he di c a n o r c
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La natura è spesso nascosta, qualche volta sopraffatta, molto raramente estinta
9 771827 881004
Francis Bacon di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 10 NOVEMBRE 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
La visita a Padova si trasforma in un autogol per il Cavaliere e il Senatúr accolti al grido di «Andatevene!»
L’ombrello della Lega è bucato Per la prima volta fischiati in Veneto Berlusconi e Bossi L’alluvione è la metafora del tramonto del mito dell’efficienza del «governo del fare».Adesso il premier promette aiuti ma dice: «Prima devo parlarne con Tremonti». Dal Sud al Nord, l’Italia è tutta da ricostruire Il presidente dell’Antimafia a confronto con Pier Ferdinando Casini
Lo strappo di Pisanu: «Un governo di responsabilità nazionale» Nuove crepe nella maggioranza. L’esecutivo affonda sull’accordo con Gheddafi contro l’immigrazione. E Marcegaglia attacca: «Basta liti e incertezze» Errico Novi • pagina 8
Tutti i limiti della Conferenza di Milano
Le famiglie non mangiano solo Berlusconismo Le metamorfosi parole o federalismo? del Carroccio IL BIVIO DEI LEGHISTI / 1
IL BIVIO DEI LEGHISTI / 2
di Giancristiano Desiderio
di Riccardo Paradisi
di Paola Binetti
ale di più il berlusconismo o il federalismo? La si può mettere giù così la “questione leghista”perché alla fine ciò che realmente conta è da una parte il potere delle posizioni di governo e dall’altro la realizzazione di quella “ragione sociale” che da sempre si identifica con il partito di Umberto Bossi. a pagina 2
iove sul Veneto alluvionato, piove sul governo Berlusconi fibrillante per la crisi al buio aperta da Fini, piove anche sulla Lega divisa tra la vocazione di partito di lotta e ruolo di forza di governo. Ne parliamo con il centrista veneto Antonio De Poli e con gli esperti Massimo Cacciari e Paolo Feltrin. a pagina 2
uesta potrebbe essere una buona notizia! A Milano in tanti, tra Istituzioni ed associazioni, si sono accorti che il Paese ha bisogno di Famiglia, perché senza famiglia non solo non si cresce, ma non si vive proprio… Chissà se è vero che anche la politica si è finalmente accorta che il futuro del Paese passa dalla famiglia e che è finito il tempo delle scorciatoie, delle soluzioni alternative, delle promesse in libertà. È giunto il momento dei fatti, delle promesse mantenute, delle verifiche di campo, soprattutto perché è giunto il momento in cui tutte le parti sociali hanno capito che occorre guardare alla famiglia come alla soluzione dei problemi e non come al problema dei problemi. La famiglia, ogni famiglia, sa istintivamente cos’è una famiglia, perché il suo è un sapere esperienziale e non accademico né tanto meno ideologico. La famiglia può far famiglia nella buona e nella cattiva sorte, perché i suoi vincoli sono così stretti che la sofferenza di uno è sofferenza per tutti, con uno di quei contagi emotivi che caratterizzano il clima affettivo che vi si respira. La famiglia riunita oggi a Convegno vuole marcare la fine di un tempo di chiacchiere, di distrazioni più o meno consapevoli, di equivoci compiacenti. segue a pagina 6
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La strategia del dragone è chiara: creare un asse con Mosca e Nuova Delhi
Pechino vuole “comprarsi”l’Onu A sorpresa, la Cina benedice le aspirazioni indiane per il Consiglio
di Vincenzo Faccioli Pintozzi
L’editoriale dell’Hindustan Times
«Ora è l’Occidente ad aver bisogno di noi»
a Cina “comprende”il desiderio dell’India di entrare con un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e “sostiene da tempo” un’appropriata e necessaria riforma dello stesso. Hong Lei, portavoce del ministero cinese degli Esteri, non lascia spazio a dubbi: Pechino è d’accordo con le ambizioni indiane a gestire il diritto di veto in seno all’unico consesso internazionale che abbia qualche ragione d’esistere. a pagina 14
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seg1,00 ue a (10,00 pagina 9CON EURO
di Sanjiv Raghesh hi ha bisogno di chi? L’India ha bisogno del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per dimostrare il proprio ruolo o è l’Onu che ha bisogno dell’India dopo quello che l’America ha fatto all’Iraq sotto la guida di George Bush? Per non parlare di quello che Pechino fa ai suoi cittadini nel silenzio del mondo. a pagina 14
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I QUADERNI)
• ANNO XV •
NUMERO
218 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
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19.30
prima pagina
pagina 2 • 10 novembre 2010
la polemica
Berlusconismo o federalismo? La Lega ormai deve scegliere tra le poltrone a ogni costo o la propria «ragione sociale» di Giancristiano Desiderio ale di più il berlusconismo o il federalismo? La si può mettere giù così la “questione leghista” perché alla fine ciò che realmente conta è da una parte il potere delle posizioni di governo e dall’altro la realizzazione di quella “ragione sociale”che da sempre si identifica con il partito di Umberto Bossi. I leghisti devono decidere che cosa per loro è più importante: restare a Palazzo Chigi con questo governo costi quel che costi o ritornare al governo con un altro esecutivo e completare con un nuovo patto di legislatura la riforma federalista?
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Al punto in cui siamo, l’asse del Nord, vale a dire l’alleanza personale tra Berlusconi e Bossi, è ciò che rimane del centrodestra. L’immagine che i due alleati di ferro stanno dando di sé è quella di una coppia politica che avendo costruito una posizione di po-
tere non intende mollare la presa ed è disposta, sulla base di alcuni calcoli non ultimo quello della legge elettorale, il Porcellum di Calderoli - ad andare allo scontro finale esasperando il conflitto e dividendo il Paese ancor di più di quanto non sia già diviso. Secondo questa visione delle cose, la Lega da partito del federalismo che era si è tramutato in partito di potere. La difesa del berlusconismo ad ogni costo è in realtà la difesa del bossismo. Anzi, berlusconismo e bossismo, negando ogni possibilità di confronto politico per ricostruire l’area politica del centrodestra, sono talmente identici da essere geometricamente sovrapponibili. Dietro Berlusconi c’è Bossi e dietro Bossi c’è Berlusconi. L’asse del Nord è questo. Ma l’asse non è l’Italia. È su questo aspetto della “questione leghista” che il capo del governo e l’altro capo del governo dovrebbero soffermarsi un po’ di
più. Infatti, una cosa è spingere lo scontro con Fini fino alle estreme conseguenze e altra cosa è pensare che le estreme conseguenze siano favorevoli a una politica tutta bilanciata sull’asse e non sull’Italia. La Lega che difende il “berlubossismo” a oltranza evidenzia miopia politica perché contemporaneamente danneggia la sua “ragione sociale”: il federalismo.
più ampia, ci sono state invece grida di scandalo e insulti o quasi. Eppure, le due ipotesi non sono molto diverse tra loro: a fare la differenza è l’esistenza di questo governo che essendo tutto calibrato sull’asse del Nord non può essere alla base del nuovo patto di legislatura. Il nuovo patto implica che alla base del governo non ci sia il Nord, ma il Paese. Il loro è, al di là di ogni sondaggio e di ogni risultato elettorale, un calcolo sbagliato: il gioco non vale la candela. Possibile che i due non conoscano altro modo di “giocare”? Impossibile. Soprattutto se si considera che la riforma federalista ha bisogno di un consenso politico e culturale vasto che al momento non ha e con la strategia dell’asse non avrebbe.
Il problema è capire che l’«asse del Nord» non è (e non può essere) l’«asse del Paese»
Quando Berlusconi ha invitato Fini a stringere un nuovo patto di legislatura si sono alzati dal Pdl e dalla Lega applausi e consensi. Quando Fini ha risposto sì all’idea di discutere il patto, ma ha aggiunto che per farlo seriamente servono le dimissioni del presidente del Consiglio e la nascita di un nuovo governo con una maggioranza
il fatto Dopo i rifiuti di Napoli, anche la nuova emergenza riserva brutte sorprese al Cavaliere. Ieri non è bastato lo scudo di Bossi
Autogol in Veneto
Il premier ha scoperto tardi l’alluvione, ha fatto la passerella tra i fischi e ha promesso fondi eccezionali: «Ma prima devo chiedere a Tremonti» di Franco Insardà
ROMA Le reprimende contro l’assenza di Roma Ladrona si mischiano alle preghiere di aiuti a quello Stato che qui resterà sempre uno straniero. Di conseguenza, neppure la presenza di Silvio Berlusconi e Umberto Bossi a Vicenza, freschi di vertice arcoriano salvagoverno, è servita a frenare le ire (padane) degli alluvionati. Che infatti li hanno fischiati, incuranti che il presidente-imprenditore e l’ultimo araldo del Nord abbiano promesso «un intervento cospicuo». Il tutto mentre il maltempo, tranne qualche piccola tregua, continua a martoriare il Veneto e le regioni del Nord. Al suo arrivo a Monteforte d’Alpone in provincia di Verona, prima tappa della visita, un Berlusconi, meno baldanzoso del solito e lontano dallo sfoggio dal “ghe pensi mi”di aquilana memoria, ha dichiarato: «Gli aiuti al Veneto saranno so-
stanziosi e immediati». Il premier si è detto impressionato dalla gravità dei danni, ma anche molto colpito dalla reazione e reattività dei veneti al disastro, assicurando quindi che in Finanziaria ci saranno gli aiuti necessari alla ricostruzione, anche grazie allo sblocco di fondi Ue. Ma, dopo qualche ora, parlando con gli amministratori locali nella sede della provincia di Padova insieme al Senatur, al governatore veneto Luca Zaia, al capo della Protezione civile Guido Bertolaso e al sottosegretario Alberto Giorgetti ha precisato: «Prima dobbiamo parlare con Tremonti, entro domani sera daremo delle risposte chiare».
Tanto che il sindaco di Padova, il pd Flavio Zanonato, non ha nascosto la sua delusione: «Impegni nulli, soltanto parole. Ha parlato solo Berlusconi. È stata una piccola manifestazio-
ne alla quale abbiamo dovuto assistere. Non c’è una misura vera che sia stata annunciata».
A placare gli animi ci ha provato Bossi che ha assicurato: «Io ho portato qui Berlusconi, dovete quindi stare tranquilli. Zaia controllerà tutto e poi c’è Tremonti che è veneto quindi non vi dovete preoccupare». Il leader del Carroccio non si ha lesinato spiegazioni e alla domanda che cosa il governo deve fare per il Veneto ha risposto «schei». Mentre a chi chiedeva ragione del loro ritardo a visitare le zone alluvionate ha detto: «Eravamo presi da beghe di palazzo». Un’affermazione che Berlusconi, però, ha finito per smentire quando ha spiegato: «Non sono venuto prima qui per non di-
sturbare i soccorritori. Ma abbiamo già avviato la pratica con la Commissione Europea e venerdì verrà qui il commissario Tajani per prendere atto di tutto quello che è successo».
Un altro ministro veneto, quello del Welfare Maurizio Sacconi ha garantito: «Non c’è nessuna ragione per temere che lo Stato non sia solerte o capace di ristorare tutto il danno ricevuto anche se nessuno potrà cancellare, evidentemente, il segno di quella violenza della natura. Ho visitato il luoghi colpiti dal maltempo e mi sono reso conto di persona dell’entità dei danni. Capisco meno il nervosismo di quelli che non sono stati colpiti, come sciacalli che si agitano intorno a coloro che hanno subito i danni. Il governo è stato
presente fin dalle prime ore e la dichiarazione di stato di emergenza e la prima messa a disposizione di 20 milioni di euro è quello che si fa sempre in questi casi. Siamo assolutamente nel percorso, un percorso rapido che deve condurre a riconoscere il rifacimento di tutti i danni ricevuti».
Anche l’Abi si è mossa e il presidente Giuseppe Mussari in una lettera inviata a Berlusconi ha reso noto che le banche in Veneto «hanno stanziato plafond che cumulativamente superano allo stato i 700 milioni di euro e che sono destinati all’erogazione di finanziamenti a condizioni agevolate a imprese e famiglie. A ciò va aggiunto che in alcuni casi è anche prevista la sospensione dei mutui». Secondo Coldiretti in Veneto poco più di un comune su quattro è considerato a rischio frane e alluvioni. Gravissimi i dan-
le testimonianze Le contraddizioni dei leghisti, tra politica e sociologia
«È finito il Carroccio di lotta e di governo» A Roma comanda, in periferia fa opposizione: secondo Cacciari, De Poli e Feltrin è una strategia al capolinea di Riccardo Paradisi iove sul Veneto alluvionato, piove sul governo Berlusconi fibrillante per la crisi al buio aperta da Fini, piove anche sulla Lega divisa tra la vocazione di partito di lotta e ruolo di forza di governo. Una contraddizione che a più d’un osservatore pare produrre effetti bizzarri. Insomma appare curioso che a protestare contro il governo centrale per i mancati aiuti al Veneto sia proprio la Lega nord che prima d’essere una forza politica radicata nei territori del nordest è appunto un partito di governo.
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ni alle campagne, dove sono annegati oltre 150mila animali e sono andati persi interi raccolti. La stima dei danni, secondo l’associazione dei coltivatori, è di un miliardo di euro.
Ma il maltempo non dà tregua in nessuna regione italiana e la protezione civile è in allerta. Ma è partita una vera e propria battaglia tra le varie regioni. Per il governatore Veneto «i soldi il governo li deve dare prima al Veneto, poi a Pompei. Si possono fare tutte e due le cose, ma qui abbiamo mezzo milione di persone sott’acqua». In Toscana il governatore Enrico Rossi a proposito dei danni subiti dal territorio di Massa Carrara ha chiarito: «Sarebbe veramente grave che ci fossero due pesi e due misure». Il tutto mentre le piogge sono arrivate, già da ventiquattro ore, al Sud e in particolar modo in Campania, tanto da richiedere la sospensione dei
collegamenti marittimi nel golfo di Napoli.
Dopo le contestazioni in Veneto ieri tirava brutta aria per Silvio Berlusconi anche a L’Aquila. ll premier è ritornato nel capoluogo abruzzese dopo nove mesi, l’ultima visita risale al 29 gennaio scorso, e il suo arrivo è stato preceduto da manifestazioni di cittadini con carriole con dentro mattoni, cartelli con la scritta “Tu bunga bunga, noi macerie”, ma anche un grosso striscione “Macerie di Democrazia - L’Aquila chiama Italia il 20 novembre”. L’occasione della vista abruzzese è stata la consegna, nella caserma di Coppito, dei riconoscimenti per la Protezione civile nazionale alla presenza dei sottosegretari Gianni Letta e Guido Bertolaso e del del sindaco de L’Aquila, Massimo Cialente che ha ricordato al presidente del Consiglio: «Qui c’è ancora tanto da fare».
La Lega si sta facendo ogni giorno portavoce più decisa dei malumori dei cittadini e degli imprenditori che hanno più volte chiesto al governo di stanziare fondi per la ricostruzione. I due capigruppo parlamentari del Carroccio, il deputato Marco Reguzzoni e il senatore Federico Bricolo, hanno fatto sapere che si tratta di un’iniziativa nata dal desiderio di rispondere con azioni concrete a problemi reali piuttosto che alle polemiche politiche degli ultimi giorni. Il riferimento è alla minaccia che proviene anche da sindaci di centrosinistra di non pagare le tasse se non arriveranno al Veneto aiuti più massicci dei venti milioni di euro stanziati già dai primi giorni di novembre. Del resto era stato lo stesso ministro Sacconi a promettere che lo Stato avrebbe «ristorato tutto il danno ricevuto». È il coordinatore dell’Udc veneto Antonio De Poli a rilevare da un lato come vi siano stati dei ritardi sugli aiuti immediati e sulla gestione dell’emergenza da parte della regione Veneto e dall’altro come le richieste d’aiuto al governo centrale fatte dal governatore Zaia dimostrano come quello dell’autosufficienza del proprio territorio è un appunto «un mito che l’alluvione ha trascinato via con sé. Ha capito che non sempre si è autosufficienti all’interno delle proprie mura territoriali». Ma di queste contraddizioni non ci si deve stupire più di tanto: «È nota la spregiudicatezza leghista. Del resto dopo l’accordo chiuso tra Lega e Berlusconi per portare a casa i provvedimenti cari al Carroccio Bossi sarà molto spregiudicato anche nei confronti dell’attuale premier». Su questi due aspetti della condotta leghista, la tensione tra il proprio radicamento territoriale e il proprio ruolo governativo come sulle prospettive dell’alleanza con Berlusconi Massimo Cacciari e il politologo Paolo Feltrin hanno sguardi d’osservazione diversi. Per Cacciari non stupisce la doppia morale denunciata da De Poli: «La Lega è sempre stato un partito di lotta e di governo. A Roma governa e nei territori che sono il suo bacino elettorale continua con la sua propaganda localista
e separatista». Un’intermittenza che per l’ex sindaco di Venezia durerà «fino a quando i suoi elettori non avranno compreso che il gioco del loro è finalizzato alla conquista d’un potere sempre maggiore usando strumentalmente slogan autonomistici alternati a slogan securitari. Finora l’elettorato leghista ha dimostrato d’essere totalmente fidelizzato a Bossi tanto che se la lega decidesse di mollare Berlusconi il senatur non perderebbe un voto». Intanto quello che i veneti vogliono sono però aiuti per l’emergenza e per ricostruire quello che è stato distrutto. Sul Gazzettino veneto Ulderico Bernardi, già professore ordinario di Sociologia dei processi culturali nel dipartimento di scienze economiche dell’Università Ca’ Foscari di Venezia ha denunciato giorni fa «l’infima attenzione che i media nazionali hanno riservato ai gravissimi fatti dell’alluvione» e l’entità mediocre degli aiuti stanziati a chi, «nei confronti del fisco, è sempre in largo credito, dati alla mano: nel 2007 il gettito fiscale veneto è stato di 67,6 miliardi di euro e i trasferimenti da Roma il 48,7 miliardi, con un saldo negativo di ben 18,8 miliardi. L’importante è che i cittadini veneti non perdano, con i risparmi e gli edifici, la fiducia nella nazione. Beffarli, trattarli da accattoni che alzano la voce per ricevere la carità, sarebbe pericoloso».
Situazione critica dunque quella del Veneto nella quale anche i sindaci del Pd hanno fatto sentire alta la voce della protesta, fino alla minaccia di non pagare più le tasse a Roma. «È la dimostrazione – dice Paolo Feltrin – che la strategia leghista del partito di lotta e di governo si iscrive in questo caso nella fisiologica tensione tra centro e periferia che scatta ogni volta si sia di fronte a calamità naturali di questo tipo». Insomma gli amministratori locali – anche quelli dell’opposizione – rispondono a riflessi locali: «Del resto considerando che uno dei principali destinatari della polemica leghista è sostanzialmente lo stesso Tremonti la partita davvero sembra proprio in casa». Sulla prospettiva strategica della Lega Feltrin pensa invece al contrario di Cacciari che Bossi sarà il giapponese di Berlusconi: «Ha l’ambizione di ereditarne una consistente fetta di elettorato avendo capito che sono molti gli elettori del Pdl che non hanno nessun tabù a slittare verso la Lega, non solo al nord, ma anche in regioni importanti come Emilia, Marche e Toscana». In un solo punto Bossi potrebbe entrare in conflitto con Berlusconi: «Se le strada di Berlusconi si dovesse dividere da quella di Tremonti. A quel punto il Senatur sceglierebbe Tremonti. Ma fino a quel momento chi glielo fa fare di staccare la spina?»
Il paradosso è che uno dei principali destinatari della polemica leghista sugli scarsi aiuti al Veneto è il ministro dell’Economia Tremonti
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l’approfondimento
Il Delta del Po ha una lunga tradizione fatta di difficoltà e solidarietà. Eppure la causa di tutto non è sempre solo la natura
Una storia sommersa
Proprio in Veneto, con l’alluvione in Polesine del 1951, l’Italia si riscoprì unita e solidale dopo le divisioni del dopoguerra Ma da lì nacque anche la consapevolezza dei contadini di quelle terre di essere diventati i «meridionali del Nord» di Maurizio Stefanini era e aqua, aqua e tera/ da putini che da grandi / Siora tera, ai so comandi,/ siora aqua, bonasera/ bonasera». Fu nel 1964 che, per il filone allora emergente di un “folklore progressivo” di cui erano i più noti esponenti i torinesi Cantacronache, uscì il disco di una canzone intitolata semplicemente Polesine. Voce di Margherita Galante Garrone, in arte Margot, figlia del noto magistrato, storico e esponente del Partito d’Azione. Musica dell’etnomusicologo Sergio Liberovici, suo marito.Testo del giornalista Luigi Fossati: in seguito direttore del Messaggero, e che sarebbe finito nella bufala chiamata «Rapporto Mitrokhin» come agente del Kgb, ma che d’altra parte da inviato dell’Avanti! a Budapest nel 1956 era stato fondamentale per indirizzare i sentimenti del Psi in favore della Rivoluzione Ungherese. Un testo, e qui ve-
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niamo al dunque, che però era semplicemente una rielaborazione in versi di ciò che allo stesso Fossati avevano detto alcuni contadini in un’intervista, dopo una delle inondazioni che negli anni ‘50 avevano ap-
Vicenza. È sommersa, in senso letterale e metaforico, l’economia di Vicenza: provincia manifatturiera tra le più importanti d’Italia, tra oro, concia, meccanica e tessile; e con la Confindustria locale che si lamenta
per la risposta fiacca di un governo che pure conta tra i suoi massimi esponenti dei sostenitori a ogni pie’ sospinto della identità veneta e del modello veneto, e minaccia di non pagare le tasse.
Anzi, lo propone come misura di semplificazione amministrativa: «Tanto ci dovete dare un aiuto, non si fa prima se invece di darvi soldi che poi dovete restituirci ce li tratteniamo
punto metodicamente devastato la zona del Delta del Po. «Tera e aqua! Se lavora/ soto un sole che cusina.../ tera e aqua! A la matina/ se scomissia de bonora; / de bonora». Appunto. È sommersa, in senso letterale,
direttamente». C’è pure chi dice che l’inondazione sia dovuta proprio al fatto che Vicenza si è sviluppata troppo, con un eccesso di capannoni e fabbriche che ha cementificato il territorio in maniera ambientalmente insostenibile. Se è per questo, però, sott’acqua il Veneto ci finiva anche quando era regione sottosviluppata e dipendente da un’arretrata agricoltura. Appunto, continua la canzone-intervista di Fossati. «Tera e aqua! Tera nuda,/ gnente piante, gnente ombrìa./ Sta fadiga mai finìa:/ la comanda che se suda;/ che se suda». Ma è sommersa anche l’economia dell’Italia intera, o per lo meno una sua importante aliquota. In un senso metaforico diverso da quelli che abbiamo usato finora, ma non per questo meno impressionante. Almeno il 16-17% del Pil, ha detto il presidente dell’Istat Enrico Giovannini. Considerando che un punto di Pil corri-
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sponde a poco più di 15,5 miliardi di euro, si arriverebbe a tra i 248 e 263 miliardi. «Una media», ricorda Giovannini. «Ci sono alcuni settori a zero, come la pubblica amministrazione, e altri con quote molto più alte, come edilizia, agricoltura e commercio al dettaglio».
In teoria Vicenza sommersa, l’economia di Vicenza sommersa e l’economia italiana sommersa non c’entrano direttamente tra di loro: a parte la battuta, e a parte la quasi contemporaneità della notizia. In pratica, c’entrano invece moltissimo: come c’entra molto anche l’altra notizia di Pompei che cade in briciole.Tutte metafore di un Paese che si ostina a non funzionare, e in cui non solo la Politica è appunto a livelli da “dopo di noi il diluvio”. Dieci anni fa, ma sembra passato un secolo, proprio l’autore di queste note aveva scritto con Giovanni Negri un libro che si intitolava I senzapatria, e in cui proprio l’inondazione del sommerso era indicato come uno degli indici del malessere del Sistema Italia. Ricordavamo ad esempio Luca Meldolesi, docente alla Federico II di Napoli e responsabile del comitato presso la presidenza del Consiglio per l’emersione del lavoro irregolare, che parlava di un «viaggio nella realtà produttiva del Sud» da cui erano emersi «interi distretti fantasma nel settore tessileabbigliamento». Attenzione: non distretti
ni Unite a Ginevra, ci ricordava a quell’epoca che «sono state inventate proprio in Italia le metodologie per la misurazione del sommerso ormai adottate in tutto il mondo». Certo: non è tutto buio quello che non luce, e non è tutto sott’acqua quel che sembra sgocciolare. Se davvero all’epoca il sommerso italiano arrivava addirittura al 27,3% del Pil e adesso stiamo “solo”al 16-17, questo
Insomma, non sempre i non sommersi coincidono con i salvati. E in effetti un altro recente studio, questo di Visa Europe, darebbe invece un dato più alto: addirittura il 22,1%. Anzi: Visa Europe spiega pure che tra 2005 e 2008 la percentuale di sommerso sul Pil nazionale era calata di tre punti, ma tra 2008 e 2010 crisi e stretta fiscale ne hanno provocato una ripresa. Dieci anni fa i due quin-
ti di lavoratori sommersi e anfibi a livello nazionale coincidevano addirittura con una loro maggioranza al Sud: 28,9% di anfibi, 17,1% di lavoratori irregolari, 2,7% di stranieri non residenti, 2,1% di occupati non dichiarati, per un totale del 50,8%. E proprio questa immagine del Sud come territorio che chiede aiuti e non paga le tasse ha suscitato le ulteriori ire degli imprenditori vicentini. «Quando succede qualcosa al Sud gli aiuti fioccano, a noi ci hanno abbandonato».
Scusate per il tormentone, ma la canzone-intervista di Fossati torna di nuovo a entrarci. «Tera e aqua! Tera nuda,/ gnente piante, gnente ombrìa./ Sta fadiga mai finìa: / la comanda che se suda;/ che se suda». In realtà, fu proprio la grande alluvione del Polesine che il 14 novembre del 1951 uccise 84 persone e lasciò 180.000 senza tetto, la prima grande occasione di mobilitazione solidale dell’Italia repubblicana, con tutti i partiti della
L’invasione delle acque che coprono tutto divenne la metafora dell’economia sotterranea
che integravano l’informale. Proprio interi distretti che erano tutti informali. Record nazionale a Grumo Nevano, nella cintura nord di Napoli. 20.000 residenti, 10.000 occupati, ma con due lavoratori irregolari per ognuno regolare. E una rete di laboratori artigianali per calzature sistemati nei garage in grado di produrre un giro d’affari pari ad alcune decine di miliardi all’anno e di esportare anche in Giappone. Un caso estremo, certo. Ma era dovuta proprio all’informalità diffusa l’incapacità stessa di calcolare il numero esatto dei distretti industriali italiani: da stime minime di un’ottantina, a quelle massime di 230. Da stime del Cnel risalenti al 1999 risultava che su ogni tre lavoratori normali in Italia ce n’era uno sommerso e uno del genere che avevamo denominato “anfibio”: regolare, ma aggiungente l’introito di un’attività complementare in nero alla busta paga regolare. Paolo Garonna, direttore dell’Ufficio statistico delle Nazio-
vuol dire che in fenomeno è in via di rapida riduzione.
Bisognerebbe però capire se si è trattato di un’emersione positiva, o se semplicemente l’emersione di certi posti di lavoro non abbia coinciso con la loro distruzione.
Qui sopra, tre immagini della tragedia del Polesine del 1951 (al centro, la consegna degli aiuti agli orfani). Nella pagina a fianco, la campagna veneta nei giorni scorsi
nuova democrazia che organizzavano squadre di volontari per andare a soccorrere i disastrati. D’altra parte, anche i camion di aiuti in provenienza dal blocco occidentale o da quello comunista portavano scritti a caratteri cubitali i donatari. Tanto a non lasciar dubbi sulla generosità di chi si sarebbe dovuto ringraziare. È vero: fu anche il primo grande psicodramma della stessa Prima Repubblica. Polemiche sul modo in cui si era arrivati al disastro. Polemiche sulla gestione dei soccorsi. Polemiche sulla ricostruzione. E polemiche sulla condizione etnoantropologiche di una terra che sembrava abbandonata senza rimedio alla furia degli elementi per colpa di una povertà irredimibile.
Appunto, ancora a anni di distanza dagli eventi, Fossati poteva andare a registrare sfo-
ghi che parlavano di una miseria primitiva, biblica. «Tera e aqua! A mezogiorno/ quel paneto che se magna/ no gh’è aqua che lo bagna/ e ghè aqua tuto intorno;/ tuto intorno». «Tera e aqua! Co vien sera/ tuti intorno, dona e fioi,/ a una tecia de fasioi,/ se ghe fa un bona siera;/ bona siera». «Tera e aqua! Po a la note/ se se buta sora el leto/ e se sogna, par dispeto/ aqua e tera, piene e rote;/ piene e rote». Fece anche simpatia, quella mancanza assoluta di malizia, da poveri diavoli, dei polesani. Molti senzatetto vennero ospitati fuori del Veneto, e molti degli ospitati decisero proprio per sottrarsi alla miseria di restare dove erano stati ospitati. Con il che, a volte la simpatia venne meno.
A Torino, in particolare, non è che si faceva molta differenza, come disprezzo, tra quello per i «terroni» meridionali, e quello per i veneti. E a Mantova ci si interrogava pure: come mai per tre giorni l’ondata di piena del Po era transitata in Lombardia senza troppi problemi, per poi causare tutta quella catastrofe non appena passato il confine regionale? D’altra parte, a quell’epoca non c’era ancora la televisione, i telefoni fuori delle città li avevano in pratica i soli uffici governativi, e le radio in una terra povera come il Polesine i contadini ne avevano molte di meno che nel contiguo mantovano. Insomma, furono presi del tutto di sorpresa, in un modo che oggi sarebbe possibile solo nel più arretrato Terzo Mondo. Qualcuno notò anche la differenza tra i comuni in cui c’era un minimo di piccola proprietà e quelli in cui predominava un proletariato di miserabili braccianti che assistette in modo fatalista a un disastro che comunque non avrebbe potuto peggiorare più di tanto le sue infime condizioni. Neanche la riforma agraria, c’era ancora stata. Insomma, ognuno può sempre essere e diventare il terrone di qualcun altro. Proprio il boom del Nord-Est ci ricorda che l’arretratezza non è affatto un dato acquisito per sempre, e che i poveri di ieri possono diventare i ricchi di domani. Però, non necessariamente la ricchezza acquisita aiuta automaticamente a gestire i territori, e le emergenze. «Sempre aqua e sempre tera/ da putini che da grandi:/ Siora tera, ai so comandi.../ po se crepa e... bonasera/ bonasera».
diario
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Società. Un bilancio dalla Conferenza 2010: le intenzioni di Sacconi sono buone ma non devono rimanere tali
Famiglia, non basta la parola Servono al più presto politiche per la natalità e per il lavoro di Paola Binetti
segue dalla prima In un’epoca in cui il valore preferito dalla nostra cultura sembra essere quello dei diritti individuali, la famiglia torna ad esigere attenzione per i diritti e per i doveri della famiglia, che implicano sempre una dimensione di responsabilità e di reciprocità. I diritti della famiglia sono molto di più della sommatoria dei diritti individuali, perché includono tutti quei beni relazionali che traggono la loro energia della natura etica dei vincoli familiari. La famiglia ha una sua struttura intrinsecamente etica in cui però il senso del dovere non è altra cosa che il senso dell’amore. L’etica della cura nasce in famiglia ma ha bisogno della rete delle famiglie per raggiungere il suo obiettivo e l’intera rete delle famiglie non ce la farebbe se non ci fosse tutt’intorno una rete di servizi. È stato il ritornello che, in modi diversi, ha animato il lavoro dei dieci gruppi durante questa Conferenza: la famiglia al centro con tutte le famiglie a far da cintura ad ogni famiglia. L’etica della relazione familiare coincide con l’etica della cura declinata e risponde al bisogno dell’uomo di non essere e di non sentirsi mai solo. Nessuno nasce solo: c’è sempre una madre ad accudire, e un padre perché nessuna madre si senta sola. C’è poi una rete di servizi di carattere prevalentemente sanitario intorno. perché nessuno dei tre si senta solo. Ma poi misteriosamente questa cintura di solidarietà si dissolve. Madre, padre e figlio costituiscono quel nucleo familiare originario che va tutelato come il bene più prezioso della nostra società: molti disegni di legge sono stati presentati in Parlamento, ma giacciono nei meandri burocratici.
Capire perché in tanti si affannino a difendere il valore della famiglia fondata sul matrimonio significa avere un quadro sufficientemente chiaro di cosa sia la vita. La famiglia offre quelle garanzie di continuità e di stabilità di cui tutti abbiamo bisogno e che niente e nessuno può sostituire, come per altro ha confermato anche la recente crisi. Donati parla di welfare di nuova impostazione, sollecita uno slancio creativo nella impostazione delle politiche di welfare per superare un approccio assistenzialistico, che non risponde alle effettive esigenze della famiglia. Nel vec-
chio approccio il welfare aveva carattere sostitutivi; oggi anche il welfare deve ripartire dalla famiglia, per promuoverne le capacità e sostenerne la missione naturale. Anche nella conciliazione dei tempi di lavoro con i tempi familiari sono i primi a fare la parte del leone. C’è bisogno di rilanciare la gioia di sperimentare una paternità e una maternità generosamente aperte. Ma questo presuppone la possibilità di integrare una ripresa dell’edilizia per le famiglie numerose, una politica di flessibilità nei ritmi di lavoro, e dei trasporti a misura d’uomo. Occorre restituire alla famiglia la sua dimensione di con-vivenza. In famiglia si tocca con mano come ci sia la necessità di contare stabilmente l’uno sull’altro e si sa bene che volersi bene non è facile. Se poi la pressione fiscale assorbe in modo ostile oltre il 45% del reddito familiare è facile chiedersi se ne vale la pena e caricarsi di ulteriori motivi di stress, sempre corrosivi per la tenuta della famiglia. In questa logica i numeri emersi in occasione della Conferenza nazionale sulla famiglia destano non poco allarme. Quattro sono gli indicatori che sollevano le maggiori preoccupazioni e dettano un segnale importante a tutta la classe politica. Nell’arco di 40 anni i matrimoni si sono praticamente dimezzati. Contemporaneamente sono aumentate le sepa-
razioni e i divorzi. È cambiata la mappa delle famiglie, per cui sono aumentate quelle composte da uno o due componenti: 55,4%, mentre solo nel 28% ci sono dei minori e nel 36,5 degli anziani. Sembrano dati anonimi ma ci dicono molte cose, perfino troppe se cominciamo dall’anno preso in considerazione per calcolare la diminuzione dei matrimoni. Il 1° di-
quella che ne mette a repentaglio la tenuta sul piano affettivo ed effettivo. La sua durata, la sua possibilità di compiere fedelmente la sua mission specifica, sono un bene comune per tutta la società a cui tutta la società deve impegnarsi. Sacconi propone di finalizzare una parte significativa delle risorse disponibili, sempre troppo poche e tanto più in tempi di crisi, alle coppie aperte alla procreazione. La felice coincidenza vuole che Sacconi sia contestualmente ministro del lavoro e ministro del welfare, per cui appare come la persona più indicata per mantenere la promessa che fa. E Sacconi è notoriamente persona di parola, sufficientemente concreto per non fare promesse che non può mantenere e sufficientemente responsabile per non consentire che si defraudi la famiglia del suo diritto principale: quello di continuare ad esistere.
matrimonio e il volersi bene fuori dal matrimonio, come accade nell’esperienza tipica delle coppie di fatto. Si è cercato di oscurare le difficoltà che l’esperienza del divorzio provoca sul piano dell’impoverimento affettivo ed effettivo a cui le coppie vanno incontro. Difendere la famiglia significa oggi riproporne la forza coesiva; difendere la famiglia fondata sul matri-
È cambiata proprio la mappa dei nuclei: il 55,4% è composto da uno o due componenti, nel 28% ci sono dei minori e nel 36,5 degli anziani cembre del 1970 è di fatto l’anno di approvazione della legge sul divorzio, una legge che inizialmente fu approvata per venire incontro ad alcune situazioni drammatiche che si davano in famiglie sofferenti e destinate ad un processo di disagio crescente per i coniugi e ancor più per i minori. Il divorzio appariva allora come extrema ratio davanti a situazioni che sembravano non avere alternative. Eppure c’è una coincidenza di fattori che dovrebbero per lo meno far capire come accanto a quella misura netta e decisa, in questi anni nulla è stato fatto per facilitare un processo di segno opposto. L’enfasi è stata messa sul principio di libertà individuale e si è voluto sottolineare l’insussistenza della differenza tra il volersi bene nel
monio, come a Milano hanno ricordato diversi relatori, ma come ha fatto con straordinaria lucidità proprio il ministro Sacconi, significa mettere bene in chiaro che per la famiglia in questi 40 anni non si è fatto nulla, o praticamente nulla. Si è puntato solo sulla soluzione divorzio come opzione indispensabile quando ormai il matrimonio non funziona più, ma gli aiuti necessari a far funzionare la famiglia, quella che appare sempre di più come la principale garanzia per la tenuta del Paese, sono stati praticamente zero. Anche le parole del Cardinal Tettamanzi in questo contesto appaiono come un monito molto chiaro: «I diritti delle famiglie deboli non sono mai diritti deboli». E la prima debolezza della famiglia è proprio
Eppure le sue parole hanno suscitato scandalo. Il ministro Sacconi non ha bisogno di difese di nessun tipo: è perfettamente in grado di argomentare le sue decisioni. Ma io credo che la maggioranza delle famiglie stia aspettando che le sue promesse si facciano realtà e che la nostra società si schieri decisamente dalla parte dei giovani, quelli non ancora nati e quelli in cerca di lavoro. Lui può con un gesto solo soddisfare entrambe le promesse: innescare un processo virtuoso per cui tante giovani coppie trovino un lavoro stabile e possano davvero mettere al mondo i figli che desiderano… Potrebbe essere una buona conclusione - certamente non l’unica! - di questa Conferenza 2010. Lavoro e famiglia, politiche per la natalità e politiche per il lavoro sarebbero una risposta efficace anche per tutti quei genitori che in preda all’ansia e alla preoccupazione fanno anche da agenzia di collocamento per i propri figli, per sostenerne la ricerca di lavoro in tempi davvero magrissimi di opportunità. È un problema vero che aspetta una risposta concreta al di là delle chiacchiere in politichese e della dialettica sulla tenuta del governo. Per ora noi ci auguriamo che il Ministro Sacconi faccia quanto ha promesso, coinvolgendo il suo collega Tremonti. Senza accettare rimandi ormai inaccettabili per tutti, soprattutto per le famiglie.
diario
10 novembre 2010 • pagina 7
L’Italia è in una situazione intermedia, all’8,3%
I carabinieri hanno effettuato 11 arresti e 20 perquisizioni
Disoccupazione ancora alta nei Paesi dell’area Ocse
Una cellula di al Qaeda sgominata a Napoli
PARIGI. Restano inchiodati vicino ai massimi i tassi di disoccupazione nei paesi Ocse. L’organizzazione ha diffuso i dati di settembre che vedono la media dei 33 paesi membri stabile sull’8,5%, per il quarto mese consecutivo. Da quando è esplosa la crisi il dato peggiore è stato l’8,7%, raggiunto per la prima volta nell’ultimo trimestre del 2009 che ha segnato il picco dei senza lavoro. In seguito la percentuale è scesa impercettibilmente, ma non senza arretramenti: era tornata all’8,7% nell’aprile scorso, per calare all’8,6 in maggio e stabilizzarsi poi sull’8,5 attuale. La situazione nei diversi paesi è comunque molto differenziata. A fronte dei record negativi di Spagna (20,8%, in peggioramento di ben un punto percentuale rispetto ad aprile), Slovacchia (14,7%) e Irlanda (14,1) ci sono i dati sorprendentemente positivi di Corea (3,7%), Olanda (4,4) e Austria (4,5). L’Italia è in una situazione intermedia, all’8,3%, un po’ meglio di aprile (era 8,5) ma peggio di agosto (8,1). E giova ricordare, come ha fatto di recente il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, suscitando polemiche da parte del governo, poi rientrate, che i cassintegrati non vengono computati fra i disoccupati, come pure gli ”scoraggiati”, cioè coloro che sono tanto sfiduciati da non cercare attivamente lavoro perché in questa fase disperano di trovarlo. Aggiungendo queste due categorie si arriverebbe all’11%.
NAPOLI. Undici arresti eseguiti, tre persone localizzate all’estero, per una delle quali è stato chiesto un mandato europeo, due ricercati: è il bilancio di un’operazione dei carabinieri del Ros coordinata dalla sezione antiterrorismo della procura di Napoli nell’ambito di una indagine sulla presenza nel capoluogo campano di cellule del gruppo salafita per la predicazione e il combattimento, organizzazione affiliata ad al Qaeda. La struttura multietnica aveva base logistica a Napoli e diramazioni in Italia e all’estero, e produceva documenti d’identità falsi, favorendo l’immigrazione clandestina; tra i reati contestati agli arrestati, anche
Tra i maggiori paesi, la situazione migliore è quella del Giappone (5%, in lieve miglioramento rispetto al picco massimo del 5,3 toccato in giugno) e soprattutto della Germania, che mostra un tasso un po’ più alto (6,7%), ma appare in costante miglioramento: nell’ultimo trimestre 2009 era al 7,5, ad aprile scorso ancora al 7. Rispetto a un anno prima vanta la riduzione più forte: -0,9%. Male gli Stati Uniti, bloccati al 9,6%.
E ora Frattini fa il tifo per la Turchia in Europa «Roma e Istanbul città ponte per il dialogo futuro» di Pierre Chiartano
ROMA. L’Unione europea non deve perdere l’«occasione storica e irripetibile» di ammettere la Turchia, lo hanno affermato ieri i ministri degli Esteri italiano e turco.Turchia avanti tutta, nei rapporti con l’Italia, con l’Europa e come intermediario tra Occidente e vicino ed estremo Oriente. Il ministro degli Esteri di Ankara, Ahmet Davutoglu ha tracciato ieri a Roma il quadro di un Paese in crescita spettacolare e di rapporti tra Roma ed Ankara che negli ultimi cinque anni sembrano esplosi. L’occasione è stato il Forum annuale italo-turco svolto a palazzo Barberini. E non parliamo solo di economia: anche dal punto di vista delle conquiste sociali le donne sono il 15 per cento della forza lavoro in Turchia contro la media Ue del 7 per cento. «Istanbul e Roma sono la culla di tradizioni che parlano di dialogo col mondo, negli archivi di queste due metropoli puoi leggere gran parte della storia del mondo», ha spiegato il capo della diplomazia turca. «Con la Cina, la Turchia è sicuramente il Paese con l’economia più dinamica del G20», ha confermato Frattini.
sentante di Ankara – che non è solo nel nostro interesse, ma nell’interesse globale». C’è in cantiere un progetto per fondare l’Università italo-turca «che spero nasca al più presto».
Roma e Istanbul sono «città ponte» tra le diverse civiltà e conoscono meglio di altri ciò che unisce culture diverse. «Se la storia viene studiata bene può diventare la luce che illuminerà il nostro futuro» spiega il politico di Ankara. E a proposito di libero mercato: «esisteva già nel XV secolo con Venezia, Genova, Firenze, Salonicco e Smirne. In quei tempi i commercianti italiani avevano libero accesso a Istanbul». Queste le ricchezze del passato, ma oggi i due Paesi cosa stanno creando? «La crisi economica sta ridisegnando gli equilibri mondiali» chiosa Davutoglu, senza affondare il coltello nella piaga, perché ci aveva già pensato Taha Ozhan, direttore del think tank Seta, definendo il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale come attori «ormai marginali» della scena finanziaria mondiale. E la forza della lira turca, spinta dagli investimenti stranieri, prima o poi dovrà essere governata. È chiaro come per Ankara sia il G20 la base per i nuovi equilibri internazionali: «possiamo influenzare le scelte del G20 con l’Italia». L’Europa è servita nel secondo dopoguerra per ricostruire un continente, ma oggi serve un modello diverso. «Nel 2050 l’Europa potrebbe essere un attore ininfluente della scena mondiale», perché aggiunge il capo della diplomazia turca «non sempre le nuove sfide vengono raccolte». «Nel XVIII secolo il 70 per cento della produzione mondiale proveniva dall’Asia e solo il 15 per cento dall’Europa. Poi con la Rivoluzione industriale e il colonialismo e nel 1850 eravamo giunti a un equilibrio. Nel 1870 l’Europa produceva il 70 per cento delle merci mondiali e l’Asia al 15 per cento. Nel Duemila di nuovo l’equilibrio. Se questa tendenza continua che tipo di scenario avremo nel 2050?». «Nel 2050 la Turchia potrà essere tra le prime dieci economie mondiali» ha risposto di Frattini.
Il ministro degli esteri turco: «Possiamo influenzare le scelte del G20 con l’Italia ed essere mediatori tra le diverse civiltà»
«Da un punto di vista delle capacità di attrarre investimenti la Turchia ha fatto passi in avanti e hanno una classe dirigente dinamica e all’altezza delle sfide globali» questo il commento carpito all’economista Luigi Paganetto presente all’incontro. Insomma, per l’Europa farsi scappare la Turchia sarebbe veramente un pessimo affare. I turchi sono coscienti del nuovo ruolo regionale del Paese e dei passi in avanti fatti verso una democrazia senza aggettivi. «Nel 1998 le aziende italiane che operavano in Turchia erano 17, dopo 12 anni contiamo 760 imprese italiane» sono il metro di Davutoglu per giudicare l’asse mediterraneo. E non parliamo solo di una volontà politica: «A luglio si è riunito anche il Forum dei media che è stato un evento eccezionale» ha continuato Davutoglu. L’amore italoturco ha «penetrato capillarmente la società civile. Dai membri della stampa ai rappresentanti delle università, per aver una prospettiva comune – ha continuato il rappre-
la ricettazione e la diffusione di banconote false. Secondo quanto si è appreso, i componenti dell’organizzazione sono accusati di aver falsificato documenti, permessi di soggiorno, patenti e carte di identità che rivendevano ad altri stranieri, soprattutto africani. Si sta verificando se questi documenti possano essere stati utilizzati da elementi contigui al mondo del terrorismo.
L’indagine è comin ciata due anni fa, dopo la sentenza a gennaio 2008 della Corte di Appello partenopea che ha riconosciuto il reato di associazione a delinquere con finalità di terrorismo per gli imputati algerini Yamine Bouhrhama, Mohamed Larbi e Khaled Serai, arrestati dai Ros nel 2005 1 nell’ambito dell’operazione ”Full Moon”che evidenziò il legame tra ambienti del terrorismo transnazionale e criminalità comune napoletana creato dalla necessità di approvvigionarsi di documenti falsi per circolare nei paesi europei. Al centro di questa rete, Farid Nouara, algerino che fungeva da punto di contatto tra i due mondi, prima sfuggito all’arresto, poi rintracciato e bloccato a Napoli. Suoi stretti collaboratori sono Khemisti Ahmedi e Samir Snaibel, arrestati ieri.
politica
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Crisi. L’esecutivo non regge più: battuto alla Camera sul trattato Italia-Libia, Fli vota con le opposizioni
Lo strappo di Pisanu Accordo con Casini: «Maggioranza più ampia per un governo di responsabilità» di Errico Novi
ROMA. Tra i banchi della Sala del Refettorio, a Palazzo San Macuto, si respira un’aria straniante. Perché il silenzio che si immagina regni di solito tra i banchi della splendida biblioteca evoca l’inappellabile condanna di una politica fatta solo con le urla. Così almeno non sorprende che Enzo Carra e Renzo Lusetti, con la loro associazione“Visioni contemporanee”, abbiano scelto proprio questi spazi per ospitare il dibattito su “L’inverno della Seconda Repubblica”.Vi interviene una delle poche figure del Pdl dotate di autono-
minata dall’associarsi dei finiani al voto delle opposizioni. Si materializza uno scenario in cui Futuro e libertà di fatto non è più parte organica della coalizione con Pdl e Lega. Oltrettutto l’incidente si manifesta nella sua gravità anche nella fase successiva della discussione in aula, giacché il Pdl decide di ritirare la mozione del trattato ed è invece proprio il futurista Della Vedova a farla propria, scegliendo dunque di approvarla nella versione modificata. Che per inciso introduce il principio del rispetto dei diritti umani nei respingimenti.
Il presidente dell’Antimafia discute con Carra, Lusetti, Follini e il leader centrista che avverte: «Il premier la smetta di galleggiare, crisi alle Camere». Il senatore pd: «Serve un’intesa moderati-riformisti» mia intellettuale come Beppe Pisanu, insieme con Pier Ferdinando Casini e Marco Follini. Si ritrovano su un punto: non serve un governo tecnico, ce ne vuole uno che sappia davvero affrontare i problemi. Un esecutivo di responsabilità nazionale, secondo il leader dell’Udc e il presidente dell’Antimafia. Appello che suona come un allarme. Perché fuori da San Macuto, è evidente, la maggioranza attuale continua davvero a decomporsi: alla Camera un emendamento del radicale Mecacci fa andare sotto il governo sul “trattato di amicizia Italia-Libia”, quello sottoscritto da Berlusconi e Gheddafi, sconfitta deter-
La scena è abba-
stanza eloquente. Descrive il tramonto di una stagione. Meglio, l’inverno della Seconda Repubblica evocato da Carra e Lusetti. Del sostanziale naufragio del sistema politico degli ultimi tre lustri si parla a lungo a San Macuto, in una ricca mattinata di revisioni storiche e proposte per l’immediato. Ma è davvero solo il governo a non accorgersi del passaggio epocale. Bossi assicura di aver ricevuto un mandato da Berlusconi e Fini «per trattare tra di loro» e dice di vedere «uno spiraglio», anzi «uno spiraglietto». Ma sono esercizi compulsivi. Nel mondo reale c’è il presidente di Confindustria Emma Marcegaglia che tenta di riportare tutti alla gravità del momento: «La situazione che c’è ci preoccupa, il Paese va assolutamente governato». E aggiunge: «Non si può rimanere a lungo in una situazione di incertezza che penalizza tutti, a partire dalle imprese che devono andare avanti».
Servirebbe una presa d’atto responsabile sull’inconcludenza dello schema bipolare, è uno dei concetti ripetuti nel dibattito di “Visioni contemporanee”, associazione che Carra ha portato dal Pd a divenire soggetto fondatore del Partito della nazione. Su convegno domina la preoccupazione per un disastro che si avvicina piuttosto nell’indifferenza del governo. Di fronte a questo, Stefano Folli tiene un discorso prolusivo in cui esorta l’Udc a difendere il proprio ancoraggio moderato. Ma arriva anche l’approccio dubitativo di Paolo Franchi: «Va bene, Fini mette tutto in discussione, immagina un nuovo scenario con un nuovo governo allargato all’Udc. Ep-
Il Colle chiede un intervento contro il dissesto idrogeologico
Manovra, Tremonti cerca due miliardi
Mancano fondi per la legge di stabilità, ma il Quirinale spinge per un accordo di Francesco Pacifico
ROMA. Giulio Tremonti non sa se confidare nella moral suasion di Giorgio Napolitano o nel bon ton di Gianfranco Fini. La legge di stabilità, che fino a qualche settimana fa sembrava un passaggio quasi tecnico, diventa ogni giorno un ostacolo insormontabile. Tanto che il ministro sta giocando una difficile partita a scacchi con i finiani, che di fatto l’hanno messo in minoranza in commissione Bilancio.
Davanti ai ribelli della commissione guidata da Giorgetti, gli stessi che una settimana fa l’hanno costretto a congelare la manovra, ha provato a rilanciare. E ieri, con toni concilianti, ha spiegato che degli interventi da 7 miliardi per lo sviluppo promessi da Berlusconi, lui ha cassa soltanto per 5 miliardi. Un’altra giornata difficile per il superministro si annuncia quella di oggi: da un lato Berlusconi l’ha già convocato a Palazzo Grazioli per sbloccare i fondi per l’emergenza in Veneto, dall’altro governatori e sindaci che aspettano alleggerimenti ai tagli della manovra potrebbero ingoiare l’ennesima accelerazione sul federalismo fiscale. Senza contare che sono tutti convinti che il ministro dovrà cambiare atteggiamento. Basta vedere la de-
cisione di Giorgio Napolitano – lo stesso che preme su Fini per approvare la legge di stabilità ed evitare nuovi tranelli alla Camera – di schierarsi apertamente con Stefania Prestigiacomo nella sua battaglia per recuperare i quasi 2 miliardi necessari a risolvere il dissesto idrogeologico che affligge Nord e Sud del Paese. «È vero che c’è in atto un cambiamento climatico», ha dichiarato il presidente della Repubblica, «e che i fenomeni sono più violenti di una volta, ma il fatto che se piove un po’ di più crolli parte del grande patrimonio di Pompei o che il centro di Vicenza veda invase botteghe e negozi e si perdano vite umane, ci dice che dobbiamo preoccuparci per quella incuria umana, terribile, che porta al dissesto idrogeologico dei nostri territori». Intanto, e per apparire più credibile davanti ai membri di Pdl Lega Fli e Mpa della commissione Bilancio, il titolare di via XX settembre avrebbe elencato i 2,5 miliardi di euro che si potrebbero incassare dalla cessione del dividendo digitale, il miliardo e mezzo non ancora spero per la cassa integrazione e che dovrebbe essere riprogrammato verso questa stessa voce, e un altro miliardo da recuperare attraverso la
politica
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Beppe Pisanu e Pier Ferdinando Casini (qui accanto in una foto scattata quando il primo era ministro dell’Interno e il secondo Presidente della Camera) ieri si sono confrontati sulle prospettive politiche dei centristi. Sotto, il presidente Napolitano e Stefania Prestigiacomo che hanno attaccato il ministro Tremonti sulla finanziaria
lotta all’inflazione o la creazione di nuovi giochi. Nel carnet degli interventi ci sono i 2,5 miliardi di euro per gli ammortizatori sociali, il miliardo per l’università, altri 800 milioni per il salario di produttività e forse un altro miliardo per venire incontro agli enti locali, quelli più colpiti dalla Finanziaria di luglio e che possono far pesare in questa partita a scacchi il loro assenso al federalismo. A dirla tutta in maggioranza – i “lealisti”del Pdl o della Lega come i “ribelli“ di Fli e Mpa – nessuno crede alle coperture annunciate da Tremonti. E si spera che il ministro abbia lesinato le risorse per evitare che gli alleati gli presentassero un conto più salato, superiore ai 10 miliardi e composto anche da un aumento delle deduzioni alle famiglie o da una sforbiciata all’Irap. Al riguardo il finaniano Nino Lo Presti, e ben prima che Tremonti si materializzasse a Montecitorio, aveva già annunciato alle agenzie di stampa che gli avrebbe chiesto «di confermare anche per quest’anno, come è già avvenuto nell’esercizio precedente, la riduzione dal 99 al 79 per cento dell’anticipo Irpef da pagare entro il 30 novembre». L’esponente siciliano del partito di Fini ha spiegato che «di fronte a un quadro economico contrassegnato da una crescita debole, da una disoccupazione crescente e da una contrazione del risparmio, che espone molte famiglie al rischio dell’indebitamento, il rinvio temporaneo del pagamento del 20 per cento dell’acconto Irpef che è in realtà un anticipo che il contribuente fa allo Stato, potrebbe soddisfare le esigenze dei ceti produttivi».
In realtà il ministro e gli esponenti della maggioranza non avrebbero valutato ulteriori soluzioni. Anche perché Tremonti, dopo aver annunciato che deve trovare 2 miliardi per chiudere il cerchio, ha sottolineato
che le strade sono due: o si riduce la lista dei desiderata oppure si rimodulano i fondi. Questa mattina presenterà alla commissione presieduta da Giorgetti le sue proposte, ma più più che sui due miliardi che mancano all’appello, la maggioranza si interroga su un’ipotesi molto allettante che il ministro ha fatto presente ieri. Se la legge di stabilità e il decreto sviluppo passeranno senza intoppi, Tremonti è pronto a far passare il maxiemendamento in commissione, riconoscendo ai finiani e al Mpa un importante riconoscimento politico ed evitando a Pdl e Lega le forche caudine di un voto in aula che al momento è una scommessa. Infatti, l’inquilino di via XX settembre al momento può confidare soltanto sulle pressioni che sta facendo Giorgio Napolitano per far approvare la manovra. Il presidente della Repubblica è preoccupato come il ministro per le ripercussioni che ci potrebbero essere sulle già traballanti finanze italiane. A 24 ore dall’emissione portoghese che potrebbe sancire il matrimonio (finanziario) tra Europa e Cina, i bond di Roma hanno visto schizzare il loro rendimento fino a 170 punti rispetto ai Bund tedeschi, molto vicini alla soglia record dei 178 punti segnato ai primi di giugno, quando la crisi del debito greco era al suo punto di massima tensione. Intanto si registrano le pressioni delle aziende esportatrici, che chiedono più attenzione da parte del governo. Emblematica la vicenda della Goldoni, tra le più importanti realtà nazionali del settore delle macchine agricole: mentre si litiga sul totale degli incentivi, questa società ha annunciato un accordo con l’omologa turca Sahsuvaroglu per la commercializzazione a Instanbul delle sue macchine, che a regime registreranno un fatturato di 10 milioni annui. È questa parte la parte mancate della manovra.
mento strutturale del sistema». Dalla gestione dell’impoverimento demografico «che rende indispensabile l’apporto degli immigrati» al disastro idrogeologico, allan«incrinatura dell’unità nazionale». Pisanu non risparmia nessuna delle dolenti note, fino a citare la «pesante caduta culturale, morale, persino religiosa del nostro Paese». Cosa servirebbe per evitare «quella che gli americani chiamano la tempesta perfetta»? Che «tutti gli uomini di buona volontà, le forze migliori si mobilitino e si mettano insieme». Esito possibile con un «governo fondato su un’ampia maggioranza, in un ritrovato senso di responsabilità nazionale».
Si ricordi, completa il suo discorso Pisanu, che «alla responsabilità ha saputo fare riferimento anche il Partito comunista, capace di dare sempre priorità all’interesse generale del Paese». Oggi dovrebbe essere tutto meno complicato rispetto al contesto della Prima Repubblica. E Pisanu vede segnali incoraggianti, in fondo, sia nel patto di legislatura offerto da Berlusconi che nella richiesta di allargare la maggioranza all’Udc avanzata da Fini. Marco Follini fa emergere un elemento di preoccupazione in più: nella situazione attuale, dice, non basta preoccuparsi del tracollo a cui andiamo incontro, bisogna prendere atto di quello che già stiamo vivendo. Ragion per cui al primo posto bisogna mettere «l’economia», intervenendo subito anche per fronteggiare il rischio di una «secessione tra Nord e Sud del Paese mai stata così vicina». Possono passare in secondo piano sia la giustizia che la legge elettorale, «prima vanno risolte questioni drammatiche come la disoccupazione femminile: l’Italia è l’unico Paese in cui le donne sposate con figli non sono considerate professionalmente più affidabili».
Nuova scossa dalla Marcegaglia: «Il Paese va governato, non si può restare nell’incertezza». Bossi assicura: «Fini e il Cavaliere mi hanno chiesto di mediare tra loro, vedo uno spiraglietto» pure la sensazione è che la crisi della maggioranza non abbia quello che durante la Prima Repubblica si chiamava “sbocco politico”». È così? Certo, secondo Carra, «se a essere entrato in crisi è il sistema della Seconda Repubblica, un nuovo governo rischia di essere un’aspirina». E bisogna uscirne, conviene Pisanu. A partire da un raffronto illuminante: «Pensiamo a cosa furono i primi 17 anni della Repubblica in termini di ricostruzione civile ed economica e a cosa resta invece di questi ultimi 17, che a mio giudizio hanno segnato una costante perdita di vitalità economica, sociale, culturale e politica del Paese».
Critica senza appello, quella del presidente dell’Antimafia. Che aggiunge: «Altrove la crisi è stata affrontata in tutt’altro modo: negli Stati Uniti come in altre grandi democrazie ha offerto l’occasione introdurre una disciplina dei centri decisionali della finanza. Chi da noi l’ha suggerita, come il governatore Draghi, è stato aspramente criticato». Siamo ai limiti dell’incoscienza, perché «la crisi economica rischia di fare da acceleratore di alcuni processi e di provocare un cedi-
Follini, come Carra e Lusetti, non manca di appellarsi a «un nuovo rapporto tra moderati e riformatori», scomoda Schopenauer e l’esempio dei «porcospini che si avvicinano per riscaldarsi e si riallontano per non pungersi». Ma appunto Casini osserva che la risposta possibile agli allarmi sollevati non può che avere due risvolti: da una parte l’ammissione che in Italia emerge la domanda di una «nuova offerta politica» che non si riduca al bipolarismo. Come osserva anche Pisanu, «non è successo nient’altro se non la nascita di coalizioni disomogenee ed egemonizzate dagli estremisti». Nell’immediato, avverte il leader dell’Udc, non si può prescindere da «un governo di responsabilità, che si fondi sulla verità e anche sulla capacità di assumere scelte impopolari». Berlusconi è un «galleggiatore» che non può andare avanti così, anche perché «tra poco gli attribuiranno persino le colpe che non sono sue, dall’emergenza rifiuti al debito pubblico». È il risultato della «politica fatta di spot, che ora presenta il conto e tra poco lo farà anche alla Lega». E per uscire dalle sabbie mobili non c’è altra possibilità di una «crisi che venga portata in Parlamento, con le dimissioni del premier». Parole che precedono di poche ore l’ennesima caduta a cui, proprio in Parlamento, la maggioranza va incontro.
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panorama
ragioni&torti di Giancristiano Desiderio
Quando il giornalista è minacciato a notizia dei giornalisti minacciati e sotto scorta non è forse, e purtroppo, una gran notizia: sono i rischi del mestiere o, per dirla con Montanelli, del mestieraccio. Però, se il giornalista è un direttore di un settimanale di una cittadina relativamente tranquilla come Benevento ed è anche donna, allora, la notizia assume un diverso significato. Danila De Lucia dirige da qualche anno il settimanale Messaggio d’Oggi: un giornale storico della cittadina beneventana perché ormai è in edicola ininterrottamente da quasi mezzo secolo. A fondarlo fu Giuseppe De Lucia, nobile figura di socialista liberale e uomo di scuola la cui memoria andrebbe conservata e valorizzata visto che la sua “creatura” grazie alla dedizione di sua figlia Danila continua a vivere e a “fare notizia”. Eppure, Danila De Lucia avrebbe fatto volentieri a meno di raccontare sul suo giornale quanto sta vivendo con angoscia da ormai più di un anno: una grave forma di stalking che riguarda lei e quanto pubblica il suo giornale e improperi e allusioni che in alcuni casi giungono fino alla minaccia di morte. Perché?
L
La direttrice del settimanale non se lo sa spiegare. È incredula, perplessa ma anche angosciata. Le minacce, infatti, dallo scorso aprile si sono moltiplicate con telefonate sul cellulare - anche trenta al giorno in redazione e con la spedizione di lettere minatorie fatte con ritagli del giornale e con fotografie strappate in segno di disapprovazione e minaccia. Danila, che conosco da anni e della quale apprezzo il lavoro e la serietà, è preoccupata anche per i suoi familiari: è sposata e ha due figlie. «L’altra sera la più grande mi ha detto: mamma, posso prendere la tua macchina per andare al cinema? Gliel’ho data, ma poi mi sono subito precipitata a farle mille raccomandazioni perché quella orribile voce contraffatta che ogni giorno mi tormenta vedendo una donna alla guida della mia auto potrebbe scambiare mia figlia per me, capisci?». Capisco sì, però capisco anche che bisogna pur continuare a vivere. In fondo chi si nasconde e minaccia nell’ombra senza il coraggio di mostrarsi vuole proprio questo: far vivere nella paura la sua vittima e costringerla a cambiare strada, modo di vivere, di pensare e in questo caso specifico di scrivere e pubblicare. Su questo strano caso stanno indagando la polizia e i carabinieri e la Procura di Benevento. Tuttavia, il caso di Danila De Lucia non può essere preso sottogamba. A Benevento, infatti, non è la prima volta che un giornalista è minacciato per il suo lavoro. L’iniziativa del giornalista beneventano Billy Nuzzolillo, allora, è più che indovinata: il 20 novembre con «Giornalisti minacciati» ci sarà la presentazione del secondo rapporto annuale di «Ossigeno per l’informazione» ossia un osservatorio sui cronisti sotto scorta e sulle notizie oscurate con la violenza promosso della federazione nazionale della stampa e dall’ordine dei giornalisti (che almeno così servono a qualcosa).
L’Università italiana sparisce dalle classifiche Nessuno dei nostri atenei tra i migliori 200 del mondo di Alessandro D’Amato
ROMA. Al primo posto c’è Harvard, al secondo il California Institute of Technology e al terzo il prestigiosissimo MIT. Subito dopo Stanford e Princeton, e il dominio statunitense è tale da infilare cinque suoi istituti ai primi cinque posti della classifica mondiale delle università pubblicata dal The World University Ranking per l’anno 2010-2011. Devono essere proprio cambiati i tempi, visto che Cambridge e Oxford finiscono appaiate al sesto posto, mentre dall’ottavo al decimo altre due statunitensi (Yale e Berkeley) si frappongono all’Imperial College di Londra. Il primo istituto che non appartiene al duo Usa-Uk è lo Swiss Federal Institute of technology, soltanto quindicesimo, mentre Toronto è diciassettesima. La prima asiatica è Hong Kong, ventunesima, l’Università di Melbourne difende l’onore dell’Oceania con un trentaseiesimo posto di tutto rispetto; il politecnico vanto dei francesi è sotto di tre posti rispetto al paese dei canguri, la prima tedesca è Gottingen, quarantatreesima. L’Università di scienze e tecnologia cinese entra per un soffio nei primi cinquanta, e poi giù giù arrivano tutte le altre: le ultime due sono un’università canadese e una svedese.
Bilkent University in Turchia, Cape Town in Sudafrica e Auckland in Nuova Zelanda. Noi no.
Eppure nella classifica presentata appena due mesi fa dal World University Ranking QS – che nel frattempo si è diviso dal Times Higher Education, il quale ha presentato la classifica di ieri – il Belpaese almeno c’era, anche se nelle retrovie: due atenei italiani erano classificate tra le prime duecento del ranking mondiale, una in più dello scorso anno. Così mentre l’università di Bologna 176esima perdeva due posizioni rispetto al 2009, La Sapienza ne acquistava ben 15, passando da quota 205 del 2009 a 190 del 2010, e seguivano l’università di Padova (261) e il Politecnico di Milano (295). L’Italia, come al solito, era molto ben rappresentata nelle retrovie: nella parte finale della classifica che andava dalla 300esima posizione alla 500esima troviamo l’università di Firenze, le università di Pisa, e di Pavia, a pari merito a quota 401 gli atenei di Trento, Trieste, Roma TorVergata e Napoli; Università di Torino, di Siena, Politecnico di Torino e Statale di Milano tutte a quota 450 su 500. Anche qui, l’Italia è costretta ad annaspare negli ultimi posti mentre il resto del mondo – soprattutto l’Asia e l’Oceania – continua a crescere.
«The World University Ranking» per il 2010-2011 vede in vetta cinque istituti americani. Poi arrivano Oxford e Cambridge
E non è possibile non notare che, per quanto si scorra la classifica speranzosi fino all’ultimo posto, attualmente nessuna Università italiana rientri nei primi duecento posti. Débacle completa. Nel ranking ci sono scuole di ultima formazione di tredici paesi europei, le nostre mai. Ci sono irlandesi come il Trinity College, finlandesi come Helsinki, olandesi come la Tecnologica di Eindhoven (la piccola Olanda ha dieci istituti menzionati) e poi l’Università cattolica di Leuven in Belgio, la Technical University in Danimarca, la spagnola Barcellona. Nella classifica, al centotrentacinquesimo posto, c’è addirittura l’Università di Bergen (Norvegia), 250 mila abitanti. E due atenei austriaci: Innsbruck e Vienna. Ma nulla del nostro paese. I 78 atenei italiani (privati compresi) sono tutti abbondantemente sotto la sufficienza (l’ultima quotata nel The ranking, la «Sweden agricultural science», ha preso infatti una valutazione di 46,2 su 100). In classifica ci sono istituti di Taiwan, Singapore e Corea del Sud. Per sette volte si cita il Canada e nella Top 200 sono entrate l’Università egiziana di Alessandria, la
Spiegava Lavoce.info che la classifica è determinata da un punteggio ottenuto pesando opportunamente sei indicatori: la reputazione internazionale (peer review), le valutazioni dei datori di lavoro, la presenza di studenti e docenti stranieri, le pubblicazioni dei docenti e il rapporto studenti/docenti. L’indicatore che pesa di più (40 per cento) è quello della reputazione internazionale, giudicata da esperti indipendenti. Ed ecco allora che sempre Alessandro Figà Talamanca sul sito di Boeri ci spiega perché gli atenei italiani sono così indietro: l’Italia, a differenza di altri paesi, ha scelto di avere un unico sistema di istruzione superiore che non distingue tra università di prima, seconda e terza classe. Questo porta ad avere un livello qualitativo generale magari discreto, ma anche a far scomparire le eccellenze (che, a dispetto di quanto si crede, ci sono anche da noi). Ma il sistema, così com’è concepito, è fatto apposta per cancellarle. Avvolgendo gli atenei in un’aura di mediocrità.
panorama
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Difesa. Imposizione e persuasione: nuove armi delle missioni militari internazionali laudio Graziano è generale di corpo d’Armata ed è una di quelle figure che hanno rappresentato il meglio dell’Italia all’estero. È stato force commander di Unifil 2, nel Libano del sud. E tutti rimpiangono il suo stile di gestione attento ed equilibrato, dagli israeliani ad Hezbollah. In Afghanistan, si è guadagnato il riconoscimento di tutti i capi di Stato e di governo della coalizione della missione Isaf. Da febbraio di quest’anno è capo di gabinetto del ministro della Difesa. Potremmo definirlo, in rappresentanza di tanti altri bravissimi ufficiali, il punto di svolta di una rivoluzione che da anni coinvolge le nostre forze armate e che ne ha fatto un serbatoio per la classe dirigente del Paese. Lunedì, Graziano ha ricevuto l’ennesimo riconoscimento per la sua attività in Libano dall’Istituto di studi politici dell’Università san Pio V di Roma, alla presenza tra gli altri, del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta e del magnifico rettore, Giuseppe Acocella. Liberal ha chiesto al generale quali siano i punti essenziali dello stile italiano nella gestione delle aree di crisi.
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«Il modello italiano è derivato dal sistema Paese che nel caso del Libano ha risposto benissimo ed è stato una guida per l’Europa. Sia da un punto di vista militare che da quello civile, umanitario e diplomatico. Un ruolo trainante che si è espresso poi nella capacità di integrare l’azione militare e quella diplomatica, tanto da farle sfumare l’una nell’altra. Il militare deve essere fermo nell’applicazione del mandato, ma comprendere come questo debba essere fatto sempre nell’interesse della popolazione che si protegge». Graziano descrive la “rivoluzione”culturale che ha investito le forze armate e la diplomazia italiane grazie alle missioni internazionali. «Direi piuttosto che si tratta di un’e-
«Vi spiego il modello Italia in missione» Parla il generale Claudio Graziano, ex force commander di Unifil 2 in Libano di Pierre Chiartano
Soldati italiani di stanza in Libano nell’ambito del contingente Unifil, che garantisce il cessate il fuoco sulla Blue Line. In basso il generale Claudio Graziano, già comandante di Unifil 2 Mozambiaco c’è molta più professionalità, efficienza e integrazione. Certamente il buon funzionamento di quel tipo di missioni dipende molto dal supporto internazionale. Non dobbiamo mai dimenticare chi ha dei problemi e aiutarli». Certo che a pensare alle forze armate italiane di vent’anni fa e vederle oggi all’opera, la parola che meglio
Il capo gabinetto del ministro della Difesa: «Nelle missioni all’estero ti accorgi che esiste un sistema Paese che supporta l’azione dei militari» voluzione culturale. Le Nazioni Unite sono l’organizzazione universale da cui traggono legittimità tutte le altre organizzazioni. Anche la Nato agisce in Afghanistan in nome e per conto dell’Onu». Le missioni dei baschi blu si sono però evolute nel tempo. «Quando sono stato in Mozambico non c’erano le attuali capacità di gestione, allora (metà anni Novanta, ndr) eravamo più rudimentali. Oggi in
descrive il cambiamento è proprio rivoluzione, anche se il generale da «buon alpino», come ricordato anche da Letta, non ama i complimenti e neanche le personalizzazioni. Si considera un semplice servitore dello Stato, esprimendo valori e un modo di
agire che emergono con forza nell’attuale decadimento dei comportamenti pubblici. «L’esercito di leva ha fatto il suo dovere. Ha difeso il Paese, ha costruito il Risorgimento e l’unità nazionale. Certo con il professionismo e con l’affacciarsi delle nuove missioni c’è stato un grande progresso culturale. Merito dei nostri soldati e di un’evoluzione necessaria che però l’Italia ha gestito molto bene». Graziano ha avuto esperienze su teatri molto differenti, come l’area di confine tra Libano e Israele, l’Asia centrale e l’Africa. «Sono missioni diverse. L’Afghanistan riguardava l’imposizione della pa-
ce, mentre il Libano il mantenimento della stabilità. Però la differenza è data dalla diversa situazioni in cui si sviluppa. In Libano sono state le parti in causa a chiedere all’Onu la presenza dei baschi blu. In Afghanistan non è stato così, ma in fondo l’obiettivo è lo stesso: costruire una situazione di stabilità in cui quelle popolazioni si possano muovere con le proprie gambe.Naturalmente il Libano di trent’anni fa era molto diverso da com’è ora». La new age nell’esercito è la sempre maggiore integrazione tra strumenti civili e militari, tanto che il Pentagono ne ha fatto un modello dove nelle gerarchie di comando – ad esempio in Africom – puoi trovare un vicecomandante con le stellette e uno proveniente dal dipartimento di Stato. A dimostrazione di come oggi le crisi si vincano
solo in parte con la dissuasione delle armi e molto con la persuasione dei comportamenti e delle idee. Adrian Cronauer, famoso comunicatore militare, reso noto dal film Goooood Morning Vietnam, aveva recentemente dichiarato a liberal, quanto la comunicazione fosse «un’arma operativa come le altre». Infatti, oggi, per la conquista dei cuori e delle menti non basta solo la sicurezza.
«La comunicazione è uno dei più importanti strumenti operativi – conferma infatti Graziano – quando ero capo missione in Libano alle mie dipendenze c’era un responsabile per la politica e gli affari civili che controllava le iniziative media. Queste erano il frutto di una integrazione tra militari e civili. Il capo ei media era un civile, come lo era anche il mio portavoce. La comunicazione è un moltiplicatore di potenza e allo stesso tempo può condizionare la missione. Viviamo nell’era dei media e in posti come il Libano e Israele – dove obiettivamente non esiste un’emergenza umanitaria – sono in grado di condizionare l’opinione pubblica. Sono dunque in grado di agire a favore delle popolazioni, ma anche di condizionarle. Sbagliare con i media significa far fallire una missione». Serve spiegare in continuazione i motivi dell’intervento e «confermare come sia fatto nell’interesse della popolazione. Se si fanno promesse si devono mantenere». Altrimenti si aprono le speculazioni di una parte o dell’altra. Basta «chiamare crociato un peacekeeper, invece che protettore della popolazione» che il disastro è assicurato. «In queste situazioni il livello di professionalità richiesto è molto alto e serve una buona integrazione tra professionisti militari e professionisti della comunicazione» spiega il generale. Occorre muoversi nella complessità di media che non sempre rispondono a interessi finalizzati alla stabilità di una regione. Le forze armate dunque, negli anni, hanno selezionato i propri manager della sicurezza tanto da poter diventare un vero bacino di risorse umane qualificate, cui l’Italia può attingere per alimentare la qualità della propria classe dirigente. «Sì, ma è vero anche per altri comparti. Ho molto apprezzato i diplomatici che non conoscevo prima di diventare addetto militare a Washington. Il livello generale della dirigenza sta migliorando e all’estero senti il supporto di un buon sistema Paese. Sono felice che la dirigenza militare si sia messa a livello delle altre».
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odici anni, 50 volumi prodotti, firme autorevoli: con il titolo «L’Identità italiana», il Mulino ha pubblicato una collana innovativa e prestigiosa, diretta da Ernesto Galli della Loggia. La storia del paese è stata ricostruita attraverso gli uomini, le donne, i luoghi, i progetti, le idee. Adesso sta per uscire l’ultimo volume: Garibaldi di Andrea Possieri che chiude questa lunga ricerca. E la casa editrice ha deciso di riproporne tre: Cavour di Luciano Cafagna,La donazione di Costantino di Giovanni Maria Vian, e il primo, quello che dette vita nel 1998 alla collana: L’identità italiana di Ernesto Galli della Loggia, con una postfazione dell’autore che è stata significativamente intitolata, «L’identità di un italiano»: venticinque pagine autobiografiche dove Galli parla delle inquietudini, delle idee, delle sconfitte di una generazione, la sua, quella dei «figli della Repubblica».
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Passano sotto i nostri occhi i momenti di formazione più importanti, decisivi nella costruzione dell’identità di quei giovani: dalla scuola, al cinema. Quest’ultimo fondamentale nel raccontare la Resistenza, nel «far sentire la democrazia e la Repubblica come cose che ci appartenevano, come cose anche nostre». In realtà «in un paese che non ha prodotto alcuna alcuna vera letteratura nazional popolare, il cinema ne ha rappresentato una sorta di surrogato. Ha raccontato non solo la storia della penisola, ma anche i tipi umani e sociali, le città, i luoghi della scena italiana». E poi c’è stata la tv, quella almeno sino alla fine degli anni Settanta. Ma «una patria è innanzitutto un paesaggio: una città, una cerchia di colline, una marina, di cui ci sentiamo parte perché li conosciamo, ne sappiamo la storia». Essere italiano insomma «è un rapporto anche con la scena fisica del paese». Così sono cresciuti si sono formati «i figli della Repubblica» che poi attraverseranno gli anni Sessanta e Settanta stando a “sinistra”: spinti dalla loro inquietudine, dal bisogno di cose nuove, di una modernizzazione che la stessa storia d’Italia rendeva indispensabile. A sinistra però «del tema del vincolo nazionale e della solidarietà che comporta avere una medesima patria» si preferiva non parlarne. Lo fece - osserva Galli della Loggia - «solo un certo Bettino Craxi: con quali effetti è sotto gli occhi di tutti».
«In un Paese che non ha prodotto alcuna vera letteratura nazional popolare, il cinema ne ha rappresentato una sorta di surrogato», dice il padre della collana E quando quella generazione, dopo aver attraversato il ’68 e gli anni Settanta, ha cessato di essere marxista, comunista e rivoluzionaria, non ha potuto neanche acconciarsi ad essere conservatrice. Scrive l’autore: «Per essere tale, infatti, c’è bisogno di credere nella solidarietà, nella solidità e nella positività di quanto si ha intorno o perlomeno dietro le spalle. Ma come potevamo noi credere ad una cosa del genere? Ed è forse poi cessata quella difficoltà? Abbiamo dunque dovuto accontentarci di essere semplicemente dei democratici: soltanto dei democratici, più o meno convinti». Galli della Loggia si sofferma sulle ragioni che l’hanno portato ad occuparsi di storia, a studiare la storia. Il passo è particolarmente felice e
il paginone
La casa editrice bolognese è stata la prima a dar vita, nel 1998, a un pro
merita di essere riportato integralmente: «No, non c’era e non c’è contraddizione fra la voglia di cose nuove e l’interesse del passato. Se la modernità vuole essere tale davvero, se vuole essere la rottura verso il futuro, essa lo può fare solo legittimandosi con la creazione di un nuovo albero genealogico del presente. È obbligata a rifare il passato. E a questo precisamente serve la storia, specialmente la storia politica (ma certo non solo lei): a riscrivere ogni volta ciò che è accaduto dal punto di vista di ciò che sta accadendo».
Ed è probabilmente proprio questa la ragione che spinse Ernesto Galli della Loggia a scrivere L’identità italiana mentre il dibattito politico rimetteva in discussione nientemeno che l’Unità del paese. Non a caso il libro iniziava definendo come fondamentale per il paese il confine segnato dall’Appennino: la divisione fra Est e Ovest, fra il polo del Veneto con Venezia e quello di Genova e della Liguria: «Proprio il ruolo centrale svolto da Veneto e Liguria in questa peninsularietà mediterranea rende quantomai superficiale l’ipotesi, che oggi soprattutto si va diffondendo, di una distinta vocazione geografica nel Nord e del Sud del paese, di un loro supposto e contrapposto destino storico». Il libro che, riletto oggi, appare ancora più attuale di quando venne scritto, si sofferma poi sull’eredità latina e il retaggio cattolico, sull’assenza dello Stato, sulla contraddizione fra modernità e qualità della modernizzazione, sulle mille Italia. Da queste idee nasce l’intera collana del Mulino che s’impegna a riscrivere la storia del paese nella chiave dell’identità italiana: «Una molteplicità fortissima tenuta insieme da un’origine comune altrettanto tenace, ma in qualche modo occultata dalla sua antichità». E così i cinquanta volumi hanno scavato in molte direzioni. A partire dai “padri fondatori”: Mazzini (di Giovanni Belardelli),
E l’Italia si guardò allo specchio Dopo cinquanta titoli, chiude la collana curata da Ernesto Galli della Loggia per Il Mulino e dedicata all’Identità italiana. Da Cavour alla pasta, dalla Dc a Pulcinella: uno spazio per ritrovarsi uniti di Gabriella Mecucci
il paginon
ogetto che rimettesse al centro del dibattito il tema dell’unità nazionale
Garibaldi (in uscita) e quello particolarmente bello su Cavour di Luciano Cafagna. Questi è da una parte l’uomo politico più europeo e dall’altra l’inventore di regole che sono le fondamenta su cui da allora si è giocato il “gioco italiano”. Appellandosi a Napoleone terzo ha anticipato l’importanza che il “fattore allogeno” avrebbe giocato
combinazione di metalli vili». Cavour, a differenza dei molti dei suoi imitatori, riusciva in questa impresa. E nelle sue mani la politica, seppur spericolata, diventava una grande arte. In altri invece è stata una pratica mediocre. Per non parlare dei giorni nostri.
L’identità nazionale prende poi in esame – com già anticipava il saggio di Galli della Loggia - il rapporto fra paese, cattolicesimo e chiesa. C’è il libro di Gian Maria Vian (La donazione di Costantino) che affronta i temi del rapporto fra chiesa e stato, fra potere
Questa iniziativa ha costretto chi si è cimentato a confrontare il tema o il personaggio o il luogo oggetto della propria ricerca con la formazione dell’identità
nella vicenda nazionale: la Triplice per Crispi, la Germania per Mussolini, l’Urss per Togliatti, l’Europa e l’America per De Gasperi. Creando il primo “destra-sinistra” ha aperto una lunga sequenza di trasformismi e di “convergenze parallele”, da De Pretis a Giolitti, da Mussolini a Moro. E con il successo delle sue manipolazioni politiche ha indotto nei suoi successori la convinzione che la politica italiana è in buona parte “alchimia”, vale a dire quella tecnica che tenta di estrarre – scrive Cafagna – «l’oro da una
temporale e potere spirituale, fra papato e Italia. Ci sono volumi come Loreto (Lucetta Scaraffia) e I santi patroni di Marino Niola che ricostruiscono l’importanza del cattolicesimo e dellaVergine Maria nella vita e nella cultura nazionale, l’uno, e la natura della nostra religiosità popolare, l’altro. Da mettere in questo ambito anche il saggio di Anna Foa su Giordano Bruno: l’immagine che l’Italia risorgimentale costruì del filosofo come martire dell’oscurantismo religioso, è stato un tassello significativo infatti dell’identità nazionale. E poi ci sono i volumi sui luoghi: Le Alpi, Capri, il mare. Quelli su alcune personalità chiave della cultura italia-
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na: Gabriele D’Annunzio,Giovanni Gentile, Maria Montessori, Giuseppe Verdi, Indro Montanelli, Gioberti. La curiosità non ha avuto limiti e ha scavato territori poco arati come il fotoromanzo, il tourin club, la Rinascente, la pasta e la pizza, il liceo classico, Coppi e Bartali: tutte tappe a loro modo costitutive del modo di essere e di vivere del nostro paese. Nicola Fano ha scritto Le maschere italiane. A partire dal Cinquecento quando nacquero le prime compagnie, questi pionieri diventarono maestri nell’arte dell’arrangiarsi, capirono che dovevano rispecchiare i gusti popolari. Mentre il teatro elisabettiano si giovava di una lingua comune e di grandi testi, da noi si affermarono la mimica, le smorfie, le battute, le corna che diventarono elementi capaci di plasmare un carattere comune degli italiani.
Dalle maschere si passa alla grande politica e non si può non citare il brillante saggio di Marco Follini sulla Dc che attribuisce la fine della “balena bianca” alla divaricazione fra il cattolicesimo sociale della sua leadership e la propensione moderata del suo elettorato; i vertici a sinistra, la base a destra. Mussolini, è il titolo del volume di Alessandro Campi che vede il duce come la personalità che più ha inciso nell’identità pubblica e privata degli italiani. Tanti altri sarebbero i saggi da citare e che colpevolmente tralasciamo. Non si può tacere però di La mamma (Marina D’Amelia). Perché prende in esame una delle categorie che – a torto o a ragione – è stata considerata fondante del carattere degli italiani: il mammismo. Quel sentimento di amore fanatico che – secondo D’Amelia – si forma nel dopoguerra e che caratterizza il rapporto con i figli. L’autrice è ben attenta a non ridurre però tutto a questo e analizza le diverse modalità che, in diverse epoche storiche, hanno segnato l’amore fra la mamma e il bambino: dal Risorgimento, passando per il fascismo sino, appunto, al periodo del dopoguerra. La lunga galoppata nella storia d’Italia della collana del Mulino termina qui col volume su Garibaldi e con il saggio di Galli della Loggia da cui siamo partiti. Il lavoro di 12 anni ha avuto nella storiografia italiana un forte impatto innovativo: costringendo tutti coloro che si sono cimentati a confrontare il tema o il personaggio o il luogo oggetto della loro ricerca con la formazione dell’identità nazionale. Nessuno mai, nell’epoca repubblicana, si era impegnato con tanta continuità e intelligenza nel tentativo di comprendere che cosa è davvero questo paese e chi sono gli uomini e le donne che lo abitano, aldilà delle tante immagini di maniera che ne sono state date. Ne risulta una ricostruzione né semplice né lineare: si cammina fra mille diversità e contraddizioni. È una narrazione dell’Italia fatta senza retorica, senza indulgenze, ma anche senza l’ormai insopportabile compiacimento antitaliano. Galli della Loggia al termine della postfazione alla riedizione dell’Identità italiana esprime un auspicio: «Penso l’Italia convinto che la nostra storia richieda la modernità come compimento ineluttabile a cui è impossibile sottrarsi se si vuole essere fedeli alle premesse stesse da cui è sorto lo Stato nazionale,se si vuol restare legati a quella parte del mondo che da sempre è il nostro. Ma dall’altro lato non mi abbandona l’idea che la medesima storia che ci obbliga alla modernità richieda di essere salvata dagli effetti distruttivi della stessa». Il Veneto sommerso dalle acque perché prima sommerso dal cemento e il dramma di Pompei sono le odierne testimonianze della giustezza di questo auspicio.
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Strategie. La Cina spera in un asse d’acciaio con Mosca e Delhi in seno all’organismo per contrastare la presenza occidentale. E ribaltare gli equilibri del giudice planetario
Ora l’Asia punta l’Onu Pechino benedice le ambizioni indiane per un seggio al Consiglio di Sicurezza e immagina un nuovo mondo di Vincenzo Faccioli Pintozzi a Cina “comprende”il desiderio dell’India di entrare con un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e “sostiene da tempo” un’appropriata e necessaria riforma dello stesso. Hong Lei, portavoce del ministero cinese degli Esteri, non lascia spazio a dubbi: Pechino è d’accordo con le ambizioni indiane a gestire il diritto di veto in seno all’unico consesso internazionale che abbia qualche ragione d’esistere. E il fatto in sé basterebbe per trovarsi davanti a una notizia: nonostante i coraggiosi acronimi di qualche analista dell’ultima ora, infatti, i due Paesi non si amano; non hanno rapporti diplomatici particolarmente premurosi e non intendono spartirsi un futuro comune nel pianeta. Per dirla tutta, sono formalmente ancora in guerra per una questione di confini mai del tutto chiarita, neanche dallo stesso Palazzo di Vetro. Al momento, il Consiglio di Sicurezza ha cinque membri permanenti con diritto di veto – Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna e Francia – mentre gli altri dieci posti vengono occupati a rotazione dagli altri membri delle Nazioni Unite. L’idea di una riforma del consesso va avanti
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L’editoriale dell’Hindustan Times che condanna il “periodo di prova” proposto da Washington
«È il Palazzo che ha bisogno dell’India. Non il contrario» di Sanjiv Raghesh hi ha bisogno di chi? L’India ha bisogno del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per dimostrare il proprio ruolo o è l’Onu che ha bisogno dell’India dopo quello che l’America ha fatto all’Iraq sotto la guida di George Bush (il bluff delle armi di distruzioni di massa)? È interessante notare come il presidente Obama abbia accennato all’India come “bisognosa di dimostrare il suo status” prima di diventare un membro permanente del Consiglio. Nello specifico ha detto (a un pubblico già ipnotizzato dalle sue parole): «Vorrei dire che all’aumentare del potere aumentano anche le responsabilità. L’Onu esiste per realizzare i propri ideali fondanti di preservare la pace e la sicurezza e sostenere i diritti umani». In altre parole il seggio permanente è fuori
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discussione: intanto iniziate a dimostrare quanto siete adatti all’incarico. Prima che nessuno potesse indovinare dove andava a parare, Obama si è lanciato sugli avvertimenti: la politica nucleare dell’Iran e il soffocamento della democrazia in Myanmar. In entrambi i contesti - sembra suggerire Obama - l’India è stata negligente.
Obama è stato insolitamente brusco: «Quando si soffocano pacifici movimenti democratici, allora le democrazie mondiali non possono restare in silenzio. Perché è inaccettabile puntare il fuoco su manifestanti pacifici e carcerare prigionieri politici per decenni. È responsabilità della comunità internazionale – in special modo di paesi come gli Stati Uniti e l’India – condannare queste azioni. Ad essere sinceri nelle corti internazionali l’India ha sempre evitato queste questioni». Tuttavia, l’India ha bisogno di dimostrare le sue capacità di guida mondiale? Come può il Presidente Obama difendere le azioni di George Bush, l’uomo che ha mentito al mondo sulla presenza di armi di distruzione di massa e ha invaso un Paese indipendente andando contro qualsiasi norma di decenza e di comportamento civile? Saddam Hussein non era una brava persona. È stato cattivo quanto il leader del Myanmar, il presidente del Pakistan Musharaff, il regime comunista cinese che ha sterminato i movimenti democratici di piazza Tiananmen e i monaci tibetani per la loro aspirazione indipendentista. Questo significa allora che le Nazioni Unite devono attaccare tutti questi Paesi e mettere in atto un regime marionetta che segua quello che si chiama “ordine mondiale”? L’India ha veramente bisogno di una lezione di politica internazionale e “comportamento responsabile” dopo quanto il Pakistan, con il sostegno dell’America, ha fatto a uomini e donne del Bangladesh nel 1971? Fu l’India che trasse in salvo gli uomini e le donne bengalesi dallo sterminio del Pakistan nonostante le spietate minacce dell’allora presidente americano Nixon. Se la Cina può diventare un membro del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite senza alcun periodo di prova, lo stesso vale per l’India. La questione è che l’Onu ha bisogno dell’India più di quanto l’India ha bisogno dell’Onu.
da anni, diciotto per l’esattezza, e non ha mai portato a grandi sviluppi: si parla di un ingresso del Giappone da almeno un decennio, mentre per l’Europa è in corsa la Germania sempre più protagonista sul palcoscenico internazionale. Le ambizioni di Delhi sono state fomentate dalla visita di Barack Obama nel Paese, che si è conclusa due giorni, fa, nel corso della quale ha dichiarato: «Nei prossimi anni auspico una riforma del Consiglio di sicurezza dell’Onu che comprenda l’India come membro permanente. L’inquilino della Casa Bianca ha poi definito l’India un interlocutore “indispensabile”degli Usa «in una delle partnership che segneranno il XXI secolo». Ma il presidente ha anche avvertito il gigante asiatico: «Ora che è diventato una potenza mondiale, deve assumersi le sue responsabilità evitando per esempio di chiudere gli occhi sulle violazioni dei diritti umani nella vicina Birmania».
L’endorsement del leader statunitense ha cambiato di parecchio, e verso l’alto, le ambizioni indiane; ma è la “comprensione” cinese che cambia le carte sul tavolo. Nei fatti, il regime comunista di Pechino ha compiuto questa giravolta – rispetto ai tempi in cui dichiarava che “mai Delhi si sarebbe seduta”al loro stesso tavolo – perché ha un piano più importante e più grande da portare avanti: ritiene superata l’epoca dell’Occidente, e preferisce seduto accanto a sé un indiano che un tedesco. Su questo non esistono dubbi possibili. Il vero timore è
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La Casa Bianca: «Non sarà un discorso epocale». Ma Jakarta freme
E Obama in moschea ci riprova col dialogo Dopo il discorso del Cairo, il presidente si appella all’islam dal più grande luogo di preghiera dell’Asia sud-orientale di Osvaldo Baldacci arack torna sui luoghi della sua infanzia. Hussein visita una delle più grandi moschee del mondo. Obama incontra un alleato chiave sullo scenario asiatico. L’attesa visita del presidente Usa in Indonesia non nasce sotto i migliori auspici. Non solo per la recente sconfitta di midterm, ma anche per avversi eventi naturali. Le scosse di terremoto che scuotono l’arcipelago sono forse abituali, ma l’eruzione del vulcano Merapi e le ceneri che oscurano i cieli dell’Indonesia potrebbero avere effetti nefasti persino sull’Air Force One. L’eventuale accorciamento della visita potrebbe incidere su uno degli eventi più attesi, la visita di Obama alla moschea Istiqlal, la più grande del sud-est asiatico, seguita dall’incontro con gli studenti dell’Università dell’Indonesia, dove il Presidente terrà un discorso volto a ribadire il suo impegno per costruire un ponte tra il mondo musulmano e l’Occidente. Non è un caso la scelta dell’Indonesia. L’arcipelago infatti è il Paese che ospita la maggior popolazione di musulmani in tutto il mondo. Ed è il luogo dell’infanzia di Obama, che vi ha frequentato le scuole elementari dal 1967 al 1971. Lui che, nato da padre kenyano, conserva un secondo nome islamico. Per questo vuole ricostruire i ponti tra mondo islamico e occidente, dopo gli anni di al Qaeda, terrorismo e guerre. La pacificazione era una delle sue grandi promesse, e sperava di raggiungere un picco della sua presidenza con il discorso del Cairo l’anno scorso. Missione fallita. Ora prova il rilancio in Indonesia, ma parte tra molte difficoltà.
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uno solo, anche se nessuno lo dice apertamente: dicendosi favorevole ad un seggio permanente per l’India al Consiglio di Sicurezza Onu, il presidente Usa Barack Obama ha di fatto bloccato qualsiasi riforma in seno alle Nazioni Unite.
La forte opposizione di Giappone e Germania, e le probabili proteste a venire del Brasile, renderanno impossibile almeno in questa turnazione – che si conclude fra due anni – aprire la questione. Se però si dovesse superare l’impasse, sarà merito esclusivo del governo cinese che userà tutto il proprio potere economico per spianare la
grande lanciato sull’Africa e sull’America Latina. Foraggiando governi dubbi e sostenendo economicamente nazioni che non saranno mai in grado di saldare i debiti, Pechino ha accumulato voti su voti. Che non si fa scrupoli a usare, rendendo di fatto la Plenaria Onu una semplice passerella per capi di Stato e di governo. Per arrivare a un altro voto in Consiglio di Sicurezza, Pechino ha scelto Delhi: la speranza è che Mosca si voglia unire al patto, pareggiando la presenza occidentale. Il declino della parte ovest della cartina, d’altra parte, si è vista anche con il colpo di mano con cui il governo gui-
Con la “diplomazia dello yuan” l’Impero di Mezzo si è garantito un enorme numero di voti all’interno dell’Assemblea generale. Ora necessita di un socio forte anche nel “club” del Consiglio strada all’India. Ottenendo in questo modo un voto in più nel club più ristretto del mondo, e lavorando nel contempo per la piena affermazione di quel “secolo asiatico”da molti pronosticato, e di cui oggi si vedono i primi bagliori all’orizzonte. Dopo due decenni di esclusione forzata e altri quattro di sostanziale inedia, la Cina ha compreso di non poter fare a meno, ignorare o denigrare le Nazioni Unite; a questo punto, ha deciso di comprarsela. Purtroppo, per il sistema fondante del Palazzo di Vetro, a ogni testa (per quanto grande sia) corrisponde un voto; ed ecco che inizia la “diplomazia dello yuan”, una sorta di piano Marshall in
dato dal presidente Hu Jintao ha imposto al Fondo monetario internazionale di applicare la riforma di cui parlavano da decenni senza mai applicarla.
Ora sono due i vice presidenti cinesi, e gli “uomini forti” che provengono dall’Asia sono aumentati del 30 per cento all’interno dell’oligarchia che vigila sulle valute mondiali. L’Asia, insomma, ha deciso di puntare sull’Onu; non in senso lato, non affidando al consesso internazionale il proprio destino. Ma in senso letterale: il mirino di Pechino è puntato sull’Onu, che è pronto per divenire la prossima preda del dragone nello scacchiere mondiale.
La popolarità di Obama in Indonesia non è così alta come si potrebbe pensare guardando ai suoi trascorsi familiari: una statua del giovane Obama è stata addirittura spostata da un parco pubblico per essere relegata in un luogo di minore visibilità. E a far notizia inizialmente sono state soprattutto le affollate e rumorose proteste dei gruppi islamici più radicali, che hanno chiuso ogni dialogo definendo Obama “crudele e uguale a Bush”. L’Hizbut Tahrir Indonesia, un movimento che chiede il ripristino del Califfato islamico, accusa Obama di non aver apportato veri cambiamenti alla politica estera americana. Secondo il movimento, «accogliere Obama è peccato». È vero però che i gruppi islamici moderati, che contano decine di milioni di aderenti, accolgono invece Obama con piacere; ma è difficile che un discorso per quanto ben orchestrato possa avere un impatto decisivo sulla confusa situazione dell’estremismo islamico internazionale, o anche di converso sulle diffidenze crescenti in certi ambienti americani e europei nei confronti dell’islam. Tanto più che pur essendo il Paese islamico più popoloso, con ospitando realtà estremiste molto attive, l’Indonesia resta in qualche modo un Paese non centrale nel panorama del mondo islamico e del suo immaginario. Un Paese periferico ideologicamente e culturalmente, da cui difficilmente Obama potrà lanciare messaggi presi sul serio in Medio Oriente, in Africa o in
Asia centrale. Barack Obama ieri ha comunque rivendicato il suo “sforzo onesto, continuo” nell’apertura di una nuova pagina del dialogo con l’islam, ma ammette che «non abbiamo ancora eliminato tutte le incomprensioni» che si sono accumulate negli anni.
In conferenza stampa a Jakarta, il presidente americano ha parlato della sua apertura al mondo islamico come di «un progetto ancora da completare. Siamo comunque sulla strada giusta. Quello che stiamo cercando di fare è costruire ponti e ampliare la nostra interazione con i Paesi musulmani in modo che non sia unicamente incentrata sulla questione della sicurezza», ha aggiunto Obama ricordando l’impegno della sua amministrazione per la comunicazione e gli scambi nell’ambito scientifico e dell’educazione dei giovani leader. E naturalmente ha fatto proprio l’esempio
dell’Indonesia. «La sicurezza è importante ma io voglio fare in modo che possiamo interagire con una vasta gamma di persone su una vasta gamma di questioni», ha proseguito, «questo sarà un bene per la nostra sicurezza, ma anche per una maggiore comprensione tra gli Stati Uniti e il mondo musulmano». Resta invece in piedi il discorso geopolitico, molto importante. L’Indonesia è un Paese strategico per gli Usa, che palesemente guardano molto più al Pacifico che all’Atlantico. E si trovano a confrontarsi con una Cina in netta espansione. Obama cerca nuovi mercati per l’esportazione e per promuovere la ripresa economica degli Usa. E cerca un alleato stabile, anche in vista del G20 di Seoul. Obama e il suo parigrado indonesiano Susilo Bambang Yudhoyono firmeranno un accordo ad ampio raggio che i due governi presentano come una svolta epocale nelle relazioni bilaterali, con una partnership che mira a facilitare la cooperazione nel campo dell’educazione e della ricerca, nella lotta ai cambiamenti climatici e affronta una serie di problemi di sicurezza, incluso il terrorismo, il traffico di persone e di droga e il crimine organizzato.
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Crisi. Sembra inutile anche la mediazione dell’Onu fra Polisario e Marocco i è concluso in un bagno di sangue l’assalto dell’esercito marocchino contro l’accampamento, alla periferia di Laayoune, di circa 20mila saharawi, la popolazione dell’ex-colonia spagnola del Sahara Occidentale che reclama l’indipendenza dal Marocco. I manifestanti si erano radunati nella città che considerano la capitale del loro futuro Stato sovrano, per protestare contro le difficili condizioni del loro popolo. Più o meno nelle stesse ore, al Palazzo di Vetro di New York, sotto l’egida delle Nazioni Unite, si era aperto un nuovo round di negoziati tra il Fronte Polisario e il governo marocchino sul futuro del Sahara Occidentale, occupato nel 1975 da Rabat. Secondo un bilancio ancora provvisorio fornito dal Polisario, ci sarebbero almeno undici vittime, rimaste uccise negli scontri scoppiati ieri a seguito dell’intervento delle forze di sicurezza marocchine. Altre 159 persone risultano disperse. «L’eroica popolazione di Laayoune ha seppellito i suoi martiri, il cui numero è salito fino ad ora a 11», si legge in una nota del movimento, che teme che il bilancio delle vittime dell’attacco possa aggravarsi ulteriormente. Le autorità marocchine hanno confermato solo la morte di 6 rifugiati. Fonti marocchine affermano che due membri delle forze di sicurezza sono morti e 70 sono rimasti feriti durante l’operazione e che 65 persone sono state arrestate. A quanto riferiscono i media spagnoli, le forze marocchine hanno fatto irruzione con elicotteri, lacrimogeni, idranti e pallottole di gomma per smantellare il campo eretto per protesta un mese fa, dove si erano riunite almeno 20mila persone. I manifestanti chiedevano case e lavoro, ma la protesta ha assunto gra-
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Un bagno di sangue per i saharawi Almeno 11 vittime e centinaia di dispersi negli scontri fra i locali e i militari di Rabat di Massimo Ciullo
di Ould Brahim Gargar, unica vittima civile riconosciuta dalle autorità marocchine. Da NewYork, i rappresentanti del Polisario hanno richiamato l’attenzione sulla situazione di Laayoune, ancora occupata dai soldati di Rabat, che rischia di incendiarsi come una polveriera. Da diversi mesi è in atto nella regione una sorta di “intifada” da parte dei gio-
L’esercito regolare ha caricato la popolazione, armata di bastoni, che chiede autonomia a un governo che l’ha colpita con durezza dualmente toni sempre più indipendentisti. Una volta dispersi i manifestanti del campo, gli scontri si sono spostati a Laayoune, capoluogo del Sahara occidentale, dove dimostranti armati di bastoni hanno affrontato i mezzi corazzati delle forze marocchine, riferiscono i media spagnoli. La tensione nella regione è alle stelle. Intanto da Rabat il procuratore generale del Re del Marocco a Laayoune ha aperto un’inchiesta sulla morte negli scontri del cittadino saharawi Mahmud Hama-
vani saharawi. La polizia marocchina però, ha sempre fronteggiato le manifestazioni pro-indipendenza, con particolare durezza, impedendo anche agli osservatori neutrali di verificare le condizioni nei campi profughi e dei prigionieri politici detenuti nelle carceri marocchine. È scattata anche la mobilitazione internazionale per cercare di attirare l’attenzione della comunità internazionale sulla situazione del Sahara Occidentale. Centinaia di persone si sono radunate ieri davanti al-
L’evacuazione della Spagna non ha aiutato
Un problema lungo 50 anni Nel 1965 c’è la prima risoluzione Onu sul Sahara Occidentale. Alla Spagna è chiesto di ritirarsi dal territorio e di indire un referendum per l’autodeterminazione del popolo saharawi. Seguono altre sei risoluzioni fino al 1973. Nel 1970, Conferenza di Nouadhibou tra Marocco, Mauritania e Algeria. Nel trattato finale (Trattato di Ifrane) si fa riferimento alle risoluzioni ONU per la decolonizzazione del Sahara Occidentale. In realtà Marocco e Mauritania stanno già trattando tra loro la spartizione. 1973: nasce il Fronte Polisario. Oltre a El Wali, tra i suoi fondatori ci sono Mohammed Ould Ziou, Hamed Ould Qaid. Non si parla ancora di indipendenza ma di autonomia. 1974: la Spagna approva lo Statuto di autonomia per il
Sahara Occidentale. Madrid annuncia all’Onu la sua volontà di organizzare un referendum nel Sahara Occidentale entro 12 mesi. L’Onu, infine, su richiesta del Marocco e della Mauritania, invita Madrid a rinviare il referendum e chiede alla Corte Internazionale dell’Aja di pronunciarsi sullo status giuridico del Sahara Occidentale prima della colonizzazione spagnola. 1975: Rapporto della Commissione Onu inviata nell’ex colonia spagnola. Si dichiara che la maggioranza della popolazione si è pronunciata a favore dell’indipendenza. Il Fronte è riconosciuto come rappresentante della maggioranza della popolazione. 1975: Inizia l’occupazione marocchina del Sahara. L’esercito spagnolo avvia l’evacuazione.
l’ambasciata marocchina di Madrid per protestare contro gli ultimi sanguinosi episodi di violenza, tra i più gravi degli ultimi decenni Gli esponenti del Fronte Polisario continuano a lottare per ottenere dalle autorità marocchine la convocazione di un referendum per permettere ai saharawi di scegliere tra indipendenza, autonomia, o annessione al Marocco. Il governo di Rabat non intende andare oltre la concessione di una semplice autonomia regionale. Le difficili condizioni di vita nei campi profughi e la violazione sistematica da parte marocchina degli accordi raggiunti sotto l’egida dell’Onu, stanno mettendo a repentaglio la tregua proclamata nel 1991. I leaders del Polisario hanno lanciato un appello al Segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, affinché faccia pressioni sul Marocco, invitandolo a rispettare gli accordi previsti dal Piano Baker, che prende il nome dall’inviato speciale delle Nazioni Unite. Nella regione, di cui il Marocco rivendica la sovranità, non è stato ancora celebrato il referendum per l’autodeterminazione, previsto dal mediatore dell’Onu e approvato all’unanimità dal Consiglio di Sicurezza.
Mohamed VI continua a disconoscere qualsiasi legittimità alla Rasd (Repubblica Araba Saharawi Democratica) confortato anche dall’indifferenza della comunità internazionale per le vessazioni subite dal popolo saharawi. Il sovrano marocchino finora non ha mai mostrato una grande disponibilità per una soluzione pacifica della questione dell’ex Sahara Occidentale. Il Marocco aveva inizialmente accettato le condizioni poste dal Piano Baker II, ma al momento di attuare le disposizioni dell’Onu, non ha dato seguito ai suoi impegni. Diversi sono stati finora i tentativi da parte delle Nazioni Unite per trovare un esito pacifico della vicenda. Il Piano Baker II, che prevede una road map per arrivare alla celebrazione di un referendum per l’autodeterminazione, sembrava aver accontentato le richieste di tutti. Ma la successione di Mohamed VI al padre Hassan II, ha rimescolato le carte, annullando tutti i progressi del piano di pace. Il Sahara Occidentale, dal punto di vista della comunità internazionale, continua ad essere una regione la cui amministrazione spetta alla Spagna. L’Onu lo ha dichiarato nelle sue risoluzioni, continuando a denunciare il Marocco come potenza occupante.
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Continua la repressione cinese contro i dissidenti in patria
Una cristiana pakistana rischia l’esecuzione per una vendetta
A un mese dal Premio, spariscono gli amici di Liu
Punjab, condannata a morte per blasfemia
PECHINO. A un mese dal conferimento del Premio Nobel per la pace a Liu Xiaobo, dissidente autore del manifesto democratico Carta ’08 condannato a 11 anni per sovversione, il governo cinese continua a colpire la dissidenza con arresti e molestie di vario tipo. Il regime teme che qualche personalità cinese riesca a uscire dal Paese per ritirare il Premio al posto di Liu, detenuto nel carcere di Jinzhou (Liaoning). Mo Shaoping, un avvocato noto per aver difeso in tribunale la maggior parte dei dissidenti cinesi, è- stato bloccato all’aeroporto internazionale di Pechino e non è riuscito a partire per Londra, dove avrebbe dovuto partecipare ad un convegno: «Mi hanno fermato alla dogana e poi all’immigrazione. Mi hanno detto che non posso partire perché potrei causare un danno agli interessi nazionali».
ISLAMABAD. Il Pakistan ha con-
Mo è stato indicato dalla moglie di Liu tra coloro che potrebbero ritirare il premio Nobel nella cerimonia che si terrà ad Oslo il 10 dicembre. La donna, Liu Xia, si trova agli arresti domiciliari come altre decine di dissidenti cinesi dall’8 ottobre, quando è stato annunciato che Liu aveva vinto il prestigioso riconoscimento. Liu Xiaobo, un professore di letteratura di 54 anni, è stato condannato ad 11
Ancora violenza contro i media russi Due giornalisti in quattro giorni picchiati a sangue di Antonio Picasso el tardo pomeriggio di domenica Oleg Kashin, una delle firme più autorevoli del Kommersant, è stato aggredito nelle strade di Mosca. Il giornalista ha riportato una frattura al cranio e agli arti superiori ed è attualmente tenuto in coma farmacologico. Secondo la polizia russa, i responsabili dell’accaduto potrebbero essere alcuni giovani esponenti dei “Pionieri di Russia unita”, l’ala giovanile del partito che fa capo al primo ministro Vladimir Putin. Il giornalista è stato arrestato in precedenza per aver seguito alcune inchieste. È stato lui, inoltre, l’autore dell’articolo di denuncia contro le teste di cuoio responsabili del massacro di Beslan nel 2004. In queste ultime settimane, Kashin si è occupato delle operazioni di deforestazione avviate nella provincia di Chimki, a nord ovest di Mosca. I progetti del governo prevedono la realizzazione di una nuova autostrada che colleghi la capitale con San Pietroburgo. L’idea però di abbattere gli albero secolari ha innescato le accese proteste da parte della popolazione locale, che vive del commercio del legname di quei boschi. Kashin si era interessato della vicenda. Tuttavia, l’incidente in cui è caduto è motivato dal fatto di aver cercato di compromettere interessi economici e personalità che hanno alcuna intenzione di subire il giudizio dei media e dell’opinione pubblica nazionale. Mikhail Beketov e Konstantin Fetisov, il primo giornalista e il secondo attivista per il rispetto dei diritti umani. Sono anch’essi recenti vittime dello stillicidio che si sta compiendo in questa Russia di inizio Terzo millennio. Entrambi si stavano occupando della foresta di Chimki. Il primo oggi è paralizzato, in seguito alle percosse ricevute. La mente allora corre ad Anna Politkovskaja, la giornalista di Novajia Gazeta uccisa nell’ottobre 2006. Questa non è rimasta l’unica vittima della costante campagna di aggressione contro i media che è in corso oggi nelle stanze dei bottoni a Mosca e San Pietroburgo. La Russia riconosce sulla carta costitu-
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zionale la libertà di stampa. Quel che sta accadendo, del resto, è una violenta censura esercitata senza che le autorità si impegnino per difendere i giornali, anche quelli di opposizione. Ieri il presidente russo, Dimitri Medvedev, ha dichiarato: «Bisogna stanare i colpevoli e far loro pagare la giusta punizione!»
È un’affermazione, questa, che non si distanzia da tante altre minacce sventolate dal Cremlino eppure mai realizzate. A quattro anni dall’assassinio della Politkovskaja, le indagini restano congelate. È possibile che lo stesso accada per l’aggressione di Kashin e degli altri attivisti. A proposito di Medvedev, però, è interessante notare il suo dichiarato interessamento alla questione, rispetto invece all’impassibilità di Putin. Nel 2006, con quest’ultimo alla guida del Cremlino, nessun rappresentante del governo prese parte ai funerali della giornalista di Novajia Gazeta. Oggi il fatto che il presidente si esprima in questi termini, sommato alla nota sulla presunta implicazione di alcuni attivisti di Russia unita, fa pensare non tanto che il governo abbia cambiato rotta bensì che la questione dei giornalisti perseguitati stia scadendo nella strumentalizzazione delle lotte intestine del Cremlino. La coppia Medevedev-Putin è in piena crisi. La corsa per le elezioni presidenziali, che si terranno nel 2012, è già iniziata. La rivalità fra i due non è una cosa nuova. La guerra mediatica, di conseguenza, implica che i giornalisti di una fazione cadano vittime delle violenze dell’altra. A differenza della Politkovskaja infatti, Kashin è ben lontano dall’essere un giornalista indipendente. Egli stesso aveva definito il lavoro della prima come «un modo non tradizionale di fare giornalismo». Kashin è sempre stato molto vicino alla fazione di Medvedev. A differenza della Politkovskaja che ha pagato con la vita la propria indipendenza, le percosse ricevute da quest’ultimo nascono dall’aver fatto una scelta di campo. In entrambi i casi, non c’è giustificazione che tenga.
Non si tratta più di colpire i contrari al regime: oramai i cronisti morti sono avvertimenti all’avversario politico
anni di prigione per i suoi scritti a favore della democrazia. Le autorità hanno arrestato anche molte altre personalità della dissidenza. Secondo una lista del Chinese Human Rights Difenders, Guo Xianliang - ingegnere dello Yunnan - è stato arrestato a Guangzhou mentre distribuiva volantini che chiedevano al governo informazioni su Liu Xiaobo. Accusato di “incitamento alla sovversione del potere statale”, è al momento in prigione.Una pena più leggera per Wang Lihong, Wu Gan e Zhao Changqing, che si erano incontrati l’8 ottobre per festeggiare il conferimento del Nobel. Sono stati trattenuti per 8 giorni e poi rilasciati.
dannato a morte una donna cristiana per blasfemia. Asia Bibi, madre di due bambini, operaia agricola di 37 anni, ha ricevuto la sua sentenza da un tribunale del Punjab domenica sera. E’ stata giudicata colpevole di blasfemia, commessa di fronte ad alcuni colleghi di lavoro, in una discussione molto animata avvenuta nel giugno 2009 a Ittanwali. Alcune delle donne che lavoravano con lei cercavano di convincerla a rinunciare al cristianesimo e a convertirsi all’islam. Durante la discussione, Bibi ha risposto parlando di come Gesù sia morto sulla croce per i peccati dell’umanità, e ha chiesto alle altre donne che cosa avesse fatto Maometto per
loro. Le musulmane si sono offese, e dopo aver picchiato Bibi l’hanno chiusa in una stanza. Una piccola folla si è radunata e ha cominciato a insultare lei e i bambini. L’organizzazione caritativa, che sostiene i cristiani perseguitati, ha detto che su pressione dei leader musulmani locali è stata sporta denuncia per blasfemia contro la donna.
Il direttore di Release International, Andy Dipper, ha espresso il suo shock verso la sentenza di domenica. «Il Pakistan ha varcato una linea – ha detto – condannando a morte una donna per blasfemia». Bibi inoltre è stata multata dell’equivalente di due anni e mezzo di del suo stipendio. Un’altra donna cristiana, Martha Bibi, è sotto processo per blasfemia. Secondo i dati della Commissione Giustizia e pace della Chiesa cattolica, dal 1986 all’agosto del 2009 almeno 964 persone sono state incriminate per aver profanato il Corano o Maometto. Fra questi 479 erano musulmani, 119 cristiani, 340 ahmadi, 14 indù e altri 10 di altre religioni. La legge sulla blasfemia costituisce anche un pretesto per attacchi, vendette personali o omicidi extra-giudiziali: 33 in tutto, compiuti da singoli o folle inferocite.
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grandangolo La carriera lampo di un insolito “angelo custode”
Christopher, il giovane che vuole riabilitare George W. Bush Di cognome fa Michel, ha 28 anni ed è il ghostwriter più famoso d’America. È lui la penna dietro “Decision Point”, il libro di memorie che segna il ritorno di “Dubya” sulla scena. Compagno di classe della figlia Barbara, enfant prodige del Daily News, è l’uomo ombra dell’ex presidente dal 2003 di Luisa Arezzo mmaginate la scena: George W. Bush seduto nel suo ufficio di Dallas e attorniato da un drappello di consiglieri. È il 26 febbario 2010, fa freddo e lui li ha convocati - così dice la “leggenda” - per una seduta di brainstorming. Su cosa non si sa. Cala il silenzio. Interrotto dalla battuta dell’ex presidente: «Sarà uno schock per tutti voi scoprire che so scrivere un libro. Ma è proprio così». Scoppio di risa e poi il motivo della chiamata: trovare un titolo al romanzo di memorie ormai di prossima uscita. Parliamo di Decision Point, uscito su tutti gli scaffali delle librerie statunitensi proprio ieri. «È tutta farina del mio sacco» avrebbe aggiunto il presidente, «ma non posso negare di essermi avvalso anche dell’aiuto di un fedele e leale collaboratore». Nessuno ha avuto dei dubbi: c’è un solo uomo ombra di George W. Bush e si chiama Christopher George Michel. Il punto è che questa penna d’oro della politica americana (da ieri è ufficialmente il ghostwriter più famoso degli States) ha solo 28 anni e scrive i discorsi dell’ex capo della Casa Bianca dal 2006. Insomma, da quando è poco più di un adolescente.
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Per carità, l’America ci ha abituato a questi enfant prodige, ma noi italiani, assuefatti a considerare un talento straordinario chi arriva a posizioni di vertice a 45 anni, ne restiamo sempre stupiti, ammirati e anche un po’ (diciamolo) invidiosi. Il ragazzetto, capelli
chiari, mandibola larga, sguardo sveglio e diretto, sorriso contagioso, è stato introdotto alla Casa Bianca nel 2003. La War on Terror era cominciata da un anno e lui era fresco della laurea (con il massimo dei voti) a Yale. Sua compagna di università era Barbara Bush, la figlia del presidente, che più e più volte aveva parlato al padre di quel giovane e brillante amico che non faceva altro che sostenere (anche sul giornalino della facoltà, che in America è una cosa seria e non un volantino semiclandestino) le scelte politiche della Casa Bianca. Dalle chiacchere a un incontro privato il pas-
Il ragazzo, capelli chiari, mandibola larga, sguardo sveglio e diretto, si è laureato a Yale con il massimo dei voti e la lode so è stato breve. Immediata la sintonia, contemporanea la proposta di uno stage gratuito nel braccio degli speechwriter di Bush. Atterrato nelle stanze ovattate dell’Amministrazione, Christopher con l’umiltà del nuovo arrivato e quasi
senza che nessuno se ne accorgesse nel giro di pochi anni prende il posto di Karen Hughes e Michael Gerson, diventando “la voce” del Presidente.
Andrew Card, veterano della Casa Bianca ed all’epoca capo dello staff di Bush, racconta la sua ascesa: «È arrivato in sordina, pronto a fare qualsiasi cosa e senza orari. Nel 2008 era già vice segretario del presidente e vice direttore del servizio di speechwriting». «Era ed è un talento puro» continua Marc Thiessen, altra penna di George W. Bush. La stima del giovane per l’ex capo della Casa Bianca era scattata nel 2001, durante un discorso presidenziale nel campus di Yale. All’epoca Michel era reporter dello Yale Daily News e aveva seguito l’evento. Pochi mesi dopo, veniva assunto dal Daily News (quotidiano nazionale) su segnalazione di Louise Story, firma del New York Times. I suoi colleghi lo ricordano come una persona amichevole, mai boriosa o noiosa e mai come un esalatato repubblicano. Anzi. Era un giovane
conservatore dai toni vieppiù moderati. Alla Casa Bianca, Michel finisce velocemente nelle grazie degli uomini più fidati di Bush. Come Michael Gerson, che gli commissionò il suo primo discorso. Quando questi se ne andò, il suo successore, William McGurn, cooptò Michel e, assieme a Thiessen formò i tre “Amigos”: lo staff ristretto degli speechwriter della Casa Bianca. «Scrivevamo qualsiasi cosa, stavamo sempre al computer a preparare le dichiarazioni ufficiali», ricorda Thiessen. «Eravamo sulla palla e, soprattutto, assolutamente complementari». Il presidente cominciò a circondarsi sempre più spesso di Christopher, con cui condivideva anche la passione per il jogging e lo sport. Di lui apprezzava il fatto che fosse sempre deferente nei suoi riguardi, ma altresì veloce e rapido nelle risposte. Non passò molto tempo che lo invitò a fumare il sigaro sul balcone della Casa Bianca. Un segnale di inequivocabile stima. Poi incontrò la sua famiglia e cominciò a
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Esce il libro dell’ex presidente: «Ho fatto errori, ma non per indecisione» A lato, la copertina del libro dell’ex presidente. A sinistra, George W. Bush sulle rovine del World Trade Center; e in basso Laura Bush, sua moglie. Sotto: Christopher George Michel, il suo ghostwriter di fiducia e braccio destro in molte decisioni, assieme alla moglie Emily Kropp. A destra, New Orleans dopo il passaggio dell’uragano Katrina
portarlo con sé nei suoi viaggi di lavoro. Alla fine del suo secondo mandato non c’era discorso che non venisse vagliato dalle mani del giovane che, nel frattempo, si era visto spostare la sua scrivania nell’anticamera della sala ovale.
Dalla sua penna emerse il nuovo stile del presidente, meno retorico, più incisivo e d’attacco, comunque scevro di ogni retorica burocratica. Fu lui a scrivere il discorso sullo Stato dell’Unione del
Nel 2008 ha scritto: il discorso sullo Stato dell’Unione, l’addio all’Onu e le congratulazioni presidenziali a Barack Obama
2008 e le parole d’addio che il presidente pronunciò alle Nazioni Unite. Fu sempre lui a caldeggiare presso Bush la scelta di Sarah Palin come vice di McCain alle elezioni e sempre lui a scrivere le congratulazioni della Casa Bianca al neoeletto Barack Obama. Si dice anche che scommise di correre nudo per i corridoi della Casa Bianca qualora Oba-
ma avesse scelto Joe Biden come vice, ma pare che poi non mantenne la sua promessa. Al momento, si ricorda solo un errore nel suo incredibile curriculum: il 15 maggio 2008 lavorò al discorso presidenziale per i 60 anni della nascita di Israele. Discorso che Bush tenne alla Knesset e nel quale criticò l’idea di aprire un canale di dialogo con i “terroristi”. La frase venne letta come un’evidente critica all’operato dell’allora candidato Barack Obama e suscitò un putiferio in patria. Ma ormai era fatta. E forse, dicono in molti (ma Michel non ha mai voluto commentare) la frase venne aggiunta direttamente da Bush. Il luglio successivo Christopher George Michel si sposa con Emily Lauren Kropp, un anno più grande di lui. L’ha conosciuta alla Casa Bianca nel 2003 e da allora sono diventati inseparabili. Il viaggio di nozze durerà tre giorni e verrà consumato molto dopo: il 19 gennaio 2009, il giorno del commiato di Bush dalla Casa Bianca.
Il presidente parte per Dallas, i due per le Bahamas. (Ma dopo un party di addio nel quale lui sintetizzerà così agli amici gli anni spesi a Washington: «Sono stati come una cavalcata. Sono arrivato come uno stagista non pagato nel 2003. Ho incontrato mia moglie e ci siamo sposati. Sono diventato il capo degli speechwriter e ho viaggiato per il mondo sull’Air Force One»). Tre giorni dopo, il 22 gennaio, Michel riceve una mail dal Texas: è il primo capitolo di Decision Point. Ci sono anche due righe dell’appena diventato ex presidente che lo invitano ad affiancarlo nel lavoro. Lui accetta e alla fine di gennaio si trasferisce a Dallas con la moglie. Piano piano, comincia a dare una forma narrativa alla poderosa autobiografia di George W. Bush. Missione: per i critici (che lo ammirano) dare un posto nella Storia al presidente Usa. Per i suoi supporter (che l’adorano) preprargli il terreno per un grande ritorno sulle scene. Noi ne siamo sicuri: Michel ha lavorato alla seconda ipotesi.
Una biografia per rompere il silenzio e ritrovare un posto nella storia di Anna Camaiti Hostert
CHICAGO. È uscito ieri in libreria il memoir di George W. Bush intitolato Decision points. In un’intervista su Nbc rilasciata al giornalista del Today Show Matt Lauer, l’ex presidente Bush ha rotto il silenzio sulla sua presidenza parlando del suo nuovo lavoro. Con questa apparizione, la prima tra molte che prevedono anche una presenza su Abc nel programma di Oprah Winfrey e un’altra apparizione al Today Show, Bush ha aperto una campagna pubblicitaria che lo porterà sui maggiori canali televisivi nazionali di fronte ai più importanti giornalisti d’America. Il sogno di ogni autore. Per Bush che è stato il presidente dell’11 settembre e dell’uragano Katrina, due dei più significativi eventi del 21esimo secolo, è il momento di rivelazioni che potranno fare luce su come è stato vissuto dalla presidenza degli Stati Uniti l’attacco alle Twin Towers, al Pentagono e tutto ciò che a quello è seguito. «È stato come precipitare all’inferno, il paese era improvvisamente in guerra e non volevo fare dichiarazioni affrettate prima di capire cosa stesse succedendo: questo ha determinato il ritardo nella mia reazione», ha risposto Bush all’accusa di avere lasciato passare troppo tempo prima di una sua presa di posizione ufficiale. Come scrive Jonathan Yardley sul Washington Post: «Lo sviluppo del libro, specie per come si è evoluto alla luce dell’attuale presidenza, non può essere considerato un memoir nel senso vero e proprio della parola - un tentativo di interpretare la vita di chi scrive - ma piuttosto un tentativo di scrivere la storia prima che gli storici ci mettano le mani sopra.
Sì, di tanto in tanto c’è l’ammissione che sono stati commessi degli errori per esempio sulla mancata esistenza delle armi di distruzioni di massa o su Katrina, ma il chiaro proposito di queste “non scuse” è quello di rendere umana la persona che li ha commessi e quello di farcela sentire più vicina a noi proprio per averli commessi». Gli fa eco Michiko Kakutani sul New York Times il quale scrive «Decision points è un libro con molte contraddizioni e che è parte una giustificazione, parte un mea culpa, parte un album di famiglia,
parte il tentativo autocosciente di risistemare la sua eredità politica». Nell’intervista con Matt Lauer, registrata nell’arco di due giorni in Texas il mese scorso, l’ex presidente è apparso rilassato e talvolta perfino un po’ spaesato, ma decisamente senza alcun desiderio di ritornare a fare politica attiva. Come ha affermato Steve Capus, presidente di Nbc News «in questa occasione si è presentata all’ex presidente l’opportunità di dire cose che da molto tempo voleva rivelare liberandosi del peso tremendo di tenersele dentro».
«Leggere questo libro è come essere dentro la testa del presidente quando sono state prese decisioni determinanti per il paese e per il mondo» ha dichiarato Oprah Winfrey accogliendo Bush nella sua trasmissione. Molte sono state le domande personali come la sua dipendenza dall’alcol e i suoi rapporti con la famiglia, soprattutto con il padre che adora, ma la cui ombra si è inevitabilmente proiettata sulla sua presidenza. Quando Oprah ha toccato il tema della guerra in Iraq il presidente ha ammesso: «Ho mandato truppe a combattere in Iraq basandomi su quello che i servizi segreti mi avevano comunicato e che poi si è rivelato falso. Ho commesso un errore» e parlando dell’uragano Katrina «Il problema non è stato che ho preso decisioni sbagliate, ma che ho atteso troppo a lungo prima di decidere. L’immagine che mi si è presentata è stata quella di un bombardamento nucleare. E purtroppo per una serie di contingenze burocratiche e amministrative ci sono stati ritardi che non sono imputabili totalmente alla mia presidenza». Quando il tema si è spostato sul suo presunto razzismo manifestato in quell’occasione l’ex presidente si è risentito e ha risposto che questo non appartiene al suo Dna, ma semplicemente all’inasprimento che la lotta politica ha subito negli ultimi anni. Infine alla domanda se nel 2012 sosterrà Sarah Palin alla presidenza, Bush ha risposto «Non sono un commentatore politico e - rivolto ad Oprah ha detto - tu cerchi di riportarmi nella palude, ma io non ci casco».
cultura
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Mostre. All’ex opificio tessile ottocentesco Borroni, da oggi al 21 novembre, l’esposizione “Archiviarti” curata da Fiordalice Sette
La «fabbrica delle idee» di Stefano Bianchi on è la solita, asettica sfilata di quadri. La giovane arte italiana, che anno dopo anno cresce e si aggiorna, vive nel centro di Bollate, a pochi chilometri da Milano, nella luminosità degli spazi post-industriali della Fabbrica Borroni. È qui, al 19 di via Matteotti, che l’arte emergente si racconta: con una naturalezza che sarebbe impossibile e impensabile, nell’ingessata atmosfera dei musei.
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Fra muri che hanno respirato il laborioso scorrere del tempo, ampie finestre e colonne tinteggiate di rosso; nei duemilacinquecento metri quadri circondati da un vasto, secolare giardino, ogni singola pittura, scultura e fotografia dialoga con chi la osserva, gli accende dentro un’emozione, gli suscita il desiderio di approfondire il lavoro di ogni artista. Ed è facile, qui, incontrare artisti che dialogano fra loro, si confrontano, solidarizzano, danno sostanza alle loro opere nelle sale (delle Colonne, della Bilancia, del Cavedio) di questa “fabbrica d’idee” capace di sfuggire i rigidi meccanismi speculativi che regolano (e spesso ammorbano) il sistema dell’arte. Da opificio tessile, alla fine dell’Ottocento, la struttura si è convertita in fabbrica di giocattoli e poi di collanti e adesivi, fino a cessare l’attività nel febbraio 2001. Tre anni dopo, l’imprenditore e appassionato d’arte Eugenio Borroni ha deciso di riaprirla per far conoscere al pubblico la sua collezione iniziata puntando sui grossi calibri dell’arte (imperdibili, in mostra, la rosea Figura di Lucio Fontana del 1932, un dipinto informale di George Mathieu del ’68, la Pop Art di Mario Schifano in Tutte Stelle del ’69 e l’analitica, rossa Pittura di Pino Pinelli dell’86); proseguita con la Scuola Romana di Via degli Ausoni con quadri di Bruno Ceccobelli, Nunzio, Piero Pizzi Canella e Marco Tirelli; alimentata col Medialismo di Bruno Zanichelli, Pierluigi Pusole, Daniele Galliano,
Gabriele Lamberti e Santolo De Luca, gli esponenti della Nuova Figurazione Italiana e i lavori di Matteo Basilè, Dario Arcidiacono, Paolo Cassarà, Marco Lodola, Paolo Schmidlin, Patrizia Valcarenghi, Jonathan Guaitamacchi, Marco Petrus, Sonia Ceccotti e così via. Ogni opera una storia, uno stile in cui credere, un talento da coltivare. Eugenio Borroni è sempre, come si suol dire,“sul pezzo”.
Quando l’arte muta pelle e si reinventa, lui c’è: a sostenerla e a promuoverla, puntando sull’istinto e sulla passione piuttosto che affidarsi a schemi storici o filologici. «Non si vive senza arte perché l’arte è dentro di noi, è par-
te di noi», dichiara. «Davanti a un quadro, a una scultura, a una fotografia, qualcosa ci sussulta dentro e ci emoziona. Ciò che proviamo, è comunque una reazione: di apprezzamento, indifferenza, rifiuto». Oppure ab-
biamo la buona dentro sorte, noi stessi, di scoprire il cosiddetto “cuore sacro”: «L’abbiamo tutti, ma spesso dorme per il semplice motivo che non viene sollecitato. Sta a noi svegliarlo e coltivarlo, trovarlo negli altri ma soprattutto nei giovani. E convincerli che è una parte importante, se non la più importante». La raccolta di Fabbrica Borro-
«Certi spazi, ancora oggi, raccontano storie di operai e di duro lavoro», sottolinea Borroni, «e sembrano felici di ospitare la collezione. In certi ambienti, si respira una magia che è frutto della loro storia e del loro fascino». Il contemporaneo, in Fabbrica Borroni, viene costantemente aggiornato con nuove acquisizioni di giovani artisti. A tal proposito, va segnalato il progetto Archiviarti che dopo aver debuttato in rete dando l’opportunità ai più interessanti autori di proporre la loro arte a galleristi, critici, curatori e operatori del settore, transita dal virtuale al reale con Archiviarti - La mostra, a cura di Fiordalice Sette (responsabile del progetto e delle attività culturali di Fabbrica Borroni) in programma a partire da oggi fino al 21 novembre.
Da Alice Attanasio a Veronica Vallini, da Fabrizio Bellomo a Toba Toba, Emanuele Rocchi e Vincenzo Todaro, sono ventisette i nomi (già visibili sul web) selezionati per la freschezza e l’innovativa qualità dei loro messaggi che vedono la pittura equilibrarsi con la fotografia, le installazioni e i video. Accanto ad artisti già consolidati, protagonisti di personali e collettive nonché vincitori di premi a livello nazionale e
Da Veronica Vallini a Alice Attanasio, da Fabrizio Bellomo a Toba Toba, Emanuele Rocchi e Vincenzo Todaro: sono 27 i nomi selezionati per la qualità delle opere
ni, oggi, comprende circa seicento opere. Non solo pittura, ma arte che si elasticizza a contatto coi massmedia: computer, televisione, cinema, fotografia digitale, fumetti. Alcune opere esposte alla Fabbrica Borroni: “In the name of the Father, the Son, and the Sweet Spirit” di Attanasio; “Skin Rosary” di Buttò; “(un)memory #081” di Todaro; “Sono tra noi” di Minotti; “Sono io” di Campanella
E poi la Street Art che si rincorre site-specific sui muri esterni della Fabbrica, come i pinguini di Pao che nuotano accanto a una vera, enorme caldaia che sembra un sottomarino; l’uomo-mostro di Blu, che cammina carponi lungo le ringhiere; la poetica naïveté di Nais; il visionario cartoon di TV Boy; l’urlo mediatico di Weik…
internazionale, spiccano giovanissimi esordienti alle prese con le loro opere prime. Fra schegge di manga giapponesi (Marco Minotti), fantasmatiche solitudini urbane (Francesco Corbetta), sublimazioni sacre (Alice Attanasio), spensieratezze infantili (Elisabetta Di Sopra), identità perdute (Vincenzo Todaro) e poi ritrovate (Erica Campanella), al centro di Archiviarti c’è l’umanità contemporanea con le sue contraddizioni, i suoi equivoci e i suoi paradossi che riflettono la disomogenea società in cui ci tocca vivere. Il nuovo contemporaneo che ci gira attorno, insomma, abita qui.
società a vino da trent’anni e possiede due importanti aziende vitivinicole a Napa e Sonoma Valley. A San Francisco ha un ristorante a North Beach, nel cuore del quartiere italiano, un caffè a Palo Alto e, insieme a biscotti, cioccolatini e paste di vari formati, produce una linea di salsa di pomodoro - Mammarella che ritrae in copertina sua madre 17enne. Eppure il riconoscimento che sta per ricevere, il 13 novembre prossimo, non ha nulla a che fare con l’enogastronomia. D’altra parte, in Italia come in America, lui, e ormai anche la figlia Sofia, è celebre non per le sue doti culinarie ma per la grande capacità di dare vita ad affreschi unici e indimenticabili utilizzando la macchina da presa. Tutti conoscono i suoi film, i suoi personaggi, uno per tutti il padrino Don Vito Corleone. E poi le atmosfere nere di Dracula di Bram Stoker, il connubio tra jazz e violenza di Cotton Club, il Vietnam di Apocalypse Now, la lista è lunga.
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mente il vino possiede un bel colore rubino - ruby in inglese e forse il nome del fortunato nettare da 150 dollari a bottiglia nasce soprattutto da questo. Ma la tenuta di Rutherford con i suoi prestigiosi vini non è la sola. Nel tempo Coppola si è notevolmente allargato e, secondo una mentalità tutta americana, ha dato vita ad una seconda azienda, nella vicina Sonoma, dove, oltre al vino, produce soldi anche con un ristorante, gadget di dubbio gusto e ancora ne produrrà con un enorme resort che è oggi in fase di costruzione.
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Negli Stati Uniti però molti conoscono anche i suoi vini. Al contrario in Italia il nome del grande regista Francis Ford Coppola è “relegato”, si fa per dire, unicamente al mondo del cinema. Proprio per la sua carriera riceverà presto, insieme ad un altro grande come JeanLuc Godard, il suo sesto Oscar. Dall’anno scorso le statuette alla carriera sono oggetto di una serata a sé stante, quest’anno il 13 novembre, in cui saranno celebrati film e successi di questi grandi pittori dello schermo. E chissà che per brindare all’ennesimo successo Coppola e famiglia non stappino proprio una bottiglia di Rubicon, il vino di punta dell’azienda di Inglenook, tenuta meravigliosa tra le viti di Napa e meta di appassionati di vino e non solo che giungono lì più per ammirare le 5 statuette vinte dal regista che per degustare vino. Coppola, che è anche grande uomo di marketing, deve probabilmente il suo successo enologico al continuo flirt, alla voluta e fortunata contaminazione, tra vino e film. Il suo vino parla il lin-
Passioni. Viaggio nell’«impero del vino» del grande regista italoamericano
L’altra vita di Coppola, il padrino delle vigne di Livia Belardelli guaggio del cinema anche se, inspiegabilmente, i suoi film non hanno mai parlato di vino. Più volte ha accarezzato l’idea, di qualche anno fa è l’annuncio di un film sul celebre critico del vino Robert Parker. Anche se chi scrive non condivide la politica del guru statunitense, creatore dell’importante rivista
un probabile successo. D’altronde il documentario Mondovino di Jonathan Nossiter, che di Parker e del compare francese Michael Rolland raccontava l’ascesa con occhio critico e una buona dose di schernimento, ebbe nel 2004 un grandissimo seguito dopo la presentazione al Festival di
Lo produce da trent’anni grazie a due aziende vitivinicole a Napa e Sonoma Valley. E alla figlia ha dedicato lo sparkling wine “Sofia” Wine Advocate ma tra i maggiori responsabili di quell’omologazione - lui parla di “democratizzazione” - del gusto che ha invaso l’America e ha tentato non con gli stessi risultati di fare lo stesso anche in Francia, un film sull’ascesa di quest’uomo controverso sarebbe stato
Cannes. Seguì il delicato e Sideways di ironico Alexander Payne, che bissò il successo del precedente aggiudicandosi l’Oscar per la sceneggiatura non originale. Bottle shock di Randall Miller invece, presentato al Sundance Festival nel 2008 e tratto dal libro Judgement of Paris di Georges Taber su una celebre degustazione a Parigi in cui i neonati vini della Napa Valley vinsero in un blind tasting contro grandi chateaux francesi, non ha trovato la distribuzione in Italia. Ma Coppola con il suo genio registico potrebbe davvero creare un ennesimo capolavoro. La sola storia dell’azienIl regista Francis Ford Coppola; alcuni suoi vini prodotti dalle aziende che possiede a Napa e a Sonoma Valley, lo sparkling wine “Sofia” dedicato a sua figlia
da, fondata nel 1880 da un avventuroso capitano finlandese amante del vino e arrivata dopo alterne vicende nelle mani di Coppola nel 1975, potrebbe ispirare il film. Così come il suo vino di punta, nato da un clone di Cabernet Sauvignon portato lì direttamente dalla Francia dal capitano Gustave Niebaum negli anni Ottanta dell’800. Il vino si chiama Rubicon e raccoglie nel nome l’origine italiana del regista, la sua passione per la cultura romana e la volontà di fare come Giulio Cesare oltrepassando il Rubicone: dare inizio a un nuovo corso, a una svolta, nei vini della Napa Valley. Più prosaica-
Anche qui non mancano i cimeli della carriera importante, dalla scrivania de Il Padrino fino agli abiti di scena originali di tanti suoi film, oltre che continui rimandi disseminati qua e là, in maniera più o meno esplicita, nei suoi vini. Paradigmatica è la linea Director’s cut, espressione utilizzata nel gergo cinematografico per indicare la versione che più si avvicina alla visione del regista.Tra questi vini spicca un fruttato e speziato Zinfandel, vitigno “autoctono” che, ma non lo dite agli americani - che poi lo sanno benissimo -, non è altro che il nostro primitivo di Manduria (a sua volta riconducibile al Plavac Mali, vitigno di origine croata). Anche il packaging flirta con il mondo dello schermo, con un cinema agli albori, dove il movimento si creava attraverso un singolare aggeggio, lo zootropio, composto da una striscia di immagini montate all’interno di un tamburo in movimento. Altre etichette sono invece personalmente disegnate dal designer e scenografo Dean Tavoularis con cui, fin dai tempi de Il Padrino, Coppola ha stretto un forte sodalizio artistico. Forse, nonostante la figlia ne sia stata, a ragione, fiera e commossa, una caduta di stile nei packaging del suo vino c’è. Lo sparkling wine Sofia infatti, effervescente e beverino blanc des blancs, presenta, per bontà sua solo nella versione da 187 cl, un packaging a forma di lattina. Ma questo, a uno come Coppola, va perdonato. D’altronde è un grande uomo di marketing e sa bene che una lattina in più nei banchi frigo dei mastodontici supermercati statunitensi saprà attirare l’attenzione degli americani.
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE
Maltempo: bisogna risolvere la questione dei consorzi di bonifica I disastri provocati in alcune zone d’Italia dal maltempo degli ultimi giorni ripropongono in tutta la sua urgenza il problema del ruolo dei consorzi di bonifica. La riforma varata da diverse Regioni, che prevede l’accorpamento di alcuni consorzi, non serve a nulla. Rischia, anzi, di creare carrozzoni ancora più grandi. La nuova calamità naturale che ha colpito il Nord dimostra, da un lato, l’incapacità dei consorzi a provvedere; dall’altro, l’assurdità del principio di imposizione sul quale si basano i consorzi di bonifica. Il danno procurato dal maltempo, infatti, è generale, riguarda l’intera comunità del territorio interessato. Investe servizi e ogni tipo di attività economica. Non ha quindi senso che questi pretesi strumenti di governo del territorio gravino solo su condòmini e proprietari di casa, quando poi gli interventi pubblici devono essere eseguiti in qualunque caso, non potendosi arrestare dinanzi all’allagamento – ad esempio – di un negozio o di uno stabilimento industriale, i cui titolari, se sono in affitto, non pagano alcun contributo di bonifica. Per risolvere il problema può essere decisivo l’appuntamento con il federalismo demaniale, che prevede la possibilità di cedere a comuni e province le opere di bonifica. Speriamo che lo Stato individui in fretta le opere da trasferire agli enti locali.
Lettera firmata
VIOLARE LA LIBERTÀ RELIGIOSA È UN’OFFESA ALL’UOMO I gravi fatti avvenuti in Iraq ci confermano, qualora ce ne fosse bisogno, che la testimonianza cristiana è pesantemente perseguitata in tutto il mondo. La libertà religiosa è fattore di tutela della dignità della persona, di ogni persona, e appartiene a valori non negoziabili che anche il cardinale Bagnasco ha recentemente ricordato alla Settimana sociale di Reggio Calabria: «La Chiesa (...) non cessa di affermare i valori fondamentali della vita, del matrimonio fra un uomo e una donna, della famiglia, della libertà religiosa e educativa: valori sui quali si impianta ed è garantito ogni altro valore declinato sul piano sociale e politico. Il rispetto di tali valori non è confessionale, ma appartiene a tutti gli uomini di buona volontà». Ogni loro violazione è un’offesa
all’uomo e alla democrazia. Difendere la libertà di espressione religiosa è quindi difendere la libertà di ogni uomo.
Daniele Nardi
RAI: PER RISPARMIARE CHIUDANO I CONTENITORI INUTILI Stigmatizzo la chiusura della terza edizione dei tg regionali della Rai. Piuttosto che risparmiare su una delle poche voci attive sul piano formativo e culturale dell’azienda, si sarebbe potuto chiudere qualche contenitore davvero inutile, se non dannoso. Il risparmio sarebbe stato così effettivo sotto ogni punto di vista.
Ellezeta
SEQUESTRO E STUPRO DI UNA DISABILE Delitti atroci come quello di cui è rimasta vittima una donna disabile padovana van-
L’uomo dei ghiacci Se siete tra quelli che anche con il riscaldamento acceso battono i denti dal freddo, vi verrà la pelle d’oca davanti a questa spettacolare cattedrale di ghiaccio nelle Alpi svizzere. L’uomo che vedete “in posa” è Eric Guth, un fotografo statunitense per nulla freddoloso che ha eletto i ghiacciai a suo soggetto preferito
no puniti con la massima severità. Non esistono scuse o attenuanti di sorta: il sequestro e lo stupro, in generale e ancor più se consumato ai danni di una persona più debole e indifesa, ci fanno tremare di vergogna e di rabbia.
Alcuni cittadini di Padova
LA FINE DELL’OBAMA’S DREAM Obama ha perso, perché non poteva non perdere.Troppa demagogia, troppo populismo, troppe promesse al vento: non poteva
L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
durare. L’uomo della provvidenza, della speranza, del premio nobel alla fiducia, del dialogo, della mano tesa … ha suscitato aspettative enormi, e dopo soli due anni ne è rimasto schiacciato. Ora deve scegliere: rinunciare alla retorica, ai sogni, alle illusioni, cominciare a governare davvero nell’interesse del suo Paese, e così perdere se stesso. Oppure, radicalizzarsi, puntare tutto sull’utopia, sull’ideologia dura e pura; e perdere le prossime elezioni presidenziali.
Pietro Castagneri
dal “Guardian” del 09/11/2010
Messico, la strage senza nome osé Darío Alvarez Orrantes ha 19 anni e frequenta il primo anno di Sociologia all’Università di Ciudad Juárez, Messico. Il 29 ottobre ha partecipato alla sua undicesima “Marcia contro la morte”: stava protestando pacificamente contro la militarizzazione della città ed è stato colpito dalla polizia alla schiena. Ferito gravemente, lotta per la vita. Ma almeno lui ha un nome e, a dispetto della situazione, è ancora vivo; questo non si può dire per gli altri settemila cittadini di Ciudad Juárez che sono morti dall’inizio del 2008. La maggior parte di loro è semplicemente sparita, entrando di diritto nella macabra statistica dei morti nella guerra per la droga. Le loro morti non sono mai state prese in esame dalla polizia, e il governo mette in dubbio la loro innocenza. Nei casi peggiori vengono presentati come criminali; nel migliore, sono vittime collaterali. Ma, fino a prova contraria, rimangono trafficanti di droga. Basti pensare ai 16 ragazzi uccisi durante una festa a Villas de Salvarcar lo scorso 30 gennaio; alcuni di loro non erano neanche adolescenti. Due giorni dopo il loro terrificante massacro, aggiungendo la beffa alla tragedia, il presidente del Messico Calderon ha annunciato che – secondo le indagini – «siamo davanti a un regolamento di conti fra bande rivali».
ve. E le prime vittime di questa guerra alla droga sono i diritti umani. Non ha precedenti inoltre il fatto che la maggior parte delle persone uccisa negli ultimi due anni era disarmata, non coinvolta in alcun tipo di confronto armato. Non si tratta di omicidi commessi durante una guerra fra cartelli della droga, né di scontri fra polizia e bande criminali. Sono stati crimini commessi in una città che vive in un non dichiarato stato d’assedio, controllata notte e giorno da diecimila uomini armati e piena di punti di controllo.
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I parenti delle vittime hanno attaccato dei cartelli alle proprie case, in cui si legge: “Signor presidente, fino a che non troverete gli assassini il colpevole
è lei. Che avrebbe fatto se suo figlio fosse stato fra le vittime?». La rabbia della popolazione, che ha coinvolto tutti gli strati sociali, non deriva soltanto dalle migliaia di morti violente ma anche dagli abusi quotidiani e dagli assalti compiuti dalla polizia ordinaria e dall’esercito.
La lista di coloro che ha subito un’ingiustizia da parte delle forze dell’ordine è pressoché infinita. Oggi la gente del posto ha paura dei trafficanti di droga e degli uomini in uniforme esattamente allo stesso modo. I giovani sono sospettati dalle autorità per il semplice fatto di essere giovani.Vengono fermati nelle strade e minacciati nei punti di controllo. La polizia entra nelle loro case e terrorizza chi ci vi-
Forse è per questo che la maggior parte della popolazione è concorde nel ritenere le forze armate presenti in città inutili nella guerra alla droga; per la gente, sono lì per aiutare qualche cartello contro qualche altro. Questo è quello che dice la gente, e aggiunge che la polizia aiuta il cartello di Juarez, mentre l’esercito sostiene il Gulf. D’altra parte, ogni volta che avvengono questi omicidi sono molto vicini uomini in uniforme; che non intervengono per fermarli, e tanto meno per prevenirli. L’attacco alla “Marcia contro la morte” del 29 ottobre scorso rappresenta un’ulteriore aumento delle violenze contro gli abitanti di Ciudad Juárez. Nella città dei morti senza nome, i cittadini hanno raggiunto il livello massimo di tolleranza nei confronti degli abusi commessi dalle forze di ordine pubblico.è la rabbia di coloro che oggi chiede giustizia diverrà presto un ciclone inarrestabile.
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog LE VERITÀ NASCOSTE
Gli astemi sono meno in salute dei bevitori moderati PARIGI. Una ricerca francese smenti-
tre 30 grammi). Ovviamente, la ricerca si riferisce al consumo occasionali e moderati di alcolici, e non toglie nulle alle conclamate conseguenze dell’abuso di alcool. Viene però smentita la convinzione che l’alcool sia sempre e comunque un “male”, indipendentemente dalla quantità in cui viene consumato, per quanto i ricercatori sottolineino (ci sembra, un po’ anche per evitare possibili polemiche) che il loro studio evidenzia un collegamento statistico tra consumo moderato di alcol e «più bassi rischi cardiovascolari e una migliore condizione sociale e di salute», ma lo studio non aveva lo scopo di indicare un legame casuale, e in ogni caso mettono le mani
sce alcuni luoghi comuni (anche in ambito scientifico) sull’alcool, evidenziando che le persone che bevono alcolici hanno mediamente una salute migliore degli astemi. La ricerca è stata condotta da un gruppo di scienziati francesi, guidati da Boris Hansel dell’ospedale parigino Pitie-Salpetriere, ed è stata pubblicata sull’European Journal of Clinical Nutrition, studiando la salute di oltre 150mila francesi, dividendoli in quattro gruppi a seconda del consumo d’alcol: coloro che non hanno mai bevuto, bevitori occasionali (meno di 10 grammi di alcol al giorno), bevitori moderati (10-30 grammi al giorno) e bevitori abituali (ol-
ACCADDE OGGI
A CHI GIOVA LA CHIUSURA TG REGIONALI? La chiusura dei tg regionali serali della Rai impoverisce il mondo dell’informazione locale e impoverisce la Rai, proprio mentre l’aumentato numero dei canali digitali fa crescere la concorrenza dei privati. In un Paese normale sarebbe illogico, qui ho paura di chiedermi se ci sia una logica dietro.
VDF
LE CONDIZIONI CARCERARIE IN ITALIA La Corte europea dei Diritti dell’uomo ha recentemente condannato l’Italia per trattamenti disumani e degradanti a cui sono sottoposti i detenuti nel nostro Paese.Tutti quelli che pensano che il carcere sia un male necessario sono come coloro che pensavano che era il sole che girava intorno alla terra. Il carcere, in qualsiasi parte del mondo, non dà risposte, il carcere è una non risposta. Non si dovrebbe andare in carcere, ma se ci si va, non si dovrebbe trovare un luogo disumano e fuorilegge, come nelle patrie galere italiane. Un luogo dove le persone vengono rinchiuse come in un canile e spesso abbandonate a se stesse. La pena non dovrebbe produrre vendetta, ma perseguire il fine di riparare e riconciliare. Solo un carcere aperto e rispettoso della legalità potrebbe restituire alla società cittadini migliori. Invece le prigioni in Italia producono solo sofferenza, ingiustizia e nuovi detenuti. Ed è il posto dei poveri, dei tossicodipendenti, degli extracomunitari e degli avanzi della società. Inoltre, per i detenuti sottoposti al regime di tortura del 41 bis, è anche il luogo dove gli esseri umani trascorrono anni e anni della loro vita in un sostanziale isolamento e con una barriera di plastica nelle loro
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
10 novembre 1969 La National Educational Television (che diverrà il Public Broadcasting Service) degli Stati Uniti manda in onda per la prima volta il programma per bambini Sesame Street 1971 In Cambogia, le forze dei Khmer Rossi attaccano la città di Phnom Penh e il suo aeroporto, uccidendo 44 persone e ferendone 30 1975 Italia e Jugoslavia firmano il Trattato di Osimo. 1989 Dopo 35 anni di governo comunista in Bulgaria, Il capo del Partito comunista bulgaro, Todor Zhivkov, viene sostituito dall’ex primo ministro Petre Mladenov che cambia il nome del partito in Partito socialista bulgaro 1995 In Nigeria, l’autore televisivo, romanziere, imprenditore e ambientalista Ken Saro-Wiwa e altri otto attivisti del Movimento per la sopravvivenza del popolo Ogoni (Mosop), vengono impiccati dalle forze governative 2001 Australia: il partito conservatore di Howard vince per la terza volta consecutiva le elezioni
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
avanti sottolineando che lo studio non dovrebbe essere usato come un’evidenza per promuovere l’alcool. Certamente, il dato che “poco alcool non fa male” appare un’evidenza abbastanza incontrovertibile dello studio, dato che i fattori benefici conseguenti o associati al consumo moderato, evidentemente, superano le conseguenze negative.
finestre per impedire loro di vedere il cielo, le stelle e la luna. Il carcere nel nostro paese produce morte ed è altissimo il numero dei detenuti che per non soffrire più, o perché amano troppo la vita, se la tolgono, più di 50 dall’inizio di quest’anno. I sogni nei carceri muoiono. E spesso muoiono prima i prigionieri che riescono ancora a sognare, perché è l’unico modo che hanno per realizzare i loro sogni.
Carmelo Musumeci - Carcere Spoleto
RISCHIO IDROGEOLOGICO, GIUSTIZIA PER VITTIME, RESPONSABILI PAGHINO Ritornano la stagione invernale e il maltempo e riemerge il dramma del rischio idrogeologico che incombe sull’Italia. Ancora vittime, ancora dolore e ancora nessuna soluzione al problema del rischio idrogeologico, che attanaglia l’Italia dalla notte dei tempi senza che nessun intervento radicale sia stato mai messo in atto. I dati diffusi dal Cnr sono impressionanti, in 58 anni 6380 vittime delle frane e 2699 inondazioni. Chiediamo interventi strutturali immediati alle autorità competenti. A queste tragedie puntualmente segue l’apertura di fascicoli di inchiesta che altrettanto rigorosamente si chiudono con un nulla di fatto. Chiediamo giustizia per le vittime: è indispensabile individuare gli enti e anche i soggetti-persone fisiche che hanno il compito di effettuare gli interventi necessari, perché questi dovranno pagare innanzi ai tribunali penali le conseguenze di eventuali negligenze. Solo individuando responsabili ben precisi, che pagherebbero con il carcere la loro inattività, potremo pensare di ottenere dei risultati.
www.icircolidellambiente.it
Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Robert Kagan, Filippo La Porta,
Direttore da Washington Michael Novak
Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,
Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale
Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Collaboratori
Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,
Maria Pia Ammirati, Mario Arpino,
Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,
Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi,
Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,
Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,
Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,
DI IRRESPONSABILITÀ POLITICA Di recente abbiamo assistito a vicende parlamentari legate alla formazione di nuovi gruppi divenuti supporto della attuale maggioranza. L’ argomento ci tocca da vicino anche perché la fonte primaria di provenienza dei parlamentari in oggetto è stata proprio la dirigenza siciliana dell’Udc. Prescindendo da ciò, l’argomento dà la possibilità di riflettere su aspetti più generali. È vero che chi viene eletto in Parlamento non rappresenta né un partito né una porzione di corpo elettorale, ma la Nazione nel proprio insieme e che non esiste vincolo di mandato. Anzi, si può dire che l’assenza di vincolo di mandato sia uno dei cardini su cui ruota il nostro assetto costituzionale. Nel caso dell’inesistenza di un vincolo di mandato, il principale contrappeso è costituito dalla responsabilità politica del parlamentare. Questa si manifesta ogniqualvolta il Parlamentare eletto si presenta di fronte al corpo elettorale per le nuove elezioni. In questo meccanismo ogni posizione assunta in sede parlamentare diviene legittima perché sottoposta alla valutazione del corpo elettorale. A questo punto non può sfuggire che un problema forte da affrontare ci sia: la legge elettorale a liste bloccate attualmente vigente, fra l’altro, annulla la possibilità da parte degli elettori di operare il dovuto controllo, eliminando, di fatto, la responsabilità politica degli eletti di fronte al corpo elettorale. L’esistenza di un peso, l’assenza di vincolo di mandato, senza il relativo contrappeso, dà vita a uno squilibrio notevole che rende di fatto i parlamentari non più rappresentanti dell’intera nazione ma numeri disposti ad appoggiare chi dà loro la miglior convenienza. La soluzione è semplice: è giusto che i rappresentanti eletti agiscano in piena autonomia di coscienza e che il Parlamento sia un luogo di discussione politica; è sacrosanto che le posizioni tenute e le scelte fatte dai singoli parlamentari siano sottoposte, a fine legislatura, al vaglio degli elettori che potranno decidere se accettarle, rinnovando il proprio voto, o meno. È di tutta evidenza quindi come, ancora una volta, ci si ritrovi di fronte la nota problematica legata alla legge elettorale vigente (non a caso definita porcellum) che, deresponsabilizzando la classe politica, diviene dannosa per il Paese. Alberto Evangelisti C O O R D I N A T O R E PR O V I N C I A L E CI R C O L I LI B E R A L AR E Z Z O
APPUNTAMENTI NOVEMBRE OGGI - ORE 20,30 - VERONA - SOCIETÀ LETTERARIA PIAZZETTA SCALETTA RUBIANI, 1- SALA MONTANARI Incontro tra cattolici, ebrei, musulmani “Religioni al confronto: prospettive di dialogo e reciproca comprensione” REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE “VERSO IL PARTITO DELLA NAZIONE” SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)
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PAGINAVENTIQUATTRO Spirito di squadra. I premi Nobel per la Pace assegnano al Divin Codino il “Peace Summit Award” 2010
Roby, Pallone d’oro della SOLIDARIETÀ di Francesco Lo Dico del ’67 Roberto Baggio, ma c’è da supporre che anche per la sua leva calcistica valessero le regole di Nino, quello con le scarpette di gomma dura. Anche lì a Caldogno, dove è nato, dev’esserci stato un ragazzino che sembrava un uomo.Tutti dovettero capirlo abbastanza presto che in quell’ossuto bambino era in sonno il giocatore fenomenale che sarebbe stato. Ma nessuno poteva sapere che quel bambino che sembrava un uomo, sarebbe diventato un giorno ciò che Roby è oggi: un grande uomo che sembra un ragazzino. Lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia, il vero campione. E lui che non ha avuto paura di tirare il calcio di rigore più infausto della nostra storia, uscito dal campo è rimasto ciò che era quando aveva la palla al piede. Un leader silenzioso al servizio degli altri, ma anche un uomo che ha imparato a mostrare le sue debolezze facendone la propria forza.
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Ha vinto numerosi trofei il numero dieci che segnò nel’90 uno dei gol più belli della storia del calcio, ma quello che gli è stato assegnato ieri deve avere per lui un sapore speciale. L’ex calciatore azzurro si è aggiudicato il ”Peace Summit Award 2010”, il premio che annualmente viene assegnato da tutti i Nobel per la pace alla personalità che più si è impegnata verso i più bisognosi. Una specie di Pallone d’oro della solidarietà, insomma. Ancora una volta, come nel ’93, un premio alle prodezze individuali al servizio della squadra. Allora per gioco, e magari per amore della maglia. Oggi per gli assist agli ospedali, agli enti di beneficenza, ai bambini di Haiti, al Nobel birmano San Suu Kyi. Si è speso per anni per decine di gare, Roberto Baggio, titolare inamovibile della squadra sempre più sparuta della solidarietà disinteressata. Domenica, a Hiroshima, il numero dieci ritirerà il premio che è già entrato nel palmarès di Peter Gabriel e Bono Vox, Gorge Clooney e Roberto Benigni. Salirà sul palco caracollando, come un tempo, sulle sue gambe infaticabili di quarantatreenne. Forse dribblerà gli sguardi e qualche invidia, come ai bei vecchi tempi, serpeggierà negli spogliatoi del mondo globale. È dura evitare la metafora calcistica, quando si parla di Roby. Se c’è qualcuno che ha trasformato in un continuum ragioni del campo e ragioni della vita, quello è lui. Baggio ha saputo infilare micidiali contropiede nella metacampo avversaria come nell’area affollata dei detrattori.TecniIn questa pagina, l’ex calciatore della Nazionale, Roberto Baggio, unico giocatore italiano a essere andato a segno in tre mondiali. Impegnato da anni nel sociale,il fantasista di Caldogno è stato premiato con il “Peace Summit Award” 2010
ci burbanzosi, ct impreparati alla sua classe, presidenti che lo hanno dato per finito quattro o cinque volte, critici tromboni: li ha spiazzati tutti a colpi di tunnel e serpentine cecoslovacche, Roby. Ha puntato la porta con la sua classe disumana, e infine ha fatto goal. Sempre al servizio della squadra, ma indocile all’arroganza, il Divin Codino è stato il più amato dei nostri numeri dieci. «I rigori li sbaglia soltanto chi ha il coraggio di tirarli», disse un giorno, quando in troppi gli imputarono la sconfitta di Pasadena. Frase importante, in un calcio che è specchio dei suoi tempi: un mondo pieno di majorettes e veline scontrose, strapagate e insensibili, che rilasciano dichiarazioni aa gettone, che vanno regolarmente «nella squadra che hanno sempre sognato da piccoli». Roby no. Appena acquistato dalla Juve, si scrollò di dosso davanti a tutti la sciarpa bianconera che lo aveva avvoltolato in un altro destino lontano da Firenze. Si è sempre fatto carico degli errori, Baggio, ma è sempre stato orgoglioso nel rivendicarli, come un uomo coraggioso deve fare quando la sorte mette lo zampino nel lavoro di una vita, nelle corse e nei ritiri, nei lampi di classe che ti portano in finale. È di un’al-
Come nel ’93, un premio alle prodezze individuali al servizio della squadra. Allora per gioco, oggi per gli assist a ospedali, enti di beneficenza e bambini di Haiti che hanno perso tutto dopo il sisma tra pasta, Roby, che ancora rimpiange il suo quarto mondiale. Quello che non ci fu mai. «Era sacrosanto. Per la carriera che avevo avuto ne avevo diritto. Dovevano darmi quell’occasione... Anche se fossi stato in carrozzella mi dovevano portare», ha detto. Passione ininterrotta per il calcio, ma non esclusiva.
Anche oggi che è ripresa la sua storia con la nazionale, Roby ci riprova a bordo campo, dopo tre mondiali, zero sconfitte e nessuna Coppa del mondo. È questo il paradosso di un campione senza trono, che però dall’amaro fiele della sconfitta, ha cavato la terapia del dono. «Ho accettato per amore, non prendo un euro, se mi accorgessi che non ho niente da fare, come sono venuto me ne andrei. Sono già scomparso una volta. E non ho provato dolore». Pensi ai bambini di Haiti che scalciano una palla di stracci e quasi sei contento che abbia smesso. Roby, leva calcistica del ’67, si è portato via dal campo, insieme alle scarpette, tutto ciò che gli serviva: il coraggio e l’altruismo da regalare a tutti loro. A tutti quei Nino del mondo, che un giorno non saranno Roberto Baggio.