2010_10_26

Page 1

01026

di e h c a n cro

L’ambizioso ha tanti padroni quante sono le persone utili alla sua fortuna

Jean De La Bruyère

9 771827 881004

di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MARTEDÌ 26 OTTOBRE 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Il presidente della Camera: «No a una riforma fatta contro la magistratura». Mentre Alfano frena sulla «reiterabilità» del Lodo

Saldi di fine regime Da Nord a Sud il Pdl si decompone: in Sicilia nasce un nuovo partito. Il Pd riconosce che l’era bipolare è finita. E il leader di Fli avvisa: «Sulla giustizia la crisi è possibile» IL PAESE NON ASPETTA

Dopo l’attacco in tv all’Italia

Serve qualcuno che governi il Paese

Fini sconfessa Marchionne: «La Fiat salvata dallo Stato»

l governo reitera. È lì dov’era. Non si muove. Anche se il presidente del Consiglio fa sapere che «il lodo non è una priorità» il suo governo è ancora fermo su questa nonpriorità. Anzi, se Berlusconi decidesse di lasciar cadere il lodo Alfano ci sarebbe di fatto quasi un nuovo governo e si aprirebbe una fase nuova. Ma al momento non si va né avanti né indietro: si è fermi sulla questione della cosiddetta reiterabilità - parola veramente brutta, chiedo scusa, sarebbe meglio scrivere ripetibilità - e se uno dei soliti sondaggisti chiedesse agli italiani se sanno cos’è e se la ritengono vitale per il programma di governo e per l’amministrazione dell’«azienda Italia» ne verrebbero fuori delle belle. Perché il cosiddetto «governo del fare» si occupa con una certa passione della reiterabilità. Ci si può dunque stupire se Fini dice che un altro governo è possibile?

«normale giornata di fine regime». Da un lato lo scontro sul Lodo Alfano e dall’altro l’altolà di FIni sulla Riforma della giustizia. E poi il Pd che ammette - finalmente - che la stagione bipolare è alla fine. E ancora Casini che, dalla Sicilia ha rilanciato la sua analisi: «In caso di autoribaltone della maggioranza, un altro governo politico è possibile». Insomma, Berlusconi non è in difficoltà e Fini evoca lo spettro: «Sulla riforma della giustizia, la crisi è possibile».

I

a pagina 2

a pagina 2

La “manager” non basta più

Parla Paolo Pombeni

Se anche Milano volta le spalle a Donna Letizia

«Un esecutivo istituzionale è utile per tutti»

La città è sempre più critica con il sindaco: le elezioni di primavera sono un’incognita. E aprono spazi al Terzo Polo

«La crisi del partito del premier è gravissima: perciò anche a loro converrebbe una soluzione alternativa»

Giancarlo Galli • pagina 4

Riccardo Paradisi • pagina 3

il saggio

Francesco Pacifico • pagina 8

L’intervento del filosofo per il Consiglio Pontificio per la Giustizia e la Pace

Quali sono le ragioni del manager

Il rischio della Chiesa: troppa Caritas, poca Veritas

Attenti, il Lingotto pone un problema vero di Gianfranco Polillo n una politica sempre più contratta in una logica minimalista, l’intervista di Sergio Marchionne dallo studio di Che tempo che fa è stato un sasso nello stagno. Non sono state parole dal sen fuggito. Ha invece interpretato un sentimento diffuso tra quanti si ostinano ancora a cercare nel nostro Paese una ragione per continuarci a vivere. C’è un dato che spesso trascuriamo. Quante sono le persone che si sono trasferite all’estero almeno per una parte più o meno lunga dell’anno? E non alludiamo solo al fenomeno della delocalizzazione delle imprese, pure importante. Gli altri Paesi – dal Sud America alla Thailandia – offrono ormai condizioni di vita che sono migliori di quelle italiane. I costi sono di gran lunga inferiori. a pagina 9 se1,00 gue a (10,00 pagina 9CON EURO

ROMA. Anche ieri è stata una

di Giancristiano Desiderio

«È paradossale che si esprima in questo modo l’ad di un’azienda che si chiama Fabbrica italiana automobili Torino: ha parlato da canadese»

I

di Errico Novi

stato, sulla scorta della Obamanomics. Nella sua ultima enciclica, Caritas in Veritate, Benedetto XVI sottolinea che la Chiesa non dovrebbe essere intesa né come detentrice di una particolare ideologia circa l’economia politica né come desiderosa di imporre soluzioni pratiche specifiche per singoli paesi o regioni. Egli non intende pronunciarsi sul disaccordo in economia politica tra cattolici o esponenti di altro credo. Al contrario, il suo obiettivo è porre gli interrogativi sull’economia politica in un contesto più ampio, teologico e filosofico, affrontando questioni quali il ruolo della caritas nella teologia. a pagina 12

di Michael Novak on è un segreto che, all’incirca nell’ultimo ventennio, il Cattolicesimo statunitense sia stato segnato da una spaccatura sempre più aspra tra due grandi fazioni sui temi dell’economia politica. Alcuni propendono a sinistra, altri a destra. Alcuni preferiscono un approccio stile Reaganomics all’economia politica e si rallegrano del boom durato circa trent’anni. Altri prediligono un approccio stile Clintonomics (che in pratica somigliava molto alla Reaganomics), mentre altri si rivelano fautori di un’impostazione più significativamente guidata da ed incentrata sullo

N

I QUADERNI)

• ANNO XV •

NUMERO

208 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


la polemica

prima pagina

Un Paese che vive perennemente in emergenza

pagina 2 • 26 ottobre 2010

Adesso serve qualcuno che governi l’Italia di Giancristiano Desiderio l governo reitera. È lì dov’era. Non si muove. Anche se il presidente del Consiglio fa sapere che «il lodo non è una priorità» il suo governo è ancora fermo su questa non-priorità. Anzi, se Berlusconi decidesse di lasciar cadere il lodo Alfano ci sarebbe di fatto quasi un nuovo governo e si aprirebbe una fase nuova. Ma al momento non si va né avanti né indietro: si è fermi sulla questione della cosiddetta reiterabilità - parola veramente brutta, chiedo scusa, sarebbe meglio scrivere ripetibilità - e se uno dei soliti sondaggisti chiedesse agli italiani se sanno cos’è e se la ritengono vitale per il programma di governo e per l’amministrazione dell’«azienda Italia» ne verrebbero fuori delle belle. Perché il cosiddetto «governo del fare» si occupa con una certa passione della reiterabilità. Ci si può dunque stupire se Fini dice che un altro governo è possibile?

I

Fino a quando c’è questo governo non è il caso di pensare a un altro governo.Tuttavia, anche i ministri in carica e persino i coordinatori del Pdl dovranno ammettere che il miglior antidoto a ogni altro governo possibile è il buon lavoro del governo in carica. Allora ciò che c’è da fare è già scritto: governare. Invece, non solo il «governo del fare» è con le mani in mano dalla scorsa primavera, ma ha ormai imboccato la strada della reiterabilità: ossia ripete se stesso. La lotta estenuante sul “bloccaprocessi” è il pane quotidiano dell’esecutivo. Non c’è altro tema che gli possa fare concorrenza. La riforma dell’università è stata fatta ed è stata bloccata, ma il tema non è così serio e decisivo per questo governo come il “bloccaprocessi”di Angelino Alfano. Persino l’emergenza rifiuti a Napoli sembra essere il frutto della distrazione del capo del governo: il ritorno dei rifiuti e la nuova guerriglia urbana sono per Berlusconi un doppio errore imperdonabile proprio perché all’inizio del mandato nel 2008 aveva voluto mostrare al mondo il suo personale miracolo napoletano. Invece, oggi il presidente del Consiglio è frastornato: da un lato ha la necessità di approvare il lodo, dall’altro ha l’ex alleato Fini che non è disposto a fargliene passare una liscia. Ormai il governo non si regge più sulla coppia Pdl e Lega, ma balla la tarantella con Pdl, Lega e Fli. L’indecisione del premier sul voto anticipato ha in pratica fornito a quanti non ritengono di dover andare al voto un’arma in più: caduto un governo se ne fa un altro. Può darsi che Fini lo dica per dissuadere il suo ex amico dall’intraprendere la scorciatoia delle urne ma, che sia vero o che sia tattica, ciò che conta è che in questa situazione il governo è a bagnomaria. Cuoce a fuoco lento e soprattutto non governa. Il premier, in particolare, appare bollito. Tra la difesa incerta delle reiterabilità e il nuovo governo che si intravede all’orizzonte il Cavaliere non si avvede che la cosa migliore che ancora può fare è rimboccarsi le maniche e governare. Invece, fa altro. Cosa? Prepara sotto traccia, e neanche tanto sotto traccia, le forze per la campagna elettorale. Il governo del fare non muove un dito. Anche se ostenta distrazione, il premier è concentrato su due fatti: giustizia e campagna elettorale. Se porta a casa la prima, la seconda entra in garage. Se la prima naufraga, la seconda è un salvagente. Nelle intenzioni del premier la scialuppa di salvataggio funzionerebbe così: la Lega aumenterà al Nord, il Pdl con le varie altre creature di riferimento (vedi Micciché) dovrà raccogliere il massimo al Sud. Il governo del Paese è l’ultimo dei pensieri per il governo del fare.

il fatto Il presidente della Camera: «Chi ha vinto governi, ma su alcuni temi si può rompere»

Scontro finale sulla giustizia

Fini minaccia: «No a riforme contro i magistrati». Alfano frena sulla norma che prevede la «reiterabilità» dello scudo. Ma la parola “crisi” non è più un tabù di Errico Novi

ROMA. Esempio chiave per capire in anticipo cosa attende il Pdl nei prossimi mesi è il caso Milano. C’è Albertini pronto a ripresentarsi alle Comunali, e a sparigliare le carte nel campo dei moderati. Eppure il Pdl che fa? Sbatte la porta in faccia ai finiani, che nonostante la forte seduzione esercitata dall’ex primo cittadino erano pronti a discutere di un nuovo sostegno della uscente Letizia Moratti.Verso ora di pranzo sarebbe previsto un gran consiglio allargato non solo agli uomini di Futuro e libertà, guidati da Giampaolo Landi di Chiavenna, ma anche all’Udc. Pochi minuti prima, quando i rappresentanti dei partiti hanno già varcato il portone di Palazzo Marino, arriva però il niet suicida di Ignazio La Russa: non vuole finiani, il ministro. E la riunione incredibilmente salta. Con questa, molto probabilmente, anche le chances di bissare il successo del 2006 per la Moratti. È una scelta inspiegabile con le logiche della politica. Se non fosse assai plausibile l’ipotesi di una feroce irritazione dell’ala ex aennina del Pdl, capeggiata appunto da La Russa, per i proseliti che Futuro e libertà comincia a fare anche all’ombra del Duomo. A trasferirsi sotto le insegne finiane, per esempio, è il presidente del Consiglio comunale Manfredi Palmieri. Uno che ha mosso i primi passi in politica sotto lo sguardo premuroso di Marcello Dell’Utri, che qualche anno fa ne aveva fatto un piccolo campioncino dei suoi Circoli. Palmieri fu tra i primi prodotti del neomovimentismo berlusconiano degli anni Duemila a entrare in un’assemblea elettiva importante. Insomma, uno che ha bruciato le tappe. E che ora guarda un po’sembra messo letteralmente in fuga dai correntismi e dalle arroganze pseudo-padronali che inquinano il Pdl. Lui, dellutriano ergo berlusconiano doc, va con il nemico. Dovrebbe ba-

stare. E invece alla lista dei transfughi si aggiunge una che è ancora più berlusconiana di un dellutriano, perché fa parte del mitico novero dei pionieri forzisti: Tiziana Maiolo. Nel tardo pomeriggio si presenta anche lei al Derby di Milano, dove il presidente della Camera incontra i sostenitori locali del suo movimento.

Tutto serve al Pdl, fuorché la sindrome di autosufficienza, già sconfessata al Parlamento nazionale. Ed è invece quello che emerge di fronte all’avanzata di Futuro e libertà. Il modo peggiore, di sicuro, per reagire allo sfarinamento in periferia, che evidentemente non riguarda solo Milano. Al fenomeno assiste compiaciuto Fini, che sceglie non casualmente il capoluogo lombardo per accelerare nella campagna di reclutamento sul territorio. Lui non ha che da guadagnarci, e invia messaggi poco rassicuranti per il Cavaliere: sulla giustizia, ammette, «potrebbe aprirsi una crisi». Ci sono faccende non negoziabili come «l’autonomia della magistratura» e la necessità che «la riforma non sia punitiva». Si sofferma a lungo sul discorso di Marchionne e gli attacchi di quest’ultimo alla redditività degli investimenti in Italia, ricorda che «se la Fiat continua ad essere quello che è lo deve anche ai contribuenti italiani, cioè allo Stato», e così si appropria di un argomento di propaganda assai gettonato nel centrodestra fino a poco tempo fa. Manda frecciatine anche alla Lega, torna a chiedere che il federalismo sia «solidale», confuta le teorie che assimilano l’Italia al Belgio delle divisioni etniche («lì ci sono due popoli diversi, fiamminghi e valloni, ma da noi c’è la gens italica che esiste da duemila anni, e spero che la Lega non si offenda»). Insomma, la Terza carica dello


la testimonianza

«Governo istituzionale? Al Pdl conviene» Il politologo Paolo Pombeni: «È una crisi troppo profonda perché non siano coinvolti tutti» di Riccardo Paradisi ultimo scampolo d’ottobre vede l’allinearsi una dopo l’altra le forze politiche potenzialmente disponibili a un governo istituzionale o di transizione. È stato il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini a parlarne con più chiarezza per primo alla fine della scorsa settimana: «Se questo governo volesse la fine di questa legislatura con un autoribaltone noi saremmo pronti per un governo politico alternativo». Anche per il presidente della Camera Fini non è uno scandalo pensare a un nuovo governo. Per Massimo D’Alema un nuovo governo non solo «è legittimo e necessario, ma anche urgente». Buon ultimo Dario Franceschini, area dem del Pd. In caso di elezioni anticipate sarebbe ”logica conseguenza” proporre al Paese «un’alleanza costituzionale che fondi la sua azione sul rispetto delle leggi e delle regole, non solo per riformare la legge elettorale, che aiuti il ritorno a una fase di normalità per favorire una competizione secondo il modello bipolare». Di questa ipotesi – un governo parlamentare istituzionale – parliamo con Paolo Pombeni, politologo dell’università di Bologna e interlocutore abituale di liberal Professor Pombeni è realistico o almeno verosimile questo scenario di transizione verso una terza repubblica? Quello che è evidente a tutti è che c’è una indubbia consunzione della seconda Repubblica. Insomma

L’

questo modello basato sull’alternanza bipolare così com’è non regge più. Ma questa considerazione ci dice solo che siamo entrati in un guado. Come attraversarlo è un altro paio di maniche. È certo che qualcosa comunque va fatto per sbloccare la situazione visto che star fermi e continuare così è la peggiore delle soluzioni. Il punto è che la via d’uscita non può essere artificiale, cervellotica…Insomma è più facile immaginare una maggioranza parlamentare

Siamo in fase di transizione: la seconda repubblica è finita ma la terza non è ancora nata

alternativa che farla e soprattutto farla accettare anche dall’altra metà dell’elettorato italiano. Nel pensiero dei suoi potenziali attori l’ipotesi di governo istituzionale, sarebbe un interregno: una navigazione sulla rotta della riforma elettorale e delle riforme minime per contenere la spesa e far ripartire l’economia. Non mi sembrano obiettivi da poco. Io penso che per arrivare a questa soluzione di un vero governo pragmatico sarebbe necessario trovare una maggioranza molto ampia, talmente ampia e plurale da coinvolgere e da non escludere anche il

Stato si gode la posizione di vantaggio abbastanza chiara acquisita sul Cavaliere.

Nei fatti d’altronde le notizie che arrivano da diverse regioni confermano che il processo di sfarinamento del Pdl è in pieno svolgimento. Si è detto di Milano – dove peraltro i fedelissimi del premier tendono a stemperare l’impeto di La Russa, a cominciare da Paolo Romani secondo il quale «un accordo con Fli è ancora possibile». Ma appunto i casi si moltiplicano. C’è quello di Benevento, dove la bellezza di dieci consiglieri comunali del Pdl ha deciso di seguire PasqualeViespoli nell’adesione a Futuro e libertà. Ma c’è anche Palermo, dove la nascita del neonato partito di Micciché, Forza del Sud, produce per ora la diaspora tra i seguaci del sottosegretario, con Giulia Adamo che passa all’Udc, resta fedele a Raffaele Lombardo e viene presentata da Pier Ferdinando Casini come capogruppo centrista all’Assemblea regionale. Se si aggiungono le fibrillazioni avvertibili dalle parti del Pd, con i moderati del partito che in Veneto formano un nuovo movimento guidato da Cacciari, Verso il Nord, se ne ricava appunto la chiara immagine di un principio di decomposizione del sistema. Il Pdl ma anche il Pd perdono componenti a vantaggio di Futuro e libertà, dell’Udc e di una più generale prospettiva terzopolista. Avviene dappertutto e le reazioni scomposte dei berlusconiani non aiutano certo ad arginare il fenomeno.

Pdl o almeno sue parti significative. Altrimenti c’è un rischio molto alto… Quale? Che l’Italia finisca con lo spaccarsi definitivamente. Che una parte del paese cominci a gridare al colpo di mano. Non parliamo di una parte marginale, parliamo di un blocco politico e sociale imponente, con bocche di fuoco mediatiche gigantesche Bondi ha già parlato dell’illegittimità di un simile governo Parlare di illegittimità tout court è tecnicamente sbagliato e pericoloso. Però siccome il senso di responsabilità in questi tempi non è altissimo bisognerebbe tenere conto che la reazione di Bondi di fronte a un governo parlamentare potrebbe essere solo l’antipasto di quello che potrebbe venir detto in un clima sempre più incandescente. Per questo sarebbe un atto di responsabilità politica coinvolgere in questo processo anche il Pdl. Casini sostiene che settori del Pdl sarebbero già pronti a un’eventualità del genere. Certo ma il coinvolgimento del Pdl andrebbe fatto in termini ufficiali, con una precisa proposta politica che arrivasse dopo un fitto lavoro diplomatico per il disarmo bilaterale. Insomma qui l’obiettivo non è abbattere Berlusconi è governare un Paese e una crisi economica non solo nazionale gravissima. Il centro aveva formulato questa proposta ma dal Pdl non c’è stata una risposta positiva. Meglio, non c’è stata risposta. La soglia critica non era così

pena tenuto il suo intervento mattutino prima di dedicarsi a quello milanese del pomeriggio. L’autoribaltone? «Chi ha vinto governi, se sa e se vuole farlo». Che è un modo per dubitare di entrambe le cose. E detto appunto che «su alcune questioni» relative alla giustizia il rischio di crisi c’è, Fini infierisce anche sul Lodo Alfano: «Se il Pdl non cambia idea, non vedo come il presidente Berlusconi possa prendere a pretesto questa legge per fare una crisi di governo».Tanto più che «noi non cambiamo opinione sul Lodo, che serve a tutelare una funzione e non

avanzata, l’alleanza con Fini non mostrava la corda come avviene ora. Il Pdl, e in particolare Berlusconi, devono chiedersi dove vogliono andare. Vogliamo giocare alla roulette russa o vogliamo fare qualcosa che porti il Paese fuori da questo stato di incertezze e di ingovernabilità che ha costi altissimi per noi? Se nei prossimi giorni passerà al consiglio europeo la proposta di abbassare la barriera del debito pubblico dei paesi Ue al 60% voglio capire chi gestirà questo passaggio, avendo noi un livello di debito pubblico al 110%. Insomma questa è l’entità dei problemi con cui abbiamo a che fare. Le ville di Berlusconi o le case di Fini sono sciocchezze. Io credo che questa sia l’emergenza vera e sono convinto che questa si tratti di un’emergenza così grave da poter essere governata solo con un accordo politico molto ampio. Un nuovo governo non senza il Pdl lei dice. E se il Pdl, Berlusconi dovessero rifiutare di nuovo questa ipotesi? Beh allora Berlusconi pagherà politicamente ed elettoralmente questo gesto d’irresponsabilità. Non avrebbe più sponde per la sua polemica. Ma saltare questo passaggio e imporre un risanamento vero attraverso un governo legittimo ma nato in Parlamento contro il 45% del Paese che potrebbe arrivare al 50 e oltre con la propaganda di guerra, è un salto nel buio.

resta un po’in retroguardia pur non condividendo fino in fondo lo stop sulla reiterabilità, ma nei fatti la linea dei finiani è proprio questa: oggi in commissione Affari costituzionali il rappresentante di Fli Maurizio Saia presenterà un emendamento che esclude appunto la possibilità di avvalersi dello scudo per più di una volta. Eccezione che sarà possibile presentare anche perché il presidente CarloVizzini riapre i termini per gli emendamenti. Chiede pure, a dire il vero, «un supplemento di confronto» con i fedelissimi di Fini. Ma la partita è chiusa. E anzi dopo l’intervista a Repubblica con cui Italo Bocchino apre a un governo istituzionale, sia Urso che Viespoli confermano: se ci sarà un autoribaltone, lavoreremo per salvare una legislatura nata per fare le riforme. Messaggio chiaro.

Continua la fuga dal Pdl verso Fli: nuovo caso a Milano, dove La Russa dice no all’intesa con i finiani sulla Moratti e li spinge verso Albertini.Anche la Maiolo lascia Berlusconi

E lo stato di salute del governo? Non può essere eccezionale, viste le premesse. Fini lo dice implicitamente in un’intervista a un’emittente locale di Rovigo, dove ha ap-

una persona». Il nodo d’altronde è ormai chiaro e riguarda la reiterabilità: i finiani non la vogliono, anzi alcuni di loro non vorrebbero nemmeno la legge, come Briguglio che chiama in causa «i nostri elettori». In caso di referendum sul ddl costituzionale, dice, «si sa come voterebbero, si schiererebbero contro», e poi aggiunge: «Si sa anche che non vogliono avallare l’ipotesi di un’elezione di Berlusconi a presidente della Repubblica, cosa che scopertamente il Lodo punta a realizzare».

E da Berlusconi viene ribadito un ordine del tutto analogo a quello che qualche mese fa ha archiviato il ddl intercettazioni: non reagire. Infatti il guardasigilli Angelino Alfano dice che la reiterabilità «non è vitale» per la legge. È vero che la componente più moderata di Futuro e libertà

Così come è chiaro anche quello di Casini: sarebbe una follia, dice il leader dell’Udc, se il governo «gettasse la spugna». Ciò detto, «è corretta l’impostazione di Franceschini», nel senso che «prima o poi in questo Paese le forze responsabili si dovranno mettere assieme». Giusto dunque parlare di un «governo costituzionale», così come è impensabile che l’Udc «in caso di elezioni si metta insieme a forze perdenti», quali sono il Pdl e il Pd. Tanto più che non si possono assecondare né i populismi alla Di Pietro «che è il contraltare della Lega» né appunto un federalismo fatto per dividere «che in Parlamento è ancora possibile fermare».Tantomeno i sottoprodotti dei due pseudo-colossi, comprese «le leghe del Sud che rischiano di trasformare la politica in un sindacato territoriale». Al sistema che si sbriciola l’Udc insomma non offrirà ciambelle di salvataggio.


pagina 4 • 26 ottobre 2010

l’approfondimento

Dal caos per la gestione dell’Expo ai disagi sempre più gravi per una città «sporca e in preda alla microcriminalità»

Il tramonto di Letizia

Manager di livello, ma poco adatta a risolvere i problemi dei cittadini: Milano è in fredda con la Moratti: alle elezioni di primavera, l’implosione del centrodestra potrebbe fare una vittima illustre. Lasciando il campo al «terzo polo» di Giancarlo Galli a vicenda è talmente gustosa che va raccontata (anche perché è possibile che se ne riparli, e parecchio, durante la prossima campagna elettorale). Riassunto: la sindachessa Letizia Moratti, in compagnia del governatore Roberto Formigoni, nonché del presidente della Provincia Guido Podestà e dell’amministratore delegato Giuseppe Sala della società creata ad hoc per l’Expo 2015, ha da volare a Parigi. In agenda, l’appuntamento coi vertici del Bei, Bureau international des exposition, chiamato a ratificare, in via definitiva, la candidatura di Milano. Nessuna “suspence”: una bocciatura, rimettendo in pista la già eliminata Smirne, è impensabile. Tuttavia, abili press-agent creano un’atmosfera da «grande attesa», onde trasformare una pratica sostanzialmente notarile in evento storico-mediatico. Nulla da eccepire, viviamo o no nella società della comunicazione delle parole e dei segni più importanti dei fatti? Ciliegina: rullar di tamburi ad esaltare la ritrovata unione fra i tre poli della politica ambrosiana e lombarda, che ancora 48 ore prima litigavano (da un paio d’anni)

L

su progetto, aree, attribuzioni d’incarichi e relative poltrone.

Viaggio in comitiva per la capitale francese, dunque. Da Milano, non fanno difetto i collegamenti ferroviari ed aerei, ma sarà perché la Francia è sconvolta da scioperi e contestazioni a “gatto selvaggio”, i nostri delegati accettano con slancio la generosa offerta di Donna Letizia: utilizzare un jet di proprietà della famiglia Moratti. Più comodo, più sicuro.Tutto fila liscio. Raggianti, ottenuto il via libera dal Bie, i “nostri”hanno da ritornare. Amara sorpresa. Per lo sciopero dei controllori di volo, il jet targato Moratti è bloccato. Vai a sapere per quale felice coincidenza, nei paraggi transita Salvatore Ligresti, fra i massimi costruttori edili italiani, che a Milano ha edificato tutto il possibile. E l’anziano imprenditore dal siculo grande cuore, visti gli amici in difficoltà, non esita: il suo reattore può decollare, e vi sono ancora due posti liberi… «Un passaggio?». Proposto e accettato da Letizia e Roberto. Gli altri membri della delegazione vittoriosa dovranno invece pazientare per un paio d’ore. Che c’è di male? Nulla, assolutamente; semmai una “questio-

ne di stile”. Da mesi attorno all’Expo fioriscono polemiche sull’utilizzo dei terreni, gli appetiti degli immobiliaristi. Pertanto, all’ombra della Madonnina, quell’innocente aereostop di Letizia & Roberto è stato valutato «improvvido». Gli ambrosiani sono un tantino calvinisti: mentalità che la sindachessa non pare avere metabolizzato, essendo piuttosto attratta dal Berlusconi-style, i ministri e lo stato maggiore del Pdl riuniti nella villa di Arcore. Per Letizia, le frequenti riunioni nel suo salotto.

C o m u n q ue , g l i o p p o s i t o r i della Moratti (tantissimi), con l’ok del Bie di Parigi, hanno ricevuto un duro colpo, e fatica-

Dietro le quinte c’è Albertini che «medita» di tornare a Palazzo Marino

no a riprendersi. Anche perché dalle parti del Partito democratico si litiga senza esclusione di colpi fra gli “aspiranti” Stefano Boeri, Giuliano Pisapia, Valerio Onida, il “verde”Michele Sacerdoti. Con l’“ingrato” Boeri, sino a pochi mesi fa morattiano, consulente per l’Expo che s’esalta nei comizi urlando: «Ha svenduto l’Expo per un pugno di metri cubi». Innanzi alla disgregazione del centrosinistra, Donna Letizia avrebbe di che fregarsi le mani, puntare senza ansie alla ricandidatura, la prossima primavera, col sostegno dell’attuale maggioranza, che comprende Pdl (finiani inclusi), Lega e Udc. Partita chiusa, sembrerebbe, e invece… Nonostante la posizione domi-

nante di Comunione e liberazione, incarnata da Maurizio Lupi, vicepresidente della Camera, oltre che da Roberto Formigoni, il mondo cattolico a cominciare da quello straordinario e sensibile pastore che è l’arcivescovo cardinale Dionigi Tettamanzi, s’interroga. L’emergente Enrico Marcora, consigliere regionale, mette i puntini sulle “i”. «Il futuro lo si costruisce sui programmi e non sulle alleanze di potere», ribadisce.

Vi è poi l’incognita della Lega. Ritenendo di avere il vento in poppa, dopo aver lasciato dire a Umberto Bossi che la carica di sindaco non gli risulterebbe sgradita (salvo poi ridimensionarla in una boutade), aspira quantomeno alla poltrone di vicesindaco. Attualmente occupata da tre legislature da Riccardo De Corato, solidissime radici Msi, quindi An, rimasto insensibile ai flauti finiani. Interrogativo: se la prossima Lista Moratti offre al Carroccio la seconda poltrona di Palazzo Marino, a quale destino va incontro De Corato? Com’è evidente, in questa fase interlocutoria e pre-elettorale, nel Pdl più che di programmi (il miraggio dell’Expo dovrebbe bastare!), è iniziato il gioco delle


26 ottobre 2010 • pagina 5

Tra polemiche e innovazioni, il sistema bipolare continua a perdere pezzi

Ma anche il Pd si spacca per andare «Verso il Nord»

Diego Bottacin, ex segretario veneto, aderisce al movimento di Cacciari: «Dovevano fare un partito nuovo e invece siamo alla riedizione dei Ds» di Angela Rossi

ROMA. Da una settimana ha abbandonato il Pd, partito che in Veneto aveva contribuito a fondare, giudicando ormai tradite le istanze profonde sulle quali era nato. Diego Bottacin aveva vissuto in prima fila quel processo, da cordinatore regionale di uno dei due principali azionisti del Pd, la Margherita. Dichiarata perduta la vocazione riformista, ha deciso di aderire a Verso il Nord, movimento nato attorno a Massimo Cacciari. «Il Partito democratico è sempre più una riedizione dei Ds, con qualche cristiano sociale a fare da soprammobile», sostiene Bottacin, che nella sua vicenda politica si è inizialmente mosso da un impegno ambientalista e che oggi è al suo secondo mandato consecutivo di consigliere regionale. «È insopportabile osservare come il Partito democratico sia ormai orientato a contendere la leadership dell’opposizione a Di Pietro e Vendola».

del loro elettorato, impuntandosi in un modesto 20 per cento. L’obiezione prevalente rivolta alla alla maggioranza interna è quella di voler trasformare il Pd in un formazione a carattere essenzialmente socialdemocratico tradendo in questo modo così l’idea originaria. E si sbandiera la parabola discendente dei consensi, con un calo di oltre 350mila voti : da 810mila a 450mila, sei punti in due anni. «Ero segretario regionale della Margherita ed ho poi lavorato con

«D’ora in poi, il mio impegno politico sarà tutto per costruire il Terzo Polo di centro»

Una scelta, la sua, sofferta ma definitiva dopo mesi di difficilissima convivenza all’interno di una coalizione nella quale non si riconosceva più. La prospettiva di Verso il Nord è invece diversa. «È quella di un raggruppamento moderato e riformatore che è pronto a raccogliere anche la sfida elettorale, se mai in primavera si dovesse votare per il Parlamento, e che di sicuro parteciperà alla prossima tornata amministrativa». Il debutto sulla scena, e non è un caso, avverrà alle prossime elezioni provinciali a Treviso, il suo territorio. Una scelta che ha fatto proseliti. La scorsa settimana infatti si è dimesso da vicesegretario provinciale Andrea Causin. Bottacin sottolinea in ogni caso di non aver chiesto a nessuno «di seguirmi, io ho fatto la mia scelta e non ho l’ambizione di creare cordate», e in sede di assemblea regionale ha chiuso ufficialmente la porte del Pd alle sue spalle. «Non è questa la sede per approfondire le valutazioni di carattere politico che mi hanno portato a questa decisione», ha detto in aula, «voglio solo confermare che la mia scelta è stata faticosa soprattutto per l’investimento politico che avevo fatto alla nascita del Pd. D’ora in poi il mio impegno sarà a fianco del consigliere Giuseppe Bortolussi e dell’area politica di centro che si colloca come terzo polo».

Certo, la situazione del Pd veneto è critica e i malumori nella base crescono da mesi. Qui i democratici hanno regalato al partito dell’astensione quasi metà

grande convinzione al suo scioglimento. La ragione della mia decisione», insiste Bottacin, «sta nel fatto che sono state tradite tutte le ragioni del progetto originario, Si doveva fare un partito nuovo ed invece siamo finiti nel gruppo socialdemocratico anche in Europa. Dovevamo fare un partito che contendesse spazi all’avversario, che parlasse ai moderati, agli elettori di buonsenso e invece ci ritroviamo a rincorrere Di Pietro. Queste sono le ragioni per cui me ne sono andato. Poi, sto vivendo tutto questo anche come sconfitta personale da un lato, vedendo che il sistema bipolare è invece tripolare dato che il terzo polo è rappresentato da un terzo di elettori che non va a votare e preferisce stare a casa. A fronte di questo, credo sia ragionevole tentare percorsi innovativi anche coraggiosi, che abbiano un senso. Un richiamo a questo che fa an-

che Cacciari. I conservatori come i riformisti sono in tutte le case, occorre tirarli fuori».

Il Veneto è apparso finora a molt osservatori letteralmente soffocato dallo strapotere della Lega. Ora sembrano aprirsi anche qui spazi per il centro moderato. «Il Veneto mostra spazi per un nuovo polo, per l’aggregazione di una nuova area politica. E va notato come nei giorni scorsi in Consiglio regionale si siano avuti poderosi distinguo su argomenti fiscali tra la Lega ed esponenti del Pdl». E proprio per questo gli interlocutori a cui Verso il Nord può guardare sono molteplici. Anche se Bottacin chiarisce: «Verso il Nord sceglie il nuovo polo. Sceglie di evitare che le frane nel Pd e nel Pdl vadano a finire verso il vuoto assoluto. Motivo per cui si propone di offrire una sponda ai riformisti a lavorare per un nuovo polo. Oggi quelli ai quali guarda sono Fini, Casini e Rutelli, questa è l’area. Ma proprio da questa area mi attendo momenti di forte novità. Verso il Nord vuole offrire una sponda anche con forti connotazioni geografiche ma la scelta unitaria è fuori discussione.Verso Nord vuol dire tendere a standard europei di civismo, di costume politico e rapporti economici ed istituzionali». La corsa con liste proprie alle amministrative di primavera? «Non è un’urgenza ma non lo escludiamo. Siamo un movimento non solo culturale ma politico per cui siamo interessati al dato politico. Cero è che da qui a fine anno lavoreremo per portare in tutte le province del Veneto iniziative di confronto».

caselle. Pericoloso, come la politica insegna. Infatti, da dietro le quinte, con raffinata metodologia, si va muovendo Gabriele Albertini, sindaco pre-Moratti, ora parlamentare europeo, che la città non ha dimenticato. Le “voci di Palazzo” riferiscono di un arcangelo Gabriele in pellegrinaggio da re Silvio, ad Arcore, per comunicargli il sostanziale dissenso sull’attuale scenario politico. Nonché l’intenzione (si badi bene: “intenzione”, non “decisione”) di tornare a Palazzo Marino. Con la fascia tricolore di sindaco che i milanesi hanno molto amato e apprezzato. Aveva rimesso in ordine la metropoli del Nord, tornata “disordinata” nell’era Moratti, e intenderebbe abbandonare Bruxelles-Strasburgo per ricominciare. Infatti aveva dovuto lasciare, le leggi escludendo un triplo mandato consecutivo. Ecco allora delinearsi un “terzo polo”, in vista delle prossime elezioni. Velleità? Forse. Senza dimenticare gli ammonimenti dello storico Gaetano Salvemini: «Nel bene o nel male, nella Storia d’Italia, Milano ha sempre anticipato». Datando: il fascismo, la Resistenza, il centrosinistra, il berlusconismo… Teoria sicuramente contestabile, ma alla quale i milanesi credono. Nemmeno scordando l’effimera stagione craxiana, di un Bettino nato fra Porta Venezia e Lambrate.

Che farà l’Albertini Gabriele? Pare stia seminando nel vasto terreno di quanti, dal centro alla periferia, sono insoddisfatti dell’élitaria Donna Letizia. Capace sicuramente di “alte visioni” manageriali (l’Expo), ma piuttosto debole, per taluni da bocciare, nella gestione del quotidiano, dei problemi con i quali i cittadini si confrontano dalla mattina alla sera; e nelle notti in cui la microcriminalità la fa da padrona. C’è chi giura: «Gabriele farà una terza lista». Come? Riunendo spezzoni del Popolo della libertà, a cominciare dai figiani, di settori dell’Unione di centro e dello stesso Partito democratico, che ha sempre riconosciuto in Albertini un «volenteroso e onesto» amministratore e gestore del bene comune. Perché no: potrebbe finanche portare dalla sua il vicesindaco De Corato, col quale ha collaborato efficacemente per un decennio, rendendo la città più pulita e vivibile di quanto sia adesso. Non bastasse, nel Pd lacerato fra troppi sindaci in pectore, c’è chi lascia intendere: facciamo una sacra coalizione, con un primo obiettivo, rimandare a casa la berlusconiana Donna Letizia. Un bel colpo, innegabile! Scenario conseguente: ballottaggio Albertini-Moratti al secondo turno con la nemmeno troppo celata soddisfazione della sinistra. Fantapolitica? Probabile. Sebbene Milano, talvolta, sia capace di sorprendere. Nella fattispecie, mettendo nel sacco Cavaliere e Carroccio.


diario

pagina 6 • 26 ottobre 2010

Assalti. Maroni minaccia l’uso della forza e La Russa annuncia: «Militari pronti a intervenire», ma la Chiesa: soluzioni condivise

Bertolaso fa marcia indietro

Il sottosegretario: «Non c’è soltanto Terzigno tra i possibili siti» ROMA. I napoletani sanno bene che i miracoli sono una cosa seria. Non a caso se il sangue di San Gennaro non si scioglie nelle date stabilite sono guai. E così quando nel 2008 Silvio Berlusconi, per risolvere l’emergenza rifiuti, annunciò il primo miracolo gli hanno dato fiducia e voti, per poi pentirsene in queste ultime settimane. Ora che il Cavaliere ha di nuovo evocato un prodigio per porre fine alle proteste di Terzigno e ai cumuli di spazzatura che hanno invaso le strade del napoletano la diffidenza ha preso corpo. Da qualche tempo in giro si vedono scritte del tipo: “Berluscò ’o miracolo ra munnezza è na munnezza ’e miracolo”. E c’è chi teme che, viste le premesse, il flop si possa ripetere. Un mezzo miracolo – almeno per i sindaci della zona – potrebbe farlo Guido Bertolaso. Dopo un vertice molto teso in prefettura a Napoli con gli amministratori locali, ha concesso: «L’apertura di una nuova discarica non è nel modo più assoluto vicina. Non è immediata perché con la situazione attuale si va avanti fino alla prossima primavera, fino all’estate». Circa il congelamento dell’ex cava Vitiello, ha sottolineato che «nella legge ci sono anche altre località, c’è un ampio margine per trovare alternative». Il capo della Protezione civile ha ripetuto che nell’ex cava Sari di Terzigno tra due giorni andranno a sversare solo i 18 comuni dell’area rossa del vesuviano, mentre per il capoluogo ci si affiderà a Chiaiano e al termovalorizzatore di

di Franco Insardà

duro di quanto non si sia fatto finora». Riferendosi agli incidenti della scorsa notte e ai tre arresti Maroni ha aggiunto: «Le indagini devono capire chi sono questi gruppi di violenti: io credo che nulla abbiano a che fare con la protesta se non per strumentalizzare, creare incidenti e disordini, farci scappare il morto: noi non lo consentiremo e stiamo verificando se c’è qualche collegamento tra questi gruppi e le associazioni criminali». Un

Casini: «Regione, comuni e governo nazionale trovino un’intesa perché nessuno vince se la spazzatura torna sulle strade di Napoli» Acerra. «Ma tutto questo - ha concluso Bertolaso - dovrà essere portato avanti dall’autorità locale».

Sugli scontri degli ultimi giorni si registra una durissima la presa di posizione del ministro dell’Interno, Roberto Maroni: «Ci sono stati atti di vera e propria violenza nei confronti delle forze dell’ordine e questo non è più accettabile: per cui faccio un invito a tutti a deporre le armi, altrimenti credo che sarà necessario intervenire in modo più

vero e proprio ultimatum per tentare di riportare alla normalità la situazione in Campania al quale ha dato man forte anche il ministro per l’Attuazione del programma Gianfranco Rotondi: «Il rischio in questi casi è sempre elevato, però lo Stato non può di fronte alla piazza fare sempre un passo indietro».

E il ministro dell Difesa Ignazio La Russa precisa: «I militari a Terzigno e in Campania ci sono già, ce ne erano 700 a inizio emergenza ora so-

no 270. Se il governo ritenesse di chiedere alle forze armate un intervento in numero superiore, noi siamo pronti».

Da Palermo, altra città con i cassonetti che sempre più spesso traboccano d’immondizia, Pier Ferdinando Casini ha detto: «Ci auguriamo che sulla battaglia per i rifiuti non ci sia una battaglia della politica. Regione, comuni e governo nazionale trovino un’intesa perché nessuno vince se la spazzatura torna sulle strade di Napoli». A questo proposito per il ministro Rotondi va «sostenuto l’impegno del presidente Caldoro a eseguire accordi già presi anche con sindaci dei comuni dove va la discarica. La Campania ha le risorse morali e strutturali per smaltire i rifiuti e per far fronte a questa emergenza. Sarebbe falsa pietà cambiare programma solo perché qualcuno protesta». In campo è scesa anche la Chiesa campana e monsignor Carlo Liberati, arcivescovo prelato di Pompei, ha ricordato che lo stesso Santo Padre «è intervenuto e ha affermato che ci vuole una soluzione condivisa. Noi lo dicemmo già il 3 ottobre scorso, giorno della Sup-

plica. Sono lieto che anche il cardinal Sepe sia intervenuto contro questo scempio». Intanto ieri come ha confermato il sindaco di Boscoreale, Gennaro Langella, è iniziata l’operazione di copertura nella cava Sari di Terzigno per evitare che si levino ancora miasmi iche hanno scatenato la protesta dei cittadini. L’assessore Romano ha ammesso ai microfoni di Sky Tg24 che «tutti sapevano che il problema stava per superare il limite... Un po’ se la sono cercata». Romano ha precisato che «i veri problemi dei rifiuti sono concentrati a Napoli città e nel circondario che comprende oltre il 45 per cento della popolazione campana. Ad Avellino, Benevento e Salerno si va oltre il 45 per cento di differenziata, dato che le rende autonome. Si è recuperato molto a Caserta. Ccomplessivamente si tratta di una trentina di comuni dove, se ci fosse una forte volontà politica, la raccolta differenziata potrebbe essere implementata e attuata in 48 ore».

Economicamente la crisi dei rifiuti in Campania, secondo uno studio della società di consulenza “Althesys” ci sta costando 1,1 miliardi, una ventina di euro per italiano, compresi i neonati. Nell’ultimo decennio i mancati benefici legati a una gestione inadeguata dei rifiuti urbani raggiungono i 18 miliardi di euro, contro benefici del riciclo che toccano i 6,7 miliardi. Nella scorsa emergenza rifiuti della Campania furono smaltite fuori dalla regione oltre 140.000 tonnellate. Oggi il termovalorizzatore di Acerra brucia circa 1.200 tonnellate al giorno, ma il sindaco Tommaso Esposito avverte: «L’idea di accogliere rifiuti “tal quale” va assolutamente scartata, in quanto l’impianto può bruciare solo spazzatura trattata allo Stir». E mentre a Roma si dibatte sulla possibile emergenza rifiuti, visto che la discarica di Malagrotta potrebbe essere ormai satura, sulla giunta Polverini si è abbattuta un’altra tegola. Romolo Del Balzo, consigliere regionale del Pdl, è stato arrestato nell’ambito di un’inchiesta che riguarda la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti a Minturno. Insomma sarebbe opportuno non disturbare né i fanti, né i santi.


diario

26 ottobre 2010 • pagina 7

Il candidato Pd al Comune ha avuto un attacco ischemico

Oggi il presidente sarà a colloquio con Hu Jintao

Cevenini si ritira: «Non correrò per Bologna»

Napolitano in Cina: «Ora rapporti più stretti»

BOLOGNA. «La mia corsa si ferma qui»: con queste parole il candidato Pd alle primarie del centrosinistra Maurizio Cevenini, ricoverato a Villalba lunedì scorso dopo un attacco ischemico, ha comunicato la sua scelta di ritirarsi dalla corsa. «Lo choc che ho avuto dopo questo malore è stato forte – ha aggiunto poi – ed è un immenso dolore rinunciare al sogno della mia vita». Il Pd ora è senza candidato alle primarie. Adesso il Pd bolognese ha bisogno di trovare in fretta un altro nome: rispunta l’ipotesi dell’ex consigliere regionale Duiccio Campagnoli, che si era ritirato dalla corsa, mentre c’è chi ancora spera che Romano Prodi intervenga direttamente e prenda in mano la situazione.

PECHINO. Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha iniziato la visita di stato in Cina ammirando la Città Proibita di Pechino. Accompagnato dall’Ambasciatore d’Italia Riccardo Sessa, Napolitano ha girato fra i padiglioni del sito simbolo della potenza e della storia millenaria cinese. In particolare, durante i 45 minuti che vi ha passato è stata aperta eccezionalmente per la delegazione la Sala della Suprema Armonia, una delle sale del trono al cui restauro hanno contribuito nel 2006 esperti italiani. A questo proposito, il presidente ha ricordato che «il nostro Paese può fare da ponte all’interno di un nascente partenariato strategico tra Unione europea e Cina». Nel

La crisi presenta il conto alle banche I dividendi diminuiranno, rivela il «Financial Times» di Alessandro D’Amato

La decisione di Cevenini arriva dopo una settimana di passione. Lunedì mattina il candidato Pd si sente male e viene ricoverato a Villalba: è stato un «attacco ischemico transitorio», dicono i medici. Un episodio senza conseguenze per la salute del Cev, ma dopo il quale il direttore sanitario della clinica, Paolo Guelfi, ritiene opportuno fare indagini approfondite. Cevenini, ancora in Terapia intensiva, viene quindi sottoposto per alcuni giorni a diversi test. Fuori dalla clinica, i sostenitori scalpitano: correrà ancora? Penserà alla salute e si ritirerà? Nel Pd comincia a farsi largo l’ipotesi che il Cev potrebbe, in effetti, anche rinunciare alla corsa alle primarie. Anche perché la famiglia - la moglie soprattutto, ma anche la figlia - preme perché lui si fermi un attimo e riparta con ritmi più rilassati. A maggior ragione dopo le parole del dottore. Guelfi parla mercoledì e il suo parere è pesante: «I medici consigliano il ritiro», titolano tutti i giornali. Fisicamente il Cev sta bene, in sintesi, ma è troppo pressato. Seguono ancora un paio di giorni in cui Cevenini non si fa vivo sul tema, mentre, sempre ricoverato a Villalba, annuncia: entro 48 ore, deciderò. E ieri ha deciso.

ROMA. Le banche mandano a picco la Borsa. È stata una giornata difficile per Piazza Affari, trascinata al ribasso dalle notizie sugli istituti di credito: quelle vere, quelle smentite e quelle che disegnano una scenario futuro non appetibile per gli azionisti. La prima botta è arrivata dall’aumento di capitale per due miliardi di euro annunciato dal Banco Popolare. «Una scelta inderogabile e non dilazionabile», ha detto Carlo Fratta Pasini, presidente del consiglio di sorveglianza dell’istituto di credito. Intervistato dall’Arena di Verona, Fratta Pasini ha spiegato che «Dopo l’emissione delle nuove regole sul capitale delle banche, alcuni gruppi europei si sono già mossi sul mercato per rafforzare il proprio capitale e che anche gruppi italiani potrebbero presto seguirli». Ma l’annuncio di Pasini ha trascinato al ribasso anche il Monte dei Paschi di Siena, perché si sono intensificate, durante la giornata, le voci che volevano anche la banca di Mussari pronta all’aumento, a causa del fatto che anche a Siena, come a Verona, avevano acquistato i Tremonti bond per stabilizzare i coefficienti. La smentita è arrivata a metà mattinata: “Il Gruppo continua la propria politica di rafforzamento patrimoniale interna confermando le iniziative note al mercato”, ha fatto sapere Mussari alle agenzie di stampa, fermando per lo meno l’emorragia del titolo a Piazza Affari.

centrare i nuovi standard patrimoniali. Tuttavia - sottolinea il quotidiano finanziario - in Italia il taglio del dividendo «sarà politicamente sensibile» poiché le fondazioni continuano a detenere ampie partecipazioni nei grandi istituti e fanno affidamento proprio sulla distribuzione dei dividendi per finanziare progetti territoriali. In un altro articolo («Banche italiane alle corde dopo Basilea 3»), Ft approfondisce la situazione: le banche italiane sono sottocapitalizzate, hanno bisogno di rafforzare il patrimonio e i mercati premono perché mostrino come faranno a rispettare i nuovi requisiti. «Le banche italiane - scrive il quotidiano - pensano di potersi conformare entro il 2013, sia con il rapporto patrimoniale del 7% di Basilea III sia con il cuscinetto sistemico del 2% in più per le grandi banche, in larga parte tagliando i dividendi». Unicredit, che a fine giugno aveva un Core Tier 1 dell’8,3%, nota Ft, potrebbe scendere sotto l’8% per effetto della definizione più stringente di core capital e della più severa ponderazione dei rischi. Intesa, aggiunge, sta per annunciare che il Core Tier 1 dal 7,9% scenderà al di sotto del 7%. Monte dei Paschi, secondo fonti vicine alla banca, «prenderà in considerazione tagli ai dividendi come un mezzo chiave per ricostruire il capitale».

Oggi Unicredit dovrebbe nominare il nuovo vertice ma ancora non è stato sciolto il nodo della direzione generale

Nel frattempo, sotto gli occhi degli investitori è arrivato un articolo del Financial Times pubblicato già ieri sera sul sito internet, che disegnava uno scenario futuro fosco per gli istituti di credito nostrani: «Le grandi banche italiane sono determinate a tagliare drasticamente i dividendi in modo da rispettare i parametri patrimoniali fissati da Basilea 3 senza dover ricorrere ad aumenti di capitale», ha scritto il quotidiano, spiegando che Unicredit, Intesa Sanpaolo e Monte dei Paschi sarebbero decise a non lanciare aumenti di capitale per

Intanto ieri si è svolto il comitato nomine di Unicredit, mentre oggi avrà luogo il consiglio di amministrazione. Il piano proposto dal nuovo Ad, Federico Ghizzoni, sarebbe di una doppia direzione generale composta da Roberto Nicastro e Sergio Ermotti con Paolo Fiorentino come Coo. Ancora ieri tuttavia alcune fonti non escludevano la soluzione con un solo dg, incarico che andrebbe a Nicastro. Questa ipotesi, peraltro, porrebbe un serio interrogativo sulla permanenza di Ermotti nella banca. Dino De Poli, rappresentante della Fondazione Cassamarca, si è schierato per il direttore generale unico. Oggi sapremo se la sua battaglia sarà vincente.

«dialogo economico» l’Italia è oggi il quindicesimo partner commerciale della Cina, un volume di scambi di 31 miliardi di dollari nel 2009. E a fronte di questi dati, il premier cinese Wen Jiabao ha auspicato che il volume degli scambi in cinque anni possa arrivare tra 80 e 100 miliardi. D’altra parte - ha aggiunto - ci sono numerose fasce del made in Italy a Pechino che potrebbero concorrere a questo decollo. Prima di tutto firme del fashion italiano.

A conclusione della mattinata di ieri, Napolitano ha passeggiato nei pressi della Torre del Tamburo, nel cuore storico della vecchia Pechino. Alla vigilia della partenza il Presidente della Repubblica aveva detto in un’intervista all’agenzia cinese Xinhua di aver colto in un precedente viaggio 26 anni fa «la ricchezza del patrimonio di civiltà, e delle riserve di energie, di operosità e di volontà del vostro paese». Gli incontri ufficiali prevedono per oggi un meeting con il presidente Hu Jintao, mentre domani il presidente della Repubblica incontrerà di nuovo il premier Wen Jiabao. Sempre oggi, infine, sarà ospite di un festeggiamento per i 40 anni di relazioni diplomatiche Italia-Cina


economia

pagina 8 • 26 ottobre 2010

Relazioni. Dopo le dichiarazioni rilasciate domenica a Fazio torna in auge il partito (trasversale) anti-Lingotto

Fini contro Marchionne «La Fiat salvata dallo Stato», dice il leader Fli Ma intanto i sindacati temono per Mirafiori di Francesco Pacifico

ROMA. Voleva sferzare un Paese dove è sempre più difficile produrre. Invece Sergio Marchionne (per ora) ha ottenuto soltanto di far toccare due estremi che più diversi non potrebbero essere. Al monito lanciato 48 ore fa dal salotto di Fabio Fazio – «Senza l’Italia faremmo di più» – Gianfranco Fini gli ha replicato: «Dimostra di essere più canadese che italiano». Mentre Maurizio Landini, leader della Fiom, gli ha ricordato: «La Ferrari e la Sevel, che mi sembrano facciano utili, non sono in Lussemburgo. La verità è che Marchionne ha raccontato cose inesatte e un po’ di balle». Sembrano lontani anni luce gli anni in cui Fausto Bertinotti definiva il manager “un borghese buono” e la Cgil di Guglielmo Epifani garantiva al Lingotto piena pax sociale. La chiusura dello stabilimento di Termini Imerese, le trattative che hanno portato al rilancio di Pomigliano, il licenziamento dei tre lavoratori a Melfi stanno via via cementando un partito anti Fiat trasversale – che va dal liberista Fini all’ultimo difensore del welfare, Landini – e che potrebbe erodere il fortissimo consenso conquistato in questi anni dall’amministratore delegato del gruppo automobilista. Ma la questione è talmente delicata che non tutti hanno voglia di rispondere alzando i toni. Soprattutto dopo gli accenni di Marchionne al fatto che «l’Italia non ha più alibi» e che è difficile lavorare da noi. Così è emblematico che nel centrodestra – quelli che si sono scagliati contro la Fiat in passato con parole più dure di quelli usate da Fini – facciano professione di diplomazia. È il caso del ministro del lavoro, Maurizio Sacconi – «L’Italia è un Paese che già ha dimostrato l’attitudine a evolvere verso una maggiore competitività» – oppure del responsabile del Pubblico impiego, Renato Brunetta. Il quale ieri gettava acqua sul fuoco: «Se Fiat farà di più e meglio, certamente anche il governo farà di più e meglio». Stesso approccio anche per gli amministratori dei territori dove la Fiat dà lavoro. Da Torino

L’impiegato che usò la mail per Pomigliano

Licenziato, torna in fabbrica TORINO. Ieri è tornato regolarmente al lavoro Pino Capozzi, l’impiegato degli enti centrali di Mirafiori licenziato dalla Fiat perché utilizzava la e-mail della posta aziendale elettronica per motivi sindacali. L’azienda ha deciso il reintegro a tutti gli effetti del lavoratore, come disposto nei giorni scorsi dal Tribunale del Lavoro di Torino. La notizia è stata resa nota dalla Fiom che ha espresso soddisfazione per la decisione della Fiat. Capozzi, che è entrato in fabbrica alle 9 accompagnato da due delegati della Fiom e ha ricevuto dall’azienda il badge regolare, svolgerà le stesse mansioni di prima. La Fiat ha comunque presentato istanza al giudice dell’opposizione contro la sentenza che ha reintegrato Capozzi, ma a differenza di quanto accaduto a Melfi ha deciso di applicare integralmente la sentenza del tribunale di Torino. Il licenziamento risale al 12 luglio scorso. Capozzi, 36 anni, aveva utilizzato la casella aziendale di posta elettronica per inoltrare una lettera di solidarietà dei lavoratori polacchi dello stabilimento di Tichy ai colleghi di Pomigliano.

Sergio Chiamparino dice che «i dati di cui parla Marchionne sono incontestabili. Davanti ai quali non si possono chiudere gli occhi». Il governatore lucano Vito De Filippo chiede a tutti di «abbandonare la strada delle provocazioni per imboccare quella del dialogo». La domanda che si pongono nei palazzi della politica come nelle sedi confederali è perché l’Ad torinese non perda occasione per alzare lo scontro, soprattutto in una fase in cui vuole esportare l’assetto normativo

Da qui alla possibilità che Mirafiori possa subire un ridimensionamento o che possa chiudere il passo è breve. Non a caso Luigi Angeletti, il sindacalista che più di altri ha spinto per portare la produzione domestica a 1,4 milioni di pezzi, ha sottolineato che «il nostro Paese per la Fiat rimane uno dei migliori mercati europei. Senza l’Italia non vedo dove possa costruire le auto da vendere in Europa». Oltre a ricordare che nel Vecchio continente il Lingotto fa

Cauto il governo. Dopo Sacconi anche Renato Brunetta getta acqua sul fuoco: «Se il manager farà di più faremo anche noi di più».Tagli nel sito torinese? di Pomigliano negli altri stabilimenti. E sono molti, come Guglielmo Epifani, a temere uno show down dal Belpaese. Ma queste incertezze si trasformano in timori quando si guarda al futuro di Mirafiori, stabilimento dove lavorano 5.486 persone e i modelli in produzione o sono stati trasferiti all’estero (la Multipla) o stanno per andare fuori produzione (l’Idea e la Punto classic) oppure sono di nicchia (la Mito). C’è il sentore che i vertici del Lingotto considerino lo storico sito torinese non meno complesso da gestire rispetto a quanto lo era un tempo Pomigliano: livello di conflittualità più alto della norma, personale su con gli anni e numero rilevante di permessi per malattia.

fatica a immatricolare auto oltre Chiasso, il numero uno di via Lucullo ammette che «in Italia c’è un problema di competitività. Ma rispetto agli altri Paesi abbiamo bassi salari e bassa produttività. L’importante è che Marchionne sia disposto ad accogliere le sfide, non solo a parlarne». Più esplicito il segretario dell’auto della Uilm, Eros Panicali: «Ancora non sappiamo quanti e quali dei venti nuovi modelli saranno prodotti in Italia. E aspettiamo di essere convocati per parlare del futuro di Mirafiori, ben sapendo che Uil e Cisl sono disponibili a tutto per far decollare l’intesa. Di conseguenza non capiamo perché continui a non fare distinzioni quando parla di sindacato, per-


economia

26 ottobre 2010 • pagina 9

Che cosa si nasconde dietro alla provocazione del manager di Torino

Attenti, il Lingotto pone un problema vero Le parole dell’ad vorrebbero rovesciare la strategia che difende le piccole imprese e abbandona le grandi di Gianfranco Polillo n una politica sempre più contratta in una logica minimalista, l’intervista di Sergio Marchionne dallo studio di Che tempo che fa è stato un sasso nello stagno. Non sono state parole dal sen fuggito. Ha invece interpretato un sentimento diffuso tra quanti si ostinano ancora a cercare nel nostro Paese una ragione per continuarci a vivere. C’è un dato che spesso trascuriamo. Quante sono le persone che si sono trasferite all’estero almeno per una parte più o meno lunga dell’anno? E non alludiamo solo al fenomeno della delocalizzazione delle imprese, pure importante. Gli altri Paesi – dal Sud America alla Thailandia – offrono ormai condizioni di vita che sono migliori di quelle italiane. I costi sono di gran lunga inferiori. La qualità dei servizi – compresi quelli pubblici – non è eccezionale. Ma forse quelli italiani lo sono? Clima e infrastrutture sono competitive. Ed ecco allora che frotte non di super ricchi ma di pensionati – e in Italia sono tanti – acquistano o prendono in affitto abitazioni per trasferirsi in quelle zone per periodi più o meno lunghi – generalmente l’inverno – dell’anno. Lo fanno per vivere meglio, ma anche per incrementare i loro risparmi, visto il minor costo della vita e il beneficio di una pensione che, per quanto modesta, è esuberante. E allora perché scandalizzarsi se Marchionne dice pane al pane e vino al vino, ricordandoci quello che siamo per spingerci ad essere che dovremmo.

I

Qui sopra, Sergio Marchionne alla trasmissione televisiva «Che tempo che fa». A destra, l’ingresso di Mirafiori. Nella pagina a fianco, Gianfranco Fini e, sotto, l’impiegato Pino Capozzi, appena reintegrato dalla Fiat ché abbia disdetto gli accordi dell’organizzazione del lavoro a Melfi senza nemmeno avvertirci». Stessa apertura anche dalla Fismic di Roberto di Maulo: «Nella sua concreta attuazione il piano Fabbrica Italia ha come passaggio indispensabile l’estensione dell’accordo di Pomigliano a tutte le realtà aziendali del Paese».

Sintetizza la situazione Pier Ferdinando Casini: «La Fiat ha fatto man bassa dei contributi pubblici, ma è vero ciò che dice Marchionne, ha cento ragioni. L’alternativa per i lavoratori italiani è che tiri giù la saracinesca delle aziende targate Fiat in Italia e vada in Serbia e delocalizzi». Con il leader dell’Udc che consiglia: «Bisogna guardare in faccia la realtà, non illudersi che sia diversa. È vero che nessuno viene più a investire in Italia, altro che la mitologia del va tutto bene». Ma non tutti seguono la sua linea. Gianfranco Fini, che in questi anni ha spesso riconosciuto i meriti del manager italocanadese, ieri non gli ha lesinato critiche, soprattutto sulla parte degli aiuti di Stati. «È un po’ paradossale», ha sottolineato, «quanto detto da Sergio Marchionne come amministratore delegato della Fiat, perché se quell’azienda è ancora il grande colosso che è, è stato il

contribuente italiano, e dunque le risorse statali, a garantirlo». Al leader del Pd, Pier Luigi Bersani, invece non piacciano i riferimenti al modello tedesco: «All’amministratore delegato di Fiat piacerebbe avere costi di produzione cinesi in un sistema europeo. Se fossi il governo chiamerei la Fiat e i sindacati. Vorrei vederci chiaro perché, non vorrei si facesse il gioco di chi resta con il cerino acceso in mano. Eppoi vorrei sapere che cosa abbiamo in testa: la Cina, la Serbia oppure la Germania, la Francia e la Spagna?». Il senatore dipietrista, e presidente dell’Adusbef, Elio Lannutti prima si è scagliato contro Fabio Fazio: «Tra le interviste in ginocchio che vengono fatte ai potenti dell’economia, delle banche e della finanza, merita il palmares dei primati il siparietto andato in onda su Raitre, con Marchionne al riparo da domande indiscrete». Quindi la dura stoccata al manager: «Un intervistatore attento, che utilizza con accortezza ed equidistanza il servizio pubblico finanziato dal canone dei cittadini (lavoratori e pensionati) aveva il dovere di ricordare al manager ital-canadese residente in Svizzera, che sono stati i governi che si sono succeduti ad aver salvato la Fiat con montagne di incentivi e di cassa integrazione».

se minori. Non a caso Giulio Tremonti, che pure è uno dei padri putativi del popolo delle partite Iva, parla con crescente insistenza della necessità di misurarsi fino in fondo con il tema dei grandi campioni nazionali. Vale a dire le grandi imprese che, sul piano internazionale, fanno la differenza.

Uno sforzo come quello che la Fiat sta immaginando – prosegue Sergio Marchionne – è destinato al fallimento se non sarà accompagnato da un impegno collettivo: forze politiche e sindacato – questa la sintesi – devono fare la loro parte. Non per far fare utili all’azienda – a questo pensa il management – ma per consentire di portare il salario operaio a livello di quello tedesco: oggi più alto di circa il 25 per cento. Operazione possibile solo se, nel frattempo, aumenta la produttività del lavoro. La vera palla al piede dell’economia italiana in cui si produce male e di conseguenza ristagnano i salari. Nei primi nove mesi del 2010 – continua impietoso – l’Italia non ha contribuito nemmeno con un euro agli utili del Gruppo. «Se potessimo tagliare l’Italia faremmo di più»: una dichiarazione di impotenza, più che il lancio di una sfida. Se solo si tengono a mente le parole pronunciate, solo qualche giorno fa, da Epifani, nel corso della manifestazione organizzata dalla Fiom: sciopero generale per la difesa dei diritti. Quali? Ironizza Marchionne quelli dei tre dipendenti che bloccano il lavoro di 1.200 persone. O l’abbandono in massa del lavoro per vedere questa o quella partita di calcio?

Da un lato, azzardi personali, dall’altro resistenze di massa: vincere questo conflitto è la grande scommessa italiana

Non tutti hanno apprezzato: non solo Fini che rilanciando il legame tra il Lingotto e gli aiuti statali ha voluto serrare le fila del ”vecchio” partito anti-Fiat. Ma, in Italia, si sa: la politica dello struzzo è uno sport nazionale. Quasi che non dire le cose produca un esorcismo, salvo poi svegliarsi all’improvviso e rimanere basiti di fronte alle dure scelte del momento. Cosa rimprovera Marchionne? La fatica del produrre, che in Italia è ancora una specie di optional. Lo fanno le piccole e medie imprese, come ha ricordato con un pizzico di alterigia Massimo Mucchetti dalle colonne del Corriere della sera, ma fino a quando potremmo andare avanti con la tesi del “piccolo è bello”. Una giaculatoria consolatoria, in un momento in cui la globalizzazione vede nelle strutture portanti dei grandi gruppi industriali le grandi autostrade che dovrebbero favorire anche le impre-

Questa è la sproporzione che colpisce. Da un lato discorsi che hanno alla loro base un orizzonte di carattere internazionale, sempre più segnato da regole e logiche comuni. Lo abbiamo visto anche nel susseguirsi delle scelte di carattere individuale, dall’altro una cultura che rimane prigioniera di vecchi schemi. Una barriera che sembra insormontabile. Potremmo mai conciliare questi due mondi? Questa è la grande scommessa della società italiana. Il tema su cui tutte le forze politiche dovrebbero esercitarsi, mettendo finalmente da parte i veleni – a cominciare dalla giustizia – del tempo passato. Marchionne, con la necessaria impietosità del chirurgo che ha individuato un nodo maligno, lo dice con coraggio. Dovremmo starlo a sentire.


pagina 10 • 26 ottobre 2010

panorama

ragioni&torti di Giancristiano Desiderio

Un acquazzone sta travolgendo il Tg1 e il Tg5 enz’altro ci avrete fatto caso: la notizia che più ricorre nei telegiornali è il tempo. Le notizie meteo sono diventate un appuntamento fisso dei telegiornali. Una volta un acquazzone era soltanto un acquazzone cioè un forte temporale. Oggi diventa una cosa molto simile al diluvio universale e i telegiornali ritengono che sia una notizia da mettere nei titoli. Ci sono alcuni tiggì che con i loro corrispondenti da Milano, Roma, Napoli, Palermo fanno una panoramica sul tempo che fa in... tempo reale. Voi magari vi sedete in poltrona per sapere qualcosa sul governo e ascoltare qualche notizia interessante e invece vi rifilano non le previsioni meteo ma il tempo che sta facendo ora, proprio ora là fuori. In pratica i telegiornali si sono specializzati nelle non-notizie.

S

Visto il tempo che fa, non può stupire più di tanto sapere che il Tg1 e il Tg5 sono calati di un bel po’ nel gradimento. Il sondaggio annuale sugli Italiani e l’informazione condotto dall’Osservatorio Demos-Coop ci dice che la fiducia nel telegiornali di Minzolini è scesa di ben dieci punti rispetto allo scorso anno e si attesta al 53 per cento, mentre il Tg5 di Mimun di punti ne perde otto ed è considerato affidabile dal 49 per cento degli italiani. Le due “ammiraglie” della Rai e di Mediaset - le due aziende che sono chiamate con il neologismo Raiset - non godono di ottima salute e pagano un prezzo sull’altare delle amicizie politiche di riferimento. Sia il Tg1 sia il Tg5 dedicano molto spazio alla cronaca e alle notizie meteo. La politica e la vita istituzionale sono sbrigate dal telegiornale Rai con il solito pastone, mentre il telegiornale Mediaset ha perso la sua freschezza di un tempo. Sia Minzolini sia Mimun ritengono di dover dare grande spazio alle nuvole, al vento, ai mari, alle temperature, alle minime e alla massime e in genere a tutto ciò che non fa notizia. Non stupisce allora che gli altri telegiornali, da Sky a La7 passando per RaiNews, guadagnino in gradimento e in “lettori”: dedicano più spazio alla politica e alle istituzioni, approfondiscono i temi e in genere sono meno retorici e ossequiosi. Soprattutto, considerano le notizie del tempo per quello che effettivamente sono: notizie per modo di dire. Una volta c’era il colonnello Bernacca. Le previsioni del tempo non erano ancora chiamate “notizie meteo” e i telegiornali non se ne occupavano se non quando nevicava a Roma e a Napoli. Il colonnello faceva il suo mestiere con garbo e ironia, sapendo che non c’è cosa meno prevedibile del tempo atmosferico. Le non notizie meteo di oggi, invece, sono presentate anche con prosopopea, come se si trattasse di oro colato: le previsioni del tempo hanno lasciato il posto alla scienza esatta del tempo che fa. Non deve essere però così esatta e precisa questa scienza che viene tanto bene in televisione se non si riesce a sapere in anticipo che Genova sarà sommersa di acqua, che il Cagliaritano sarà alluvionato, che a Napoli e dintorni ci sarà la solita colata di acqua e fango.

Un socialista? Oggi non si nega a nessuno Dal Pdl al Pd: ecco dove sono “ex, post e neo” eredi del Psi di Marco Palombi

ROMA. Sosteneva Pietro Nenni che la storia del socialismo italiano sta tutta in quella delle scissioni e divisioni del partito. Nulla di cui stupirsi dunque se ormai, persino in assenza di un partito di massa, i socialisti italiani continuino a perdersi dietro a mille suggestioni e altrettante disillusioni. Persino l’atto di fondazione del Psi, il congresso di Genova del 1892, s’aprì con una scissione: l’uscita dal movimento della componente anarchica. Da lì, la faccenda è andata avanti più o meno sempre così: nel 1907 se ne andarono i sindacalisti rivoluzionari, nel 1912 i riformisti di destra di Leonida Bissolati, nel 1914 (alla chetichella) i massoni e i sostenitori del blocco politico con le forze borghesi, nel 1921 i comunisti, nel 1922 venne cacciato addirittura Filippo Turati (che fondò il Partito socialista unificato).

no come funghi. Nel Pdl, per esempio, c’è“Riformismo e Libertà”di Fabrizio Cicchitto, la “Free Foundation”di Brunetta,“Giovane Italia”di Stefania Craxi e Maurizio Sacconi (costui, da ultimo, diretto a passi spediti verso un conservatorismo non compassionevole), il Nuovo Psi rimasto con Stefano Caldoro quando se ne andò De Michelis e aggiungiamoci pure i Circoli di iniziativa riformista dell’ex socialdemocratico Carlo Vizzini. In zona centrodestra si muovono pure i Socialisti Unitari di Saverio Zavettieri, ras delle preferenze in Calabria, e il quotidiano Avanti! del pistarolo caraibico Walter Lavitola (molti ex socialisti, peraltro, hanno firmato un appello per dire che Lavitola con loro non c’entra niente). Poi ci sono pure i socialisti nel Pd: uno degli ultimi arrivati, l’inquisito ex assessore vendoliano Alberto Tedesco, da quando l’hanno portato in Senato sostiene che i socialisti devono entrare nel Pd e fare una corrente. Ultima giunta alla festa, martedì per la precisione, “Socialismo e Libertà”, associazione fondata da Chiara Moroni, deputata recentemente approdata nell’arcipelago finiano. Trattasi, ha spiegato l’interessata, di «un contenitore socialista, riformista, liberale e laico» che rivolge un appello a tutti gli ex e i neo: «Venite con noi», nel paradiso indistinto del finismo. Accanto all’onorevole socialista sorrideva Italo Bocchino, già missino e tuttofare di Pinuccio Tatarella. Bizzarro, ma lo stesso Bettino Craxi, col suo “socialismo tricolore”, aveva portato a sé parecchi transfughi della Fiamma negli anni Ottanta.

La loro è una storia fatta di continue scissioni, sin dall’atto di fondazione. Oggi, non essendo in nessun luogo, sono dappertutto

E questo solo nei primi decenni: l’era repubblicana, per dire, s’apre con la grande scissione socialdemocratica di palazzo Barberini (1947) e solo due anni più tardi alcuni compagni che non volevano stare né con Saragat né con Nenni ridiedero vita al Psu, che poi sarebbe confluito nel Psdi, che a sua volta ritentò l’unificazione col Psi negli anni Sessanta per poi scindersi ancora (nel frattempo girò pure il Psiup). Difficile seguire già così, ma dopo lo scioglimento del partito nel 1994 la cosa è praticamente impossibile: nasce quella che viene chiamata “diaspora socialista”. Adesso, non essendo in nessun luogo, i nipotini di Nenni sono dappertutto. Intanto, dal 2009 è di nuovo in circolo il Psi vero e proprio, in zona centrosinistra, un partito uscito dalla costituente inaugurata dallo Sdi di Enrico Boselli, cui aderirono un pezzo del Nuovo Psi (Gianni De Michelis e Mauro Del Bue) e i Socialisti di Bobo Craxi: oggi lo guida il toscano Riccardo Nencini, che vinto il congresso contro quelli che volevano andare con Sinistra e Libertà (e qualcuno l’ha fatto) e contro quelli che volevano rifare la Rosa nel Pugno coi radicali e gli altri movimenti laici. Nel frattempo, però, De Michelis s’è riavvicinato al centrodestra, essendo divenuto consulente del ministro Brunetta, ex socialista pure lui, mentre il figlio di Bettino, che sembrava volesse uscire, è rientrato e sta con Nencini. Fuori dal nuovo Psi, comunque, associazioni, fondazioni e circoletti autonomi spunta-

Adesso, semmai, il percorso è inverso. Bobo Craxi, però, non ha colto il richiamo parentale e s’è dedicato senz’altro alla presa per i fondelli: «Una cosa senza capo né coda, a meno che non si propongano di ricucire lo “strappo”del 1919», quando, s’intende, gli ex socialisti di Mussolini diedero vita ai Fasci di combattimento. Risolutamente resistenziale, invece, il socialista del Pdl Lucio Barani: «Gli ex Psi non possono stare con gli ex comunisti e gli ex fascisti». Forse qualcuno dovrebbe presentargli il ministro La Russa. «Consiglierei di non abusare del termine socialista», aveva chiesto al congresso di luglio Nencini. Consiglio non accettato.


panorama

26 ottobre 2010 • pagina 11

Conti. Il confronto tra la «finanziaria» di Tremonti e Berlusconi e quelle della Francia e della Gran Bretagna è impietoso

Le grandi manovre europee

Cameron e Sarkò puntano su tagli, investimenti e riforme. E in Italia? di Alessandro D’Amato

ROMA. La Francia che esplode, l’Inghilterra che promette lacrime e sangue come ai tempi di Winston Churchill e nella seconda guerra mondiale. E l’Italia, lì immobile, prigioniera del suo riformismo impossibile. È cominciata l’era delle Grandi Manovre, ovvero dei tagli e degli aggiustamenti che, a causa ma anche con la complicità della crisi economica, i grandi paesi sono costretti a effettuare. Solo che mentre negli altri grandi paesi europei la scelta di razionalizzare la spesa pubblica e ripensare il Welfare è arrivata nel momento più giusto, anche elettoralmente parlando, l’Italia si segnala per il suo totale e completo immobilismo: nell’agenda dell’esecutivo che come guida economica ha il ministro Giulio Tremonti di tutto quello che succede in Inghilterra e Francia (ed è già accaduto in Germania) non c’è nemmeno l’ombra. L’obiettivo che si è posto il governo liberal-conservatore di David Cameron è quello di risanare i pesanti Conti pubblici, nel più breve tempo possibile. Per farlo, si è fatto pochi scrupoli. Tagli alla spesa pubblica ma anche nuove entrate che invece dovrebbero gravare sui più abbienti. Fra i settori che subiranno i tagli più consistenti troviamo: la Difesa, la Giustizia, gli Interni. Osborne dice che invece non verranno toccati la sanità e le truppe all’estero. E anche i finanziamenti per le grandi infrastrutture come il London’s Crossrail o il Mersey Gateway, ri-

il premir britannico David Cameron e, sotto, il nostro ministro dell’economia, Tremonti: pur essendo entrambi «conservatori», le loro politiche sono molto differenti verso una struttura delle aliquote Irpef già irrigidita dal precedente governo, che con prestazioni di welfare (trasferimenti e crediti d’imposta) assoggettate al means testing, cioè al reddito, personale e familiare, attuando quella che evidentemente è una manovra ispirata a criteri di progressività fiscale. Insomma, a Westminster è sta presentata una manovra che, come si dice, “prende il toro per le corna”, entrambi i corni: quello dei tagli e quello delle entrate, con

contestatissima riforma delle pensioni, contro cui si è levata l’ondata di scioperi, che porta l’età pensionabile da 60 a 62 anni entro il 2018 e prevede di aumentare i contributi previdenziali del settore pubblico portandoli ai livelli di quello privato. Ma è previsto anche l’aumento delle tasse sui redditi. L’articolo più contestato è

Il governo conta su un federalismo dai contorni ancora incerti e soprattutto messo in dubbio dalla crisi politica della maggioranza marranno invariati. L’Institute for fiscal studies ha definito le stesse misure come regressive, niente affatto orientate al sostegno dei poveri. In questo, quindi, ci sarebbero delle affinità tra quanto già fatto dal governo conservatore inglese e quanto si appresta (ed ha già fatto negli anni passati), il governo di centrodestra italiano. Ma non c’è solo questo: la manovra di Osborne contiene anche maggiori entrate, per circa il 20 per cento del totale, tasse che i contribuenti più agiati pagheranno di più, sia attra-

l’obiettivo di riassestare i conti pubblici per davvero.

E la Francia? «Where the streets have no shame», ha efficacemente titolato l’Economist per dire la sua sulle proteste che l’Exagone sta mettendo in atto per la riforma delle pensioni di Sarkozy. Una rivolta strumentalizzata dalla sinistra per una riforma piuttosto timida, ha detto il settimanale: per riportare il deficit al 3% nel 2013 e al 2% nel 2014, la Francia infine sta per approvare questa

quello che alza da 65 a 67 anni l’età per andare in pensione con il massimo previsto, ed è stato già approvato al Senato. La gréve ha invaso le piazze, anche se le contestazioni sui numeri (3,5 milioni secondo i sindacati, 1,2 per la polizia)

hanno dato un che di italiano a tutto. Ma soprattutto, ha scatenato la guerriglia mediatica da parte delle altre categorie: gli imprenditori della regione Bouche-du Rhône che, esasperati dall’ennesimo sciopero dei portuali marsigliesi (di una parte, in realtà, e neppure maggioritaria), giunto ormai al quindicesimo giorno consecutivo, hanno comprato una pagina del quotidiaLes no economico Echos per una pubblicità provocatoria. «Il miglior lavoro del mondo Diventate un gruista al porto di Marsiglia: 18 ore di lavoro effettivo alla settimana per una retribuzione netta compresa tra i 4mila e i 4.800 euro al mese, con otto settimane di ferie all’anno e un impiego garantito a vita».

Per quanto se ne sa, l’Italia invece dovrebbe optare, ancora una volta, su formule già tracciate. Eispetto alle manovre degli anni scorsi (che andavano presentate entro il 30 settembre) l’attuale strumento dovrebbe rappresentare solo una fotografia della situazione di bilancio esistente, che per quest’anno è quella determi-

nata dalla manovra estiva. Vengono spostati sul 20112013 8 miliardi di finanziamenti alle aree sottoutilizzate (Fas) in bilancio per il 2014 e anni successivi (1 miliardo sul 2011, 3 sul 2012 e 4 sul 2013). Inoltre il fondo per la partecipazione italiana alle politiche di bilancio in ambito Ue viene rifinanziato per 5,5 miliardi, a valere sul 2013: si tratta sostanzialmente di un adempimento previsto. I ministri che puntano a nuove misure di spesa dovranno invece attendere il tradizionale decreto di dicembre, cui toccherà anche prorogare una serie di sgravi fiscali che vengono rinnovati di anno in anno: e naturalmente bisognerà trovare la copertura. La stessa che ancora deve essere trovata per la riforma dell’Università, fiore all’occhiello del ministro Mariastella Gelmini. E il federalismo fiscale? Ufficialmente tutti sono al lavoro sui decreti dell’attuazione. Dal cappello a cilindro di Tremonti, Bossi e Calderoli il 7 ottobre scorso è uscita la bozza di un decreto legislativo omnibus, che contiene disposizioni di attuazione per l’autonomia fiscale delle Regioni a statuto ordinario e delle province, nonché la determinazione dei costi e dei fabbisogni standard nel settore sanitario. L’Irap non viene abolita confermando che è una tassa invisa, ma di cui difficilmente si potrà fare a meno anche in futuro. Le Regioni potranno diminuirla, ma lo spazio di manovra regionale viene limitato da una specie di “trade-off” tra riduzione dell’Irap ed aumento dell’addizionale regionale all’Irpef, riservato solo agli scaglioni medio alti. Della compartecipazione dell’Iva poco si sa, dei costi standard ancor meno.

Certo, Silvio Berlusconi ha annunciato, finalmente, “una lotta seria contro l’evasione fiscale”. Peccato che sia lo stesso Berlusconi che poco tempo fa definiva “moralmente comprensibile” chi evade e lo stesso presidente del Consiglio che, non più di un anno fa, con l’operazione “Scudo fiscale”ha permesso di riportare, e magari pure ripulire, qualche centinaio di miliardi di capitali “illegalmente”esportati all’estero. Lo Stato ne ha incassato appena il 5%, mentre di quei soldi, nel nostro paese, è effettivamente rimpatriata una quota pari al solo 41%.


pagina 12 • 26 ottobre 2010

on è un segreto che, all’incirca nell’ultimo ventennio, il Cattolicesimo statunitense sia stato segnato da una spaccatura sempre più aspra tra due grandi fazioni sui temi dell’economia politica. Alcuni propendono a sinistra, altri a destra. Alcuni preferiscono un approccio stile Reaganomics all’economia politica e si rallegrano del boom durato circa trent’anni. Altri prediligono un approccio stile Clintonomics (che in pratica somigliava molto alla Reaganomics), mentre altri si rivelano fautori di un’impostazione più significativamente guidata da ed incentrata sullo stato, sulla scorta della Obamanomics. Nella sua ultima enciclica, Caritas in Veritate, Benedetto XVI sottolinea che la Chiesa non dovrebbe essere intesa né come detentrice di una particolare ideologia circa l’economia politica né come desiderosa di imporre soluzioni pratiche specifiche per singoli paesi o regioni. Egli non intende pronunciarsi sul disaccordo in economia politica tra cattolici o esponenti di altro credo. Al contrario, il suo obiettivo è porre gli interrogativi sull’economia politica in un contesto più ampio, teologico e filosofico, affrontando questioni quali il ruolo della caritas nella teologia, e profondi concetti quali il bene comune, la persona e la comunità umana nella filosofia. Inoltre, nelle sue concrete discussioni riguardanti gli attuali scenari, quasi sempre Benedetto sembra accordare un punto alla sinistra, solitamente radicata nella Populorum Progressio (1967); egli la riprende o la qualifica descrivendo gli insegnamenti appresi tra il 1967 ed il 1991, come avvenuto in Centesimus Annus. La sua pratica segue le intenzioni. Egli consente ad entrambi i cavalli di correre, senza scegliere con quale dei due schierarsi.

N

Nella sua recente enciclica, il Papa spiega che la Chiesa non deve essere intesa come detentrice di una particolare ideologia In un certo senso, tale apertura mentale sembra lasciare perplessi molti lettori, e fa apparire questo particolare scritto di Benedetto XVI come insolitamente blaterante ed opaco. Spesso esso sembra dirigersi in due direzioni contemporaneamente. Alcune frasi sono praticamente impossibili da analizzare in termini pratici: cosa mai significa ciò in pratica? Tale rifiuto di concentrarsi sull’ideologia racchiude una grande forza che compensa la sopraccitata debolezza. La sua forza sta nell’elevare la mente ad altre dimensioni della verità, ed evitare battibecchi che appartengono più alla Città dell’Uomo che alla Città di Dio. Ad esempio, tale più alta prospettiva consente al Papa di collegare il vangelo di vita a quello sociale, per così dire. Ciò è assolutamente sensato dal punto di vista pratico. Ad esempio, negli Stati Uniti circa 50 milioni di interruzioni di gravidanza sono state effettuate dal 1973. Se a quelle bambine e bambini fosse stato consentito di vivere, milioni di loro farebbero ora parte della forza lavoro, aiutando con i propri contributi previdenziali a sanare il deficit nei nostri programmi di previdenza sociale. Le politiche concernenti l’inizio della vita condi-

il paginone

Una riflessione sulle spaccature del mondo cattolico americano nell’approcc

Troppa Caritas, p di Michael Novak

zionano profondamente lo stato sociale man mano che la popolazione invecchia. L’Europa, con il suo fallimento nel mantenere la popolazione ad un adeguato livello di crescita, o persino di semplice ricambio generazionale, sta condannando il proprio stato sociale ad una morte accelerata.

Vi propongo qui di seguito uno dei miei passaggi pratici preferiti di questa enciclica. Le frasi ricordano più il lessico burocratico che il linguaggio pastorale profondo e caldo con cui Benedetto è solito esporre le questioni. Tuttavia, esse rafforzano alcune delle più importanti conquiste del pensiero sociale cattolico degli ultimi 115 anni: «Considerando la reciprocità come il fulcro di ciò che sarà un essere umano, la sussidiarietà rappresenta il più efficace antidoto contro ogni forma di stato sociale omnicomprensivo. È in grado di tenere in considerazione sia della molteplice articolazione dei piani – e pertanto della pluralità dei soggetti - così come del coordinamento di tali piani. Di qui il principio di sussidiarietà si adatta in special modo a gestire la globalizzazione e a dirigerla in direzione di un autentico sviluppo umano. Al fine di non generare un pericoloso potere universale di natura tirannica, la governance della globalizzazione deve essere informata dalla sussidiarietà, articolata su piani diversi e com-

Economia, fede e società: pubblichiamo la prima parte dell’intervento preparato dal filosofo statunitense per il Consiglio Pontificio per la Giustizia e la Pace prendenti livelli differenti che possano operare insieme. La globalizzazione richiede certamente autorità, nella misura in cui essa pone il problema del bene comune globale che necessita di essere perseguito. Tale autorità, comunque, deve essere organizzata in modo sussidiario e stratificato, se si vuole che non infranga la libertà e che assicuri risultati efficaci in termini pratici». (57)

All’interno di questa sezione, ed in molte altre parti dell’enciclica, inizia ad emergere uno schema in virtù del quale Benedetto XVI solleva un punto importante per la sinistra politico-economica, per poi qualificarlo in termini altrettanto importanti per le politiche economi-

che del centro e centro-destra. Ad esempio, riguardo il suo interesse ad aiutare lo stato sociale, il Santo Padre avverte in primis che «le nazioni più sviluppate economicamente dovrebbero fare tutto ciò in loro potere per allocare più grandi porzioni del proprio prodotto interno lordo agli aiuti per lo sviluppo, rispettando così gli obblighi che in tal senso la comunità internazionale si è assunta».

Egli quindi inserisce immediatamente tale suggerimento all’interno dei limiti della sussidiarietà e della responsabilità personale: «Un modo per fare ciò è rivedere i programmi di assistenza sociale interna e le politiche di welfare,


il paginone

cio alla politica economica: lo scontro tra “Reaganomics” e “Obamanomics” sere dedicata un’attenzione decisamente maggiore. Nel 1970, ad esempio, l’aspettativa di vita media per uomini e donne in Bangladesh era di 44,6 anni, ma dal 2005 era cresciuta a 63. Pensate a quale gioia e quale vigore una tale accresciuta longevità comporta per i singoli nuclei famigliari. Similmente, il tasso di mortalità infantile (numero di decessi per ogni 1.000 nascite) in Bangladesh nel 1970 era 152, o il 15,2%. Dal 2005 tale media era stata ridotta a solo 57,2, o a poco meno del 6%. Di nuovo, quale dolore viene evitato a madri e padri, e cosa ciò determina. Vi è sicuramente molto altro da fare al fine di innalzare gli standard sanitari dei cittadini bengalesi. Ma i progressi compiuti solo negli ultimi trent’anni ri-

Ovunque è sorto il capitalismo, la carestie tra le genti sono scomparse, mentre un tempo erano endemiche ogni vent’anni

poca Veritas applicando il principio di sussidiarietà e creando migliori sistemi di welfare integrato, con la partecipazione attiva di individui privati e della società civile». (60) Come per il governo globale, vediamo Benedetto XVI invocare ancora una vera autorità politica mondiale: «Per gestire l’economia globale; per ravvivare le economia colpite dalla crisi; per evitare qualsiasi deterioramento dell’attuale crisi ed il più grande squilibrio che ciò comporterebbe; per portare avanti un disarmo integrale e tempestivo, la sicurezza alimentare e la pace; per garantire la tutela dell’ambiente e per regolare le migrazioni: per tutto questo, vi è urgente bisogno di una vera autorità politica mondiale, come il mio predecessore Beato Giovanni XXIII indicò alcuni anni or sono».

Ma egli è rapido nel definire tale autorità in termini di moderazione e di aderenza al nucleo dei principi del pensiero sociale cattolico: «Tale autorità dovrebbe essere regolata per legge, per osservare coerentemente i principi di sussidiarietà e solidarietà, per cercare di generare il bene comune, e per sancire un impegno al fine di assicurare un autentico ed integrale sviluppo umano ispirato dai valori della carità nella verità». (67) Per quanto mi riguarda, tuttavia, preferisco la parte iniziale della Caritas. Quand’ero giovane, desideravo scrivere

un libro sulla centralità della peculiare forma di amore di Dio, chiamata caritas in luogo del più comune e concreto amor, nell’architettura della teologia di Tommaso d’Aquino. Adoravo il suo breve trattato sulla carità (la purtroppo scadente traduzione inglese di caritas) e spesso ho organizzato seminari al riguardo. Negli ultimi anni, spinto in parte dalle sfide del mio amico ed a volte sparring partner David Schindler del John Paul II Institute di Washington, ho sviluppato a partire dal concetto di caritas le fondamenta della mia idea di democrazia, capitalismo (o, meglio detto, l’economia creativa o inventiva), e della Repubblica delle Virtù. Poiché per lungo tempo ho tentato di indirizzare l’insegnamento sociale cattolico in tale direzione, il vedere Benedetto XVI scrivere della caritas in maniera così bella mi riempie di immensa soddisfazione.

Vi è però da dire con tutta sincerità che se sottoponessimo ogni frase di Caritas in Veritate ad analisi alla luce della verità empirica circa gli eventi nel campo dell’economia politica dal 1967, scopriremmo quanto essa non sia così colma di veritas quanto di caritas. Ad esempio, ai benefici per i poveri raggiunti attraverso la diffusione dell’impresa economica e dei mercati (capitalismo è per alcuni un termine troppo spiacevole da utilizzare) dovrebbe es-

sultano senza precedenti nella storia mondiale.Vi sono molte altre omissioni di fatti, insinuazioni discutibili, ed errori non intenzionali sparsi per questa enciclica. Il lavoro di redazione si è rivelato alquanto impreciso. Ogni deficienza di veritas nuoce alla caritas. Questo è il meraviglioso e potente collegamento dell’enciclica.

Molti all’interno del Vaticano hanno attribuito la recente turbolenza economica all’”avidità”. Che prove possono essere addotte a giustificazione di ciò? I più astuti analisti riconoscono senza dubbio come l’attuale “crisi” abbia avuto inizio nel settore finanziario, ed all’interno di tale settore più precisamente nel mercato immobiliare, ed all’interno di questo campo nei due istituti di credito appartenenti a e garantiti dal governo, conosciuti universalmente come Fannie Mae e Freddy Mac. Queste due entità quasi-governative, guidate dal Congresso statunitense, sono da sole responsabili di aver concesso più della metà di tutti i mutui sulla casa negli Stati Uniti, e tutti virtualmente sottocosto. Hanno avuto un ammirevole obiettivo per vent’anni: garantire la proprietà della casa a quanta più povera gente possibile. In realtà, un partito al Congresso spinse le banche ed altri investitori a modificare le proprie politiche e procedure bancarie: concedere prestiti senza garantire la capacità dei proprietari di case di pagare le rate mensili del mutuo, ed offrire loro prestiti al più basso tasso d’interesse possibile, quasi vicino allo 0%. Ciò equivaleva a gettare benzina sul fuoco delle pratiche bancarie, e molti dei miei colleghi presso l’American Enterprise Institute iniziarono a prevedere una catastrofe finanziarie per tale settore del sistema finanziario almeno quindici anni or sono, in un flusso costante di pubblicazioni. Il colpevole partito al Congresso rifiutò di dare retta a tali avvertimenti, e fece ostinatamente resistenza all’adozione di misure di controllo su Fannie Mae e Freddy Mac che li avrebbero ricondotti sulla strada delle buone pratiche bancarie. È seguito il disastro, come previsto.

26 ottobre 2010 • pagina 13

Ammettiamo che le motivazioni del partito colpevole fossero pure, persino nobili – aiutare gli indigenti. (Naturalmente, essi avevano anche più veniali ragioni di potere politico). Ma i modi e gli strumenti scelti si sono rivelati estremamente distruttivi. Si generò una smania di redistribuzione, di nuovi benefici per i più poveri, di intervento governativo nella lunga, sobria tradizione di pratiche bancarie inculcateci tempo addietro dai nostri progenitori puritani che minava il sistema degli investitori detentori di pacchetti azionari sui mutui immobiliari; solitamente una delle forme più sicure di investimento, fonte di ritorni economici costanti mese dopo mese. Un “pacchetto” dopo l’altro che includeva cattivi mutui è crollato, e nessuno sapeva più di quali pacchetti ci si potesse fidare. Emerge quindi la vecchia tendenza a vedere l’economia contemporanea come particolarmente soggetta all’”avidità”. Due o tre dei primi papi medievali sono spesso stati accusati di essere tra gli uomini più avidi della storia dell’umanità. L’avidità è universale, e presente in ogni epoca, spesso in forma virulenta. Max Weber, il grande sociologo dell’economia, presentò argomentazioni atte a dimostrare che il capitalismo è tra tutti i sistemi economici umani quello che meno genera avidità, non il contrario. Una ragione è data dal fatto che esso offre ai ricchi uomini di successo la possibilità di mettere a rischio una volta ancora tutto il proprio capitale, al fine di investire in nuove imprese. I capitalisti non accumulano la propria ricchezza. La investono. E questi investimenti creano nuove industrie, nuove tecnologie, nuovo lavoro e nuova ricchezza. Nei fatti, i sistemi capitalisti producono più nuova ricchezza in virtù del proprio metodo di “redistribuzione” di qualsiasi altro sistema. Essi risollevano i poveri in quantità ampia – più di mezzo miliardo di esseri umani in Cina ed India solo nel corso degli ultimi trent’anni. In effetti, gli Stati Uniti erano un paese “sottosviluppato” meno di due secoli fa, fino a che la scelta di creare una repubblica commerciale (invece di una repubblica aristocratica) fu portata avanti con coerenza.

Ovunque è sorto il capitalismo, la carestie tra le genti sono scomparse, mentre un tempo erano endemiche ogni vent’anni o giù di lì in molte delle maggiori città del mondo. Similmente, piaghe ed epidemie diffuse sono state in alcuni casi eliminate, in altri contenute, e virtualmente in ogni caso sono state le fonti dei nuovi vaccini e di altri metodi preventivi che presto le avrebbero arginate. Ciò che rende il capitalismo vero capitalismo è la sua inventiva, la sua creatività, il suo know-how (come esplicitato dalla Centesimus Annus #32). Non molti anni fa, una signora in età avanzata fu ritrovata morta nella propria casa in Lousiana. Negli armadi attorno a lei, nella credenza e nel suo cassettone, furono rinvenute decine di certificati di possesso di titoli ed obbligazioni.Venne fuori che sulla carta la signora era estremamente ricca. Tuttavia ritrovando i certificati, i testimoni non pensarono alla donna come ad un Re Mida, un’avara, bramosa e cupida. Al contrario, pensavano fosse un po’“matta” poiché non aveva reinvestito i titoli ma ne aveva fatto dei materiali creativi. Il capitalismo ha reso l’avara obsoleta. Blaise Pascal ebbe a scrivere che il primo obbligo dell’azione morale è pensare chiaramente. Più veritas, per favore! (1/ continua)


mondo

pagina 14 • 26 ottobre 2010

Reportage. Pubblichiamo uno stralcio di “Il Medio Oriente cristiano”, viaggio e inchiesta nel cuore della cristianità

Ostaggi della fede Oltre ai “due Stati”, i cristiani di Terra Santa devono sciogliere il nodo della reciprocità di Antonio Picasso ora cosa ci facciamo con tutto questo Vaticano?». È il 5 giugno 1967, la Guerra dei sei giorni è appena cominciata e di lì a poco si concluderà con una schiacciante vittoria dell’esercito israeliano contro l’alleanza araba formata da Egitto, Giordania, Iraq e Siria. Il generale israeliano Moshe Dayan è di fronte alla chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme e con questa domanda dai toni sprezzanti si rivolge ai suoi soldati. Da questo momento la Città Vecchia è sotto il controllo di Israele. Il cuore dell’ebraismo, cristianesimo e il terzo luogo sacro per l’islam – dopo La Mecca e Medina – è passato nelle mani del governo all’epoca presieduto da Levi Eshkol. Gerusalemme viene dichiarata de facto capitale di Israele già nel 1950, due anni dopo la proclamazione di indipendenza del Paese. Poi, con la conquista della sua zona orientale nel 1967, dallo status giuridico si giunge alla realtà dei fatti. Questo passaggio però non è mai stato riconosciuto dalla comunità internazionale. […] Questo viaggio inizia nell’epicentro delle guerre che si sono succedute interminabili segnando la storia del Medio Oriente. Gerusalemme: un fazzoletto di terra che supera di poco i 27mila chilometri quadrati. Vicoli, monumenti, vestigia religiose della città: tutto conserva un valore che trascende l’immobilità delle pietre. Le tre religioni monoteiste vedono in Gerusalemme un centro non solo storico, legato al passato e alla tradizione, ma ancora culturalmente attivo per ciascuna delle proprie elaborazioni teologiche.

Alcuni soldati del contingente delle Nazioni Unite osservano il vescovo cattolico di Cipro che entra in chiesa. In quasi tutto il Medioriente, ormai, le chiese e i luoghi di culto cristiani sono piantonati da forze di sicurezza statali o parastatali. Dall’11/9, infatti, si sono moltiplicati gli attacchi dei fondamentalisti alle chiese di tutta la regione. A sinistra padre Pizzaballa, Custode francescano di Terra Santa. Nella pagina a fianco un’immagine dal Sinodo per il Medio Oriente che si è svolto nei giorni scorsi in Vaticano

«E

È una questione di convivenza tra religioni. È un problema politico che chiama in causa i governi della regione, ma anche quelli più lontani. Ci sono poi interessi economici legati alla realtà israelo-palestinese e altri disgiunti da questa, ma di maggiore portata: dalla distribuzione delle risorse idriche locali ai grandi appetiti verso le riserve petrolifere nei Paesi vicini. Se davvero si vuole ottenere la pace in Medio Oriente, non si può non tener conto del suo cuore simbolico che pulsa

nella Città Vecchia. […] «Gerusalemme parla al mondo», dice il Custode di Terra Santa, padre Pierbattista Pizzaballa, quando lo incontro nella rappresentanza vaticana, appena dentro le mura della Città Vecchia. Alla Custodia si accede dalla Porta Nuova. I francescani giunsero qui otto secoli fa, al seguito del loro stesso fondatore. San Francesco d’Assisi soggiornò a Gerusalemme tra il 1219 e il 1220, durante la sua missione che toccò Egitto, Siria e appunto Palestina, nel corso della Quinta crociata (1217-1221). Varcando la soglia di questo complesso di edifici medievali, si entra in contatto con la prima comunità cristiana europea che tentò di portare la pace in Terra Santa, senza riuscirvi. Nei saloni ampi e luminosi i passi echeggiano solitari. È un’enclave di armonia, questa, che contrasta vistosamente con il mondo circostante. […] Padre Pizzaballa è schematico nelle riflessioni. La sua è un’analisi non solo religiosa, ma anche politica, che tuttavia si sofferma solo sul cristianesimo. Il

monoteismo ha trovato in Gerusalemme tre volte la sua concretizzazione: con Iehova, Dio e Allah. Sorprende quindi il potenziale spirituale che la città potrebbe positivamente spendere e la sua scomoda posizione, sospesa perennemente fra un conflitto e l’altro. «Ma Gerusalemme ha due volti: uno terrestre e l’altro celeste. È la città della fede, della memoria e della storia», osserva il Custode. «Questo fa di lei un faro per tutte le chiese e le attribuisce un valore unico, che le permette di avere un legame fisico con tutte le realtà cristiane, seppure differenti, divise e in concorrenza. Personalmente provo un senso di nostalgia per l’unità perduta, ma vivo in un microcosmo che parla al mondo intero». È una riflessione suggestiva, che prende in contropiede il cronista. Decisamente politico è, invece, il patriarca latino di Gerusalemme, Fouad Twal. «Noi non mettiamo in discussione il diritto di chiunque a difendersi. Questo però deve essere esercitato sul proprio territorio, non su quello altrui».

Lo scontro fra Israele e i Paesi arabi si sta trasformando progressivamente in un confronto fra ebraismo e islamismo, radicale e fondamentalista da ambo le parti. In questa dicotomia di estremismi politico-religiosi, il cristianesimo certo non può essere declassato a“terzo soggetto” privo di capacità decisionali. La sua presenza nella regione è lunga quanto la sua storia. È la Terra Santa, la Gerusalemme terrestre di Pizzaballa. Viene da chiedersi quale ruolo – politico, nonché di dialogo interreligioso – possano giocare i cristiani qui, in una terra dove rappresentano una percentuale irrisoria della popolazione totale. «Con le divisioni che ci caratterizzano, la povertà e le persecuzioni di cui siamo vittime, il nostro peso è nullo», si rammarica ancora il Custode.

«Da anni poi la situazione ha provocato un’ondata migratoria, per cui i cristiani che abitano in Terra Santa si sono ridotti all’1% della popolazione. Cosa possono fare quando sono così in pochi?». L’1% non è esiguo, è il nulla. Molti sacerdoti che ho incontrato qui si ricordano di quanti fossero i cristiani anni fa, ma soprattutto di come le Chiese fossero molto più unite. L’emigrazione in Europa e in America, infatti, ha decimato le comunità, che ora si ritrovano frammentate e pressate dalla maggioranza ebraica in Israele e da quella musulmana nei Territori palestinesi. Cattolici, ortodossi, copti, protestanti: questa è la divisione nel cuore del cristianesimo. Osservando le co-

se sul lungo periodo, è la stessa Città Santa a suggerire una cristallizzazione dei rancori, che si tramandano di generazione in generazione dalla fine della Prima guerra mondiale a oggi. «Per arrivare alla pace serve un’atmosfera di fiducia reciproca, invece c’è solo paura». «La Chiesa chiede che vengano compiuti gesti sul terreno. Gesti concreti! Bisogna cambiare linguaggio e parlare con il cuore». Quindi ecco il suo messaggio, chiaro, senza possibilità di fraintendimenti: «Finché ci sarà un muro, i sogni di pace saranno impossibili da realizzare». Il famigerato muro, o quello che Israele chiama “barriera di sicurezza”,

Un reportage tra le religioni

Un reportage dalla cristianità mediorientale, arricchito dalla viva voce dei protagonisti. È il succo di “Il Medio Oriente cristiano” di Antonio Picasso - ed. Cooper, 216 pp., 15 euro - in libreria


mondo

26 ottobre 2010 • pagina 15

La stragrande maggioranza del Sinodo è composta da padri arabi

Polemiche inevitabili, ma la sostanza è altra di Luigi Accattoli ra inevitabile che il Sinodo per il Medio Oriente, a stragrande maggioranza composto da “padri” arabi, divenisse occasione per parole accese contro Israele e provocasse una dura reazione israeliana: ma questo non vuol dire che il Sinodo sia fallito nel suo scopo - che era anche di contribuire alla pace nella regione - e che non vi siano state affermazioni critiche in direzione del mondo musulmano come verso la divisione interna ai cristiani e tra le stesse comunità cattoliche. Dalla somma delle sette tradizioni orientali e della componente latina, chiamate a dare voce insieme a una realtà drammatica - segnata dall’aggressività islamista, dall’emigrazione cristiana e dal conflitto israelo-palestinese - non poteva che venire l’espressione di un dramma: ma è bene che essa sia venuta. Il male non sta nel dare voce - sia pure ad eccesso - alle sofferenze, ma nell’ignorare la loro esistenza. Un Sinodo «ostaggio di una maggioranza anti-israeliana» e «forum per attacchi politici contro Israele»: così l’ha qualificato il vice ministro degli Esteri di Israele Danny Ayalon. Della situazione israelo-palestinese aveva parlato il Messaggio finale del Sinodo, pubblicato sabato e contenente una veridica descrizione della tragedia in atto nei territori occupati - «mancanza di libertà di movimento, muro di separazione e barriere militari, prigionieri politici, demolizione delle case, perturbazione della vita economica e sociale, migliaia di rifugiati» - e un appello per una soluzione del conflitto che contempli “due Stati”. In un passaggio i vescovi si erano rivolti alla comunità internazionale «perché lavori sinceramente a una soluzione di pace giusta e definitiva nella regione, e questo attraverso l’applicazione delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza». Non sono mancate nel Messaggio l’evocazione delle condizioni di «sofferenza e insicurezza nelle quali vivono gli israeliani» e va dato rilievo a questo passaggio: «Noi condanniamo la violenza e il terrorismo, di qualunque origine, e qualsiasi estremismo religioso; ogni forma di razzismo, l’antisemitismo, l’anticristianesimo e l’islamofobia». Sono stati ricordati «i cristiani assassinati e le sofferenze permanenti della Chiesa in Iraq, dei suoi figli espulsi e dispersi per il mondo».

E

creato per contenere il passaggio di potenziali terroristi. Grazie a questa protezione invalicabile il 2009 si è concluso senza neanche un attentato suicida e lo stesso si può dire per i primi otto mesi del 2010. È la prima volta dall’inizio dell’eterno conflitto. D’altra par-

problema interno al mondo palestinese, la cui Autorità nazionale è spaccata tra la presidenza di alFatah e il radicalismo islamico di Hamas.Tanto meno fa riferimento alla progressiva emarginazione, nel mondo arabo, delle comunità cristiane, che si sentono or-

Per il patriarca latino di Gerusalemme Fouad Twal «noi non mettiamo in discussione il diritto di chiunque a difendersi. Questo però deve essere esercitato sul proprio territorio, non su quello altrui» te, il “muro”, come lo chiama il patriarca Twal, costituisce un impedimento allo sviluppo economico, alla libera circolazione di uomini e merci tra Israele e quello che dovrebbe diventare lo Stato palestinese. La barriera vera e propria è appena fuori Gerusalemme, ma all’interno della città vi sono altri muri – «nel linguaggio, nel cuore e nella mente delle popolazioni» – che rappresentano un ostacolo al dialogo. «Alzare un muro – dice ancora il patriarca – significa esprimere il disinteresse per chi vive dall’altra parte. Nutrire un desiderio di spaccatura verso il proprio nemico». Il ragionamento di Twal appare per certi versi unilaterale, estremistico come estremistiche e radicali sono le posizioni di tutti qui. L’alto prelato rimanda unicamente a Israele le responsabilità del congelamento del processo di pace e del rischio quotidiano che questo status quo degeneri in un altro conflitto. Non cita nemmeno per un momento il

gogliosamente palestinesi – cattoliche, ortodosse o protestanti che siano – ma, non essendo musulmane, di fronte alla maggioranza della popolazione scontano una sempre minore influenza politica. Secondo Twal, lo Stato israeliano dovrebbe farsi portatore di un’autorità magnanima, capace di “parlare con il cuore”e offrire le opportune concessioni al nemico. Twal è filopalestinese perché la sua diocesi è palestinese. Deve difendere i suoi fedeli da Israele, ma forse ancor di più dagli attacchi dell’islam che nel West Bank è sempre più influente e che a Gaza ha ormai spazzato via qualsiasi possibilità di convivenza tra le religioni. Anche quello del patriarca è un muro, uno scudo protettivo contro un soggetto politicamente forte e un competitor religioso sempre più potente. «Prima di abbattere i muri bisogna abbattere tutte le barriere che abbiamo dentro di noi. Finché ci sarà il muro, però, tutti questi resteranno sogni».

messa per giustificare il ritorno degli ebrei in Israele» perché quella promessa «è stata abolita dalla presenza di Cristo che ha stabilito il Regno di Dio». Il 14 ottobre un arcivescovo maronita che in passato fece parte della diplomazia vaticana aveva parlato di Israele come di un «corpo estraneo» che il Medio Oriente «non riesce ad assimilare». Sono state due forzature che potevano esser evitate. Ma i testi scritti non hanno tonalità accese e una valutazione responsabile dovrà tenersi a essi.

Nel Messaggio vi è anche questa frase su ciò che comporterebbe il raggiungimento di una “pace giusta e definitiva nella regione”: «L’Iraq potrà mettere fine alle conseguenze della guerra assassina e ristabilire la sicurezza che proteggerà tutti i suoi cittadini con tutte le loro compo-

nenti sociali, religiose e nazionali». Colpiti dall’aggettivo “assassina” potremmo gridare all’esagerazione, ma basterà ricordare le affermazioni papali e vaticane contro quella guerra per intendere che la posizione è la stessa: in quelle affermazioni svolta secondo le regole del diritto internazionale e della diplomazia, qui con i sentimenti dei cristiani arabi iracheni. Sempre nel Messaggio c’è un paragrafo intitolato “Cooperazione e dialogo con i nostri concittadini ebrei”che va ben al di là dell’espressione «Non è permesso di ricorrere a posizioni teologiche bibliche per farne uno strumento a giustificazione delle ingiustizie» che ha dato luogo al commento del presentatore che ha provocato la reazione israeliana. Che gli ebrei vi siano qualificati come “concittadini del Medio Oriente”, che vi sia richiamata la comune fede nel primo Testamento, che vi venga evocata la via del dialogo con l’Ebraismo sancita dal Vaticano II sono dati di straordinaria importanza, tenendo conto - appunto - che tutto ciò è affermato dai cristiani arabi di tutta l’area e non da diplomatici vaticani.

Il Messaggio chiama gli ebrei “concittadini del Medio Oriente”, richiama la comune fede nel primo Testamento e evoca la via del pieno dialogo con l’ebraismo sancita dal Concilio Vaticano II

Trattandosi di un’assemblea sostanzialmente araba il bilancio non mi pare rovinoso, né imprevedibile. Certo vi sono stati dei singoli che hanno detto di più. L’arcivescovo greco-melchita di Newton (Usa), Cyrille Salim Bustros, presentando il Messaggio ai giornalisti ha detto che «non ci si può basare sul tema della Terra pro-

www.luigiaccattoli.it


quadrante

pagina 16 • 26 ottobre 2010

Islam. Nel mirino del terrore le minoranze non ortodosse, anche musulmane chiaro, ormai, che le ondate di violenza che colpiscono il Pakistan debbano essere viste anche come una lotta interconfessionale. Gli attentati perpetrati dai talebani afghani oltre frontiera stanno concentrando la loro potenza di fuoco contro le minoranze etniche e religiose che abitano nel “Paese dei puri”. Ieri, un attacco suicida al mausoleo sufi di Pakpattan, a 160 chilometri da Lahore, ha provocato la morte di 8 persone e il ferimento di altre 16. I due mujaheddin, a bordo di una motocicletta, si sono avvicinati all’edificio dov’è custodito il corpo di Baba Farid, noto anche come Ganjshakar, un santo del XII secolo, venerato dalle confraternite locali. Lì si sono fatti esplodere.

È

Questa è la terza volta che i sufi - conosciuti come i mistici dell’islam - sono oggetto di attentati dall’inizio dell’anno. Recentemente il santuario di Abdullah Shah Ghazi, a Karachi, è stato fatto oggetto di un doppio attentato: 9 i morti. A luglio è stata la volta di Hazrat Dada Ganj Bakhsh, centro di preghiera sufi, anch’esso vicino a Lahore. In quel caso le vittime sono state 47. Tutte le operazioni di morte sono state rivendicate dai talebani. In realtà, non solo i sufi sono divenuti oggetto di questo tsunami di persecuzione. Nel mese di maggio, la minoranza Ahmadi - scismatica rispetto al sunnismo dilagante nel Paese - ha pianto un centinaio di morti per l’attentato che ha colpito la sua moschea di Lahore. Nel frattempo, anche la comunità sciita è caduta vittima di un attacco. Era il primo settembre scorso, in pieno ramadan, e sempre un attentato suicida ha compiuto il martirio nel cuore del mercato ancora una volta di

Pakistan, continua la “pulizia” etnica L’attacco a un mausoleo sufi fa 8 morti: è il segno di un regolamento di conti di Giovanni Radini

gruppo di attivisti cristiani veniva aggredito fisicamente e accusato di blasfemia. Il veloce riepilogo di questi episodi pone in evidenza il fil rouge della persecuzione religiosa da parte della maggioranza sunnita della popolazione pakistana, contro qualsiasi comunità dottrinalmente non in linea. Non che si debba accusare l’intero Paese. Tuttavia, la moda-

La frammentazione etnico-religiosa della società pakistana offre un opportuno spazio di manovra ai fondamentalisti Lahore, uccidendo 25 persone. Concludiamo, infine, con i cristiani, i quali sono stati cauti vittime di persecuzioni per il loro attivismo. Le istituzioni di Islamabad, nella fattispecie, si sono dimostrate particolarmente indolenti. Hanno pensato che intervenire in favore di una minoranza religiosa comunque esigua le avrebbe messe ulteriormente in cattiva luce, di fronte all’opinione pubblica nazionale. Sicché hanno scelto di restare a guardare. Tutto questo, mentre un

lità di attacco dei terroristi poggia su due elementi: uno demografico, l’altro è proprio della contingenza poli-

tica del Paese. I quasi 175 milioni di pakistani rappresentano la sesta popolazione al mondo in ordine di Stato. La seconda nell’Islam, dopo l’Indonesia. Il 75% degli abitanti del “Paese dei puri”è di confessione sunnita, il 20% è sciita, il restante 5% è invece di varia composizione: prevalentemente cristiani e indù, ai quali si ag-

Una delle comunità più longeve del mondo

I mistici di Allah Li chiamano “i mistici dell’islam” e nella cultura popolare sono conosciuti perché legati alla tradizione derviscia dei monaci danzanti, che si raggruppano in alcune confraternite dell’Anatolia. I sufi sono i custodi di una tradizione secolare che è stata spesso perseguitata. Le loro pratiche di esoterismo e la forte aderenza alla ritualità li allontana dal mondo musulmano più ortodosso. Eppure, in seno allo stesso Islam, i sufi vengono apostrofati come la corrente più estroversa del Corano. Diversa è invece la posizione degli Ahmadi. Questo movimento religioso, sempre di radice islamica, è sorto nella seconda metà dell’Ottocento, per volontà di Mirza Ghulam Ahmad, imam di origine indiana-punjab, il quale si pose alla testa di una corrente riformista dell’islam.

Hazrat Ahmad, Sua Eccellenza Ahmad, sostenne la necessità per il mondo musulmano di avviare una seconda fase profetica. Questa avrebbe dovuto iniziare con la sua dottrina e chiudere il capitolo legato a Maometto. Il messaggio venne immediatamente rigettato sia dal mondo sunnita sia da quello sciita. Le due confessioni islamiche di maggioranza non potevano che sconfessare chi si poneva al di sopra del Profeta. Sufi e Ahmadi hanno due elementi in comune. La condizione di minoranza perseguitata, ma anche il messaggio di pace che, in teoria, cercano di esprimere. “Amore per tutti, odio per nessuno”, questo è il messaggio che lanciò l’imam Ahmad, in nome della riconciliazione di tutte le comunità che facevano capo al Corano. (g.r.)

giungono i sufi e gli ahmadi. Il fondamentalismo che scende dalle montagne afghane e dalla Valle di Swat trova come facile bersaglio la città di Lahore. Essa è la più vicina al confine nordoccidentale tra i due Paesi. Inoltre, è tradizionalmente un bacino di culture e confessioni religiose. Islam, buddhismo, induismo e cristianesimo si incontrano da secoli in questa perla del mondo punjab. Tutto ciò, agli occhi del radicalismo talebano, non può essere più accettato. La frammentazione etnico-religiosa della società pakistana offre un opportuno spazio di manovra ai mujaheddin. Con i loro attacchi a scapito delle minoranze, essi sperano di sgominare queste ultime e convincere la maggioranza sunnita della giustezza della lotta armata. Finora, però, i risultati ottenuti si sono limitati allo spargimento di sangue e all’impennata della tensione. Se l’obiettivo dei talebani era di far propaganda, va detto che non ci sono riusciti.

Il secondo elemento che facilita questa attività è legato all’instabilità politica in cui versa il Pakistan. A due anni dalla cacciata di Pervez Musharraf, con il placet dell’Occidente, Zardari presidente e Gilani primo ministro non sono stati in grado di recuperare il terreno perduto, in termini di immagine e credibilità del Paese di fronte alla comunità internazionale e alla società civile pakistana. Quel che si avverte è un progressivo scollamento dell’opinione pubblica nazionale dalle istituzioni. Alla fine di settembre era corsa la voce del rischio di un golpe, perpetrato ancora una volta dalle Forze Armate e organizzato dal loro Capo di stato maggiore, il generale Ashfaq Pervez Kayani. Il pericolo poi è rientrato.Tuttavia il governo di Islamabad non deve dormire sonni tranquilli. A complicare la vicenda, si sta facendo sempre più veritiera la possibilità che l’ex presidente Musharraf torni sulla breccia con un nuovo partito per candidarsi alle elezioni del 2013. È il caos Pakistan, questo. Uno scenario politico decisamente favorevole per tutte quelle forze che intendono sovvertire l’ordine istituzionale e coinvolgere l’intero Paese nella jihad. Il quadro è stato delineato in modo cristallino dal Muftì sufi di Lahore, Mufti Muneebur Rehman. «Il governo è distratto da altre priorità, così non riesce a rendersi conto del percolo di una guerra religiosa in cui sta scadendo il Paese».


quadrante

26 ottobre 2010 • pagina 17

La decisione presa ieri dai 27 riuniti in Lussemburgo

Singh e Kan stringono accordi commerciali e militari

L’Ue “sblocca” la richiesta di adesione della Serbia

Debutta a Tokio l’asse fra India e Giappone

LUSSEMBURGO. I ministri degli

TOKYO. India e Giappone vogliono aumentare i loro rapporti commerciali, ma anche la collaborazione strategica e militare per contenere la crescente espansione militare cinese. E cresce l’attesa per l’annuncio di vari accordi e iniziative, al termine dell’incontro di Tokyo tra i primi ministri Manmohan Singh e Naoto Kan. Singh, in visita ufficiale in Giappone fino a oggi alla testa di una nutrita delegazione di funzionari e imprenditori indiani, ha parlato della collaborazione tra i due Paesi come la possibilità «di dare inizio a un nuovo periodo di crescita economica e prosperità all’Asia e all’intero mondo». Negli ultimi anni sono cresciuti soprattutto i rapporti

esteri della Ue hanno sbloccato la domanda di adesione della Serbia, che potrà ora passare all’esame della Commissione europea. Lo riferiscono fonti diplomatiche in margine al consiglio esteri della Ue, a Lussemburgo. L’accordo tra i 27 hanno spiegato i diplomatici accoglie la richiesta olandese secondo la quale ogni passo in avanti nel processo di negoziato tra la Ue e la Serbia sarà condizionato ai progressi nella cooperazione di Belgrado con il Tribunale internazionale dell’Aja (Tpi), per arrivare all’arresto di tutti i criminali di guerra, in particolare quello dell’ex generale serbo bosniaco, Ratko Mladic e dell’ex leader serbo croato, Goran Hadzic.

La valutazione sul grado di cooperazione sarà fatta «all’unanimità». La decisione dei 27 ministri ha una portata decisiva per il sogno europeo di Belgrado che può ragionevolmente attendersi di ottenere lo status di Paese candidato Ue da qui ad un anno. La Farnesina esprime «apprezzamento» per la decisione dei ministri degli esteri della Ue. La decisione di ieri rappresenta un «giusto segnale» che arriva «al momento giusto per la Serbia e l’intera regione balcanica», secondo

La guerra vista da Wikileaks I documenti messi in Rete svelano un altro conflitto di Pierre Chiartano

LONDRA. Continuano ad arrivare nuove rivelazioni dai file segreti sull’Iraq pubblicati da Wikileaks. Sono 400mila i documenti riservati resi noti venerdì scorso. E sono emerse informazioni anche sui nostri militari. Dopo la strage del 2003 nella base di Nassiriya, ci sarebbero state reiterate minacce da parte degli insorti, che pianificavano altri attacchi contro la base. Sarebbero almeno tre gli attentati pianificati dal 2004 al 2006, data del ritiro dei nostri soldati. Sono centinaia i documenti che riguardano il contingente italiano, in particolare i Carabinieri. Il portavoce di Wikileaks a Londra ha dichiarato alla Bbc che il sito di Julian Assange «non è anti-americano», anche se molti documenti riguardano gli Usa. I documenti, che coprono il periodo compreso dall’inizio del 2004 al 1 gennaio 2010, riferiscono di 285mila vittime della guerra in Iraq, tra cui almeno 109mila decessi: di questi, 66mila sarebbero civili. I dossier dell’esercito Usa diffusi rivelano che, nel febbraio 2004, le truppe italiane della Brigata Ariete avrebbero ricevuto informazioni sui piani per un possibile attentato suicida a Nassiriya, dopo quello del 12 novembre 2003, nel quale morirono 19 italiani e alcuni cittadini iracheni. Una notizia che invece sarebbe in contraddizione con la versione ufficiale delle nostre forze armate riguarda la famosa «ambulanza». Non avrebbero sparato gli occupanti del mezzo di soccorso iracheno colpito durante la «battaglia dei Lagunari», nell’agosto 2004 sui ponti di Nassiriya. Ricordiamo l’enorme violenza cui erano stati sottoposti in quel periodo i nostri soldati, con attacchi continui. «Alle ore 03.25 un automezzo che transitava sul ponte orientale di Nassiriya non si è fermato al checkpoint italiano e veniva conseguentemente ingaggiato con armi leggere. Si produceva una grande esplosione, seguita da una seconda. Si è valutato quindi che il veicolo trasportasse dell’esplosivo», si legge in due resoconti americani del 5 agosto 2004 pubblicati dal sito di Assange. I fatti risalgono alla notte tra il 5 e il 6 agosto 2004, quando a Nassiriya si verificarono scontri tra i

miliziani dell’Esercito del Mahdi e i soldati italiani, posti a difesa dei tre ponti sull’Eufrate. L’episodio è stato al centro di una vicenda giudiziaria complessa. Dai file Wikileaks, incrociati con il rapporto riservato, scritto tre giorni dopo i fatti dal colonnello dei lagunari Emilio Motolese e reso noto nel 2006, emerge che la versione dei soldati italiani si potrebbe riferire a un episodio distinto, verificatosi un’ora dopo, alle 04.25. I soldati «spararono contro un mezzo che non si era fermato al checkpoint. Quindi iniziò – si legge nei file – una battaglia nella quale diversi insorti rimasero uccisi e altri feriti». Nei documenti si parla anche del sergente Salvatore Marracino, il militare italiano morto nel corso di una esercitazione il 15 marzo 2005 «Colpito accidentalmente», sarebbe scritto in un rapporto americano datato il 15 marzo 2005, classificato segreto e pubblicato con diversi omissis. Ma sulla presenza italiana in Iraq ci sono anche notizie molto positive, come nel caso accaduto il 9 marzo del 2005.

Dopo la strage a Nassiriya del 2003, sarebbero stati almeno tre gli attentati pianificati fino al 2006, data del nostro ritiro

quanto si apprende da fonti della Farnesina. Un «segnale concreto per la prospettiva europea di un Paese che l’Italia e il ministro Frattini, con il suo impegno personale hanno fortemente incoraggiato». Pesano però anche gli episodi di violenza compiuti dagli ultras serbi negli stadi di tutto il mondo. Non si tratta di una questione calcistica: i membri dell’Unione ne temono più che altro il carattere nazionalista, teso a distruggere o quanto meno contestare l’indipendenza del Kosovo e l’Albania, considerati attori che intendono distruggere il progetto di “grande Serbia”. Il governo si è impegnato a renderli innocui.

Una pattuglia italiana era dovuta intervenire in supporto a un gruppo di poliziotti iracheni. Gli iracheni avevano tentato di liberare due ostaggi. Erano stati attaccati da un gruppo armato si erano dovuti rifugiare nella sede di una Ong Usa. «Una brigata italiana riferisce che i poliziotti iracheni, attaccati da un gruppo armato, si sono asserragliati nella sede della Ong Research Triangle Institute a Nassiriya», si legge nel documento classificato segreto. «Un volta dentro il compound, gli agenti hanno continuato a subire l’attacco. Per stabilizzare la situazione è stata chiamata una pattuglia italiana e inviato un drone». Dopo una sparatoria durata circa un’ora, «la pattuglia ha messo in sicurezza il compound. Si registrano morti e feriti tra i poliziotti iracheni e nessuna vittima civile. Inoltre – prosegue il resoconto – un militare della brigata italiana «è rimasto ferito ed è stato evacuato in una struttura medica. I due presunti ostaggi sono stati salvati e la situazione è stata posta sotto controllo».

commerciali del Giappone con la Cina, ma i recenti contrasti per dispute territoriali marittime hanno mostrato a Tokyo la necessità di guardare anche ad altri Paesi dell’area.

Giappone e India stanno studiando un accordo per facilitare l’accesso delle ditte giapponesi nel mercato indiano. Il Giappone avrebbe facilitazioni fiscali, mano d’opera a basso costo e possibilità di collocare le merci, mentre l’India ha bisogno di investimenti esteri per la crescita economica e per la realizzazione di infrastrutture. Gli scambi commerciali tra i due Stati, 2° e 3° maggiore economia asiatica, sono cresciuti nel 2009 a 12,5 miliardi di dollari, appena il 4% rispetto al commercio di Tokyo con la Cina. Peraltro gli investimenti diretti giapponesi in India sono arrivati nel 2009 a 6,6 miliardi di dollari. Un altro settore di cooperazione vuole essere l’estrazione e la raffinazione delle terre rare, minerali essenziali per l’industria giapponese: Tokyo lamenta che la Cina, dopo i recenti contrasti, ne ha molto diminuito il commercio. L’India vuole sviluppare l’energia nucleare a fini civili ed è disposta a favorire le autovetture e altri prodotti giapponesi.


cultura

pagina 18 • 26 ottobre 2010

Reportage. Paradossi e contraddizioni di un luogo che un tempo era simbolo di patriottismo e che oggi affonda nell’immondizia. Insieme all’Unità d’Italia...

Il Risorgimento fu ferito A 150 anni dall’incontro di Teano (che però avvenne a Vairano) viaggio nelle piaghe del Sud: tra rifiuti, abusivismo e altri oltraggi di Marco Palombi no va a Teano a cercare il Risorgimento e ci trova la monnezza, l’abusivismo, il Sud. Ci trova una società che muore, agitandosi solo un po’, come se abbandonarsi alla spoliazione di sé altro non fosse che destino, lavoro, pietra di Sisifo toccatale in sorte.

U

che non conosce civismo, c’è in quella di chi butta il suo sacchetto per strada dal finestrino della macchina, c’è in quella di chi si lamenta che la differenziata è troppo difficile, c’è in quella dei napoletani che vorrebbero trasformare le montagne di Avellino e Benevento nella loro privata discarica, c’è

Uno va a cercare una sciocchezza come l’esatto punto dell’incontro tra Garibaldi e quel «ricettatore» di Vittorio Emanuele II (copyright di Richard Newbury) e trova l’eterna questione meridionale, trova una popolazione inconsapevole di sé e senza orgoglio, trova una falsa nostalgia plebea per l’età dell’oro, la Campania Felix. Uno va a Teano e per contrappasso ci trova i Borboni, i Borboni nella testa degli italiani, il mito di un regno che lottava alla pari coi grandi d’Europa e in cui Napoli era più o meno come Parigi. E poi trova un sacco di gente con la schiena drittissima, che tra Garibaldi, Savoia e Franceschiello è ancora dolorosamente innamorata d’un posto bellissimo e assassinato giorno dopo giorno da chi, amandolo solo perché non conosce altro, lo uccide. Uno va a Teano per l’incontro di Teano e si ritrova Caianello e Vairano Patenora. E pure là trova la monnezza: la trova per la strada e nei boschi che videro passare le camicie rosse, il borioso esercito piemontese e quello disperato delle Due Sicilie, la trova nei magnifici castelli normanni che incoronano le cime della zona, la trova sotto i cartelli che parlano di raccolta differenziata, la trova nella testa della gente. Nella testa della gente di Campania - e quindi di Teano, di Caianello e di Vairano, dove si fece l’Italia per non morire e s’è finito per vivere morendo - c’è la monnezza: c’è in quella di chi si merita una medaglia per lo sforzo d’essere cittadino in una terra

Garibaldi, come i Savoia o le altre icone risorgimentali, ormai, si trovano solamente attaccate ai muri e sulle insegne

in quella delle province che non vogliono soffocare attorno all’impossibile soluzione del dilemma Napoli.

Il Risorgimento, Garibaldi, i Savoia, sì, ci trovi pure quelli, ma solo attaccati ai muri e sulle insegne: esistono nei marmi commemorativi, esistono nei cippi, nei sacrari sgarrupati, nelle lapidi che la cittadinanza pose, esistono nell’istituto tecnico e nella macelleria “Garibaldi”, nel bar “L’incontro”, nel caffè “I Mille” e in ogni altra bottega abbia voluto dare un

tocco storico alla propria registrazione alla Camera di Commercio. Si va a Teano e a Vairano - e pure a Caianello, a cui peraltro non gliene frega niente di intestarsi il fatto storico per raccontare la storia divertente di una contesa di campanile sull’incontro in cui per la prima volta si disse “Re d’Italia”, l’incontro in cui il Savoia s’intestò la conquista del Mezzogiorno umiliando Garibaldi e il dittatore glielo concesse perché, sosteneva lui, la pensava come Dante: «Fare l’Italia, anche col diavolo».

Anche a lui, qualche anno dopo, deve essergli sembrata una bella cazzata se nel 1868 arrivò a scrivere ad Adelaide Cairoli che «gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Sono convinto di non aver fatto male, nonostante ciò non rifarei oggi la via dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio». Gli ci è voluto un attimo ai patrioti italiani - e qui sta un altro pezzo del dramma nazionale per cui italiani sono sempre gli altri - per accorgersi che la patria non basta: «A lei pare una bella cosa questa Italia? Io per me credo non sia bella; ma per non amareggiar gli altri, d’ora innanzi mi taccio». Era il 1878 e la penna di Giosuè Carducci annunciava il suo disdegno all’amico Arcangelo Ghisleri. Due anni più tardi, anche Garibaldi, di fronte all’incarcerazione di Stefano Canzio per un processo politico, ebbe modo di mettere a verbale un altro momento d’incazzatura. Quel «Altra Italia avevo sognato» che tanto piacque al patriota non conciliato Felice Cavallotti. A Teano - o a Vairano o a Caianello - dove tutto era cominciato, non c’è il Risorgimento, se mai risorgemmo, ma c’è l’Italia fatta male, ci sono

A sinistra, un’illustrazione di Vittorio Emanuele II. A fianco, la raffigurazione del celebre incontro di Teano tra il re e Giuseppe Garibaldi (nella foto qui sotto). Nell’altra pagina, Camillo Benso conte di Cavour e Giuseppe Mazzini

quegli «oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali» (spesso per mano di classe dirigente meridionale, spesso per mano propria), c’è un paese che non si vuole bene: qualche volta a torto, molte altre a ragione. Uno va a cercare l’esatto luogo dell’incontro a cavallo, quello ritratto in innumerevoli sussidiari su cui si persero fiumi di retorica patriottarda, uno va per una faccenduola storiografica e la guerricciola da strapaese tra due paesotti da mettere in ridicolo e scopre che non c’è niente da ridere.

Meglio dirlo subito. L’incontro di Teano non è avvenuto a Teano, anche se si continuerà giustamente a chiamarlo così: anche la battaglia di Tagliacozzo tra l’esercito degli angioini e i ghibellini filosvevi (1266), faceva notare uno studio dell’Istituto geografico militare nei lontani anni Sessanta, è avvenuta a Scurcola Marsicana, e allora? Secon-

do le fonti ad oggi disponibili, il rendez vous in cui Garibaldi ha chiamato Vittorio Emanuele per la prima volta “Re d’Italia” e quello, per ringraziarlo, gli ha sostanzialmente detto di andarsene in pensione, con ogni probabilità è avvenuto nei pressi di Taverna della Catena, a Vairano Scalo, nel territorio di Vairano Patenora. All’ini-


cultura

zio non c’era dibattito, questa è stata la versione ufficiale per cinquant’anni, poi Teano ha voluto prendersi, oltre al nome, pure il posto e ora fanno cent’anni che i due comuni s’azzuffano su questa fregnaccia. Una bella storiella per la stampa, con quel tocco di patetico che consente ai mediocri di sentirsi migliori: campanilismo, provincia, Garibaldi, retorica e kitsch. Perfetto per le tv: e infatti a gennaio c’è andato il Tg1 per sceneggiare, tra una presa per il culo e l’altra, una pace tra i due comuni che non è mai avvenuta. Anche quest’anno infatti, nonostante il 150esimo anniversario, ci saranno due celebrazioni, due bande, due rappresentanti istituzionali e due discorsi gonfi di luoghi comuni. I sindaci, si vede, sono due brave persone che hanno ben altro da pensare e non vorrebbero perdere altro tempo su questa faccenda, eppure non riescono a uscirne. Perdita ridotta, tutto sommato: di soldi per le celebrazioni non ce ne sono, quindi non c’è molto da litigarsi. Tutto è perduto, a parte l’ospite d’onore, scriveva Marcello Marchesi.

Per questo, comunque, si va a Teano: porta della Campania, capitale dei Sidicini, Teano che era già importante prima dei romani e ancor più lo divenne

dopo, che fu «urbs magni nominis» sulla via Latina secondo Strabone, che in età romana aveva un teatro, aveva terme, templi e un Foro, che divenne poi sede vescovile, che ha una bella cattedrale e che, con due dei quattro “Placiti cassinesi”, ha tenuto a battesimo il “Volgare di Sì”.

Teano che è stata tutto questo e molto altro ancora s’im-

Ma lì esiste anche gente con la schiena drittissima, ancora innamorata d’un posto bellissimo e assassinato giorno dopo giorno panca oggi a capitale dell’unità d’Italia e s’affida ad una “vendolata” d’accatto come il «nuovo patto di Teano»: mille sindaci del Sud che dicono per l’ennesima volta, senza farla mai, che «un’altra Italia è possibile». E intanto Teano muore: muore di marginalità economica, muore di solitudine nel suo splendido centro storico vuoto di vita, muore perdendo il polo scolastico a vantaggio dell’odiata Vairano. E muore di monnezza, ovviamente, col suo enorme territorio comuna-

26 ottobre 2010 • pagina 19

le e le sue trentatre frazioni sommerse da mesi dalla spazzatura e da quella maledizione che va sotto il nome di Consorzio unico dei rifiuti. Poi si va a Vairano Patenora, che è un borgo sotto una bella e ovviamente disastrata roccaforte normanna, che è pure un brutto paesotto più in basso e un’altra cittadina ad un paio di chilometri, il centro vero, Vairano Scalo, un ammasso di roba costruita a casaccio lungo la via Casilina: negozi, un parco senza piante, un trivio, Taverna della Catena, orrende memorabilia, le scuole sottratte a Teano, un minimo sindacale di vita sociale. E monnezza. Nonostante a Vairano facciano la differenziata - circa il 45 per cento col metodo del porta a porta, assai più di Roma - non c’è verso: chi non vuole farla non la fa e i sacchetti, in mancanza di meglio, li butta dove capita per la disperazione del povero sindaco, Giovanni Robbio, appassionato studioso di sistemi avanzati di smaltimento. A Vairano, però, c’è stato l’incontro di Teano. È forse un fatto secondario mentre l’unità d’Italia affonda in oceani d’immondizia, d’incompetenza, di malafede, di criminalità, ma questa è probabilmente l’unica nazione al mondo in cui non ci sia una versione definitiva sull’evento che bene o male ne segna la nascita. Centocinquanta anni fa giusti, il 26 ottobre 1860. La notte prima Vittorio Emanuele II aveva dormito a palazzo del Balzo, in quel di Presenzano, Garibaldi per strada, vicino a Calvi. La mattina s’incontrarono, senza tante formalità, fecero un pezzo di strada insieme - chi dice felici e contenti, chi si ricorda un generale decisamente amareggiato - poi ognuno per la sua strada: il re (incamerato il meridione d’Italia conquistato dall’altro) a mangiare e dormire a Teano a palazzo Caracciolo, l’altro a smozzicare pane e formaggio in un fienile. Il luogo dell’incontro tra i due? Mah.

Non si vuole, né si potrebbe in questa sede, ricordare la messe infinita della memorialistica, delle testimonianze orali - il testimone è sempre falso, si sa - o delle ricostru-

zioni storiche che fanno il bagaglio probatorio dei due attori della contesa, ma solo due fonti documentali di pregio: una stranota (ma decisiva), l’altra di più recente scoperta. La prima - pubblicata nel 1909 dal capitano Giulio Del Bono dell’Ufficio storico dell’esercito - è una noterella del Diario storico dell’Armata di occupazione delle Marche e dell’Umbria, sostanzialmente l’esercito piemontese: «26 ottobre - A Taverna della Catena S. M. il Re, che col suo quartier generale marcia colle truppe del IV corpo, è incontrato dal generale Garibaldi». Conciso e definitivo, si direbbe. Vista l’annosa querelle, però, è interessante la trouvaille archivistica di un etnoarcheologo vairanese, Adolfo Panarello, appassionato cultore della storia delle sue terre. Si tratta delle corrispondenze del Times di Londra sulla spedizione dei Mille, in particolare le due che parlano dell’incontro di Teano, entrambe uscite anonime: breve la prima, una paginata di reportage la seconda, dettagliatissima, intitolata Garibaldi’s Army. Il testo, pieno di riferimenti geografici e persino metrici, non lascia dubbi sul fatto che il re e il generale si siano incontrati nei pressi di Taverna della Catena. Panarello, peraltro, non s’è limitato a scovare gli articoli, ma ne ha ingigantito l’attendibilità accertandone, grazie a pazienti ricerche negli archivi del quotidiano londinese, anche l’autore: si tratta del generale Ferdinand Eber, quello delle “brigate Eber”, che fecero parte integrante dell’esercito garibaldino, l’uomo senza il quale le camicie rosse difficilmente avrebbero preso Palermo.

L’incontro di Teano, insomma, avvenne da un’altra parte. La nostra storia come nazione inizia subito dopo e contiene già in sé tutto quel che sarà: il Re invita il Generale a farsi da parte, terrorizzato che il nostro, finito coi Borboni, andasse a regolare i conti coi preti a Roma. Garibaldi capisce di «essere stato messo alla corda» e, espletate le formalità per l’annessione del Mezzogiorno al Piemonte, se ne va a Caprera rifiutando denaro e onorificenze. È il 9 novembre: lo saluta solo la sirena d’una nave inglese, il luogotenente generale di Napoli Farini, dal canto suo, vietò persino al Giornale Officiale di dare la notizia. Quando l’esercito piemontese si troverà di nuovo il generale davanti - due anni dopo, sull’Aspromonte - gli sparerà addosso pur di non fargli prendere Roma. Garibaldi fu ferito, come si sa, ma a un piede, non alla gamba come dice la canzone. Solo un’altra piccola imprecisione in una storia bella e disgraziata. (ha collaborato Lucia Conte)


spettacoli

pagina 20 • 26 ottobre 2010

ROMA. Dopo il successo di Benvenuti al Sud, il cinema italiano si prepara ad altri incassi record con la nuova commedia di Fausto Brizzi. Mercoledì uscirà nelle sale (600 copie) Maschi contro femmine, un film che - già solo per il cast stellare - richiamerà in massa il pubblico italiano, sempre più affezionato al genere, come confermano i 4 milioni di euro incassati fino ad ora dal film di Bisio e Siani. A un anno dall’uscita di Ex, Brizzi decide di tornare al film corale, coinvolgendo questa volta un numero sempre maggiore di protagonisti, peraltro i più amati e richiesti del momento. Da Fabio De Luigi a Paola Cortellesi, da Alessandro Preziosi a Carla Signoris. In questo primo episodio (l’11 febbraio 2011 uscirà il sequel Femmine contro maschi), il regista prova a portare sullo schermo i conflitti tra quei due mondi da sempre inconciliabili come quello degli uomini e delle donne. A farne le spese, questa volta, sono i maschietti che finiscono per essere etichettati come misogini, traditori e approfittatori.

Quattro le storie che si intrecciano nei 113 minuti del film. Walter (Fabio De Luigi) e Monica (Lucia Ocone) sono una giovane coppia alle prese con i problemi legati alla nascita del loro primo figlio. Su tutti quello dell’ormai scarsa attrazione sessuale. Lui, allenatore di una squadra femminile di pallavolo, finisce per cedere alle avances, non proprio celate, della giocatrice più brava del club, interpretata da Giorgia Wurth. Lei, non più disposta a “giocare in panchina” nel loro rapporto di amanti, lo spinge a lasciare il letto coniugale, finendo per rovinare la vita di Walter. Chiara (Paola Cortellesi) e Diego (Alessandro Preziosi) sono vicini di casa ed esattamente agli antipodi l’uno dell’altra. Lei è un’infermiera che nel tempo libero legge Pennac e si batte contro le baleniere in Antartide, lui è il classico “sciupafemmine” che fa raccolta di perizomi appartenuti alle sue innumerevoli amanti di tutte - o quasi - le nazionalità. Diego finirà per provarci anche con la “fricchettona frigida” (così la saluta ogni volta che la incontra sul pianerottolo), ricevendo però un clamoroso due di pic-

In questa pagina, la locandina e alcune immagini dei protaginisti del nuovo film di Fausto Brizzi “Maschi contro femmine”, divertente commedia sulla guerra tra sessi, da domani nelle sale italiane

Ciak. Da domani nelle sale italiane il nuovo film “Maschi contro femmine”

Brizzi porta al cinema la guerra dei sessi di Domenico Palesse che che segnerà per sempre - e in tutti i sensi - la sua virilità. In un appartamento di giovani studenti vivono Andrea (Nicolas Vaporidis) e Marta (Chiara Francini). Omosessuale lei, etero lui, finiranno per innamorarsi della stessa ragazza (Sarah Felderbaum). In una gara senza esclusione di colpi proveranno a portarla ognuno nel proprio letto. La madre di Andrea, Nicoletta

li), ma sarà una ritrovata passione a ridare vita ad una sconsolata donna sola.

Brizzi non nasconde di essersi ispirato a Massimo Troisi e Francesco Nuti, tanto da affidare l’apertura del film proprio a una frase del celebre comico napoletano: «Secondo me, un uomo e una donna sono le persone meno adatte a sposarsi». Detto questo, l’ispirazione è una cosa, la riuscita

be stata etichettata come “cinepanettone” alla velocità della luce, seppur da quel genere si diversifica per una struttura narrativa decisamente più elevata. Chi si aspetta da questo film la rappresentazione sul grande schermo del conflitto tra uomini e donne deve però ricredersi. Più che la messa in scena dell’incomunicabilità tra i due generi (quello maschile e femminile), il nuovo lavoro di Brizzi si limita a descrivere

A un anno da “Ex”, il regista torna al genere corale con un numero maggiore di protagonisti tra i più amati del momento. Da Fabio De Luigi a Paola Cortellesi, da Alessandro Preziosi a Carla Signoris (Carla Signoris), scopre il tradimento del marito (Francesco Pannofino), ritrovandosi “single di mezza età” con tutti i dubbi, le perplessità e i problemi che questo comporta. La soluzione potrebbe essere la chirurgia estetica, consigliatale dall’amica e collega Paola (Nancy Bril-

un’altra. Maschi contro femmine fa divertire, strappa molte risate al pubblico, ma le intenzioni del regista e sceneggiatore vengono in parte disattese. Se fosse uscita sotto il periodo natalizio, la pellicola sareb-

minuziosamente e con ironia (come ha abituato ormai da anni) gli stereotipi e gli archetipi che invadono il nostro Paese. Il tutto condito da una regionalizzazione a volte esasperata dei protagonisti: l’Italia c’è tutta, dal milanese Bisio al pugliese Solfrizzi, passando per il romanissimo Pannofino (poco

credibile che un romano sia il presidente di una squadra di pallavolo femminile del nord Italia) e per il toscano Ruffini. Tante le scene di sesso, così come tante sono le scene di nudo. Non c’è attore, Cederna e Ruffini a parte, che non abbia una scena senza veli o in desabillé. Brizzi sceglie molti attori con cui ha già lavorato, ma finisce per dar loro la stessa caratterizzazione dei film precedenti: Vaporidis, per esempio, non riesce a togliersi di dosso il ruolo del ragazzino di Notte prima degli esami, mentre Nancy Brilli e Carla Signoris somigliano molto a quelle di Ex.

Ha dovuto sudare più di tutti, invece, Giorgia Wurth che nel film interpreta una pallavolista. Prima delle riprese l’attrice si è allenata con la nazionale femminile, agli ordini di mister Barbolini. «Mi sono divertita molto - racconta -, ringrazio tutte le mie compagne che sono state disponibili sia dentro sia fuori dal campo». Promosso, seppur non a pieni voti, Alessandro Preziosi che per la prima volta si è messo in gioco con un ruolo comico. È un perfetto latin lover e forse la vicinanza con Paola Cortellesi gli ha giovato sul piano attoriale. «È stato bello lavorare con questo cast, sul set c’era sempre aria di festa - racconta Brizzi -. La scelta l’ho fatta per professionalità ma anche per simpatia. Mi piace sempre lavorare con persone con cui so che mi troverò bene». La canzone che apre il film è di Francesco Baccini e porta lo stesso titolo della pellicola: «Fausto mi chiamò e mi disse se avevo voglia di scrivere una canzone per il suo film - racconta il cantautore -. Gli dissi che avrei accettato ma che non volevo leggere la sceneggiatura, volevo solo sapere il titolo. La sera stessa lo chiamai con il brano da fargli ascoltare». Molto il lavoro effettuato in postproduzione, in particolare con l’aiuto della computergrafica. Come nel caso della scena in cui Preziosi e la Cortellesi si trovano a bordo di un motoscafo intenti a bloccare le baleniere giapponesi sulle coste dell’Antartide. O nelle scene delle partite di pallavolo, girate dal vivo con la Wurth tra le professioniste, compreso un cameo di Francesca Piccinini.


spettacoli

26 ottobre 2010 • pagina 21

Musica. Nella top ten dei dischi più venduti in Italia, la “Rhapsody in Blue” di Gershwin interpretata dal duo Bollani-Chailly

Attenti a questi due...

di Matteo Poddi A fianco, un’immagine di Gershwin. Qui sotto, la copertina del nuovo lavoro di Stefano Bollani e Riccardo Chailly “Rhapsody in Blue”, a oggi nella top ten delle classifiche italiane. In basso, i due artisti insieme

usica classica nella top ten dei dischi più venduti. No, non è uno scherzo. La musica classica in classifica c’è davvero ed è esattamente all’ottavo posto, davanti a nomi come Katy Perry e Biagio Antonacci. Si tratta della “strana” coppia composta da Stefano Bollani e Riccardo Chailly. I due appaiono sorridenti, divertiti e leggermente stupiti nella copertina di Rhapsody in Blue, quasi presaghi del successo che li avrebbe baciati. Sì, perché è vero che stiamo parlando pur sempre di Gershwin, un compositore che è stato anche e soprattutto uno straordinario jazzista divenuto, anche per le sue incursioni a Broadway, il compositore più popolare del Novecento. L’orchestra che suona nel disco è, la classicissima invece, Gewandhaus di Lipsia diretta da Riccardo Chailly appunto.

M

Si parla spesso della musica classica come di una musica “colta”ed “elitaria”. È anche vero che non ha più molto senso, specie nell’era di internet e dei download legalizzati fare tutte queste distinzioni. È evidente che, non solo da un punto di vista musicale, la società in cui ci stiamo abituando a vivere è un autentico melting pot di culture, tradizioni e suggestioni di generi diversi e, spesso, agli antipodi. Qual è la novità? Sicuramente l’ingresso di un disco di musica “colta” tra i primi dieci della top ten. L’etichetta in questione è la Decca, specializzata in musica classica per l’appunto ma il distributore è Universal e questo ha garantito all’album una visibilità e una pubblicità davvero d’impatto. Il cd non contiene “soltanto” la celeberrima Rapsodia in Blu ma anche il Concerto in Fa e la suite Catfish Row, molto più di nicchia, come il Rialto Ripples che è un brano che Gershwin scrisse a soli diciotto anni e che rappresenta una rarissima esecuzione. Insomma questo album è apparso, a molti, un segno incoraggiante per il mercato discografico sulla cui salute in alcune circostanze erano stati espressi dubbi da più parti. Quindi l’audacia paga? Se pensiamo che i due elementi di questa ricetta così inedita sono un pianista jazz e l’orchestra simbolo della Grande Tradizione Tedesca che esiste dal 1743 e che suona anche nella Thomaskirche di Bach, si può davvero parlare, forse, di un azzardo. Il loro motto è desueto, purtroppo, come la lingua latina che lo caratterizza: “Res severa verum

gaudium”. Non esattamente il massimo dell’innovazione insomma. Eppure nonostante queste differenze, Chailly e Bollani hanno dato vita a un bel cd, piacevole da ascoltare e da scoprire ascolto dopo ascolto. Perché non puntare in alto? I tempi sono maturi per prendere atto del fatto che un processo è ormai iniziato e non si tratta più di casi isolati. Il fatto che qualche artista classico venda bene non è una novità. I Notturni di Chopin secondo Maurizio Pollini hanno vinto il disco di platino, Abbado, la Bartoli o Lang Lang hanno fatto numeri significativi che li hanno immediatamente proiettati fuori dal recinto della “classica”. Che Gershwin appartenga alla grande musica è evidente, per esempio, dall’ammirazione di Ravel e Schomberg o, più recentemente, dal congruo numero di pagine dedicategli dalla nuova bibbia del XX secolo “classico”, “Il Resto è Rumore”, il capolavoro del critico del New Yorker, Alex Ross. Co-

sì la coppia Chailly-Bollani ha dato il meglio di sé a Lipsia ovvero nel tempio della musica sinfonica dove sono stati contestati parecchi artisti. Un test importante per una novità assoluta come questa, subito accolta con curiosità e calore da parte del pubblico. La caratteristica che colpisce di Stefano

Il repertorio scelto trascina l’ascoltatore nel mondo dello “swing”: un’atmosfera di confine fra la classica e il jazz, non sempre facili da conciliare Bollani è la sua “sfrontatezza”. Duetta con un monumento del jazz come Chick Corea e poi gioca ad imitare, attraverso il suo fedele pianoforte, Battiato e Paolo Conte. Fa anche il conduttore radiofonico, l’intrattenitore e lo scrittore. È l’artista

poliedrico ed eccentrico per antonomasia in grado di muoversi agilmente tra un registro alto, quasi aulico, e un registro basso. Un mix riuscitissimo di cultura pop e formazione classica. Senza soluzione di continuità. E chissà che nella vita privata non sia un “inguaribile sentimentale” proprio come si definiva Gershwin. Per il momento Bollani ha dichiarato di essere d’accordo a considerare la musica una sorta di “scienza emozionale” come faceva il compositore statunitense nato a Brooklyn nel 1898. Gershwin è stato il padre del musical americano e le sue composizioni sono tuttora usate dagli insegnanti di musica per descrivere l’entrata degli States nel panorama dei grandi compositori mondiali. La sua carriera fu breve (morì a soli trentotto anni) ma estremamente intensa. 33 i musical teatrali realizzati, 7 quelli cinematografici, 15 le opere classiche e più di 700 le canzoni memorabili estratte dai suoi musical, realizzate singolarmente o in coppia con il fratello paroliere Ira Gershwin. Canzoni diventate dei veri e propri ever green e riproposte, cambiando l’arrangiamento, da artisti quali Frank Sinatra, Louis Armstrong, Ella Fitzgerald e Judy Garland. Quello che accumuna Bollani a Gershwin

è proprio questa capacità di muoversi in un ambiente in continua trasformazione ed evoluzione come quello musicale. L’imperativo è: essere al passo coi tempi anche se questo significa abbandonare la strada vecchia per quella nuova. Per farlo bisogna essere caparbi ed è proprio grazie a questa qualità che Bollani è riuscito nell’impresa di far suonare lo swing ad un’orchestra famosa in tutto il mondo per il suono scuro e davanti a un pubblico esigente e per niente disposto ad applaudirlo ad ogni costo. Questa è la storia di un artista italiano che, in una serata, è riuscito a diventare il principe di Lipsia. L’incoronazione è avvenuta attraverso la standing ovation che il pubblico di Gewandhaus ha regalato al compositore al termine della sua esibizione. Lui era in smoking ma senza papillon con la camicia aperta, le scarpe vagamente anni Venti e un sorriso da bambino che ha appena commesso una marachella. Sul palco del teatro soltanto Bollani e l’orchestra più antica del mondo, fondata personalmente da Mendelsshon. Da Enrico Rava e Gato Barbieri a Riccardo Chailly, in fondo, il passo è stato breve. Tutto è partito da una scommessa: quella di Chailly che ha voluto portare Gershwin nel salotto buono del repertorio tedesco, davanti a un pubblico tra i più selettivi.

Per rincarare la dose Chailly ha deciso di puntare su un jazzista estremamente atipico. E che la scommessa sia stata vinta è stato sancito dall’incoronazione a furor di popolo riservata a Bollani che, prima del bis, è riuscito persino a scatenare l’ilarità del pubblico con le sue gag baciando la ragazza che gli aveva appena offerto un mazzo di fiori e fingendo di non sapere dove lasciarli prima di tornare a sedersi al piano. Classico sì ma per niente stupido! E che la musica “classica” abbia bisogno di essere contaminata anche da artisti poliedrici e accattivanti come lui è evidente. L’innovazione è la chiave per entrare nel futuro. Bollani lo sa e non ne è per niente spaventato. Bisogna considerare che si trattava della prima volta che Bollani e Chailly suonavano insieme. Questo fa davvero ben sperare. Occhi puntati quindi su questi due straordinari alfieri della musica, quella di qualità al di là di qualsiasi classificazione.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE

Castellammare di Stabia in provincia di Napoli? No, di Teheran Castellammare di Stabia è in provincia di Napoli? No, è in provincia di Teheran. Almeno stando alle politiche proposte dall’amministrazione comunale in materia di sicurezza. L’assessore alla Sicurezza, Luigi Mamone, ha redatto per il regolamento di polizia urbana una nuova sfilza di multe da 25 a 500 euro per chi commette i seguenti illeciti: gira in minigonna, ha una scollatura troppo pronunciata, porta i jeans a vita bassa, si sdraia al sole in pubblico, gioca a pallone nella villa comunale, bestemmia in pubblico. Quindi, attenzione ad andare in questo bel paese che ha spostato il suo modello politico amministrativo nella provincia della capitale iraniana. Non solo, ma attenzione perché oltre alle multe già previste dai nostri codici per chi bestemmia e chi ha modi pubblici contrari al decoro, potrà beccarsi un’ulteriore multa per l’aggiunta sanzione di questo comune. Non bastava dare disposizioni ai propri vigili perché applicassero il codice civile e penale di tutta la nostra Penisola? No, troppo facile! Meglio mostrare la mascella ancora più “macha”dell’amministrazione, con ulteriori multe e precisazioni, altrimenti chi avrebbe parlato sui media di questo paese. Farne parlare per le bellezze naturali, artistiche, storiche, gastronomiche, per la squisita ospitalità... non bastava?

Vincenzo Donvito

LA CARFAGNA SI RIVOLGA A “CHI L’HA VISTO” Sulla crisi dei rifiuti in Campania, la ministra Mara Carfagna chiede senso di responsabilità e capacità di fare squadra, ma a chi si rivolge? Forse a Berlusconi, che tutta Terzigno sta ancora aspettando? Oppure al sottosegretario Bertolaso, a capo di una Protezione civile che si è occupata di Giubileo di San Paolino, scavi di Pompei, Foro Romano, Mondiali di Nuoto e celebrazioni del 150esimo dell’Unità nazionale, ma non ritiene di propria competenza l’emergenza rifiuti? O forse ancora a Luigi Cesaro, il presidente della provincia di Napoli, di cui i napoletani hanno appena appreso l’esistenza a 18 mesi dall’elezione? L’unica cosa che posso suggerire alla Carfagna è che in tempi di polemiche feroci per certi contenitori Rai, tutti di

grande successo, forse farebbe bene a rivolgersi a Chi l’ha visto, chissà che non ottenga risposta...

Marco Di Lello

QUALI SONO I NOSTRI EROI? C’è chi fa di qualcosa o qualcuno, la sua ragion di vita. Ma non è detto che l’obiettivo scelto, sia necessariamente quello pubblicamente manifestato. Di Pietro per esempio, apertamente fa credere agli italiani di odiare Berlusconi, privatamente però, come dimostrato da moltissime indagini che lo riguardano, se la sfanga brillantemente nel settore immobiliare, soprattutto quello di famiglia. Ma il personaggio che riesce meglio a mischiare pubblico e privato, è senza ombra di dubbio Roberto Saviano. Possibile che, a parte qualche dirigente Rai, nessuno si sia accorto che il supereroe del-

Microangeli marini Quelli che vedete sono i cosiddetti angeli di mare (Clione limacina) piccoli molluschi (15 millimetri circa) dal corpo trasparente che si spostano in acqua agitando elegantemente le ampie “ali”. Queste creature diffuse nelle fredde acque degli oceani finiscono spesso preda di altre specie più grosse

l’anticamorra vuole apparire a tutti i costi in televisione, non per il bene dell’Italia, ma più banalmente per ottenere fama, potere, successo e ricchezza? È vero che ogni Paese ha bisogno del suo eroe, ma è altrettanto vergognoso che il novello Derrich abbia chiesto alla televisione di Stato un cachet di 300mila euro per salvare (a parole) gli italiani dalla camorra e dall’immoralità dilagante. Siamo realisti, le decine di delinquenti, camorristi e mafiosi arrestati nei mesi scorsi dalle forze dell’ordine, sono fi-

L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

nite in galera per le“sconvolgenti”rivelazioni di Saviano o per l’azione straordinaria (e poco ciarliera) del governo Berlusconi e del ministro Maroni? E allora, ha senso ed è morale, fare a gara per concedere cittadinanze onorarie, luci e palcoscenici ad un personaggio che ha fatto della retorica parolaia uno strumento per arricchire se stesso e, come si sussurra nei palazzi, assicurarsi una futura candidatura alla leadership del Partito democratico?

Gianni Toffali - Verona

da ”Le Figaro” del 25/10/10

La sinistra francese secondo Fabius aurent Fabius è stato un primo ministro francese a metà degli anni Ottanta. È un socialista, forse con delle velleità presidenziali. Non si è fatta sfuggire l’occasione per menare fendenti all’attuale inquilino dell’Eliseo. Domenica, davanti alle telecamere francesi ha parlato della più grande sconfitta dell’amministrazione Sarkozy. L’appuntamento catodico era una popolare trasmissione, Grand Jury, frutto di una collaborazione tra Rtl, Rci e le Figaro. «Qualsiasi cosa dovesse accadere di qui in avanti, la riforma delle pensioni sarà considerato il maggior fiasco della politica di Nicolas Sarkozy» aveva dichiarato l’ex premier. Fabius ha poi affondato la lama definendo il progetto dell’Eliseo «ingiusto, inefficiente e che ha fortemente diviso i francesi». Il segnale della sconfitta sarebbe avvenuto in Senato, quando l’esecutivo ha chiesto che la discussione su di un possibile emendamento della riforma fosse messo in agenda nel 2013, dopo le presidenziali. Insomma, come se avessero detto “abbiamo scherzato”.

qualche anno in più. Temi incomprensibili al popolo inglese, pronto a seguire David Cameron e la sua draconiana ricetta per la riforma dello Stato. Ma restiamo nell’Hexagon. Benoit Hamon, portavoce dei socialisti, aveva contestato la proroga del periodo contributivo contraddicendo ciò che invece aveva espresso Martine Aubry, per poi tornare sui propri passi e fare riferimento ad una posizione condivisa di tutto il partito, che non contestava a priori l’allungamento dell’età pensionale, ma modi e tempi.

L

Fabius ha deplorato anche il modo in cui avrebbe preso forma il dibattito parlamentare sulle pensioni. Un teatrino dove l’opposizione non voleva che il discorso fosse neanche aperto e il governo pretendeva che fosse chiuso immediatamente. «Una faccenda ridicola» per il politico socialista che ha però minimizzato sulle polemiche interne al Partito socialista, emerse la scorsa settimana,

proprio sul tipo di cambiamenti alla riforma da proporre. Il caos è totale e ricorda non poco il giudizio dato da Walter Bagehot, banchiere e analista politico dell’Ottocento, sulla politica dei cugini francesi. Il dibattito parlamentare veniva descritto come una sorta di confusa anarchia di posizioni apparentemente inconciliabili. È passato quasi un secolo e mezzo e sembra che la situazione non sia cambiata. Nella maggior parte dei Paesi europei c’è il timore che la crisi economica porti ad un impoverimento irreversibile del vecchio continente, dove a rischio non ci sarebbe solo il welfare, ma la garanzia di un futuro sviluppo e in Francia si scende in piazza per una riforma che porterebbe un paio di generazioni a dover lavorare solo

In fondo, anche in Francia, c’è malumore per la ripresa della sinistra antagonista che scombina un po’ gli equilibri di una gauche che con grande fatica cercava di ricostruire identità e forza dopo il passaggio dello tsunami Sarkò sulla Francia. Quando Fabius afferma di aver bisogno «di tutti i talenti» della sinistra, fa un richiamo per ricomporre spaccature e dinamiche deleterie per i socialisti. Si ripropone dunque il tema della rincorsa a sinistra del partito, dopo due decenni di mal pancia nel tentativo di inseguimento dell’elettorato al centro. E per le elezioni presidenziali del 2012 i candidati in «pole position» per contendere la corsa a Sarkozy e rappresentare i socialista all’Eliseo, rimangono sempre Martine Aubry e Dominique Strauss-Khan, personaggi «non ancora corrotti dai piaceri del potere». Fermo restando che i giochi sono ancora tutti aperti a sinistra, compresi quelli dell’attento Fabius.


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog osservatorio del lavoro

LE VERITÀ NASCOSTE

di Vincenzo Bacarani

Animali strani: ecco le nuove scoperte più curiose ARIZONA. Nel mondo esistono animali strani, davvero molto curiosi e particolari: animali che non ci saremmo mai immaginati che potessero esistere e che invece Madre Natura ha creato. Esseri viventi spesso non proprio bellissimi, dalle fattezze piuttosto bizzarre e curiose, che vivono nei posti più strani del mondo. Animali di tutte le specie che ci sorprendono, per il loro aspetto: ma ricordiamoci che se Madre Natura li ha fatti in quel modo, un motivo c’è! Ecco allora una carrellata dei più bizzarri che esistono nel mondo. Nel 2010 gli scienziati hanno rinvenuto nuove specie di animali e di vegetali: abbiamo le piante carnivo-

re giganti, i pesci vampiro, i vermi bombardieri e le spugne killer. L’International Institute of Species Exploration dell’Università dell’Arizona ogni anno pubblica queste nuove scoperte, creature che hanno vissuto nascoste per tutto questo tempo e che i ricercatori solo oggi sono riusciti a stanare. Pronti per il nostro viaggio? Ecco a voi gli animali strani, curiosi e bizzarri che sono stati scoperti nel 2010: il Bombardiere verde è un anellide scoperto nelle acque del Pacifico, al largo delle coste californiane. Ha branchie bioluminescenti, per brillare di una luce color verde, per difendersi da attacchi indesiderati. La lumaca

ACCADDE OGGI

NECESSARIO INTENSIFICARE I CONTROLLI ANCHE SULLE MAFIE ESTERE Che l’usura sia nelle mani della criminalità organizzata non stupisce Sono molteplici gli episodi che segnalano la presenza di cosche malavitose operanti nella Capitale. È emerso che nella Regione Lazio la presenza di associazioni a delinquere è caratterizzato da gruppi criminali affiliati ai clan malavitosi di Campania, Calabria e Sicilia, nonché dalle nuove mafie, quelle estere che continuano ad accaparrarsi parte del territorio attraverso il traffico di droga e la prostituzione. Le cosiddette mafie spesso si intrecciano, sovrapponendosi, anche nelle medesime zone. In particolare a Roma oltre ai storici Casamonica troviamo anche il clan camorrista dei Casalesi che dal Casertano sta prosperando in mezzo mondo: Spagna, Russia, Romania, Polonia, Ungheria, Lussemburgo,Tunisia, Australia, Sud America, nazioni queste che sono origine di alcuni importanti traffici illegali come droga e prostituzione. Tirando le somme, nonostante le indagini e le operazioni della Dia, è evidente che le cosche criminali continuano ad infiltrarsi e sono ben radicate. Gli enormi proventi di questi affari avviano una seconda fase dell’organizzazione: ingenti quantità di denaro vengono infatti ripulite con attività legali, (ristoranti, club, bar, autosaloni, negozi di abbigliamento, finanziare, grandi magazzini). Gli interventi delle forze dell’ordine negli ultimi anni sono stati incisivi e hanno portato allo scoperto boss noti delle organizzazioni criminali.Tuttavia, la criminalità organizzata continua ad allungare i suoi tentacoli. Il timore adesso è che possa scoppiare una faida tra le mafie presenti per il controllo del territorio.

Ivano Giacomelli

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

26 ottobre 1940 A Roma viene inaugurata la stazione ferroviaria Ostiense, progettata dall’architetto Roberto Narducci 1954 Ritorno di Trieste all’Italia 1955 Ngo Dinh Diem si autoproclama primo ministro del Vietnam del Sud 1965 I Beatles vengono nominati membri dell’Ordine dell’Impero britannico 1976 Il Transkei dichiara la sua indipendenza dal Sudafrica 1979 Park Chung-hee, presidente della Corea del Sud, viene assassinato dal capo della KCIA Kim Jaekyu 1984 A Baby Fae viene trapiantato il cuore di un babbuino 1994 Giordania e Israele firmano un trattato di pace 1995 Conflitto israelo-palestinese: agenti del Mossad assassinano il leader della Jihad Islamica, Fathi Shikaki 1999 La Camera dei Lord britannica vota la fine del diritto ereditario di votare nella Camera alta del Parlamento

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

carnivora, invece, è un animaletto che appartiene ad una nuova famiglia. Il pesce psichedelico ha il muso piatto con colorazione psichedelica. È parente della rana pescatrice ed è stato individuato a Bali, in Indonesia. Il pesce vampiro è d’acqua dolce ed è parente dei pesciolini rossi, ma molto più brutto. Infine, il Gymnotus omaro rum è un pesce elettrico, originario dei fiumi dell’Uruguay.

L’USURA NON È UNA SCOMMESSA La Repubblica, il 20 ottobre, ha pubblicato l’inchiesta “Usura, negozi e tavoli verdi ecco come si ripulisce il denaro”, nella quale si afferma che «Almeno il 60 per cento dei clienti abituali degli strozzini è composto da giocatori incalliti». Tale affermazione è una grave distorsione dell’entità del fenomeno usura. La nostra esperienza a contatto con gli usurati ci insegna che, a finire nelle mani dei cravattari, sono persone comuni, con problemi comuni. Basta chiedere un finanziamento di troppo. Più spesso dello sperpero di liquidità nelle scommesse, è la mancanza di accortezza nella normale contabilità familiare o una spesa imprevista a creare le situazioni di disagio che portano all’usura. Gli usurati non hanno stili di vita lontani dalla quotidianità di chiunque altro. Non tener conto di ciò, riducendo la maggior parte delle vittime a giocatori patologici, può determinare una pericolosa sottovalutazione del problema. L’usura colpisce indiscriminatamente. Ed è questa una delle sue caratteristiche più insidiose.

Luigi Ciatti, presidente dell’Ambulatorio Antiusura Onlus

LA FAMIGLIA La famiglia oggi è in evidente crisi profonda: non è una questione di depravazione o di bamboccioni viziati, ma dell’antagonismo con il proprio stesso sangue, che oggi è diffuso per le competizioni che nascono per guadagnare di più, o per la smania di conquistare il palcoscenico della vita.

Bruno Russo

Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Robert Kagan, Filippo La Porta,

Direttore da Washington Michael Novak

Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,

Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)

Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Collaboratori

Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,

Maria Pia Ammirati, Mario Arpino,

Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,

Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi,

Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,

Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,

Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,

COLLEGATO LAVORO, QUASI UNA RIFORMA È stato approvato definitivamente una settimana fa il cosiddetto “Collegato lavoro”. Si tratta di un disegno di legge che consta di ben 50 articoli e che regola molte materie riferite al mondo del lavoro. Per capire la mole del documento di legge basta leggerne il titolo: «Deleghe al governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro». Un complesso di norme e commi, proposto nella scorsa legislatura dall’attuale ministro del Welfare Sacconi e da altri parlamentari, che ha conosciuto due anni di gestazione e che è stato anche rinviato alle Camere una volta dal presidente della Repubblica. Ma nel corso di questi ultimi due anni, il dibattito che si è innescato su questo disegno di legge ha riguardato un solo argomento: l’arbitrato, giudicato dai partiti di sinistra e dalla Cgil come una possibile deroga dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. In realtà l’arbitrato nelle controversie di lavoro (soprattutto nei casi di licenziamento), contenuto nel provvedimento, è uno strumento non obbligatorio e resta sempre aperta la porta per una via giudiziale, se una delle due parti non accetta la conciliazione. Il termine per impugnare il licenziamento è ora di 60 giorni. Lo strumento dell’arbitrato è irrituale e può essere utilizzato come un libero accordo tra le parti. Una delle motivazioni che ha spinto il legislatore a introdurre l’arbitrato in simili controversie è dato dall’elevato numero di vertenze del lavoro (ogni anno, secondo l’Istat, ci sono 438.560 cause). E come fa giustamente notare il giuslavorista Michele Tiraboschi in un articolo pubblicato da Adapt, «il 42 per cento delle controversie di primo grado riguarda la corresponsione della retribuzione e altre indennità di natura retributiva, il più delle volte conseguenza di una richiesta di riconoscimento della diversa natura/qualificazione del rapporto di lavoro». Ma non c’è solo l’arbitrato nel “Collegato lavoro”. C’è anche l’introduzione dell’apprendistato a 15 anni di età, la revisione della disciplina pensionistica per i soggetti che svolgono lavori usuranti. Ci sono poi nuove sanzioni per combattere il lavoro nero. Oltre a quelle previste dalla vigente legislazione, le nuove norme ne prevedono di aggiuntive: sanzione amministrativa fino a 12 mila euro per ciascun lavoratore irregolare maggiorata di 150 euro per ciascuna giornata di lavoro effettivo. In più viene aumentata del 50 per cento la sanzione civile connessa all’evasione dei contributi e dei premi riferiti a ciascun lavoratore irregolare. bacarani@gmail.com

Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma

Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1

Amministratore Unico Ferdinando Adornato

Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118

Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato,Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747

John R. Bolton, Mauro Canali,

Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli,

Franco Cardini, Carlo G. Cereti,

Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana,

Enrico Cisnetto, Claudia Conforti,

Roselina Salemi, Katrin Schirner,

Angelo Crespi, Renato Cristin,

Emilio Spedicato, Davide Urso,

Tipografia: edizioni teletrasmesse New Poligraf Rome s.r.l. Stabilimento via della Mole Saracena 00065 Fiano Romano

Francesco D’Agostino, Reginald Dale

Marco Vallora, Sergio Valzania

Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.”

Abbonamenti

06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro - Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro

Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc

e di cronach

via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 0 6 . 6 9 9 2 4 0 8 8 - 0 6 . 6 9 9 0 0 8 3 Fax. 0 6 . 6 9 92 1 9 3 8 email: redazione@liberal.it - Web: www.liberal.it

Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


ULTIMAPAGINA Hall-star. Il celebre albergo newyorchese che ospitò Kerouac e Warhol verrà ceduto al miglior offerente

Chelsea Hotel, un mito in di Velia Majo utto intorno a quell’edificio dai mattoni rossi in stile Queen Anne sulla 23esima strada è cambiato, negli ultimi decenni a Manhattan. Nuovi locali, bar, cinema e grattacieli ne hanno modificato l’assetto, trasformato l’atmosfera, ma il Chelsea Hotel dai balconi di ferro battuto, costruito nel 1883, è ancora là.

T

Un tempo fu il grattacielo più alto di NewYork con i suoi soli undici piani e rappresentò la prima cooperativa privata di appartamenti per 40 famiglie, fino a trasformarsi nel 1905 in hotel per clienti a lungo termine. Un albergo per ricchi dove dietro il tetro incrocio tra art déco e gotico delle facciate, si svelava il lusso sensuale degli appartamenti. La sua posizione strategica, posto com’era al centro di una strada molto in voga, aveva contribuito a renderlo uno degli alloggi più ricercati della Grande Mela. In quella stessa strada c’era l’Opera House Palace, la Pike’s Opera House e il Proctor’s Theater. Ma ben presto con la costruzione del teatro Empire, l’attenzione si spostò sulla 40esima strada. Broadway stava nascendo e oziare sulla 23esima strada non fu più di moda. La gloria dimenticata di quell’edificio cominciò ad affascinare ed attrarre molti artisti, musicisti, scrittori, poeti squattrinati che lo scelsero come dimora. Tennessee Williams, Charles Bukowski, Jimi Hendrix, Stanley Kubrick trascorsero settimane in quell’albergo. Negli anni Sessanta l’artista bulgaro Christo e sua moglie Jeanne-Claude vi abitarono per diverso tempo e, non potendo pagare l’affitto, prima di lasciare l’hotel, Christo regalò al proprietario Stanley Bard una sua opera. William Burroughs vi scrisse Il pasto nudo. Anche Jack Kerouac passò di là, fu allora che nacque il capolavoro On the road. Sempre in quell’albergo Arthur Miller scrisse il dramma Dopo la caduta, la sua lettera d’addio a Marilyn Monroe. Ma ora il Chelsea Hotel è in vendita, le tre famiglie di origine ungherese che dal 1946 detengono la maggioranza delle quote possedute dai 15 azionisti proprietari, hanno deciso che ristrutturare l’albergo dei bohémien non vale la pena e lo hanno messo in vendita per 90 milioni di dollari. È quanto ha riferito al Wall Street Journal uno dei proprietari Paul Brounstein: «Il modo in cui noi vorremmo continuare a gestire l’albergo – ha dichiarato – non è necessariamente lo stesso che attira il mercato». Ma nonostante l’albergo maledetto sia in vendita, chi passa a New York non può fare a meno di entrare nella sua “datata” lobby dove, oltre ai dipinti alle pareti, appesa al soffitto c’è una bambola su di un’altalena. Turisti curiosi scelgono il tour di circa tre ore del costo di 40 dollari, per poter dare un’occhiata alla scala in legno e ai pianerottoli tappezzati d’arte. Gli appassionati di rock di passaggio a New York ancora chiedono della fatidica stanza numero 100 dove il bassista dei Sex Pistols, Sid Vicious nel 1978, pugnalò a morte la sua allora fidanzata Nancy Spungen. Altri curiosi per anni hanno cercato la stanza numero 822 dove Madonna, non ancora famosa, fece salire il suo amico-pittore Basquiat. A metà degli anni Settanta anche Patti Smith e Robert Mapplethorpe, appena arrivati a New York senza un soldo in tasca, ma animati dalla voglia di sfondare nel mondo dell’arte, come ricorda la stessa Patti Smith nel suo libro pubblicato lo scorso anno Just Kids, vissero tra le mura di

Qui sopra, alcuni scorci del Chelsea Hotel, albergo bohemienne realizzato secondo i dettami dell’art déco nel cuore di Manhattan. In basso, la targa che commemora il poeta Dylan Thomas, che scrisse molte opere nella struttura newyorchese

VENDITA Tennessee Williams, Charles Bukowski, Jimi Hendrix, Stanley Kubrick vi trascorsero intere settimane. Patti Smith e Robert Mapplethorpe vi consumarono la loro impossibile storia d’amore. E nella stanza 822, Madonna sedusse Basquiat

una stanza senza bagno del Chelsea Hotel la loro impossibile e dolorosa storia d’amore.

Il regista Milos Forman fu di casa al Chelsea Hotel durante tutte le riprese di Hair ed Edgar Lee Masters vi scrisse ben 18 libri di poesie. All’ingresso dell’hotel una targa ricorda un altro dei suoi famosi inquilini, un poeta gallese grande e dannato che prese al Chelsea Hotel la sua ultima e fatale sbronza: «Dylan Thomas visse e soffrì qui – commemora la targa – e da qui salpò verso la morte». Poche notti d’amore soltanto furono vissute invece in quell’albergo dal cantautore canadese Leonard Cohen e Janis Joplin, ma bastarono per dedicare alla sua amata il brano Chelsea Hotel n.2. Mentre Bob Dylan sul letto della suite principale compose una delle più belle canzoni d’amore Sad Eyed Lady of the

Lowlands. Arthur C. Clarke vi scrisse 2001: Odissea nello Spazio. Era il 1966 quando Andy Warhol girò nelle camere dai soffitti alti del Chelsea Hotel The Chelsea Girls, un’opera composta da 12 film di 30 minuti ciascuno, senza stacchi di montaggio. Fu mostrata in pubblico nella primavera successiva. Ora è conservata in duplice copia al Museo di Arte Moderna di New York e al Museo Warhol di Pittsburgh. Davanti alla macchina da presa sfilano ragazzi e ragazze della Factory di Andy Warhol. Qui Joni Mitchell scrisse quella Chelsea Morning che fece innamorare Bill ed Hillary Clinton, tanto che decisero di chiamare la loro figlia Chelsea proprio in ricordo della loro canzone galeotta.

È al Chelsea Hotel che Abel Ferrara ha dedicato Chelsea on the rock, uno dei suoi migliori film degli ultimi anni. Ferrara ne intervista vecchi inquilini, ripesca immagini di repertorio e ricostruisce la tragedia di Sid & Nancy, dando voce al manager Stanley Bard che si mostrò così disponibile con i suoi speciali ospiti, anche quando andavano via senza pagare. Ecco perché nella presentazione del suo documentario, Ferrara stende un lenzuolo bianco su uno dei balconi in ferro battuto dell’edificio con la scritta: “Bring back the Bards”. L’ ultimo disperato tentativo di salvare quell’albergo maledetto, per continuare a chiamare il Chelsea Hotel “casa”.


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.