprio la sua bravura in campo che gli fece guadagnare un posto nel terzo incontro del Brasile contro l’Unione Sovietica. Pelé si era infortunato, ma al suo ritorno dall’infermeria, la squadra serrò le fila e insistette con lui per formare un trio d’attacco irresistibile con Garrincha e Vavá. Pelé ripagò con un gol contro il Galles nei quarti di finale e con una tripletta contro la Francia in semifinale. Era inarrestabile, con una tecnica perfetta, accompagnata da una velocità mai vista fino a allora sui campi di calcio(i 100 metri li faceva in 11 secondi e veniva chiamato talvolta anche “gasolina”), mista a opportunismo e intelligenza. Emanava classe, e concluse la Coppa del Mondo con due splendidi gol nella finale contro la Svezia. Il primo lo vide esibirsi in un audace “sombrero”, sollevando il pallone sopra l’ultimo difensore prima di depositarla dolcemente in rete. Ci fosse stata la moviola l’avremmo rivisto non so quante volte, così è consegnato in annali della mitologia del calcio casomai polverosi dove, forse, si conserverà a lungo, protetto da ogni fatuo chiacchiericcio calcistico di oggi. Mentre il secondo fu un

astuto colpo di testa che superò l’ammaliato portiere svedese. Il difensore Sigge Parling più tardi si lascò scappare che «dopo il quinto gol avevo voglia di applaudire». Al fischio finale toccò al portiere Gilmar consolare il genio bambino che commosso veniva portato fuori dal campo in lacrime sulle spalle dei compagni. Pelé avrebbe consolidato la sua fama negli anni a venire, tormentando le difese e confermando il suo status di fuoriclasse assoluto.

In tema mondiali arrivò l’anno della frustrazione e del gioia: Cile 1962, pronto di nuovo a fare faville. Si trattava del palcoscenico ideale per mettere in mostra le sue doti, ma purtroppo subì un infortunio proprio durante il primo incontro e non poté più giocare. Osservò tutte le partite dalla panchina mentre i suoi compagni vincevano di nuovo il titolo più ambito. A partire da quel momento il destino di Pelé era segnato. Fece i conti infatti con un secondo infortunio nel 1966, quando dovette uscire dal campo in barella, colpito nello stinco durante la terza partita contro il Portogallo. Anche questa volta fu costretto ad assistere agli incontri dalla panchina, ma in questo caso la sua squadra venne eliminata. La Perla nera avrebbe dovuto attendere Messico 1970 per ricordare al mondo le sue doti eccezionali. Abilmente assistito dai luogotenenti Jairzinho, Tostao, Rivelino e Carlos Alberto, quell’anno il Re Sole splendette in tutta la sua gloria. Il primo Mondiale trasmesso in tutto il mondo a colori, vide come protagonista un Pelé deciso a dare un nuovo significato al gioco del calcio. Tra i momenti culminanti vi sono il suo tentativo di realizzare un pallonetto da metà campo contro la Cecoslovacchia, un incredibile colpo di testa seguito dall’ancor più incredibile salvataggio da parte del portiere inglese Gordon Banks e il memorabile frangente in cui con una finta lasciò scorrere il pallone da solo oltre il portiere dell’Uruguay uscito fuori area, per poi recuperare la sfera e sparare di pochissimo a lato. Pelé era una vera e propria leggenda e, durante la sua lunga e prestigiosa carriera, stabilì record sorprendenti. Nel

Una carriera zeppa di record Pelé è lo pseudonimo di Edison Arantes do Nascimento (Três Corações, 23 ottobre 1940): il nomignolo gli fu dato ai tempi della scuola. Ma molti lo chiamano anche O Rei o Perla Nera. Nella storia del calcio detiene una serie di record assoluti molto significativi. È stato l’unico calciatore a vincere tre edizioni dell’allora Coppa Rimet, la Coppa del Mongo, con la Nazionale brasiliana nel 1958, 1962 e 1970. Il suo gol realizzato alla Svezia nella finale del 1958 è considerato il terzo più grande gol nella storia della Coppa del Mondo FIFA e primo tra quelli realizzati in una finale di un campionato del mondo. Detiene il record di reti realizzate in carriera: 1.281 in 1.363 partite. Inoltre, è stato nominato Calciatore sudamericano dell’anno nel 1973, Atleta del Secolo dal CIO nel 1999 e Calciatore del Secolo insieme a Maradona dalla FIFA nel 2000, mentre è stato dichiarato «Tesoro nazionale» dal presidente del Brasile Jânio Quadros. Il suo nome è legato indissolubilmente al Santos, la squadra brasiliana dove ha giocato ininterrottamente per diciannove stagioni, dal 1956 al 1974. L’anno dopo si trasferì ai Cosmos di New York che gli offrì, con il beneplacito del governo brasiliano, un contratto di circa 4,5 milioni di dollari per tre anni: un’ernomità. Si ritirò dal calcio giocato nel 1977, ma ha continuato a rimanere nel mondo del football, come uomo immagine della Fifa.

1969 realizzò il suo millesimo gol, di fronte a una folla in delirio nello stadio Maracaná. In sei circostanze realizzò cinque gol durante un unico incontro, fu poker di reti in 30 occasioni, ben 92 le triplette!

Poi, inevitabilmente, arrivò anche il momento dei primi addii. 18 aprile 1971, mondovisione: stadio Maracaná, Rio de Janeiro. Davanti a 140.000 spettatori allo stadio e non si sa quanti agli schermi, Pelé ha appena disputato la sua ultima partita con la maglia della Nazionale brasiliana. Consigliato dal padre, decide di chiudere con la Seleçao all’apice della carriera, lasciando di sé il ricordo della conquista della Rimet dell’anno precedente. Abbandonò definitivamente quello che chiamava “il bel gioco” nel 1974, prima di tornare, un anno dopo e un po’ a sorpresa, a giocare per i Cosmos di New York, “per portare il gioco più diffuso al mondo al pubblico nordamericano”, disse quasi a giustificarsi. Appese definitivamente le scarpe al chiodo nel 1977. J.B. Pinheiro, allora ambasciatore brasiliano presso l’ONU, affermò: “Pelé giocò a calcio per ventidue anni e durante quel periodo promosse l’amicizia e la fraternità mondiali più di qualunque ambasciatore”. E chi potrebbe contraddirlo? Nel 1970, in una Nigeria in piena guerra, venne stipulata una tregua momentanea in quanto Pelé stava per disputare un incontro a Lagos. Il Presidente del Brasile lo dichiarò “risorsa nazionale”, per impedire qualsiasi potenziale passaggio in squadre straniere. E in Brasile, ogni 19 novembre, sarà sempre il “Giorno di Pelé”, per ricordare l’anniversario del 1000º gol realizzato da O Rei.



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