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Una metà del mondo non riesce a capire i piaceri dell’altra metà
Jane Austen 9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 3 NOVEMBRE 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Il presidente sui suoi guai: «Meglio andare con le donne che essere omosessuali». E i finiani: «Se non sa governare, lo dica»
Cavaliere, lasci subito
Conviene al Paese, ma anche a lei: ora può ancora puntare su un suo uomo e ottenere un salvacondotto. Domani, invece, continuando a scherzare resterà sempre più isolato UN PAESE DA SALVARE
LA PARALISI DEL PREMIER
RIVOLUZIONI MANCATE
EQUIVOCI STORICI
No Calderoli, un altro governo non è un golpe
Come evitare l’«effetto tiranno»
Dal sogno liberale a quello libertino
Casanova sfidava il potere, lui lo usa
di Francesco D’Onofrio
di G. Desiderio
di Carlo Lottieri
di Gabriella Mecucci
l dibattito che si è aperto in questi ultimi giorni (per l’eventualità che si dimetta il governo in carica), tra il ricorso alle elezioni politiche e la formazione di un nuovo governo, ha posto in evidenza da un lato che siamo in presenza di una costituzione fondata sul sistema parlamentare, e dall’altro dell’affermazione che esiste ormai una “costituzione materiale” nella quale non vi è più il sistema parlamentare, anche se non si sa ancora quale tipo di governo abbia finito con il prendere corpo. Per la Carta, un governo ha bisogno della maggioranza sia alla Camera sia al Senato. a pagina 5
alazzo Chigi è diventato un fortino. Il presidente del Consiglio sta facendo sua la filosofia di Giulio Andreotti: «Meglio tirare a campare che tirare le cuoia». Tuttavia, come non è sempre vera l’altra celebre massima del “divo Giulio”- il potere logora chi non ce l’ha - così non è detto che la scelta di tirare a campare sia quella più saggia. Infatti, ciò che dovrebbe interessare di più Silvio Berlusconi oggi non è tanto se gli conviene o no dimettersi e farsi da parte, quanto capire se lo potrà fare ancora nel prossimo futuro con vantaggi relativi e con una posizione di forza. segue a pagina 2
ochi avrebbero immaginato, nel 1994, che il progetto politico di un Paese finalmente aperto alla modernità e al mercato si sarebbe perso tra la diciassettenne Noemi e la diciassettenne Ruby, tra un profluvio di barzellette raccontate nei bar e un numero crescente di indagini giudiziarie sulle tracce di politici e squillo d’alto bordo, tra servizi televisivi voyeuristici e bizzarre inchieste su cosa diavolo sarà mai il “bungabunga”. Quella che sembra restare dopo più di un quindicennio di berlusconismo è la sensazione di un’Italia che ha perso il treno del rinnovamento. segue a pagina 3
i piacciono le donne e non cambierò di un millimetro la mia vita: Berlusconi ha proclamato così la sua inamovibile scelta pro libertinaggio. Nessuno lo convincerà ad abbandonare il piacere della trasgressione. Un Giacomo Casanova del Duemila? No. Questo è proprio un paragone improponibile. E persino il Cavalier Silvio, che ne sarebbe lusingato, ha però evitato di farlo. Il letterato e filosofo veneziano era un avventuriero, amante delle donne sopra ogni altra cosa. Le corteggiava con sapienza e le conquistava. Non le pagava. segue a pagina 3
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Un libro-intervista dell’ex presidente
La delusione di Ciampi «L’Italia non c’è più» «Questo nel quale viviamo non è il Paese che sognavamo»: una rassegna amara di speranze e delusioni. «Le celebrazioni dell’Unità potrebbero essere l’occasione (l’ultima?) per riscoprire la Patria» Riccardo Paradisi • pagina 4
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Tra insulti e minacce, sono state le peggiori elezioni della storia americana
Obama perde il referendum Usa al voto di Midterm: la strada dei democratici è in salita di Mario Arpino eri i cittadini americani sono andati a votare per eleggere i 435 membri della Camera dei rappresentanti e un terzo dei 100 senatori. In 39 stati si è votato anche per eleggere i governatori. Per quanto non lo coinvolgano direttamente - è uno dei pochi uomini politici a non figurare nelle liste dei candidati - nelle elezioni di medio termine il Presidente resta pur sempre il vero convitato di pietra. Se, infatti, da un lato la sua politica del primo biennio ha avuto una forte incidenza sui risultati, dall’altra sono proprio
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I QUADERNI)
• ANNO XV •
NUMERO
Senza conferme l’annuncio diffuso in rete
questi risultati che potrebbero condizionare il suo futuro politico. Ormai, nel bene o nel male, con il voto di ieri l’incubo per Barack Obama è finito. I primi risultati già lo indicano, ma tra oggi e domani si vedrà esattamente in quale misura il popolo americano abbia gradito questi due anni di presidenza. Già adesso le previsioni, non rosee, sembrano trovare la conferma più piena. Non è la prima volta che un presidente nella prova delle mid-term resta “azzoppato”. a pagina 16
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• CHIUSO
Giallo sull’esecuzione a Teheran di Sakineh di Pierre Chiartano
ROMA. Nel mondo è allarme per la vita di Sakineh. Ieri è circolata la notizia di una sua imminente esecuzione. Si parlava addirittura che fosse per oggi, secondo un’associazione umanitaria. Poi dalla Farnesina sono arrivate delle smentite. «Il nostro ambasciatore non ha“nessunissima”conferma dell’esecuzione», ha detto il ministro Frattini.
IN REDAZIONE ALLE ORE
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19.30
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Fli presenta il nuovo simbolo e la kermesse di Perugia: «Serve la svolta o sarà appoggio esterno». A gennaio assemblea costituente a Milano
Il cerino è sempre più corto «Se non riesce a governare, lo dica», accusano i finiani. Ma il premier scherza: «Meglio le belle ragazze che essere gay». Ed è subito bufera di Errico Novi
ROMA. Lui è tutto proiettato verso la Repubblica della battutaccia. Quella in cui le sentenze grevi da fine pasto diventano linguaggio politico. Così al Salone delle moto di Milano, Berlusconi mette in scena l’appendice dello show presentato nei giorni scorsi a Bruxelles, quando il caso Ruby era appena esploso: «Meglio appassionarsi alle belle ragazze che essere gay», è il clou. Apparentemente sbracato, il Cavaliere in realtà tenta scientificamente di uscire dall’ennesimo guazzabuglio rovesciando i parametri di giudizio,. Tentando cioè di accreditare la disinvoltura dei suoi comportamenti come perfetta proiezione del sentire diffuso. È una strategia difensiva. Non solo e non tanto dalla Procura di Milano, quanto dal rischio di un avvicendamento a Palazzo Chigi, divenuto improvvisamente concreto.
Sul caso della ragazza marocchina all’epoca minorenne, il capo dei pm milanesi Edmondo Bruti Liberati rilascia infatti una dichiarazione rassicurante per Berlusconi: «Quella notte non ci furono irregolarità sulla procedura di affido». Nessuna forzatura regolamentare dunque sulla decisione di assegnare Ruby alla tutela di Nicole Minetti, consigliere regionale ed ex igienista dentale del San Raffaele. Da quel fronte le notizie non sono tremende, anche se si intensifica lo scambio di incartamenti tra investigatori, con la Procura di Palermo che invia informazioni ai colleghi lombardi. È dall’interno dello stesso Pdl che in realtà il presidente del Consiglio avverte gli scricchiolii più sinistri. Gli arriva il chiacchiericcio sommerso e sempre più preoccupato di colonnelli e capicorrente che non si limitano più a interrogarsi sul futuro. In attesa della direzione nazionale che domani fisserà le nuove regole sui congressi, si intensificano le discussioni, dentro al partito del Cavaliere, che giungono fino all’ipotesi di un passaggio di consegne. Si tratta per ora di ragionamenti dettati dalla paura, dall’avvertito pericolo, cioè, che gli scandali e le inchieste, combinate con un possibile appoggio esterno dei finiani, possano mettere inginocchio Berlusconi.
Da pochissimi giorni, e per la prima volta, si ragiona seriamente su una successione a breve termine: da Tremonti ad alternative meno sbilanciate in favore della Lega, come Alfano e Letta. Discussioni che arrivano alle orecchie del capo, irritatissimo naturalmente. Perché quelle ipotesi preventive sottendono in realtà una convinzione sempre più diffusa nel suo partito: lui, Berlusconi, non è più in grado di governare. Non ce la fa più. E prima che lo tsunami travolga tutti, forse
l’unica chance – è il retropensiero – sta in una deposizione. È di fatto quello che lasciano intravedere anche gli uomini di Futuro e libertà. Ne arrivano in tanti nel primo pomeriggio alla sede di Farefuturo.Vengono presentati il nuovo simbolo e la due giorni che si terrà a Perugia sabato e domenica prossimi. «Berlusconi deve dire se riesce a governare», dice Bocchino. L’uscita dall’esecutivo con conseguente appoggio esterno? «Ne par-
un immediato attivismo della maggioranza su pochi dossier, a cominciare dalla giustizia, ma entro certe condizioni. Sono quelle già dettate a Roma da Fini nell’intervista pubblica a Roberto Napoletano: nessuna legge che riguardi esclusivamente Berlusconi, innanzitutto. In generale, Fini chiederà al Cavaliere di dimostrare che è ancora in grado di guidare il Paese. Altrimenti Futuro e libertà farà un passo indietro, lancerà un segnale forte ed effettivamente ritirerà il suo ministro,
Silvio irritato per le ipotesi di successione fatte dai suoi. Oggi Bocchino presenta due arrivi dal Pdl, Rosso e Mazzuca. Pronti Toto e Bonciani leremo a Perugia. Fini farà una proposta, ci sarà un’affollata platea, anche dalla reazione della gente trarremo le conseguenze. Il presidente della Camera metterà sul tavolo quello che Pasquale Viespoli e Adolfo Urso definiscono «un’ipotesi positiva di rilancio». In concreto,
Ronchi, il viceministro Urso e i sottosegretari Menia e Bonfiglio dalla compagine governativa.
È un pressing che in realtà punta a mettere a nudo le difficoltà del premier. E che appunto si incrocia con l’attivismo sotterraneo in corso nel Pdl per la
successione. Certo è che in questo momento Berlusconi sarebbe ancora in grado di ricevere alcune garanzie dagli alleati, innanzitutto da Fini: una evoluzione il meno possibile traumatica della legislatura, con un incarico a un esponente del Pdl – Alfano, Letta o al limite Tremonti, appunto. In più si ragiona su un salvacondotto alternativo a quelli attualmente in vigore (il legittimo impedimento) o in preparazione (il Lodo), validi solo per le massime cariche. Se non altro adesso il Cavaliere potrebbe negoziare, è il ragionamento fatto dai più catastrofisti dei suoi. Se la situazione scivolasse via fino all’insediarsi di un governo tecnico, invece, non ci sarebbero più margini per il Cavaliere. Come dice Viespoli, «un cardine della destra in Italia è la difesa dell’interesse nazionale, che si realizza innanzitutto con la capacità di governo. Se non c’è quella, ha ragione chi tra noi parla di appoggio esterno». E Viespoli è un moderato.
È in controluce lo scenario descritto da Ernesto Galli della Loggia nell’editoriale
il commento/1
Tra scandali in sequenza e maggioranza spaccata, il governo è alla paralisi
Come evitare l’«effetto tiranno» di Giancristiano Desiderio segue dalla prima È una valutazione che solo il capo del governo può fare perché nessuno meglio di lui può sapere che cosa gli italiani ancora non sanno o potrebbero venire a conoscere in un modo o nell’altro. Lo scandalo di Ruby Rubacuori è l’ultimo?
Se tutto si potesse ricondurre alla storia allegra delle serate ad Arcore o a Villa Certosa o a Palazzo Grazioli il premier non avrebbe nulla da temere. Si dà il caso, però, che gli errori della debolezza umana si innestino su una maggioranza di governo che è tale solo di nome, mentre nei fatti è inesistente. Il governo è immobile da mesi e mesi e, ciò che più conta, non ha la forza politica necessaria per battere quel colpa d’ala che serve per recuperare autorevolezza e rilanciare l’economia italiana. Le battute del premier non aiutano e, anzi, mostrano un uomo politico che sembra non aver capito che dall’angolo in cui si è cacciato con le sua stesse mani non uscirà questa volta con un motto di spirito. Gli italiani, ai quali pur piace ridere, hanno questa volta ben poca voglia di ridere. Soprattutto per la prima volta emerge un fatto nuovo che segna la fine o quasi dell’avventura politica berlusconiana: anche la parte della maggioranza di governo che è fedele a Berlusconi parla e ragiona su fatti e convenienze che non sono più le stesse convenienze del premier. In altre parole, i due destini
- quello di Berlusconi e quello dei suoi deputati - si stanno separando. Ecco perché la domanda che Berlusconi dovrebbe porsi in queste ore è questa: posto che la storia del mio mandato governativo è segnata, quando mi conviene dimettermi? Il tempo in politica non è una variabile indipendente. Ci sono cose che hanno un valore se sono fatte al momento giusto, mentre le stesse cose perdono valore e sono una moneta fuori corso se sono pensate e fatte in ritardo. Oggi il capo del governo ha ancora al suo arco due frecce: può ancora dire la sua sull’uomo che gli potrà succedere a Palazzo Chigi e può indicare una sua “buonuscita”. Potrà apparire crudo questo modo di ragionare, ma la politica non è un campetto di margherite e violette. È sempre meglio chiamare le cose con il loro nome e il nome giusto in questo caso è: convenienza.
Del resto, sono mesi che Berlusconi sta pensando a cosa gli conviene fare: da quando Fini è diventato l’alleato più scomodo di qualsiasi avversario Berlusconi è sul piede di guerra ma per la sua indecisione e per la situazione che gli è sembrata inverosimile non è mai riuscito a risolversi con fermezza per il voto anticipato. Ora, però, il vero avversario di Berlusconi è diventato Berlusconi. I peggiori pericoli gli vengono dalla sua stessa storia e dalla sua stessa casa. Per quanto abbia provato a giocare la carta dell’autogossip per neutralizzare tutte le notizie poco piacevole e non facili da gestire della sua vita privata non è riuscito a porre un limite all’indebolimento della sua figura e del suo governo. La telefonata in questura e la frottola su Mubarak sono il chiaro tentativo di utilizzare il suo ruolo di governo a fini privati. Anche i suoi uomini più vicini non credono più possibile difendere ancora per molto l’indifendibile.
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Qui sotto, una stampa raffigurante Giacomo Casanova il filosofo libertino al quale è stato erroneamente paragonato Silvio Berlusconi. Sotto, la escort di lusso del premier, Ruby. Nella pagina a fianco, Gianfranco Fini
pubblicato due giorni fa dal Corriere della Sera. Il Cavaliere per ora non se ne dà per inteso: al salone motoristico milanese si produce persino in una battuta sulla sua ultima disavventura, dice «avrei una certa Ruby da sistemare in qualcuno di questi sand»,. E s’imbatte nella complicità dell’ex direttore generale della mostra, Costantino Ruggiero, che ri-
di Gabriella Mecucci segue dalla prima Niente prostitute. Pardon, niente escort. Tante belle ragazze e forse qualche castrato, ma, l’amore per poco che duri, aveva d’essere un affascinante passatempo, un elettrizzante hobby, mai un rapporto di lavoro con tanto di pagamento della prestazione.
Forse la rivoluzione liberale che qualcuno si attendeva da Berlusconi non poteva essere realizzata perché nel Paese non c’era una vera domanda di libertà. O, quanto meno, essa non è sufficientemente forte e coordinata. A riportare d’attualità l’urgenza di orientarsi verso il mercato, più che un’eventuale uscita di scena di Berlusconi, sarà la dura legge dei numeri: lo sfascio dei conti pubblico e il debito statale fuori controllo. A quel punto, riforme anche dolorose saranno necessarie e probabilmente non ci sarà modo, in quel contesto, di condirle con la leggerezza che tanto piace al Cavaliere. A quel punto, ci saranno solo lacrime e sangue. Ma forse potrà essere un modo per rimettersi in piedi davvero.
La trasgressione senza cultura perde però il suo charme. Rischia di diventare volgarità. Il seduttore-filosofo in suo nome sfidava l’Inquisizione, Silvio, al massimo, sfida Famiglia Cristiana e L’Avvenire. Invece di leggere Candide, frequenta le pagine di Bruno Vespa. Il suo Torquemada è una signora dalla chioma rossa: Ilda Bocassini. Il suo cantore Daniela Capezzone. E l’amico veneziano Brunetta. L’Italia è diventata davvero invivibile.
Il fallimento della stagione berlusconiana è tutto in un equivoco sinistro
Dal sogno liberale a quello libertino di Carlo Lottieri
Nessuno nega che l’Italia libertina inaugurata da Berlusconi abbia pure qualche merito. Con le sue televisioni, l’uomo di Arcore ha sdoganato una certa leggerezza del vivere che non aveva ospitalità dell’Italia molto più cupa e sicuramente ipocrita della Prima Repubblica. Gli italiani sono consapevoli che la carne è debole e che soltanto i sepolcri imbiancati possono ergersi a modelli d’integrità. Il guaio sta nel fatto che oggi pare non esservi altro che questa libertinaggio fuori tempo massimo, quasi più patetico che immorale. D’altra parte l’Italia avrebbe fatto bene a tollerare con un mezzo sorriso i limiti anche vistosi del nostro ceto politico, se quello fosse stato il prezzo da pagare per un’autentica svolta liberale, per uno svecchiamento coraggioso, per una dura lotta ai privilegi e alle antiche pigrizie. Non si deve credere, però, che il problema
Casan ova sf i d a v a il potere, lu i l o u sa
dell’Italia sia Silvio Berlusconi. Pure adesso che la sua parabola politica pare declinare bisogna essere consapevoli che molti dei suoi errori sono stati resi possibile da un Paese che, nel suo insieme, è quanto mai fragile e a rischio di tenuta. In qualche modo, se il Cavaliere ha “esagerato”è perché non ha trovato dinanzi a sé alcuna resistenza. In Italia non abbiamo una società civile che organizzi Tea Party, contesti i propri eletti, pretenda il rispetto dei diritti e combatta l’oppressione fiscale. Non ci sono elettori che abbiano il coraggio, a destra o a sinistra, di esigere dai propri rappresentanti il rispetto degli impegni presi: diversamente non avremmo avuto tanta retorica variamente statalista, né le battaglie del centro-destra a difese di notai e tassisti.
di Milano, dove dal 14 al 16 gennaio si terrà l’assemblea costituente del nuovo partito) con il nome di Fini ben stampato nella parte alta. Oggi Bocchino presenta due nuovi passaggi dal Pdl a Fli, Mazzuca e Roberto Rosso, forzista storico, ma all’ultimo potrebbero aggiungersi anche Bonciani e l’abruzzese Toto. Sembra solo la punta dell’iceberg.
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E che al tempo stesso ha pure smarrito ogni remora dinanzi alle regole elementari del decoro, del rispetto delle diverse funzioni, del buon gusto. Fino a qualche tempo fa si diceva che il Cavaliere stava sprecando occasioni importanti perché impegnato a difendersi dalle accuse dei pm e quindi costretto a immaginare alambicchi istituzionali volti a proteggerlo. Invece che predisporre una “cura Cameron”per la spesa pubblica fuori controllo, l’intero mondo politico dava l’impressione di essere ossessionato dal “lodo Alfano”e, più in generale, da una continua conflittualità con la corporazione dei magistrati. Ma oggi la situazione è perfino peggiore, perché si ha la sensazione di poter sprofondare dal momento all’altro in un film di Tinto Brass, con i collaboratori del premier chiamati di continuo a giustificare l’elezione di questa o quella ministra, deputata o consigliera regionale.
Paragoni storici sbagliati
Casanova ha vissuto pericolosamente e in questo il nostro Silvio a suo modo un po’ gli somiglia. È stato un viaggiatore, un nomade settecentesco che girava l’Europa per conoscere re, regine e filosofi. Quando andava a Parigi frequentava un certo Voltaire, oltre che marchese e ballerine. Quando capitava dalle parti di Mosca, vedeva Caterina la Grande. Le signore da corteggiare le trovava dappertutto. Non aveva bisogno di qualche sensale che gliele procacciasse. Casanova era un seduttore in solitudine e a tempo pieno. E per esserlo doveva andare ben oltre uno spicciolo pragmatismo da cascamorto. Del libertinaggio aveva fatto una filosofia. E raccontava i piaceri dell’alcova con la penna del romanziere.Una vita faticosa la sua, ma piena di momenti eccitanti, felici. Sfide vinte,ma anche prezzi molto alti pagati. Non all’escort di turno, ma alla giustizia dell’epoca. Casanova infatti in nome del libertinaggio finì in carcere nella sua Venezia. In quel luogo umido e fetido che erano «I Piombi». Il campione dell’ avventura e della trasgressione non temeva di andare in galera in nome della propria filosofia della vita, che metteva l’eros al primo posto. Il nostro Silvio invece preferisce fare il furbetto: gli svaghi non se li fa certo mancare, ma filosofia nei suoi comportamenti non se ne vede. E quanto a rispondere di quello che fa, non se ne parla. Lui “per libertinaggio”vuole stare comodo e tranquillo a Palazzo Chigi. Al massimo spostarsi a Palazzo Grazioli o ad Arcore, o in Sardegna. La sua seduzione non passa attraverso la fama e il corteggiamento, ma si fa largo col danaro. Casanova fuggì pericolosamente dal carcere, lui vuole lo scudo per non entrarci mai. Della Russia preferisce visitare il lettone di Putin.
sponde «ci penso io», a conferma che in effetti l’approccio greve con gli scandali riscuote una certa diffusa condivisione. «Siamo al delirio, Berlusconi si dimetta», commenta sconcertato Lorenzo Cesa, segretario di quell’Udc che Berlusconi tenta ancora di portare nella maggioranza. Mentre lui scherza, Futuro e libertà presenta il simbolo in vista di Perugia (e
segue dalla prima
la provocazione
l’approfondimento
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L’analisi preoccupata dell’ex presidente della Repubblica sullo stato della nazione, «vittima del declino civile ed economico»
L’Italia che non c’è
«Questo nel quale viviamo non è il Paese che sognavamo» In un libro intervista, Carlo Azeglio Ciampi passa in rassegna speranze e delusioni: le celebrazioni dell’Unità potrebbero essere l’occasione (l’ultima?) per riscoprire la Patria di Riccardo Paradisi ra che è venuto il tempo dei bilanci di una vita mi rendo conto che sto vivendo in un Paese ben diverso da quello che avevo sognato in gioventù… A volte penso di assistere a uno strazio leopardiano delle aspettative». A parlare con questo amaro disincanto dell’Italia è il presidente emerito Carlo Azeglio Ciampi che affida a un libro colloquio con Alberto Orioli Non è il Paese che sognavo il suo taccuino laico per i 150 anni dell’unità della nazione.
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Una riflessione amara e preoccupata quella di Ciampi, per il vuoto etico e lo smarrimento da cui appare dominata la società civile italiana, per l’incertezza diffusa che oscura l’orizzonte economico, per la crisi morale che sovverte la gerarchia stessa dei valori, per le pulsioni separatiste che attraversano la nazione. Le parole di Ciampi lette in questi giorni hanno perdipiù come sfondo uno dei quadri più bassi che la scena pubblica abbia offerto in questo dopoguerra: «Vedo guadagnare terreno l’idea che conti
solo la ricchezza, che sia la furbizia la caratteristica più premiata e riconosciuta, l’immagine, il tratto distintivo dell’oggi anche nella gestione dell’opinione pubblica. Vedo giovani che cercano esempi nelle istituzioni e faticano a trovarne. C’è un binomio inscindibile tra istituzioni e valori. E invece vedo un imbarbarimento progressivo dell’etica pubblica e del vivere civile. Troppo spesso prevale l’interesse personale, con spregio di ogni etica pubblica». Una riflessione amara dunque ma non rassegnata quella del presidente che nell’anniversario della nazione vede l’opportunità per risvegliare l’Italia e gli italiani da quella sorta di torpore spirituale e culturale che sembra aver avvolto come un sortilegio il Paese. Il monito di Ciampi altro non è del resto che la prosecuzione con altri mezzi di quella lunga battaglia da lui condotta nel suo settennato al Quirinale, un periodo vissuto tutto all’insegna d’una pedagogia patriottica senza la quale probabilmente la coscienza nazionale italiana sarebbe anche peggiore di quella che è oggi. «La pa-
tria – diceva Giuseppe Mazzini, forse il maestro più amato da Ciampi – è prima di tutto coscienza della patria ed è questa coscienza che l’educazione civica e storica dovrebbe continuare a trasmettere alle generazioni che si susseguono e che compongono il tessuto vitale della nazione, frutto del consenso quotidiano come ricordava Renan. «So bene che Patria è una parola impegnativa...Sapevo bene che poteva suscitare sorpresa o stupore nei casi migliori o, peggio, diffidenza e accuse di retorica, se non addirittura di nazionalismo...Invece ho un’i-
Nel suo settennato ha recuperato i valori della nazione
dea precisa e nobile della patria, della mia patria». Una certa idea di Patria dunque: dinamica e non statica, inclusiva e non escludente. Non a caso Ciampi ammira in modo sconfinato il vero grande padre della Patria, il grande tessitore e diplomatico, il genio politico Camillo Benso conte di Cavour. È vero che l’Italia non ci sarebbe stata senza la passione di Mazzini e senza l’ardore di Garibaldi ma senza l’intelligenza lucida di Cavour questa nazione sarebbe semplicemente rimasta l’espressione geografica del vecchio Metternich.
Un’idea patriottica inclusiva so diceva. Della religione anzi tutto. Non a caso nel suo diario Cavour trascrive la massima di Constant: «Ci sono dei popoli religiosi che hanno potuto diventare schiavi. Ma non c’è nessun popolo irreligioso che sia riuscito a restare libero». Ciampi si è sempre professato cattolico praticante ma ha anche sempre sostenuto con forza la laicità delle istituzioni. Un equilibrio faticoso ma che ha la sua linea di sintesi nel grande filone cattolico liberale del Risorgimento. Epopea alla quale anche molti religiosi hanno dato il loro contributo. «Non va trascurata la presenza addirittura di personale religioso, regolare o secolare, sia nelle manifestazioni propagandistiche, sia nelle azioni dirette» ricorda il presidente, che contesta il revisionismo antirisorgimentale di matrice clericale. Ma la critica di Ciampi s’appunta anche sulla critica di di sinistra al Risorgimento. La vulgata gramsciana del Risorgimento come rivoluzione agraria mancata, una ”rivoluzione passiva”, una ”conquista regia”, affare di una minoranza e “condotto senza eroi”. «Mi basta riandare a Rosario Ro-
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Ecco perché non ha senso la polemica lanciata dai fedelissimi del Cavaliere
Un altro governo (che governi) non è un colpo di Stato
Il Quirinale risponde solo alla Costituzione vigente: e questa prevede che non c’è conflitto tra voto popolare e voto parlamentare di Francesco D’Onofrio l dibattito che si è aperto in questi ultimi giorni (per l’eventualità che si dimetta il governo in carica), tra il ricorso alle elezioni politiche e la formazione di un nuovo governo, ha posto in evidenza, ancora una volta, da un lato che siamo in presenza di una costituzione fondata sul sistema parlamentare, e dall’altro dell’affermazione che esiste ormai una “costituzione materiale”nella quale non vi è più il sistema parlamentare, anche se non si sa ancora quale tipo di governo abbia finito con il prendere corpo. La Costituzione vigente, infatti, pur non affermando esplicitamente la scelta di un modello di sistema parlamentare, è tutta costruita su un principio di fondo: un governo per poter essere formato e restare in carica ha bisogno della maggioranza sia alla Camera sia al Senato. Coloro che affermano che siamo invece in presenza di una peraltro frettolosamente definita “costituzione materiale”, ritengono che soltanto il voto popolare costituisce fonte di legittimità del governo medesimo.
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Si tratta di una questione di fondo che ha alla propria origine l’idea stessa di democrazia vigente in Italia: quanti affermano, in sintonia con la Costituzione esistente, che i governi sono legittimi sempre che abbiano il consenso di una maggioranza parlamentare, tendono a ritenere del tutto legittimo il potere dei parlamentari, in quanto tali, di dar vita ad un governo sempre che intorno alla vita del medesimo governo si coaguli l’orientamento convergente di una maggioranza parlamentare; quanti, al contrario, ritengono che solo il voto popolare costituisca fonte di legittimazione costituzionale del governo medesimo, giungono persino ad affermare che la formazione di un governo diverso da quello elettoralmente originario costituisca un “colpo di Stato”. La questione di fronte alla quale
si trova pertanto il capo dello Stato è una questione che concerne l’essenza stessa dei poteri presidenziali di formazione del governo.
Sulla base della Costituzione vigente, il Capo dello Stato – all’indomani delle eventuali dimissioni del governo in carica – ha il dovere costituzionale di constatare se esiste o no in Parlamento una maggioranza numerica capace di dar vita ad un nuovo governo.
È inaccettabile dire che solo le elezioni danno legittimità a chi vuole risolvere i sempre più gravi problemi del Paese Se invece si ragionasse sulla base di questa ipotetica “costituzione materiale”, il Capo dello Stato avrebbe il dovere di indire nuove elezioni, perché qualunque maggioranza parlamentare non avrebbe il potere costituzionale di dar vita ad un nuovo governo. Soltanto dopo aver constatato se esiste una maggioranza numerica in Parlamento, il Capo dello Stato ha il potere-dovere di valutare se una siffatta maggioranza è o no in grado di affrontare i problemi per i quali essa si è formata.
Parlare dunque di “colpo di Stato” in riferimento alla formazione di un governo
diverso da quello formato sulla base del voto popolare, costituisce una affermazione del tutto estranea rispetto ad una qualsivoglia interpretazione della Costituzione vigente, che rappresenta l’unico parametro alla stregua del quale il Capo dello Stato è chiamato ad esercitare i suoi doveri concernenti la formazione di un governo. Il rapporto tra il voto popolare e il voto parlamentare costituisce pertanto un rapporto molto delicato perché attiene alla natura stessa della democrazia vigente in Italia: appare di tutta evidenza che non è conforme alla Costituzione attuale la formazione di un governo da parte di una maggioranza parlamentare che risulti avere l’esclusivo obiettivo di sostituire le forze politiche che hanno concorso alla vittoria elettorale con quelle forze politiche che furono a suo tempo sconfitte.
Non sarebbe del pari conforme alla Costituzione vigente una opinione che negasse di per sé il valore costitutivo di un voto parlamentare capace di dar vita ad un governo diverso da quello in carica. Occorre pertanto aver ben presente, che non di una generica alternativa tra voto popolare e voto parlamentare si tratta, ma di una inaccettabile alternativa tra il ricorso alle elezioni intese queste quale fonte unica di legittimazione del governo, e la formazione anche di un governo capace di affrontare le questioni strategiche del governo dell’Italia, per tali intendendosi soprattutto quelle che il nuovo contesto europeo sta ponendo al nostro Paese. Mai come nel momento presente è necessario che chi è chiamato a decidere sul governo in carica abbia ben chiara l’alternativa di fronte alla quale l’Italia sta venendo a trovarsi: vecchie elezioni o nuovo governo?
meo – dice Ciampi – e alla sua risposta neoliberale alle obiezioni gramsciane o a Luigi Salvatorelli che, in occasione della celebrazione del centenario dell’unità d’Italia, spiegava bene come una minoranza politicamente attiva in quegli anni di fermento vi fosse in realtà la partecipazione di una vera maggioranza composta da tutte le classi sociali, come del resto dimostravano gli elenchi dei condannati politici».Vorrà dire qualcosa se la sola Giovine Italia, nel 1883, aveva 50-60mila affiliati e l’Italia intera aveva venti milioni di abitanti.
Nazione come idea inclusiva, nazione come antitesi di fazione. Sulla patria come idea forza, sullo stesso termine di patria, ha sempre pesato nel dopoguerra la pesante ipoteca retorica del fascismo. Il cui errore fatale fu quello di aver escluso dalla condizione di buoni italiani coloro i quali non erano fascisti. Per questo, dice Ciampi, «E stato fondamentale recuperare i valori della Patria durante il governo di centrosinistra. Con l’esecutivo in mano al centrodestra l’operazione avrebbe avuto tutt’altro sapore, soprattutto con un governo dove fosse stata presente una forza politica come An». Già perché sul partito di Fini ancora agli albori degli anni Duemila, pesava ancora il sospetto di criptofascismo, tanto che è proprio il cancelliere Schroder a fare una dichiarazione di fuoco contro An includendola nel novero delle destre xenofobe a la Haider. «Mi affrettai subito a dichiarare che tutte le forze politiche che sedevano in parlamento – da An a Rifondazione – erano democratiche e degne del massimo rispetto. Anche questo contribuì a completare l’opera di sdoganamento di an». Ma Ciampi aveva già contribuito alla riconciliazione nazionale con l’importante visita ai tre sacrari di el Alamein e Alessandria che raccolgono i corpi di oltre diecimila soldati tra italiani, tedeschi, inglesi e africani, tutte vittime della sanguinosissima battaglia del ’42. Ma la riconciliazione nazionale non significa indifferentismo. Non a caso Ciampi individua nell’Otto settembre la data di nascita dell’Italia libera. Lo fa i un convegno organizzato dalla fondazione liberal: una data che costringe a scegliere da che parte stare. un’interpretazione discutibile e discussa da chi invece proprio nell’otto settembre individua la morte della Patria, del senso dello stato, della nostra coscienza civile e unitaria. Il centocinquantesimo giubileo della patria è l’occasione per il presidente Ciampi (l’ultima?) per riscoprire il senso della nazione, la coscienza di essere italiani, quel Risorgimento senza il quale noi saremmo ancora una turba senza patria. E senza patria ammonisce Ciampi citando ancora Mazzini «non avete nome né segno, né voto. Né diritti, né battesimo di fratelli tra i popoli. Siete i bastardi dell’umanità». Che non è una bella prospettiva.
diario
pagina 6 • 3 novembre 2010
Scaricabarile. La protesta si è spostata da Terzigno a Giugliano e la spazzatura continua a invadere le vie di Napoli e provincia
La grande bugia sui rifiuti
Berlusconi dice: «Tutto risolto». E dà tutte le colpe alla Iervolino ROMA. La spazzatura è anco-
muni della provincia di Napoli oltre che nella discarica di Chiaiano, in corso di esaurimento, sono stati autorizzati a conferire provvisoriamente nel sito di stoccaggio di Taverna del Re a Giugliano. Il capitolo termovalizzatori poi è ancora più ingarbugliato: quello di Napoli Est non sarà pronto prima di 36 mesi, così come quello di Salerno. Lo stesso assessore regionale all’Ambiente, Giovanni Romano nell’ultimo consiglio è stato molto chiaro: o i rifiuti si portano fuori provincia, oppure è necessario trovare un altro sito da adibire a discarica per Napoli e provincia.
di Franco Insardà
ra lì per le strade di Napoli, le proteste si sono spostate da Terzigno a Giugliano, gli autocompattatori carichi vagano per la provincia alla ricerca di un discarica che possa accogliere i rifiuti, ma Silvio Berlusconi, dalla tribuna milanese del Salone della moto, dice sicuro: «Il governo ha risolto la situazione, non si può attribuirgli colpe che non ha e che invece ha la giunta di sinistra guidata dal sindaco Rosa Russo Iervolino». Per il premier, insomma, la colpa è «di chi raccoglie la spazzatura e al comune di Napoli c’è da anni il centrosinistra». Berlusconi è ritornato su un tasto a lui caro, ma che si è dimostrato un vero e proprio boomerang, ricordando che il suo governo «ha ricevuto in eredità i rifiuti» e che all’inizio della legislatura il problema «è stato risolto in 58 giorni».
Ma salvata Terzigno è nella vicina Giugliano che, per il momento, si trasferisce la spazzatura di Napoli e con essa lo stato d’assedio che ha caratterizzato le cronache delle ultime settimane. Per impedire il transito degli autocompattatori diretti alla discarica di Taverna del Re sono scesi in piazza centinaia di cittadini, soprattutto giovani e donne. Negli scontri con la polizia un uomo è caduto a terra battendo il capo e una donna ha avuto un malore. Il comune di Giugliano ha comunicato di aver controllato circa 150 automezzi ed elevato trenta contravvenzioni per perdita di percolato.
Acerra alleggerirà il carico di rifiuti». Peccato che il capo della Protezione civile, Guido Bertolaso, in carica fino all’11 novembre, abbia dichiarato in un’intervista al Mattino: «Io avevo idee diverse su quello che bisognava fare su Cava Vitiello. Bisognava rispettare la legge. Io avevo proposto solo di sospenderne l’apertura ma nell’incontro con i sindaci questa proposta non è stata ritenuta sufficiente. C’è stata poi la decisione del primo ministro di cancellarla con una
La Protezione civile alle prese con il maltempo
E Bertolaso vola in Veneto ROMA. Guido Bertolaso assicura: «Situazione grave, ma sotto controllo». Il capo della Protezione civile ha accolto l’appello del Sindaco di Vicenza, Achille Variati, che richiedeva l’intervento dell’esercito. Sono 400 i militari al lavoro fra Vicenza e Verona, oltre a quattrocento Vigili del fuoco e circa mille volontari.
A Taverna del Re blocchi per impedire il passaggio degli automezzi e per le strade del capoluogo ci sono ancora 23mila tonnellate di immondizia Il premier sulla vicenda discariche ha dato la sua versione: «Ci hanno accusato di aver un fatto piano fasullo sulla spazzatura e invece abbiamo mantenuto l’impegno preso e risolto tutto, compresa la questione di Terzigno. La cava diventerà un grande parco, come la montagnetta di Milano quando sarà riempita». Per Berlusconi i diciotto comuni vesuviani «potranno usare la unica cava esistente e non c’è bisogno di aprirne un’altra. Nel frattempo il termovalorizzatore di
nuova legge. A quel punto io ho aggiunto la soppressione di Valle della Masseria. Quindi la vicenda è risolta e il mio compito è concluso. Forse a fine dicembre i tempi non erano maturi per andar via. Gli amministratori locali però erano impreparati».
Proprio in base all’accordo sottoscritto il 29 ottobre l’utilizzo della discarica di Terzigno resta dunque vincolato allo sversamento dei soli rifiuti prodotti dai 18 comuni vesuviani. Napoli e gli altri co-
Dopo le tre vittime di lunedì in Toscana: una donna di 39 anni e il figlio di due anni morti a causa di una frana a Lavacchio, in provincia di Massa Carrara, e il camionista rimasto sotto il fango a Mirteto, nel comune di Massa, la situazione sta tornando lentamente alla normalità. Ma i feriti a causa del maltempo si contano un po’ in tutto il Nord, così come
gli sgomberi per il rischio frane. A Padova sono state evacuate circa mille persone in previsione della piena del Bacchiglione. Nell’imperiese cinque persone sono rimaste ferite in un incidente ferroviario, mentre frane e smottamenti si sono registrati nel Levante genovese. La Protezione civile ha lanciato anche l’allerta per la piena del fiume Po che potrebbe interessare le aree di Ferrara, Piacenza, Parma e Reggio Emilia. Stato di allerta in Friuli Venezia Giulia e acqua alta a Venezia. Tra Napoli e provincia ci sono stati oltre 70 interventi dei vigili del fuoco, mentre l’attenzione si sposta in Sicilia e in particolar modo nel messinese. E il Consiglio Nazionale dei Geologi, lo scorso 16 ottobre, ha reso noto il primo rapporto sullo stato del territorio italiano che evidenzia come sei milioni d’italiani abitano i 29.500 chilometri classificati a elevato rischio idrogeologico
Intanto Bertolaso, di ritorno dal Veneto, ha presieduto ieri due riunioni tecniche per definire «tutte le iniziative operative utili per porre le istituzioni competenti nelle migliori condizioni possibili per riorganizzare e migliorare i piani di smaltimento dei rifiuti di competenza della Regione, della Provincia e del comune di Napoli». Con il sindaco di Napoli Iervolino, chiamato pesantemente in causa da Berlusconi che ha polemicamente dichiarato: «Non partecipiamo al tavolo tecnico con il presidente della Provincia, non ce l’ho con la Provincia, ma il Governo non ha mai convocato il Comune di Napoli». Per tentare di svelenire questo clima il governatore Stefano Caldoro ha lanciato un appello dalle colonne del Mattino: «In Campania non si può dire soltanto no sui temi cruciali come rifiuti, sanità, infrastrutture. Occorre un cambio di mentalità, basta con questi atteggiamenti negativi. Lavoriamo per dar vita ai comitati del sì. Purtroppo scontiamo un ritardo di vent’anni e tuttavia siamo impegnati senza sosta per risanare i conti e per garantire la qualità dei servizi. Ecco perché chiediamo il sostegno di tutti coloro che vogliono pensare in termini positivi». In prefettura a Napoli si interrogano se nel computo finale vanno inseriti anche il lungo ponte di Ognissanti appena concluso. Perché, calendario alla mano, i tre giorni promessi dal premier per ripulire Napoli sono passati e nelle strade del capoluogo ci sono ancora 23mila tonnellate di rifiuti che attendono la loro sorte.
diario
3 novembre 2010 • pagina 7
Cappellacci concede incentivi e alza il prezzo del latte
«La crisi ha creato 34 milioni di disoccupati nel mondo»
Accordo fatto tra la regione Sardegna e i pastori
Strauss-Kahn, nuovo appello per salvare il lavoro
CAGLIARI Dopo oltre 9 ore di trattativa, alle 4.20 del mattino, è stato firmato a Villa Devoto un accordo tra la Regione e il Movimento pastori sardi. L’intesa raggiunta, ha spiegato il leader di Mps, Felice Floris, al termine della riunione-fiume, fa venir meno le ragioni della manifestazione prevista per oggi a Cagliari. Tra i punti dell’accordo, nel quadro degli incentivi da erogare ai trasformatori come aiuti temporanei per fronteggiare la crisi economica (ritiro degli stock di pecorino invenduto), la Regione si impegna a premiare con il contributo massimo i trasformartori che pagheranno il latte 85 centesimi al litro. Comunque il prezzo del latte non potrà scen-
AGADIR (MAROCCO). Nuovo, drammatico appello perché la comunità economica e politica internazionale affronti l’emergenza lavoro: il direttore generale del Fondo monetario internazionale, Dominique Strauss-Kahn, lanciando un appello a fare del lavoro, «la priorità della nuova mondializzazione» ha spiegato che «il mondo ha perso 30 milioni di posti di lavoro per via della crisi e le attese per i prossimi anni sono di 400 milioni di posti di lavoro da creare», ha detto infatti il direttore generale del Fondo Monetario Internazionale al Forum internazionale dello sviluppo che si è aperto ad Agadir, in Marocco. E ha aggiunto: «Nell’ambito della nuova mondializzazione, la priorità numero uno è l’occupazione, la priorità numero due è l’occupazione e la priorità numero tre è l’occupazione». Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro, poi, a questo punto il mondo conta 34 milioni di disoccupati in più rispetto al 2007, all’inizio della crisi finanziaria, per un totale di circa 210 milioni di persone senza lavoro in tutto il mondo. Da qui la stima della necessità
La beffa della sospensione dei mutui sulla prima casa Brutta sorpresa dal Fondo di solidarietà del governo di Marco Palombi
ROMA. Certo non sarà accattivante come la
dere sotto i 75 centesimi al litro, anche in caso di ritiro dello stock pari al 70 per cento. È stata poi ipotizzata una rimodulazione del Programma di sviluppo rurale (Psr), per un importo di 100 milioni di euro, da destinare preferibilmente al benessere animale e alle indennità compensative. Infine, è previsto un contributo di 2.500 euro ad azienda per l’a nnualità 2010, con l’impegno a verificare la possibilità di anticipare la quota 2012 a marzo 2011.
«Questa notte per la prima volta nella storia della contrattazione si parte da un presupposto: che il costo della materia prima va a definire il prezzo finale del prodotto. Fino a oggi è stato diverso: il prezzo del formaggio determinava il prezzo del latte. Questa inversione di rotta permetterà un riscatto storico», ha detto Felice Floris. «Penso - ha continuato - che i nostri pastori siano soddisfatti per questa chiusura, non facile, perché nelle nostre assemblee quello che si chiedeva era di valorizzare il prodotto. E così è stato. I de minimis? Una strada non percorribile perché la Regione non ha i soldi. Abbiamo ritenuto di cambiare indirizzo e puntare direttamente sul prezzo del latte».
vexata quaestio nata dal caso Ruby, se sia preferibile essere gay piuttosto che preferire le donne, e neppure un grosso caso di psicosi collettiva come la nuova Alitalia, pagata con 3,5 miliardi di euro pubblici per rimanere italiana e oggi in via di svendita ad Air France, ma il prossimo avvio delle procedure di sospensione dei mutui sulla prima casa per le famiglie in difficoltà è pur sempre una bella storia italiana. Da quando il governo Prodi varò la norma nel lontano 2007 ancora non s’era trovato modo, infatti, per istituire il relativo fondo e varare il regolamento di applicazione. Adesso, dal 15 novembre, si parte: rate sospese per un massimo di 18 mesi per chi attraversa difficoltà economiche, abbia dichiarato un indicatore Isee inferiore a 30mila euro e acceso un mutuo - da oltre un anno - da meno di 250mila euro per comprare una prima casa non lussuosa. Che c’entra lo Stato? C’entra perché, durante la sospensione delle rate, gli interessi saranno pagati da un Fondo di solidarietà istituito dal governo: i cittadini non dovranno rimetterci neanche un centesimo, ha spiegato Tremonti in aule e commissioni parlamentari.
ni dei consumatori. La domanda sociale di questo provvedimento, insomma, è altissima. Dal 15 novembre, come detto, si potranno finalmente presentare le domande per il “Fondo di solidarietà per i mutui per la prima casa”, anche quelli cointestati, rinegoziati o che abbiano già beneficiato in passato di altre agevolazioni: il Tesoro, infatti, ha finalmente reso pubbliche le linee guida per la presentazione dei documenti e l’istruttoria di accesso al Fondo.
E qui cominciano i problemi. Intanto la platea dei beneficiari: le centinaia di migliaia di cassaintegrati italiani, per esempio, non potranno chiedere lo stop delle rate, per ottenerlo bisognerà aver perso il lavoro (anche precario) o un membro della famiglia che percepiva reddito almeno il 30% del totale - o aver dovuto affrontare ingenti spese mediche o relative proprio alla casa. Chi avesse i requisiti ha da spartirsi 20 milioni di euro, poca roba, sufficienti al massimo per 7mila mutui: chi arriva prima se li prende, gli altri ciccia. E poi c’è la sorpresina. Il Fondo ripagherà le quote di interessi corrispondenti al parametro di riferimento del tasso di interesse applicato ai mutui. Cosa manca? Se va bene, lo spread, cioè il ricarico che ogni banca decide di aggiungere al tasso base, in sostanza il suo guadagno. Un esempio: su un prestito relativamente piccolo - 100mila euro per vent’anni a un tasso del 5%, con uno spread basso, diciamo dell’1% - il nostro malcapitato in 18 mesi accumulerà circa mille euro di interessi da restituire. Più sale il valore del mutuo e/o lo spread, peggio è. La Finanziaria 2008 sosteneva che «al termine della sospensione, il pagamento delle rate riprende secondo gli importi e con la periodicità originariamente previsti». Secondo l’Abi, però, non è proprio così: in una circolare del 27 ottobre si legge infatti che «la banca potrà addebitare al mutuatario» la quota di interessi non rimborsata dal Fondo di solidarietà. Poco più avanti si parla pure della «particolare rilevanza sociale dell’iniziativa», ma le parole - si sa - sono gratis.
Le famiglie in difficoltà che riusciranno ad accedervi si ritroveranno gli interessi sotto forma di aumento delle successive rate
Meglio tardi che mai, si dirà, bella iniziativa. Vero, se non fosse che chi riuscirà finalmente ad accedere alla sospensione del mutuo - gente in difficoltà, giova ripeterlo, e con un reddito basso spesso azzerato dalla crisi - si ritroverà alla fine una brutta sorpresa: lo Stato non pagherà tutti gli interessi, ma solo una parte, quel che manca se lo ritroverà sotto forma di aumento della rata quando ricomincerà a pagare. Ma andiamo con ordine. La ratio del provvedimento, fin da tre anni fa, era quella di venire incontro a quei cittadini su cui si stava scaricando il peso della crisi economica, nata - si ricorderà - proprio da una bolla immobiliare negli Stati Uniti. In questi 36 mesi la quantità di insolventi e immobili pignorati è continuata ad aumentare, tanto che già 28.615 mutui furono sospesi da febbraio a maggio grazie a un accordo tra l’Abi e le associazio-
di creare nel corso dei prossimi 10 anni 440 milioni nuovi posti per assorbire i giovani in cerca di occupazione.
Strauss-Kahn ha anche affermato che il G20 deve fare di più per rafforzare la supervisione internazionale del settore finanziario. «Molto è stato fatto nell’area della supervisione internazionale. Tuttavia - ha osservato il numero uno dell’istituto di Washington - si può avere la miglior regolamentazione del mondo ma se la sua applicazione non viene supervisionata non sarà di alcuna utilità». Al Forum partecipano più di 1.500 esperti internazionali, tra i quali - in un importante confronto Est/Ovest - anche il presidente della Banca islamica dello sviluppo, lo sceicco Ahmed Mohamed Ali.
politica
pagina 8 • 3 novembre 2010
In prima linea. La Cisl si aspetta da lei proposte su fisco e sviluppo e non soltanto i no pronunciati negli ultimi anni, la Uil vuole l’assenso al nuovo modello contrattuale
L’enigma Camusso Oggi la Cgil cambia leader. La nuova segretaria dovrà uscire dal vicolo cieco tra Cisl e Fiom dov’era finito Epifani di Francesco Pacifico
ROMA. La sintesi sarà brutale, ma sono in molti a pensarla come il segretario della Fismic, Roberto Di Maulo, quando «fa gli auguri di buon lavoro a Susanna Camusso perché ha davanti un compito molto ingrato da portare a compimento: traghettare la Fiom da partito politico a sindacato». Oggi, e per la prima nella sua storia, la Cgil eleggerà una donna come segretario generale. Ma più che l’evento in sé, l’ennesimo passo nell’emancipazione femminile che continua a latitare, ci s’interroga sulle sfide che questa 55enne milanese dovrà affrontare: far tornare Corso d’Italia a sedere ai tavoli che contano, ricucire gli strappi con la Cisl e Uil, riportare nel suo alveo la Fiom, frenandone l’antagonismo. In queste direzioni, la Camusso finora non ha sbagliato un passo. Tanto che i suoi migliori biglietti da visita sono l’aver raffreddato gli entusiasmi sull’ennesimo sciopero generale lanciato dalla Fiom. Quello che per la cronaca Guglielmo Epifani ha finito per avallare un paio di settimane fa a piazza San Giovanni. L’aver partecipato a Firenze alla riunione della minoranza riformista delle tute blu organizzata da Maurizio Durante. L’essersi seduta, come ha fatto anche ieri pomeriggio alla sede dell’Abi al tavolo sulla produttività con Confindustria e le altre parti sociali.
L’agenda lasciata in eredità da Epifani è davvero pesante. Tanto che saranno molti a essere clementi con lei se oggi, al termine del direttivo che sancirà la successione, preferirà affrontarne i punti senza esasperare i toni. Anche perché il nodo, l’atteggiamento della Fiom, è materia talmente delicata che ogni strappo potrebbe pregiudicare il progetto finale. Al riguardo Durante, leader dei riformisti che ha abbandonato la segreteria della Fiom, ricorda che dalla sua «Susanna ha una norma inserita nello statuto dall’ultimo congresso, quello dove la mozione Epifani ha vinto con l’83 per cento, che prevede che su accordi e intese nazionali non è possibile che una categoria prenda decisioni in
Da tempo, ormai, c’è come un «patto di ferro» tra il vertice sindacale e il segretario del Pd
Bersani ha trovato una sponda per il suo nuovo Ulivo? di Antonio Funiciello arà presto, Susanna Camusso, a fare piazza pulita delle chiacchiere che hanno accompagnato la sua nomina a capo supremo della Cgil. La milanese Camusso è donna prudente ma inflessibile, una che non ha mai fatto nulla per alimentare le chiacchiere che sono montate intorno alla sua nomina, per mezzo di un’elezione tanto pilotata da non sembrare per nulla un’elezione. Ma la Cgil è fatta così: un’organizzazione che fa delle sue tradizioni e delle sue regole il maggiore nutrimento per l’attività politicosindacale, che oggi conduce in autonomia da Cisl e Uil. La Camusso discende dal filone più
F
ta che pesa molto nel curriculum della Camusso e che fa sentire ancora la sua eco nell’appiattimento dei maggioritari riformisti cigiellini sul radicalismo dei minoritari estremisti fiommini. Al vertice della Cgil la Camusso porterà con sé il peso di quella storica sconfitta e una certa subalternità culturale di cui la manifestazione Fiom ha dato ancora prova.
Dopo aver passato la maggior parte della sua vita sindacale coi metalmeccanici, la Camusso dovrà proprio col suo settore di riferimento fare i conti più salati. Al momento la sua sintonia con l’attendismo del Pd è totale: anche la Camusso, in fondo, non condivideva al cento per cento la piattaforma della manifestazione Fiom, ma tale è il primato ideologico dei metalmeccanici sul sindacato di Corso Italia, che i distinguo dei moderati cigiellini non si sono per nulla notati. Come Bersani, la Camusso è nettamente avversa al nuovo corso Fiat, per quanto tenda a differenziarsi molto nella forma e nei toni, allo scopo di edulcorare una posizione che, nella sostanza, è schiacciata su quella del segretario Fiom Landini. Non sarà la Camusso la segretaria che chiuderà la ferita della rottura sindacale e riuscirà a smarcarsi dal protagonismo dei metalmeccanici. La Cgil è sempre più il sindacato dei pensionati e dei lavoratori del pubblico impiego: è ovvio che impiegati e operai della Fiom risultino più rappresentativi e accattivanti. Al Pd di Bersani l’elezione della Camusso torna assai utile. La Cgil è il tassello fondamentale della constituency sociale del nuovo Ulivo bersaniano. Tutta l’impostazione laburista che il nuovo segretario ha dato al Pd ha bisogno di un partner sindacale che ne legittimi le aspirazioni e ne sostanzi il consenso. Il Pd, si sa, è un partito oggi votato da pensionati e dipendenti pubblici: avere una Cgil sulla stessa linea equivale a tenersi stretto lo zoccolo duro elettorale. Che poi gli operai (tra cui quelli - la maggioranza - che hanno votato favore dell’accordo di Pomigliano) continuino a votare a destra è cosa che non preoccupa nessuno a sinistra ormai da un pezzo. Né dalle parti del Pd, né da quelle della Cgil.
Sul suo futuro politico peserà soprattutto la sconfitta subita dall’ala più radicale al tempo in cui era al vertice dei metalmeccanici moderato di questa tradizione fortemente conservatrice e avrà il compito complesso di traghettarla, suo malgrado, nella tanto deprecata era della globalizzazione.
Nel Pd Susanna Camusso ha molti amici. Bersani, anzitutto, con il quale ha avuto a lungo a che fare da segretaria lombarda della Cgil tra il ’96 e il ’99, quando il segretario democratico era ministro dell’Industria dei governi Prodi e D’Alema. Rapporto rinsaldato durante l’èra Epifani, proprio in virtù della forte sintonia tra l’ex segretario della Cgil e l’ex ministro. Il passato della Camusso, da riformista della Cgil, la lega molto anche al fassiniano Damiano: come lei dirigente negli anni Novanta della Fiom, come lei incapace di arginare e battere l’ondata massimalista che portò alla segreteria di Sabattini. Una sconfit-
distonia con la segreteria». Conseguenza di quella che è stata ribattezzata “norma Fiom” sarebbe un intervento disciplinare, ma nessuno – in primis Durante, Maurizio Landini e la Camusso stessa – sanno che il problema si risolve soltanto con una serrato scontro politico che chiarisca pesi e contrappesi ed eviti spaccature che portino a pericolose scissioni. Ieri a Roma Giorgio Ariaudo e Enzo Masini, segretario e coordinatore nazionale auto della Fiom, hanno mostrato i muscoli e provato a ristabilire pesi e contrappresi, ricordando che il loro «è il primo sindacato per numero di iscritti in Fiat con il 12,7 per cento e che dopo le ultime uscite di Marchionne a Mirafiori il tasso di sindacalizzazione non è mai stato come alto: il 52 per cento dei lavoratori ha la tessera del sindacato contro il 33 per cento dei più tesi anni Settanta». Al riguardo Masini, allievo di quel Claudio Sabatini che nel 1996 silurò la Camusso dalla Fiom in un repulisti antiriformisti, ci tiene a ricordare che «la Cgil deve continuare a considerare la nostra categoria come un elemento di forza. Altrimenti, Corso d’Italia andrebbe in direzione opposta rispetto a quella che è la sua storia». Questa la mattina la Fiom – a differenza di FimCisl, Uilm e Fismic – chiederà conto al Lingotto della decisione di chiedere per lo stabilimento di Pomigliano non più la cassa integrazione ordinaria (quella che di solito si lega agli investimenti) ma la Cig in deroga, la cui attivazione comporta meno tavoli e controlli da parte del ministe-
politica
3 novembre 2010 • pagina 9
Il mercato va a picco: anche a ottobre record negativo per il Lingotto
Il primo scoglio? La Fiat senza cassa integrazione Oggi nuovo incontro sul futuro di Pomigliano, poi toccherà a Melfi ma i fondi per il welfare sono finiti di Vincenzo Bacarani
ROMA. Per il nuovo segretario generale della
ro del Lavoro e delle Regioni. È difficile ipotizzare che la Camusso disconosca l’azione delle sue tute blu su Fiat. E questo – unito al crepuscolo del berlusconismo e alla richiesta di Confindustria di partecipare al tagliando sul nuovo modello contrattuale – potrebbe diventare un primo momento di dialogo tra la segreteria di corso d’Italia e quella di corso Trieste. Cresciuta nella Fiom, la Camusso è conscia che non si può a fare meno della categoria. Ma sa anche quali nodi toccare per romperne l’immobilismo. Non a caso Masini ricorda «che quanto sta succedendo in questi giorni, con gli strappi di Marchionne e la crisi sempre più drammatica, non era stato previsto né dalla maggioranza né dalla minoranza che ha vinto il congresso di luglio». Se la sfida tra il primo sindacato confederale italiano e i suoi metalmeccanici rischia di trasformarsi in una partita a scacchi – oggi Gianni Rinaldini, da portavoce dell’area programmatica “La Cgil che vogliamo” dovrebbe astenersi sull’elezione della Camusso – guardano con molto interesse ai primi cento giorni della nuova segreteria gli altri confederali.
Dalla Cisl il segretario Gianni Baratta dice che «Susanna, con la quale ho lavorato per un paio d’anni gomito a gomito, è una persona molto ragionevole, sta con i piedi per terra, ma dirimenti saranno i passi concreti che dovrà fare subito. E questo si traduce nel difendere i tavoli alla quale partecipa, ad affrontare il tema della riforma fiscale senza diktat e a prendersi le
proprie responsabilità sul nuovo modello contrattuale. Altrimenti non si supererà mai lo stallo nato per l’esistenza di una Cgil che firma i contratti e di un’altra che sa soltanto dire di no, con le ripercussioni che la cosa crea in termini di democrazia sindacale». La Cisl fatica poi a metabolizzare gli ultimi attacchi alle proprie sedi, nei quali in alcuni casi si sono resi protagonisti anche dirigenti della Fiom. Soprattutto in via Po – dove alla fine degli anni Novanta Franco Marini commissariò il laeder della Fim di Milano, Pier Giorgio Tiboni – è forte il fastidio vedendo che alle promesse di sanzioni fatte da Guglielmo Epifani non è seguito alcun provvedimento. Anche in via Lucullo non piace una Cgil che ha una segreteria interamente composta da ex socialisti ma che nel contempo si fa dettare la linea dai massimalisti della meccanica e del pubblico impiego. Soprattutto se quest’atteggiamento finisse per far saltare i 750 milioni di euro che Fiat intende investire a Pomigliano e i 20 miliardi che Marchionne ha destinato agli stabilimenti italiani di Fiat. «Senza personalizzare», spiega il segretario confederale della Uil, Paolo Pirani, «esiste un problema di competitività del Paese, che impedisce la creazione di posti di lavoro. Serve un sistema di relazioni più dinamiche. Noi ci siamo adeguati con la riforma del modello contrattuale, la segreteria della Cgil invece si muove soltanto nel solco del suo glorioso passato, fingendo di non vedere che 18 sue categorie hanno firmato con noi 40 contratti».
Cgil, Susanna Camusso, l’inizio non è certo dei più tranquilli. La questione Fiat sarà calda ancora per i prossimi mesi. Sarà senz’altro il primo problema che dovrà affrontare e non sarà facile perché dovrà cercare di smussare gli spigoli della Fiom. L’organizzazione dei metalmeccanici della Cgil guidata da Maurizio Landini con le sue prese di posizione ha costretto in passato Guglielmo Epifani a tentare una soluzione soft o non soft. Ma l’impresa non è riuscita. Toccherà ora alla Camusso affrontare il problema. Non sarà facile anche perché la questione Fiat risulta alquanto complessa.Tanto per fare un esempio, questa mattina al ministero del Lavoro, governo, azienda e sindacati si incontreranno per affrontare il problema della cassa in deroga per Pomigliano. La Fiom ha già fatto sapere che il discorso della cassa in deroga è un discorso che non gradisce. Il fatto è che i metalmeccanici della Cgil temono che, essendo la cassa in deroga per il 70 per cento a carico delle Regioni, la Regione Campania non sia in grado di sostenere la spesa e quindi la Fiat dovrebbe intervenire anticipando i soldi. Cosa che, secondo la Fiom, se anche si verificasse ritarderebbe gli investimenti. Non sono d’accordo su questo aspetto gli altri sindacati: Fim-Cisl, Uilm-Uil e Fismic che invece ritengono la cassa in deroga l’unico strumento per tutelare il reddito dei lavoratori di Pomigliano.
tobre è il dato fornito al Salone del ciclo e motociclo di Milano.Non è tuttavia una mera questione di cicli e ricicli storici, né di soli numeri. È un dato di fatto che l’azienda guidata da Sergio Marchionne è sostanzialmente ferma a modelli vecchi e punta sui restyling. Inoltre gli incentivi per la rottamazione sono terminati e anche questo aspetto si è riflesso sulle immatricolazioni in maniera negativa. La speranza della direzione aziendale e anche della maggior parte dei sindacati è che la Newco, la Fabbrica Italia, proceda senza intoppi, a passo spedito, nella sua piena realizzazione consentendo così un concreto investimento nello stabilimento di Pomigliano a partire dal prossimo anno. Al momento è l’unica possibilità per invertire la tendenza di un mercato sempre più rallentato. Non occorre dimenticare infatti che
Da più parti si ripete che il vero problema del colosso torinese è la mancanza di nuovi modelli in grado di convincere chi compra un’auto
Che sia l’unica soluzione è peraltro dimostrato dal fatto che nello stabilimento di Pomigliano la Fiat esaurirà la cassa ordinaria e straordinaria il 14 novembre prossimo. E altri ammortizzatori sociali non ci sono. Di conseguenza non sembra esserci altra scelta. Domani peraltro ci sarà anche un incontro tra il ministro Romani e Marchionne soprattutto per il destino di Termini Imerese. Ad aggravare la situazione ci si è messa anche la Federauto, l’associazione che riunisce le concessionarie di autoveicoli, che ha stimato per la Fiat un ottobre nero: uno scivolone del 39,5 per cento delle immatricolazioni dei marchi Fiat, Lancia e Alfa Romeo a fronte di un meno 29 per cento del mercato generale. È senza dubbio un dato allarmante, ma che occorre inquadrare in un discorso più ampio. Essendo infatti il mercato dell’auto sostanzialmente ciclico, la Fiat sta ora, se così si può dire, scontando in negativo il trend positivo di alcuni anni fa quando era proprio la casa del Lingotto a inanellare percentuali positive mentre le altre, Volkswagen in testa, erano in profonda crisi. Né può consolare che il settore moto va anche peggio: -48,5 per cento di immatricolazioni nel settore a ot-
sul fronte delle immatricolazioni non perde solo la Fiat, ma anche le altre industrie essendo il dato generale del meno 29 per cento.
Più o meno le stesse cifre sulle immatricolazioni vengono riportate dal Centro studi Promotor Gl events: calo di immatricolazioni a ottobre del 28,82 per cento in generale (39,62 per Fiat, Lancia, Alfa Romeo) «Contrazioni più forti – sostiene il centro studi – ci sono state nella grande crisi del ‘93 e nel momento nero 2008-2009: La politica degli incentivi sembra essere passata come acqua sul vetro. Le prospettive di recupero sono legate alle novità dellecase autonomistiche e alla ripresa dell’economia. Molto importante – prosegue il centro studi – sarà il dato sul pil del terzo trimestre che sarà diffuso il 13 novembre: se in sarà crescita vorrà dire che la ripresa si consolida. Se invece vi fosse una contrazione si aprrirebbe un quadro di stagnazione». E l’incontro di domani del ministro allo Sviluppo Economico, Paolo Romani, con l’ad del Lingotto, Sergio Marchionne per parlare soprattutto del futuro di Termini Imerese, potrebbero essere i primi passi per risolvere tutti i nodi
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panorama
ragioni&torti di Giancristiano Desiderio
Napoli, simbolo di un governo ormai fallito ndici giorni fa Silvio Berlusconi disse: «In dieci giorni Napoli sarà pulita e il problema rifiuti sarà risolto». Napoli è sporca e il problema rifiuti non è risolto. Se non avete notizie sulla situazione napoletana - i telegiornali sono molto avari di notizie e ancor più di immagini - provate voi a farvi un giretto a Napoli oppure se avete una zia o un cugino che vivono da quelle parti chiedete loro e vedrete cosa vi risponderanno. La verità è molto più semplice di quanto non appaia: il governo, purtroppo, è riuscito a oscurare il buon risultato che aveva ottenuto due anni fa quando, dopo la vittoria elettorale, ripulì Napoli e oscurò Antonio Bassolino. Passati i dieci giorni Berlusconi ha provato a far ricadere la colpa della sporcizia di Napoli e delle collinette urbane di rifiuti sulla sindaca Rosa Russo Iervolino. E qui, allora, bisogna intendersi: la Rosa Russo è stata il peggior sindaco della storia di Napoli, tuttavia il governo Berlusconi che promette e non mantiene non può nascondersi dietro il dito, per quanto brutto, della Iervolino. C’è qualcosa che non va. Lo hanno capito tutti.
U
La storia della discarica di Terzigno è una brutta storia. Il governo, compreso l’ottimo sottosegretario Guido Bertolaso, ha contribuito a scrivere un brutto capitolo della discarica di Terzigno che prima doveva essere inevitabilmente e necessariamente aperta e poi, come per incanto, è stata prima sospesa e poi rimandata alla calende greche. Insomma, si sono cambiate le carte in tavola, mentre per le strade montava la protesta e gli scontri degeneravano in guerriglia urbana. Il governo ha mostrato visibilmente la sua debolezza politica nel rapporto con i suoi stessi elettori e sindaci. Tanto il capo del governo quanto Bertolaso sono stati al di sotto delle loro intenzioni e delle loro possibilità mostrandosi indecisi a tutto. La vicenda dei rifiuti di Napoli è quasi una sorta di cartina di tornasole per il destino a cui è andato incontro il governo che voleva cambiare l’Italia, ma si è fermato a Napoli. È significativo che Berlusconi abbia prima esitato a ritornare a Napoli, poi abbia deciso di andare e quindi sia ricomparso una seconda volta all’improvviso ma senza incontrare i sindaci. In questa seconda crisi dei rifiuti si è mostrata la caduta libera del governo che nel 2008 era forte della vittoria elettorale e della sua autorevolezza, mentre nell’autunno del 2010 è debole e mediocre. Soprattutto è privo di quell’autorevolezza che gli avrebbe consentito di far sentire le sue ragioni e magari anche di far passare i suoi torti. Questa mancanza di autorevolezza è figlia dell’idea che la crisi dei rifiuti in Campania fosse stata risolta con l’apertura delle discariche e il termovalorizzatore di Acerra. Alla prima distrazione, invece, ecco che la monnezza è ritornata alla grande, come avevamo più volte annunciato da queste pagine. Il governo Berlusconi, come ha fatto più volte, ha iniziato un lavoro e non l’ha finito, accontentandosi del risultato d’immagine che, però, presto svanisce lasciando emergere la triste realtà.
Weber e Trichet: lite sul futuro dell’euro Sempre più duro lo scontro per la successione alla Bce di Alessandro D’Amato
ROMA. In gioco non c’è soltanto una questione di cariche, ma soprattutto una diversa visione della politica monetaria. L’ultimo litigio tra grandi banchieri, che ha visto protagonisti da una parte Axel Weber, governatore della Bundesbank, e dall’altra il presidente della Banca Centrale Europea Jean Claude Trichet e Jean Claude Juncker, è lo specchio di uno scontro ben preciso in atto ormai da anni. E dal cui vincitore dipenderà gran parte della politica economica della zona euro, con tutte le (ovvie) ripercussioni sulle economie degli Stati che la compongono.
Weber non ha detto nulla di nuovo rispetto a quanto ha ripetuto in altre occasioni: di fronte alla decisione di Francoforte di acquistare bond irlandesi, il dominus della Bundesbank ha chiesto di interrompere questo tipo di politica, perché contribuisce a creare squilibri nel mercato delle obbligazioni e, soprattutto, impegna la Bce implicitamente a garantire gli stati che, come l’Irlanda, oggi si trovano in difficoltà economiche. Una dichiarazione che non stupisce: «I tassi di interesse non possono rimanere bassi per troppo tempo, perché la priorità della Bce è garantire la stabilità dei prezzi», aveva detto, annunciando poi che nuove misure per il ritiro della liquidità „sono già programmate per il primo trimestre 2011». Due dichiarazioni ben precise, che sono lo specchio di una politica economica in divenire: quella tedesca. L’economia teutonica va relativamente bene, di sicuro tra i grandi paesi la Germania è uno di quelli che sta lavorando meglio per uscire dalla crisi. In questa ottica, c’è un nemico virtuale che il paese deve temere: l’inflazione. Ma soprattutto, ce n’è uno reale: i piani di salvataggio che costringerebbero agli esborsi i paesi europei per aiutare quelli in difficoltà. Il modo in cui la Germania ha gestito la questione greca è paradigmatico: il tira e molla della diplomazia era il risultato di una pressione che la politica tedesca riceveva da chi, fuori e dentro la Bundesbank, non aveva alcuna voglia di morire per Atene. E soltanto l’esposizione degli istituti di credito tedeschi ha convinto alla fine Merkel e compagnia. Insomma, la Germania sta molto meglio rispetto a un anno fa, e vuole influenzare la Bce, la cui guida, secondo il patto ‘non scritto’, toccherebbe
proprio ai teutonici, visto che la regola voleva l’alternanza tra francesi e tedeschi. Ma c’è chi dice no.
E non solo sono Jean Claude Junker e Jean Claude Trichet, che hanno dichiarato (il primo addirittura “in trasferta”, a un giornale come Die Zeit) che la Bce «deve parlare con una sola voce». E il primo ministro del Lussemburgo ha rincarato la dose: Juncker, che presiede le riunioni dei ministri delle Finanze della zona euro, ha aggiunto che, su richiesta della Bce, aveva fatto in modo che vi fosse «una sorta di disciplina verbale» nell’ambito dell’Eurogruppo. «Vorrei che fosse anche il caso della Bce» ha aggiunto. Il meeting di politica monetaria della Bce di novembre si terrà domani. Si prevede che mantenga i tassi di interesse invariati all’1% per il 18mo mese di fila e che aspetti fino a dicembre per eliminare gradualmente le sue misure di sostegno monetario. Quindi, nulla di già deciso, come voleva Weber: una smentita su tutta la linea. Soprattutto, è Parigi il migliore alleato dei due: Nicholas Sarkozy ha già bocciato Weber come prossimo presidente della Bce, e questo – tra l’altro – dovrebbe aprire le porte – o meglio, non socchiuderle – al “nostro” candidato Mario Draghi. Il quale salirebbe al trono di Francoforte come rappresentante di una politica “di continuità”con quella di Trichet, e quindi in opposizione alla volontà tedesca. E un grande orgoglio per l’Italia. Ma c’è un però. E riguarda il fatto che se la politica monetaria si decide a Francoforte, quella economica invece si discute a Bruxelles. Quando è stato creato il fondo di stabilizzazione, il punto più importante segnato da Berlino, come ha fatto notare Mario Seminerio, è che in futuro il debito di uno stato dell’eurozona possa essere ristrutturato, facendo così sopportare agli investitori parte del rischio di dissesto sovrano. Una scelta del genere è destinata ad aumentare il premio al rischio sui paesi fiscalmente non virtuosi o che non crescono abbastanza (il rapporto Debito/Pil dipende, appunto, anche dalla crescita). Ed ecco perché si può già da oggi immaginare che in futuro il premio al credito per i paesi che emettono bond (l’Europa lo farà per 915 miliardi nel 2012) potrebbe aumentare. Ma soprattutto, a vedersela peggio potrebbero essere i paesi con scarsa crescita. Tra questi c’è anche l’Italia.
Sarkozy ha già bocciato il dominus della Bundesbank, ma tutti sanno che la poltrona europea spetta a un tedesco
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Dalla partecipazione del portavoce vaticano alla manifestazione di Roma ai silenzi su altre vicende «scottanti»
Se la Chiesa sceglie il silenzio L’atteggiamento tenuto su Ior e caso-Boffo non è lo stesso dello scandalo pedofilia di Luigi Accattoli onsidero esemplare il comportamento del portavoce vaticano – e dunque del Vaticano – nei confronti della manifestazione delle vittime dei preti pedofili che c’è stata domenica a Roma, tra Castel Sant’Angelo e piazza San Pietro. E ritengo che sarebbe gran cosa se lo stesso atteggiamento diretto e trasparente le autorità vaticane lo tenessero anche su altre questioni: dallo Ior al caso Boffo, ai Gentiluomini finiti sotto inchiesta. Ne verrebbe una scuola di etica pubblica a cui potrebbe utilmente guardare la nostra società civile e la
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ve diventare utile per tutti. Per questo vi invito a vedere la Chiesa sempre di più come un’alleata possibile o – secondo me – un’alleata già oggi attiva per gli scopi più nobili delle vostre battaglie». Padre Lombardi afferma di sentirsi “incoraggiato”, in questa presa di contatto con i responsabili della manifestazione, «dalle scelte fatte da papa Benedetto XVI di ascoltare in molte occasioni alcune vittime di abusi e di manifestare la volontà di fare tutto il possibile perché gli orribili crimini degli abusi sessuali non avvengano mai più».
Prima di incontrare la delegazione degli otto nel proprio ufficio, il portavoce del Papa si era avvicinato al gruppo dei manifestanti, che andavano riunendosi davanti a Castel Sant’Angelo e si era beccato qualche grido ostile: “Vergogna – vergogna”, ma non aveva drammatizzato e si era allontanato perché i responsabili della manifestazione non erano presenti, lasciando detto dove cercarlo. Nell’incontro che è poi avvenuto verso le 19 i manifestanti gli hanno comunicato l’intenzione di «chiedere al Papa di agire seriamente e di ordinare ai ve-
scovi di denunciare i preti pedofili». Sono dell’idea che il duplice approccio del padre Lombardi alla manifestazione internazionale – il tentativo di essere presente sul posto e poi l’incontro con lettera – possa costituire uno sprone per le conferenze episcopali e i singoli vescovi su che cosa fare in occasioni simili, che in futuro si moltiplicheranno: la manifestazione di Roma, promossa dall’associazione statunitense Survivor’s Voice («La voce dei sopravvissuti»), aveva lo scopo di avviare la costituzione di una “rete mondiale” di coordinamento degli “abusati”. C’era già stato il 25 settembre un primo convegno italiano delle “vittime dei preti pedofili” a Verona ma senza presenze della Chiesa locale o della Cei.
Anche per altre questioni del tutto diverse, ma analoghe per la sfida comunicati-
La grande attenzione riservata da Padre Lombardi agli «abusati» vale da esempio per ogni vicenda controversa
nostra politica. C’era dunque una manifestazione delle vittime dei preti pedofili che ha raccolto un centinaio di persone, di diversi paesi, otto delle quali hanno avuto un incontro di un’ora con il padre Federico Lombardi che ha loro consegnato una lettera: abile mossa a evitare che poi i media gli facessero dire questo e quello. Ora sappiamo invece con esattezza che cosa ha inteso dire.
«Le finestre del mio ufficio alla Radio Vaticana sono esattamente qui di fronte e quindi mi è sembrato giusto ascoltare e offrire un segno di attenzione al vostro raduno»: così esordisce – con approccio da uomo a uomo – il portavoce nella sua lettera. Ed ecco il passaggio più importante: «Ciò che la Chiesa impara in questi anni, anche sotto la spinta data da voi e da altri gruppi, e le iniziative che può prendere per purificarsi e diventare un luogo modello di sicurezza per i giovani, de-
Botta e risposta tra Di Segni e il produttore Bernabei
Polemica sulla fiction su Pio XII ROMA. È ancora polemica sulla fiction dedicata a Pio XII attaccata dal rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni. Sotto il cielo di Roma di Raduno, appunto dedicata al Pontefice che fu costretto a convivere con il fascismo e il nazismo, è stata definita, in un’intervista al mensile Shalom, «una patacca propagandistica, un’opera apologetica». Pronta la replica di Ettore Bernabei, il presidente della Lux Vide, che ha prodotto la trasmissione: «Non è una fiction a senso unico, assolutamente no». Interpretando la preoccupazione del mondo ebraico, il mensile dedica la copertina del numero di novembre alla polemica sollevata dallo sceneggiato dicendo che è grave «che un prodotto culturale con un’impostazione storica carente,
piena di errori e imprecisioni», contribuisca a dare una lettura «assolutoria su scelte, vicende e silenzi del papato di Pio XII che sono ancora oggetto di studi e che ancora attendono di essere vagliate alla luce dei documenti non ancora resi pubblici dagli archivi vaticani». «Molto semplicemente direi - ha spiegato Di Segni che questo sceneggiato è una patacca, che persegue una finalità ben precisa, quella di dimostrare l’assoluta bontà di quel Pontefice e la giustificazione politica e morale di tutto ciò che ha fatto. La questione quanto mai controversa non si può esaurire con una discussione rapida e semplificata che finisce con una assoluzione finale scontata e apologetica, senza mostrare tutti gli aspetti e tutti i dati».
va posta alla Chiesa, sarebbe utile un approccio coraggioso e leale come quello tentato domenica con buon successo dal padre Lombardi. Sullo Ior e sue vicende confuse – se non proprio losche – nelle ultime settimane si è avuto un notevole battage mediatico e mi pare non si sia risposto con aderenza alle questioni che venivano poste. Ci sono in corso indagini giudiziarie e si può capire lo scrupolo della riservatezza, ma sta di fatto che non si è detto abbastanza. Meno giustificata mi pare la piena reticenza – stavolta da parte della Cei – sul ritorno in pista di Dino Boffo come responsabile di TV 2000, a poco più di un anno dalle dimissioni da Avvenire imposte da un diffamatorio attacco del Giornale di Feltri. Nulla fu detto allora sul perché delle dimissioni e nulla ora sulle ragioni del recupero. Una linea dell’interlocuzione con chi interpella e con i media, quale è stata adottata per la manifestazione di domenica, gioverebbe all’immagine della Santa Sede e aiuterebbe di riflesso anche la vita pubblica italiana a uscire – poniamo – dalla paranoia propagandistica orchestrata dai due maggiori telegiornali e a guardare in faccia la realtà. www.luigiaccattoli.it
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l dibattito, ormai, è arrivato al capolinea. Non c’è più niente da dire. Ma i riflettori rimangono ben accesi e la televisione nazionale, dalla mattina sino a notte fonda, continua immancabilmente a nutrirsi del sangue delle vittime della cronaca nera delle ultime settimane, soprattutto di quello di Sarah, la ragazza della porta accanto stroncata dalle perversioni sessuali dello zio o dall’invidia della cugina, o forse da entrambe le cose, ancora non si sa, e per questo i diligenti organi di informazione nazionale non si arrenderanno finché non saremo stati tutti dovutamente edotti su ogni singolo dettaglio della terribile vicenda. Perché la comunità deve essere informata, e loro fanno solamente il proprio dovere. E se poi, magari, si è un tantino esagerato, quando la notizia del ritrovamento del corpo di Sarah è stata data alla madre in diretta tv, che volete farci, non è colpa di nessuno, non si poteva evitare, o forse sì, ma tanto sarebbe stato inutile, perché quel volto pietrificato dall’incredulità lo avremmo visto e rivisto su internet, su qualche televisione locale, magari sul telefonino. Perché la spina dell’orrore, come ha scritto Aldo Grasso - che pure con il ciarpame televisivo non è mai stato tenero - non si può più staccare. C’è stato un punto di non ritorno, sempre secondo il critico, con la tragedia di Vermicino, nel 1981, una diretta tv durata quanto l’agonia di un bambino caduto in un pozzo e dei suoi genitori.
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Da allora, è vero, i media non hanno perso occasione per fare del dolore un palcoscenico collettivo in cui indugiare secondo le possibilità offerte dal fatto di cui ci si occupava; tanto più era intricato, misterioso, efferato o prolungato nella sua risoluzione, tanto più era considerato interessante, seguito, spulciato e indagato fin nei meandri dei dettagli più irrilevanti. L’evoluzione della tecnologia, poi, ha fatto il resto, e il Grande Fratello di orwelliana memoria, quello politico che spiava le case, la vita, i gesti, i pensieri e anche solo gli sguardi, per trovarvi un indizio di colpevolezza, si è materializzato in quello mediatico, che si avventa come un avvoltoio sui corpi ancora caldi delle vittime di determinati crimini, spalanca le porte delle case dei loro familiari, li usa con falsa pietà quali protagonisti di un insperato show di sicuro successo, e si ciba per giorni, settimane, a volte mesi, di un vortice mediatico-televisivo fatto della ripetiti-
Talk-show, contenitori, interviste “morbose”: il sociologo Francesco Albero
Nostro orrore quotidiano Tutto cominciò con la tragedia di Vermicino. Ma, oggi, la storia di Sarah ha segnato un punto di non ritorno nella spettacolarizzazione del dolore di Valentina Meliadò L’occhio voluttuoso della telecamera sarà sempre lì, ovunque l’orrore si manifesterà, per inzuppare il biscotto in ogni nuovo lago di sangue, e soddisfare il desiderio del pubblico di partecipare veramente alle indagini, come mi ha chiarito il sociologo Francesco Alberoni. Bene. Anzi, male. Ma è davvero giusto valutare l’attenzione ossessiva dei media mettendo insieme il caso di Vermicino, gli attacchi terroristici di New York, Madrid, Londra o Beslan, con il voyerismo mediatico che si è scatenato a seguito della scomparsa e della morte di Sarah Scazzi? Non è certo né il primo né l’ultimo caso di spettacolarizzazione
“
La chiamano informazione, ma il limite tra dovere di cronaca e soddisfazione dell’esigenza di sapere è stato superato da tempo. E il resto è solo spazzatura vità assillante di ogni più piccola novità investigativa. Rita Dalla Chiesa, figlia del generale ucciso dalla mafia a Palermo nel 1982, e noto volto televisivo, venne a sapere della morte del padre proprio dai media, non dalle istituzioni, e non ha perso occasione per deprecare la logica spietata di un’informazione che passa sopra i sentimenti delle vittime e dei loro familiari come un rullo compressore, con la scusa della superiore finalità del dovere di cronaca. Ma da allora, semmai, la spettacolarizzazione delle tragedie umane e collettive italiane non ha fatto che crescere a dismisura. Ha dunque ragione Aldo Grasso? Di fatto, forse, sì.
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mediatica, ma l’indifferenziazione con cui sono stati valutati l’atteggiamento e l’interesse del pubblico che segue queste vicende, con quel livello di attenzione che consente alle trasmissioni televisive di indugiarvi per mesi, non è accettabile.
È davvero troppo facile scaricare sulla collettività la colpa della persistenza e dello squallore con cui si costruiscono giornate televisive intorno al garage dell’orrore, allo zio orco, alla cugina ambigua, ai segreti di famiglia e alla villetta del mistero, così come c’è da chiedersi se quel terribile pugno che ha annientato Maricica alla stazione metro Ana-
gnina, a Roma, sia stato mandato in onda centinaia e centinaia di volte solo per soddisfare il desiderio morboso della gente di vederlo ancora, e ancora. Perché se anche chi scrive, che non accende la televisione più di mezz’ora al giorno, è riuscita a vedere quella immagine almeno dieci volte, c’è davvero qualcosa che non va. Esiste certamente un meccanismo sociologico collettivo, come mi ha spiegato Francesco Alberoni, alla base dell’interesse morboso che si crea intorno a determinati crimini, e che funziona più o meno così: viviamo all’interno del villaggio globale (la tecnologia moderna ci consente di “partecipare” a eventi che
accadono a migliaia di chilometri di distanza da noi), ma naturalmente più il fatto ci riguarda da vicino più l’interesse aumenta. La curiosità è un fatto atavico, e se l’attenzione collettiva si concentra su un determinato crimine piuttosto che su un altro, questo non è dovuto al grado di efferatezza del reato, ma dal caso, ossia dalle componenti del giallo cui la comunità è chiamata a partecipare. Più il mistero è fitto e intricato, più si prolunga nel tempo, più la verità viene fuori lentamente, contraddittoriamente, più spuntano nuovi indizi, nuove tracce, nuovi pezzi di un puzzle di difficile soluzione, più l’interesse cresce e l’audience è garantita. Il caso di Sarah, con la compresenza di tutti questi elementi, assurge al livello di icona, il simbolo di vicende che colpiscono tanti altri ma di cui magari non si viene a sapere quasi nulla. Va inoltre considerato, sempre secondo Alberoni, che la cronaca nera ha sempre appassionato il pubblico. «La gente non è cambiata, non c’è maggiore morbosità, non si deve sottovalutare la malvagità dell’animo umano».Vero. Giusto. Opinabile.
Ma perché, invece, non dare peso ai lati positivi dell’animo umano? La differenza tra Vermicino e il caso di Sarah la fa la distanza che passa tra l’empatia con cui ci si immedesima e si vive l’angoscia e il dolore per gli altri, e la curiosità voyeristica per la scabrosità, il mistero di una storia fatta di sesso e sangue, il valzer delle gelide chiacchiere intorno alla giovane vita di una ragazza che ci è stata presentata prima come un’adolescente con troppa voglia di crescere, poi, dopo la scoperta della truce
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oni analizza la mania collettiva per la cronaca nera
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Al supermercato si compra quello che c’è, non ciò che non è in vendita. Allo stesso modo, quello tra il pubblico e la televisione è un rapporto di offerta e domanda
madre di Sarah ha appreso la notizia della morte della figlia. La risposta di giornalisti, sociologi e massmediologi, nella quasi totalità, è stata più o meno la seguente: cari signori, se non vi piace, non guardate.
Uno dei tanti curiosi che in queste settimane hanno fotografato il garage dove è stata uccisa Sarah Scazzi. Sopra, teleoperatori e carabinieri davanti all’abitazione della vittima. A destra, Sabrina Messeri, accusata dell’omicidio della cugina. A sinistra, Francesco Alberoni verità, come una ragazzina dolce e ingenua caduta nelle mani dello zio mostro. Nel caso di Sarah il grande interesse è stato determinato certamente da entrambi gli elementi, ma la differenza tra il coinvolgimento sentimentale, umano, il desiderio di capire cosa passi per la testa di chi compie azioni così orribili, il bisogno di darsi una spiegazione, di trovare una ragione, di razionalizzare un fatto per poterlo da un lato somatizzare e sopportare, e dall’altro giudicare e rifiutare, e la spettacolarizzazione della cronaca nera, rimane enorme. Un conto è aver guardato, ogni volta con la stessa incredulità, le immagini della caduta delle Torri gemelle migliaia e migliaia di volte, aver trepidato giorno per giorno
per la sorte dei minatori cileni, aver capito con le immagini della stazione di Atocha e la strage di Beslan che il mondo è entrato in una nuova, delicatissima fase, e un altro è l’improvvisazione dei salotti di Porta a Porta, Matrix, Quarto grado, La vita in diretta e quant’altro ad aule di tribunale, studi psichiatrici, obitori, agenzie investigative, laboratori di analisi. E giù ore e ore di trasmissione per ogni nuova macchia sospetta, per ogni parola, ammissione, ritrattazione, lettera. E giù con la riproposizione ossessiva delle immagini di quel minuscolo pozzo, di quel garage, di quella villetta in cui i giornalisti hanno stazionato per settimane incollati al cancello. La chiamano informazione, ma il limite del dovere di cronaca e la soddisfazione dell’esigenza collettiva di sapere è stato superato da tempo, e il resto è solo spazzatura che si rifiuta di fare i conti con la propria pochezza, e che si è difesa come un leone davanti alla pioggia di critiche pervenutale da tutte le parti, soprattutto per la modalità con cui la
La colpa degli eccessi della tv è di chi la tv la guarda facendo registrare ottimi ascolti. È un circolo vizioso. Questo ci si è sentiti dire. Questo, e persino che anche grandi giornalisti e scrittori del passato non avrebbero esitato ad usare gli strumenti tecnologici odierni per rendere più efficaci e interessanti le loro opere. Quasi che la presenza di determinati strumenti possa giustificare l’uso indiscriminato e, talvolta, criminale che se ne fa. Ma a questi campioni di giustificazionismo mediatico qualcuno dovrebbe spiegare ciò che Alberoni ha spiegato a me: al supermercato si compra quello che c’è, non ciò che non è in vendita. Quello tra il pubblico e la televisione è un rapporto di offerta e domanda. Non c’è dubbio che vi siano tantissime persone la cui curiosità trascende nella morbosità voyeristica di chi non si preoccupa e non partecipa emotivamente al fatto, ma intende solo soddisfare gli istinti più beceri dell’animo umano, altrimenti non si spiegherebbero i “pellegrinaggi” turistici ad Avetrana, ma è altrettanto vero che i media non si preoccupano d’altro che di sollecitare quegli istinti in modo ossessivo, martellante, per poi scaricare la responsabilità del successo dell’audience di una programmazione assillante proprio sui gusti del pubblico. Solo che il rapporto tra media e collettività non può essere regolato dalle leggi del libero mercato, meno
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che mai in un paese dove la televisione pullula di giornalisti e intellettuali che pretendono di insegnare agli italiani cosa fare, come pensare, chi votare e come vivere, salvo poi criticarli e insultarne gli atavici difetti se non seguono le loro direttive. Se dunque i media pretendono di essere considerati alla stregua di una istituzione nazionale, devono comportarsi di conseguenza. Innanzitutto osando, provando ad offrire qualcosa di diverso. Chi ha la certezza che una televisione più sobria, intelligente, rispettosa e fautrice del senso comune non verrebbe apprezzata? Ma, ancora più importante, laddove esiste una televisione pubblica che vive dei soldi dei contribuenti, non si dica che il programma della Sciarelli non poteva essere fermato. Doveva esserlo. E non importa se poi avremmo visto quella stessa scena altrove. Il segnale doveva venire dall’ente pubblico, mentre le istituzioni, in generale, in questa vicenda non sono quasi entrate. Perché i pellegrinaggi turistici ad Avetrana non sono stati bloccati? Dire che non si poteva fare è riduttivo. Il Questore, il Prefetto, il Governo, in un modo o nell’altro si sarebbe potuto intervenire. Piuttosto varando un decreto legislativo ad hoc, se ne fanno tanti. Ma questo sarebbe servito solamente ad evitare lo sciacallaggio nella tragedia (davvero non esiste in Italia una legge a tutela della dignità e del rispetto dei morti?), ed evidentemente nessuno ha sentito questa come una necessità. Sempre secondo Francesco Alberoni, la società ha bisogno di casi esemplari su cui riflettere e ragionare. Bene. Che si rifletta allora. Perché si sta toccando davvero il fondo.
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Rapporti bilaterali. Cameron celebra la firma dei Trattati dicendo: «Entriamo in una nuova era». Sarkozy: «L’intesa è senza precedenti». Ma i cittadini sono perplessi
L’unione fa la... Difesa Francia e Gran Bretagna siglano due accordi storici in materia di sicurezza nucleare e di partnership militare di Luisa Arezzo desso è ufficiale: il partenariato “storico” franco-britannico in materia di difesa e sicurezza è stato messo nero su bianco ieri dai leader dei due paesi, il presidente Nicolas Sarkozy e il primo ministro David Cameron. Due i trattati firmati nella capitale inglese, in ragione di una riduzione dei costi resa ancor più necessaria dalla crisi economica internazionale: gli accordi tra Parigi e Londra prevedono, in particolare, la creazione di una forza militare comune e la simulazione del funzionamento del loro arsenale nucleare in un laboratorio unico. «Oggi apriamo un nuovo capitolo» nelle nostre relazioni, ha dichiarato Cameron, sottolineando che Gran Bretagna e Francia «sono dei partner naturali» che «resteranno nazioni sovrane». Il primo dei due trattati firmati a Londra prevede la creazione di una forza militare congiunta di circa 5mila uomini, da utilizzare per operazioni bilaterali all’estero o sotto il cappello dell’Onu, della Nato o dell’Unione Europea. Il secondo accordo di cooperazione invece impegna i due paesi a procedere, a partire dal 2014, alla simulazione del funzionamento
A
Tra il 2014 ed il 2020, sorgerà un sito sperimentale a Valduc, a 45 km da Parigi, e un centro ricerche ad Aldermaston, in Gran Bretagna del loro arsenale nucleare in uno stesso laboratorio. In questo modo, Francia e Gran Bretagna (che insieme rappresentano la metà delle spese destinate alla Difesa dei 27 membri della Ue), intendono rafforzare la cooperazione pur restando capaci «di dispiegare forze armate in modo indipendente». Parola del premier inglese David Cameron, intervenuto ieri in conferenza stampa a Londra accanto al presidente francese Nicolas Sarkozy, per illustrare i
contenuti degli accordi. «Si tratta di difendere i nostri interessi nazionali, è qualcosa di pratico, una cooperazione tra due Paesi sovrani», ha insistito il capo del governo di Londra, spiegando che il primo accordo sulla cooperazione impegnerà i due Paesi a lavorare «a più stretto con-
tatto di quanto sia stato fatto in precedenza», mentre il secondo porterà ad una maggiore collaborazione in materia di sicurezza nucleare. Una precisazione per rispondere a chi, nel suo stesso partito, tradizionalmente su posizioni euroscettiche, ha visto nella firma degli accordi
Anche il Belgio blocca le merci dallo Yemen
Pacchi bomba: allerta dei 27 Convocata riunione d’urgenza Venerdì si terrà a Bruxelles una riunione straordinaria, convocata dalla presidenza belga dell’Ue a livello di rappresentanti diplomatici dei 27 paesi, per affrontare «la problematica della sicurezza degli aerei cargo in provenienza da paesi terzi». È quanto ha annunciato un portavoce del segretario di stato belga ai trasporti Etienne Schouppe. Dopo il ritrovamento di pacchi bomba su voli cargo in provenienza dallo Yemen e diretti verso gli Usa e intercettati a Dubai e in Gran Bretagna, la presidenza belga dell’Ue cerca di inserire all’ordine del giorno la questione della sicurezza di questo tipo di aerei al Consi-
glio Ue Affari interni e giustizia previsto il 7 e 8 novembre e a quello Trasporti in programma il 2 dicembre prossimo. La riunione prevista questo venerdì dovrebbe essere quindi “preparatoria” per gli incontri ministeriali formali già in programma nelle prossime settimane. Sono già diversi paesi Ue che hanno infatti deciso di sospendere temporaneamente l’atterraggio di voli cargo sul proprio suolo in provenienza dallo Yemen. Tra questi, Francia, Germania, Gran Bretagna, Olanda e lo stesso Belgio, oltre poi a Stati Uniti e Canada. L’Italia, al momento, non ha ritenuto necessario bloccare gli atterraggi.
un primo passo verso la creazione di un esercito europeo. Sarkozy ha dal canto suo parlato di accordi «senza precedenti», tenendo a precisare anche lui che l’intesa non equivale ad una cessione di porzioni di sovranità. Il capo dell’Eliseo ha in particolare definito improbabile la situazione in cui la Gran Bretagna possa trovarsi nel pieno di una crisi, senza che quest’ultima non coinvolga la Francia. «Se voi, amici inglesi, doveste affrontare una crisi, riuscireste ad immaginare la Francia che semplicemente resta lì ferma, con le braccia conserte, e che dice “non è un problema nostro”?».
Ma ai giornalisti che chiedevano nello specifico cosa potrebbe succedere in caso di necessità, Sarkozy ha evitato di entrare nei dettagli, limitandosi ad assicurare che la Francia «non si girerà i pollici» e insistendo sulla volontà dei due paesi di lavorare “mano nella mano”. «Tutte le condizioni per una relazione assolutamente eccezionale tra Gran Bretagna e Francia saranno soddisfatte», ha spiegato, sottolineando che tra i due paesi esiste «un livello di fiducia mai raggiunto nella storia». «Riteniamo che gli sforzi per la sicurezza non devono diminuire in un mondo pericoloso come il nostro», ha detto
Secondo un sondaggio del “Financial Times” i sudditi inglesi non sono affatto convinti di questo nuovo partenariato militare Sarkozy. «Nel momento in cui alcuni sostengono che l’Europa sta accusando una certa povertà strategica, mostriamo, noi inglesi e francesi, che non è così», ha aggiunto. «Non si risolveranno i problemi del 21esimo secolo con le idee del 20esimo», ha osservato ancora Sarkozy. Gli accordi siglati ieri, tuttavia, sono stati al centro di dure critiche, soprattutto nel Regno Unito. L’opinione pubblica britannica è da sempre contraria a un accordo di partnership militare e la stampa locale ha manifestato il timore di subordinare le forze armate di Londra «agli ordini della Francia». Se il Sun ammette che «il matrimonio ha la sua unica ragione d’essere sul piano finanziario», il Telegraph non usa mezzi termini nel ricordare che «le forze combattenti britanniche, compresa la Sas (unità d’elite, ndr.) potrebbero dover obbedire ai
mondo
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È il primo passo verso una maggiore integrazione della Difesa Ue
La crisi riuscirà dove l’Europa ha fallito Un anno fa nessuno avrebbe immaginato una simile sinergia. Ma se le finanze scarseggiano, i governi collaborano di Pietro Batacchi lla fine la crisi probabilmente riuscirà dove finora l’Europa aveva sempre fallito, ovvero nel favorire una maggiore integrazione del comparto Difesa europeo. Il trattato tra Francia e Regno Unito potrebbe essere solo il primo passo verso la vera Europa della Difesa, dal momento che questo abbraccia diversi campi, e non solo quello, importantissimo, del nucleare. In questo settore, il trattato prevede la creazione, tra il 2014 ed il 2020, di un sito per la sperimentazione a Valduc, a 45 km da Parigi, e di un centro di ricerca congiunto ad Aldermaston, in Gran Bretagna. Il sito di Valduc permetterà a scienziati francesi e britannici di «standardizzare le prestazioni delle testate e dei materiali nucleari» delle forze armate dei due Paesi, allo scopo di assicurare «la funzionalità e la sicurezza a lungo termine» dei rispettivi arsenali nucleari. Ogni procedura di test e sperimentazione avverrà in laboratorio e mediante l’ausilio dei più avanzati sistemi di simulazione. Del resto i due paesi sono membri del Trattato di non proliferazione nucleare e quindi possono solo simulare in laboratorio il funzionamento di eventuali nuove testate atomiche. In questo modo potranno sensibilmente essere ridotti gli esorbitanti costi di mantenimento dei due arsenali e condivisi i costi di sviluppo di eventuali nuovi ordigni o sistemi. In generale, mantenere in efficienza un arsenale nucleare è estremamente costoso. La Francia, per esempio, dedica alla “Force de Frappe” 9 miliardi di euro l’anno, pari ad un 20% del proprio bilancio della Difesa. Londra spende molto meno, anche perché il proprio deterrente è strettamente legato a quello americano, ma da anni è in corso un acceso dibattito pubblico sulla necessità o meno di mantenerlo in vita. Al momento, la nuova strategia di difesa britannica, uscita di recente, ha rimandato ogni decisione sul futuro dell’arsenale nucleare a dopo il 2015. Una scappatoia dopo che alcune stime avevano parlato di una spesa per il rinnovo del deterrente nucleare britannico superiore ai 20 miliardi di sterline. La cooperazione con la Francia va letta allora in un quadro fatto di ristrettezze e difficoltà finanziarie. Entrambi i Paesi, a causa della crisi economica, hanno apportato significativi contrazioni ai propri bi-
A
In alto: il presidente francese Sarkozy assieme al primo ministro britannico Cameron; a sinistra: la portaerei francese Charles de Gaulle; a destra: un test atomico francesi». Il Times, da parte sua, ricorda che l’idea di un partenariato franco-britannico è «più vecchia di quanto non si creda». Il giornale, a tal proposito, riporta la posizione che fu di Wiston Churchill che, nel 1940, propose la fusione degli eserciti dei due paesi per combattere contro i nazisti.
Il partenariato militare franco-britannico è certamente sintomatico di una tendenza generale dei paesi europei a mettere in comune equipaggiamenti costosi in tempi di crisi di bilancio, senza tuttavia fondere i rispettivi eserciti. Anche se Parigi e Londra sono fra le poche capitali europee a rispettare la soglia del 2% del loro Prodotto interno lordo consacrato alla Difesa, soglia stabilita in sede Nato, i due paesi sono ancora lontani dal 3,7% e dal 4,4% che avevano destinato al loro budget per la Difesa dopo la fine della Guerra Fredda. E gli sforzi in questo settore di altri grandi Stati europei come la Germania, l’Italia e la Spagna sono ancora più deboli. Di fronte alla crisi, la maggior parte dei paesi europei ha deciso infatti vigorosi tagli di bilancio: il Regno Unito si troverà senza
portaerei per cinque anni (e dunque potrà fare affidamento sulla francese Charles de Gaulle) e la Germania ridurrà di metà la forza lavoro dei suoi soldati dispiegabili all’estero. Il 24 settembre scorso, inoltre, il ministro francese della Difesa Hervé Morin aveva brandito lo spettro di un’Europa ridotta a “protettorato” delle potenze cinese e americana. In nome di un risparmio fino al 50% e a favore di una Difesa comune si era espressa anche l’Italia, ma non è certo la sola.Tant’è che di tutto questo si discuterà al prossimo summit dell’Unione europea, il 16 e 17 dicembre. Ma se l’idea di un esercito europeo integrato è un obiettivo ben noto della diplomazia italiana, la sua reale fattibilità è ancora tutta da verificare. Intanto, occorrerebbe rivedere il Trattato di Lisbona, che attribuisce alla Nato il compito di organizzare la difesa degli europei. E a questo proposito, anche il ministro britannico Liam Fox è stato chiaro: l’accordo franco-britannico è un mezzo per realizzare economie di scala, e non un passo in avanti, nella direzione di un esercito europeo integrato. Però la direzione è proprio quella.
lanci della Difesa. Parigi, che già aveva attuato forti riduzione con il Libro Bianco 2008, nel pieno della rupture sarkoziana, ridimensionando anche la propria presenza militare in Africa, ha varato quest’anno nuovi tagli, per un valore di 1,3 miliardi di euro, che porteranno alla rinuncia di alcuni programmi importanti quali, tra gli altri, l’ammodernamento dei caccia multiruolo Mirage 2000. Le spese militari torneranno leggermente a crescere solo a partire dal prossimi anno e nei due anni successivi. Quello attuato da Londra, invece, più che un vero e proprio taglio, è un ridimensionamento a tutti gli effetti che potrebbe trasformare il Regno Unito in una “semplice”potenza regionale.
Nei prossimi dieci anni, il Regno Unito ridurrà gli organici delle proprie Forze Armate di 17 mila soldati, che scenderanno a 175 mila, meno di quanti ne abbiano oggi l’Italia o i Marines americani. La Difesa dovrà fare a meno anche di 25 mila dipendenti civili mentre, per quanto riguarda le nuove acquisizioni, diversi programmi subiranno ridimensionamenti o addirittura la cancellazione. In generale, le spese per il procurement verranno ridotte del 18% nei prossimi anni. La Royal Navy per 10 anni non avrà più portaerei, una volta completate le operazioni in Afghanistan, verranno messi a terra tutti gli aerei Tornado della Raf, mentre l’Esercito vedrà la propria componente operativa ridursi a sole cinque Brigate, più la 16° Brigata d’Assalto Aereo. In queste condizioni, allora, sia per la Francia sia per il Regno Unito conviene cooperare: un modo per risparmiare e razionalizzare cercando di mantenere fede agli impegni agendo in modo congiunto. Non a caso, come già accennato, nell’accordo firmato ieri si parla anche di cooperazioni nel settore industriale, per ridurre così i costi di sviluppo ed ingegnerizzazione dei nuovi sistemi d’arma, della formazione di una brigata congiunta per le operazioni fuori area e dell’uso congiunto delle portaerei. In particolare, la portaerei francese Charles de Gaulle e una delle due nuove portaerei britanniche in fase di realizzazione, la Prince of Wales, saranno rese compatibili e potranno entrambe operare con i velivoli dell’una o dell’altra. A turno, dunque, c’è chi metterà la nave e chi, invece, gli aerei… E l’Europa della Difesa, forse, si avvicina
I due paesi, membri del Trattato di non proliferazione nucleare, possono solo simulare in laboratorio il funzionamento di nuove testate
Senior Analyst Ce.S.I
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Midterm. Ieri al voto 100 milioni di cittadini americani per eleggere i 435 deputati della Camera e un terzo dei senatori
Obama, il convitato di pietra
Più che una consultazione, un (brutto) referendum sul presidente di Mario Arpino eri i cittadini americani sono andati a votare per eleggere i 435 membri della Camera dei rappresentanti e un terzo dei 100 senatori. In 39 stati si è votato anche per eleggere i governatori. Per quanto non lo coinvolgano direttamente - è uno dei pochi uomini politici a non figurare nelle liste dei candidati - nelle elezioni di medio termine il Presidente resta pur sempre il vero convitato di pietra. Se, infatti, da un lato la sua politica del primo biennio ha avuto una forte incidenza sui risultati, dall’altra sono proprio questi risultati che potrebbero condizionare il suo futuro politico. Ormai, nel bene o nel male, con il voto di ieri l’incubo per Barack Obama è finito. I primi risultati già lo indicano, ma tra oggi e domani si vedrà esattamente in quale misura il popolo americano abbia gradito questi due anni di presidenza. Già adesso le previsioni, non rosee, sembrano trovare la conferma più piena. Non è la prima volta che un presidente nella prova delle mid-term resta “azzoppato”.
I
È successo a Bush padre per tutto il mandato, a Reagan per due anni, a Clinton per sei anni e a Bush figlio negli ultimi due anni del secondo mandato. Tuttavia, le prerogative costituzionali del Presidente non cambiano e, paradossalmente, vi sono stati anche casi in cui la sconfitta nelle mid-term ha portato ad un progressivo rafforzamento dell’esecutivo. Era già noto come la condivisione dell’operato presidenziale trovasse più sostenitori all’estero piuttosto che all’interno del Paese: oggi è
chiaro che il successivo biennio sarà tutto in salita. Certamente Obama non è all’origine di tutto ciò che si è dimostrato negativo e molte delle situazioni peggiori, come Afghanistan, Iraq, Corea del Nord e Iran sono state ereditate, oppure - come la crisi economica - erano qualcosa già in incubazione, che si sarebbe sviluppata comunque. Ciò che gli ex sostenitori non gli perdonano, tuttavia, è l’aver suscitato eccessive illusioni in una campagna tanto brillante quanto focosa ed incauta. Verrebbe da dire “astuta”, ma una manciata di buona fede mischiata all’entusiasmo del
Nulla è perduto. Ma per la Casa Bianca adesso la via è in salita. E dovrà dare credibilità alla sua azione Accanto: Sarah Palin; sopra: la coppia presidenziale a un comizio
novizio deve pur sempre essere ammessa.
Dopo che le prime mosse in politica interna - banche, economia, finanza e assistenza sociale - non sono state percepite dalla popolazione, almeno in termini di risultato immediato, come un vero cambiamento (richiedono infatti anni di maturazione), Obama ha cominciato a guardare alla politica estera. Tardivamente, ma lo ha fatto. Anche qui, tuttavia, pur avendolo promesso, non ha saputo o potuto essere realmente innovativo . Pressato dalla fretta, anche lui come tutti i predecessori è rimasto vittima del consueto “pendolo” americano, che oscilla tra i tradizionali estremi del “contenimento” e “dell’uso della forza”. Se non che, in un mondo reso piatto dalla globalizzazione, queste due formule sembrano aver perso ogni loro efficacia. Come si fa, ad esempio, a contenere l’esplosione economico-militare e tecnologica della
Cina, verso la quale gli Stati Uniti sono vincolati da un debito enorme, che ne paralizza ogni iniziativa? Come si fa ad essere più rigidi con i nordcoreani, se si disturba la Cina? Nell’altro estremo, come si è visto in Iraq e in Afghanistan, l’uso della forza si sta palesemente dimostrando o inattuabile, o inefficace.Tanto più che gli Stati Uniti, pur rimanendo ancora al momento la maggiore potenza economica, militare e tecnologica del mondo, hanno oggi un deficit di credibilità anche per l’incerta azione di Obama.
Nel secondo biennio bisognerà tenerne conto. Ma come? La via della “mano tesa”, non disponendo a monte di una minaccia dell’uso della forza attendibile, se ha avuto per ora qualche limitato successo con la Russia, in tutti gli altri casi si è dimostrata assai poco percorribile. È così che Barack Obama si è presentato ad un pubblico prima plaudente - era il “suo” pubblico - con molte armi spuntate. Nulla è perduto, ma sarà dura.
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In Grecia esplosioni nelle ambasciate russa e svizzera
Strage nei quartieri sciiti della capitale. La polizia: «Un inferno»
Allarme bomba: pacco sospetto alla Merkel, cinque ad Atene
Baghdad, saltano 11 autobombe. I morti sono più di cento
BERLINO. Un pacco sospetto è stato scoperto e sequestrato ieri dalla polizia presso la sede della cancelleria di Angela Merkel, a Berlino. Al momento del ritrovamento, la Merkel si trovava in Belgio. Lo hanno riferito fonti della sicurezza. Un portavoce del governo ha spiegato che non ci sono feriti e che è in corso un’esame degli artificieri per verificare se il pacco contenga esplosivo. Il portavoce del governo ha precisato che il pacco sospetto è stato rinvenuto tra la posta presso l’ufficio della cancelleria. Ad Atene, invece, dopo la sventata minaccia di lunedì, ieri sono esplose bombe all’ambasciata svizzera e russa, senza arrecare vittime né feriti. Altri tre pacchi sospetti sono stati dapprima segnalati e poi fatti detonare, presso la rappresentanza diplomatica della Bulgaria, del Cile e fuori dal Parlamento greco. Un pacco era invece diretto al presidente francese Nicolas Sarkozy. Il mittente fittizio di quest’ultimo pacchetto intercettato era il vicepremier greco Theodoros Pangalos.
BAGHDAD. Martedì di terrore
La bomba alla rappresentanza diplomatica elvetica era di basso potenziale, ha riferito la polizia. Secondo le prime indagini, il personale ha gettato per terra il pacco nel cortile dopo averlo
Preoccupazione per la vita di Sakineh Smentite dalla Farnesina le voci sull’imminente esecuzione di Pierre Chiartano
ROMA. L’Italia è in allarme per la vita di Sakineh. Ieri è circolata la notizia di una sua imminente esecuzione. Si parlava addirittura che fosse per oggi, secondo un’associazione umanitaria. Poi dalla Farnesina sono arrivate delle smentite. «Rispetto tutte le ong, ma il nostro ambasciatore, che ho sentito qualche minuto fa, non ha “nessunissima”conferma che domani (oggi, ndr) la condanna a morte di Sakineh sarà eseguita». Lo ha riferito il ministro degli Esteri Franco Frattini in un’intervista al Gr1, ieri, commentando la notizia sulla prossima esecuzione in Iran di Sakineh Mohammadi Ashtiani, notizia diffusa inizialmente da un’associazione per i diritti umani. Però la voce si era già diffusa, scatenando molti commenti. «Seguiamo con tristezza e timore le notizie che giungono dall’Iran sulla possibilità che Sakineh venga lapidata», aveva affermato il vicepresidente della Camera e presidente dell`Udc, Rocco Buttiglione chiedendo «misericordia» per Sakineh. «Ricordiamo - proseguiva Buttiglione - che dalle autorità iraniane erano arrivate smentite sull’esecuzione della donna». «Riteniamo che sia un dovere di ogni credente in Dio - ha poi sottolineato il rappresentante dell’Udc - essere contro la pena di morte, e in particolare ci appelliamo alle autorità iraniane perché questo caso così controverso abbia un esito felice. Chiediamo all’Iran, come alle altre nazioni, di scongiurare l’esecuzione non solo di Sakineh, ma anche dei tanti altri condannati a morte».
te per una «relazione illecita» con due uomini, poi è stata condannata a morte per “concorso” nell’omicidio del marito. Il caso ha suscitato le dure rimostranze della comunità internazionale e una martellante campagna della stampa straniera, tanto che le autorità iraniane hanno deciso, lo scorso luglio, di commutare la lapidazione in impiccagione.«Preoccupazione e amarezza» sono state espresse anche dal sindaco di Roma, Giovanni Alemanno. «L’immagine che abbiamo esposto in piazza del Campidoglio, per chiedere la sua liberazione, rappresenta per noi non solo un simbolo per la città di Roma ma anche per la difesa della libertà umana dai soprusi», ha concluso Alemanno. Anche Piero Fassino, presidente del Forum esteri del Pd, ha espresso sdegno per la notizia. «Dall’Iran giungono notizie terribili che ipotizzano, per le prossime ore, l’esecuzione capitale di Sakineh. È una pena di morte che va in ogni modo scongiurata e tutta la comunità internazionale deve sentire la responsabilità morale di agire immediatamente». E sono giunte anche voci dal Medioriente a favore della donna, grazie alla manifestazione cinematografica che si svolge a Roma. «L’impegno del mondo in difesa di Sakineh deve continuare, è importantissimo.Vedo molte somiglianze tra la sua storia e quella della protagonista del mio film». Lo ha affermato il regista kurdo-iracheno, Fariborz Kamkari, che presentava ieri in concorso al Festival Internazionale del Film di Roma I fiori di Kirkuk. «Il ruolo che interpreta Marjana Alaoui per molti versi ricorda Sakineh spiega il regista - anche lei sfida le regole previste per lei dalla società e, in qualche modo, si sacrifica per amore. Il caso di Sakineh - continua Kamkari - non è isolato nel mondo arabo e musulmano. Ce ne sono molti altri, ma spesso, per motivi politici, sono stati ignorati». E anche il regista Ferzan Ozpetek è intervenuto sulla vicenda: «Le donne sono la colonna portante della vita e uccidere Sakineh è come far cascare l’intero edificio».
Rocco Buttiglione: «Chiediamo all’Iran di scongiurare l’uccisione della donna e dei tanti altri condannati a morte»
considerato sospetto. Gli altri quattro pacchi sono stati disinnescati dagli artificieri della polizia greca, allertati sia dalle ambasciate che dagli impiegati dei corrieri. Dalla rappresentanza del Cile, l’ambasciatrice fa sapere che il pacco esplosivo era indirizzato proprio a lei. La polizia ritiene che autori degli attentati siano gruppi anarcoinsurrezionalisti greci e non escludono collegamenti con anarchici europei e italiani. Sempre ieri agenti di polizia sono stati attaccati da sconosciuti alla periferia della capitale greca. Due giovani sono stati arrestati e secondo gli inquirenti apparterrebbero a uno dei gruppi anarco-insurrezionalisti.
nella capitale irachena, dove almeno undici autobombe sono esplose nei quartieri a maggioranza sciita. Fonti della polizia parlano di almeno cento morti e 200 i feriti nell’inferno scatenato in città. La stessa fonte dice che oltre a ordigni e autobombe, sulla capitale è stato sparato un numero imprecisato di razzi: uno ha sparso terrore e morte tra i partecipanti a un funerale nella zona di Shùla, altri razzi hanno colpito Gazaliyah, a ovest della capitale irachena. I dati diffusi da fonti ufficiali del ministero della Sanità parlano invece di 36 vittime e 320 feriti. Al momento della chiusura di liberal le notizie sono ancora frammentate.
L’esecuzione imminente dell’iraniana era stata denunciata dal Comitato internazionale contro le esecuzioni, secondo cui Teheran avrebbe autorizzato le autorità penitenziarie di Tabriz a eseguire la condanna a morte. Sul loro sito web, si leggeva: «è stato riferito che sarà giustiziata già questo mercoledì, 3 novembre». Sakineh, 43 anni, è rinchiusa da cinque anni nel braccio della morte della prigione di Tabriz, nella zona nord-occidentale dell’Iran. Nel 2006 le sono state inflitte 99 frusta-
La prima autobomba è esplosa nella zona di Abu Dashir, la seconda ha colpito una stazione di polizia di Sadr City. La terza è esplosa nel quartiere di Our, nella parte orientale della città. La quarta autobomba è esplosa nel quartiere di al-Biya, mentre la quinta ha colpito il quartiere di Jihad.
La sesta autobomba è esplosa nella parte nuova di Bagdad, nel quartiere chiamato al-Jadid, la settima si trovava nel quartiere diYourmuk, in centro, l’ottava nel quartiere di al-Shaila nei pressi di un locale dove vi svolgeva un funerale e la nona nel quartiere sciita di al-Kathimiya. La decima autobomba si trovava nel quartiere di al-Rashidiya e l’undicesima ad al-Ghazaliya, parte occidentale della città. I tre ordigni esplosivi sono stati fatti saltare in aria nella parte nuova di Bagdad, mentre nella zona nord fonti locali avevano parlato del lancio di tre razzi Hawn lanciati contro moschee sciite. La serie di attacchi di ieri fa seguito alla domenica di sangue vissuta nella chiesa cristiana di culto siro-cattolico del quartiere di al-Karrada, dove un commando di Al-Qaeda si è asserragliato prendendo in ostaggio fedeli e due sacerdoti: 52 le persone rimaste uccise.
spettacoli
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Cinema. Intoppi legati alla pioggia e mancati sottotitoli in inglese a “The Social Network” sono solo alcune delle figuracce del Festival
La polvere sotto al tappeto Un red carpet, quello romano, ancora troppo fiacco e poco «internazionale» di Pietro Salvatori
ROMA. È Julianne Moore la star del sesto giorno del Festival di Roma. Arrivata a Roma per accompagnare The Kids are All Right, ovvero I ragazzi stanno bene, come il distributore italiano ha immaginato di tradurre il titolo in vista dell’uscita in sala. Il film, girato da Lisa Cholodenko, nota più come regista di episodi di celebri serie televisive quali Life on the street, The L world e Six feet under più che per i suoi precedenti lungometraggi, è l’evento principale di un uggioso martedì, lungo il corso del quale gli inservienti sono stati impegnati ad asciugare affannosamente il tappeto rosso che non a contenere gli sparuti avventori che si sono avvicendati all’Auditorium.
Un evento per modo di dire, visto che la pellicola, lungi da essere un’anteprima, è già stata vista dagli spettatori del Sundance e, in Europa, anche da quelli del festival di Berlino, dove è stato presentato come evento fuori concorso. Stessa collocazione anche per il festival capitolino, che l’ha utilizzato più come pretesto per avere la Moore, forse l’ultima vera star internazionale a calcare il red carpet, che non per il film stesso. Pellicola che ha fatto spellare le mani alla critica romana. I temi si prestano facilmente al conformismo che serpeggia per l’Auditorium. Una famiglia composta da due ragazzi e due «mamme», tutto sommato allegra e felice, viene turbata dalla comparsa nella propria vita del donatore biologico. Quello che tecnicamente dovrebbe essere il padre dei due ragazzi, turba l’armonia di una perfetta famiglia omosessuale. Ovviamente il lieto fine è dietro l’angolo. La mattatrice è la splendida Julianne, affiancata da un’altrettanto brava Annette Bening. Lui è Mark Ruffalo, nel film un don Giovanni, di nome Paul. L’accostamento con il defunto polpo Paul che qualche maligno gli ha prontamente affibbiato è risulta-
ta essere, alla fine dei conti, la battuta migliore dell’intero film, che si propone sulle prime come commedia brillante, sterza sul sentimentalismo, per concludersi come dramma degli affetti, senza saper bene in effetti dove voler andare.
Un lungo susseguirsi di stereotipi, tra macchine come icona della personalità («lo dovevi proprio comprare quel pick-up scassato?», chiede la Bening, che guida un suv lustrato a puntino, alla più sgangherata Moore), e scialbe sequenze sin-
Anche la sezione dedicata agli adolescenti è stata poco seguita, come “Quartier Lontain”: risultato addirittura troppo «complicato» cretiche che punterebbero a definire in una manciata di secondi la personalità dei personaggi secondari, ma che risultano goffe e didascaliche. Non bastano due attrici in splendida forma, alla faccia di chi vorrebbe sostenere che non ci sono in giro ruoli per donne che abbiano più di quaranta anni, per sostenere una pellicola che punta tutto sulla famiglia non con-
venzionale che tratteggia. Quella di film, come quello della Cholodenko, raccattati in giro da altri festival, seconde o terze visioni, che sono già usciti all’estero o la cui proiezione a Roma serve solo per sostituire, in una cornice più prestigiosa e maggiormente curata, la tradizionale visione dedicata alla stampa di settore, è uno dei grandi problemi che il Festival di Roma non riesce a risolvere. Non è bastato il cambio di direzione al vertice per dare una scossa in questo senso. Ha destato un certo scalpore e sconcerto quello che è avvenuto lunedì, nel corso della proiezione di The Social Network, ultimo, attesissimo film del regista di Fight Club David Fincher, altro film uscito nelle sale statunitensi ormai da due settimane. La proiezione per la stampa, in una stracolma sala Petrassi, è avvenuta incredibilmente servendosi di una copia doppiata in italiano e del tutto priva di sottotitoli in inglese. Lungi dal voler assumere il ruolo dei puristi della visione in lingua originale, una proiezione senza il supporto, in qualsiasi forma, della lingua inglese, in un festival che ha la presunzione di definirsi «internazionale» è un avvenimento grottesco. Confuse le scuse della direttrice, Piera Detassis: «Mi dispiace per quello che è avvenuto, è stata una decisione della Sony proiettarlo così. C’è stato un malinteso, non ci siamo capiti».
Se sia stato un errore di comunicazione o una pretesa della produzione non è dato saperlo, né la direttrice ha fatto chiarezza su questo punto, fatto sta che l’organizzazione ha deciso di riproiettarlo in un orario immediatamente successivo, sovrapponendolo a proiezioni e conferenze stampa programmate da tempo. Risultato? Una manciata di persone in una sala quasi deserta. L’aria di irresoluta incertezza avvolge anche la sezione dedicata agli
spettatori adolescenti, Alice nella città. Winx club è stato assorbito nella selezione ufficiale, Quartier Lontain, il film d’esordio, pur presentandosi quale opera solida e valida, è risultato troppo complicato per i ragazzi che hanno assistito alle proiezioni a loro riservate.
Tra le altre proiezioni da segnalare, quella di oggi al Teatro Studio dell’Auditorium Parco della Musica, dove si potrà assistere alla visione del documentario di Claudio Serughetti sulla pena di morte È tuo il mio ultimo respiro?. Ieri invece era di scena I want to be a soldier, il quarto lungometraggio di Christian Molina, regista conosciuto dai più per aver firmato Diario di una ninfomane. Una storia di formazione nel mondo dell’adolescenza, plagiata dalla televisione, circondata da cattivi maestri. Ragazzini per i quali «non serve a nulla essere buoni», nonostante l’affetto e le attenzioni dei quali sono circondati. Il vero problema è l’eccessivo manicheismo, che priva la storia di coerenza e credibilità, e di una regia che convince poco. Non basta la sfilata di camei racimolata da Molina a sostenere la storia. Danny Glover, star di Arma letale, Robert Englund, il
terrificante volto di Nightmare e la nostra Valeria Marini, che ha accompagnato il film al festival anche in veste di produttrice. «Ho scelto questo film per il suo impegno sociale. Voglio continuare a fare la produttrice, ma solo di film che comunichino un messaggio di questo genere», ha confessato una Marini estatica, in un tripudio di pizzi e di gioielli, alla stampa accorsa a incontrarla. Una mise eccessiva come quella che esibisce nel film, dove interpreta un’insegnante che non disdegna minigonne e vestitini di pelle lucida, tanto da meritarsi un (autoironico?) «non sembri un’insegnante, sembri una prostituta» da uno dei suoi alunni. Ma al netto delle nostre impressioni, il Festival sforna i primi numeri.
Nel weekend si è chiusa la Business Street, la sezione della manifestazione dedicata all’acquisto e alla vendita delle pellicole e al dibattito fra gli esperti del settore. 792 accreditati, il 10 per cento in più rispetto all’anno scorso, di cui quasi la metà stranieri, 170 film trattati, di cui 40 ita-
spettacoli
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La star è a Roma col film “The Kids are All Right” di Lisa Cholodenko
A lezione (di estetica) da Julianne Moore
Un esempio per tutte le altre attrici che hanno superato gli “anta” e che si lagnano di non lavorare per via dell’età di Andrea D’Addio
ROMA. «Penso che voi due non dovreste sepa-
liani, e proiettati quasi 200 volte. Un evento, svoltosi nella culla della dolce vita, via Veneto, messo in piedi anche grazie alla collaborazione di 37 partner internazionali, tra i quali il festival del cinema di Londra e il Sundance Institute. Un risultato soddisfacente per gli organizzatori, in particolar modo tenendo conto del fatto che il mercato romano si è tenuto a ridosso dell’American Film Market, il più grande evento mondiale dedicato alla compravendita di film, che ha inizio proprio oggi dall’altra parte dell’oceano.
rarvi... siete troppo vecchie». Così viene detto a Julianne Moore e Annette Bening dal figlio (per fiction) Laser nel finale di The Kids are All Right, presentato ieri al Festival di Roma. Ben poche attrici si lascerebbero etichettare così sul grande schermo, sia pure per una battuta: una volta che al pubblico viene reso noto il tuo (logico) invecchiamento, ecco che inizia il tuo declino. Eri una bomba sexy negli anni ’80 e una bella donna nei ’90? Gli anni passano, ma non ti puoi accontentare della tua vecchiaia se vuoi continuare a calcare set, apparire su magazine o fare da testimonial per pubblicità. Devi rincorrere la gioventù, al costo di rovinarti il viso con creme, botulini, lifting, plastiche e tutto ciò che la tecnologia dell’apparire offre di “meglio”sul mercato. E non è importante se poi dal vivo sei un mostro: l’importante è come sembri sotto i riflettori, quando gli effetti collaterali dei travestimenti non si notano più grazie a luci che ti fanno apparire tonica. È vero, Melanie Griffith non può più andare in giro da quando si è rovinata il viso rincorrendo elisir di lunga vita, e ugualmente è successo anni fa alla nostra Laura Antonelli, per non parlare del viso in continua trasformazione di Nicole Kidman e Meg Ryan, la cui bravura spesso non basta a farci pensare, vedendole, «ma perché si è fatto questo?». Come detto da Sharon Stone, superati i quaranta Hollywood non offre più ruoli femminili di rilievo, persino la sempre impegnatissima Margherita Buy in Italia si è lamentata dello scarso numero di proposte lavorative ricevute, ma le cose sono ben peggiori quando si toccano i cinquanta. Niente più commedie romantiche, non abbastanza anziana per fare la mamma matura. I ruoli a disposizione diventano pochi, anche alla luce della predilezione dell’industria cinematografica ad incentrare i suoi drammi su storie soprattutto maschili.
altre sue due colleghe cinquantenni stelle degli anni ’80 e ancora capaci di far girare la testa ai più giovani, Michelle Pfeiffer (vista splendente l’anno scorso in Chéri) e Kim Basinger. La Moore è come uno di quei vini il cui invecchiamento è direttamente proporzionale al pregio e al sapore.
Laureatasi alla School of the Performing Arts di Boston negli anni ’80, si è guadagnata la popolarità tra il ‘97 e il ‘99, quando prima con il ruolo di pornostar in Boogie Nights, poi con quello della figlia ribelle, e pittrice alternativa di Il grande Lebowski e infine con la drammatica interpretazione di Magnolia, è entrata con forza nell’immaginario collettivo di tanti cinefili e non. Nonostante tre nomination agli Oscar, di cui due lo stesso anno (nel 2003 per Lontano dal Paradiso e The Hours), non ha ancora mai conquistato la statuetta, accontentandosi, si fa per dire, di una Coppa Volpi a Venezia (proprio per Lontano dal Paradiso). Che sia questo l’anno giusto? The Kids are All Right è considerato da molti dell’ambiente come uno dei più seri candidati per molti dei premi di questa stagione cinematografica. Più che apprezzato al Festival di Berlino dove fu presentato lo scorso febbraio, e applaudito parecchio in sala ieri anche a Roma, il film vola sulle ali di un consenso più o meno generale. Il suo essere una storia incentrata su una famiglia omosessuale viene poi visto da molti come un possibile punto a vantaggio da una prospettiva hollywoodiana, ma rimane comunque un po’ di mistero legato alla scelta che la produzione farà prossimamente in vista degli Oscar. Su quali delle due interpreti punterà per la categoria di migliore attrice protagonista? Le pubblicizzerà entrambe rischiando di vedere dimezzati i voti di chi ha amato il film, o si declinerà una tra lei la Bening tra le non protagoniste? E se finisse per rivelarsi proprio questo un errore e si levasse così visibilità a una pellicola che si potrebbe pregiare di avere, almeno, ben due membri del cast di una delle categorie più prestigiose? Discorsi da strateghi del marketing (per The Hours si decise ad esempio di puntare su Nicole Kidman come “main actress”, e la scelta diede i suoi frutti, fu Oscar) che forse non interessano troppo il grande pubblico, ma da cui si potrà comprendere anche il peso che ormai la Moore ha acquisito in un mondo che poche volte dice grazie o mantiene riconoscenza. Sarà il prossimo febbraio la volta buona? Non ci resta che aspettare e incrociare le dita.
Raggiungerà i fatidici cinquanta il prossimo 3 dicembre, eppure è sempre sulla cresta dell’onda. Senza mai ricorrere al bisturi pur di recitare...
A sinistra, dall’alto: un fotogramma del film di David Fincher “The Social Network” e l’inventore di “Facebook” Mark Zuckerberg. A destra, Annette Bening e Julianne Moore in una scena della pellicola “The Kids are All Right” di Lisa Cholodenko. In alto, un disegno di Michelangelo Pace
Julianne Moore raggiungerà i fatidici cinquanta il prossimo 3 dicembre, eppure è sempre sulla cresta dell’onda. Per la copertina della guida al Festival di Roma, il mensile Ciak ha preferito il suo volto a quello delle più banali Keira Knightley e Eva Mendes, anche loro di passaggio nella Capitale. La ragione è solo una: si tratta di un’interprete che ha costruito la sua eccezionale carriera tanto sulle scelte dei copioni da interpretare quanto sulle sue capacità recitative e il desiderio di non passare, se non per qualche controllo, sotto l’occhio dei “dottori di bellezza”. Proprio come
cultura
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Tra gli scaffali. Dopo “La misura del mondo”, che lo ha portato al successo, lo scrittore Daniel Kehlmann torna con “Fama”
Romanzo di un romanzo...
di Vito Punzi A fianco, un’immagine dello scrittore Daniel Kehlmann. Qui sotto, il suo nuovo romanzo “Fama” (Feltrinelli) e, in basso, il libro che lo ha reso famoso “La misura del mondo” (sempre Feltrinelli)
l titolo di questo “romanzo in nove storie” (Fama, trad. di Paola Olivieri, Feltrinelli) sembrerebbe richiamare lo straordinario successo, mondiale ma poco italiano, ottenuto dallo stesso autore, il trentacinquenne bavarese Daniel Kehlmann, in particolare con il precedente La misura del mondo. In realtà, il nostro è uno di quegli autori che da tempo non si vedevano più in Germania: evita di partecipare ai talk-show e non è uno di quelli che sente il dovere di dire qualcosa su tutto. Se “fama” è, dunque, la sua se l’è costruita esclusivamente con il lavoro di scrittore e letterato.
I
L’idea di scrivere un romanzo «senza una figura principale», così come indicato nello stesso libro, non è certo un’idea nuova, eppure l’intreccio tra le varie storie che qui si raccontano funziona. In questo che finisce con l’essere il «romanzo di un romanzo» Kehlmann disegna l’immagine sfaccettata di un mondo nel quale ogni figura, in particolare con l’aiuto di internet o del telefono cellulare, cerca di condurre più vite, se possibile contemporaneamente. Ciascun personaggio vive in situazioni di finzione che seguono modelli di libri, di film, di giochi al computer, come si trattasse di archetipi mitici. Ogni protagonista si ritrova continuamente impigliato in storie da lui stesso prodotte. Tutto ha inizio con uno squillo di telefono e con uno squillo di telefono ha anche fine. Le suonerie in azione attraversano l’intero libro e quasi sempre le accompagna scompiglio e spiazzamento del livello di realtà. Il cellulare, nota uno dei personaggi, «sottrae realtà a tutto». Chi se ne serve può trovarsi in ogni istante ovunque e in nessun luogo, può estendere gli spazi virtuali di internet fin nelle tasche della propria giacca: «Strano che la tecnologia ci abbia collocati in un mondo senza luoghi certi. Si parla di un nonluogo, si può essere dappertutto, e visto che non si può controllare nulla, qualsiasi cosa s’immagini, in fondo, diventa anche vera». Così nel primo racconto un tecnico informatico, dopo aver acquistato il
suo primo cellulare, scopre che il numero che gli è stato assegnato è quello di un affermato attore. Dopo lo stupore iniziale per le chiamate inattese, l’uomo entra progressivamente nella vita dell’altro, fino ad arrivare a dubitare della propria, vissuta fino a quel momento: un giorno, rincontrando la moglie, «per un attimo gli sembrò
motivo», così che finisce col sentirsi “irreale” e col cercare notizia sulla propria identità su Wikipedia. Protagonista del settimo racconto è invece l’impiegato della compagnia telefonica responsabile dello scambio di numeri. Questi, usando una lingua elaborata, descrive in un forum on-line l’incontro avuto con lo scrittore (fittizio)
ma d’improvviso, e magari già nel capitolo successivo, questi diventano il perno centrale del racconto. E questo senza che della storia di tutti i personaggi venga svelato l’esito. Così è, per esempio, per l’autore di bestsellers Miguel Auristos Blancos
In questa nuova fatica, l’autore disegna l’immagine precisa e sfaccettata di un mondo nel quale ogni figura, in particolare con l’aiuto di internet o del cellulare, cerca di condurre più vite, se possibile contemporaneamente che lei provenisse da un’altra esistenza o da un sogno che non aveva niente a che fare con la vita Lo reale». scambio d’identità si completa quando nel quarto racconto la star del cinema cui è stato sottratto il numero di cellulare scopre che «da un giorno all’altro avevano smesso di arrivare telefonate, amici di vecchia data erano spariti dalla sua esistenza, progetti lavorativi erano naufragati senza
Leo Richter, che a sua volta è presente nel secondo racconto e figura come l’io narratore del terzo e dell’ultimo. Alla solita compagnia telefonica appartiene poi il protagonista dell’ottavo testo del libro, impegnato a condurre, grazie al cellulare, la doppia vita di amante e marito, finché un uomo, uno sconosciuto, chiamandolo “amico”, gli ricorderà la verità: «Una persona vuole essere molto. Nel vero senso della parola. Molteplice. Desidera diverse vite. Ma solo superficialmente, non nel profondo. Alla fine, caro amico, non si desidera altro che essere uno. Con sé, con tutto». Il libro procede così per continue sorprese. Le storie illuminano di volta in volta solo parzialmente il destino dei protagonisti citati,
(una brillante parodia di Paolo Coelho), «autore di libri sulla serenità, la grazia naturale e la ricerca del senso della vita», che pensa al suicidio, «perché solo questo l’avrebbe reso grande», perché così avrebbe «marchiato il mondo con il segno del suo disprezzo»: il “se” con cui Kehlmann chiude il sipario sul personaggio lascia nel lettore il sospetto che il grande autore non trovi infine la forza per premere il grilletto. O che, più probabilmente, sia proprio lui, Kehlmann, a non volerlo. Nel romanzo compaiono frequenti e in forma non casuale termini come “caso”e “destino”, ma anche “grazia”e “speranza”. In ballo ci sono colpa ed espiazione, vita e morte. Storia dopo storia la domanda
fondamentale si fa sempre più limpida: è quella sulla teodicea, sulla giustizia di Dio in relazione al male presente nel mondo. Ed è la domanda che ciascuna figura fa al narratore ultimo, questo «essere che sulla veglia» proprie creature, che si comporta «come un dio di seconda classe». Per questo motivo qualcuno ha parlato di questo libro come di un “esperimento” teologico. Senza esagerare, di un’intensità religiosa e di una bellezza particolare brilla il racconto Rosalie va a morire, che narra la storia di un’anziana signora colpita da una grave malattia che decide di farsi dare la morte in una clinica svizzera specializzata in eutanasia. Tutto sembrerebbe seguire il proprio corso, finché non interviene lo stesso narratore, il “dio di seconda classe”, impietosito dal proprio personaggio: «Adesso rovino tutto. Strappo via il sipario, mi rendo visibile […]. Rosalie, guarisci!».
E questo al prezzo di dover rinunciare a come lui aveva pensato doversi concludere la storia, perché, confessa Kehlmann, «ho l’impressione di aver fatto la cosa giusta, penso che la misericordia sia il bene supremo». Nel riflettere sulla misteriosa relazione tra autore e personaggio, permanendo dunque entro i confini della propria vocazione, lo scrittore non può più dissimulare: «Allo stesso tempo, non posso negarlo, mi coglie l’assurda speranza che, quando sarà il mio momento, qualcun altro sarà altrettanto misericordioso con me».
spettacoli uand’era giovane e sognava l’America a occhi aperti, mr. Reginald Kenneth Dwight, in arte Elton John, aveva per modello Leon Russell: un mago della tastiera, uno showman che stupiva e divertiva con i suoi costumi di scena. È quel tipo col barbone e i capelli bianchi lunghissimi, più simile a un predicatore mormone che a una rockstar, che siede accanto a lui e al pianoforte a coda sulla copertina di The Union, album a quattro mani appena uscito nei negozi e già salutato da recensioni entusiaste. Non solo perché, dopo anni di dischi spesso vacui e seriali, riporta sir Elton a livelli musicali consoni alla sua fama, ma anche per l’imprevisto ritorno alla luce del sole di un grande missing in action nella giungla del rock. Anche se continua regolarmente a esibirsi dal vivo, infatti, Russell era confinato da trent’anni al piccolo circuito dei club di provincia americani. «Per tutto questo tempo», ha raccontato lui stesso, «sono stato nel fondo del barile, lavorando in piccoli posti per pochi soldi. Poi Elton mi ha chiamato e mi ha detto: “Voglio rimettere le cose a posto”».
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Q
La telefonata è arrivata all’improvviso, a 37 anni di distanza dall’ultimo incontro. La scintilla, sotto il parrucchino dell’inglese, è scoccata quando il collega Elvis Costello gli ha chiesto di ricordare i suoi artisti preferiti in un programma televisivo di cui era ospite: il nome di Russell è entrato subito nella lista. «Ho messo tutti i suoi cd nell’iPod di David» (Furnish, il suo compagno), «e riascoltandoli mi è venuto da piangere. Ho amato così tanto la sua musica, l’ho ascoltata costantemente nel tempo. Ma è stato dimenticato, e la cosa mi dà terribilmente fastidio. Ho dovuto chiamarlo e dirgli che in tutto questo tempo avevo continuato a pensarlo». Ben fatto, Elton. Come lui, Leon è un personaggio larger than life, fiammeggiante e a tutto tondo. Per molti anni il cowboy hippie dell’Oklahoma è stato l’uomo giusto nel posto giusto, un’eminenza grigia, un «maestro del tempo e dello spazio». Folgorato dal rock’n’roll in età adolescente, come tanti, ma capace di suonare il piano - a sedici anni - nel gruppo spalla di Jerry Lee Lewis. Lanciato, ancora giovanissimo, a Los Angeles in una carriera illustre da session man, in studio con Frank Sinatra e con Phil Spector, con i Beach Boys e con i Byrds (è lui a suonare il piano elettri-
Musica. Ecco “The Union”, il nuovo album siglato da Russell e “sir” John
Le nozze chimiche di Elton e Leon di Alfredo Marziano co nella epocale versione di Mr. Tambourine Man). Pioniere - è la parola giusta - della riscoperta della musica americana “delle radici”, parallelamente a Bob Dylan e alla Band di Robbie Robertson: i canadesi e il menestrello di Duluth nascosti nel buen ritiro della “casa rosa” di Woodstock, lui e i suoi compari (Delaney e Bonnie Bramlett, J.J. Cale, Bobby Keys, la sua fiamma Rita Coolidge) nel suo
home studio ai piedi delle colline di North Hollywood, Skyhill. Il passaparola portò da quelle parti Eric Clapton e George Harrison, e per Claude Russell Bridges (il suo vero nome,“Leon”è quello di un amico a cui chiese in prestito la carta d’identità per fingersi maggiorenne e poter suonare nei club di LA) si aprirono le porte dello stardom. Il concerto per il Bangla Desh, il Mad Dogs And Englishmen di Joe Cocker, carovana viaggiante di musicisti con roadies, fidanzate, bambini e cani al seguito. Leon era sempre lì, appena spostato rispetto
Il disco, appena uscito, è un robusto e melodico cocktail di country, gospel, pop, rock’n’roll e rhythm and blues in stile New Orleans al centro della scena ma immediatamente riconoscibile con quegli abiti sgargianti da zio Sam, i capelli lunghissimi, le tube altissime e i cappelloni da cowboy. Le mani agili sul pia-
A fianco, un’immagine di Elton John. Sopra e in alto, l’artista insieme con Leon Russell, insieme al quale ha inciso il nuovo album “The Union”
noforte e la chitarra, la bella voce da rock sudista, l’autorità da direttore d’orchestra. Dimostrò di sapercela fare anche da solo: nei primi anni Settanta i suoi dischi solisti scalavano le classifiche (Carney si arrampicò fino al numero due), i suoi concerti andavano esauriti e sbancavano al box office. E intanto la sua etichetta discografica, Shelter, scopriva o rianciava talenti come Tom Petty & the Heartbreakers, J.J. Cale, il bluesman Freddie King. Poi qualcosa si ruppe, il sodalizio con il socio d’affari Danny Cordell finì in malo modo, i fan più razzisti non gli perdonarono di avere sposato “una negra” (la cantante Mary McCreary, con cui pubblicò anche un Wedding Album), e Russell iniziò quasi spontaneamente a ritirarsi dalle scene. Fino alla telefonata di Elton e al meeting a quattro, presenti anche il paroliere di fiducia dell’inglese, Bernie Taupin, e il produttore T Bone Burnett, diventato un nome imprescindibile quando si parla di musica roots. Non se la passa benissimo, il sessantottenne Leon, e addirittura le sedute di registrazione di The Union hanno dovuto essere interrotte a gennaio per permettergli di sottoporsi a un delicato intervento chirurgico al cervello («gli usciva fluido spinale dal naso», ha raccontato Elton John al mensile musicale Mojo). La voce è un po’ più tenue e sofferente, sul palco non spiccica una parola assentandosi di tanto in tanto (lo racconta il giornalista Roger Friedman sul suo blog Showbiz 411, dopo avere assistito al Beacon Theater di New York a uno show filmato ripreso per l’emittente tv Fuse dal regista ed ex giornalista di Rolling Stone Cameron Crowe). Ma è tornato a deliziare le platee con i suoi cavalli di battaglia di una vita, A Song For You, Delta Lady, Stranger In A Strange Land, e con pezzi nuovi come The Hands Of Angels, suo personale ringraziamento agli amici che lo hanno aiutato a tornare a galla.
Nomi importanti: sul disco si sentono le voci di Neil Young e di Brian Wilson, l’organo della leggenda della Stax Booker T Jones, una schiera di illustri turnisti. Le storie sono romantiche ed epiche (Gone To Shiloh è ispirata a una delle storiche battaglie della Guerra di Secessione), il suono è quello dei dischi di Leon e dei primi album di Elton, Tumbleweed Connection e Madman Across The Water, un robusto e melodico cocktail di country, gospel, pop, rock’n’roll, rhythm and blues in stile New Orleans che fa sentire improvvisamente più giovane chi lo fa e chi lo ascolta (se ha già superato gli “anta”…). Bentornati, tutti e due.
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE
Fiat senza Italia? Non sarebbe la Fiat, la più grande storia industriale italiana Una Fiat senza Italia? Non sarebbe la Fiat perché l’Italia per Fiat vuol dire produzione, e produzione di qualità, e mercato. E lo stesso amministratore delegato del gruppo, Sergio Marchionne, fa parte del “patrimonio italiano”dell’azienda, così come i tanti italiani che ci lavorano, a Melfi, a Pomigliano, a Mirafiori e negli altri stabilimenti. Al di là; dei dati desumibili da bilancio l’Italia è un valore aggiunto per Fiat, come ben sa proprio Marchionne che, all’inizio del suo mandato, decise di puntare proprio sull’italianità, del marchio e delle sue produzioni ottenendo successo proprio su questa linea. Lo stesso Marchionne che ha dato vita a un piano di acquisizioni per raggiungere una massa critica globale di produzione che garantisse competitività, sa bene che non si può analizzare il risultato di un’azienda al netto di una parte importante come quella di Fiat in Italia e che valutare i risultati Fiat al netto di quelli nel suo Paese non può essere una semplice operazione matematica. Nell’irrigidirsi del dibattito quello di Marchionne è chiaramente un paradosso, una provocazione. Ma ritengo non più rinviabile che su quella che è senza dubbio la più grande storia industriale italiana si lasci, da tutte le parti, la via della provocazione per ritornare su quella del dialogo.
V. De Filippo
SFIDA ALLA MALAVITA La ’ndrangheta, negli ultimi anni, si è guadagnata un posto di rilievo tra le organizzazioni criminali più pericolose e maggiormente penetranti nel tessuto economico e sociale, agendo per lo più su base locale: l’inchiesta condotta dalle Procure distrettuali di Reggio Calabria non lascia scampo ad eventuali dubbi e, proprio in virtù di tale stato di cose, l’operazione portata a compimento va ad assumere un’eccezionale rilevanza, anche e soprattutto sotto l’aspetto strategico e di contrasto. La sua presenza, emersa nel settore delle opere pubbliche, dei mercati e della circolazione del denaro, ha subito un duro colpo grazie all’impegno, al coraggio e al forte senso di responsabilità e di difesa dello Stato da parte di autorità giudiziarie e forze del-
l’ordine, nonostante, le stesse, si vedano costrette, spesso, ad operare tra mille difficoltà. Quelle difficoltà da cui è arrivato il momento di slegarsi e di ribellarsi. Alla Calabria e ai calabresi non ci stancheremo mai di ripeterlo, serve un sussulto di orgoglio che deve necessariamente venir fuori e camminare di pari passo con la profonda ed energica azione di contrasto avviata e concretizzata dalle autorità inquirenti. I calabresi, in primis, hanno l’obbligo morale di scendere in campo e di uscire da un isolamento divenuto ormai troppo opprimente e intollerabile. Alle risposte dello Stato e della legalità seguano quelle dei cittadini di questa Regione. La sfida è lanciata e deve esser vinta anche col prezioso contributo delle nuove generazioni.
Giuseppe Idà
Gioielli di mamma Hanno l’aria un po’ disorientata questi pulcini di allocco appollaiati sul ramo di un nido artificiale in una foresta ad Uzda, in Bielorussia. Gli ornitologi di una vicina università hanno installato più di 20 ripari per favorire la diffusione nell’area dei rapaci, sempre più minacciati dal disboscamento
LA CRISI DELLA GIUSTIZIA Se c’è una crisi sulla giustizia non scappiamo dalla sua origine: la certezza del diritto e la conseguente certezza della pena, due realtà legate tra di loro. Non è a mio avviso l’infuso miracoloso di due necessità richiamate spesso dagli addetti ai lavori, ma l’obiettivo di una riflessione che oggi si rende necessaria: il magistrato e il giudice competente devono essere l’immagine di un concetto generale che muta nel tempo o i portatori di regole che non vanno modificate? Nel secondo caso fino a che pun-
L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
to si può salvaguardare l’indipendenza della magistratura?
Gennaro Napoli
RIFORMA DEL FISCO Mi auguro che la riforma del fisco venga fatta tenendo conto dell’indigenza di molte famiglie che non riescono ad arrivare a fine mese. La stessa cosa vale per tutti coloro che non hanno una famiglia, o sono separati, perché non è giusto che la scure del fisco debba essere marziale nei loro confronti.
Pinuccio
dal ”Washington Post” dell’01/11/10
Lacci e vecchi bendaggi per la vita del soldato icucire per salvare. Un tempo sembrava questo il motto dei medici militari, intenti a suturare e a stringere lacci emostatici. Circa quattro secoli fa un signore di nome Ambroise Pare constatava come nei campi di battaglia il problema più importante fosse quello di controllare le emorragie di sangue provocate dalle ferite. Scoprì che se le ferite d’arma da fuoco venivano suturate con del filo di seta, invece se con un metodo, allora in voga, cioè cauterizzate con un ferro rovente, il problema delle perdite di sangue migliorava decisamente. Il medico francese, nel 1550, aveva compreso come la chirurgia sui campi di battaglia dovesse adottare metodi meno cruenti per ottenere migliori risultati. Oggi, nonostante il tempo trascorso sembra che il problema dei medici militari in zone di combattimento sia rimasto lo stesso: bloccare le emorragie. Tutto ciò che la medicina ha imparato dalle guerre in Iraq e Afghanistan riguarda appunto le perdite di sangue. Bloccare, impedire che riprenda e ristabilire una normale circolazione sanguigna, sono questi i tre punti che ancora adesso dettano l’azione dei medici al seguito delle truppe in zone di guerra. Pellicole come Salvate il Soldato Ryan ci hanno ormai abituato alla crudezza di certe immagini. Amputazioni, corpi straziati, un bagno di sangue sono il corollario di molte guerre, ma sappiamo poco su chi si prodiga per salvare ciò che la dissennatezza umana tende a sperperare: la vita umana. Le ultime ricerche nel campo rivelano che circa l’8,8 per cento del-
R
le ferite sul campo di battaglia causano la morte, diretta o in seguito al ricovero. Nel conflitto del Vietnam il rapporto era del 16.5 per cento e nella seconda guerra mondiale del 22.8 per cento. Un netto miglioramento. Seguendo i dati tra il 2003 e il 2006, parliamo sempre dei due conflitti mediorientali, si vede come la gravità delle ferite – soprattutto quelle causate da esplosione – sia in crescita, ma non la mortalità. Ciò significa che le tecniche d’intervento medico sono migliorate sensibilmente. E le buone notizie non sono dovute a nuovi farmaci o apparecchiature speciali. Incredibilmente, il meglio è venuto dal vecchio. Sono stati riscoperti e riutilizzati metodi tradizionali, anche di un secolo fa, e con qualche modifica riportati nel prontuario dei medici di guerra. La prima lezione gli americani l’hanno im-
parta nel 1993 a Mogadiscio, nell’episodio ben descritto nel film Black Hawk Down. Ci furono 100 ferito di cui 14 persero la vita. Fu un caso di studio molto seguito. La maggior parte delle perdite fu causata dall’eccessiva perdita di sangue prima della stabilizzazione delle ferite. Le procedure sono lente a cambiare e alcuni metodi sono ancora in fase di valutazione, ma la Somalia ha dato un forte impulso. Sono le vittime da esplosione ad aver cambiato i sistemi di primo intervento e non stiamo a spiegare i particolari, ben descritti invece nell’articolo del Washington Post da David Brown. In breve sono tornati in voga i tradizionali lacci emostatici. Ogni militare ne porta uno e i medici una dozzina. Sembra che abbiano salvato quasi duemila soldati nelle guerre in atto. C’è anche una nuova generazione di bendaggi speciali chiamati combat gauze.
Garze impregnate di caolino, una speciale argilla che funziona molto meglio delle polveri coagulanti utilizzate fino ad ora. Ma la grande novità è il modo in cui i medici devono intervenire. In buona sostanza si è scoperto che meno si opera e meno danni si fanno. In pratica basterebbero poche azione per facilitare la reazione fisiologica del corpo. L’ultima scoperta riguarda, l’acqua calda. Una volta in sala operatoria invece che fare trasfusioni di soli globuli rossi è più utile farne di sangue completo di plasma. È dimostrato che le emorragie così si controllano meglio.
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Inventata la “macchinetta per scrivere libri” FONTAINBLEAU. Faticate a scrivere una lettera? Una tesina vi sembra un’impresa titanica? Scrivere un libro un sogno impossibile? Sappiate però che tutte queste “imprese” sono inezie rispetto a quello che ha fatto (anzi, sta facendo) Philip M. Parker, che è un autore decisamente molto prolifico, con 107mila libri pubblicati. Parker è professore alla Insead, scuola di management, e in realtà c’è un trucco: infatti, ha brevettato un metodo che gli consente, partendo da un template, di creare libri simili andando a raccogliere automaticamente dati da vari database, oppure su internet. Si tratta di un sistema per la creazione di libri scientifici e di ricerca, che in
pratica può andare a replicare il metodo di ricerca su altri insiemi di dati. Nonostante il supporto informatico, però, bisogna riconoscere che la quantità di libri sfornata dal professor Parker è impressionante. L’idea, ha spiegato il professore, gli è venuta nel 1999 leggendo un articolo dell’Economist in cui si diceva che nel mercato dell’editoria non ci sono stati molti cambiamenti dai tempi di Gutenberg. «C’è bisogno di un sistema automatizzato che elimini o riduca sostanzialmente i costi associati al lavoro umano», sostiene Parker. Così ha messo a punto una “macchina per scrivere libri”. Il funzionamento è piuttosto semplice: bastano un ricco archivio
ACCADDE OGGI
IL RISPETTO AMBIENTALE PASSA DALLA FORMAZIONE DEI PIÙ PICCOLI! Quando si parla di sostenibilità la definizione più diffusa è quella del World commission on environment and development che definisce la sostenibilità come: «le forme di progresso che soddisfano i bisogni del presente senza compromettere le capacità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni futuri». Partendo da questa importante considerazione, è stata promossa “BimbiAmbiente”, una campagna di sensibilizzazione sull’importanza di una maggiore consapevolezza relativa al rispetto ambientale e alla mobilità sostenibile. Attraverso un simpatico libricino illustrato, e dei gadget in tema, le famiglie verranno sensibilizzate sull’utilizzo responsabile della propria vettura e su come rispettare l’ambiente che ci circonda.
Elisa Giachelle
DALLE TRIVELLAZIONI IN SICILIA ENORME PERICOLO PER LE COSTE MERIDIONALI I meravigliosi litorali della costa agrigentina rischiano danni irreparabili dall’assalto delle trivelle in cerca di petrolio. Sono fermamente contrario e pronto a ogni battaglia per impedire lo scempio dei litorali di Licata, Palma di Montechiaro, Porto Empedocle, Siculiana, Sciacca, Lampedusa, Linosa. Già 241 pozzi succhiano dalle arterie siciliane 600mila tonnellate di greggio l’anno e portano 300 milioni di euro nelle tasche delle compagnie petrolifere: alla Sicilia va solo una manciata di spiccioli; in compenso, si arrecano enormi danni alla salute e al territorio dei siciliani. Quando c’è da saccheggiare la Sicilia, tutto va avanti rapidamente. Quando si debbono
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
3 novembre 1968 Un’alluvione devasta il Piemonte, in particolare la provincia di Biella 1970 Salvador Allende diventa presidente del Cile 1971 Viene pubblicato lo Unix Programmer’s Manual 1973 La Nasa lancia la Mariner 10 verso Mercurio 1978 La Dominica ottiene l’indipendenza dal Regno Unito 1979 A Greensboro (Carolina del Nord), cinque membri del Communist workers party vengono uccisi da un gruppo di membri del Ku Klux Klan 1986 Scandalo Iran-Contra: la rivista libanese Ash-Shiraa riporta che gli Usa hanno venduto di nascosto armi all’Iran, allo scopo di assicurarsi il rilascio di sette ostaggi americani tenuti prigionieri da gruppi libanesi filo-iraniani 1992 Il democratico Bill Clinton viene eletto 42º Presidente degli Stati Uniti 1995 Al cimitero di Arlington, il presidente Bill Clinton dedica un memoriale alle vittime dell’attentato al Volo Pan Am 103
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
di dati e un programma in grado di selezionarli e trasformarli in un libro. Il software di sua invenzione pesca informazioni su un argomento a scelta in un database e poi, con una serie di procedimenti, realizza direttamente il testo. Il costo finale dell’operazione è di circa 0,12 sterline (16 centesimi di euro).
costruire autostrade, collegamenti ferroviari, aeroporti, creare posti di lavoro, mercato ai prodotti dell’agricoltura, sostegno all’economia, all’artigianato, al turismo, passano decenni senza nulla vedere.
Domenico
L’AZIONARIATO POPOLARE CONTRIBUISCE ALL’AVANZAMENTO Il lavoro, il risparmio e la capitalizzazione concorrono a migliorare il tenore di vita dell’umanità. La società per azioni e la borsa valori conciliano le esigenze dell’impresa con la preferenza del risparmiatore per la liquidità. Numerosi Paesi avanzati, diversi Stati liberati dalle passate dittature e altri promuovono l’azionariato popolare o diffuso. Ciò favorisce il progresso economico e morale. La democrazia beneficia dell’azionariato diffuso, che agevola la circolazione del potere economico e aumenta il numero dei cointeressati alla vita produttiva. Occorre tutelare i diritti dei piccoli azionisti e delle minoranze azionarie da eventuali abusi della gerenza, espressa dal capitale di comando. Il fisco eviti angherie e punizioni. Servono molte, autentiche privatizzazioni d’imprese, per incrementare i centri decisionali e sostituire il management pubblico, spesso nominato dalla partitocrazia. La vera e propria privatizzazione d’impresa presuppone il trasferimento a privati dell’intero capitale sociale azionario o della sua maggioranza assoluta o, almeno, della quota minoritaria di comando. Diversamente si ha una falsa privatizzazione, che diffonde lo strapotere gestionale pubblico su minoranze finanziatrici private.
Gianfranco Nìbale
Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Robert Kagan, Filippo La Porta,
Direttore da Washington Michael Novak
Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,
Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)
Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Collaboratori
Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,
Maria Pia Ammirati, Mario Arpino,
Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,
Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi,
Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,
Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,
Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,
LETTERA APERTA AL PRESIDENTE CASINI Caro Presidente, vorrei esprimere la mia opinione in merito alla necessità di non ripetere gli errori commessi in passato nella gestione del partito e sulla necessità di scrivere delle regole a cui attenersi. Regole che non possono essere di secondaria importanza rispetto alla nascita del Partito stesso. I cittadini, le donne, i giovani e i tanti professionisti si aspettano un Partito nuovo in cui ci sia davvero agibilità politica, in cui l’esercizio della democrazia non sia vacua parola, bensì pratica quotidiana da valorizzare. Un partito nuovo non può essere solo la somma di interessi e di opportunità, di tessere e di spezzoni di classi dirigenti, ma una casa comune dove chi entra è chiamato a rispettare e condividere prima ancora che programmi e valori, lo statuto, il codice di condotta, le regole basilari. Soprattutto nella fase della selezione della prossima classe dirigente e più tardi degli eletti che saranno chiamati a rappresentare il Partito della Nazione, credo non si potrà prescindere da un insieme di regole e di codici di comportamento che vincolino ad una militanza seria e disinteressata, al servizio del territorio e delle istituzioni. Troppe sono state sin qui le interpretazioni personali delle regole di partecipazione politica, troppe sono le violazioni delle buona convivenza civile e del bon ton istituzionale, troppa l’anarchia che vige e alimenta le emigrazioni da un partito ad un altro, da uno schieramento all’altro e tutto ciò non fa altro che allontanare i cittadini dalla politica. Penso che il nascente Partito della Nazione rispetto a tutto ciò debba segnare una netta e chiara discontinuità e mi farebbe piacere se Lei vorrà porre con forza l’urgenza di adottare ufficialmente un codice di condotta etica, che vincoli tutti ad un comportamento adeguato e conforme a una sana e moderna politica. In particolare, penso sia utile esprimersi riguardo a: cumulo dei mandati politici; astensione da altri incarichi politici che impediscano di esercitare il proprio mandato per gli eletti; astensione dall’esercizio delle cariche, professioni, mandati o incarichi che suppongono un controllo sulle funzioni di eletto o che, secondo le funzioni di eletto, avrebbe il compito di controllare; obbligo costante e periodico di informare i propri elettori sui provvedimenti, le decisioni e le ricadute delle stessa azione politica e/o amministrativa; astensione dall’esercizio delle proprie funzioni, dal prendere provvedimenti che assicurino vantaggi personali professionali. Sono sicuro, caro Presidente, che la troverò attento come sempre poiché Lei è convinto, come lo sono io, che l’Italia attende dal nascente Partito un segnale forte e deciso di cambiamento e rinnovamento. Vincenzo Fierro C I R C O L I LI B E R A L BA S I L I C A T A REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE “VERSO IL PARTITO DELLA NAZIONE” SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)
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