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A volte è più difficile privarsi di un dolore che di un piacere Francis Scott Key Fitzgerald
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 28 OTTOBRE 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
I finiani mettono i loro paletti allo scudo: «Non dev’essere ripetibile». Oggi in Commissione arrivano i nuovi emendamenti
Un Paese senza governo Dove sono finiti i cinque punti del rilancio? Un esecutivo che già prima galleggiava,ora è scomparso. Come il premier che non parla più.Sulla scena è rimasto solo il Lodo Alfano.Ma l’Italia è abbandonata IL CAVALIERE IMMOBILE
di Errico Novi
O cambiano rotta o una nuova maggioranza
una volta. «Ci vorrebbe un altro predellino», sussurra qualche fedelissimo di quelli che non abbandonano la nave. L’anonimo parlamentare berlusconiano si affida alla speranza. Perché in tanti altri prevale la netta sensazione che il Cavaliere non abbia più energie. Fino al tardo pomeriggio di ieri non si è visto a Roma. Da Arcore filtra solo la notizia di colloqui con la Merkel e Van Rompuy .
di Enzo Carra no Stato senza governo è un bel paradosso. A quarant’anni dal ’68 e in piena restaurazione berlusconiana, ci viene disinvoltamente offerto in queste settimane il grande affresco della cuoca al governo dello Stato. Le Camere non battono un chiodo e il consiglio dei Ministri ha bloccato pure l’abituale sovrabbondante fornitura di decreti legge. Il presidente della Consob non c’è, quello della Rai annuncia le sue dimissioni. È un processo inarrestabile. La paralisi aggredisce le nostre articolazioni uno dopo l’altro. Passa dalle mani del Presidente del consiglio alle istituzioni e ai centri nevralgici del nostro sistema. Le parole dell’amministratore delegato della Fiat riempiono il vuoto e rappresentano l’unico atto di indirizzo politico che – piaccia o no – è riecheggiato negli ultimi mesi. a pagina 2
L’allarme sulla corruzione
ROMA. Ci vorrebbe il Berlusconi di
U
a pagina 2
Parla Alfredo Biondi
Franco Cazzola e Giorgio Rebuffa
«Ormai il Cavaliere è al tramonto. Ma lui non lo sa»
«Una legge elettorale per superare la paralisi italiana»
«È appeso alla corda di Tremonti e Bossi. Ma nel senso della corda dell’impiccato. Per questo ho lasciato la Direzione del Pdl»
«Non si può tornare a votare ogni due anni e continuare a vedere il Paese in preda a liti e trattative senza fine: il problema va risolto»
Marco Palombi • pagina 3
“Rapporto Trasparency” sotto silenzio: perché? di Achille Serra bene ricordare che tra le decine di disegni di legge impantanati alle Camere, rientra anche un provvedimento sulla corruzione. È bene ricordarlo oggi che, in materia, all’Italia è stato assegnato un nuovo record negativo. Tra le sue prime iniziative, l’attuale governo nell’agosto del 2008, soppresse infatti l’Alto Commissario Anticorruzione, un organismo che ho avuto l’onore di presiedere per qualche mese e che, nonostante gli evidenti limiti strutturali aveva messo a segno alcuni successi degni di nota. a pagina 11
È
Franco Insardà • pagina 4
Il capo dei Ros avrebbe coperto la latitanza di Provenzano
Si conclude con un nulla di fatto la riunione del Pcc
Politica e verità: un nuovo club
Il generale Mori indagato, è bufera sull’antimafia
La Cina sta soffrendo. Non basta un Nobel
Se scendono in campo gli amici di Thomas More
di Francesco Lo Dico
di Wei Jingsheng
ufera a Palermo (e non solo) dopo che si è diffusa la notizia che il generale Mario Mori, ex comandante dei Ros dei Carabinieri è indagato nel processo alla mafia che si sta celebrando in Sicilia. Secondo la Dirzione distrettuale antimafia, Mori avrebbe coperto la latitanza di Provenzano e favorito la mafia nella “trattativa” con lo Stato. Il Pdl non ha perso tempo e ha subito stigmatizzato l’operato della magistratura palermitana che «attacca i simboli dello Stato per distruggerlo», come ha commentato Sandro Bondi.
a V Sessione plenaria della Commissione centrale del Partito comunista cinese che si è appena conclusa ha ottenuto enorme attenzione, dai media nazionali e internazionali. Questa si spiega perché, oltre al tradizionale piano quinquennale, sono stati discussi tre argomenti molto difficili e di grande interesse per tutti noi: successione, riforma politica e riforma economica. Eppure, oltre alla prima, le altre due questioni, assolutamente cruciali per il Paese, sono state di fatto ignorate: il Partito ha fatto finta di nulla.
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L
a pagina 7 seg1,00 ue a (10,00 pagina 9CON EURO
di Paola Binetti ono trascorsi 10 anni da quando un gruppo di parlamentari di schieramenti diversi, ma con una analoga e profonda ispirazione cristiana, celebrò quella che è stato chiamato il Giubileo della Politica. Dieci anni che oggi un gruppo di parlamentari e di uomini di cultura vuole rievocare presentando alla Camera un libro dedicato a San Thomas More, che in quell’occasione Giovanni Paolo II proclamò santo intercessore dei politici. Molte di quelle suggestioni restano ancora valide.
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a pagina 18
a pagina 14 I QUADERNI)
• ANNO XV •
NUMERO
210 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
prima pagina
pagina 2 • 28 ottobre 2010
il fatto Con il Cavaliere lontano da Roma, nei gruppi del Pdl è il caos: Cicchitto contestato per la divisione degli incarichi liberati dai finiani
La maggioranza latitante
Da mesi si parla solo di lodi e scudi: l’esecutivo non governa più. Il premier è assente e il Paese aspetta soluzioni che non verranno l’analisi di Errico Novi
ROMA. Ci vorrebbe il Berlusconi di una volta. «Ci vorrebbe un altro predellino», sussurra qualche fedelissimo di quelli che non abbandonano la nave. «Chissà, questo silenzio del presidente assomiglia tanto a quello di fine 2007. Lo vedevano sbandato e incerto anche allora. Poi arrivò quella domenica, e la commiserazione si trasformò, per molti, in spavento». La speranza, appunto. L’anonimo parlamentare berlusconiano si affida a quella. Perché in tanti altri prevale la netta sensazione che il Cavaliere non ce la possa fare, che non abbia più energie. Fino al tardo pomeriggio di ieri non si è visto a Roma. Da Arcore filtra la notizia di colloqui con la Merkel e Van Rompuy in vista del vertice Ue. Ma l’attivismo internazionale del Cavaliere – preoccupato per il nuovo patto di stabilità e per la governance dell’euro, dicono da Palazzo Chigi – non basta a colmare il vuoto. Il premier non parteciperà al prossimo Consiglio dei ministri, destinato a prolungare la serie degli atti mancati del governo che hanno fatto seguito alle mozioni di fiducia del mese scorso. «Non parleremo di sicurezza», conferma il ministro dell’Interno Roberto Maroni, «perché non c’è Berlusconi e anche Napolitano sarà ancora assente per il viaggio in Cina: tra le misure del pacchetto ce ne sono alcune contenute in un decreto e almeno su quelle dobbiamo prima confrontarci con il Quirinale».
Ma come, nella ormai leggendaria conferenza stampa seguita alla doppia fiducia parlamentare, Berlusconi non aveva garantito una raffica di Consigli dei ministri per dare puntuale attuazione a ciascuno dei cinque punti? Finora è passato solo il federalismo. Niente riforma della giustizia, niente sicurezza. Il governo di fatto non c’è, come se fosse rinunciatario. C’è solo un Cavaliere febbricitante riparato ad Arcore. Chiuso nel suo silenzio, nel suo malanimo. Nel cono d’ombra della sua solitudine, si agitano invece i gruppi parlamentari. Sempre più inquieti, in ultima analisi per le prospettive di uno scioglimento che fa vacillare troppe rielezioni. Però i casi sono diversi. Quello di Palazzo Madama si incrocia soprattutto con l’insofferenza sempre più avvertibile verso i triumviri di via dell’Umiltà.
I problemi degli italiani non possono più andare dietro ai guai legali di Berlusconi
O cambiano rotta, o serve un nuovo governo di Enzo Carra no Stato senza governo è un bel paradosso. A quarant’anni dal ’68 e in piena restaurazione berlusconiana, ci viene disinvoltamente offerto in queste settimane il grande affresco della cuoca al governo dello Stato. Le Camere non battono un chiodo e il consiglio dei Ministri ha bloccato pure l’abituale sovrabbondante fornitura di decreti legge. Il presidente della Consob non c’è, quello della Rai annuncia le sue dimissioni. È un processo inarrestabile.
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La paralisi aggredisce le nostre articolazioni uno dopo l’altro. Passa dalle mani del Presidente del consiglio (che giudiziosamente fa in tempo a passare sotto ai ferri del chirurgo) alle istituzioni e ai centri nevralgici del nostro sistema. Le parole dell’amministratore delegato della Fiat riempiono il vuoto e rappresentano l’unico atto di indirizzo politico che – piaccia o no – è riecheggiato negli ultimi mesi. Paese di dietrologi, il nostro. C’è chi scommette sulla strategia del Cavaliere: rispondere al calo del consenso popolare e ai crescenti problemi politici legati a Fini, ma non soltanto a lui, accelerando e aggravando i tempi di una crisi sociale che pensa di poter risolvere all’ultimo minuto con una fantastica volèe. Nell’attesa prosegue la sospensione: l’università?, accantonata. Il lodo Alfano? Se non ci fossero certi magistrati dai quali deve difendersi, questa volta, ci sarebbe da credere a Berlusconi. Quando ha detto di pensare a non
ripresentarlo, forse era sincero: un’altra grana in meno. Se non ci fossero certi magistrati. C’è quasi da compatirlo, il ministro Alfano. Gli tocca sbattersi da un Csm a un partito per realizzare il suo Lodo, mentre i suoi colleghi se ne stanno tranquilli. Chi ha detto che Berlusconi non ha tenuto fede ai propri impegni? Un sistema più liberale come quello che aveva proposto agli italiani, è esattamente quello in cui il governo si fa sentire di meno e le regole si condensano in una sola: tutto è permesso tranne ciò che non è espressamente proibito. E se non c’è il governo è certamente meglio. C’è il rifiuto di introdurre altre questioni di principio, per evitare che si inciampi in controversie sui valori come se ne avessimo, poi, effettivamente bisogno. Questa è l’arte di governare non governando che Berlusconi ha scelto per questa stagione.
Il Parlamento non ha praticamente niente da fare. Neanche i decreti si fanno più...
La Camera ieri si è riunita brevemente su una legge per la protezione degli animali da compagnia. Non c’era praticamente altro da fare. Alla Commissione di vigilanza Rai quando si è aperta una discussione su una denuncia di tre consiglieri di amministrazione molto preoccupati per lo stato di salute dell’azienda, i rappresentanti del più grande partito di maggioranza si sono dileguati. Per non impegnarsi inutilmente. Tutto va bene madama la marchesa! Se è così, allora, perché tanti turbamenti e confronti sui possibili governi del futuro. Perché discutere tra fautori di un governo tecnico che faccia soltanto la nuova legge elettorale e quanti vorrebbero invece un governo di transizione che metta mano ad alcune riforme economiche? Perché dividersi su questo piuttosto di chiedersi un volta per tutte se sia meglio per l’Italia un governo o, come è adesso, un non governo?
O meglio verso i veri padroni del Pdl,Verdini e La Russa. Non piace il nuovo statuto sul quale da ieri la commissione interna del partito è al lavoro. Il voto ponderato sull’elezione dei responsabili locali, mescolato con le mostruose soglie di maggioranza, riconsegna di fatto tutto il potere nelle mani dei coordinatori nazionali. I pontieri come Andrea Augello e Renato Comincioli fanno sempre più fatica a tenere sotto controllo i ribelli. «Ripartiamo da zero», dice Piergiorgio Massidda, assurto a uomo di frontiera per aver semplicemente consigliato prudenza a Berlusconi sul voto anticipato, «facciamo finta che lo schema uscito dall’ufficio di presidenza sia solo un canovaccio e ridiscutiamo le regole. Siamo un partito con un milione di iscritti, la scelta dei dirigenti non può essere circoscritta a quattrocento persone».
E il documento? Quello che Massidda e Ferruccio Saro hanno sottoposto al resto del gruppo nella riunione di due giorni fa, raccogliendo una decina di adesioni tra cui appunto quelle di Augello e Comincioli? «C’è un altra riunione del gruppo martedì prossimo. Un numero maggiore o minore di sottoscrizioni potrà registrarsi solo allora», chiarisce Massidda. Ma la lista degli scontenti è affollata e in buona parte conosciuta. C’è chi tra l’altro già si dichiara apertamente favorevole al governo tecnico, come l’indipendente genovese Enrico Musso. Poi è vero che tutti riconoscono la correttezza dei vertici, Gasparri e Quagliariello. E che quest’ultimo smentisce le voci sulla “slavina”. È vero pure che tra gli ortodossi c’è chi, come Carlo Vizzini, ricorre ad argomenti ontologici: «Non possono pretendere che Berlusconi trasformi il suo partito in una nuova Dc, piena di correnti». Ma quello che colpisce di più in realtà è la presenza di amici personali del Cavaliere, nella schiera dei malpancisti: suoi compagni di scuola come lo stesso Comincioli e Guido Possa, tanto per fare i nomi più eclatanti. Uno sconcerto tra i berlusconiani più “intimi” che si riflette nelle varie dissociazioni in giro per l’Italia, da Biondi ad Albertini («mi riconosco nelle posizioni di Fini, dal codice etico alla democrazia interna»), dall’ex governatore della Calabria Nisticò, già trasferitosi sotto le insegne finiane, a pionieri dell’epopea forzista come Tiziana
l’intervista Lo storico leader liberale e la fine della Seconda Repubblica
«Berlusconi è al tramonto. Il guaio è che non lo sa» «È appeso alla corda di Tremonti e Bossi. La corda nel senso dell’impiccato», dice Alfredo Biondi di Marco Palombi
ROMA. «Io sono amico di Berlusconi e i sen-
Silvio Berlusconi è il «grande assente» di questa fase politica in cui si parla solo di Lodo. A destra, il leader liberale Alfredo Biondi. Nella pagina a fianco, il Guardasigilli Angelino Alfano Maiolo. Con i corollari di Mara Carfagna che dà sostegno alla pseudo-scissione di Micciché o di Anna Maria Bernini che non vuole candidarsi a Bologna.
Alla Camera è un po’ diverso. Preso atto che qui non c’è nemmeno bisogno di attivarsi per scongiurare le elezioni anticipate essendoci già i finiani, le liti riguardano piuttosto gli incarichi nel gruppo. Come spiega un berlusconiano di rango, «la tensione nasce immediatamente dopo la fuoriuscita dei finiani: molti si sbracciano per appropriarsi degli incarichi lasciati liberi dai futuristi». Semplice ambizione? «Si potrebbe piuttosto dire ingenua precauzione. Si illudono che avere un riconoscimento funzionale possa assicurare un briciolo di sicurezza in più per le ricandidature. Danno per scontato che si vota in primavera». Finora però Fabrizio Cicchitto ha risolto solo le questioni più urgenti: Fabio Gava al posto di Raisi come capodelegazione Pdl alle Attività produttive ed Emerenzio Barbieri, vicino a Giovanardi, in sostituzione di Granata
alla Cultura. Restano inevase altre istanze. C’è chi reclama persino un riequilibrio nella geografia dei funzionari e dipendenti del gruppo, secondo la consueta divisione: gli ex An ritengono che la fuoriuscita dei finiani non debba alterare il rapporto di 70 a 30, l’ala forzista sostiene che La Russa e gli altri non possono pretendere la stessa rappresentanza interna ora che il peso degli ex aennini nel partito si è ridimensionato. E per giunta dopo che proprio loro, i reduci di via della Scrofa, hanno sbagliato i conti sulla consistenza dei futuristi. I quali peraltro continuano a muoversi in piena autonomia sulla giustizia. In serata c’è la riunione sul Lodo Alfano con la Bongiorno, Viespoli e il capogruppo alla Giustizia del Senato, Maurizio Saia: «La nostra posizione non cambia, ne ho parlato con Fini, restiamo favorevoli allo scudo ma senza reiterabilità». Nonostante le posizioni estremistiche ribadite in mattinata da Granata e Briguglio. Oggi gli emendamenti saranno depositati. Ma sono colpetti non necessari a un Berlusconi sempre più in difficoltà.
timenti, si sa, sono sopraffattori, ma arriva un momento in cui la ragione illumina anche i sentimenti». Alfredo Biondi è un gran signore di 82 anni, avvocato di fama, affabulatore con una passionaccia per le citazioni, un passato da dirigente del Pli e da fondatore di Forza Italia e un presente nebuloso quanto a collocazione partitica. Recentemente ha spedito una lettera al Cavaliere per annunciargli le sue dimissioni dalla Direzione nazionale del Pdl per inesistenza dell’oggetto e, a breve, formalizzerà probabilmente anche la sua uscita dal partito: «Queste cose le dico e le faccio con amarezza. Io ci ho creduto e mi ci sono giocato, posso dirlo, reputazione e carriera: ho praticamente chiuso il mio fiorente studio e col decreto del 1994 mi sono messo anche contro la magistratura». Oggi, l’avvocato di fede genoana si guarda attorno: «Con Raffaele Costa, tempo fa, abbiamo dato vita all’Unione dei liberali di centro: nei prossimi giorni faremo una riunione per decidere che fare. Ora io e altri, come il senatore Musso, siamo fuori dal partito ma non contro: l’idea sarebbe di incunearsi tra Fini e Berlusconi per spiegargli che il centrodestra ha bisogno di metodo e merito liberale». Cerca posti? Io non ho bisogno di poltrone: ho una certa età, ho fatto tre volte il ministro, chiedo una quota minima di liberalismo in questa maggioranza. Guardi il governo: è un bicolore Dc-Psi con qualche sopravvissuto di An. E se non l’accontentano? Discuteremo. Io personalmente vedo con favore un’area di centro capace di dire sì e di dire no, in un’area di centro democratico, popolare e liberale può esserci il nostro posto. Parliamo del Cavaliere. Sta restando solo? Direi piuttosto che è prigioniero politico dei suoi ex beneficiati che adesso s’arrogano il diritto di stendere un cordone sanitario attorno a lui. Molte decisioni che gli vengono attribuite, alla fine, non sono altro che il frutto di queste inutili mediazioni. È vittima dei suoi consiglieri? No, fa finta di non sapere niente perché crede di poter sedare i malumori in zona Cesarini col suo carisma. E ci riesce? Mah. Lui ha un’interpretazione autosostentativa del proprio ruolo: quando è in difficoltà si rigasa, si autoconvince di poter superare le difficoltà. È un ottimista, d’altronde ha avuto molte verifiche positive. Quindi ha ragione ad essere ottimista? Adesso non credo. Confonde le varie fasi e questa non è quella in cui Forza Italia si presentò in politica pur rimanendo sempre nel-
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l’intimo antipolitica. Alla prova del governo le difficoltà hanno mostrato la corda: c’è un’Italia del lavoro, dell’impresa, di cui lui per un po’ ha interpretato le esigenze, ma adesso è delusa. Berlusconi, però, è ancora lì. I suoi antagonisti non erano all’altezza e nell’immaginario collettivo lui rimaneva «meno male che Silvio c’è». Ha tutta la forza e la debolezza che deriva dall’essere lui: è uno capace di comprimersi fino al punto di dispiacersi se l’indagine su Fini viene archiviata, singolare relativismo giuridico se si pensa a quanto dice dei suoi processi. Insomma, è l’inizio della fine? Forse, ma i crepuscoli possono essere lunghi. Il poeta parla di quando «sole gli obliqui rai saetta»: ecco, gli obliqui rai danno ancora luce, anche perché gli avversari sono parcellizzati. Molti dicono: con questo Tremonti è già il dopo-Berlusconi. Penso che lui lo sappia e d’altronde molti glielo dicono: il fattore T e il fattore B (Bossi) sono la corda che lo sostiene, nel senso in cui la corda sostiene l’impiccato. Di chi è la colpa dello sfarinamento del Pdl? Che devo dire? C’è un triumvirato: La Russa con la sua mentalità da propagandista un po’ aggressivo, Bondi che come alcuni riflessivi cova rabbia finché non esplode e Verdini che è un organizzatore che non ha rapporti con quelli che dovrebbe organizzare. Direi che i loro difetti si sommano algebricamente. Risultato? Il popolo c’è, ma la libertà no. Quando Berlusconi parlò di partito liberale di massa, gli risposi: Silvio, di Massa o di Carrara? Perché mi pare un po’ marmorizzato. La Seconda Repubblica ha fallito? È evidente. Ha sostituito alle minioligarchie dei partiti un bipolarismo fittizio: a sinistra c’è tutto e il suo contrario, nel centrodestra tutte le differenze vengono acquietate sotto Berlusconi e chi dissentiva se n’è dovuto andare per non essere annichilito. Il caso Fini è indicativo. Cioè? Un dissenso politico, a volte anche eccessivo, è divenuto lesa maestà, ma l’apostasia politica non esiste, sennò è religione. Faccia una previsione finale. Può essere subito sera o può durare il meriggio: del doman non v’è davvero certezza, anche perché molte variabili sono indipendenti dalla volontà dei protagonisti, il che prova la gravità della situazione. Io sono contrario alle elezioni anticipate, ma il rischio è che per una impuntatura su chi deve averlo in mano, alla fine il famoso cerino si consumi del tutto e manchi la luce.
Ormai confonde le varie fasi e questa non è quella in cui Forza Italia si presentò in politica pur rimanendo nell’intimo dell’antipolitica
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l’approfondimento
pagina 4 • 28 ottobre 2010
Il Paese è bloccato, l’emergenza economica e sociale resta sullo sfondo: solo il Lodo Alfano rimane al proscenio
La paralisi italiana
Non si può andare a votare ogni due anni e ritrovarsi con un esecutivo che regolarmente subisce ricatti incrociati: l’unica soluzione è una legge elettorale che consenta di governare. Parlano Franco Cazzola e Giorgio Rebuffa di Franco Insardà
ROMA. Su un cosa sono tutti d’accordo; c’è un governo che non governa, un Parlamento praticamente fermo e una situazione politica che va cambiata. «Chiamiamola Terza repubblica o in qualsiasi altro modo, ma l’importante è che ci sia una nuova direzione politica decisa per superare le difficoltà nazionali e internazionali. Se paesi, come gli Stati Uniti, la Germania e la Francia, con grandi direzioni politiche sono in difficoltà è facile capire in che situazione si trova oggi l’Italia senza guida».
Giorgio Rebuffa, ordinario di Sociologia del diritto presso la facoltà di Giurisprudenza dell’università di Genova, uno dei professori che aveva aderito al progetto di Forza Italia, non usa mezzi termini per definire l’attuale impasse della maggioranza guidata da Silvio Berlusconi. «Questo governo non può andare avanti così: è una situazione penosa. Faranno alcuni tentativi per pacificare e ricompattare la maggioranza
senza ottenere alcun risultato positivo, essendo venute meno le condizioni politiche. Gianfranco Fini si è reso conto di non avere più un partito che gli è stato tolto nel momento stesso in cui il Cavaliere ha dichiarato la nascita del Pdl».
Condizione alla quale Pier Ferdinando Casini e l’Udc rifiutarono di partecipare e che oggi pone i centristi in un ruolo «importante – ammette Rebuffa – nonostante qualche anno fa avessi un’opinione diversa. Penso che l’Udc rappresenti la tessitura di una nuova grammatica politica adatta a poter superare questa fase che non è quella della transizione, ma quella del governo allo sbando. Per uscirne alcune forze politiche devono mettersi insieme: l’Udc è una, Fini può essere anche lui protagonista e ne occorrono delle altre. L’elemento catalizzatore deve essere proprio l’approccio politico. Volendo fare un esempio direi che vale la regola di chi si professa appassionato di motociclismo, ma non
sa guidare neppure la moto. Per la politica Casini, Fini e qualche altro hanno la patente...».
Una situazione «determinata – secondo Franco Cazzola, professore di Scienza politica all’università di Firenze – da numeri di una maggioranza, che erano meravigliosi fino a qualche mese fa, e che improvvisamente sono venuti a mancare. Non penso che né i governi tecnici, né quelli istituzionali possano cambiare la situazione. Ho l’impressio-
Rebuffa: «L’Udc è la tessitura di una nuova grammatica politica»
ne che non si andrà avanti con un governo che non governa e un Parlamento che non lavora».
Quello attuale, secondo Rebuffa, è un governo che «naviga a vista, nel senso che per la prima volta dopo quindici anni, la coalizione di Berlusconi ha una maggioranza che era la più grande della storia, quotidianamente è costretta a contrattare su tutto. La maggioranza, la più grande della storia c’era, però, se l’è bruciata. Berlusconi si in-
venta sempre ”un nuovo inizio”, si tratta di volontà bellissime, ma che non portano da nessuna parte. Anche perché il Cavaliere lo fa da quindici anni. Il Cavaliere e il suo gruppo non è in grado di affrontare questa difficoltà ed è logico che si registri una preminenza del Tesoro. Una storia antica che si ripete dagli anni ’20: se non c’è una direzione politica chi controlla la spesa ne diventa naturalmente il supplente».
Il professor Cazzola sottolinea come Tremonti «decida seguendo la linea del risanamento del bilancio, ma in realtà questo obiettivo non viene centrato, visto che i consuntivi certificano uno sforamento spaventoso nei conti reali. Intant osi rimane impantanati, ancora una volta, su aspetti relativi al personale politico e non sui problemi del Paese. Probabilmente l’esito delle ultime elezioni politiche ha fatto pensare ai maggiorenti che si potesse fare qualunque cosa, ma in realtà si è capito che non è co-
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Il rigore sui conti, voluto da Tremonti, ha finito per ingessare (e bloccare) lo sviluppo
La rivoluzione del liberismo è rinviata ancora una volta
Il paradosso del nostro Paese è che per «liberare» l’economia sarebbe necessaria un’azione di governo molto articolata e «impopolare» di Carlo Lottieri ra pochi giorni l’America sarà chiamata al voto, entro un quadro politico rivoluzionato dai Tea Party e dalla riproposizione di slogan che hanno fatto la storia di quel Paese. Questo di Thomas Jefferson, ad esempio: «Il governo migliore è quello che governa meno». Che fu poi completata da David Henry Thoreau, persuaso che se Jefferson aveva ragione, allora bisogna giungere alla conclusione «che il migliore dei governi è quello che non governa affatto». C’è molta ragionevolezza in tutto ciò, perché in una società libera e dinamica il potere è chiaramente limitato, confinato da vincoli ben precisi, così che il mercato e la società civile possano esprimersi al meglio. Tutto questo è vero, e da ciò si potrebbe derivare la conclusione che un governo come quello italiano – essenzialmente orientato a gestire l’esistente e, al massimo, a evitare conseguenze troppo negative per i conti pubblici – debba allora meritare un qualche plauso. Purtroppo non è così e le ragioni sono evidenti.
T
Il governo «che non governa» a cui si riferivano Jefferson e Thoreau era un potere di modestissima entità, a cui chiedevano di non espandersi, accrescendo il numero delle regole e l’entità
del prelievo. Viceversa, il settore pubblico italiano è oggi una realtà mastodontica che assorbe circa la metà delle risorse e, quel che forse è perfino peggio, ha imposto un intrico legislativo che da decenni ostacola la creatività e la voglia di fare degli italiani. Questo Stato può essere utilizzato in vario modo, ma di sicuro non può essere ignorato. La soluzione statalista ritiene che nella difficile contingenza economica che si è chiamati ad affrontare il governo possa fare
In Gran Bretagna e Francia si fanno delle scelte chiare: lo stesso si dovrebbe fare anche da noi molto in prima persona: costruendo opere di interesse, stimolando i consumi privati, ampliando il credito, orientando lo sviluppo grazie a massicci sostegni alla ricerca e all’innovazione. I limiti di questa impostazione sono numerosi: poiché essa privilegia i manager statali (irresponsabili) rispetto gli imprenditori (che rischiano i loro soldi, e per questo tendono ad avere comportamenti più oculati), presume di disporre di informazioni che non ha (e che l’insieme degli attori di mercato è in grado di gestire), crea rendite di posizione e notevoli occasioni di comportamenti scorretti.
È questa la strada che è stata intrapresa, tanto per fare un nome, da Barack Obama e che sarà all’origine del risultato (probabilmente) negativo che uscirà dalle urne delle elezioni di mid-term. Il presidente americano ha ritenuto di rispondere alla crisi economica accrescendo l’intervento pubblico e su questa sua opzione di fondo, in sostanza, gli americani lo giudiche-
ranno. Ma in altri Paesi ci muove verso prospettive assai diverse. Un governo tutt’altro che inattivo è, ad esempio, quello della coppia Cameron-Clegg, nato nel Regno Unito a seguito dell’accordo tra conservatori e liberali. La direzione fondamentale che il nuovo gabinetto a Londra sta imboccando è quella di una riduzione dello Stato: in primo luogo grazie a tagli delle uscite e delle assunzioni. È un’opzione più liberale di quella individuata da Obama, ma che egualmente esige iniziative destinate a incidere sulla struttura complessiva della società. A Londra come a Washington, si compiono scelte. A Roma, invece, si ha la sensazione che il governo tenda a rinviare ogni decisione, quasi senza rendersi conto che anche questa è una scelta: e una delle peggiori.
Gestire gli affari ordinari è sicuramente necessario ed è anche importante fare il possibile per resistere di fronte agli “assalti alla diligenza”. In tal senso va detto come il ministro Giulio Tremonti abbia più di altri mostrato attenzione alla tenuta dei conti pubblici, ma va pure aggiunto che è davvero difficile – in una società come la nostra – sbarrare la strada alle pretese degli enti (per lo più inutili) finanziati dallo Stato, ai ricercatori universitari tanto desiderosi di una promozione ope legis, ai settori assistiti che fanno lobbying per il rinnovo degli incentivi, e via dicendo. Proprio perché la nostra “normalità” implica una spesa fuori controllo che va dissestando i conti pubblici e mette a rischio il futuro, il modello da adottare non può essere quello del buon amministratore. Semmai, abbiamo bisogno di interventi rivoluzionari e, per realizzare tutto ciò, vi è la necessità di un governo con idee chiare, progetti impopolari, uomini disposti anche a scontentare il pubblico (quando è necessario). In questo senso il quadro complessivo è abbastanza paradossale. Abbiamo uno Stato pachidermico e tentacolare, che andrebbe coraggiosamente ridimensionato, e al contempo abbiamo un governo sostanzialmente assente e distratto, che nel migliore dei casi gestisce l’esistente. Ci vorrebbe invece “più governo” – nel senso di una decisa azione riformatrice – proprio al fine di avere “meno Stato”. Le scelte che l’Italia deve fare sono molto simili a quelle che vanno facendo altrove: in tema di pensioni, funzione pubblica, liberalizzazioni, e via dicendo. La realtà, stavolta, dette le sue regole. Non è tanto in discussione il “se”, perché prima o poi saremo chiamati ad assumerci le nostre responsabilità, ma solo il “quando”. È però sicuramente vero che se tali decisioni venissero assunte ora, il Paese ne trarrebbe rilevati benefici.
sì. Perché le tante anime che esistono sia a sinistra, sia a destra dopo un po’si risvegliano o vogliono avere voce in capitolo». Da più parti si invocano riforme per far ripartire il sistema economico, ma, secondo Franco Cazzola che ha pubblicato di recente il saggio “Qualcosa di sinistra”, bisogna intendersi perché «tutti si professano riformisti, ma si può riformare in tanti modi. Va ricordato, tra l’altro, che la sinistra è sinonimo di riformismo a favore di qualcuno. Se la sinistra italiana si pone come obiettivo soltanto quello di sconfiggere il berlusconismo avrà una vita brevissima. Sarebbe opportuno che si ricominciasse ad avere un’idea, non solo di che cosa accade tra mezz’ora, ma anche sul futuro della società». E Rebuffa aggiunge: «L’unica cosa che, da cittadino, vorrei è che questa situazione si risolvesse presto perché è evidente che così non può andare avanti. Soprattutto per l’immagine che si dà a livello internazionale, in un momento di grande rimescolamento. Non basta avere dei rapporti a livello internazionale che, tra l’altro, non ci sono, se si fa eccezione per episodi epidermici dei quali il Cavaliere mena vanto e che vanno, a mio giudizio, nella direzione sbagliata. In una fase di rilancio occorrerebbe, invece, una vera politica estera e una vera politica industriale».
L’esigenza di una nuova legge elettorale sembra ormai condivisa da tutti. Per Cazzola l’obiettivo di un governo tecnico dovrebbe essere «la riforma elettorale e le successive elezioni». E Rebuffa aggiunge: «Penso che occorra una legge elettorale, qualunque e, per piacere, subito. Io sono per il maggioritario uninominale a un turno, ma questa è teoria. L’attuale legge elettorale non funziona perché, come efficacemente ha scritto Gianfranco Pasquino, il sistema per definire le liste non ha nulla a che vedere con la formazione della classe politica. Se a sinistra il criterio è stato quello di individuare l’industriale veneto, piuttosto che la giovane ricercatrice, a destra è stato aggravato dalla capricciosità. Un errore fondamentale, dal punto di vista strategico, è stata la fusione per creare il Pdl, così come lo è stato il Pd. Questo bipolarismo non ha dato luogo alla formazione di partiti in grado di esercitare la direzione politica. Per cambiare sistema si è scelta la scorciatoia della legge elettorale e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. I sistemi politici moderni, invece, si realizzano prima con i partiti e poi con la legge elettorale. Nel sistema italiano mancano le sedi di analisi, di elaborazione e di decisione. Quando Gianfranco Fini ha chiesto una riunione della direzione del Pdl per un confronto è iniziata la crisi».
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Paletti. Rischia un altro slittamento il federalismo fiscale. I governatori pronti a rinviare l’assenso su costi standard e autonomia fiscale
Tremonti tra Errani e Romani
Le Regioni: cambiare la manovra. Il ministro: impossibile l’asta delle frequenze ROMA. Il federalismo fiscale
di Francesco Pacifico
rischia un nuovo slittamento. E a rallentare uno dei cinque punti che dovrebbero segnare il rilancio del governo c’è ancora il braccio di ferro tra il ministro Giulio Tremonti e i governatori. Un tira e molla che avrebbe esasperato anche un infaticabile mediatore come Raffaele Fitto. Dopo l’ennesima richiesta di un incontro con l’esecutivo da parte delle autonomie, il responsabile degli Affari regionali sarebbe sbottato: «Siamo pronti a valutare le istanze dei governatori, ma qui si va avanti mischiando questioni opposte: la manovra di luglio, i costi standard e il fisco regionale, l’ultima legge di stabilità, il rinnovo degli ammortizzatori sociali. Potenzialmente sarebbero temi per trattare su un accordo generale tra centro e periferia del Paese. Invece si litiga su tutto, fingendo di non sapere che il problema sono i soldi».
Al centro di questo impasse che blocca questa partita c’è un Giulio Tremonti occupato come non mai a cercare i 7 miliardi necessari per il decreto sullo sviluppo di fine d’anno. E che fa fatica a discutere con i governatori dei 9,5 miliardi e mezzo di tagli previsti nella manovra di luglio. Con il risultato che oggi le Regioni potrebbero chiedere una proroga di un’altra settimana per dare il parere sulla fiscalità regionale e sul passaggio da costi storici a standard. Ma guai a far notare al presidente della Conferenza delle Regioni che si mischiano pia-
mettere all’asta le frequenze lasciate libere nel passaggio dalla tv analogica al digitale terrestre. Un’operazione che potrebbe portare nelle casse dello Stato circa 3 miliardi di euro. Quasi la metà del conto totale del milleproroghe, quello che deve dare copertura finanziaria al rinnovo della cassa integrazione ordinaria, la riforma dell’università, le missioni all’estero, l’autotrasporto, i libri di testo e i disoccupati napoletani. In via XX settembre l’uscita di Romani viene vista come un
I dubbi di Fitto: gli enti mischiano partite opposte. Il Tesoro fatica a trovare i soldi per il milleproroghe. Nel mirino anche l’Enel ni diversi: «Abbiamo chiesto un incontro urgente prima del parere sui decreti», spiegava ieri, «perché il tema della manovra e dei tagli incide in modo netto anche sulle questioni del federalismo fiscale». Anche perché i 9,5 miliardi di risparmi chiesti per il prossimo biennio finiscono per toccare il trasporto pubblico locale, la famiglia, gli aiuti alle imprese. Ma al Tesoro non sembra questa la priorità. Ieri il neo ministro per lo Sviluppo, Paolo Romani, ha fatto sapere che non ci sono i tempi e gli spazi per
tentativo di alzare la posta per recuperare fondi per la banda larga. Ma si stanno studiando altri strumenti per reperire risorse: e accanto al lancio di nuove lotterie si discute anche di rimodulare i cumuli di detrazioni per l’Enel e le norme sul leasing mobiliare. L’Udc, invece, suggerisce al ministro del Tesoro di elevare dal 2011 al 20 per cento la tassa sui redditi finanziari speculativi «per cancellare i pesanti tagli fatti dal governo alla spesa sociale e in primo luogo al sostegno delle famiglie». Que-
Al via la Giornata mondiale del risparmio
Indebitato un italiano su 4 ROMA. La crisi non ha affievolito la propensione italiana al risparmio, ma cresce chi deve indebitarsi. Secondo l’ultimo rapporto dell’Acri (l’associazione italiana delle casse di risparmio) resta costante all 36 per cento la percentuale di famiglie che riescono a mettere da parte una quota del salario. Sono invece il 37 per cento i nuclei dove si consuma tutto ciò che si guadagna, mentre fa temere il fatto che ben una famiglia su quattro debba ricorrere a debiti oppure smobilitare le risorse accantonate in passato. Se nel Nord Est si registra il numero maggiore di famiglie in grado di accumulare risparmio (ci riesce il 45 per cento), al Sud si fa maggiore difficoltà, visto che soltanto il 30 per cento riesce ancora a risparmiare. Dalla ricerca si evince poi una certa ritrosia ad affidarsi alle istituzioni finanziarie. Il 62 per cento preferisce tenere i soldi in casa, il 68 sul conto corrente. Al 9 per cento chi ha un approccio più speculativo e investe la
maggior parte dei propri risparmi. Ma dovendo, gli italiani continuano a preferire il mattone, ideale per il 54 per cento del campione.
Intanto, questa mattina si apre a Roma la Giornata mondiale del risparmio. Dal presidente dell’Acri, Giuseppe Guzzetti, si attende una risposta alla richiesta
fatta da Cesare Geronzi di nuove regole per le fondazioni azioniste delle grandi banche. Il numero uno della Cariplo dovrebbe anche chiarire i rischi degli enti in seguito all’introduzione dei criteri contabili di Basilea III, dopo che il Financial Times ha paventato un taglio dei dividendi.
sto il senso di una mozione che verrà presentata alla Camera dal suo leader Pier Ferdinando Casini. Nelle scorse settimane il governo si era detto disponibile ad aprire un tavolo sulla manovra e uno sul trasporto pubblico locale. Ma oltre a non ricevere la convocazione necessaria i governatori hanno trovato un’altra sorpresa: nell’ultima legge di stabilità Tremonti non soltanto non ha fatto sconti sui tagli decisi a luglio, ma ha previsto che le Regioni si paghino i collegamenti per i pendolari e le strutture di edilizia ospedaliera con i Fas. Fondi che i governatori vogliono invece usare per altri capitoli come le infrastrutture. Da qui l’ennesimo muro contro muro che ha fatto superare anche l’ipotesi che gli enti locali si accordassero tra loro – in un gioco di premi e sanzioni – per spalmare i tagli in modo traumatico. Una linea che – paradossalmente – è riuscita anche a far rientrare lo scontro in atto tra i virtuosi governatori del Nord e gli indebitati colleghi del Sud, che ha persino bloccato la ripartizione del fondo sanitario. Assenti i leghisti Roberto Cota (Piemonte) e Luca Zaia (Veneto) che chiedono di accelerare il parere sugli ultimi decreti del federalismo, ieri mattina i presidenti presenti in Conferenza della Regione hanno ragionato sui punti da emendare nella manovra e nell’ultimo testo su costi standard e fiscalità regionale.
Romano Colozzi, assessore al Bilancio della Lombardia, ha spiegato che sono «quindici i nodi rilevati» che non soddisfano gli enti locali. Nella lista ci sono la scelta di Tremonti di delegare a decreti legislativi partite importanti come le clausole di salvaguardia per congelare gli aumenti fiscali, l’assenza di certezze sulla perequazione in materie importanti come trasporti e gli aiuti alla famiglia, le compensazioni sulle nuove basi imponibili, oltre alla mancata definizione dei livelli essenziali di assistenza e delle prestazioni. en «Formuleremo», ha spiegato Colozzi nelle visti di coordinatore dell’area finanziaria della Conferenza, «una serie di emendamenti in vista dell’incontro con il governo che speriamo si tenga comunque nei prossimi giorni».
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Il sindaco di Boscoreale lancia l’allarme santario
«Ora togliete i rifiuti, c’è pericolo di epidemie» TERZIGNO. «Se non si rimuovono al più presto i rifiuti dalle strade, dopo il blocco dei conferimenti nella discarica Sari di Terzigno, c’è il rischio di un’epidemia». È questo l’allarme lanciato dal sindaco di Boscoreale (Napoli), Gennaro Langella, che ha effettuato ieri un sopralluogo allo sversatoio. «Bisogna dire basta in maniera definitiva alla violenza, agli atti vandalici. Noi che vogliamo dimostrare, con la battaglia contro la seconda discarica nel Parco nazionale del Vesuvio, dobbiamo dimostrare in modo concreto la nostra tutela dell’ambiente. Non fermiamo gli autocompattatori, i prossimi porteranno rifiuti dei nostri comuni, ripuliamo le città. Altrimenti c’è - denuncia - il rischio di un’epide-
Mori indagato: bufera sull’antimafia La Procura di Palermo ipotizza per il generale dei Ros l’accusa di concorso esterno di Francesco Lo Dico
ROMA. C’è anche il nome di Mario Mori, nel registro degli indagati che i magistrati di Palermo chiamano in causa nell’inchiesta sulla trattativa tra Stato e mafia intrecciata durante le stragi del 1992. Sulla testa dell’ex comandante del Ros, già sotto processo nel capoluogo siciliano con l’ipotesi di avere favorito la latitanza dell’erede del Capo dei Capi Bernardo Provenzano, pende da ieri anche l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. mia». «Ma non vi sono assolutamente rischi di epidemie determinate dalla discarica Sari. Quello che dico - spiega - è che necessita provvedere con rapidità a ripulire il territorio di Boscoreale dai rifiuti, ormai ammassati da una settimana, appunto per evitare possibili focolai di epidemie che al momento non ci sono. Il paese deve ritornare velocemente alla normalità».
Intanto, non c’è stato alcun problema di ordine pubblico ieri notte nei pressi di cava Sari dove comunque proseguono come annunciato da Bertolaso domenica scorsa - le attività di verifica e controllo, gli interventi di copertura dei rifiuti con terreno e argilla. Assolutamente pacifica la manifestazione di cittadini provenienti da tutti i paesi del Vesuviano che al lume delle fiaccole sono sfilati lungo il percorso dei camion per chiedere ancora una volta di cancellare cava Vitiello e risanare cava Sari. Smorzate le tensioni delle frange violente restano quelle politiche. I sindaci del vesuviano mantengono il punto e, in attesa di rassicurazioni definitive, non intendono sottoscrivere il documento redatto dalla Protezione civile.
L’iscrizione di Mori nel fascicolo aperto dalla Procura siciliana è confermata dall’avviso di garanzia consegnato lunedì a Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo per il quale gli inquirenti ipotizzano lo stesso reato del generale dei Carabinieri. Inoltre, la Dia ha iscritto nel registro degli indagati anche i boss corleonesi Bernardo Provenzano e Totò Riina, e il colonnello dei carabinieri, Giuseppe De Donno, con l’accusa di attentato a un corpo politico o istituzionale dello Stato. I nuovi sviluppi giudiziari che hanno al centro il “papello”, seguono di pochi giorni l’avviso di garanzia che i sostituti Nino Di Matteo e Paolo Guido, e il procuratore aggiunto Antonio Ingroia, hanno notificato a Rosario Piraino, ai quali i magistrati contestano la regia della trattativa tra mafia e istituzioni deviate, e il reato di violenza privata nei confronti di Ciancimino jr., che accusa l’agente di averlo minacciato affinché mantenesse il riserbo sugli scottanti incroci tra malavita e intelligence, ma anche sugli investimenti dei boss nelle aziende del Cavaliere. «Si presentò con il nome di capitano mentre ero agli arresti domiciliari – ha messo a verbale Ciancimino jr al processo che vede imputato Mori – chiese se mi ricordavo di lui con il signor Franco». «Disse:“Non ti
chiederanno niente i magistrati – prosegue il figlio del sindaco corleonese – ma qualora lo faranno non è il caso che tu prenda argomento di carabinieri o di rapporti con Berlusconi.Tutte queste situazioni lasciale al di fuori del tuo processo”». Ma dietro l’imprevista accelerazione impressa alle indagini sulle stragi di Capaci e via D’Amelio c’è per Massimo Ciancimino la conferma che le dichiarazioni da lui rese siano state considerate attendibili dalla procura palermitana. Raggiunto dall’avviso di garanzia, il figlio dell’ex sinda-
Ros, attualmente sotto processo con l’accusa di favoreggiamento aggravato a proposito della mancata cattura di Bernardo Provenzano. L’interrogatorio di Piraino, indicato da Ciancimino come il braccio destro dell’ancora misterioso signor Franco, difficilmente potrà fornire elementi utili ai magistrati, impegnati a dare un volto all’uomo misterioso che avrebbe curato la mediazione tra Stato e mafia. Un volto, che per il momento non ha neanche un numero di telefono. L’utenza al quale Ciancimino lo avrebbe contattato recava il prefisso 337, ma alla Tim è risultata inesistente. Un giallo nel giallo, perché i magistrati hanno scoperto che negli anni tutti i numeri di cellulare che recavano quel prefisso, erano stati invece attivati.
Ma le ultime notizie sul generale Mori provenienti dalla Procura che affronta il difficile nodo tra mafia e Stato, producono un riflesso pavloviano nella maggioranza. «La sua iscrizione nel registro degli indagati – dichiara il pdl Amedeo Laboccetta che è membro della commissione Antimafia – oltre ad essere risibile, pone una duplice natura di problemi». Laboccetta valuta il concorso esterno «una figura giuridica talmente labile ed imprecisata che consente alla Procure, attraverso maliziose catene di Sant’Antonio, di poter indagare chiunque per questo ‘reato’», e rilancia «i condizionamenti che la Magistratura può porre in essere». «L’attività di certi magistrati – si duole l’azzurra Jole Santelli – delegittima l’opera dell’intera magistratura, ma ciò che più dispiace è che dicono di ispirarsi al lavoro di giudici come Falcone e Borsellino». Sarebbe dispiaciuto di più, se si fossero ispirati a Metta e Squillante.
I nuovi sviluppi giudiziari seguono l’avviso di garanzia notificato a Piraino, il “capitano” accusato da Ciancimino jr. di violenza privata co di Palermo, don Vito, ha commentato: «È l’atto che suggella la credibilità di quanto ho detto», e la risposta a «quanti nel tempo hanno detto che io avevo avuto questo atteggiamento, per ottenere favori e sconti». In particolare, le recenti acquisizioni documentali provenienti da casa Ciancimino sembrano aggravare proprio la posizione del generale Mario Mori. L’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, potrebbe infatti essere l’incunabolo di un mutamento dell’imputazione a carico dell’ex comandante del
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Iran. Dalla Persia gli stupefacenti arrivano in volo a Bratislava, uno dei più importanti centri di smistamento del Continente
L’oppio dei Pasdaran Teheran si dice impegnata nella guerra alla droga ma le Guardie della rivoluzione alimentano il traffico di Pierre Chiartano oppio sta diventando un problema per il regime iraniano. Non solo per i milioni di tossici che popolano il Paese, ma perché è entrato come variabile indipendente nei giochi di potere, già abbastanza complessi, della politica sciita. Dopo il raccolto del papavero ci sono due piste semipreparate, non lontano da Mashhad nella regione di confine del Khorasan, che vedono un gran movimento di decolli e atterraggi. In genere si tratta di Antonov-74 Stol (Short take-off and landing) più adatti ad operare da aeroporti di fortuna e in condizioni meteo difficili. Sono velivoli della grande flotta che appartiene all’Irgc (Iranian revolutionary guard corps). Siamo poco oltre il confine nordorientale iraniano con l’Afghanistan. Alcuni ufficiali dei Pasdaran passano vicino ai posti di frontiera e danno ordine alle guardie di «farsi un giro». Garitte e outpost rimangono sguarnite, anche per giorni. Il governo di Teheran è ufficialmente impegnato nella lotta al traffico di droga e il Corpo delle guardie rivoluzionarie da una cui branca – i basij – proviene anche il presidente Mahmoud Ahmadinejad, dovrebbe essere in prima linea nella caccia ai narcotrafficanti. Per bloccare il flusso che dal ricco e produttivo Afghanistan alimentano il traffico d’oppio di mezzo mondo. Ma sembra che in questa equazione qualche numero non torni. Per chi bazzica quelle zone non è un segreto.
L’
Lì, i Pasdaran dirigono il traffico internazionale di droga. Almeno una parte dell’organizzazione, già devastata e divisa dal “fazionismo” e dalla diversa estrazioni dei suoi membri tra civili e militari. Guerre intestine alimentate ad arte per fiaccarne il potere, da alcuni ritenuto eccessivo, ma anche da interessi poco conciliabili con le leggi del Corano, come in questo caso. Il Corpo delle guardie della rivoluzione islamica – Pasdaran in lingua farsi – è una formazione militare nata nel 1979, quando la rivoluzione aveva rovesciato la monarchia in Iran ed erano il braccio ar-
mato dei religiosi a guida del colpo di Stato. Legati direttamente alla guida suprema della Rivoluzione, il grande ayatollah Ali Khamenei, dopo la fase sovversiva, i Pasdaran sono stati inquadrati come corpo parallelo delle forze armate dello Stato, l’Artesh, per controllare i militari di formazione classica, guardati da sempre con sospetto dagli ayatollah (il padre dello Scià deposto era un militare di carriera) e per garantire una forza di reazione rapida, addestrata e molto fedele alla linea dell’ortodossia religiosa in caso di attacco esterno. Gli effettivi inquadrati nel corpo militare
A Mashhad, nella regione di confine con l’Afghanistan, una flotta di Antonov-74 Stol dell’Irgc porta i pani d’oppio verso l’Europa contano su 300mila uomini, divisi in forze aeree, navali e di fanteria. All’interno del corpo dei Pasdaran, s’inquadrano anche milizie di volontari religiosi, chiamate basiji, che si sono distinti per brutalità e impunità durante le sommesse scoppiate dopo il voto presidenziale in Iran del giugno scorso. Sia i basiji che i Pasdaran sono investiti del compito di vigilare sull’applicazione del codice islamico. Ogni giorno, nella zona di confine con l’Afghanistan,
polizia di frontiera, militari e Pasdaran dovrebbero combattere una guerra senza quartiere ai trafficanti d’oppio, che introducono nel Paese i carichi in transito dal Paese vicino. All’interno del corpo scelto ci sono tanti fanatici religiosi, ostili alla droga per fede. Molti altri, però, sono collusi nel traffico internazionale, come sono coinvolti nei gangli vitali dell’economia iraniana, attraverso le fondazioni religiose e le partecipazioni nel comparto industriale del Paese. Se i Pasdaran corrotti sono una parte, le guardie di frontiera e i poliziotti hanno forti legami con i trafficanti dai quali vengono arricchiti con le tangenti. Ma sembra che il cortocircuito sia avvenuto e tutti si arricchiscano allegramente col papavero bianco. E non solo chiudendo un occhio o tutti e due.
Centinaia di sentenze capitali e di roghi della droga sequestrata non hanno fermato il racket, che potrebbe anche aver scatenato delle faide interne agli stessi Pasdaran. Non sono pochi gli ex ufficiali delle guardie sciite che, una volta fuggiti dall’Iran, hanno cominciato a raccontare delle collusioni tra la forza paramilitare religiosa e il traffico di stupefacenti. Alcuni reparti della loro intelligence come la sezione Seyedolshohadah, a Teheran, oppure le sezioni 1300, 400 e altre si occupano della raccolta dati e della sicurezza degli aeroporti iraniani. Chi ha fatto parte parte di queste sezioni
conosce bene tuttpo ciò che passa dagli scali iraniani. Gli aerei verrebbero da Bangkok a Teheran e trasporterebbero anche shisha (che è il nome di un tipo di tabacco da narghilé, ma più in generale significa contenitore per acqua), una sostanza trasparente, probabilmente una droga sintetica, che poi in parte smistano verso Dubai. Un’altra parte viene spacciata in Iran. Acquistano oro a Dubai e lo importano in Iran, senza dazi e senza controlli. Così qualche tempo fa un Pasdaran fuggito all’estero descriveva le attività illegali all’interno del corpo scelto. Ma in questo caso parliamo della capitale e di traffico aereo in entrata.
Sul confine invece arrivano i convogli con i panetti di resina biancastra che, caricati su di una flotta organizzata dai paramilitari sciiti, arriva all’aeroporto di Bratislava, uno dei maggiori centri di smistamento europeo. Lì, tramite altri Pasdaran che hanno stretto rapporti con la criminalità locale, la droga prende la strada per il continente e anche per l’Italia. Spesso per eludere i controlli – forse non troppo ortodossi – nei manifesti di carico viene utilizzata la voce «libri». Da qualche hanno c’è una moria di paramilitari sciiti e soprattutto dei loro generali, a partire dai 273 mili-
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Un iraniano controlla un campo di papaveri. Le maggiori coltivazioni di questi fiori sono in Afghanistan. In basso, una sfilata di pasdaran. Nella pagina a fianco, un Antonov vrebbe calare a quasi 4mila tonnellate, il 48 per cento in meno delle 6.900 del 2009. Il dato più basso dal 2003 che dovrebbe avere delle ripercussioni dirette sulla produzione di eroina, il cui prezzo tenderà a salire per i mercanti di morte. L’infezione vegetale era comparsa la primavera scorsa nelle piantagioni delle province di Kandahar ed Helmand, le aree più vocate a questa produzione nell’Afghanistan meridionale e roccaforte dei talebani ribelli. Ma il responsabile dell’Unodc, l’agenzia antidroga delle Nazioni Unite, Yurj Fedotov mette in guardia dai falsi ottimismi. «Sono buone notizie» ma meglio non sedersi sugli allori «i raccolti danneggiati seriamente sono solo il 13 per cento del totale e il 39 per cento non ha avuto alcun danno» si legge nel documento del Palazzo di vetro. Anche la regione occidentale, che confina con l’Iran è stata colpita dalla malattia del papavero, ma in modo meno virulento. Facendo una media sull’intera produzione di oppio nel 2010 il rendimento per ettaro sarebbe calato a 29,2 chilogrammi, dai 56,1 del 2009. Per i coltivatori i guadagni sono aumentati rispetto allo scorso anno. La loro parte del bottino è salita dai 3.600 dollari a ettaro del 2009 ai 4.900 del 2010 un incremento del 36 per cento. E se si fa un paragone col la coltivazione del grano si fa presto a capire il problema. Si è passati da una rendita di 1.200 dollari a ettaro nel 2009 a soli 770 dollari di quest’anno. Se sul fronte della produzione le cattive notizie, meno oppio da vendere, si mischiano con le buone, prezzo che schizzerà alle stelle, su quello politico l’Iran fa finta di niente, come se il fronte antidroga nel regime fosse compatto.
ziani morti in un incidente aereo il 19 febbraio 2003, mentre tornavano a Teheran, appunto, dalla frontiera afghana; per continuare col generale Ahmad Kazemi e il suo stato maggiore, morto il 9 gennaio 2006 su un elicottero in Kurdistan; coi 3 generali Ghahari, Shohada, e Dorosti, morti sempre in elicottero in Kurdistan e per finire, con i 35 Pasdaran morti nell’aeroporto di Teheran il 27 novembre 2006.
Sono forti i sospetti che, incidenti a parte, sia in atto un
guerra intestina e che in ballo ci siano grandi interessi economici, senza escludere quelli generati dal traffico di droga. E poi l’uccisione del generale Nurali Shushtari a Sarbaz si colloca anche in un altro contesto, ancora più critico e non sono pochi gli indizi che permettono di ipotizzare una sorta di «Notte dei lunghi coltelli» interna al vertice iraniano, dove il traffici illeciti possono aver svolto un ruolo non secondario, ma per altri motivi. Poi si è messa anche la “natura” a far schizzare verso l’alto il prezzo dell’oppio.
Ciò che non sono riuscite a conseguire le truppe Nato e il controllo occidentale sull’altopiano afghano, lo hanno portato a termine delle infestanti che hanno dimezzato la produzione di oppio.
L’Agenzia Onu che ha reso noto il dato, poco tempo fa, ha aggiunto che la superficie dedicata alla coltivazione del papavero stupefacente è rimasta invariata, a dimostrazione che il danno è serio per i signori della droga. In soldoni la produzione per l’anno in corso do-
Mohammad Ali Ghanezadeh, l’inviato iraniano che qualche giorno fa ha partecipato alla conferenza di Roma sull’Afghanistan, aveva spiegato a un’agenzia stampa italiana quanto Teheran fosse «determinata nella lotta alla droga», per la quale finora ha sacrificato la vita di «3.700 poliziotti di frontiera», e di cui le stanno dando atto anche diverse organizzazioni internazionali. Ma «quando chiediamo alla comunità internazionale di aiutarci veramente oltre le belle parole, quando chiediamo all’Occidente di fornire alla nostra polizia di frontiera visori notturni, scanner o radar che consentano di localizzare i convogli di narcotrafficanti, ci rispondono di no perché questi strumenti rientrano nella categoria dual use». Cioè anche ad utilizzo militare. Magari la diffidenza è giustificata proprio da questa aporia di lotta ufficiale e traffi-
co clandestino. Lotta nelle sedi internazionali, traffico in loco. In Iran non è mai tutto univoco è può darsi benissimo che una parte del governo sia seriamente impegnato nella battaglia contro i trafficanti, mentre un’altra parte del potere inzuppi il pane nell’oppio. A Teheran l’oppio da fumo e l’eroina girano a fiumi, ma non mancano neanche la coca e altre droghe sintetiche, specie tra i ragazzi. Si calcola, con stime per difetto, che i tossicodipendenti in Iran siano 6 o 7 milioni. E con i prezzi in salita e solo immaginabile cosa succederà.
Lo stesso Ali Ghanezadeh ha riferito di una speculazione del mercato degli stupefacenti che comporta la vendita di oppio grezzo e di eroina in Europa e Occidente, a prezzi «molto più alti» rispetto ai Paesi limitrofi l’Afghanistan: «In Iran, per fare un esempio, un chilo di eroina costa 7 mila dollari, in Turchia 17 mila dollari, in Europa da 70 a 100 mila dollari. Dove pensate che i narco-trafficanti indirizzino le sostanze per avere profitti maggiori? Per questo – ha osservato il diplomatico iraniano – chi non collabora con noi lo fa ai danni delle proprie popolazioni». La domanda potrebbe anche essere posta a un pezzo del potere iraniano. I diplomatici iraniani, sull’onda del nuovo coinvolgimento in Asia centrale, puntano su di un canale di cooperazione «concreta» tra Teheran e la comunità internazionale, così come nella formazione della polizia di frontiera e dei giudici afghani. Su questo, concludeva Ali Ghanezadeh, «collaboreremo con tutti i Paesi che vorranno farlo». Questa la voce della diplomazia, ma sul terreno come abbiamo visto le cose funzionano diversamente. Tenendo conto che la popolazione iraniana per il 65 per cento è sotto i 35 anni e della diffusione che ha lo spaccio d’eroina e di oppio da fumo (ma anche di coca ed ecstasy) c’è da aspettarsi che il problema prima o poi sfugga di mano al regime. Anche se l’instabilità sembra essere un fattore genetico in Iran e il problema del cosumo di stupefacenti radicato da tempo. Il fatto che una parte delle Guardie della rivoluzione sia protagonista del traffico internazionale di droga, pone poi un problema ulteriore alla già scarsa credibilità del regime sciita e di una crescente instabilità negli equilibri interni del potere. Già qualche anno fa, la Bbc aveva descritto bene come funzionavano i controlli della polizia religiosa nella capitale, bastava allungare una “mancia” per farli girare dall’altra parte. Un metodo che i miliziani sciiti sembra abbiano esportato per garantire i propri interessi in Europa.
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ragioni&torti di Giancristiano Desiderio
Malasanità, ecco un primato del Meridione e mi ammalo e ho bisogno dell’ospedale dovrò affidarmi più alla cabala che ai medici. I numeri della Commissione parlamentare d’inchiesta sugli errori in campo sanitario non mi dà scampo: primo perché la situazione drammatica, secondo perché al Sud è ancora più drammatica. In poco più di un anno, da fine aprile 2009 a metà settembre 2010, si contano 242 casi all’esame della commissione. Episodi di presunta malasanità, dei quali, però, ben 163 hanno fatto visto la morte del paziente. O per errore diretto del personale medico e sanitario o per disservizi. Ma quando i numeri sono così alti e anche così concentrati nel Mezzogiorno e in alcune regioni l’“errore” acquista un diverso significato.
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Quelle 163 sono un’ingiustizia nazionale. Quasi il risultato di una guerra incivile che evidentemente si svolge negli ospedali del servizio sanitario. 163 vittime di cui 88 concentrate in due sole regioni: Calabria (50) e Sicilia (38). Dei 242 casi evidenziati, ben 64 si sono verificati in Calabria, 52 in Sicilia, 24 nel Lazio, 15 in Campania, Puglia e Lombardia, 14 in Veneto, 12 in Toscana, 9 in Emilia Romagna, 8 in Liguria, 6 in Piemonte, 2 in Friuli Venezia Giulia e in Abruzzo, 1 in Trentino Alto Adige, Umbria, Marche e Basilicata. Salta agli occhi che la sanità meridionale è malata. La Calabria e la Sicilia sono ben al di là della media nazionale. Anche senza affidarsi a analisi particolareggiate e a inchieste interne appare del tutto evidente che qui i casi di malasanità sono il frutto non di errori ma di un sistema che non funziona. La sanità calabrese si è segnalata negli ultimi anni per alcuni clamorosi casi di decessi ospedalieri dovuti a disservizi e incuria, ma anche per l’omicidio politico Fortugno. Il sistema sanitario muove e si muove intorno a interessi che non hanno nulla a che fare con la cura del malato e la salute. In vaste zone del Mezzogiorno la sanità, da ormai oltre trent’anni, ha sostituito quella che un tempo era il principale terreno di controllo e gestione del consenso elettorale: l’agricoltura. La politica sanitaria è un capitolo importante e centrale per la coltivazione delle fortune politiche e la crescita dei partiti. Ma se il binomio “politica e sanità”è comune a tutte le regioni italiane, è nel Sud che il rapporto è coniugato al peggio: sia sul versante dei conti, sia sui risultati clinici. I direttori delle Asl, i direttori sanitari, i primari hanno un rapporto diretto con la politica e sul piano amministrativo prendono ordini dai politici. Si dà il caso, però, che mai come nella sanità, la buona amministrazione incide in modo determinante sulla clinica. È un po’ come avviene per la scuola: la scelta dei docenti determina in modo quasi totale il risultato dell’istruzione. Nella sanità la scelta del medico non sempre è fatta in funzione del malato. La spesa sanitaria non risponde né ai criteri aziendali né a quelli medici, ma a quelli della creazione del consenso e della sua gestione. È difficile che una sanità così malata possa curare i malati che, infatti,“emigrano” verso altre regioni.
La doppia velocità della democrazia al Sud Lo sviluppo del Mezzogiorno è indispensabile a tutto il Paese di Aurelio Misiti proposito delle discussioni sull’Unità nazionale e il consolidamento della democrazia parlamentare in Italia, vorrei ricordare che il Mezzogiorno ha praticato nel tempo la sua democrazia secondo la realtà sociale, economica e culturale dei paesi mediterranei, dove ha mosso i primi passi il sistema che viene comunemente definito democratico. Penso inoltre che si debbano evidenziare le considerazioni del governatore Draghi e del presidente Montezemolo che hanno spesso sottolineato come l’Italia – così come ha fatto la Germania con l’Est dopo il 1989 – se vorrà rimanere tra i grandi paesi europei, dovrà necessariamente incentivare lo sviluppo del Mezzogiorno. Ciò sarà possibile con una rinnovata classe dirigente meridionale, a condizione che il Paese non sia governato da forze politiche che, non possedendo strumenti culturali adeguati, considerano marginali i territori del Mezzogiorno nella sfida globale, economica e sociale, di un paese moderno come l’Italia.
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questioni recenti, che non sono certo scelte determinate dalla “classe (per nulla) dirigente” meridionale, ma appartengono piuttosto al potere politico ed economico centrale, che condannano il sud a essere considerato un territorio in via di sviluppo senza l’autonomia di determinare il proprio futuro. Ricordo ad esempio che il moderno sistema autostradale così come il treno ad alta velocità, e quindi il vero rinnovamento delle infrastrutture ferroviarie, sono stati realizzati sino a Salerno; il porto di Gioia Tauro produce ricchezza non tanto per il sud quanto per il resto del Paese, visto che lo sdoganamento delle merci di Gioia Tauro si effettua soprattutto a Milano, con relativi introiti per la regione Lombardia; la “superstrada” Salerno-Reggio Calabria viene allargata dall’Anas sulla stessa sede originaria con effetti devastanti sull’economia meridionale.
È giusto ammettere le responsabilità della gente e dei dirigenti meridionali, ma questo non può essere un alibi
Nella festa dei 150 anni va ricordato che ancora oggi il paese marcia a due velocità e il gap tra nord e sud si è andato allargando negli ultimi cinquant’anni, mentre in precedenza è storicamente provato che correva di più, culturalmente, economicamente e socialmente, il meridione d’Italia. Da cosa deriva il capovolgimento che gli storici registrano? I meridionalisti attribuiscono il cambiamento alle modalità con cui l’unificazione è avvenuta, da loro anche definita “occupazione”del Mezzogiorno. Altri invece intendono dimostrare che la responsabilità del cambiamento è da ricercarsi nella scarsa capacità dei meridionali di comprendere le trasformazioni degli stati ottocenteschi che passavano dalla società contadina a quella industriale. Il nord si è inserito in questo processo, si è allontanato sempre di più dal sud, avvicinandosi alle altre grandi nazioni del centro Europa. La tesi dell’occupazione del Sud si basa soprattutto su fatti risorgimentali ormai dimostrati. Non voglio qui ricordare le stragi, le persecuzioni, le ruberie dei primi sessant’anni di Unità, imposti alle popolazioni meridionali, bollate da Panebianco sul Corriere come “forma di autoassoluzione, condita di leggende nere sull’Unità d’Italia”, ma penso sia giusto rammentare alcune
Mi sembra giusto ammettere però le responsabilità della gente e soprattutto degli amministratori del sud, che non hanno avuto il coraggio e la capacità di staccare la spina dell’assistenzialismo, che come è noto porta solo sottosviluppo. Essi avrebbero dovuto rifiutare la condizione di minorità imposta con il ricatto, spesso inconsapevole, che il ricco esercita sempre sul povero. Si è voluto seguire in casa nostra il modello assistenziale dei paesi “sviluppati”nei confronti di quelli più poveri in particolare dell’Africa, di cui bisognerebbe incentivare lo sviluppo e azzerare il debito invece di concedere risicati finanziamenti, preda comunque di imprenditori dei paesi ricchi. Il sud, a differenza dell’Africa che ha molte ricchezze naturali ma non ancora una classe dirigente matura per uscire dalla crisi, avendo la disponibilità di vaste risorse culturali e professionali, può accelerare il proprio sviluppo attraverso la scelta di una propria autonomia delle responsabilità e delle opportunità, da perseguire anche se ciò dovesse comportare un temporaneo impoverimento. Sono certo che i giovani meridionali, opportunamente incentivati, che avranno la determinazione di lavorare al sud potranno riportare alla vera parità. Allora e solo allora la bandiera tricolore sarà sentita da tutti come propria. Ma fino a quando il divario permarrà così ampio e violento, sarà difficile convincerli a festeggiare.
panorama
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I dati resi di “Trasparency” non devono stupire: nel nostro Paese la lotta per la legalità non ha fondi a disposizione
Senza armi contro il malaffare Il governo Berlusconi, tra i suoi primi atti, ha abolito il Commissario Anticorruzione di Achille Serra bene ricordare che tra le decine di disegni di legge impantanati alle Camere, rientra anche un provvedimento sulla corruzione. È bene ricordarlo oggi che, in materia, all’Italia è stato assegnato un nuovo record negativo. Secondo l’ultima stima di Trasparency International, infatti, siamo scesi al 67° posto nella graduatoria mondiale sulla corruzione nelle pubbliche amministrazioni, al quart’ultimo posto tra i paesi europei.
È
È una caduta a picco senza sosta dal 1997, quando, in seguito a Tangentopoli e a un periodo di maggiore allerta, abbiamo gettato nuovamente la spugna e di anno in anno vediamo peggiorare la nostre pagelle (da Trasparency all’Ocse, dalla Banca Mondiale alla Corte dei Conti, tutti gli organismi del settore pur basandosi su criteri e osservatori diversi, concordano nel segnalare la gravità della situazione). La legge in discussione in Parlamento, d’iniziativa del Governo, non sarebbe la panacea di tutti i mali, data la parzialità di approccio che prevede, ma almeno rappresenterebbe un nuovo punto di partenza. E la sua approvazione darebbe un segnale chiaro all’opinione pubblica nazionale e internazionale su un cambio di rotta dell’Italia nella lotta alla corruzione, troppo a lungo rimandato. Non che in passato non si siano tentate strade nuove, otte-
nendo anche qualche risultato positivo, ma purtroppo tra i mali endemici del paese spicca anche la tendenza a far prevalere sull’interesse collettivo, quello di pochi singoli.
Tra le sue prime iniziative, l’attuale governo nell’agosto del 2008, soppresse infatti l’Alto Commissario Anticorruzione, un organismo alle dipendenze della Presidenza del Consiglio che ho avuto l’onore di presiede-
re per qualche mese e che, nonostante gli evidenti limiti strutturali (aveva a disposizione risorse economiche e umane davvero esigue), aveva messo a segno alcuni successi degni di nota: l’indagine sullo stato della sanità in Calabria, presa ancora oggi come riferimento dalle politiche locali in materia di corruzione; l’ispezione alla ASL di Napoli 5, da cui emersero profili di possibile infiltrazione mafiosa; l’attivazione di un numero verde che, consentendo ai cittadini la denuncia degli illeciti dietro garanzia di anonimato, ha incoraggiato la collaborazione attiva della comunità su questo delicato terreno. Tutto ciò è stato
In Parlamento è ferma una legge che potrebbe rimettere in moto la sfida all’illegalità
spazzato via per dar vita a un ufficio (all’interno del Dipartimento della Funzione Pubblica) con compiti analoghi, ma con appena 20 dipendenti, una sola autovettura e pressoché nessun risultato concreto all’attivo. Le risorse a disposizione della lotta alla corruzione, anziché essere incrementate, sono state ridotte di oltre due terzi (basti pensare che a Singapore, l’ente istituito con le stesse finalità, conta circa 800 dipendenti).
A combattere questo male endemico e corrosivo per le fondamenta della democrazia, sono rimaste dunque solo magistratura e Forze dell’Ordine, il cui lavoro quotidiano - già in esubero rispetto agli scarsi mezzi a disposizione - non lascia loro tempo e modo per occuparsi delle complesse e talvolta lunghissime indagini sui reati di corruzione. A questo si aggiunga il grave danno economico inferto al paese dal dilagare di tali reati (circa 30 miliardi di euro l’anno). Eppure l’iter di approvazione del ddl in materia di corruzione procede con una lentezza inaudita, cosicché tutti i buoni propositi in esso espressi - l’ineleggibilità dei politici colpiti da condanna giudiziaria, l’inasprimento delle pene per i casi più gravi, l’obbligo di pubblicare su Internet autorizzazioni, concessioni e appalti pubblici - rimangono ad oggi lettera morta.
Risorse. La Cgia di Mestre ha calcolato i finanziamenti dello Stato al Lingotto: 7,6 miliardi di euro
I conti in tasca alla Fiat “italiana” di Alessandro D’Amato
ROMA. Più di sette miliardi e mezzo di euro. Questa è la cifra che, secondo i calcoli della Cgia di Mestre, la Fiat ha percepito negli ultimi trent’anni in aiuti statali: «7,6 miliardi i finanziamenti che lo Stato italiano ha erogato alla Fiat tra il 1977 e il 2009. Una cifra importante, che ha toccato la dimensione economica più rilevante negli Anni Ottanta. In questo periodo di profonda ristrutturazione di tutto il settore automobilistico mondiale, Fiat ha ricevuto dallo Stato italiano oltre 5,1 miliardi di euro. A fronte di questi dati, le affermazioni fatte nei giorni scorsi da Sergio Marchionne mi sembrano quanto meno ingenerose», dice Giuseppe Bortolussi, segretario dell’Associazione Artigiani e Piccole Imprese.
La Cgia si è presa la briga di fare i conti in tasca alla società torinese. In dettaglio dal 1990 in poi gli investimenti, a carico dei contribuenti italiani, erogati per la costruzione degli impianti di Melfi e Pratola Serra, sono calcolati da Bortolussi a quasi 1,28 miliardi, mentre per le ristrutturazioni a
Melfi, tra il 1997 e il 2000, e a Foggia, tra il 2000 e il 2003, la Fiat «ha incassato rispettivamente 151 milioni e 121,7 milioni». Per gli incentivi alla rottamazione lo Stato avrebbe inoltre perso altri 465 milioni. E parliamo di una cifra arrotondata per difetto: «In questa analisi - conclude Bortolussi - non abbiamo tenuto conto dell’im-
ti, D’Alema, Goria, Ciampi, Amato, Prodi e Berlusconi alle voci ristrutturazione, innovazione e formazione. E ricordando il superbollo del Divo Giulio per bloccare la proliferazione del Diesel e l’Alfa Romeo venduta da Prodi al Lingotto nonostante le offerte di Ford, Opel e General Motors. Intanto, su Milano Finanza, è Angelo Di Mattia che ricorda un altro momento decisivo per la storia di Fiat: «Perché l’amministratore delegato ogni volta che rievoca il 2004 ricorda il suo ruolo salvifico e non il ruolo che ebbero le banche del famoso convertendo nel salvare la grande impresa dal baratro del fallimento? Sta di fatto che Marchionne trovò diversi miliardi in seno alla società derivanti dal convertendo, dall’operazione General Motors come congegnata da Paolo Fresco e da altre operazioni minori».
Il segretario di artigiani e piccole imprese Giuseppe Bertolussi, analizza gli investimenti pubblici per la costruzione di Melfi e Pratola Serra porto sostenuto per l’erogazione degli ammortizzatori sociali. Tra il 1991 e il 2002 la spesa è stata pari a 1,15 miliardi di euro. Un’entità, che è bene ricordare, è stata sostenuta anche dalla Fiat e dai suoi dipendenti». Anche se c’è chi spara più in alto: sul Giornale si arriva alla cifra monstre di 100 miliardi, calcolando però in toto le cifre investite dai governi De Mita, Andreot-
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isogna avere ancora un caos dentro di sé per partorire una stella danzante...» Al manifesto neofuturista presentato a Milano martedì scorso la citazione di Nietzsche s’attaglia come un vestito su misura. Che si tratti d’un caos che si promette creativo d’altra parte lo capisci già dalla misticanza – termine che piace molto ai futuristi di Fli – dei presentatori e sottoscrittori del manifesto d’ottobre. Al Teatro meneghino Franco Parenti, a lanciare l’appello «per una rinascita della res pubblica e per un nuovo impegno culturale», c’erano la filologa classica Monica Centanni,vicina a Futuro e libertà; Fiorello Cortiana, ecologista di lungo corso già animatore verdi italiani ed europei; Peppe Nanni, animatore del Forum delle Idee, vecchia guardia della nuova destra di Marco Tarchi e dirigente di An a Milano; Carmelo Palma, direttore della Fondazione Libertiamo, legata all’esponente del Pdl ed ex radicale Benedetto Della Vedova.
«B
Tra i sottoscrittori lo storico del medioevo Franco Cardini, ascendenze cattoliche e di sinistra nazionale, Luciano Lanna lo scenografo, assieme a Filippo Rossi del fascismo immaginario, Luca Barbareschi, attore di area lib-lab, Mauro Ceruti senatore Pd e Linda Lanzillotta deputata rutelliana, ma anche l’islamista Omar Camiletti e il realista politico Alessandro Campi, direttore scientifico della fondazione Fare Futuro. Insomma un’antropologia che più plurale non si può, a suo agio nell’affiancarsi e aderire a un evento manifesto che assomiglia pur nella forma un po’retrò dell’appello intellettuale assomiglia a un flash-mob, a una sortita situazionista che apre scenari più che definirli. Del resto sono le stesse idee mobilitate dal manifesto a generare la cifra e l’esito post-moderno della commistione dei generi, il cortocircuito (altra parola mantra dell’intellighentia finiana) delle posizioni, dei linguaggi e delle idee. «Non c’è politica senza un pensiero di rottura delle consuetudini usurate» dicono i neofuturisi, «occorre abbandonare la retorica che inchioda il futuro al passato»; «l’ arteriosclerosi ideologica della ripetizione infeconda», «Superando le vecchie e inaridite appartenenze, congelando le ossessioni e i ricatti delle memorie ferite la politica rinasce nel punto in cui si incontrano immaginazioni diverse che congiurano per un nuovo patto politico». Sarebbe infatti in atto, secondo i fosforescenti estensori del manifesto «un sommovimento geologico delle categorie della politica e, in questa accelerazione dei tempi, la forza dinamica sprigionata dalla crisi può essere convertita in energia produttiva». Un sommovimento geologico…”addirittura”... potrebbe esclamare il minimalista scettico che in questo linguaggio dai toni epocali sente magari l’eco di retoriche tardo ideologiche. Ma certo agli autoconvocati di Milano va riconosciuto il merito d’aver mosso acque da lungo tempo stagnanti e scure, d’avere almeno messo in campo il tema della connessione necessaria e perduta tra cultura e politica in un tempo in cui queste due dimensioni vanno divaricandosi con esiti ora deprimenti ora grotteschi. Con una politica che nelle sue variabili paradossalmente più colte arriva snobisticamente a dire che la cultura non si mangia e con una cultura che si riduce a orpello, fauna intellettuale da talk show, opinionismo da showbiz. L’egemonia sottoculturale la definirebbe Massimo Panarari. «Azione politica e impegno intellettuale: l’obiettivo è
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Liberali o comunitari? Atlantisti o filoarabi? Laici o cattolici? Bastano gli slogan
La rivoluzione d’Ottobre dei finiani «Legami tra politica e cultura»; «Oltre i vecchi schieramenti». Il manifesto degli intellettuali di Futuro e Libertà è pieno di «sturm und drang», ma non spiega cosa sia la destra nuova di Riccardo Paradisi
accrescere il capitale sociale rappresentato dall’intelligenza e dalle virtù civili degli italiani – si legge invece nel manifesto d’ottobre – la qualità di una Città e del suo futuro si misura sulla virtù e sul merito dei suoi cittadini. In questa accelerazione dei tempi, la forza dinamica sprigionata dalla crisi può essere convertita in energia produttiva. La principale sfida politica e intellettuale che attende l’Italia è trovare la misura per riconoscere, chiamandoli con nuovi nomi, quanti
sanno governare il presente e progettare il futuro, rispetto a quanti difendono l’esistente come il miglior mondo possibile. Il compito richiede coraggio – virtù politica per eccellenza». Belle idee, vasti programmi, ma volendo zavorrarli con un po’ d’esprit de geometrie anche generiche. Perché è vero che «Non c’è politica senza un pensiero che anticipi e accompagni l’azione trasformatrice», che «il principale compito intellettuale della politica consiste nel riaccendere l’imma-
ginazione progettuale della società» ma restando nel contenuto del manifesto e passando dall’impeto alla forma si dovrebbe chiarire come la politica dovrebbe «rispondere con parole e azioni adeguate alle opportunità e alle sfide della scienza e della tecnologia nell’era della globalizzazione», con quali «forme procedurali e istituzionali» si vogliono «governare i processi e i progressi dell’innovazione», su quale ”ricerca” investire strategicamente: nel nucleare per dirne una, o nell’energia verde? Si certo le nuove sintesi, lezione e portato della nuova destra di Tarchi alla cui scuola, i principali estensori del manifesto, hanno studiato e sono cresciuti, ma insomma le sintesi poi devono esserci, le scelte almeno individuate.
E non a caso uno degli osservatori partecipati di questo manifesto-evento come Franco Cardini ti dice che si, c’è del materiale buono in questa sollevazione di idee e però non c’è una parola univoca sulla politica estera o sulla politica economica. Sicchè capita che Benedetto Della Vedova, la cui firma appare tra i sottoscrittori del manifesto d’ottobre dica al Sole 24 ore che Fini nella sua critica all’intemerata di Marchionne sull’Italia come zavorra per la Fiat ha avuto solo ”uno scatto d’umore”, Gianfranco è un liberista vero – garantisce infatti Della Vedova – e Futuro e libertà su globalizzazione e mercato non ha più remore e riserve. Curioso che mentre della vedova celebrava Milton Friedman sul Secolo d’Italia Flavia Perina, anche lei sottoscrittrice del manifesto, firma-
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n per tenere insieme persone e progetti uniti solo dal disgusto per l’esistente?
Per Della Vedova Fini è un fan dei Chicago Boys e di Friedman. La polemica con Marchionne? ”Uno scatto d’umore”. Per Perina invece Fini, attaccando l’ad Fiat, ha difeso la dignità nazionale va un appassionato editoriale dove nel Fini censore di Marchionne si salutava il difensore e il vindice della «dignità e dell’interesse nazionale». Tra gli applausi della sinistra finiana memore del sindacalismo nazionale di Corridoni e dell’epopea socialista di Di Vittorio che anche il cerignolese Giuseppe Tatarella, il maestro del capogruppo Fli Italo Bocchino, celebrava come mito della sua giovinezza.
Milton Friedman; in basso, Giuseppe Di Vittorio. Nella foto d’apertura, Gianfranco Fini; nella pagina accanto, i futuristi
E allora d’accordo che oggi la sfida politica può essere «sparigliare le carte e le compagnie del gioco per disegnare nuove coordinate dell’impresa comune» ma insomma la cultura è anche confronto e conflitto regolato, decisione, presa di posizione. Destra e sinistra sono categorie defunte? Si può essere d’accordo ma questo significa solo che le linee divisorie su cui si confronta democraticamente una società plurale si spostano dalle categorie idoelogiche alla dimensione politica più diretta. Per intendersi la bioetica non è di destra o di sinistra ma tra Luca Barbareschi e Franco Cardini, per fare un esempio, c’è una qualche differenza sul modo di concepire il nascere e il morire. Come non deve risultare facilissima la sintesi sulla politica estera e diciamo la missione in Afghanistan tra Benedetto Della Vedova e Omar Camiletti.
Non voleva essere «una litania di valori» il manifesto d’ottobre, d’accordo, «ma un progetto per l’Italia contemporanea, una concreta costruzione di rigore e di impegno civile». Resta però indeterminato francamente il progetto e impalpabile il concetto della concreta costruzione di rigore. Come aerea appare anche la definizione di ”patriottismo repubblicano”: «sentimento che è regola, prima che tradizione, impegno prima che eredità. E che è anche cura del bene comune e dei beni comuni, difesa del paesaggio italiano, consapevolezza collettiva del patrimonio materiale e immateriale». «Patriottismo repubblicano – si legge ancora – è promuovere un’idea espansiva e non pura-
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mente negativa della libertà. La migliore garanzia contro l’ingerenza arbitraria del potere nella sfera della libertà personale è infatti l’attiva partecipazione dei cittadini alla vita pubblica. La politica vive nel nesso inscindibile tra pensiero e azione, tra cittadinanza e partecipazione politica, non nella rigida ”divisione del lavoro”tra rappresentanti e rappresentati, che aliena gli uni e gli altri e degrada la vita pubblica, spingendola alle opposte derive tecnocratiche e populistiche». Enunciazione di nobili principi, denunce condivisibili, analisi sottoscrivibili.
Ma se in queste parole c’è un sentiero percorribile oltre il bosco, si fa fatica a vederlo. «La politica laica protegge, custodisce, riveste la nuda persona di tutti i diritti civili che vanno precisamente declinati e garantiti», si legge ancora nel manifesto. Niente da eccepire anche se colpisce che a lato della necessaria laicità ribadita e reiterata a ogni piè sospinto anche da Gianfranco Fini non ci sia una parola sul vero incandescente tema del ventunesimo secolo, su quella biopolitica cioè che rischia davvero di immettere un’intera civiltà nell’era del post-umano. E a proposito di diritti civili la loro evocazione riguarda anche il superamento della famiglia per come la conosce la tradizione europea? Per carità, da un manifesto «politicamente trasversale, non organico e non collaterale», che si limita a «disegnare una cornice costituzionale comune» non si può chiedere la precisa articolazione d’un programma. E va benissimo l’obiettivo minimo, peraltro degnissimo, di riavvicinare politica e cultura, di rimettere al centro il lavoro intellettuale per combattere il crescente sentimento antipolitico: «Abbiamo fatto un lavoro di sottrazione rispetto ai tanti contributi che ci sono arrivati» spiega ancora Peppe Nanni illustrando filosofia e intenti del manifesto. E però, insomma, qui non si tratta di «ricatti delle precedenti contese, che sono tutte guerre civili, reducismo, faide, rendite di posizione». Non si tratta di tic identitari, né di coazioni all’aut aut. Piuttosto di legittimi interrogativi di chi vorrebbe capire cosa potrebbe esserci dopo «il varco aperto dalla rupture di Fini» nel quale si vogliono ora incanalare filoni diversi. Monica Centanni risponderebbe che Manifesto d’ottobre non è collaterale a nessuno. E sarà sicuramente vero, ma insomma se Fini è solo un varco d’apertura a che cosa lo è? Cardini per esempio, ancora lui, ha già inarcato il ciglio all’ipotesi di dare vita a un nuovo “partito liberale di massa”e «all’impostazione atlantista e occidentalista”mentre come si diceva Benedetto DellaVedova deve ricorrere all’ermeneutica degli umori finiani per far tornare la linea di Fli. C’è qualche problema.«Bisogna avere ancora un caos dentro di sé per partorire una stella danzante», si diceva all’inizio citando il buon vecchio Nietzsche. Diciamo che è ancora in fase di gestazione creatrice questa destra nuova, la stella danzante che un giorno vedrà la luce oltre il varco aperto da Fini. Ma lo stato nascente, la fase aurorale, cominciata per tanti firmatari del manifesto trent’anni fa, dovrà un giorno vedere la luce. Essere qualcosa e non più tutto. Scegliere insomma. Declinarsi, smettere di essere originale. Guadagnare la posizione adulta insomma. Non solo perché è sempre un po’triste invecchiare nelle eterne avanguardie, ma perchè sarebbe utile per l’Italia avere una cultura politica, a destra come a sinistra, consapevole di sè e in pace con la propria storia e con la storia del Paese.
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L’analisi. Il più grande dissidente cinese accusa: «Oramai i comunisti lasciano che sia soltanto l’economia a parlare»
Un Plenum svuotato Il Partito si riunisce in seduta plenaria E non affronta neanche un problema di Wei Jingsheng a V Sessione plenaria della Commissione centrale del Partito comunista cinese che si è appena conclusa ha ottenuto enorme attenzione, dai media nazionali e internazionali. Questa si spiega perché, oltre al tradizionale piano quinquennale, sono stati discussi tre argomenti molto difficili e di grande interesse per tutti noi. Il primo argomento è quello della successione. In un sistema autoritario, una questione del genere assume molta più importanza per il popolo rispetto a quella che provoca l’elezione di midterm per gli americani. Questo perché, in un sistema democratico come quello statunitense, le politiche di base dello Stato non cambiano molto se cambiano i deputati o il presidente. Quelle politiche più efficaci, che caratterizzano la nazione, rimangono come sono. E questo perché tutte le politiche messe in atto traggono la propria giustificazione giuridica dal Congresso. Il presidente e il suo governo propongono le leggi, ma non le fanno. Quindi i cambiamenti di questa nazione seguono un’orbita più morbida, non fanno su
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e giù in maniera brusca. La situazione della Cina è molto diversa. Persino la gente comune è molto preoccupata per la politica. Perché? Perché l’esperienza storica ci insegna che è un piccolo numero di persone che decide politiche e leggi. Un nuovo dirigente, per affermarsi, dà fuoco a tre grandi pire: e queste, il più delle volte, finiscono con il bruciare gli interessi del-
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re aperto”, e che quei lupi con intenti criminali fossero finalmente divenuti vegetariani. La terza questione è ancora più difficile: riguarda l’enorme deficit commerciale che gli Stati Uniti hanno nei confronti della Cina e che ha colpito l’intera ripresa economica mondiale. Gli Stati Uniti e l’Europa non devono più essere costretti ad aspettare per vedere soddisfatta la
Si è soltanto sancita la successione al potere: Xi Jinping prenderà il posto di Hu Jintao in due anni. Ma dei temi sociali e della riforma valutaria non si è neanche discusso, in una nebbia pericolosa la popolazione. Gli ideali dei singoli cittadini poveri differiscono molto poco fra di loro, mentre la politica cambia così tanto che è difficile seguirne le evoluzioni. Allo stesso modo, sempre più occidentali fanno affari con i cinesi: ed ecco perché anche loro sono interessati ai cambiamenti della leadership del regime comunista. La seconda questione inusuale in discussione è l’eco di una riforma politica. Nei due mesi precedenti all’incontro, il premier Wen Jiabao e un gran numero di media hanno parlato di una riforma politica su larga scala: hanno fatto talmente tanto rumore che l’hanno fatta sembrare reale. Tanto che qualche miope ha iniziato a ballare per la gioia, eccitato come uno stolto. Questi hanno pensato che fosse arrivato il momento di interagire con il Partito“a cuoIl vice presidente Xi Jinping, che sarà il prossimo leader cinese. A destra un’operaia e, in alto, Wen Jiabao e Hu Jintao al Plenum. Nella pagina a fianco, Thorbjorn Jagland
loro richiesta di una riforma valutaria. La strategia di sviluppo economico cinese è a un bivio, ma i leader comunisti si sono confrontati senza un chiaro risultato finale. E questa è la questione che preoccupa di più la comunità internazionale. La questione della successione si è
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zione c’è un dato semplice: sia la cricca di Hu Jintao che quella di Wen Jiabao sono gravate dagli altri problemi, la riforma politica e la questione economica. In questi due ambiti sono tutte e due di minoranza dentro il Partito, e quindi hanno bisogno di alleati. Inoltre, nessuno voleva vedere una guerra fratricida. Quindi Xi Jinping è riuscito comodamente a ottenere il ruolo di successore. Questo avviene spesso in politica: quando i due contendenti litigano, il terzo gode. Sono le altre due questioni che non si sono risolte. La
verso la repressione di questo tipo di resistenza. Tuttavia, non hanno avuto molto successo. Essenzialmente il loro messaggio era “pace, razionalità e non violenza”, in un tentativo di “interagire positivamente” con il regime comunista. Ma le persone costrette in un angolo, senza possibilità di scelta, non hanno accettato questa teoria. Quando in gioco c’è la sopravvivenza stessa della popolazione, con la posizione del Partito estremamente chiara sull’argomento, non si può prendere in giro in questo modo la gente. Ecco per-
risolta in maniera morbida, fra la sorpresa generale. In un primo momento, infatti, questa sembrava una diatriba di difficile risoluzione dato che c’erano due fazioni in gara che non volevano farsi da parte. Secondo la pratica comune, tutto si sarebbe dovuto decidere lo scorso anno: eppure si rischiava di finire in una battaglia aperta. Quindi nessuno si aspettava una soluzione così morbida; in effetti, è l’unica cosa che si è risolta. Dietro questa solu-
riforma politica è un problema serio, anche perché il regime comunista è al momento in una posizione precaria. Questo è un fatto che molte persone possono vedere: ma le risposte a questo fatto non sono uguali. Ricordo, qualche anno fa, un gruppo di intellettuali che contestava la “politica della folla” su larga scala e che denunciava la resistenza popolare, che diveniva sempre più forte. Questi intellettuali cercavano di convincere e guidare l’opinione pubblica
ché coloro che, all’interno della dirigenza, hanno una visione chiara della situazione sanno bene che – se non si trasforma la società cinese in una democrazia di tipo occidentale – è impossibile risolvere i problemi del Paese. Nel caos, sarebbe proprio la classe dirigente a cadere come prima vittima della rabbia popolare. Invece di diventare le vittime di una rivoluzione, è meglio percorrere la strada della riforma seguendo un sistema legale che consenta
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Un articolo del presidente della Commissione che ha assegnato il Nobel
Ecco perché abbiamo premiato Liu Xiaobo «Gli Stati-nazione sono tenuti a rispettare i diritti umani. La Cina, invece, li viola in maniera ripetuta: vanno difesi» di Thorbjorn Jagland a condanna pronunciata dalle autorità cinesi contro l’assegnazione del Premio Nobel per la pace 2010 a Liu Xiaobo, il dissidente cinese e attivista politico oggi in carcere, illustra pur senza volerlo perché è necessario difendere i diritti umani. Le autorità sostengono che nessuno ha il diritto di interferire negli affari interni della Cina. Ma sbagliano: la legge internazionale sui diritti umani e gli standard di rispetto di questi diritti sono sovranazionali, e la comunità internazionale ha il compito di assicurare che vengano tutelati. Il sistema moderno di Stato è nato dall’idea di sovranità nazionale uscita dalla pace di Westfallia del 1648. Al tempo, si riteneva che la sovranità dovesse incarnarsi in un governante autocratico. Ma le idee sulla sovranità sono cambiate nel tempo. La Dichiarazione americana di indipendenza e la Dichiarazione francese dei diritti dell’uomo e del cittadino hanno rimpiazzato il controllo autocratico con la sovranità popolare, che diventa la fonte della legittimazione del potere nazionale. L’idea di sovranità è cambiata ancora una volta nell’ultimo secolo, dato che il mondo si è spostato dal nazionalismo all’internazionalismo. Le Nazioni Unite, fondate al risveglio del mondo dopo due disastrose guerre mondiali, hanno impegnato gli Stati membri a risolvere le proprie dispute con metodi pacifici e hanno definito i diritti fondamentali di tutti gli uomini con la Dichiarazione universale. Lo Stato-nazione, dice il testo, non avrà più l’ultima e illimitata parola. Oggi, i diritti umani universali forniscono uno strumento di controllo sulle maggioranze arbitrarie in giro per il mondo, controllando se siano o meno delle democrazie. Una maggioranza parlamentare non può decidere di colpire i diritti di una minoranza, o tanto meno votare delle leggi che minano i diritti umani. E anche se la Cina non è una democrazia costituzionale è comunque un membro dell’Onu, e ha emendato la propria Costituzione per adattarla alla Dichiarazione. Tuttavia, l’imprigionamento di Liu dimostra chiaramente che la legge penale cinese non è in linea con la Costituzione. È stato accusato di “aver fatto circolare delle falsità e di aver usato altri mezzi per sovvertire il potere statale o rovesciare il sistema socialista. Ma in una comunità mondiale basata sui diritti umani universali, un governo non ha il compito di mettere a tacere opinioni o pettegolezzi. I governi sono obbligati ad assicurare il diritto alla libertà di espressione, anche se chi parla si appella a un differente sistema sociale. Questi sono diritti che la Commissione per il Nobel sostiene da tempo, onorando coloro che li proteggono con il Premio per la Pace. Fra questi ci sono Andrei Sakharov, per la sua battaglia contro gli abusi ai diritti umani nell’Unione Sovietica, e il reverendo Martin Luther King jr per la sua lotta a favore dei diritti civili negli Stati Uniti. Non sorprende che il governo cinese abbia criticato duramente questo Premio, accusando la Commissione di aver interferito nei suoi affari interni e aver voluto umiliare la Cina agli occhi
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un’evoluzione di tipo pacifico: questa strada salverebbe le vite e i beni di queste persone. Questo pensiero ha convinto un numero di persone di successo nel campo dell’economia, della politica e della cultura a unirsi in un gruppo – la “fazione riformista” – all’interno del Partito comunista cinese. La loro motivazione è chiara: per salvare proprietà e reputazione da una violazione mortale resta soltanto una riforma politica.
Tuttavia, queste persone non sono quelle principali nella burocrazia interna. Gli attuali dirigenti in carica e i loro parenti, quelli che non hanno fatto abbastanza denaro, pensano che la popolazione non lascerà andare via i leader comunisti senza vendicarsi. Questo settore ha la maggioranza assoluta sia nei numeri che nella gestione del potere. Hu Jintao è il loro capo, e il successore Xi Jinping farà del suo meglio per calcarne le orme. Quindi, anche se i riformisti hanno l’appoggio della popolazione e dell’opinione pubblica, non possono cambiare la situazione. La loro debolezza dimostra inoltre che non saranno mai la maggioranza. Infine c’è l’ultima delle questioni importanti, la riforma del sistema economia. Il Partito dovrebbe continuare a ferire il popolo cinese, e a mettere in pericolo l’economia mondiale, tramite il cosiddetto “modello cinese”? O non dovrebbe la Cina muovere verso un’economia di mercato reale e corretta? Questo dibattito nasce dal tentativo occidentale di costringere Pechino ha rivalutare con la forza lo yuan. Su questo tema i riformisti e i conservatori la pensano allo stesso modo, perché entrambi hanno interessi coperti soltanto dal si-
stema vigente. In altre parole, l’attuale e squilibrato sistema è la condizione basilare che gli permette di ottenere benefici economici. Insieme ai capitalisti occidentali, si oppongono con forza alla rivalutazione dello yuan, a un corretto commercio internazionale e alla riforma del cosiddetto “modello cinese”. Si oppongono alla creazione di un vero mercato interno di consumatori cinesi. Soltanto questo modello e la tirannia politica gli garantiscono di continuare a fare soldi. Negli Stati Uniti tutti vogliono imporre sanzioni alla scorretta posizione cinese: soltanto la Camera di Commercio americana si oppone: proteggono Pechino per continuare a ottenere profitti eccessivi.
Eppure, all’interno del Partito c’è una fazione molto potente che promuove la riforma economica. Alcuni dei membri di questa fazione sono preoccupati per la vita dei cittadini; altri temono l’insostenibilità di questo sviluppo economico; altri ancora si chiedono se il regime potrà salvarsi se continua su questa strada. Dopo tutto, avere contro il mondo intero e la propria popolazione viola un tabù che gli strateghi militari impongono da sempre. Violare questo tabù porterà un fato oscuro alla leadership comunista. Non importa da quale punto di vista la si guardi: la riforma di questo sistema economico irrazionale deve esserci. È in questo punto che si incontrano gli interessi della popolazione, ed è sempre qui che si gioca la ripresa economica globale. I trend mondiali sono difficili da fermare, e l’alleanza fra i cinesi e i capitalisti stranieri, alla fine, non funzionerà più. Speriamo che non si sfoci nella violenza.
del palcoscenico internazionale. Al contrario, la Cina dovrebbe essere orgogliosa di essere divenuta così potente da essere nel mirino di dibattiti e anche critiche. È interessante che il governo cinese non sia stato l’unico a criticare la nostra Commissione. Alcuni hanno detto che assegnare questo Premio a Liu potrebbe peggiorare la condizione di coloro che combattono per i diritti umani in Cina.
Ma questo è un argomento illogico: porta infatti alla conclusione secondo cui, per promuovere al meglio i diritti umani, conviene stare zitti. Se rimaniamo in silenzio nei confronti della Cina, chi sarà il prossimo a chie-
Alcuni criticano la scelta del Premio: ma se rimaniamo zitti davanti alle violazioni dei diritti, rinunciamo alla nostra umanità dere il diritto al silenzio e alla non interferenza? Questo approccio, inoltre, ci condurrebbe a una politica di svuotamento della Dichiarazione universale e dei diritti umani di base. Non dobbiamo e non possiamo rimanere in silenzio. Nessuna nazione ha il diritto di ignorare i propri obblighi internazionali. La Cina ha ogni ragione per essere orgogliosa di ciò che ha ottenuto negli ultimi 20 anni.Vogliamo vedere questo progresso continuare sulla giusta strada, ed è per questo che abbiamo dato il Premio a Liu. Se Pechino vuole avanzare in armonia con le altre nazioni, divenendo un partner chiave per la comunità mondiale, deve per prima cosa garantire la libertà di espressione a tutti i suoi cittadini. È una tragedia che un uomo venga imprigionato per 11 anni soltanto per aver espresso la propria opinione. Se vogliamo andare verso la fratellanza di nazioni di cui parlava Nobel, i diritti umani devono essere la nostra pietra miliare.
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Strategie. Passa la linea dura sulla riforma delle pensioni, nonostante le proteste on il voto - scontato dell’Asseblea nazionale, da ieri è legge in Francia la riforma delle pensioni voluta a tutti i costi da Nicolas Sarkozy. Certo, le proteste continueranno. Uno sciopero è già indetto per oggi e il partito socialista ha annunciato un ricorso al Consiglio costituzionale che, a sua volta, deve approvare la legge. Un’altra giornata di astensione generale dal lavoro è stata programmata per il 6 novembre: guarda caso, proprio quando a Parigi ci sarà il presidente cinese Hu Jintao che con il capo dell’Eliseo - ora alla guida anche del G8 e del G20 - deve discutere di parità tra yuan, euro e dollaro. Il disegno dei sindacati è chiaro: se fermare la riforma delle pensioni, ormai, è un’operazione disperata, l’obiettivo è diventato quello di indebolire il più possibile l’immagine del presidente il cui mandato scade tra soli 18 mesi. È un braccio di ferro che va ben oltre il problema di portare da 60 a 62 anni il limite minimo per andare in pensione e Sarkozy ha scelto la linea dura non soltanto per dare al Paese un sistema pensionistico più sostenibile, ma per riaffermare il suo profilo di leader decisionista che non cede alla tentazione di barattare un compromesso in cambio di una tregua e di un periodo di pace sociale.
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Jacques Chirac, nel 1995, ritirò il suo progetto di riforma delle pensioni davanti alle proteste e questo precedente, per il suo successore e amico-nemico, era già un motivo sufficiente per scegliere la strategia opposta. Tra l’altro, con una popolarità precipitata al 29 per cento, Nicolas Sarkozy non ha più nulla da perdere come ha notato anche il Wall Street Journal: «Cedere da-
Sarkozy non molla la troika europea La svolta decisionista del capo dell’Eliseo che teme un asse tra Merkel e Cameron di Enrico Singer
Obama (e di fronte a lui il russo Medvedev) con i tre big europei: Sarkozy, Merkel e Cameron re all’Eliseo e li vuole giocare da protagonista. La sorte gli offre adesso il turno di presidenza del G8 e del G20 in un momento di grandi scelte internazionali, soprattutto in campo economico, e Sarkozy è ben deciso a pre-
Anche la successione del francese Jean-Claude Trichet alla guida della Bce entra nel grande risiko: Parigi è contraria al tedesco Axel Weber vanti all’irruenza della piazza non gli garantirebbe certo la rielezione e sancirebbe, al contrario, la distruzione della sua eredità politica». Forse, recuperare il consenso perduto e sperare in una rielezione all’Eliseo nella primavera del 2012 è un’operazione altrettanto disperata come quella di chi vuole fermare la riforma delle pensioni, ma la strategia di Sarko è proprio questa. Ed è l’unica possibile. Anche perché, comunque, gli restano quei diciotto mesi da passa-
sentarsi sulla scena mondiale come un leader forte e autorevole che non rinuncia al suo piano di ammodernamento della Francia. Non solo. Nicolas Sarkozy vede all’orizzonte un altro pericolo: finora a governare la Ue o, almeno, a dettarne le politiche più rilevanti - l’ultimo esempio è l’aggiornamento del Patto di stabilità - è stato l’asse tra Berlino e Parigi, tradizionale locomotiva del treno europeo. La Gran Bretagna è stata sempre il terzo “grande”, ma la sua posizio-
Trenta miliardi per nuove infrastrutture
E Londra copia Pechino La crescita record del Pil (+2,8 rispetto allo scorso anno e +0,8 rispetto all’ultimo trimestre) è stato il miglior regalo per David Cameron che ha appena presentato in Parlamento il suo piano di lacrime e sangue per rimettere a posto i conti pubblici della Gran Bretagna. E gli ha consentito di presentarsi con maggiore autorevolezza davanti agli imprenditori a spiegare la linea di politica economica elaborata con il suo giovane ministro dell’Economia, George Osborne (nella foto). «Non mi imbarcherò nello sterile dibattito tra il laissez-faire e l’interventismo del governo», ha detto il premier parlando all’assemblea annuale della Cbi, la più grande organizzazione degli imprenditori britannici. Il governo interviene già, poiché esso «tassa, regola, investe», ha spiegato Cameron che ha anche annunciato il primo piano nazionale per le infrastrutture un investimento da 30 miliardi di sterline nei prossimi quattro anni - messo in cantiere perché «soltanto infrastrutture moder-
ne favoriscono la cresicta». L’esempio citato da Cameron è la Cina, che «sta costruendo decine di migliaia di chilometri di strade, una nuova ferrovia ad alta velocità e decine di impianti di energia nucleare». Per avere un «nuovo dinamismo, per
generare crescita, posti di lavoro ed opportunità, la Gran Bretagna deve pensare al big business del domani, non soltanto al big business di ieri», ha aggiunto il premier invitando le banche a prestare denaro alla piccola impresa.
ne speciale - segnata anche dalla non partecipazione all’avventura della moneta comune - ha frenato il processo, più volte tentato, di far nascere una vera e propria troika. Ora, però, complice anche l’arrivo del conservatore David Cameron a Downing Street dopo tredici anni di potere laburista (dieci di Tony Blair e tre di Gordon Brown), Sarkozy teme che Angela Merkel guardi a Londra con più interesse e simpatia di quanto non guardi a Parigi. L’asse franco-tedesco, per la verità, ha sempre attraversato fasi di alterna intensità. E quella di oggi non è tra le più felici.
L’ultimo problema è nato sul nome del successore di Jean-Claude Trichet alla presidenza della Banca centrale europea. Il mandato del francese scade alla fine del prossimo anno e Sarkozy nelle ultime settimane non ha nascosto la sua opposizione a una scelta che, a dire la verità, sembrava già fatta: quella del tedesco Axel Weber. La cancelliera Angela Merkel resta determinata a imporre il presidente della Bundesbank alla guida della Bce. Del resto, la straffetta tra un francese e un tedesco era stata decisa sin da quando Trichet fu scelto come successore del primo presidente della Banca centrale europea, l’olandese Wim Duisenberg. Ma il malumore di Nicolas Sarkozy è andato via via crescendo di fronte all’intransigenza di Weber nei confronti di tutte, o quasi, le proposte francesi di revisione del Patto di stabilità. A Parigi c’è chi giura sulla determinazione dell’Eliseo di sbarrare la strada a Axel Weber tanto che ha ripreso quota l’ipotesi della candidatura di Mario Draghi. In questo risiko, però, la prudenza è d’obbligo. Anche perché, sempre nella capitale francese, i bene informati sostengono che Sarkozy avrebbe una lista di altri tre nomi tedeschi per sparigliare la corsa verso la poltrona più ambita della Bce. È tuttavia molto difficile che Angela Merkel permetterà all’Eliseo di decidere chi debba essere il candidato di Berlino alla guida della Banca centrale. Ma è ancora più difficile che si lascerà sfilare una carica così importante che era già sicura di avere in tasca. Anche per questo Sarkozy vuole recuperare una posizione di forza e non c’è molto tempo: il successore di Trichet dovrà mettersi al lavoro a Francoforte da ottobre 2011 e la scelta dovrà essere fatta entro giugno.
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I disastri naturali e gli incendi hanno dimezzato i raccolti
Lo sceicco accusa la Francia e minaccia ritorsioni
In Asia cala la produzione di grano e riso: prezzi in aumento
Osama bin Laden attacca Parigi sul burqa: «Legge ingiusta»
DHAKA. Crescono i prezzi del riso in Asia, dopo che siccità e inondazioni hanno flagellato i raccolti di molti Paesi grandi produttori. Si profila una crisi dei prezzi come nel 2008, ma gli Stati sembrano avere imparato ad affrontare le crisi alimentari. Le inondazioni di ottobre hanno ucciso almeno 162 persone nel sudest asiatico e danneggiato i raccolti di Thailandia e Vietnam, i due maggiori esportatori mondiali di riso. Quest’estate le inondazioni hanno devastato i campi di grano del Pakistan. Il tifone Megi ha flagellato le Filippine. La Russia e altre zone dell’Europa orientale hanno subito la peggiore siccità da 50 anni che ha impoverito i raccolti di grano. Il Dipartimento Usa per l’agricoltura l’8 ottobre aveva abbassato la stima per il raccolto mondiale di riso a 452,5 milioni di tonnellate, 171mila tonnellate in meno rispetto al fabbisogno di Pakistan e Thailandia.
PARIGI. Osama bin Laden torna a far sentire la sua voce e minaccia la Francia. «La vostra ingiustizia è che pensate di avere il diritto di impedire alle nostre donne di mettere il velo», accusa lo sceicco del terrore, in un audio a lui attribuito e diffuso oggi dalla Tv araba al Jazeera. Il riferimento è alla legge 1 che vieta alle donne islamiche di indossare il velo integrale in pubblico, approvata dal Parlamento francese. Nella registrazione, il leader di Al Qaeda sostiene che il rapimento dei francesi in Niger dello scorso settembre è una reazione alle ingiustizie nei confronti dei musulmani. E chiede a Parigi di ritirarsi dall’Afghanistan. «L’unica maniera per conservare la
Ma il dato va rivisto in ribasso dopo i tifoni e le inondazioni nel sud est asiatico a ottobre. Inoltre Prasert Gosalvitra, capo del Dipartimento statale del riso, prevede che la Thailandia, maggiore esportatore mondiale di riso, sia in declino “in modo definitivo”di almeno 1,5 milioni di tonnellate di meno l’anno,
Vulcani e tsunami flagellano l’Indonesia Il bilancio delle vittime continua a salire: oltre 300 morti di Antonio Picasso l bilancio dello tsunami che si è abbattuto sulle coste dell’Indonesia è ancora parziale. Ieri si parlava di trecento morti circa e oltre quattrocento dispersi. Purtroppo però i dati sono destinati a crescere con il passare delle ore. La paura per le popolazioni di isole Metawai e della zona ovest di Sumatra è di rivivere l’incubo del 2004. Sei anni fa, furono l’isola di Giava e quella di Aceh a essere maggiormente colpite dal disastro. Tuttavia, l’intera Indonesia pagò il prezzo più salato del cataclisma. Le vittime totali dello tsunami ammontarono a oltre duecentomila e il 70% di queste si trovava nel Paese del sud est asiatico. Rispetto ai 9,1 gradi di magnitudo del terremoto, che causò l’onda anomala del 2004, il sisma registrato questa volta appare di dimensioni ridotte. Per quanto 7,7 gradi non siano certo pochi. Attualmente i dieci villaggi sulle isole Pagai colpiti dalle inondazioni sono isolati. In contemporanea con il terremoto e lo tsunami, si è verificata l’eruzione del vulcano Merapai. La “montagna di fuoco” è alta quasi tremila metri ed è uno dei più esplosivi al mondo. «Speriamo si plachi - ha dichiarato il vulcanologo indonesiano Surono - altrimenti rischiamo un’eruzione di dimensioni incalcolabili». Il responsabile delle operazioni di soccorso, Harmensyah, ha sottolineato l’urgenza di portare i primi aiuti ai sopravvissuti. «Sono state consegnate delle tende, ma non in numero sufficiente». Le operazioni sono rese complicate anche dal mal tempo che sta affliggendo l’intero arcipelago. Un anno fa, un altro terremoto aveva causato circa mille morti. Il “Cerchio di fuoco”, così com’è chiamata quest’area dell’Oceano indiano, continua a mietere vittime. L’emergenza ha imposto un rientro immediato in patria del presidente indonesiano, Susilo Bambang Yudhoyono, che fino a ieri mattina si trovava ad Hanoi per il meeting annuale dell’Association of South-East Asian Nations (l’Associazione delle Nazioni dell’Asia Sud Orientale, Asean). La classe politica loca-
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le teme le reazioni della popolazione. Il ritorno di Yudhoyono è giustificato dalla necessità di parare il contraccolpo di immagine rispetto al 2004. La Croce Rossa indonesiana ha predisposto oltre un migliaio di tende per l’installazione di aree di accoglienza degli scampati al terremoto e all’inondazione.
Il presidente Obama, memore della sua infanzia trascorsa in Indonesia, ha espresso il proprio cordoglio per la vicenda. L’Italia, dal canto suo, non ha ancora mobilitato le sue forze di pronto intervento. La Protezione civile e il Ministero degli Esteri restano in attesa di un segnale da parte dell’Ue. La Croce Rossa italiana ha inviato un suo rappresentante, Matteo Ciarli, a Jakarta, il quale ha dichiarato che le autorità e la protezione civile indonesiane «sono molto preparate e in grado di affrontare la situazione». Del resto, i tecnici locali sostengono che il disastro non sia minimamente paragonabile con quanto accaduto sei anni fa. Dopo il disastro di allora, infatti, il “cerchio di fuoco” venne circondato da un sofisticato sistema di boe, che dovrebbero fare da cordone di allarme nel caso il livello del mare superasse il controllo. In questo caso, lo stato di emergenza non si è raggiunto. Il 2010, in termini generali, si sta dimostrando l’anno dei grandi disastri naturali. La marea nera che ha colpito il Golfo del Messico, per quanto di responsabilità umana, rimane l’evento più tragico di questi mesi. Non si può dimenticare però il terremoto di Haiti (7,3 gradi della scala Mercalli), autore, a metà gennaio, di mezzo milione di vittime. Il caso è rimasto al centro dell’attenzione mediatica per circa un mese. Poi, una volta che l’emergenza si è stabilizzata, gli obiettivi dei giornali sono stati puntati altrove. Ora l’isola caraibica versa in una drammatica situazione, priva com’è di possibilità economiche e strutturali per la ricostruzione e recentemente colpita da un’epidemia di colera che, finora, ha ucciso circa trecento persone.
Nel 2004 un’onda anomala distrusse Giava e Aceh. A essere colpite oggi sono invece le isole Sumatra e Metawai
pari a circa il 6,5% dei 23 milioni prodotti. Il Dipartimento per la prevenzione dei disastri e il recupero, ha detto oggi che è ancora presto per stimare le perdite conseguenti alle inondazioni che ad ottobre hanno colpito 36 province, colpito 3,2 milioni di persone e danneggiato circa 1,4 milioni di acri di terra agricola. In Pakistan, le inondazioni hanno danneggiato le coltivazioni per circa 2,36 miliardi di dollari) e distrutto 2,39 milioni di tonnellate di riso. I prezzi sono in crescita. Anche se molti Paesi potranno supplire agli scarsi raccolti con le scorte, si prevede che l’anno prossimo bisognerà ricostituirle e aumenteranno i prezzi.
vostra sicurezza è di mettere fine alle vostre ingiustizie verso l’Islam attraverso il ritiro dalla guerra che è stata cominciata da Bush in Afghanistan», dice bin Laden. «Non potete essere complici dell’occupazione dei nostri paesi e dell’uccisione delle nostre donne e dei nostri bambini e poi chiedere di vivere in pace e sicurezza».
«È tempo che sia messa fine all’occupazione diretta e indiretta», afferma il capo di AlQaeda nel messaggio rivolto esplicitamente “al popolo francese”. Parigi, ha aggiunto, deve «trarre la lezione dagli Usa che sono sull’orlo di un fallimento a causa della guerra. Così come uccidete, sarete uccisi. Così come catturate dei prigionieri, sarete presi in ostaggio. Così come minacciate la nostra sicurezza, minacceremo la vostra, ha continuato bin Laden. L’organizzazione terroristica di al Qaeda del Maghreb (Aqmi) ha rivendicato il 21 settembre scorso il sequestro di cinque cittadini francesi nel Niger settentrionale: le autorità di Parigi sarebbero pronte a un negoziato per liberare gli ostaggi, che sarebbero detenuti nel Mali. Tuttavia le autorità locali prendono tempo, sperando di poter risolvere la situazione da sole. ,
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Il convegno. A dieci anni dalla proclamazione del patrono, un gruppo trasversale di parlamentari riflette sul tema della razionalità e della fede
Nel segno di Thomas More L’esempio del santo intercessore dei governanti e dei politici come faro per tutti i cattolici impegnati nelle istituzioni di Paola Binetti
ono trascorsi 10 anni da quando un gruppo di parlamentari di schieramenti diversi, ma con una analoga e profonda ispirazione cristiana, celebrò quella che è stato chiamato il Giubileo della Politica. Dieci anni che oggi un gruppo di parlamentari e di uomini di cultura vuole rievocare presentando alla Camera un libro dedicato a San Thomas More, che in quell’occasione Giovanni Paolo II proclamò santo intercessore dei politici. Molte le suggestioni che restano ancora valide a distanza di pochi anni, nei quali abbiamo assistito a cambiamenti profondi, senza però assistere a veri progressi in tema di etica, solidarietà e rispetto per la dignità della persona.
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In quella occasione, per esempio, vennero presentate tre mozioni che conservano ancora oggi una sorprendente validità, anche perché agli impegni e alle parole di allora sono seguiti ben pochi fatti. E in un certo senso è da lì che intendiamo ripartire per rilanciare una visione politica di ampio respiro, animata da una forte tensione etica che sappia far prevalere il valore e la dignità della persona umana rispetto a qualunque tipo di logica di mercato. La prima mozione riguardava il debito estero dei Paesi poveri, la seconda la dignità e la libertà della persona e la terza lo stretto rapporto che lega etica e globalizzazione. Non c’è dubbio che oggi assistiamo a nuove forme di povertà che esplodono all’interno di Paesi sufficientemente industrializzati, ma incapaci di gestire sia le recenti crisi finanziarie sia i flussi migratori. Nel frattempo si accentua vistosamente il divario tra Paesi ricchi e Paesi a tal punto che non è più possibile definirli paesi in via di sviluppo, perché sembrano
condannati a uno stato cronico di sottosviluppo. Dieci anni fa la mozione presentata dai parlamentari sottolineava come il peso del debito estero fosse un freno intollerabile all’attuazione di politiche per lo sviluppo sociale ed economico. Molti Paesi dovevano, allora ma anche oggi, destinare al pagamento del debito una quota che superava di oltre cinque volte quanto riuscivano a destinare alla sanità all’istruzione, all’accesso all’acqua potabile, al sostegno allo sviluppo. Ma nello stesso tempo la mozione denunciava coraggiosamente l’improrogabile necessità di riformare le istituzioni finanziarie internazionali, che non erano state in grado né di impedire «devastanti ondate speculative con gravi conseguenze sulle economie più deboli», né di promuovere quelle politiche di sviluppo basate sulla sostenibilità umana e ambientale. Il quadro di valori proprio del Giubileo sembrava costituire la cornice più adatta per rilanciare la solidarietà umana a livello nazionale e sovranazionale. Eppure dopo il primo fortissimo impatto emotivo e dopo una ondata di consenso che sembrava aver coinvolto in modo globale il mondo politico, nulla si è più fatto, se non ancora tante parole e tante promesse, le une e le altre con scarsa capacità di passare ai fatti concreti. La mozione sulla Dignità e sulla libertà della persona umana, dopo aver ribadito la sostanziale uguaglianza di tutti gli uomini senza pregiudizi di sorta, entra nel vivo delle finalità proprie della vita politica, ribadendo come a lei e a lei sola spetti il primato di attenzione e di tutela da parte della comunità politica, rispetto a qualsiasi altro interesse. Non si parla di temi non negoziabili, un linguaggio che è entrato solo successivamente nell’uso del mondo politico, ma si afferma come il primato della persona deve fare da guida nella ricerca del progresso e del benessere generale. Un primato che comincia con la tutela della vita, della famiglia e dell’educazione e comporta l’obbligo imprescrittibile di rispettarne e farne rispettare la dignità, «specialmente mediante l’affettiva accoglienza nella comunità civile». In poche righe la mozione pone alla responsabilità di tutti i parlamentari e attraverso di loro alla responsabilità di tutti i governi, il tema della vita e della famiglia, della formazione e dell’inclusione. Un linguaggio sobrio e scarno che dimostra la perenne
vitalità di certi valori che pur non appartenendo in esclusiva alla Chiesa cattolica, hanno pur sempre avuto proprio nella Chiesa cattolica il più saldo e costante sostegno. Sono molti gli impegni sottoscritti dai politici di allora attraverso questa seconda mozione e oltre alla vita e alla famiglia includono il diritto alla libertà religiosa, che ancora oggi sembra porre interrogativi drammatici in molti Paesi affetti da una vera e propria cristiano fobia. Anche qui c’è una denuncia coraggiosa di moderne forme di schiavitù e di sfruttamento che hanno per oggetto soprattutto le donne e i bambini. E non manca un appello a tutto il mondo politico, in particolare ai governanti, perché nel loro agire politico ritrovino i loro fondamenti etici, alla luce della loro coscienza e in una rinnovata riscoperta dei valori umani in vista del bene comune e non solo di interessi di parte. Sullo stesso filo conduttore si muove anche la terza mozione su Etica e globalizzazione, che fin dal suo inizio recita: «Ai rappresentanti dei popoli in un periodo di grandi trasformazioni globali è riservato l’arduo compito di salvaguardare il ruolo della politica, evitando il prevalere di interessi e di impulsi comunque parziali e disaggreganti». Per proseguire subito dopo dicendo: «Nessun progresso scientifico o tecnologico può porsi come antitetico alla legge morale obiettiva, che è punto di riferimento per la legge civile in quanto norma naturale iscritta nel cuore dell’uomo». Non c’è dubbio che su queste due affermazioni a distanza di 10 anni si potrebbe rilanciare un dibattito politico in chiave autenticamente globale per un recupero della legge naturale come fonte del diritto positivo e come espressione della norma morale oggettivamente considerata. Chissà se la crisi ulteriore a cui la politica è andata incontro in questi ultimi 10 anni non abbia la sua causa proprio nella dimenticanza di questi principi, di cui oggi più che mai tutti sentiamo una profonda nostalgia.
Non si riesce a rilanciare un dialogo costruttivo tra le diverse parti politiche in questo nostro mondo dilaniato dalle aggressioni reciproche, dal discredito per l’avversario, e dal rifiuto ostinato ad individuare spazi di collaborazione al servizio del bene comune. In un’ottica puramente autoreferenziale ciò che è venuto meno è proprio il riferimento a una comune legge naturale, a una stessa fonte di valori a cui ispirarci tutti, ognuno per proprio conto e sulla base della propria responsabilità, ma tutti con uno sguardo condiviso verso il bene comune. Titolo della mozione era allora Etica e globalizzazione, ma oggi viene voglia di lanciare una nuova sfida che
suoni più o meno così: globalizzare l’etica per riportare la politica nella direzione che le compete. Una politica che perda di vista un ethos comune è una politica destinata a un processo di inesorabile autodistruzione, e non a caso in questi ultimi mesi anche il presidente Napolitano è tornato più di una volta su questo punto e da Benedetto XVI sono arrivati nuovi e accorati appelli a tutti i governanti, non solo per l’Italia. Il convegno che si svolge oggi alla Camera, promosso dal Cenacolo degli Amici di Thomas More, una associazione nata recentemente tra politici di diversi schieramenti, uomini di cultura con diverse specializzazioni, intende promuovere una occasione di riflessione e di dibattito sulla complessità dell’azione politica in chi desidera agire in coerenza con la propria coscienza. La scelta di
La presentazione del libro alla Camera
“Il primato della coscienza” Oggi, alle 15 e 30 presso la Sala del Refettorio della Camera dei Deputati, la presentazione del libro Il primato della coscienza, omaggio a St. Thomas More. Il volume, che ospita gli interventi di Binetti, Buttiglione, Casu, Conso, Corsini, D’Agostino, Sindoni e Salvi, esce nel X anniversario della proclamazione di More a patrono dei governanti e dei politici.
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umana che cerca risposte concrete a quesiti che pur nella loro intrinseca difficoltà, sono però capaci di interpellare la nostra capacità di ragionamento. Non a caso è pronto a giurare fedeltà al Re e offre una formula alternativa a quella che gli propongono i suoi giudici, una formula in cui verità e fedeltà non entrano in conflitto tra di loro; per quanto dipende da lui non desidera essere infedele e tanto meno finire sotto la ghigliottina. Ma è proprio la sua fedeltà alla verità, considerata nella sua nuda oggettività, quella che i suoi giudici non possono e non vogliono accettare, postulando anzi tempo una opzione di evidente matrice relativistica. Non è vero ciò che è vero, ma ciò che il re sostiene essere vero; all’ossequio alla verità si sostituisce l’ossequio all’autorità, senza tener conto che quest’ultima è possibile e doverosa sempre e solo nel momento in cui anche l’autorità si pone in atto di docilità verso la verità. È questa la modernità di Thomas More, che continua a porre da oltre cinque secoli la stessa domanda su quale sia il fondamento della legge, di qualunque legge, per valutarne l’impatto vincolante per la vita di ognuno di noi, tanto più se si tratta di parlamentari chiamati a fare le leggi.
Oggi gli amici vecchi e nuovi di St. Thomas More vogliono ripartire da qui, in un rinnovato sforzo di approfondimento della sua persona, della ricchezza provocatoria del suo umanesimo innovatore e decisamente capace di anticipare tanti aspetti del dibattito contemporaneo anche in materia di educazione. Ma vogliono inter-
The House of Tudor
More come santo protettore dei politici, fu fatta da Giovanni Paolo II in occasione del grande Giubileo del 2000, ma fu sollecitata da numerosi parlamentari tra i quali Francesco Cossiga occupa indubbiamente un ruolo di primo piano. Una scelta emblematica che ha fatto discutere molto allora e che oggi viene riproposta alla riflessione di tutti con l’obiettivo di rilanciare il primato della coscienza nell’agire pubblico di ogni cattolico. Anche quando l’agire in coscienza può aprire la strada a conseguenze tutt’altro che facili di accettare, come appare chiaramente nella vita di S. Tommaso Moro e come si ripete nella quotidianità di chi sperimenta proprio in ragione della propria coerenza ai valori proposti con insistenza dalla propria coscienza, una sorta di marginalizzazione politica. In realtà la coerenza ha sempre un costo e vale nella misura in cui esprime il coraggio con cui ognuno di noi si dispone a una testimonian-
In queste pagine: la copertina del libro “Il primato della coscienza”; un’illustrazione di Thomas More; la famiglia Tudor: Enrico VII, Enrico VIII, Edoardo VI, Elisabetta I, Maria I, Lady Jane Gray za personale anche e soprattutto in controcorrente rispetto a un pensiero omologato e a posizioni considerate mediamente politically correct. La crisi politica di questi ultimi anni, i frequenti episodi del cosiddetto trasformismo parlamentare hanno spesso una stessa radice nel conflitto di coscienza che è facile sperimentare in tempi di confusione e di magmatico cambiamento. C’è chi cambia di radicamento perché non si riconosce più nel partito in cui era inserito e c’è chi cambia perché è in cerca di nuove opportunità politiche. Dall’esterno è pressoché impossibile giudicare gli uni
e gli altri, proprio perché è una scelta che matura nel santuario della propria coscienza, la cui voce può essere messa a tacere con grande difficoltà. Di questo More resta insuperabile maestro, nella tensione profonda con cui ha cercato di vivere la sua piena fedeltà a Dio e al Re, in una prospettiva di laicità che ha ancora molto da suggerire a tutti noi. Anche sotto il profilo giuridico c’è in lui lo sforzo di rispettare fino in fondo i piani delle rispettive competenze: quelle della Chiesa e quelle del Re. Il punto di snodo, quello in cui è possibile la massima convergenza tra i due sistemi, è il rispetto della legge morale, considerata come espressione della legge naturale, presente alla coscienza di tutti gli uomini. Thomas More, mentre riafferma la sua fedeltà a Enrico VIII, riafferma anche la sua fedeltà alla verità, all’intelligenza
rogarsi anche senza false reticenze su cosa significhi oggi essere cattolici impegnati in politica, su quanta strada resti ancora da percorrere per raggiungere quell’agire in scienza e coscienza, guidati da una razionalità rigorosa ma purificata dalla fede. Dieci anni fa, dopo un percorso durato parecchi mesi caratterizzato da un lavoro fatto in commissioni diverse, i parlamentari della XIII legislatura raggiunsero un punto d’accordo nelle tre mozioni che presentarono a Giovanni Paolo II, assumendosi un impegno solenne davanti a “tutto il mondo”. Oggi vogliamo rinnovare quell’impegno, anche tra quanti allora non eravamo presenti in Parlamento. Si tratta di una proposta aperta che speriamo venga accolta trasversalmente, così come trasversalmente fu presentata 10 anni fa. Siamo consapevoli che quelle tre mozioni sulla cancellazione del debito pubblico dei Paesi poveri, sulla dignità e sulla libertà della persona e sul rapporto che lega etica e globalizzazione, in realtà stanno ancora aspettando delle risposte operative da tutto il mondo politico. Oggi, come 10 anni fa.
cultura
pagina 20 • 28 ottobre 2010
a l’altro ieri esiste un premio Renzo Foa che verrà assegnato tutti gli anni a giugno. L’inziativa di istituirlo è stata presa dal Comune di Bettona e dalla Fondazione Liberal. A darne notizia sono stati il sindaco della bella cittadina umbra, Lamberto Marcantonini e l’assessore alla Cultura Rossella Lispi nel corso della presentazione di Ho visto morire il comunismo, il libro di Renzo uscito postumo, con un’introduzione di Lucetta Scaraffia, per le edizioni Marsilio.
D
In una sala piena di gente, il dibattito è proseguito per quasi due ore e mezzo. Al centro due temi che sono corsi paralleli in tutti gli interventi: da una parte la crisi del comunismo,dall’altro il cammino profondo e doloroso di revisione di Renzo Foa. Il libro – come ha raccontato Ruggero Ranieri – si compone di una serie di saggi che raccontano della guerra del Vietnam e della macelleria cambogiana polpottista, del crollo dell’Urss e dei sistemi dell’Est visti attraverso gli incontri con Gorbaciov e Dubcek, del caso Polonia e del ruolo avuto da Wojtila e da Reagan nella fine dell’ultimo totalitarismo, della dittatura cubana filtrata con gli occhi di un prigioniero politico rimasto in carcere 28 anni. Poi ci sono i saggi sulle “cattive compagnie”, quelle che lo hanno accompagnato per tutta la vita e che avevano anticipato con la loro testimonianza gli orrori del comunismo: da Kravcenko a Koestler alla Buber Neumann. Per Ranieri il modo di atteggiarsi di Foa è proprio quello dell’intellettuale europeo. Il suo modo di analizzare la crisi dell’Est, il peso e il valore che da una figura quale quella di Wojtila, il riconoscimento della scelta anti appeasement di Reagan collocano questo libro nel novero della saggistica sviluppatesi nel ventennio succesivo al crollo del Muro nel Vecchio Continente. Giovanni Belardelli si è invece soffermato con particolare attenzione su quelle che ha definito le due parole chiave dell’analisi di Renzo Foa: libertà e individuo. L’autore proprio quando racconta la guerra del Vietnam, annota come in quella temperie storica si confuse il concetto di liberazione con quello di libertà. Liberazione però è un moto collettivo. Protagoniste ne sono le masse e non coincide con la libertà. Anzi, ci può essere liberazione senza che ci sia libertà. Del resto in Vietnam andò proprio così. La libertà riguarda strettamente la sfera individuale. O è individuale o non è. Ed è proprio la scoper-
Qui accanto e sotto, due immagini di Renzo Foa. Sotto, la copertina di «Ho visto morire il comunismo», il libro presentato nei giorni scorsi a Bettona. In basso, le copertine degli altri volumi di Renzo Foa pubblicati dalle edizioni «liberal»
cammino dà conto nella sua «bellissima introduzione» (la definizione è di Ripa di Meana) Lucetta Scaraffia che anche a Bettona ha preso la parola per raccontare il “cammino” dell’amico. Ha parlato della “grande libertà di pensiero” di Renzo. Quella libertà che fa scrivere a lui, laico, considerazioni fra le più acute sul Gesù di Benedetto XVI. Il Papa ne rimase colpito e volle autografare il libro e inviarglielo. Del resto, quella totale mancanza di pregiudizi, quella piena libertà di giudizio – ha ricordato Scaraffia – Renzo se l’era guadagnata prendendosi la responsabilità piena di tutto ciò che aveva fatto e detto. E pagando tutto a caro prezzo. Per questo forse gli studenti universitari che ascoltarono un suo intervento su un altro suo libro, “In cattiva compagnia”– a conclusione del seminario di Lucetta Scaraffia – rimasero molto colpiti. Forse perchè i suoi scritti comunicavano non solo riflessioni e idee, ma anche le sue emozioni, la sua fatica, il suo dolore.
Iniziative. Nasce a Bettona un riconoscimento nel nome di Renzo Foa
Un premio al pensiero anticonformista di Gabriella Mecucci
Dal prossimo anno, la cittadina umbra lo assegnerà a una personalità della cultura e della politica
ta di questa netta distinzione che produce – secondo Giovanni Belardelli – un cambiamento profondo nel modo di pensare di Renzo Foa. La seconda notazione di Belardelli è meno teorica e più esistenziale. L’autore di Ho visto morire il comunismo è partecipe della storia che racconta. Si prende tutte le responsabilità degli errori che ha fatto: li dichiara apertamente, ammette di aver sbagliato,va alla ricerca delle ragioni del grande abbaglio. Un comportamento molto diverso – ha osservato Belardelli - è invece quello tenuto dalla grande maggioranza dei dirigenti ex comunisti che hanno fatto finta di non essere stati partecipi del totalitarismo, che non hanno fatto i conti con la loro stessa storia.
E sul filone esistenziale si è collocato anche l’intervento di Carlo Ripa di Meana. Si è occupato con particolare attenzione del cammino di Renzo dalla critica del comunismo verso il progressivo avvicinamento al cristianesi-
mo. Il suo impegno nel sottolineare il ruolo del dissenso sovietico e nel mettere bene in evidenza l’importanza della decisione di Ronald Reagan di non concedere nè tregue nè sconti ai totalitarismi dell’Est. Ripa di Meana ha ricordato uno scritto di Foa in cui si cita la felicità di Sharansky, privato della libertà perchè dissenziente, quando viene a sapere che il presidente americano ha definito l’Urss «l’impero del male». Ripa ha poi segnalato il saggio scritto da RenzoFoa su Gesù, «una riflessione di straordinaria profondità» che segna il suo avvicinamento al Cristianesimo. Di questo
L’ultimo a parlare è stato Ferdinando Adornato, l’amico con il quale Renzo ha collaborato nell’impresa di liberal per più di dieci anni. I due hanno avuto un percorso politico comune: la critica serrata del comunismo e poi la scelta liberale con l’impegno di «favorire l’incontro fra laici e cattolici». Adornato ha ricordato come «la centralità della ragione» dell’illuminismo francese – diversamente da quello anglosassone – possa determinare relativismo e illiberalità. Mentre la libertà si sposa con la «centralità della persona». Utilizzando questa chiave diventa del tutto comprensibile il passaggio dal comunismo, figlio della “centralità della ragione”, verso il Cristianesimo che considera fondamentale la “persona umana”. Quello di Renzo non è stato dunque un cambiamento dovuto alla vicinanza della morte, o aduna scelta sbrigativa, ma il frutto di un percorso che è andato in profondità. Adornato ha poi ricordato che la “Fondazione Liberal” lavorerà per far crescere il premio intestato a Renzo. Perché vada, anno dopo anno, a chi non si piega al conformismo. Ma sceglie la strada opposta, quella dell’ ”irregolare”.
spettacoli
28 ottobre 2010 • pagina 21
Danza. L’esplorazione dei colori attraverso il corpo: ecco la “Compagnia Damasco Corner”, formata da ballerini non vedenti
Le nuances della vita, a occhi chiusi di Diana Del Monte tlante del bianco è un viaggio immaginario nel mondo dei colori, un’ispezione del non colore per eccellenza che scinde le frequenze cromatiche attraverso l’arte del gesto. All’interno di una boîte scenica di un bianco luminoso, gli interpreti sembrano afferrare, tastare, saggiare le onde elettromagnetiche, scivolando tra una frequenza e l’altra, capaci di percepire con i sensi le gradazioni cromatiche oltre il limite del mondo visivamente accessibile. Il risultato è che, occasionalmente, alcuni colori rispondono alle sollecitazioni degli interpreti, scatenandosi in tinte pure sui teli della scenografia.
nelle città e nei luoghi del bacino mediterraneo per costruire, passo dopo passo, una grande geografia del gesto; un lavoro sulla stratificazione di una gestualità solo apparentemente uguale, partito a fine marzo da Marsiglia e che prevede una prossima tappa a Barcellona, nel 2011. Un macroprogetto, quello de “L’accademia sull’arte del gesto”, che include anche la Damasco Corner. «Il lavoro con i ragazzi di Atlante del bianco – ci ha spiegato il coreografo – nasce proprio da una mia esigenza particolare legata a tutto quello che è, poi, tutto il mio percorso: una sensuologia, un sentire, un percepire, un fare un’esperienza diversa attraverso il corpo. A me quello che interessa è nelle cose nascoste, molto nascoste – ha continuato Sieni – come loro riescono a riattivare una muscolatura un po’ più marginale per riaddrizzarsi, riequilibrarsi, sentire il “balance”; come loro procedono nello spazio attraverso non tanto i tastamenti plateali, quanto piuttosto degli spostamenti che attivano una muscolatura molto diversa dal vedente; come il loro corpo riesce a strutturarsi per fare tutto ciò. Così, mi introducono ad una dimensione diversa del bello».
A
Lo spettacolo, che è stato ospitato in prima assoluta al Festival Vie di Modena, ha segnato il debutto ufficiale della Compagnia Damasco Corner, un gruppo di danzatori non vedenti riuniti dal coreografo Virgilio Sieni ai Cantieri Goldonetta di Firenze. È stato proprio negli spazi del Cango che Atlante del bianco ha trovato un’altra scatola magica, dal 21 al 26 ottobre, per poi ritirarsi fino a data da definire. Accolto in un parallelepipedo di voile bianchi leggerissimi, il pubblico fiorentino ha assistito a questo viaggio di soli trenta minuti in un universo ignoto che si conclude con l’invito di Giuseppe, attore principale della pièce, sussurrato nell’orecchio di un fortunato spettatore: «Chiudi gli occhi, se vuoi ti porto a fare una passeggiata». E se il consiglio è sicuramente quello di gettarsi fra le braccia di Giuseppe – non appena vi chiede di farlo, ovviamente – Atlante del bianco rimane uno spettacolo per gli amanti della poetica di Sieni, assorbita pienamente e
una serie di workshop e presentazioni pubbliche che coinvolgevano sia performer vedenti che non vedenti, Atlante del bianco è il prodotto del percorso artistico di questi due giovani interpreti, iniziato circa due anni fa. «Sin dal primo momento – ha spiegato Sieni – ho parlato con Giuseppe, che è stato il primo, e gli ho detto “guarda a me non interessa lavorare per un singolo spettacolo, ma, se sei d’accordo, vorrei portare avanti un discorso completo, un’esperienza completa, di trasmissione e informazione di tutto quello che posso trasmetterti e che tu puoi trasmettere a me”». La volontà di conoscenza reciproca e di sperimentazione rientra nelle ormai consolidate esigenze artistiche del coreografo toscano
denti, danzatori professionisti ed amatori: «L’unico requisito richiesto – ha spiegato Sieni – è l’ardore nei confronti del progetto ed una grande disponibilità ad aprirsi». Un luogo della pratica e della sperimentazione corporea sul gesto contemporaneo che ha portato Oro, coreografia del 2009 ispirata al De Rerum Natura di Lucrezio, tra gli abitanti di Scampia, di Ravenna e di Siena – dove la compagnia ha una residenza artistica dal 2005 – e che nel 2010 si è aperto al bacino
Il progetto “Atlante del bianco” è realizzato dal coreografo Sieni: all’interno di una boîte scenica, gli interpreti sembrano afferrare, tastare, saggiare le onde elettromagnetiche, scivolando tra le frequenze sapientemente dai suoi due allievi, Giuseppe Comuniello e Filippa Tolaro. Il debutto della Damasco Corner ha ancora tutto il carattere del transitorio, del lavoro in itinere, ma propone ugualmente quel sapore un po’ esclusivo, che richiede allo spettatore disponibilità e apertura, caratteristico di una pièce intelligente. Ne consegue che non è uno spettacolo per tutti, ma, d’altra parte, non desidera neanche esserlo. Anticipato da
che dal 2007 dirige “l’Accademia sull’arte del gesto”, una scuola basata su un continuum di progetti sul tema del gesto che si sviluppano attraverso cicli di incontri regolari.
L’ex saloncino Castinelli nel quartiere Santo Spirito di Firenze, oggi sede centrale sia della Compagnia Virgilio Sieni che della scuola fondata dal coreografo, ha ospitato bambini, adolescenti, anziani, non ve-
del Mediterraneo con “l’Arte del gesto nel Mediterraneo”. Quest’ultimo progetto artistico di Sieni dedicato al Mare nostrum è un lavoro itinerante che propone un percorso quadriennale
Alcune immagini del progetto “Atlante del bianco”, ideato dal coreografo Sieni e realizzato con la “Compagnia Damasco Corner”, formata da danzatori non vedenti
Il percorso che ha portato alla nascita della Damasco Corner è maturato al fianco della compagnia di Sieni “Dorina ha partecipato a Oro e Filippa, adesso, è con noi in Tristi Tropici”. I due anni che hanno anticipato la nascita della nuova compagnia hanno visto molti ostacoli e mutamenti: si è passati dal solo Giuseppe ad un quartetto, per poi tornare ad un duo che, oggi, vede impegnati solo Giuseppe e Filippa. La nascita di una compagnia professionale, d’altra parte, indica chiaramente che il lavoro con la Damasco Corner non è destinato a rimanere “una tantum”: «Dopo il 26 – ha chiarito il coreografo – inizio con loro un percorso tecnico per qualche mese, e poi da gennaio ci metteremo a lavorare per creare un’altra piéce più ampia; l’idea è quella di riportarlo ad un quartetto».
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE
Terzigno, la camorra alimenta l’emergenza. Un business da 1 miliardo Continuano gli scontri a Terzigno, dove sorgerà la più grande discarica d’Europa, in grado di accogliere 3 mln di tonnellate di rifiuti. Alle popolazioni locali va tutta la nostra solidarietà, ma condanniamo e condanneremo sempre ogni forma di violenza: nessuno ha la bacchetta magica per far sparire i rifiuti, da qualche parte devono pur essere stoccati e se in questo momento è stata scelta la soluzione tampone di Terzigno, il nostro senso civico ci obbliga ad adeguarci senza inscenare ogni giorno guerriglie urbane tali da rendere puntualmente necessario l’intervento dell’esercito. Di fatto, la regione Campania è ancora in piena emergenza ed ogni giorno finiscono in strada 2000 tonnellate di rifiuti.Un’emergenza che, dati alla mano, costa 1 miliardo di euro all’anno: un business su cui la camorra ha messo le mani fin dall’inizio, alimentandolo con gli scontri e le lotte armate contro gli impianti. Con i nostri sportelli informativi ambientali aperti in 100 comuni stiamo ottenendo degli ottimi risultati e sensibilizzando la popolazione a differenziare, nell’ambito del progetto “Il nostro rifiuto, la vostra risorsa” ma un’ottima raccolta differenziata potrebbe essere inutile, data la totale assenza di impianti.
www.ilnostrorifiutolavostrarisorsa.info
ESTENDERE I CONTROLLI A TUTTI GLI AUTOTRAPORTATORI Il ministro Matteoli dovrebbe intervenire per distribuire in modo omogeneo le attività ispettive sia nei confronti degli autotrasportatori stranieri sia nelle zone dove statisticamente sono inferiori. Sarebbe un dato distorsivo per la concorrenza se i controlli venissero eseguiti soltanto sulle aziende italiane; se, invece, gli accertamenti si commettessero solo in certe zone del Paese a rimetterci sarebbero sempre i nordici e, d’altro canto, nel Sud i cittadini non verrebbero tutelati dai rischi come dovrebbero. Ci sono autisti che guidano ininterrottamente per un periodo di tempo insostenibile e ci sono automezzi sovraccarichi o non rispettosi delle condizioni di sicurezza previste dal codice della strada. Il ministro valuti la necessità di introdurre una norma che preveda il sequestro del
mezzo nel caso in cui alla guida risulti un clandestino oppure una persona che non sia idonea ai requisiti del codice stradale.
Alberto Torazzi
EDITORIA. FIEG: BENE LA FIRMA DEL DECRETO SULLE TARIFFE POSTALI La Fieg accoglie con soddisfazione la firma da parte dei ministri Romani e Tremonti del decreto contenente le nuove tariffe postali per la spedizione dei giornali in abbonamento e dà atto dello sforzo compiuto da tutti gli uffici coinvolti per accelerare, dopo il parere positivo del sottosegretario Bonaiuti, la conclusione dell’iter di approvazione del decreto. La vicenda che ha portato a tale positiva conclusione ha preso avvio dopo che Fieg e Poste avevano siglato, ben tre mesi fa, a seguito di una serrata e difficile trattativa, un accordo che prevede tariffe non più agevolate e quindi senza al-
La febbre del lunedì mattina Tra una scorpacciata di nocciole e l’altra questo scoiattolino ha trovato un po’ di tempo da dedicare al suo passatempo preferito: esibirsi in una serie di “pose” alla John Travolta. Del resto l’autunno è una stagione faticosa per il roditore, tutto preso ad accumulare e nascondere le provviste per l’inverno
cuna contribuzione statale, ma ridotte rispetto alla tariffa piena. In sostanza uno sconto, in considerazione del volume delle spedizioni complessivamente effettuate dal settore, rispetto alla tariffa piena che era divenuta improvvisamente e imprevedibilmente applicabile dal 1° aprile 2010 per effetto del decreto di sospensione della tariffa agevolata con un aggravio di costi pari al 120% insostenibile dalle imprese. Il decreto, che recepisce i termini di quell’intesa quadro, è un atto senza oneri per lo Stato,
L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
che contribuisce a rasserenare il clima e a consentire agli editori - pur a costi significativamente incrementati - di mantenere il proprio impegno nella cura e nello sviluppo di un canale di vendita, quello degli abbonamenti, che è essenziale per il settore editoriale e che, se solo vi fossero nel nostro Paese condizioni di efficienza analoghe a quelle presenti da anni in altri Paesi europei e del mondo, potrebbe essere ben più consistente e solido.
Lettera firmata
da ”Der Spiegel online” del 27/10/10
È il libero mercato, “mein lieber” tedeschi stanno vivendo alcune esperienze di libero mercato. Nel dopo crisi finanziaria, le ultime incrostazioni delle rigidità del modello renano erano state eliminate. Ma a Berlino ci devono fare ancora l’abitudine e talvolta perdono il sonno. Entrano in confusione, presi tra reazioni protezionistiche e la consapevolezza di essere ormai completamente inseriti in un contesto europeo e internazionale, dove l’innalzamento di barriere non farebbe che danneggiarli. Sono preoccupati della facilità con cui imprese straniere possono allungare le mani su quelle made in Germany.
sato» della vicenda, niente che potesse impressionare la controparte spagnola, secondo lo Spiegel. Gli esperti temono che sia in arrivo un’ondata di acquisizioni non amichevoli sui bocconi più prelibati dell’economia tedesca. Almeno una dozzina tra le prime 100 aziende sarebbero considerate «a rischio». Secondo il quotidiano economico Handelsblatt la lista includerebbe società importanti come Infineon, Rheinmetall, Mtu aero engines, Aixtron e la biotecnologia Qiagen. Tutte queste azienda hanno un azionariato diffuso, quindi nessun socio muscolare che possa difenderle in Borsa. Un altro esempio di balena da fare a pezzi è il gigante dell’energia E.on, valutata circa 42 miliardi di euro.
I
Francia e Spagna da lungo tempo hanno posto rimedio ai takeover ostili sulle proprie aziende, con una legislazione che pone vincoli e contro-vincoli: una specie di campo minato per gli investitori stranieri con cattive intenzioni. E la Cancelliere Angela Merkel aveva anche meditato se fosse il caso di rivedere la legge che regola il settore, anche in Germania. Il caso è nato, come descritto sul Der Spiegel da Dietmar Hawranek e Janko Tietz, dal tentativo di una grande impersa di costruzioni spagnola di acquisire il controllo della tedesca Hochtief. Si tratta di un gigante dell’edilizia, sommerso dai debiti. Il sospetto del governo di Berlino e che gli spagnoli, che navigano in cattive acque anche loro, vogliano solo eliminare un pericoloso concorrente. E, vendendo alcuni pezzi dell’impresa tedesca, pagare qualche debito. Un incubo per il ministro dell’Economia, Rai-
ner Bruderle, che considera questo un esempio di libero mercato, diciamo in una sua «perversione» non auspicabile sulle rive del Reno. La Merkel stessa si è mossa presso l’emiro del Qatar per far intervenire un fondo sovrano che mettesse fuori gioco gli spagnoli. Finanza islamica in soccorso dell’economia teutonica è un’immagine ancora più stravagante. Forse a Berlino si sono accorti di aver agitato troppo le acque e hanno fatto marcia indietro, almeno a parole. La scorsa settimana, il portavoce del governo, Steffen Seibert, dichiarava che dopo un attenta «investigazione» sul caso Hochtief non erano stati rilevati gli estremi per proporre una modifica della legge sui tekeover in senso più restrittivo. Il governo si dichiarava però «un osservatore interes-
Ora che Berlino ha puntato tutto sull’esportazione e sui mercati esteri, riuscendo a integrasi bene con i meccanismi della globalizzazione, ha paura di pagare il dazio di tanta fortuna. Un dilemma che vorrebbe risolvere attraverso l’Europa, per evitare l’imbarazzo di un nuovo caso Opel. Sarkozy ha difeso lo yogurt, Zapatero l’Endesa proprio dai teschi di E.on. In Inghilterra un acquirente che superi il 30 per cento di una società è obbligato a proporre un’Opa al prezzo più alto pagato nei 12 mesi precedenti. Ma Berlino cerca di resistere alle tentazioni protezionistiche, perché sa che in ballo c’è il nuovo modello di sviluppo renano che, per il momento, li portati fuori dalle secche della crisi e in maniera piuttosto rapida.
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog LE VERITÀ NASCOSTE
In America paghe ridotte agli obesi NEW YORK. Negli Stati Uniti l’obesità è una vera e propria emergenza, infatti ben due terzi degli americani sono soprappeso, e più del 30 per cento è clinicamente obeso. Secondo uno studio, nel 2015 le persone con almeno 10 chili in sovrappeso saliranno al 75 per cento, mentre gli obesi saliranno addirittura al 41 per cento. Questa situazione ha anche risvolti economici: alcune aziende americane sono ormai stufe di pagare assicurazioni sanitarie sempre più costose per i loro dipendenti. Infatti il conto delle assicurazioni è quasi raddoppiato negli ultimi anni, soprattutto a causa del fatto che i dipendenti assicurati sono fumatori oppure obesi, con una conseguente
maggiore esposizione a malattie cardiocircolatorie e al diabete. Con risultati impressionanti: si calcola ad esempio che i soli costi sanitari incidano ormai per oltre 1500 dollari su ogni auto venduta dalla General Motors. Questo sta spingendo alcune aziende a tagliare lo stipendio ai dipendendi che non rientrano in parametri di peso che li pongano al riparo da maggiori rischi per la salute. Questa mania salutistica non è una novità negli Usa, dove da tempo è in atto una crociata contro il fumo, con aziende che effettuano esami del sangue e licenziano i dipendenti a cui viene trovata nicotina nel sangue. Ovviamente, non mancano le polemiche, dato che oltre a violare
ACCADDE OGGI
ANNICHILIMENTO DEL PRINCIPIO DELL’EGUAGLIANZA Reputo assurdo e immorale un provvedimento (Lodo Alfano) che dimezza, anzi, svilisce il principio di eguaglianza dei cittadini italiani davanti alla legge. Ancora più assurdo e immorale è che il primo provvedimento messo in atto dal governo subito dopo la fiducia ottenuta lo scorso settembre sia stato proprio il lodo Alfano. La validità retroattiva, inoltre, rende ancora più odioso il provvedimento. Assistiamo ormai a una sorta di annichilimento sfacciato del principio dell’eguaglianza.
Margherita
SPERIAMO CHE TREMONTI NON CEDA AL PRESSING DI PALENZONA Continua a far discutere la richiesta del presidente di Adr e Assaeroporti, Fabrizio Palenzona relativa allo sbocco delle tariffe aeroportuali. Richiesta accolta positivamente dal ministro Matteoli, che ha assicurato una soluzione in tempi brevi. Ma non solo, anche il Premier in questi giorni ha espresso un parere positivo al provvedimento «riconoscendo il problema di semplificare ed equiparare le tariffe italiane a quelle europee, per consentire gli investimenti previsti con la sottoscrizione dei nuovi contratti di programma a partire dal 2011». Tuttavia manca ancora l’assenso di Giulio Tremonti, che da circa un anno tiene fermo il decreto interministeriale che dovrebbe riconoscere ai grandi scali un aumento di almeno tre euro a passeggero in partenza per sbloccare gli investimenti a Roma e Milano calcolati in circa 5 miliardi di euro in dieci anni. Se il provvedimento dovesse andare avanti, gli utenti si ritroverebbero un aggra-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
28 ottobre
8 8 6 New York: il presidente Grover Cleveland inaugura la Statua della Libertà 1891 Viene fondata, da coloni italiani, Nova Veneza nello Stato di Santa Catarina in Brasile 1918 La Cecoslovacchia ottiene l’indipendenza dall’Austria-Ungheria 1919 Stati Uniti: inizia il proibizionismo 1922 Marcia su Roma di Mussolini 1929 New York: lunedì nero in borsa 1932 Inaugurazione ufficiale della Rovato - Soncino e dell’esercizio della completa linea ferroviaria Cremona - Iseo 1940 Seconda guerra mondiale: l’Italia invade la Grecia 1958 Viene eletto Papa Giovanni XXIII (Angelo Giuseppe Roncalli) 1965 Roma: Papa Paolo VI promulga l’enciclica Nostra Aetate 1995 Baku: un grave incendio si sviluppa nella metropolitana della capitale dell’Azerbaijan causando numerose vittime
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
la privacy, questi atteggiamenti salutistici non hanno confini ben definiti. Lewis Maltby, presidente del Centro per i diritti dei lavoratori, sottolinea come il fumo non sia l’unico stile di vita che incide sulla salute, e di questo passo saranno penalizzati anche i dipendenti che sciano, che mangiano panini o facciano sesso non protetto.
vio di tre euro sul costo del biglietto. Di conseguenza a colmare il gap di competitività con gli scali internazionali, accumulato negli anni, saranno i cittadini, gli stessi che soffrono delle criticità dei sistemi aeroportuali italiani. Non bisogna cedere al pressing di Adr e Assaeroporti, e mantenere la posizione finora assunta o trovare delle soluzione che non vadano ad incidere negativamente sugli utenti.
Lettera firmata
FARMACI: OCCHIO ALLA SCADENZA Secondo I dati riportati dalla banca dati di Ims Health, in Europa i farmaci generici rappresentano quasi la metà delle confezioni di medicinali dispensate ai cittadini europei, mentre in Italia la quota di mercato dei farmaci generici è inferiore al 20%. Nel 2009 gli italiani hanno speso di tasca propria oltre 400 milioni di euro per coprire la differenza di prezzo tra il farmaco generico, rimborsato dal Ssn al prezzo di riferimento e il corrispondente farmaco di marca (nel solo primo semestre 2010 oltre 260 milioni di euro). La ragione principale di tali discrepanze nelle quote di mercato sta nella variabilità dell’efficacia delle diverse politiche sanitarie nel favorire la penetrazione dei generici e nelle continue campagne denigratorie sulla qualità di tali medicinali. L’11 ottobre scorso è andato in onda, durante il Tg1 delle 20, il servizio “Farmaci: occhio alla scadenza”, i farmaci generici venivano descritti come farmaci con una scadenza inferiore rispetto ai farmaci di marca e in sovrimpressione appariva inoltre la scritta “farmaci generici, vita più breve”. Sarà vero?
Donatella
Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Robert Kagan, Filippo La Porta,
Direttore da Washington Michael Novak
Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,
Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)
Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Collaboratori
Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,
Maria Pia Ammirati, Mario Arpino,
Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,
Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi,
Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,
Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,
Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,
LO SFRUTTAMENTO PIÙ ANTICO DEL MONDO Il tema della prostituzione continua a dividere: molti vorrebbero cambiare la Legge Merlin e, come succede in diversi Paesi europei, legalizzarla con lo scopo principale di toglierla dalle nostre strade attraverso la creazione di vere e proprie zone e aree delle città adibite a questo scopo. Nel frattempo le nostre strade continuano ad essere popolate di giovanissime (spesso minorenni) straniere che sono state portate in Italia, con l’inganno, e tenute schiavizzate da varie organizzazioni criminali. Ogni tanto le forze dell’ordine fanno qualche retata e riescono anche ad arrestare i capi delle organizzazioni. È successo anche nella zona tra Pisa e Livorno e il sindaco di Pisa ha ringraziato pubblicamente le forze dell’ordine per il loro lavoro. Giusto. Ma non è poco? Sono ormai diversi anni che tolleriamo situazioni di schiavitù ai margini delle nostre strade, con occhi purtroppo assuefatti all’ingiustizia. Molto di più potrebbe essere fatto e molte donne potrebbero essere liberate da questa schiavitù. Lo ha fatto per anni Don Benzi, con la sua associazione Giovanni XXIII, liberando più di 7000 donne. Le istituzioni hanno il dovere di salvare le vittime, liberarle, aiutarle, garantire loro residenza legale nel nostro Paese, assistenza e difesa. La battaglia contro queste associazioni criminali non sarebbe facile ma, con un serio piano nazionale, potrebbe essere vinta. E invece molto spesso si continua a colpire le vittime, le prostitute straniere, che se espulse dal nostro territorio, rischiano ancor più di rimanere soffocate da questo sistema. Anche gli enti locali potrebbero fare di più e invece si limitano semplicemente a spostare il problema da una zona all’altra. I cittadini si ribellano ma dovrebbero farlo con più forza e vigore. È importante inoltre applicare le norme esistenti, cercando di rompere la complicità di coloro, i clienti, che contribuiscono ad alimentare il mercato del sesso. Combattiamo questa battaglia, anche dal punto di vista culturale, magari anche attraverso incontri nelle scuole. Qualcuno dirà che la prostituzione c’è sempre stata e sempre ci sarà, essendo il mestiere più antico del mondo. Forse si potrebbe ribaltare questo concetto, dicendo che la prostituzione è lo sfruttamento più antico del mondo. Ma qualunque sia il pensiero su questo argomentonon bisogna cedere a logiche di legalizzazione del fenomeno, che rischiano di spostare il problema dall’aperto delle strade al chiuso di appartamenti e night. Carlo Lazzeroni P R E S I D E N T E CI R C O L O LI B E R A L PI S A REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE “VERSO IL PARTITO DELLA NAZIONE” SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)
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ULTIMAPAGINA Schermaglie. Figlio di un boss, è il nuovo beniamino del pubblico e dello share
Ecco Ferdinando, il “bravo guaglione” agli ordini del di Sabrina de Feudis argomento della camorra si è infiltrato anche al Grande Fratello. L’undicesima edizione della casa più spiata d’Italia ha aperto le sue porte al figlio di un boss affiliato alla camorra. Il ragazzo in questione è Ferdinando Giordano, un giovane di 30 anni di Salerno con alle spalle un passato, definito «tormentato».
L’
Da più di una settimana molta stampa ha polemizzato sui criteri di scelta degli inquilini del Grande Fratello. Il voler spettacolarizzare ogni avvenimento, anche il più delicato, non sempre paga. Ma questa volta ha pagato. Basti pensare che la prima puntata del reality show targato Canale 5, ha fatto registrare oltre sei milioni di spettatori, ottenendo lo share più alto di tutta la serata. Lunedì scorso, quando Ferdinando Giordano ha esposto la sua situazione, spiegando che il suo ingresso nella casa è da consi-
ra come commesso e nella vita ricerca solo la serenità che gli è mancata. Quello di Ferdinando è un passato difficile: cresciuto in una realtà dura e disagiata, sarebbe potuto scivolare nell’illegalità come il padre, venuto a mancare otto anni fa, ma lui non l’ha fatto. Ferdinando, invece, ha portato avanti una scelta diametralmente opposta e con grande determinazione e forza di volontà si è costruito una vita pulita e
REALITY sana. «Con mio padre non c’è mai stato un rapporto forte, era abituato a esternare il suo affetto comprandomi degli oggetti. Ci siamo avvicinati soltanto negli ultimi tempi, quando si è ammalato». Il ragazzo ha raccontato anche dei cinque mesi passati a fianco del padre malato. Rimpiange quei mesi perché sono stati troppo pochi, è lì che ha conosciuto il suo vero
è stato a favore dell’ingresso nella casa di Ferdinando. «Sono altre le cose che dovrebbero farci vergognare», ha detto Signorini, ricordando gli episodi di violenza che hanno coinvolto il tassista di Milano, ridotto in fin di vita per aver investito un cane e l’infermiera romena uccisa a Roma, per una fila non rispettata. Per ora sembrerebbe che l’argomento camorra possa essere archiviato, forse fino a quando non si cerchi una nuova impennata negli ascolti. Poi d’altronde di questioni calde su cui argomentare ci sono e ci saranno. Infatti, subito dopo l’attenzione si è focalizzata verso il gigolò, un altro inquilino della casa del Grande Fratello, un operaio in cassa integrazione che per arrotondare il suo stipendio offre amore in cambio di denaro. Di sicuro spunti su cui parlare, o meglio sparlare, in questa nuova edizione non mancheranno. Ormai dopo undici anni di Grande Fratello siamo abituati ad aspettarci di tutto. Dopo l’ingresso nella casa di trans, genitori e figli in piena crisi generazionale, coppie sull’orlo di una separazione definitiva, dopo aver assistito allo sbocciare di nuovi amori e al concludersi di altri, le sorprese continueranno a esserci. Bisogna conservare alta la partecipazione del pubblico, bisogna saper sempre stupire con qualcosa di nuovo, qualcosa che non rispecchi totalmente la realtà quotidiana, ma che risponda in pieno alla voglia di attrarre e conquistare.
ll presidente degli industriali di Napoli, Giovanni Lettieri, ha condannato la partecipazione del discusso concorrente al programma, ribadendo come un argomento così delicato come la malavita non possa essere banalizzato in tv padre. Ferdinando racconta di come lo stringeva forte al petto il suo papà, tutto l’affetto che gli era mancato dal padre, gli è stato restituito gli ultimi cinque mesi della sua vita.
derarsi come un segno di riscatto, l’audience ha subito un’impennata. «Ragazzi leali e rispettosi come me meritano una seconda possibilità. Io non c’entro nulla con la camorra, la mia è un’altra vita», ha dichiarato. Ferdinando ha le idee chiare.Vuole vincere. Ora si è conquistato il pubblico, per il montepremi finale dovrà ancora aspettare. In una sola settimana di permanenza nella casa di Cinecittà, è riuscito a guadagnarsi le simpatie dei telespettatori che l’hanno votato come il preferito. Ferdinando riconosce gli errori fatti dal papà che definisce «un uomo di strada», ma è anche grazie a lui che è riuscito a costruirsi una vita lontano dalla camorra.Vive a Salerno con la madre e la sorella più piccola, alla quale è molto legato, lavo-
Nello studio del Grande Fratello, durante la seconda puntata è intervenuto anche il presidente degli industriali di Napoli, Giovanni Lettieri, il quale ha condannato la spettacolarizzazione che si è fatta da parte di certa stampa sull’ingresso nella casa di Ferdinando Giordano. Lettieri ha ribadito che non vuole assolutamente che un argomento così delicato come la camorra possa essere banalizzato all’interno di un reality show. Dal canto suo Alessia Marcuzzi, conduttrice della trasmissione, ha dichiarato che questo non è l’intento del Grande Fratello, secondo lei il programma televisivo può essere solo un’opportunità di riscatto per Ferdinando. Anche l’intervento di Alfonso Signorini, direttore di Tv Sorrisi e Canzoni e opinionista del reality,
D’altronde il Grande Fratello deve sempre osare di più perché il suo occhio indiscreto non risponde al suo fedele pubblico, ma ai dati d’ascolto forniti il giorno successivo. In fondo questa è la dura legge dei reality show.