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ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • SABATO 13 NOVEMBRE 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
In arrivo due mozioni parallele: Pd e Idv preparano quella contro; il Pdl ne presenta una a favore
Il drammatico dubbio della Lega Amleto a Pontida: o fedeli a Silvio, o il federalismo con un altro premier Accodarsi a Berlusconi significa rinunciare alla grande riforma. Viceversa, per ottenerla, deve accettare un nuovo governo ora o dopo le elezioni. In ogni caso, il Cavaliere è un ostacolo... TEMPO DI BILANCI
UN PAESE SPACCATO
Dietro al tramonto di un uomo c’è la fine del bipolarismo
A Pompei è crollata anche la filosofia del Senatùr
di Savino Pezzotta
di Enrico Cisnetto
ira un’aria malsana, pesante ed urticante in Italia. Le vicende drammatiche che hanno colpito il Veneto avrebbero dovuto unire il Paese in un moto di solidarietà, come successe - quando eravamo poveri e un poco più italiani - con il Polesine negli anni ’50. In quest’occasione si è partiti tardi e si sono pronunciate parole che non hanno contribuito alla vicinanza con le popolazioni, le città e i territori colpiti. Si è giustamente sottolineata la capacità di reazione dei veneti, la loro volontà di ripartire e di rimuovere il fango.
ltro che lo scontro FiniBerlusconi e la crisi di governo incombente. Le nuove emergenze, l’alluvione in Veneto e il disastro di Pompei, stanno creando conseguenze politiche ben più profonde. Non solo perché ancora una volta si ripropone la frattura Nord-Sud che da troppo tempo avvelena l’Italia e rischia di mettere in crisi l’unità nazionale. Ma anche e soprattutto perché mostra con tutta evidenza, anche ai ciechi, il fallimento di quel sistema di governance che – impropriamente – abbiamo fin qui chiamato federalismo.
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La crescita ha frenato di colpo: il Pil è a +0,2%. La frattura tra il Centro-Nord e il Sud è sempre più profonda
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Ritratto dell’uomo che ha conquistato il G20
Mario Draghi, l’italiano del momento I grandi riuniti a Seoul hanno accettato le sue raccomandazioni e hanno votato la sua riforma; in Europa c’è chi lo vuole al vertice della Bce; da noi si parla di lui come di un possibile nuovo premier: in questi giorni, il governatore di Bankitalia è l’italiano più conteso di tutti
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Solo mezza Italia sta uscendo dalla crisi
Enrico Singer • pagina 4
Polillo • pagina 10
Incubo Irlanda sul futuro dell’Europa Dopo il caos greco, un’altra incognita pesa sulla stabilità dell’area Ue. Ormai Dublino è sull’orlo del baratro tra debiti e mattoni Pacifico • pagina 24
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La leader della Lega per la democrazia ha trascorso 15 anni ai domiciliari
Suu Kyi, il giorno della libertà
Ravasi: «Il Vangelo? Mettiamolo sull’i-pod» «Dobbiamo tornare a gridare il nostro messaggio dai tetti»: parla il presidente del Pontificio Consiglio per la cultura
Rangoon annuncia la scarcerazione, opposizione in festa di Vincenzo Faccioli Pintozzi
Riuniti a Hiroshima contro le armi atomiche
arà probabilmente oggi, il giorno migliore della Birmania. Dopo 21 anni di assenza dalla scena pubblica, di cui 15 trascorsi agli arresti domiciliari, Aung San Suu Kyi potrebbe tornare in libertà. Le voci di una sua liberazione si erano già sparse da un mese, anche se rimanevano dubbi sulla loro veridicità: ieri, invece, il generalissimo Than Shwe ha firmato il decreto di scarcerazione che, verso mezzogiorno, è stato consegnato alla donna. a pagina 26
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seg1,00 ue a p(10,00 agina 9CON EURO
E i Nobel per la pace vogliono libero Liu di Massimo Fazzi
Fabiani • pagina 8
Melograni Ottanta La storia rovesciata
Nobel per la Pace, che come ogni anno si sono riuniti per discutere di un mondo senza armi nucleari, hanno chiesto libertà per Liu Xiaobo e applaudito la scarcerazione di Aung San Suu Kyi. I due sono gli unici detentori del Premio in galera, anche se in passato ci sono stati quasi tutti. a pagina 26
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I QUADERNI)
• ANNO XV •
NUMERO
221 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
Compie ottant’anni il grande studioso che ha rovesciato tutti i peggiori luoghi comuni del Novecento degli italiani Mecucci • pagina 30 19.30
prima pagina
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il fatto Mozioni parallele: Pd e Idv presentano quella contro il premier; il Pdl ne ha depositata in Senato una a favore dell’esecutivo
Pontida, ultima chiamata Puntare su un nuovo governo per fare il federalismo o restare attaccata alla crisi di Berlusconi: la Lega non sa da che parte stare di Errico Novi
ROMA. Tra i messaggi recapitati a Bossi, uno porta in calce l’autorevole firma di Luciano Violante, intestatario della sola bozza di riforma costituzionale tuttora disponibile in Parlamento. «Anche la Lega deve fare un ragionamento su un nuovo governo che realizzi le riforme», dice il responsabile del Pd per le questioni istituzionali, «e tra quelle in agenda non va dimenticata la creazione di un Senato federale». Utile pro memoria. Perché nella legislatura degli scandali e delle contese personali, ci si è dimenticati che, in quella bozza Violante approvata a Montecitorio sul finire dell’era Prodi, c’era appunto la revisione della Camera Alta. Insieme alla riduzione del numero dei parlamentari, al superamento del bicameralismo perfetto e così via. Bene, ora il tessitore di quel testo miracolosamente condiviso – e lasciato in-
giallire – ricorda che «se si va a votare la Lega continua a non avere il Senato federale, punto essenziale del federalismo».
È un offerta da non sottovalutare. Una cosa è, per la Lega, intestardirsi nel confidare che la prossima volta, quella sì, Berlusconi sarà davvero in grado di assicurare la riforma federale; altro è disporre in questa stessa legislatura di un governo capace di condurre in porto la delega sul federalismo fiscale e di un Parlamento in grado addirittura di intervenire sulla Costituzione. Anche perché se questo avvenisse, non ci sarebbe più nessuno interessato un domani ad abrogare il tutto per via referendaria. La clausola Violante è solo il suggello d’altronde di un negoziato più ampio già all’attenzione di Bossi. Mentre si consumano le schermaglie preliminari alla caduta
dell’attuale esecutivo (con Pd e Idv che presentano la mozione di sfiducia alla Camera sollecitando Fini a votarla, e il Pdl che al Senato ne deposita una a sostegno del governo Berlusconi) i leghisti hanno davanti una curiosa alternativa. Il tema è sempre lo stesso, incassare il federalismo, ma considerato il margine di tenuta ormai minimo dell’esecutivo attuale, in entrambi i casi Bossi finirebbe per ottenere l’ok definitivo alla riforma da altri interlocutori, non dal Cavaliere.
Se infatti non si scivolasse verso le elezioni anticipate, sarebbe un nuovo governo, presieduto magari da Tremonti, a completare il federalismo fiscale. Ma anche se si tornasse alle urne entro la prossima primavera, accadrebbe probabilmente la stessa cosa: la coalizione Pdl-Lega avrebbe notevoli chances di vincere alla Camera, quasi nessuna di ottenere la maggioranza assoluta a Palazzo Madama. A quel punto sarebbe di fatto inevitabile l’indicazione di un pre-
mier diverso da Berlusconi, in grado di ottenere un consenso più ampio. A Bossi tocca dunque la scelta: seguire Berlusconi nel liquidare l’attuale legislatura o risolvere subito la questione del federalismo. L’alternativa è ben chiara ai vertici padani. Spiega una fonte vicina al Senatùr: «A noi non interessa avere un presidente del Consiglio diverso da Berlusconi, con il Parlamento attuale. Ma è anche vero che non siamo disposti a seguirlo in qualsiasi disavventura. Se nei prossimi mesi sul Cavaliere piovessero nuovi guai giudiziari, noi non potremmo farci nulla».
In termini ancora più chiari: «Se dopo le elezioni non ci fosse una maggioranza chiara al Senato, e Berlusconi fosse costretto a fare un passo indietro, noi andremmo avanti». Lealtà, d’accordo. Ma non al punto da sacrificare la «ragione sociale» del partito in nome del Cavaliere. Solo che la scelta, a Bossi, si presenta già ora, con un certo anticipo sui tempi. E va considerato
il deteriorarsi dei rapporti all’interno della maggioranza attuale. Tra le proposte avanzate dal Senatùr a Fini c’è anche l’avvicendamento dei ministri ex An che non hanno seguito il presidente della Camera, La Russa e Matteoli. Sfumatura che non ha lasciato indifferente il responsabile della Difesa. Non a caso è quest’ultimo a insistere, come ha fatto ieri, su «un allargamento della maggioranza che può riguardare ovviamente solo l’Udc». È proprio la soluzione che Bossi dice di non gradire, e non può essere un caso che a riproporla sia proprio uno dei possibili “sacrificati”.
A tutto questo va aggiunto il disappunto del Cavaliere per l’eccessiva libertà d’azione che Bossi si sarebbe autoattribuita nella mediazione con Fini. Se il premier al telefono con i suoi, giovedì pomeriggio, è arrivato a evocare la «guerra civile» pur di non considerare l’ipotesi del Berlusconi bis, va detto che il Carroccio continua a non ritene-
l’analisi La grandezza di un leader sta anche nella sua capacità di lasciare il potere senza fare danni
Lasciamo il bipolarismo o il Paese non si riprende
Pd e Pdl devono capire che, al di là della crisi sempre più grave di questa maggioranza, un’intera stagione politica è finita di Savino Pezzotta ira un’aria malsana, pesante ed urticante in Italia. Le vicende drammatiche che hanno colpito il Veneto avrebbero dovuto unire il Paese in un moto di solidarietà, come successe quando eravamo poveri e un poco più italiani - con il Polesine negli anni ’50. In quest’occasione si è partiti tardi e si sono pronunciate parole che non hanno contribuito alla vicinanza con le popolazioni, le città e i territori colpiti. Si è giustamente sottolineata la capacità di reazione dei veneti, la loro volontà di ripartire e di rimuovere il fango. Questa sottolineatura tuttavia non sempre ha cercato di valorizzare lo spirito civile delle popolazioni ma ha quasi segnato separatezza. Ci siamo chiesti in molti dove fosse lo Stato e la solidarietà nazionale di fronte a una tragedia che si palesa sempre più grave per le perdite umane, economiche, materiali e ambientali. Non voglio entrare nella polemica o puntare il dito.Voglio solo evidenziare la sensazione di essermi trovato d’innanzi ad una separatezza forse difficile da superare. A visionare la situazione è arrivato un Bertolaso dimissionario, il Presidente del Consiglio che sul volto mostra tutte le sue difficoltà e il ministro Bossi, quasi a segnare una forma di protettorato politico sul territorio e sul Governo. In queste ore il Presidente della Repubblica sembra essere l’unica figura che si erge di fronte ad un Paese che sta franando, e non solo sul piano idrogeologico.
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re chiusa la trattativa su questo punto. Nel pomeriggio di ieri, quando il presidente del Consiglio non ha ancora fatto rientro da Seoul, arriva una sorprendente nota di Calderoli. Vi si legge, certo, che «nessuno pensa o ha mai pensato, come soluzione alla crisi, a maggioranze diverse da quelle uscite dalle urne nell’aprile del 2008 o a governi non presieduti da Silvio Berlusconi», e già questa sembra un’excusatio non paetita. Poi vi si aggiunge: «Chi pensa, scrive o sostiene che l’incontro avvenuto ieri a Montecitorio tra Umberto Bossi e Gianfranco Fini rappresenti un fallimento non sa neppure di che cosa si sta parlando». La partita sarebbe tutt’altro che archiviata, fa intendere il vertice leghista.
Anche se il timing della crisi sembra addensarsi a un ritmo ormai incontrollabile. Martedì si terrà la conferenza dei capigruppo a Montecitorio che, con il presidente Fini, dovrà decidere sulla data della mozione Pd-Idv. Il segretario dell’Udc Lorenzo Cesa chiarisce che sull’iniziativa di democratici e dipietristi vale il patto di consultazione con Futuro e libertà. Pier Ferdinando Casini aggiunge che «il Berlusconi bis è un’ipotesi inesistente», raggelando gli ottimisti della maggioranza. Quella dei lumbàrd, e la stessa nota di Calderoli, pare più una precisazione irritata da recapitare agli alleati. È vero, Giulio Tremonti, come dice un berlusconiano di rango, «non ha interesse a bruciarsi adesso le proprie chances». Ma ora il pallino, più che nelle sue mani, è in quelle del suo principale sponsor, cioè di Umberto Bossi.
Il Governo si regge su un filo sottilissimo e con eccesso di movimenti tattici, è scosso da troppe questioni estranee alla dimensione pubblica che, pur essendo“private”ma di un uomo pubblico, non possono che incidere sulla funzione istituzionale. L’economia soffre, l’occupazione non riprende, i giovani non trovano un’occupazione decente e le donne vanno a ingrossare le aree del non lavoro. A Milano si celebrano le giornate della famiglia ma è sempre più evidente la fatica a far quadrare i conti della vita quotidiana. La protesta operaia si manifesta fuori dai canoni tradizionali e sale sulle gru, sui tetti dei capannoni e delle fabbriche. Gli immigrati, venuti da noi con un grosso carico di speranze, non possono fare altro che imitare, come sta succedendo in questi giorni a Brescia. Ecco l’immagine vera del Paese. L’ansia sociale aumenta, invade la nostra vita quotidiana, dà luogo al mugugno diffuso, alla disaffezione e al rifiuto della politica. Un tempo la protesta sociale si colorava di politica; oggi si manifesta nel disimpegno e in una critica radicale verso tutto quanto possa mi-
nimamente odorare di politica. Dietro a questo sentire si nasconde la perdita di fiducia e di speranza.Viviamo in una società che sembra scoraggiata, che sta perdendo il gusto di sognare e di lottare per migliorarsi, quasi che si viva alla vigilia di una resa. Si concentra lo sguardo sul presente, intimoriti dalla sua proiezione sul futuro, come se il tempo fosse diventato corto, troppo corto per consentire di pensare in grande. Eppure ci sono in Italia risorse e potenzialità che attendono solo di essere espresse.
Le vicende venete con il loro carico di dolore, di distruzione, evidenziano lo scontento, il disagio e le inquietudini delle regioni del nord ma anche le potenzialità di una società civile in grado di reagire. Per cogliere quanto si nasconde dietro il disagio e la disaffezione servirebbe un discorso politico,
All’Italia, oggi, servirebbe quello che nei tempi antichi si chiamava «uno scatto d’orgoglio»: solo con un atto di rottura si potrà ripartire una narrazione nuova, attenta, profonda, dallo sguardo lungo, capace di mobilitare tutte le risorse etiche che possediamo e che non sono poche. Quando un ciclo politico ha concluso la sua parabola ascendente - ed è questa la situazione in cui si trova Berlusconi - attardarsi a discutere se bisogna allargare o meno la maggioranza di Governo, è porsi fuori dal contesto reale e dai veri bisogni del Paese a cui non servono solo interventi concreti, ma una stagione di riforme e una prospettiva politica, un disegno che faccia sperare o che per lo meno freni e respinga l’avanzare dell’apatia sociale, che è il vero pericolo per la nostra democrazia. In questi giorni di crisi si moltiplicano gli appelli autorevoli del mondo cattolico, di quello laico, della cultura e di settori dell’economia perché si affrontino le questioni vere del Paese. Non c’è tempo da perdere e una crisi politica oggi sarebbe disastrosa quanto il ricorso alle elezioni. Condividiamo nella sostanza e nel valore questi appelli ma rimarchiamo che il loro limite è quello di dimenticare la questione politica del momento: la crisi di un modello il bipolarismo con vocazioni maggioritarie - e di una proposta politica che ha dominato, direttamente o indirettamente, la scena pubblica in questi ultimi quindici anni e che si è coagulata attorno alla figura di Silvio Berlusco-
ni. È di questa situazione, piaccia o no, che si deve prendere atto per affrontarla con attenzione, prudenza, determinazione, evitando ogni demonizzazione, ogni giudizio sommario, ma senza fare sconti, se non si vuole che il mondo vero della politica e dei problemi diventi una favola e tenda a concentrarsi solo sull’apparenza.
Le vicende venete ci spingono a guardare con attenzione a quanto avviene ed è avvenuto al Nord per capirne la profondità dei mutamenti. L’Italia, a differenza di altri Stati europei, è sempre stata una nazione plurale polarizzata sulla dicotomia nord- sud. Non è, come si sente dire in questi giorni, un paese duale, ma plurale, che nella sua dimensione unitaria contiene forti differenziazioni che attraversano e articolano anche le due polarità. La pluralità è la vera cifra interpretativa del nostro Paese.Vent’anni e oltre di cultura liberista e la crisi economico-produttiva hanno arato e trasformato la nostra società in tutti i suoi ambiti; hanno mutato il modo di pensare, i costumi, le relazioni tra le persone, i ceti e le classi sociali, fatto crescere una cultura nuova del lavoro e dell’intraprendere e hanno globalizzato le relazioni sociali, economiche e culturali, facendo acquisire alle regioni cisalpine una dimensione sempre più europea e internazionalmente interdipendente Per questo mi hanno stupito le affermazioni su Pompei del Presidente della Regione Veneto, Zaia. Mi sono sembrate incapaci di cogliere questa pluralità, le trasformazioni in atto e la capacità di avere una visione complessa delle situazioni e del loro intrecciarsi. Nessuno dubita che oggi la priorità sia soccorrere le persone vittime dell’alluvione, ma Pompei e il patrimonio culturale italiano potrebbero, se ben gestiti, essere una leva dello sviluppo futuro. Più che prendersela con Pompei, il Presidente della Regione Veneto avrebbe dovuto avere il coraggio di leggere analogicamente la situazione e vedere che tra il fango del veneto e il crollo della casa dei Gladiatori - fatto salvo l’imponderabile che sempre agisce - c’è una continuità nell’incuria, nel non governo. Le responsabilità non possono sempre essere assegnate a chi c’era prima. Sono passati tanti anni e altri hanno avuto in mano il potere ed è quindi necessario vedere, insieme alla responsabilità degli uomini, i limiti strutturali di un modello politico che non consente di governare anche se fa vincere le elezioni. All’Italia oggi servirebbe quello che nei tempi antichi si chiamava “uno scatto d’orgoglio”. Nel momento in cui c’è urgenza di responsabilità e coraggio, serve solo a far crescere l’apatia rimanere abbarbicati al potere, non voler dare uno sbocco propulsivo, perdersi nelle piccole tattiche del giorno per giorno, nelle ripicche e nelle polemichette da studentelli di periferia. La grandezza di un politico non sta solo nel sedersi sullo scranno più alto ma, tante volte, nello scendere senza fare danni. È quello che ci attendiamo da Berlusconi.
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il personaggio della settimana Ritratto dell’unico uomo che ha messo d’accordo i leader del G20 in Corea del Sud
Tempo da Draghi A Seoul i grandi hanno votato la sua riforma; in Europa c’è chi lo vuole al vertice della Bce; da noi si parla di lui come di un possibile nuovo premier: il Governatore di Bankitalia è l’italiano più conteso del momento di Enrico Singer unico accordo uscito dal vertice del G20 è merito suo. E toccherà sempre a lui, come presidente del Financial stability board, completare entro la metà del prossimo anno la lista delle banche too big to fail, quelle troppo grandi per fallire, quelle che potrebbero mettere a rischio tutto il sistema finanziario internazionale se finissero in rosso e che, per questo, dovranno essere oggetto di una regolamentazione rafforzata in termini di capitale e di liquidità. Per Mario Draghi è un altro successo. Anche se, fedele al suo stile sempre rigoroso, partendo da Seoul, ha detto che «siamo soltanto a metà strada perché ora bisogna tradurre le nuove regole in leggi». Già, il rigore è una dote che gli riconoscono amici ed avversari. Ma se lui rimane come al solito di ghiaccio, questo ennesimo punto messo a segno nel tempestoso ring dello scontro economico-finanzario mondiale è già entrato nel borsino dei possibili successori di Silvio Berlusconi facendo volare in alto le sue azioni nei panni di capo di un governo tecnico. O meglio, di responsabilità nazionale, perché la fase che sta attraversando il Paese richiede una forte dose di serietà. Draghi come Carlo Azelio Ciampi nel 1993, insomma. Allora c’era da portare l’Italia nell’euro vincendo le resistenze di Germania e Francia; oggi c’è la necessità di riconquistare credibilità in Europa, e non solo. Il passaggio da Palazzo Koch, sede di Bankitalia, a Palazzo Chigi è un’ipotesi che proprio il precedente di Ciampi in una situazione che per molti versi era simile - sembrerebbe corroborare. Ma
L’
una cosa è certa: non sarà Mario Draghi ad alimentare le voci del totonomine che si rincorrono nei corridoi della politica. La vicenda di un’altra sua candidatura eccellente - quella a futuro presidente della Bce - lo dimostra. È da un anno, quasi, che il suo nome circola nel grande risiko della successione ormai imminente a Jean-Claude Trichet. La poltronissima della Banca centrale europea si libererà alla fine del 2011, ma è entro il prossimo mese di giugno che va fatta la scelta da parte dei capi di Stato e di governo della Ue. Angela Merkel vuole imporre l’attuale governatore della Bundesbank, Axel Weber, rivendicando il diritto a una specie di staffetta tra i big d’Europa: un tedesco dopo un francese. Ma Nicolas Sarkozy non ha ancora dato il suo assenso. E anche in questo caso, le azioni di Dragi hanno preso forza. Ma, anche in questo caso, la linea del governatore segue il più assoluto riserbo.
Fin da ragazzo è abituato alle sfide, a una vita concentrata su obiettivi non facili da raggiungere e ha fatto dell’understatement, della moderazione combinata con una sobrietà quasi ostentata, le sue armi migliori per centrare i risultati. Senza clamore. Ma con una lunga, inarrestabile scalata. Negli anni ’70, all’università, è allievo prediletto di Federico Caffè, col quale si laurea in economia. Studia e insegna nei migliori campus americani e consegue un Ph.d in economia presso il Massachussetts Institute of Technology. Dal 1981 torna in Italia e insegna all’università di Firenze. Alla fine degli anni ’80 diventa consigliere economico del ministro del Tesoro Giovanni Goria, che lo designa a rappresentare l’Italia negli organi di gestione della Banca mondiale. Draghi comincia così a tessere i suoi forti legami internazionali e interni. Nel ’90 è consulente proprio della Banca d’Italia con Ciampi governatore. Nel 1991 diventa direttore generale del Tesoro. Al suo nome si lega anche il nuovo testo per la finanza societaria,che passa alla storia, appunto, come Legge
Draghi. In sostanza, per dieci anni, fino al 2001, resta nella torre di controllo della finanza nonostante la giostra di ministri e di governi: dal quello di Andreotti, che lo nominò la prima volta, a quelli Amato, Ciampi, Berlusconi, Dini, Prodi, D’Alema, ancora Amato e ancora Berlusconi. Più di una volta avrebbe potuto vantarsi di avere scritto un pezzo della storia economica d’Italia: dalle privatizzazioni che hanno cambiato il volto del capitalismo nazionale all’ingresso nel ristretto club dell’euro. Ma non lo ha mai fatto. È romano, ma non ha mai frequentato i salotti alla moda della capitale. Nel calcio tifa per la Roma, però nessuno lo ha mai visto nella tribuna vip dell’Olimpico. Non si è mai esposto ai pettegolezzi o agli scatti dei fotografi nei ristoranti famosi. Per festeggiare la laurea del figlio Giacomo all’università Bocconi, ha scelto una normale pizzeria milanese. Ama giocare a tennis, fare jogging e, da qualche tempo, si è appassionato anche al golf, ma nessuno lo ha mai notato nei soliti circoli esclusivi. Per rimanere nella sfera del privato - che nelle biografie ufficiali quasi non appare, schiacciata com’è dal suo ruolo pubblico - Mario Draghi, 63 anni compiuti il 3 settembre scorso, è un amante delle arrampicate sulle Dolomiti. E, soprattutto, della sua famiglia: la moglie Serena conosciuta ai tempi del liceo nel 1966 e sposata nel 1973 - Serenella per i pochi fidati amici - e i due figli, entrambi trentenni. Oltre a Giacomo, la primogenita Federica che ha scelto di fare la biologa e che è nata a Boston perché con Serenella, e poi con i figli, Mario Draghi ha condiviso tutte le tappe della sua formazione - il Mit di Boston, appunto, e la City di Londra - e dei suoi impegni di lavoro: da Roma a Washington e di nuovo a Roma dove la loro casa si apre a una ristretta compagnia nel giorno del Ringraziamento, la festa americana del Thanksgiving day, che è entrata nella tradizione della famiglia Draghi dai tempi della permanenza negli States. Mario e Serenella si sono conosciuti quando non avevano ancora vent’anni durante una
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vacanza lungo la riviera del Brenta, nella villa che Carlo Draghi il padre dell’attuale governatore - anche lui lavorava in Bankitalia - aveva acquistato nel centro di Stra, proprio dietro la chiesa. È grazie a quella villa che il romano Mario Draghi è diventato un po’ veneto: mesi di vacanza, di amici e l’incontro con Serena che veneta lo è davvero, di Noventa Padovana, discendente di una nobile famiglia veneziana. Appena un anno prima, nel 1965, Mario Draghi aveva superato la maturità classica all’Istituto Massimo, la severa
di righello sulla cattedra gli ultimi cinque minuti utili per consegnare il compito in classe. E pare che Draghi, per evitare questo supplizio, divenne il migliore nella materia.
Ma è la biografia pubblica quella che più conta adesso. È vero che, per il momento, è soltanto un esercizio teorico, ma nelle più recenti prese di posizione del governatore si può leggere un vero e proprio programma di governo. Dalle Considerazioni Finali pronunciate all’Assemblea di Bakitalia il 31 maggio
Un passato da docente universitario e un presente fatto di abitudini sobrie e riservate, senza mai ostentare potere o amicizie scuola dei Gesuiti, erede di quel Collegio Romano che il Regno d’Italia espropriò ai padri di Sant’Ignazio, nel 1870, trasformandolo nel laico liceo Visconti. Al Massimo, Mario Draghi fino al quinto ginnasio studiò in classe con Luca Cordero di Montezemolo che, poi, si trasferì al Morosini di Venezia. Su quegli anni c’è una leggenda che spiegherebbe le sue grandi capacità nel far di conto che lo hanno molto facilitato nella successiva attività di economista. Il professore di matematica era il temutissimo Eraldo Tani che ossessionò generazioni di massimini ritmando a colpi
scorso, alla lectio magistralis che ha tenuto appena una settimana fa all’università di Ancona in ricordo dell’economista Giorgio Fuà, l’analisi dei problemi e le proposte di soluzione sembrano una specie di “controfinanziaria”. Draghi ha detto che l’Italia ha «subito una evidente perdita di competitività rispetto ai principali partner europei». Tra il 1998 e il 2008 - nei primi dieci anni dell’Unione monetaria - il costo del lavoro nel settore privato è aumentato del 24 per cento in Italia, del 15 in Francia e in Germania è addirittura diminuito. Altro tema chiave: la necessità di una stabi-
lizzazione dei precari, anche questa indispensabile per evitare un ulteriore calo della produttività: «Nel mercato del lavoro - ha detto Mario Draghi ad Ancona - il dualismo si è accentuato. Rimane diffusa l’occupazione irregolare, stimata dall’Istat in circa il 12 per cento del totale delle unità di lavoro e senza la prospettiva di una pur graduale stabilizzazione dei rapporti di lavoro precari, si indebolisce l’accumulazione di capitale umano specifico, con effetti alla lunga negativi su produttività e profittabilità». L’altra grande priorità d’intervento del governo dovrebbe essere la questione fiscale. Nelle Considerazioni Finali del 31 maggio, l’evasione è stata definita «vera macelleria sociale» e, in una occasione informale, Draghi ha ribadito che il carico del Fisco è «distribuito in modo criminalmente diseguale». Il primo punto, quindi, è far pagare le tasse a chi non le paga, anche perché il governatore è convinto che la dimensione dell’imponibile sottratto alle casse dello Stato rende l’Italia pericolosamente simile a Grecia e Portogallo. Nella testa - e nei testi - di Draghi è chiaro come procedere: si fa pagare di più chi non paga per ridurre subito le aliquote, «e il nesso tra le due azioni va reso visibile ai contribuenti», ha detto nelle Considerazioni Finali.
È in quel documento che Draghi ha parlato per la prima volta in modo esplicito del problema delle «relazioni corruttive tra soggetti privati e amministrazioni pubbliche, talvolta favorite dalla criminalità organizzata». Una frase che ha fatto pensare agli appassionati in dietrologia a un’allusione alla “cricca” degli appalti con la vicenda che, proprio in quei giorni, dominava le cronache con le accuse a Guido Bertolaso e Angelo Balducci. Ma quelle parole si potevano adattare, secondo alcuni, anche alla cosiddetta P3, l’alleanza occulta tra faccendieri e uomini di governo. Uno di questi, il coordinatore del Pdl, Denis Verdini, era il presidente del Credito cooperativo fiorentino che Bankitalia ha commissariato per gravi
Dalla Banca Mondiale al Tesoro Mario Draghi è nato a Roma, il 3 settembre del 1947. Dal 16 gennaio 2006 è Governatore della Banca d’Italia. Nel 1970 ha conseguito la laurea in Economia presso l’Università La Sapienza di Roma, avendo come relatore il Professor Federico Caffè. In seguito ha continuato gli studi presso il Massachusetts Institute of Technology con Franco Modigliani e Robert Solow, ottenendo il PhD nel 1976. HA insegnato alle università di Trento, Padova, Ca’ Foscari di Venezia e presso la Facoltà di Scienze Politiche ”Cesare Alfieri”dell’Università di Firenze. Dal 1984 al 1990 è stato direttore esecutivo della Banca Mondiale. Nel 1991 viene nominato Direttore generale del Tesoro, incarico mantenuto fino al 2001 fra l’alternarsi di 10 governi. Dall’aprile del 2006 è Presidente del «Financial Stability Forum».Tale organismo, divenuto Financial Stability Board nell’aprile 2009 su mandato del G20, riunisce rappresentanti dei governi, delle banche centrali e delle autorità nazionali di vigilanza sulle istituzioni e sui mercati finanziari, di istituzioni finanziarie internazionali, di associazioni internazionali di autorità di regolamentazione e supervisione e di comitati di esperti di banche centrali.
irregolarità nell’amministrazione. Ma queste sono soltanto illazioni. I fatti che restano nero su bianco sono le proposte per un maggior rigore nei conti pubblici. Mario Draghi non si è mai dimenticato di un suo viaggio nell’allora Jugoslavia alla fine degli Anni Ottanta, quando lavorava per la Banca mondiale. Il ministro del Tesoro bosniaco gli spiegò che non si preoccupava di avere un bilancio in deficit perenne perché tanto i titoli di Stato della Bosnia li comprava la Slovenia. Un po’ come se la Campania acquistasse titoli di debito emessi dalla Lombardia. Un trucco contabile. Ecco, allora, che la missione indicata da Draghi al governo - o, magari, quella che metterebbe in pratica se davvero dovesse prendere il posto di Berlusconi - è: risanamento subito. E c’è chi dice che un eventuale governo Draghi potrebbe trovare l’appoggio perfino della Lega. Perché il governatore non è contro il federalismo, anche se tutto dipende da come si fissa il parametro su cui calcolare i trasferimenti dallo Stato alle Regioni. In un famoso convegno del 2009, poco gradito da Giulio Tremonti, Draghi ha detto che bisogna finirla con piani straordinari e istituzioni ad hoc, come la tremontiana Banca del Mezzogiorno. Meglio concepire «politiche generali, che hanno obiettivi riferiti a tutto il Paese, e concentrarsi sulle condizioni ambientali che rendono la loro applicazione più difficile o meno efficace in talune aree». Ma se queste sono le linee di quella che è stata definita la “controfinanziaria” di Draghi, restano molti interrogativi più politici: a partire dalla sua opinione su come modificare la legge elettorale, che nessuno conosce, e che potrebbe essere uno dei compiti più delicati del nuovo esecutivo.
diario
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La polemica. Per funzionare, questo sistema deve imporre una forma di egoismo che annulla l’Unità di Italia
A Pompei è crollato il federalismo Ormai la cultura populista ha fatto fiorire mille localismi deleteri ltro che lo scontro FiniBerlusconi e la crisi di governo incombente. Le nuove emergenze, l’alluvione in Veneto e il disastro di Pompei stanno creando conseguenze politiche ben più profonde. Non solo perché ancora una volta si ripropone la frattura Nord-Sud che da troppo tempo avvelena l’Italia e rischia di mettere in crisi l’unità nazionale. Ma anche e soprattutto perché mostra con tutta evidenza, anche ai ciechi, il fallimento di quel sistema di governance che - impropriamente - abbiamo fin qui chiamato federalismo. Cosa di cui bisognerebbe tenere in massimo conto nel momento in cui ci si appresta ad entrare in una fase politica di transizione che ci dovrebbe portare alla Terza Repubblica. Prendiamo le due emergenze, ed invece di usarle come strumento di sociologia - quasi sempre di terz’ordine - come ho visto fare dai media in questi giorni, guardiamone le responsabilità e incrociamo il tutto con la constatazione che o non ci sono o sono spese male le risorse per fronteggiarle. Partiamo dall’alluvione che ha coinvolto le province di Padova,Treviso,Verona e Vicenza. Si dirà: una delle tante. Vero, l’elenco è talmente lungo e gli episodi talmente ricorrenti che continuare a definirle “emergenze”è ipocrita.
A
Le alluvioni e le altre forme di dissesto idrogeologico in Italia sono ormai ordinaria amministrazione. Ogni volta si stanziano soldi per tamponare la situazione e riparare i danni - peraltro soldi insufficienti e che per di più spesso rimangono sulla carta - ma mai s’investe nella prevenzione. Ma a chi spetta la cura del territorio se non ai diversi gradi degli enti locali, elettivi e indiretti? In questi anni di Seconda Repubblica, dopo aver demonizzato il vecchio centralismo ci siamo illusi che il superamento della teorizzata dicotomia, o comunque del distacco, tra società civile, ceto politico e istituzioni, stesse nel progressivo decentramento dei poteri e dei capitoli di spesa pubblica. Il tutto auspice la Lega, che su questo assioma – cattiva politica=centralismo romano, buona politica-consenso=federalismo-localismo – ha costruito il suo successo, e complice l’intero sistema politico che le è andata die-
di Enrico Cisnetto
tro, a cominciare da Berlusconi che dell’alleanza con Bossi ha fatto il suo benchmark e dal centro-sinistra che nel 2001 ha varato una sciagurata riforma del titolo V della Costituzione contenente demenziali devoluzioni di poteri. Risultato: da un lato sono aumentati i costi della macchina politico-amministrativa e dei servizi erogati (nel migliore dei casi a parità di quantità e qualità di essi), così come si è moltiplicato il contenzioso tra centro e periferia e si sono diffusi in modo abnorme i diritti di veto anche su questioni, in primis le infrastrutture, di valenza nazionale o addirittura internazionale (per esempio, il corridoio 5); dall’altro, è cresciuta a dismisura la dimensione della corruzione e del clientelismo, così come il numero dei disastri (prevalentemente per incuria del territorio). Nel rimpallo delle responsabilità, si è dato vita in modo ormai permanente al balletto che vede gli amministratori locali denunciare la mancanza di fondi – salvo poi dare fondo alla fantasia e alla sfacciataggine nell’inventarsi i modi più diversi di spenderne malamente una quantità imbarazzante – e il governo provvedere con tagli lineari che non toccano l’origine delle perversioni della spesa pubblica e puniscono i meritevoli. In più, sul terreno della cattiva amministrazione e del non-governo si
Le alluvioni nel Nord e i crolli che hanno colpito il Sud dimostrano con tutta evidenza il fallimento di questo sistema di governance sono sommati due vizi: quello dei politici e degli amministratori sul territorio, che fanno leva sulla demagogia spicciola e i miopi interessi di bottega nel rapporto con gli elettori – figlio di questa cultura del consenso populista è il fiorire di mille localismi, da quello universitario a quello aeroportuale passando per quello turistico – e quello dei politici nazionali e degli uomini di governo che nel federalismo hanno trovato un modo comodo di scaricare altrove le responsabilità. Salvo poi, di fronte ai disastri causati da questo perverso sistema di collettiva deresponsabilizzazione, inventarsi dei livelli di superiore accentramento privi di qual-
siasi controllo (l’esempio più significativo è quello della Protezione Civile). Il caso Pompei è diverso nella dinamica – la caduta di un pezzo a causa di cattivo o mancato restauro è solo la punta di un iceberg fatto di una clamorosa cattiva gestione di un bene unico su cui era dovere e interesse del territorio e del Paese erigere un redditizio business, unica garanzia di un efficace cura degli interessi culturali – ma non nelle cause remote, dovute ad una governance sbagliata che produce burocrazia e inefficienza.
Allora, forse sarà il caso di trarre da queste due vicende le dovute conseguenze. Certo,
non ci sarebbe bisogno di attendere questi “casi”, basterebbe avere il coraggio di trarre insegnamento dal fallimento del trasferimento alle Regioni del sistema sanitario, che ha creato clamorosi casi di default (e non solo al Sud), o indagare sul perché le Regioni italiane hanno speso solo 3,7 miliardi dei 29 di fondi strutturali Ue disponibili per il programma regionale sulla coesione o perché stanno rischiando di buttar via (tempo massimo, fine anno) 342 milioni sempre comunitari per l’agricoltura. Ma visto che ci si culla nell’illusione che la risposta a queste degenerazioni che sono ormai sotto gli occhi di tutti – e su cui ormai anche la classe dirigente locale della Lega si gioca la pelle, visto che sul territorio è “di governo” e non più “di lotta”– sia il federalismo fiscale, sarà bene cominciare a dire con chiarezza che così non si può più andare avanti e che la “grande riforma” voluta dal Nord immaginando di potersi liberare delle zavorre meridionali non smuoverà di un millimetro i problemi. Diciamoci la verità: il federalismo fiscale per risultare efficace ha da essere “egoista” – ma allora fa saltare l’unità nazionale, visto che la linea di frattura è già ben marcata – o altrimenti lascia le cose come stanno. Si dice: ma introduce il criterio dei costi standard. Vero, ma c’era bisogno della “grande riforma” per stabilire che un posto letto in ospedale costa tot e così deve essere a Bolzano come a Trapani, e che chi sgarra paga? No, l’Italia ha bisogno di ripensare il suo assetto politico-amministrativo, riportando molte competenze e responsabilità al centro per unificarle e asciugando il pletorico assetto del decentramento (abolizione delle Province, riduzione a metà del numero dei Comuni, aggregazione delle Regioni più piccole a quelle più grandi, ecc.). E la Terza Repubblica o nasce anche su questi presupposti, o è destinata ad abortire o a fallire in modo persino peggiore di quanto stia facendo la Seconda. Piaccia o non piaccia alla Lega. (www.enricocisnetto.it)
diario
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Al processo di Palermo si parla di incontri d’affari a Milano
Il giorno della memoria a sette anni dall’attentato
La vedova: «Ciancimino incontrò Berlusconi»
Napolitano ricorda i caduti di Nassirya
PALERMO. Dopo il 1972 l’allora
ROMA. Con un «commosso e deferente omaggio», ieri il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha voluto ricordare i 19 caduti italiani di Nassiriya, nel settimo anniversario della strage. In un messaggio inviato al ministro della Difesa, Ignazio La Russa, in occasione delle celebrazioni per la giornata del ricordo dei caduti militari e civili nelle missioni internazionali di pace, il capo dello Stato ha voluto ricordare «tutti coloro che, animati da altissimo senso del dovere, hanno perso la vita nel loro impegno al servizio dell’Italia e della comunità internazionale per la stabilizzazione delle aree di crisi e la costruzione della pace, contro la persistente minaccia del terrorismo transnazionale in nome dei principi cui si ispira la nostra Costituzione».
sindaco di Palermo Vito Ciancimino incontrò l’imprenditore Silvio Berlusconi in tre occasioni, a Milano. A due dei colloqui, avvenuti in un ristorante del capoluogo lombardo, partecipò anche Epifania Scardino, moglie del politico corleonese accusato di mafia. Lo ha confermato ai pm di Palermo Paolo Guido e Nino Di Matteo la stessa vedova Ciancimino, durante un interrogatorio che è stato secretato. Alla presenza del suo legale, la donna ha anche ricordato che Berlusconi e Ciancimino parlarono di affari. È la prima volta che la Scardino rivela ai pm la sua presenza ai colloqui tra l’attuale premier e il marito. Interrogata a luglio e settembre scorsi, infatti, aveva riferito di aver
Bersani e Fini da Fazio Masi prova a fermarli «A “Vieni via con me” ci siano anche gli altri partiti» di Franco Insardà
ROMA. Un conto è mandare in onda Fabio Fa-
saputo dall’ex sindaco che i due si erano visti tre volte, ma non aveva fatto cenno alla sua partecipazione. Chi ne ha parlato per la prima volta è stato invece il figlio Massimo che, a una trasmissione tv, ha detto di averlo saputo dalla madre. La testimonianza della Scardino potrebbe ora essere decisiva per riscontrare quanto Massimo Ciancimino sostiene di avere appreso dal padre in merito a presunti investimenti dell’ex sindaco corleonese da lui fatti nella realizzazione del complesso edilizio Milano 2 di Berlusconi.
Epifania Scardino è stata sentita dal pm Sergio De Montis e dall’aggiunto Antonio Ingroia anche sul caso del giornalista Mauro De Mauro, scomparso a Palermo nel ’70. La donna avrebbe parlato dei rapporti di amicizia tra il marito e l’ex procuratore di Palermo Pietro Scaglione ucciso il 5 maggio del 1971. La decisione di sentire la vedova è sta presa dopo che il figlio, Massimo Ciancimino, ha consegnato ai pm di Palermo degli appunti manoscritti del padre in cui si sostiene che l’omicidio del giornalista inaugurò una stagione di delitti in cui Cosa Nostra avrebbe agito su input istituzionali.
zio e Roberto Saviano. Un altro è permettere, in un momento come questo, a Fabio Fazio e a Roberto Saviano di avere ospiti di “Vieni via con me” Gianfranco Fini e Pier Luigi Bersani. Ieri il vicedirettore generale della Rai Antonio Marano, dopo aver sentito il direttore generale, Mauro Masi, ha inviato una lettera al direttore di Raitre, Paolo Ruffini, evidenziando come «nella scheda di prodotto programma non fosse prevista la presenza di politici nella trasmissione». La notizia della partecipazione di Fini e Bersani è arrivata nella mattinata di ieri insieme alla precisazione da parte del segretario del Pd e del presidente della Camera che l’apparizione non prevede un talk show politico, ma un’apparizione «nello stile del programma». Fini e Bersani dovrebbero, cioè, leggere due “elenchi” per descrivere rispettivamente i valori della destra e quelli della sinistra. La direzione generale ha invitato Ruffini ad attenersi alle disposizioni in vigore. La soluzione, per Marano, «è invitare anche Berlusconi, Casini, Di Pietro e Bossi»: tutti dentro, insomma, per garantire il contraddittorio.
La partecipazione di politici a “Vieni via con me” è stata inoltre espressamente indicata in una mia lettera al Direttore generale del 5 luglio perché questi avesse tutti gli elementi per valutare il programma prima dell’approvazione della scheda di proposta che è avvenuta il 6 settembre». E, giusto per fugare qualsiasi dubbio, Ruffini conclude: «Confermo a nome della rete l’invito agli onorevoli Fini e Bersani ad essere ospiti di “Vieni via con me”». Lo stesso segretario del Pd ha fatto sapere di aver ricevuto «l’invito dai conduttori e dagli autori del programma. Mi rimetto a loro, non sarà certo Masi a dirmi dove io devo andare. Non ho alcuna ragione per non andarci».
Continua, così il braccio di ferro tra il Direttore generale della Rai e gli autori di “Vieni via con me”. Qualche settimana prima dell’avvio del programma Masi aveva criticato i compensi degli ospiti rallentando la firma dei relativi contratti. Roberto Benigni e Claudio Abbado, tra i protagonisti della prima puntata, hanno accettato di partecipare gratuitamente per contribuire a raccontare la realtà del nostro Paese, tra la cronaca, le abitudini e il malcostume. Il tutto con l’ausilio degli ormai famosi “elenchi” che gli ospiti leggono personalmente e come faranno Fini e Bersani. Un esperimento che ha letteralmente ”sbancato l’auditel (7.623.000 spettatori registrati), quasi doppiando il Grande fratello 11. La prima puntata è stato anche il programma più visto di Raitre degli ultimi dieci anni e il successo è continuato anche su internet. Quest’ultima sortita del duo Masi- Marano ha scatenato una serie di reazione da parte di esponenti politici di tutti i partiti di opposizione che hanno stigmatizzato il comportamento del Direttore generale. Un merito va comunque riconosciuto a Mauro Masi: grazie a questa nuova sortita per “Vieni via con me” si annuncia un altro record di ascolti.
Sempre nella mattinata di ieri, poi, il ministro La Russa ha deposto una corona di fiori all’Altare della Patria in memoria dei nostri caduti. Alla cerimonia, oltre ai vertici militari, hanno partecipato circa 230 familiari dei militari morti negli anni recenti. Nell’occasione, anche la seconda carica dello Stato, il presidente del Senato ha voluto ricordare i 19 militari uccidi nell’attentato di Nassi-
Il direttore di Raitre Paolo Ruffini replica: «Confermo l’invito a nome della rete. Nulla osta alla loro presenza in trasmissione»
La replica del direttore di Raitre non si è fatta attendere: «Ho già risposto al Direttore generale che sulla base della normativa vigente nulla osta a che il programma ospiti Bersani e Fini. La loro partecipazione non può che dare lustro al programma e all’azienda. Non esistono peraltro né direttive aziendali né della commissione parlamentare di vigilanza, né leggi che vietino la partecipazione di politici a un programma culturale come “Vieni via con me”. Esiste solo una raccomandazione della Commissione parlamentare di vigilanza del 2003 a limitare la partecipazione dei politici nei programmi di intrattenimento (genere nel quale peraltro il programma di Fazio e Saviano non rientra) a inviti su argomenti sui quali i politici abbiano particolare competenza o responsabilità».
riya: «Non dimenticheremo mai quel giorno tragico - ha detto Renato Schifani - dove la ferocia colpì senza pietà chi era lontano da casa per aiutare il popolo iracheno nella difesa della democrazia». «Il loro sacrificio - ha aggiunto il presidente di Palazzo Madama - nell’adempimento di un servizio reso alla pace, rappresenta un richiamo per tutti ad una rinnovata e ferma necessità di contrapposizione a ogni forma di violenza. I militari e i civili che vennero barbaramente uccisi dal terrorismo internazionale sono i nostri martiri della libertà e della pace che sono e saranno sempre onorati e ricordati dalla Patria».
grandangolo
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Parla monsignor Gianfranco Ravasi
Ricominciare ad ascoltare san Paolo. Con l’i-pod Dobbiamo riconoscere che «mai come oggi la comunicazione celebra i suoi trionfi. Si è talmente trasformata che negli ultimi decenni è avvenuto qualcosa di simile alla scoperta del fuoco». La ricetta del presidente del Pontificio Consiglio per la cultura: «Torniamo a gridare il messaggio cristiano dai tetti» di Rossella Fabiani tempo che la Chiesa usi un linguaggio accessibile, che superi l’autoreferenzialità. Sempre più convinta e determinata nella necessità di confrontarsi con i “nuovi linguaggi”, non deve mancare l’appuntamento di capire e di ascoltare il cambiamento epocale che è in atto. L’arcivescovo Gianfranco Ravasi, che sarà creato cardinale il prossimo 20 novembre, va diritto al problema: «Non dobbiamo parlare soltanto dall’ambone, ma anche dalla terrazza, dai tetti dove ora si affollano le parabole mediatiche. La comunicazione è posta nel cuore della città, dell’agorà, e una frase del Vangelo di Matteo (X 26-28) ci esorta affinché“quello che voi avete ascoltato nel segreto – e quindi in ambito anche esoterico, della comunicazione della fede e in quello dei linguaggi autoreferenziali – gridatelo dalle terrazze”. Non a caso nel testo del Vangelo si trova la parola domasin perché è proprio dalle terrazze che si poteva lanciare dei messaggi». Il problema centrale è proprio quello di superare l’autoreferenzialità. «Tante volte il linguaggio interno della comunità ecclesiale è quasi del tutto afono. Pensiamo al linguaggio teologico così sofisticato, che
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non trova più riferimento in una popolazione cattolica, credente, praticante, che la domenica ascolta un’omelia, ma ha dentro di sé il linguaggio televisivo, il linguaggio di internet, il linguaggio quotidiano. Per questo è necessario un movimento centrifugo, verso l’esterno, verso la periferia perché la nostra comunicazione certamente deve avere una
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della cultura romana». Ravasi è intervenuto all’inaugurazione in Campidoglio dell’assemblea plenaria del Pontificio Consiglio per la cultura, di cui è presidente. E il fatto che, per la prima volta, i lavori abbiano preso il via in una seduta pubblica fuori dal Vaticano – e con un convegno dal titolo “Nella città in ascolto dei linguaggi dell’anima”– rappresenta un chiaro esempio del nuovo percorso che il dicastero vuole intraprendere, come dice Ravasi, per «allargare l’orizzonte e diversificare le prospettive». Il Campidoglio dunque come un grande terrazzo da dove cominciare a prendersi cura di tutte le forme della comunicazione: arte, internet, carta stampata, televisione, smart-phone, ipod, liturgia, architettura. Perché tutti si stanno accodando al carro del vincitore: la comunicazione. «Dobbiamo riconoscere che mai come oggi la comunicazione celebra i suoi trionfi – dice il presidente del dicastero vaticano – e si è talmente trasformata che negli ultimi decenni è avvenuto qualcosa di simile alla sco-
Tante, troppe volte il linguaggio interno della comunità ecclesiale è quasi del tutto afono
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sua logica, una sua coerenza, un suo vocabolario proprio, però al tempo stesso deve cercare di muoversi verso un orizzonte nuovo, con linguaggi nuovi. Non dimentichiamo mai l’opera che ha compiuto San Paolo quando è passato da una cultura che era profondamente semitica ad una cultura legata, invece, al mondo mediterraneo di allora, che aveva l’imprinting dell’ellenismo,
perta del fuoco. È cambiato il modello di persona. Pensiamo a come sono i nostri giovani, al linguaggio del cellulare che per loro è spontaneo». Siamo di fronte «a una realtà epifanica, trionfale, positiva. Felici che non ci sia un autismo, un isolamento, che peraltro registriamo. Dobbiamo essere contenti che si comunichi di più. Non dimentichiamo, infatti, che la religione ebraico-cristiana è costruita proprio sulla comunicazione».
E infatti «la parola crea, è efficace, potente, performativa, trasformativa. Nella Genesi sta scritto “Dio disse sia la luce e la luce fu”mentre nel Nuovo Testamento si legge: “In principio era la parola”che vale come grande simbolo per Dio stesso». Quindi, la religione «non può ignorare la parola, non può non interessare la parola, che è la grande essenza del divino e dell’umano. Per Victor Hugo la parola è un être vivant (essere vivente), fondamentale anche per l’esperienza di fede. E la parola comincia a vivere nel momento in cui viene detta». Ma Ravasi vuole anche mettere in guardia dai pericoli legati oggi alla comunicazione. «La parola può essere anche malata. A causa di un eccesso
non soltanto quantitativo ma anche qualitativo con un aumento costante delle spezie per renderla sempre più forte». Il presidente del Pontificio Consiglio della cultura ricorda un ammonimento del poeta francese Paul Valéry: «Tra le due parole sempre dobbiamo scegliere la minore». Tra le cause della malattia della parola, c’è anche la «sguaiataggine», la «vacuità». «Le parole perdono significato, sono come dilavate, passano ininterrottamente», dice Ravasi che cita un antico adagio: «Il sapiente sa quello che dice, lo stupido dice quello che sa». Altro fattore scatenante della malattia della parola è la «frigidità». Soprattutto nel caso della comunicazione via web. «Due anni fa ero proprio qui in Campidoglio per un evento e accanto a me sedeva il figlio di Marshall McLuhan, Eric, che in quella circostanza mi raccontò che quando aveva cominciato a insegnare la materia di suo padre, scienza della comunicazione, alla fine della lezione i ragazzi si ritrovavano a parlare insieme. Oggi invece alla fine della lezione, gli studenti cominciano a chattare tra loro anche se sono distanti un metro l’uno dall’altro». Ecco allora la necessità di ritornare a
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bilire un rapporto di fiducia. Ogni volta che prego, chiedo a Dio una sola cosa: che illumini la mia strada perché possa procedere nella sua luce. Ma credo che ognuno di noi debba, a sua volta e secondo le sue possibilità, illuminare la strada di coloro che – per qualunque motivo – vedono peggio di noi e camminano a tentoni».
conoscere, a riscoprire e a riappropriarsi dell’importanza e della grandiosità di studiare e di vivere la comunicazione e il linguaggio. «Come pure dobbiamo saper riconoscere l’inganno che può essere sotteso nella comunicazione. Un chiaro esempio di questo è il celebre film diretto da Sydney Lumet nel ’76 “Quinto potere”. In inglese il titolo era “Network”ed è molto suggestivo per rappresentare – in modo seppure esasperato – i principi di una comunicazione ingannevole. È la storia di un conduttore famoso che ormai sta perdendo ascolti e che per rimediare a questo calo di audience annuncia il suo desiderio di uccidersi in diretta tv. Quando un giorno un terrorista entra negli studi e
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zia”, contrariamente al pregiudizio corrente, gli uomini di cultura e gli artisti non hanno diritto alla solitudine, poiché l’arte – scrive Camus, e consentitemi di aggiungere la cultura – non possono essere monologhi». Ma spezzare il pregiudizio denunciato da Albert Camus e fare in modo che ognuno potesse instaurare un dialogo con la cultura non era un’idea scontata nel mondo televisivo.Tuttavia è stata quest’idea a ispirare il programma culturale “Des Racines et des Ailes”(“Radici e ali”) e a guidare tutta la politica che ho promosso quando ero alla guida del gruppo France Télévision negli ultimi cinque anni. Bisogna dire che in Francia la cultura è anzitutto il libro e che ogni tentativo di fare posto alla cultura sugli schermi televisivi scatena immediatamente lo scetticismo, se non addirittura l’ironia. Per questo quando, 13 anni fa, ho proposto di chiamare il mio nuovo programma “Radici e ali”, ispirandomi a un bellissimo poema sanscrito per il quale la cosa più bella che si possa regalare ai figli sono appunto le radici e le ali, il direttore dei programmi dell’epoca alzò le braccia al cielo esclamando: “Ma non dirlo nemmeno per scherzo! Non è un titolo da televisione, è troppo letterari”. In seguito, una volta accettato il titolo del programma, gli proposi di piazzare le telecamere al museo del Louvre per la prima puntata; lui mi guardò con aria allarmata e mi disse: “Le riprese in un museo? In prima serata? Quando ci sono più telespettatori. È una follia e non funzionerà mai”. Non solo la trasmissione ha funzionato, ma esiste ancora, 13 anni dopo, e totalizza ogni volta diversi milioni di telespettatori. In effetti, sono fermamente convinto che si possano guidare fino alle vette del pensiero e della creatività uomini e donne che non sembravano destinati a scalarle. Per farlo però occorre parlare loro, accompagnarli, guidarli e sta-
La parola può essere anche malata. A causa di un eccesso sia quantitativo sia qualitativo
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gli spara, si scopre che tutto questo era stato preparato dalla stessa direzione televisiva».
Ai lavori dell’assemblea del Pontificio Consiglio della cultura è intervenuto anche Patrick De Carolis, già presidente-direttore generale di France Télévision che ha spiegato, in sintonia con Ravasi, come «un messaggio possa essere esigente e catturare un grande pubblico perché c’è una sete di trascendenza che è presente in qualsiasi uomo». De Carolis è partito dalla sua esperienza personale, quella di un uomo di televisione che in tutto il suo percorso ha cercato di usare un mezzo di comunicazione di massa per consentire al pubblico più vasto e popolare possibile di entrare nel sancta sanctorum della cultura mondiale. «Perché, se mi consentite di parafrasare ciò che scriveva Albert Camus nel suo “Discorso di Sve-
Patrick De Carolis ricorda che «nel posto che mi era stato assegnato e con i mezzi che il mestiere mi metteva a disposizione, ho sempre cercato di illuminare la strada di milioni di telespettatori sui sentieri della conoscenza, della cultura e della bellezza. L’aspirazione alla cultura e all’emozione artistica, a mio parere, sono essenziali perché manifestano in modo sensibile la sete di trascendenza che esiste in tutti gli uomini. André Malraux diceva: “La letteratura, come ogni forma d’arte, è fatta per dirci che la vita (così com’è) non basta”. A questa aspirazione deve poter rispondere anche un mezzo di comunicazione sociale come la televisione, che troppo spesso lusinga i nostri istinti più bassi». È proprio su questo pericolo che monsignor Ravasi insiste. Sottolineando un altro rischio: la comunicazione può essere anche ingannevole. «L’inganno può arrivare a creare una reazione e persino una situazione. Se dunque appare quasi ineluttabile la necessità, l’importanza, la grandezza di vivere, amare, praticare, declinare la comunicazione dobbiamo altresì essere consapevoli della necessità, come diceva Stéphane Étienne Mallarmé,“di dare un senso più puro alle parole”. Perché in caso contrario, citando “La sposa meccanica”, un libro del ’95 di Mc Luhan, di cui il prossimo anno ricorre il centenario della nascita, potremmo dire come divertissement finale che la moderna Cappuccetto rosso allevata a suon di slogan pubblicitari ormai non ha più nulla in contrario a lasciarsi mangiare dal lupo». L’arcivescovo Gianfranco Ravasi, che verrà creato cardinale il prossimo 20 novembre. In alto una scena di “Quinto Potere”. Nella pagina a fianco San Paolo
Fra gli ospiti Aldo Grasso, De Carolis e Baugh
Tutte le lingue del nuovo mondo Il convegno sulla comunicazione che si chiude oggi in Vaticano
ultura della comunicazione e nuovi linguaggi” è il tema della plenaria del Pontificio Consiglio della cultura che si è aperta in Campidoglio e che si concluderà oggi in Vaticano con l’udienza di Papa Benedetto XVI. All’assemblea, inaugurata da monsignor Gianfranco Ravasi, hanno parlato Patrick De Carolis, già presidente e direttore generale di France Télévision, il critico televisivo Aldo Grasso e il gesuita Lloyd Baugh. Secondo padre Baugh della Pontificia Gregoriana, Università esperto di cinema, «siamo più umani quando cerchiamo il divino, il mistero e molti film recenti sono profetici, esprimono il desiderio e la voce dello spirito umano in
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molte culture». Per Aldo Grasso, critico televisivo e docente all’Università Cattolica di Milano, «oggi nell’epoca post-Mc Luhan i mezzi di comunicazione non sono più soltanto protesi ma sono diventati ambienti in cui noi viviamo ogni giorno, sono una sorta di palestra di formazione e hanno sostituito quelli che erano i luoghi condivisi di formazione collettiva». Il programma dei lavori ha visto, tra gli altri contributi, la relazione del vescovo di Ratisbona, Gerhard Ludwig Müller su “Lo spazio per l’uomo nella cultura delle nuove tecniche di informazione e di comunicazione: identità, persona e relazione in rete”.
Nell’agenda dell’assise anche momenti di “Dialogo con un artista”- cui hanno partecipato il regista cinematografico Roland Joffé e il compositore Ennio Morricone - e un contributo su “Vangelo e inculturazione” con particolare riferimento al Gesù africano del film “Son of Man” (Figlio dell’Uomo). La comunicazione della fede ai giovani è stato il tema dell’intervento di padre Robert Barron mentre il priore e fondatore della Comunità monastica di Bose, Enzo Bianchi ha parlato di “Comunicazione mistagogica: simbolo e arte per la liturgia e l’evangelizzazione”. Infine Pietro Scott Jovane (Microsoft Italia) ha esaminato i linguaggi della comunicazione in (r. f.) rete.
economia
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Conti. La frattura tra Settentrione e Meridione è sempre più grave stato un dibattito a tratti lunare: quello che si è svolto nei mesi passati dentro e fuori le Aule parlamentari. Grandi apprensioni per le sorti dell’economia reale. Grida di dolore per precari e disoccupati. Addirittura il rischio del double dip: una nuova recessione nella vecchia recessione. E poi le critiche a Giulio Tremonti per il suo rigorismo eccessivo: quasi si trattasse di un’Angela Merkel travestita. I dati più recenti non solo fanno giustizia di tanto abbaiare alla luna, ma mostrano una situazione che è esattamente l’opposto di quella paventata. Il che la dice lunga sulla preveggenza di uomini politici e commentatori dal volto dolente.
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Gli ultimi dati Istat, seppure provvisori, ci dicono che nel trimestre appena trascorso il Pil è cresciuto dello 0,2 per cento rispetto al trimestre precedente e dell’1 per cento rispetto a quello di un anno fa. Ci dice anche che la crescita finora acquisita è pari all’1 per cento. Chiuderemo quindi l’anno con un piccolo incremento del prodotto interno lordo. Naturalmente non è molto, specie se paragonato a quanto avviene all’estero. Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna la velocità (rispettivamente 0,5 e 0,8 per cento contro lo 0,2 italiano) è ben maggiore; ma da qui a prospettare possibili Caporetto ce ne corre. A tirare il Pil sono essenzialmente industria e servizi. Ne consegue la conferma, che potremo verificare solo in seguito, di un Paese che marcia a due velocità: una certa ripresa nel Centro-Nord, l’ulteriore regressione del Mezzogiorno. «Palla al piede» dell’economia italiana, ma soprattutto il freno effettivo che impedisce una crescita maggiore. La vera preoccupazione è purtroppo altrove: in quei dati della situazione finanziaria che sono stati il cruccio continuo di Giulio Tremonti. Su cui il Governo ha cercato di operare realizzando cose importanti, ma anche attirandosi gli strali delle critiche più feroci. L’accusa ricorrente è stata quella relativa ai cosiddetti “tagli lineari” sul bilancio. Si è andati alla cieca – è stato detto – non si sono selezionati gli obiettivi. Si poteva fare meglio e di più. Critiche, in parte, giustificate. Peccato che si sottovaluti la stratificazione normativa che ancora oggi rende
Solo mezza Italia esce, dalla crisi Dai dati sul Pil la fotografia di un Paese a due velocità con il Sud in difficoltà di Gianfranco Polillo
difficile l’analisi dei documenti di bilancio. Il grosso della spesa è frutto delle decisioni passate. La vecchia legge finanziaria operava solo al margine: un velo pietoso su quello che era stato fatto, l’accanimento terapeutico su
qualche voce – ad esempio i consumi intermedi – che quella farraginosa contabilità riusciva ad evidenziare. La nuova “legge di stabilità” – quella ancora in discussione in Parlamento – ha introdotto le prime importanti modifiche, ma
per le forche caudine di un nuovo intervento legislativo. Fiducia ai manager pubblici, quindi, e successiva rendicontazione: documento che il Parlamento, per antica tradizione impregnato com’è nella “cultura dell’emendamento”,
Le entrate fiscali continuano a calare. Nel resto d’Europa, invece, consumi e ricchezza hanno ricominciato a correre dopo la crisi ci vorrà del tempo prima di avere i frutti sperati. E nel frattempo? Il metodo Gordon Brown. Sperimentato in Inghilterra esso comportava, al tempo stesso, un limite alla spesa complessiva dei Ministeri – i cosiddetti “tagli lineari” – ma anche la possibilità di rimodulare le poste di bilancio – i vari capitoli di spesa – senza dover passare
non ha mai degnato nemmeno di uno sguardo.
In queste condizioni così difficili, da un punto di vista strutturale, si è fatto ciò che era possibile fare. Il debito pubblico è ulteriormente cresciuto, soprattutto per la flessione delle entrate (-1,7 per cento nei primi nove mesi dell’anno, dopo la corrispondente flessione del 3,3 per cento nel 2009) ma con un incremento più contenuto. In nove mesi l’aumento è stato del 3 per cento, quasi la metà
di quello riscontrato nel 2009 (5,1 per cento). Dovremmo, quindi, accontentarci? Al contrario, dobbiamo invece preoccuparci e non di poco. Venerdì scorso lo spread sui titoli di stato italiani (quanto paghiamo in più rispetto al bund tedesco) era stato pari a 151 punti base. Lunedì era salito a 160, martedì a 170, nella giornata di ieri ha toccato il massimo di 191,2, per poi riportarsi a quota 180. Un altalena che dimostra quanto siano nervosi i mercati internazionali che rifiutato i titoli irlandesi, portoghesi, spagnoli e greci, per i quali chiedono un rendimento molto più alto; ma che ora iniziano a pretendere anche dall’Italia. Le cause, visto che i fondamentali sono relativamente a posto? Le incertezze di una situazione internazionale che non riesce a trovare un minimo comune denominatore nel puzzle delle valute e la crisi politica che si è appena aperta, in Italia: segnata dal buio più profondo.
Come finirà? Nessuno è in grado di fare previsioni. Ed allora è meglio ricordare fatti lontani che sono, tuttavia, rimasti impressi nella memoria collettiva. Anche nel 1992 furono soprattutto gli squilibri internazionali a penalizzare il nostro Paese. La Germania scelse delle modalità di finanziamento per perseguire l’obiettivo della riunificazione che sconvolsero i mercati delle monete, a seguito di una stretta creditizia che si rese necessaria per attirare capitale dall’estero e quindi poter finanziare un progetto così ambizioso. La prima vittima fu lo SME: quella fragile barriera eretta per mettere un po’ d’ordine negli scambi intracomunitari. E la rottura dello SME trasformò il nostro Paese nel bersaglio preferito della speculazione internazionale: consapevole del fatto che non avremmo potuto reggere all’attacco concentrico di quella potenza di fuoco. Fummo costretti a svalutare la lira del 30 per cento ed impostare quella manovra di risanamento – la “finanziaria” di Amato – che ancora oggi turba i ricordi di tanti cittadini. Sarà così anche questa volta? Lo scudo dell’euro per fortuna ci protegge meglio, ma i sintomi di una nuova emergenza non possono essere assolutamente sottovalutati. Quindi? Non spetta a noi dire come si debba uscire dalla crisi politica del Paese. Un’esortazione, tuttavia, è d’obbligo. Qualunque cosa si dovesse decidere, la si faccia presto: se non altro per scongiurare la reazione dei mercati.
mobydick
INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
“The Social Network” di David Fincher
INCHIODATI A FACEBOOK di Anselma Dell’Olio
ra un azzardo la collaborazione di Aaron Sorkin, autore di West Wing, dendo la differenza semantica tra amici «estranei» e conoscenti), colleghi, viciserie tv politica di sublime verbosità, e il cineasta di culto David Finni, compagni di scuola e persone con interessi simili, e di scoprire molti parAvvincente cher (Seven, Fight Club, Zodiac, Il curioso caso di Benjamin ticolari intimi sui medesimi. Il peggio della versione italiana avviene nella prima, importantissima scena, che stabilisce il tono del film, Button). The Social Network è storico e biografico - raccome un thriller la personalità e il carattere del protagonista. Mark Zuckerconta la fondazione e il fondatore di Facebook - generi noil film che racconta berg (Jesse Eisenberg, in una performance dirompente) toriamente difficili da rendere affascinanti e sfaccettala fondazione e il fondatore del celebre è in un bar con la fidanzata Erica (Rooney Mara). ti in due ore sul grande schermo. La prova della scommessa stravinta (già si prevedono candiIl prepotente, ossessionato, ambizioso hacker sito frequentato da 500 milioni di persone. dature agli Oscar) è che pur essendo un’opera non conversa con la ragazza, le scaraventa adSceneggiatura e dialoghi capolavoro. parlatissima da cima a fondo, e con un doppiaggio dosso pensieri, programmi, progetti e idee. Stanca Unico neo il doppiaggio italiano. italiano bislacco e sbagliato si segue attentamente fino aldel bombardamento parolaio, autoreferenziale e scarsamente interattivo, alla fine Erica lo scarica, tronca il rapporto. la fine. La storia ruota intorno al diciannovenne studente uniConsigliabile Il dialogo in italiano tra i due ha le voci mal sincronizzate: parole da versitario che in vari passaggi molto controversi, ha inventato il più vederlo in v.o. una parte, bocche da un’altra; il rapidissimo dialogo è tradotto, adattato noto sito web sociale. È quello che più d’ogni altro e per primo ha dato e recitato in maniera scarsamente comprensibile. la possibilità di ritrovare, gratuitamente, vecchi amici, farsene di nuovi (eli-
E
Parola chiave Nemico di Sergio Valzania Il nuovo romanzo di Sandro Veronesi di Maria Pia Ammirati
NELLA PAGINA DI POESIA
Diego Valeri, la vita in chiaroscuro di Francesco Napoli
Quella Psichiatra poco credibile di Leonardo Tondo Fede e nonsense il ritorno di Chesterton di Pier Mario Fasanotti
Icone del potere da Enrico VIII a Fidel di Marco Vallora
inchiodati a
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S’intuisce dalla conclusione - e dalle recensioni estere - che era una litigata. Adattamento e sincrono migliorano in seguito, ma il missaggio della colonna musicale è talmente forte che spesso le avvincenti battute sfuggono. È noto che l’italiano è meno sintetico dell’inglese, ma non si deve notare in un doppiaggio ben fatto; invece le voci italiane sembrano correre all’impazzata per far entrare tutti i vocaboli degli stupendi dialoghi. La musica troppo alta costringe lo spettatore a stare in tensione per cogliere tutti i contorni della complicata vicenda, un intreccio d’idee geniali simili, successi vasti di cui si contende la paternità, amicizie frantumate, accuse di furto intellettuale, richieste di risarcimenti miliardarie, udienze disciplinari, excursus sulle differenze di classe e di etnie a Harvard, algoritmi e software. Forse ci sbagliamo, ma una lunga esperienza nel campo insegna che qualcosa è andato storto nell’edizione italiana. Probabilmente si tratta di una mancanza d’aggiornamento sui sistemi sonori digitali, almeno per il missaggio. È superato il vecchio metodo usato per la registrazione analogica, con i doppiatori impegnati nella stessa scena che recitano insieme, e fanno i «campi» fisicamente (allontanandosi o avvicinandosi dal microfono a seconda degli attori sullo schermo) perché poi è difficile modularli in digitale. Con la nuova tecnologica è meglio registrare ogni doppiatore in colonna separata, con il microfono molto ravvicinato, non dall’altra parte del leggio; poi i «campi» si fanno in elettronica. The Social Network s’apprezza malgrado tutto, ma per un vero godimento è meglio vederlo in originale con i sottotitoli.
Lo script di Sorkin ha tutte le qualità. Riesce a intrecciare i molti fili e le complicate giravolte del racconto, i personaggi centrali e di contorno e, pur romanzando, a restare chiaro e complesso, e sostanzialmente fedele ai fatti realmente accaduti. Il copione segue a grandi linee il libro di Ben Mezrich, Miliardari per caso l’invenzione di Facebook, una storia di sesso, soldi, genio e tradimento (Sperling e Kupfer, 2010). La principale fonte è il facoltoso brasiliano Eduardo Savarin, ripagato con un ritratto simpatetico, che si presume meritato. Saverin (Andrew Garfield, una rivelazione) è oggi un imprenditore di successo: laureato a Harvard cum laude, possiede il 5% delle azioni di Facebook, dopo aver raggiunto l’accordo economico con i legali di Zuckerberg, del quale era il primo finanziatore e migliore amico. Garfield, di madre inglese e padre americano, era nel dimenticabile Leoni per agnelli, in Parnassus - L’uomo anno III - numero 40 - pagina II
che voleva ingannare il diavolo, noto più che altro per essere l’ultimo film di Heath Ledger, e L’altra donna del re, un godibile polpettone storico. Ora ha la strada spianata. Scaricato da Erica, Mark, hacker-genio con poche arti sociali, si scaraventa sul computer e ruba le foto di tutte le studentesse di Harvard dall’archivio elttronico, postandole sul blog: invita i maschi che le conoscono a dare a ognuna un voto per hotness (scopabilità) e posta i giudizi sulle ragazze accanto alle foto: un mercato delle mucche, una vendetta vile. La mostruosa invasione della privacy provoca in poche ore il crash del sistema operativo di Harvard per sovraccarico di contatti. È così che nasce Facebook: un maschio frustrato, solitario e assatanato, rovesciando il famoso detto, colpisce migliaia per educarne una. Ora le compagne sanno chi è, e lo detestano. Lo avvicinano due fratelli gemelli monzigoti, Tyler e Cameron Winkelvoss (interpretati alla perfezione dallo stesso attore, Armie Hammer). Wasp, biondi, aitanti, atleti olimpionici di canottaggio, della riserva old money di Greenwich, Connecticut, soci per diritto ereditario di tutte le più esclusive confraternite di Harvard, quelle chiuse al figlio di professionisti ebrei di White Plains, N.Y. I gemelli superariani offrono al nerd nasone di riscattarsi con le ragazze, aiutandolo a mettere a punto una rete sociale fichissima, HarvardConnection (oggi ConnectU). Gli raccontano le loro idee per allargare il raggio
di connessione con altre università, diversi codici e la password di accesso al sito. Sigillano l’intesa con una stretta di mano e un «accordo verbale», poi vanno ad allenarsi mentre il supermotivato Zuckerberg si chiude in camera a risolvere i problemi tecnici del progetto, facendosi vedere pochissimo in giro; finché i Winkelvoss scoprono che il loro «socio» ha depositato il marchio thefacebook, un sito molto simile al loro. Mark nega d’aver rubato e li sfida a ripetere l’exploit senza di lui. I gemelli indignanti portano la contesa davanti al presidente di Harvard. In un abile e riuscita stunt casting, Douglas Urbanski, produttore e personalità radiofonica che si definisce «cattolico, conservatore, capitalista», socio dell’anticonformista Gary Oldman (wow!), è un mirabile Larry Summers, (ora ex) economista in capo di Obama, allora a capo del rinomato ateneo, dal carattere diretto e urticante (fu costretto a rassegnare le dimissioni da Harvard nel 2005 per
aver detto che «le donne non sono discriminate in campo scientifico e matematico, sono solo geneticamente meno dotate ai massimi livelli»). Non è indulgente nemmeno con i gemelli patrizi (sicuri della loro influenza per antica discendenza da generazioni di harvardiani d’élite). Decreta la contesa inammissibile alla sua giurisdizione in quanto avvenuta in ambiente extra accademico.
Il film ha il ritmo e la tensione di un thriller, pur trattando questioni astratte e in teoria poco cinematografiche. Non ci sono inseguimenti, corse in automobile, sparatorie e morti ammazzati. Le sole cose che muoiono nel film sono le illusioni sulla natura dell’amicizia e la parola data. La sceneggiatura di Sorkin è un capolavoro, e Fincher ha girato e montato un film impossibile sulla carta, zeppo di chiacchiere, di nodose contese legali, di avvocati e tribunali, che coinvolge e avvince fino all’ultimo fotogramma, e
THE SOCIAL NETWORK GENERE COMMEDIA, DRAMMATICO
REGIA DAVID FINCHER
DURATA 120 MINUTI
INTERPRETI JESSE EISENBERG, JUSTIN TIMBERLAKE, ANDREW GARFIELD, RASHIDA JONES, ROONEY MARA, BRENDA SONG, JOSEPH MAZZELLO, MAX MINGHELLA, MALESE JOW, TREVOR WRIGHT, NATALINA MAGGIO, DAKOTA JOHNSON, LIAM FERGUSON
PRODUZIONE USA 2010 DISTRIBUZIONE SONY PICTURES RELEASING ITALIA
invoglia a rivederlo. Jesse Eisenberg ne esce come un attore di primo rango, capace di comunicare la freddezza, la complessità e la compostezza di un giovanotto che sa di essere molto più veloce di chi gli sta intorno, coetanei e adulti. Sa svuotare gli occhi e farli diventare buchi neri, tombe delle sue agghiaccianti lacune umane. Il film non guarda al suo passato per tentare di spiegare o giustificare l’ossessione monomaniacale e la ricerca di celebrità e promozione sociale. L’enorme intelligenza di Zuckerberg, a 26 anni il più giovane miliardario non per diritto ereditario della storia, è confermata dall’atteggiamento verso il suo impietoso ritratto. Pubblicamente ha detto solo: «Noi costruiamo prodotti visti da 500 milioni di persone; se 5 milioni vedono il film, è poca cosa». Un genio autentico. Sono parecchio disturbanti le figure femminili (escluso l’avvocato di Rashida Jones): spesso asiatiche (come l’attuale compagna di Zuckerberg, con lui dal 2010; i suoi rapporti durano poco evidentemente), con poche eccezioni pupe passive e provocanti che prestano il pancino ai geni per le linee di cocaina che sniffano. Forse era inevitabile per il percorso di uno che, come primo passo verso il successo planetario, ha polverizzato l’ego e l’amor proprio di migliaia di ragazze. Il comico Stephen Colbert gli ha assegnato «La Medaglia della Paura», «perché tiene molto alla sua privacy, e pochissimo alla vostra». Da non mancare.
MobyDICK
parola chiave
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NEMICO e non hai nemici, come puoi rispettare il comandamento di amarli?» si chiede Alfredo Sartoris. La questione dell’inimicizia è complessa e insidiosa. In nessuna tradizione sapienziale viene detto di non avere nemici, semmai vengono date ammonizioni su come comportarsi nei loro confronti. Gesù stesso avverte dell’esistenza di due schieramenti al lavoro per obbiettivi contrapposti. In Matteo gli sentiamo dire: «Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me disperde» (12,30). Le stesse parole sono riferite anche da Luca (11,23) che però in un altro passaggio ricorda che Giovanni, quando dice a Gesù di aver impedito a degli estranei di scacciare i demoni in suo nome, si sente rispondere: «Non lo impedite, perché chi non è contro di noi è per noi» (9,50). Il medesimo passo compare anche in Marco (9,40).Viene da domandarsi se le due formulazioni in apparenza orientate in senso opposto non siano meno lontane di quanto possa sembrare e lo spazio dell’agnosticismo non si riduca a un accidente trascurabile.
«S
La questione vera sta altrove, nell’atteggiamento da tenere nei confronti del nemico, dopo averne riconosciuta l’esistenza. Qui le indicazioni sono chiare e univoche. Il comandamento prescrive «amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano» (Mt 5,44) e anche «fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male» (Lc 6,28). In Matteo la spiegazione di questo invito è trasparente e consiste nel semplice riconoscere che tutti amano gli amici e coloro che li trattano bene, «Non fanno così anche i pagani?» (Mt 5,47), mentre la ricerca della perfezione consiste nel superare questo atteggiamento del tutto naturale e umano. In Luca il tema viene approfondito. Gesù ci dice «fate del bene e prestate senza sperare nulla, e la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo, perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi» (6,35). La benevolenza annunciata è stupefacente, quasi incredibile. Come può Dio essere così aperto e tollerante da rivolgere la sua benevolenza proprio verso gli ingrati e i malvagi, verso coloro che gli sono lontani e nemici? Non è forse sommamente ingiusto comportarsi in questo modo, trascurando i buoni e i giusti? La questione va forse affrontata da una diversa prospettiva. Chi sono questi ingrati e malvagi? Chi può puntare il dito e indicarne uno dicendo «lui è peggiore di me»? È difficile cre-
È del tutto naturale amare gli amici e chi ci tratta bene ma la questione dell’inimicizia è complessa e insidiosa. Chi sono i buoni e chi i cattivi? Siamo proprio sicuri di essere sempre dalla parte del giusto?
La ricerca della perfezione
Gesù ammonisce: «Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati» (Lc 6,37). Astenersi dal giudicare significa incamminarsi lungo un percorso che comporta il riconoscimento nell’altro, in qualsiasi altro, di qualcosa che merita di essere amato e che quindi ha il diritto di esserlo. Questa confessione costringe a riconsiderare per intero la natura di un rapporto negativo, a sforzarsi di uscire dal circolo vizioso della conflittualità. Di fronte al nemico non bisogna concentrare l’attenzione giudicante sui motivi del contrasto ma andare alla ricerca amorosa di ciò che ci può aiutare a superarlo.
di Sergio Valzania
Il comandamento di Cristo non è
Il rapporto di ostilità vive tra due poli. E non c’è via di uscita, se non si compie uno sforzo iniziale in vista della riconciliazione, se non si accetta di sospendere il giudizio. Solo sforzandosi di uscire dal circolo vizioso della conflittualità si può intendere il comandamento “amerai il tuo prossimo come te stesso” dere che qualcuno possa superare l’esperimento immaginario di stare davanti al tribunale dell’Altissimo, nel giorno del giudizio, e denunciare un ingrato senza temere di divenire a sua volta oggetto di denuncia per la stessa colpa. In altre parole, quanto ci è estraneo il nemico, e soprattutto chi è il nemico? Siamo sicuri di essere sempre e continuamente dalla parte giusta mentre gli altri stanno da quella sbagliata? Quando si pregano i Salmi ricorre la richiesta della liberazione dal persecutore: una modalità di lettura di questi passi li interpreta come la richiesta di un costante esame di coscienza relativo ai nostri comportamenti persecuto-
ri nei confronti altrui. Quei passi ci spingono a riflettere sul fatto che se qualcuno è nostro nemico noi siamo a nostra volta il suo. Del resto è ben difficile immaginare di poter amare il nostro nemico se ci convinciamo che egli è altro da noi, che noi siamo i buoni e altri sono i cattivi della storia, di quella grande come di quella quotidiana. Il rapporto di ostilità vive sempre tra due poli. È una situazione senza via di uscita, irrisolvibile, se da una delle due parti non si compie uno sforzo iniziale in vista della riconciliazione, se non si accetta almeno di sospendere il giudizio. Poco dopo aver invitato ad amare i nemici,
affatto un invito al masochismo o alla sopportazione passiva. Al contrario è un invito alla costruzione faticosa della pace e dell’amicizia, che non si creano da sole, a una atteggiamento progettuale e profetico in vista di una ricomposizione felice dei rapporti umani, fra i singoli e fra le comunità. Coscienti del fatto che i due piani sono interconnessi. Gesù indica la chiave di ogni possibile rapporto umano positivo in un legame affettivo, prima che d’interesse, presupposto necessario a quell’insieme di scambi, spirituali ma anche di natura materiale ed economica, che rendono migliore la nostra vita quotidiana. A chi gli domanda come fare per meritare la vita eterna Gesù ricorda fra l’altro il comandamento del Pentateuco «amerai il tuo prossimo come te stesso» (Lc 10,27). Alla richiesta di specificare chi sia il prossimo indicato dalla legge mosaica il Cristo risponde in modo strano, attraverso la parabola del buon Samaritano, che si conclude con la domanda su chi sia stato il prossimo dell’uomo aggredito mentre scendeva da Gerusalemme a Gerico. Nella risposta «Chi ha avuto compassione di lui» (Lc 10,37), il prossimo è la parte attiva del gesto d’amore gratuito, si realizza l’inversione di ruoli che sta alla base del messaggio evangelico: l’amore che Dio prova per ogni essere umano ne fa di per sé una meraviglia e ne manifesta il valore assoluto. Perciò la chiamata all’amore per gli altri, per tutti gli altri, non pretende un atto contro natura ma il semplice riconoscimento, francescano, dello splendore del creato e della ricchezza di ogni singola esperienza umana. Diceva Borges che l’umanità vive ancora nel paradiso terrestre e che il peccato originale consiste nel non accorgersene più.
MobyDICK
Rock
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musica
LA MUSICA NON PAGA anzi, ne paga 30 mila di Bruno Giurato
di Stefano Bianchi hi l’avrebbe mai detto: anche a Scandiano ci sono i mod. Cresciuti a pane e Who, lambrusco e Paul Weller, piadina e Oasis. I fratelli Marco e Matteo Montanari (chitarra e voce il primo, tastiere il secondo), Michele Smiraglio (basso) e Francesco Micalizzi (batteria), sono la via emiliana del movimento Mod (abbreviazione di Modernism) nato a Londra alla fine degli anni Cinquanta, strafamoso nei Sessanta
C
Jazz
l crimine non paga era l’adagio di una volta, e ora sappiamo che nemmeno la musica paga. La crisi del mercato discografico, l’opera una volta unitaria che era il disco o cd spezzettata in tante canzoni in vendita low cost o in scambio gratuito, i locali live che rendono routine la scena di Blues Brothers in cui sonavano per saldare il conto del bar. La musica, proprio come il crimine, non paga (se non ad alti livelli). Oggi MySpace, blog e siti Web ospitano milioni di artisti e di band musicali: sarebbero meno di 30 mila, però, quelli che si guadagnano effettivamente da vivere, secondo una statistica elaborata da Songkick (sito inglese contenente un enorme database di musica dal vivo) e ripresa da Ian Rogers, ceo di Topspin, durante una conferenza dello scorso weekend a Santa Barbara, California. La stima si basa su un’analisi delle band censite da Songkick, in base al tipo di locali in cui suonano abitualmente. E sappiamo che in Italia è peggio. Mentre negli Usa c’è una fascia media di gruppi e artisti che sopravvivono dignitosamente, da noi la struttura e la congiuntura hanno accoppato proprio i medi. Cioè l’elemento più vitale, proteico ed enzimico della fauna suonante e cantante. Ragazzini e big non risentono più di tanto della situazione, per ovvi opposti motivi. Chi vuole fare il musicista comunque consideri che: 1) la sua principale occupazione sarà trasportare grandi scatole nere da una parte all’altra della città; 2) come prestigio sociale, economico, e di conseguenza artistico, la professione è sempre più vicina alla pratica dell’accattonaggio; 3) ma di criminali e prostitute onesti il mondo avrà sempre bisogno.
I
Ecco Elizabeth, i mod made in Scandiano (Quadrophenia, film di culto, è ambientato nel 1964), a tutt’oggi più che mai vivo e vegeto. Si chiamano Elizabeth, garantito che girano in Vespa o in Lambretta, nel loro guardaroba hanno almeno un giaccone parka e sulla copertina di Ruggine, l’album di debutto, hanno stampato il simbolo della Royal Air Force (l’aviazione inglese) che è il logo istituzionale dei modernisti. Dopo aver suonato in ogni posto possibile, e al diavolo nebbia e zanzare, il quartetto s’è inventato canzoni dal refrain vincente e dalla prosa schietta del tipo «Mi sono perso e non riconosco più la strada. Ciò che uccide è ciò che non si conosce, però l’abitudine è una lurida malattia. Ti brucia il cervello, è meglio evitarla» (Disinfettante); «Ma perché c’è chi prende sempre la vita come sfida? E c’è anche chi sta buono e zitto al proprio posto? Ma perché c’è chi ti prende in giro e chi non sa come confonderti? Ci vorrebbe una rivoluzione» (Certi giorni); «Bisogna tuffarsi dentro ogni singola opportunità. Non c’è più niente da perdere, si rischia sempre di sedersi e adattarsi alla meglio peggio. Io
zapping
preferisco provarci» (Opportunità). Che i ragazzi sappiano dove andare a colpire lo dimostra anzitutto il rock battente, quasi punk di La mia generazione che tira in ballo l’illustre My Generation (‘65) di Pete Townshend, chitarrista degli Who, senza esserne la rilettura bensì una verace «italianizzazione». La tempra mod, poi, è chiara e limpida in Disinfettante: energica, muscolare, ben sintonizzata su Who e Oasis con la chitarra elettrica che si mette a inseguire Stanley Road di Paul Weller. Ruggine, inciso all’Esagono Recording Studio di Rubiera, vicino a Reggio Emilia, ha dalla sua freschezza, spontaneità e un buon dosaggio d’adrenalina e relax. Un mondo per me, ad esempio, coinvolge: elettrica, orecchiabile, polposamente melodica; così come Opportunità, folk-rock effervescente con un ritornello che sa di anni Sessanta, e l’acustica Piove su Milano (ripresa come You Are My Light, in inglese, come bonus
track del disco) che viene giostrata dal pianoforte per poi trasformarsi in un rock sempre più tosto, nello stile di Ligabue (non si scandalizzino, gli Elizabeth: capita anche fra i migliori mod, ogni tanto, di andar d’amore e d’accordo coi vituperati rocker). C’è poi da riferire della voce calda e persuasiva di Marco Montanari: a proprio agio sia nelle ballate elettriche (Schizofrenia, Si è fatta quell’ora e Norlevo, coi preziosismi di un’arpa), sia nel cocciuto rockeggiare di Certi giorni; nelle sorprendenti atmosfere pseudo-country di Io convivo con me («… e ci sto pure bene, anche se a volte ci sono alti e bassi», recita il lunatico testo) e nell’essenzialità di Elisa, sempre qui, per chitarra acustica e percussioni soft. Quand’è di antica data, sostengono gli Elizabeth, la ruggine è compatta come la polvere che ricopre i vecchi ellepì. Ma nulla, giurano, potrà mai intaccare o corrodere la musica modernista. Inclusa, ovviamente, quella che risuona nella pianura emiliana. Sorbole, che bravi questi ragazzi. Elizabeth, Ruggine Mescal/Universal, 17,90 euro
Bearzatti, note di sassofono in omaggio a Malcom X ontana provincia dell’impero del jazz italiano, il Friuli, si sta rivelando come una delle regioni più interessanti anche se pochi appassionati e cultori di questa musica conoscono Romano Todesco, Nevio Basso, Bruno Cesselli, punti di riferimento per tutti i musicisti di Pordenone. A questi è doveroso aggiungere Juri Dal Dan e alcuni altri della generazione precedente, Glauco Venier, Giovanni Maier, U.T. Gandhi che in passato hanno ottenuto, malgrado il jazz non avesse all’epoca la visibilità di oggi, un successo anche internazionale. Sulla situazione friulana l’eccellente sassofonista Dal Dan ha scritto: «C’è da dire che negli anni Ottanta esistevano diversi Jazz Club nel raggio di una quarantina di chilometri, con programmazioni costanti e durature. Posso dire che sono uno dei pochi che ha avuto il privilegio di respirare un’autentica at-
L
di Adriano Mazzoletti mosfera jazzistica: fumosa e trasgressiva. Con gli anni i locali via via hanno chiuso, e le occasioni per suonare sono diventate sporadiche, almeno per un musicista che è passato dal suo ambiente naturale, club appunto, all’accademia. In parte ciò ha permesso ai musicisti locali di presentare i propri lavori anche se non è così automatico che questo accada. Mi riferisco al ruolo dei direttori artistici, che privilegiano, per ragioni economiche, musicisti noti». Questa la ragione della scarsa o nulla visibilità dei musicisti friulani, che però hanno grandi capacità spesso superiori a quella di colleghi romani o milanesi. Uno di questi, che negli ultimi tempi ha sconvolto positivamente la realtà musicale friu-
lana, è Francesco Bearzatti. «Negli anni Ottanta andavo ad ascoltarlo - ricorda ancora Dal Dan - in un famoso Jazz Club della periferia di Pordenone, “Lo Stato di Naon”, dove Bearzatti dimostrava già quelle doti che in seguito lo avrebbero portato al successo internazionale». Diplomato in clarinetto al conservatorio di Udine, si trasferisce presto a New York dove incontra il sas-
sofonista George Coleman che dopo aver collaborato con Miles Davis dirigeva, all’epoca, un suo complesso. L’influenza esercitata sul giovane musicista italiano è stata determinante per la formazione del suo stile, anche se come ricorda lo stesso Bearzatti: «Da giovane ho suonato molto blues, rock e pop e questa musica rappresenta un’influenza ancora oggi molto evidente e a volte mi viene naturale andare a pescare nel mio passato extra-jazzistico». Musicista brillante dallo stile originale, più conosciuto a NewYork e a Parigi, dove è di casa, che non da noi, sarà presente con un suo concerto dedicato a Malcolm X, martedì 23 alla Sala Petrassi dell’Auditorium di Roma per il 34° festival del jazz. Un’occasione per conoscere questo importante solista.
arti Mostre
MobyDICK
essun dubbio che, in dialogo con le mostre al piano nobile di Palazzo Strozzi, le labirintiche rassegne che hanno ripreso vita nei sotterranei a cripta di quella che da sempre viene chiamata, un po’ sinistramente, la Strozzina, siano le mostre più intelligenti e concrete del sinistrato mondo e farraginoso della contemporaneità. Da un lato la serietà della curatrice o coordinatrice, Franziska Nori, una delle poche curators intelligenti e preparate che navigano per il nostro Paese dall’intelligenza di piattissima bonaccia, dall’altra il tema intelligente scelto ogni volta, che ha a che fare con i problemi dell’estetica contemporanea e che dunque propone sempre artisti rilevanti e mirati al tema, non casualmente aggregati, per ragioni mercantili di scuderia o come interscambiabili riempitivi di parete. Qui ogni proposta ha invece un senso ben riconoscibile e il filo logico si dipana assai chiaro ed evidente. Ci riferiamo questa volta alla mostra che ruota intorno al tema non meno rilevante del rapporto tra il potere e la sua rappresentazione iconica, nell’arte ma anche nella pubblicità e nella politica. Offrendo, in modo non innocente, e sotto le volte medicee del palazzo, l’icona quasi benedicente, imbalsamata, dell’ultimo, incrollabile divo senile della rivoluzione al tramonto: Fidel Castro. Ma se si guarda con attenzione, nell’elaborazione fotografica di Sugimoto (il grande artista giapponese, che abitualmente privilegia il vuoto immobile degli schermi cinematografici orfani d’immagini o l’apparente fissità stregata d’un’onda che si sta per frangere, come in un verso di Valery) Fidel Castro, oppure il Papa, o addirittura l’immarcescibile EnricoVIII dello scisma, tradiscono una fissità inquietante e di caucciù, ch’è tipica
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Architettura
Icone del potere
da Enrico VIII a Fidel di Marco Vallora del mortifero lifting esistenziale del Potere. E infatti essi vengono ripresi non dal vero, come pare, bloccati in una gestualità sacrale e funerea, alla Madame Tussaud, ma direttamente in un museo delle cere, dov’essi hanno già smesso la loro vitalità, come un abito usurato, e protraggono soltanto la loro mortifera apparenza d’un carisma svanito. Né è un caso che Sugimoto si decori, come il miglior «fotografo del Sedicesimo secolo», certo dialogando con la pittura di Cranach e di Holbein, e facendoci riflettere quanto questa mostra sia sensata e riverberi con quella, magnifica, ospitata al piano nobile, dedicata alla ritrattistica di potere di Bronzino e Pon-
tormo. Questa mostra non si limita, però, alle solite prevedibili immagini fotografiche dei big della politica, registrati con genio mutevole dai big dello scatto, per dire gli Helmut Newton in dialogo «quasi sexy» con il sorriso inatteso della iron lady Margaret Thatcher. Oppure Annie Leibowitz, in tensione con la Regina Elisabetta, che non vuole deporre a nessun costo la propria corona. Ma ci sono anche video sorprendentemente intelligenti, progetti socio-etnografici, montaggi concettuali di stilemi fotografici, come in Clegg & Guttmann, che sbarcando con coraggio dentro il mondo paludato della borsa mondiale, rovesciano l’abituale rapporto tra committente e
Le “nozze d’oro” di Busiri Vici & Co. di Claudia Conforti al 1983 l’Ordine degli Architetti di Roma si è fatto promotore di un’utile iniziativa editoriale e documentaria che, a cadenze necessariamente irregolari (1992, 2004, 2006), intende dare conto dell’attività dei più consolidati studi professionali della città e della provincia. La selezione avviene su base anagrafica: quando uno studio di architettura di Roma e dintorni sfiora i cinquant’anni di attività («le nozze d’oro» con l’architettura), l’Ordine, con la fondamentale collaborazione della Soprintendenza Archivistica del Lazio, procede a un primo censimento dell’archivio professionale. L’atto conoscitivo è la premessa della redazione di una scheda critica che, delineata da giovani studiosi di talento, come Giulia Ceriani Sebregondi, sintetizza l’itinerario formativo e l’attività progettuale dell’architetto di lungo corso. I risultati convergono in un volume a stampa che quest’anno riunisce ben settanta progettisti, tra i quali rappresentanti di illustri dinastie professionali romane, come Giancarlo Busiri Vici, elegante interprete di ville, e Pietro Barucci, il sapiente coordinatore dell’insediamento popolare di Tor Bella Monaca, oggi tanto (vanamente?) vituperato. A ogni progettista sono dedicate quattro pagine: la prima, corredata da un ritratto fotografico, delinea la biografia professionale; le rimanenti sono votate all’illu-
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strazione grafica e fotografica di architetture, piani urbanistici, oggetti di design, selezionati tra i progetti e le opere di mezzo secolo di professione. La presentazione di questo quinto volume è all’origine di una giornata di studi, che si terrà lunedì prossimo 15 novembre alla Casa dell’Architettura, intitolata La memoria degli Architetti. Nuovi strumenti e metodi per la tutela e la comunicazione. Le sfide poste dalla documentazione digitale. Gli architetti documentati nel volume, a eccezione di pochi esempi come Eduardo Vittoria, che si forma a Napoli, e di Gabor Acs proveniente da Budapest, sono tutti laureati in architettura alla facoltà romana di Valle Giulia e sono nati nel decennio tra il 1925 e il 1935. Una generazione che, seppure si è formata nell’insegnamento accademico di professori piuttosto conformisti, come Enrico Del Debbio, Plinio Marconi, Attilio La Padula, affiancati da insegnanti più sperimentatori come Gaetano Minnucci e Pier Luigi Nervi, ha tuttavia imparato soprattutto dai «maestri fuori dall’università». Per esempio le esperienze professionali compiute negli studi di Monaco e Luccichenti, dei Passarelli e di Paniconi e Pediconi, atelier di affermata professionalità, sono condivise da molti, tanto che, sfogliando le pagine del volume, emerge un comune e condiviso approccio al progetto. Un progetto fortemente intriso di ideologia e di teoria compositiva derivata dalla lezione del maestro americano Frank Lloyd Wri-
artista, trasformandosi loro nei veri padroni del look di questi loro potentissimi «sottoposti», e giocando con consapevolezza con i simboli montati, allegorici e neo-medievali, della sovrastruttura economica: le mani parlanti, i nodi della cravatta, la prossemica retorica dell’inganno finto-innocuo. Ma c’è anche la presenza della musica, in un sottile lavoro del compositore Fabio Cifariello Ciardi, il quale ha avuto la trovata stimolantissima di scegliere tre discorsi simbolici (di Bush sull’esordio della guerra in Iraq, di Blair che interrompe il G8 per un’emergenza in Scozia e infine quello bellissimo di Obama, al Cairo, sulla necessità di superare i conflitti stereotipi della cosiddetta «guerra di civiltà») non già elaborando elettronicamente la loro voce, che sarebbe più prevedibile, ma trascrivendo musicalmente, per strumenti, il loro eloquio e l’inflessione retorica del messaggio subliminale. Così, ascoltando il loro messaggio, ma sovraesposto alla musica d’un clarinetto brillante, che può accompagnare per esempio, la tournure affettuosa del discorrere di Obama, oppure il trombone pomposo dell’ipocrisia mascherata di Bush, la linea segreta e criptata della sostanza politica risulta più che evidente: denudata. L’opera più felice e poetica ci pare però quella di Christoph Brech, che sceglie per il suo video un’area simbolica, quale quella occupata del misterioso yacht, che si ancorò davanti alla Punta della Dogana già di Pinault, durante la Biennale 2009. Ma non per spiarvi divi e segreti da gossip, semplicemente guardandola attraverso gli occhi d’alcuni operai, che detergono con spugne e saponi il fianco della barca, creando un effetto action painting o Cy Twombly, davvero lirico-polemico e soggiogante.
Ritratti del potere, Firenze La Strozzina, fino al 23 gennaio
Sartogo Architetti Associati, chiesa del Santo volto di Gesù a Roma
ght, mediata dall’impetuosa interpretazione di Bruno Zevi. Architetti che hanno esordito nella Roma degli anni Cinquanta e Sessanta, quando il dibattito disciplinare, incanalato dalle associazioni di settore quali Inarch e Inu, era incandescente e partecipato, mentre l’architettura, coniugata all’urbanistica, sembrava in grado di forgiare un nuovo mondo e una società migliore, eticamente ed esteticamente. Di questa illusione generazionale restano tracce, più o meno felici e convincenti, nei progetti e nelle opere che scorrono, come fotogrammi di un documentario sull’edilizia romana (e italiana!) degli ultimi decenni, talvolta toccante, talaltra patetico. Ma sempre molto interessante e rivelatore del nostro passato più prossimo.
50 anni di professione, V Volume, Ordine degli Architetti Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori di Roma e Provincia, 383 pagine, s.i.p.
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il paginone
Umorismo non solo come risata, ma come approdo metafisico alla realtà, come modo nuovo di vedere le situazioni e le persone. Ecco l’arma micidiale usata per affrontare i temi eterni dell’uomo, a cominciare dalla lotta tra il bene e il male, da Gilbert Keith Chesterton. Anglicano di nascita poi cattolico convertito, uomo e scrittore vitalissimo, tornato oggi all’attenzione degli editori italiani di Pier Mario Fasanotti n attesa che qualche grande editore si accorga della straordinaria opportunità, continuano a emergere segnali del grande ritorno di uno scrittore vitalissimo, Gilbert Keith Chesterton. La maggior parte dei lettori lo associa solo alla sua creatura letteraria più famosa e più popolare - anche grazie al cinema e alla televisione - ossia a Padre Brown, il prete investigatore che poco, davvero poco, ha a che vedere con il pallido e mieloso Don Matteo dell’omonima serie tv. Vitalissimo, dicevo. Chesterton ha sempre dato di sé un’idea di straripante energia, autore di quasi cento libri, giornalista, polemista capace di
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prendere posizioni scomode e originali, attivo nelle iniziative editoriali. Ce lo vediamo ancora davanti a noi, questo vulcano la cui lava scorre lungo i canali dell’ironia, l’arma micidialmente efficace con cui l’inglese, anglicano di nascita e poi cattolico convertito, affrontava i temi eterni dell’uomo a cominciare dalla lotta tra il bene e il male. Satana, per usare un’allegoria, lo prendeva in giro rovesciando gli stereotipi della lotta frontale e furiosamente retorica.
Chesterton era sanguigno e positivo, mai lugubre o apocalittico. Il male, per rubare un’espressione cara a Bernanos, è
dello scrittore. Che non si ferma al duello millenario tra bene e male, ma scandaglia il sistema e la modalità del «combattimento». Lo scontro, quindi, si sposta tra ottimismo laico e ottimismo cristiano. In un suo saggio, Ortodossia (di recente ripresentato dall’editore Lindau di Torino) chiarisce così: «Tutto l’ottimismo di quest’epoca è stato falso e scoraggiante, per questa ragione: che ha sempre cercato di provare che noi siamo fatti per il mondo. L’ottimismo cristiano invece è basato sul fatto che noi non siamo fatti per il mondo». La qual cosa non deve indurre nell’errore di credere alla fideistica potenza dell’uomo. Chesterton era idiosincratico verso il «superuo-
Secondo l’autore di Padre Brown (e non solo), è il binomio essenziale per accedere alla verità, all’anima delle cose. Un ordigno che fa esplodere le categorie della logica senza rinunciare all’etica certamente un’entità dal «collo taurino», ma dev’essere osservato, studiato e contrastato con estrema calma. E, soprattutto, con ironia. Senza per questo sottovalutare gli artigli dell’avversario. In uno dei più celebri suoi romanzi, L’uomo che fu Giovedì (1908), indica la felicità come obiettivo vero dell’uomo. Raggiungibile, in toto o in parte, attraverso la contrapposizione al male. Scriveva: «Il male è troppo grande e non possiamo fare a meno di credere che il bene sia un accidente, ma il bene è tanto grande che sentiamo per certo che il male potrà essere spiegato». Qui il punto nodale della visione
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mo» e verso tutte le teorie che gli ruotavano attorno, compreso l’«umanitarismo» di Bernard Shaw, suo amico e rivale. «L’adorazione della volontà è la negazione della volontà. Non è possibile ammirare la volontà in generale perché l’essenza della volontà è nell’essere individuale».
Dicevo del ritorno editoriale di Chesterton. L’editore Lindau ci offre la monumentale autobiografia che Chesterton (nato il 29 maggio 1874 a Londra) due anni prima di morire (1936) scrisse. Uscì postuma e per quarant’anni non è mai comparsa sugli scaffali italiani. Nello stesso tempo l’editore Rubbettino, i cui libri non sono sempre facili da trovare in libreria, ripubblica alcune delle sue opere, accanto a
Fede e n un lucido studio sull’autore in cui si legge che Chesterton era una sorta di cantore dell’amore umano, delle cosiddette «pastorelle di terracotta», del sorriso dei bambini. In Il bello del brutto (traduzione libera di The Defendant, uscito nei tipi della Sellerio) sosteneva con vigore che la realtà di tutti i giorni, tra amarezze e difficoltà, non è altro che un lungo appuntamento tra la Creatura e il suo Creatore, ossia il Dio invisibile. Che si trova, appunto, nelle cose più materiali se l’occhio non è colpevolmente distratto. E non era certamente distratto padre Brown. Le edizioni San Paolo hanno da poco mandato in libreria I racconti di padre Brown (909 pagine, 28,00 euro). Il personaggio è stato modellato sul profilo di monsignor John O’Connor, un prete dello Yorkshire che nel 1922 aveva accolto Chesterton nella Chiesa cattolica ed era diventato suo grande amico. In un’Inghilterra spiccatamente protestante uno come Brown, oltre al suo autore, risultò alquanto rivoluzionario. È una sorta di ac-
cento straniero in patria. Non a caso qualche critico mise in evidenza l’anomalia dello scrittore in quanto dotato di un’anima inglese e di un’intelligenza latina. Fatto salvo, ovviamente, il sense of humour tipicamente britannico. Chesterton aveva fama di bonaccione, di tollerante, di amante della vita, di uomo sempre pronto a cogliere il lato comico di una situazione e a riderne. Ridere e mai deridere, attenzione.
Chesterton disse sempre che la sua era stata «una vita immeritatamente felice». Le sue ultime parole prima della morte furono rivolte alla moglie: «Ciao, mia amata». Era di statura imponente: circa un metro e novanta di altezza e 130 chili di peso. La sua bara venne fatta calare dalla finestra troppo perché grande per le anguste scale di casa. L’orazione funebre, nella cattedrale di Westminster, fu tenuta da Ronald Knox, pure lui un convertito e pure lui scrittore di gialli. Padre Brown s’immerge nella vita e nell’esistenza degli altri. Solo in questa maniera può capire ciò che succede. In uno dei racconti tiene a precisare che sbagliano davvero quegli scienziati che «considerano
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nonsense l’uomo dall’esterno e lo studiano come se fosse un insetto… quando uno scienziato parla di un “tipo”, egli non intende mai se stesso, ma sempre il suo prossimo, e probabilmente il suo prossimo più povero». Ecco una delle tante sferzate dell’autore. E ancora: «Io non cerco di guardare l’uomo dall’esterno, cerco di penetrare nell’interno di un assassino. Anzi, molto di più, non le pare? Io sono dentro un uomo… aspetto di essere dentro un assassino… finché penso i suoi stessi pensieri e lotto con le sue stesse passioni… finché vedo il mondo con i suoi stessi biechi occhi… finché anch’io divento veramente un assassino». In L’innocenza di padre Brown c’è un’affermazione così chiara da diventare categorica: «Sono un uomo e perciò ho il cuore pieno di diavoli».
Il cercare sempre di capire era il tratto più significativo di Chesterton. Il quale, come ho accennato prima, usava disin-
voltamente la spada dell’ironia. Come risposta alla menzogna. Per contrastare settarismi, eresie sciocche, religioni con pericolose deviazioni come il buddismo e l’islamismo. Per Chesterton la menzogna assume spesso il volto dell’ipocrisia. Ecco allora che l’ironia va a colpire al cuore ciò che è l’effetto più vistoso dell’ipocrisia, ossia la malafede. Sosteneva lo scrittore: «Il mentire potrà servire alla religione, ma sono sicuro che non serve a Dio». E alla larga dal mistero descritto e rappresentato come satanicamente misterioso e tenebroso: è il diavolo, non Dio, a corteggiare questa stranezza, «con complicata e bizzarra fantasticheria». Il disprezzo verso i falsi misteri è ben chiaro nel racconto La parrucca rossa. Chesterton intitolò il suo primo romanzo Il Napoleone di Notting Hill, racconto visionario e marcatamente autobiografico in cui si immagina che la democrazia sia morta per l’indifferenza dei cittadini e venga soppiantata da una «ti-
semmai la segnaletica di carattere etico viene rimpiazzata dall’allegoria. O meglio, da quel genere di umorismo tanto caro a Chesterton, il nonsense, che lui riteneva «destinato a essere la letteratura del futuro» in quanto verrà «in alla soccorso concezione spirituale delle cose… sono secoli che la religione cerca di far gioire gli uomini delle meraviglie del creato, ma s’è scordata che non c’è niente che possa davvero apparire meraviglioso finché continuerà a essere sensato… il nonsense e la fede, per quanto strano possa apparire il connubio, sono le due supreme affermazioni simboliche di questa verità: non è possibile estrarre l’anima delle cose con un sillogismo». Il nonsense quindi è l’ordigno che fa esplodere le soffocanti categorie della logica. Chesterton per certi versi anticipò quella letteratura dell’assurdo che sarebbe nata soltanto dopo la seconda guerra mondiale. Umorismo non solo come risata, ma come approc-
In Italia, Paese che molto amò, fu lanciato da Emilio Cecchi che lo pubblicò su “La Ronda”. Anche Borges fu un suo affezionato lettore: «... Nessuno scrittore mi ha dato tante ore felici come Chesterton» rannia morbida». Non c’è più il re, ma un qualsiasi grigio impiegato eletto sovrano, il quale come per divertimento ripristina l’indipendenza degli antichi sobborghi di Londra. Un nuovo Medioevo, insomma. Ci si potrebbe chiedere: un movimento no global ante-litteram? No, non c’è un anacronistico elogio del campanilismo, magari di sapore leghista. Il messaggio di Chesterton vola più alto, indica cioè che non si possono avere a cuore le sorti del mondo se non si avverte l’esigenza morale di difendere quelle quattro mura che ci hanno visti crescere. Come si fa, del resto, ad amare il Terzo Mondo quando si ignora o addirittura si disprezza il borgo nel quale siamo nati e cresciuti? C’è forse il rischio della «predica»? Assolutamente no,
cio metafisico alla realtà, come modo nuovo di vedere le situazioni e le persone.
Chesterton viaggiò molto in Italia, Paese che amava. I lettori italiani lo apprezzarono subito, a cominciare dalle traduzioni di Le avventure di un uomo vivo e dei Racconti di padre Brown. Lo lanciò Emilio Cecchi, che pubblicò svariati articoli dell’inglese nella sua rivista La Ronda. Certi suoi saggi uscirono sul Frontespizio, con recensione di Giovanni Battista Montini, il futuro Papa Paolo VI. Del narratore londinese ebbe a dire Jorge Luis Borges: «La letteratura è una delle forme della felicità; forse nessuno scrittore mi ha dato tante ore felici come Chesterton». Il personaggio di padre Brown ispirò cinema e televisione. Lo «strano detective» ebbe il volto di Alec Guinness (1954), poi fu la volta di Renato Rascel con sei puntate a cavallo degli anni 1970-’71.
Gli aforismi di un uomo sottile C’è una strada che va dagli occhi al cuore senza passare per l’intelletto. Il vero modo per amare qualsiasi cosa consiste nel renderci conto che la potremmo perdere. La psicanalisi è una confessione senza assoluzione. Non esistono cose noiose: esistono solo persone noiose. La felicità è uno strano personaggio: la si riconosce soltanto dalla sua fotografia al negativo. Senza istruzione corriamo il rischio di prendere sul serio le persone istruite. Tutti parlano dell’opinione pubblica, e per opinione pubblica intendono l’opinione pubblica meno la propria opinione. Un’avventura è soltanto una disavventura vista dal lato buono. La famiglia è il test della libertà, perché è l’unica cosa che l’uomo libero fa da sé e per sé. È l’odio che unisce gli esseri umani, mentre l’amore è sempre individuale. La dignità dell’artista sta nel suo dovere di tener vivo il senso di meraviglia nel mondo. L’ideale cristiano non è stato messo alla prova e trovato manchevole: è stato giudicato difficile, e non ci si è mai provati ad applicarlo. Le grandi opere letterarie sono sempre allegoriche: allegoriche di una qualche visione totale del mondo. La nostra civiltà ha deciso, molto giustamente, che stabilire l’innocenza o la colpevolezza delle persone è troppo importante per essere affidato a uomini istruiti allo scopo. Quando la nostra civiltà vuole essere illuminata su questa angosciosa questione, si rivolge a persone che in materia di legge non ne sanno più di me, ma che sono capaci di sentire quel che io ho sentito sul banco dei giurati. Quando la nostra società vuole catalogare i libri di una biblioteca, scoprire il sistema solare, o altre minuzie del genere, si serve dei suoi specialisti. Ma quando vuol fare qualcosa di veramente serio riunisce 12 uomini comuni. Se ben ricordo, il fondatore del cristianesimo fece lo stesso. L’uomo non vive di solo sapone. La donna media è a capo di qualcosa di cui può fare ciò che vuole; l’uomo medio deve obbedire agli ordini e nient’altro. Tutta la differenza fra costruzione e creazione è esattamente questa: una cosa costruita si può amare solo dopo che è stata costruita; ma una cosa creata si ama prima che esista.
Narrativa
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ovistando in una memoria pericolante affiora il ricordo di un genere denominato romanzo horror che nelle rigide classificazioni occhieggia tra noir e giallo. E così viene naturale pensare al nuovo romanzo di Sandro Veronesi come a un libro in cui il genere si appropria del plot. Certo ci troviamo di fronte a qualcosa di più che un denso noir, dove il meccanismo del mistero si tinge di fosco fino all’orrido serpeggiare della paura. Un romanzo offerto già nel titolo, XY, come allusione al genere, dove la specifica della diversità è anche tra maschile e femminile mentre non è detto che sia anche una spia, patentemente, letteraria. D’altra parte, non sfuggirà al lettore che a questo fa ampiamente eco la protasi, o nota iniziale dell’autore, che pur non richiesta, informa sul come e quando il romanzo è nato come idea e poi come sviluppo. Pronta risposta ha il titolo nella struttura binaria del romanzo, con doppio io-narrante, una donna psicanalista e un prete. Letture quindi di contrapposizione, in apparenza specchiate tra fede e ragione, in realtà le voci narranti spesso si sovrappongono tra loro e sembrerebbero completarsi. Il romanzo di Veronesi che arriva dopo qualche anno dal successo di Caos calmo, intanto prende avvio dalla prefazione che si intromette nella storia con una certa insolenza: l’autore tiene a specificare che il romanzo è frutto di una lunga gestazione che ha risentito molto della biografia dell’autore. E chissà forse nell’andamento della storia parte della vita dell’autore avrà fatto la sua parte. XY, in barba alle allusioni cartesiane, è un libro che sin dalle prime pagine precipita nell’incongruo, nell’irrazionale per due fatti che hanno a che fare col sangue e in cui i due protagonisti sono coinvolti. Entrambe le voci spingono subito l’accento sul pathos, entrambe catturano l’attenzione del lettore sul vivo (se non fosse troppo potremmo dire sulla carne), don Ermete introducendo al delitto (e al suo luogo), Giuliana aprendo il fronte della vita privata, quella intima.
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Sandro Veronesi XY Fandango 394 pagine 19,50 euro
La banalità del male secondo
Veronesi
Riletture
libri
Cinque anni dopo “Caos calmo”, una storia ambientata in un piccolo paese del Trentino dove si consuma un orribile delitto con undici vittime di Maria Pia Ammirati Entrambe s’aprono sul sangue. Uno s’apre sul sangue di innocenti, l’altro sul sangue innocente di un’antica ferita che si riapre. La storia è ambientata in un piccolo paese del Trentino, San Giuda: «borgo San Giuda non era nemmeno più un paese, era un villaggio. Settantaquattro case, di cui più della metà abbandonate… succedeva una cosa sola, d’inverno, a San Giuda: l’arrivo della slitta di Beppe Formento». In questo gioco a specchio delle due voci, don Ermete scoprirà l’orribile delitto avvenuto alle radici di un albero, il grande feticcio del romanzo, che campeggia ghiacciato e arrossato su un campetto innevato, dove undici persone giacciono morte. Giuliana si sveglia in un letto pieno di sangue fresco che esce
copioso da una ferita riapertasi dopo quindici anni. È possibile che si riapra una ferita ricucita e medicata dopo quindici anni? La risposta medica è no, tranne che non si alluda alle stimmate, cioè alle ferite che s’aprono sui corpi di santi. Mentre don Ermete scopre un macabro teatro spruzzato di sangue e di neve, Giuliana s’avvita su un dubbio che fa vacillare le certezze del medico. Un prete e una psicanalista, i percorsi sembrerebbero segnati dalla ragione e dalla fede, ma per entrambi una mattina qualsiasi inizia con il rovello del dubbio che mette in crisi ogni tipo di certezza. D’altra parte né la fede o la religione, né la scienza riescono a spiegare l’horror, inteso sia come paura sia come fenomeno inspiegabile. Lo sconcio dei cadaveri sta certo nello strano affare che undici persone siano morte contemporaneamente, nello stesso luogo, di morti diverse ed estranee tra loro (una di cancro, una decapitata, una addirittura azzannata da uno squalo), ma anche nel fatto che nessuno riesce a capire come questo fenomeno sia possibile e come si possa gestire. Tra fede e ragione spunta dunque la paura, una forza capace di reificare un nemico qualsiasi, ma soprattutto di mettere in luce il tratto più rozzo che è l’ignoranza. In preda alla paura e all’ignoranza tutti possono diventare nemici, soprattutto gli stranieri, i diversi da noi. Nella banalità dei tempi ecco spuntare, ancora una volta, la banalità del male.
Personaggi da Dolce vita con colonna sonora doc amilla Baresani mi è venuta incontro con un suo libro Un’estate fa (Bompiani) in occasione dell’ultimo Premio Rapallo: un romanzo che mi persuase delle sue doti. Non vinse ma entrò nella terna delle opere scelte da sottoporre al voto della giuria popolare. Ho poi ripreso un suo romanzo del 2002, con un titolo non felicissimo Sbadatamente ho fatto l’amore (Mondadori). Anche se lo spunto del racconto appare un po’ vistoso, il romanzo riserba un felice panorama degli anni romani della «dolce vita». La figlia di un «mostro» del tempo, pluriomicida - si racconta - cerca di scrollarsi di dosso questa identità partecipando a una vita non «dolce» ma degenerata. Il protagonista del romanzo, infatti, la incontra nel corso di un’orgia in una casa privata dove gli invitati devono essere tutti nudi. Parla con lei e la porta via dall’orgia, a casa propria, forse pensando che avrebbe fatto l’amore tranquillamente. Ma non lo fa: non certo per disgusto ma per una improvvisa crescita di pietà. Il protagonista che si presenta come un noto regista cinematografico a me pare di riconoscerlo in uno scrittore e sceneggiatore di quegli anni non uso alle orge
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di Leone Piccioni ma intrufolato con intelligenza e ironia soprattutto nel mondo dello spettacolo e nel mondo della musica di quel tempo (la Baresani ricorda quella bella musica e la identifica nei nomi dei compositori e artisti come Piccioni,Trovajoli, Kramer e, per colonne sonore dei film, specialmente indica Le mani sulla città di Francesco Rosi). Com’è d’uso, la Baresani mette le mani avanti per dirci che nomi, personaggi, ecc. sono il prodotto della sua immaginazione o aggiunge se «reali sono utilizzati in modo fittizio». La figlia del «mostro» sparisce d’un tratto, dopo un lungo periodo di notorietà pubblicitaria che a poco a poco, però, si dilegua. Da allora nel regista si insinua una curiosità, non si sa se morbosa o pietosa, che lo spinge ad avere sue notizie, per sapere dove stia e che cosa faccia della propria vita. Per indagare si affida (attraverso vicende che sarebbe lungo
Il secondo romanzo di Camilla Baresani, ambientato nella Roma degli anni Sessanta
qui raccontare) a una coppia di studenti, appoggiandosi specialmente alla ragazza Caterina per rintracciare la figlia del «mostro» della quale sapremo alla fine del romanzo che è ora sposata a Milano con un umile impiegato.Viene fissato l’incontro tra lei e il regista, ma tutto va nel verso opposto da quello ipotizzato: la ragazza lo scaccia e lo rimprovera acerbamente del suo passato e per come si è comportato nei suoi confronti. L’incontro insomma non poteva essere più disastroso. Tutto cambia nella mente di lui. Così d’un tratto si accorge che la vera donna che può amare (lui scapolo impenitente) è, malgrado la differenza di età, Caterina che acconsente. La pulizia, la purezza e la chiarezza della giovane ragazza riescono a distruggere tutto il torbido clima vissuto dal regista. Un solo rilievo: una certa ripetitività, con qualche pagina in meno il romanzo avrebbe acquistato di scorrevolezza. Ho riletto questo romanzo della Baresani nel clima di un’afosa estate: è stata una sferzata d’aria fresca. Qua e là belle battute. Una ad esempio: «Lo sa Dio che deve tanto a Bach?».
Thriller
MobyDICK
di Pier Mario Fasanotti
nche per chi non era indovino, sarebbe stato facile prevedere che il romanzo giallo prendesse il sentiero psichiatrico. Ed è ciò che accade oggi. Si è passati dal poliziesco deduttivo di Conan Doyle, a quello di atmosfera di Georges Simenon, dagli enigmi alla Agatha Christie ai romanzi che in modo ossessivo si riconducono faccende autobiografiche (vedi James Ellroy: la morte della madre come canovaccio così insistente da sembrare un’autoterapia), dalle analisi anatomopatologiche di Patricia Cornwell all’indagine sulle ossa (vedi Kathy Reichs). Molto probabile che i serial televisivi, come l’ottimo Criminal Minds, abbiano influenzato i narratori. Del resto è l’uovo di Colombo: il delitto ha origine nella mente, quindi lo psicothriller va alla fonte. Per molte settimane è nella classifica dei più venduti il libro del tedesco Wulf Dorn, La psichiatra (Il Corbaccio). Concordo pienamente con l’intervento, qui in pagina, dello psichiatra Leonardo Tondo che, con arguzia e competenza, mette in luce la sciatteria del linguaggio, l’imprecisione di certi riferimenti clinici, per giungere alla conclusione che alcuni testi narrativi paiono sceneggiature e non pagine con un minimo di rilevanza letteraria. A parte alcune banalità inventive - come quella di chiamare Sigmund il gatto della protagonista psichiatra - occorrerebbe consigliare ai redattori della casa editrice di intervenire più spesso sul testo. A pagina 148 si legge: «…tremava come un’anziana centenaria». Francamente non conosco centenari giovani, ma fa niente. Eppure La psichiatra ha venduto e continuerà a vendere molto, in Italia e in altri Paesi. Lungi dall’azzardare giudizi sul livello culturale dei lettori, è comunque un fatto incontestabile che la maggior parte dei best-seller si aggrappa ad astuzie intramontabili: facilità di linguaggio, trama semplice, prevedibilità del finale (che è conforto per chi si «abbandona» allo snodarsi della storia abbassando la guardia critica), colpi di scena suggestivi e ripetuti. Chi legge è sostanzialmente conservatore, salvo eccezioni. Qualcuno di recente ha dichiarato di odiare il termine «scorrevole»: pienamente d’accordo. Anche se sono tanti gli esempi di romanzi non oscuri (come la prosa di Samuel Beckett, per esempio) ma intensi e innovativi, con invenzioni lessicali che lasciano tracce. Esistono, insomma, romanzi che forniscono piacere all’intelligenza (e alzano quindi la serotonina), e non solo soddisfano la voglia di intrattenimento. Tra questi - per rimanere nel genere giallo psichiatrico - campeggia per qualità La paziente delle quattro (Ponte alle Grazie, 243 pagine, 16,80 euro) di Noam Shpancer. Prima cosa da evidenziare: l’autore s’intende davvero
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Sulle orme di Criminal Minds
ALTRE LETTURE
RITORNO AI VECCHI RITI DELLA POLITICA di Riccardo Paradisi
erché, se la televisione è così potente, Berlusconi si è premurato di avere dei giornali che lo fiancheggino? E perché Massimo D’Alema dice di preferire la televisione, con cui si parla a tutti, mentre la sua influenza sugli affari politici è dovuta a messaggi in chiave affidati ai giornali? Dal 1948 a oggi - sostiene Carlo Merletti nel suo La repubblica dei media (Il Mulino, 153 pagine, 15,00 euro), spettacolarizzazione della politica e messaggi in politichese rappresentano le due facce della democrazia in Italia. E con la crisi economica, la possibilità è che si torni dalla repubblica dei media alla repubblica dei partiti e ai suoi rituali.
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ANDARE IN ESTASI CON MARTIN BUBER *****
a migliore presentazione alle Confessioni estatiche di Martin Buber (Adelphi, 256 pagine, 12,00 euro) è quella di Pietro Citati: «L’antologia di Buber resta il più bel breviario di mistica che io abbia mai letto. In una materia così difficile Buber conserva lo sguardo preciso, quando si rifiuta di spiegare la mistica “dal punto di vista psicologico, fisiologico o patologico”… La mistica è la suprema attività spirituale dell’uomo nel senso più semplice: il mistico attraversa con violenza il territorio della filosofia e della letteratura, della religione, della morale e dell’estetica… lo spezza ed esce al di sopra, in quel lago infinito dell’anima che egli solo conosce».
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della psiche essendo stato per tanti anni psicologo in un kibbutz israeliano e ora è docente alla Columbus University. La trama c’è ed è robusta, ma fondamentale è la figura del protagonista, psicoterapeuta credibile dall’inizio alla fine. Quest’uomo si trova ad affrontare il panico di una spogliarellista e, come con altri pazienti, esce dagli schemi dell’«eccentrico viennese» (Freud). Ci dice per esempio che si devono consi-
derare le «monetine», ossia «le nostre abitudini, la routine, il quotidiano; la loro somma ti dà la misura della vita di ciascuno». Guai a considerare l’uomo come una monade fatta di infanzia e poco più. È piacevole seguire le vicende di uno psicologo che non insiste più di tanto sulla nuresi infantile, ma spazia tra argomenti fondamentali come la memoria, l’identità, la paura. Noi siamo tutte queste cose.
Quella psichiatra poco credibile na bella lettura si giudica dal tempo sottratto al sonno per continuare a leggere oppure dalla velocità con cui vogliamo sapere come andrà a finire. Si è dormito pochissimo per finire le 2301 pagine (edizione italiana) della trilogia di Larsson per molti buoni motivi, ma sarebbe meglio prendersela con calma e riposare di più per La psichiatra di Wulf Dorn (Corbaccio, 395 pagine, 18,60 euro), assimilata frettolosamente alla serie thriller svedese. Il romanzo racconta la storia di una psichiatra tedesca che lavora in una casa di cura dove durante il nazismo si sarebbero fatti esperimenti e terapie non approvabili da alcun comitato etico (ma questo ha poco a che vedere con il resto). In questo luogo viene ricoverata una donna che scompare ma che, apparentemente, solo la dottoressa ha visitato. L’intreccio coinvolge parecchio e non è certo privo di suspence fra sospetti della donna sui colleghi, un suo fidanzato (anche lui del mestiere) che guarda caso parte per l’unico posto al mondo dove non sarebbe raggiungibile al cellulare e una grande voglia, mal spiegata, di risolvere tutto da sola. Il tut-
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di Leonardo Tondo to è condito con casi di altri pazienti che fanno atmosfera ma poi sono esclusi dalla vicenda centrale, poliziotti che pur essendo vagamente interessati alla scomparsa della paziente non vengono mai chiamati nei molti momenti in cui la loro presenza rassicurerebbe tutti, la protagonista per prima. Nella catarsi della storia, molti dei punti oscuri finalmente vengono chiariti, ma nel frattempo si scorrono centinaia di pagine con il fastidio per i comportamenti inspiegabili dell’investigatrice in erba spinta da un’irrefrenabile voglia di salvare la vita della donna e di cui si svelano tutti i pensieri lasciando zero spazio all’immaginazione del lettore. Si può capire che un profano della materia possa seguire la trama con un certo interesse e alla fine essere soddisfatto dal suo esito. Al contrario, se il libro capita tra le mani di un addetto ai lavori è probabile una certa delusione per il finale tanto prevedibile quanto improbabile, così come non mancano le perplessità sugli argomenti attinenti alla salute mentale. Da una parte l’implausibilità
delle storie si tocca con mano (peccato non poter dire di più per non svelare troppo della trama) e dall’altra, la psichiatria, come al solito, viene trattata male (figuriamoci se poteva mancare un riferimento inesatto e inutilmente critico verso l’elettroshock). Lo snodo critico della storia è nelle parole di una donna che verso la fine svela la chiave dell’intricata vicenda, pur non essendo stata presente al fattaccio. La lingua è in generale bistrattata, spesso fuori registro, l’aggettivazione è spesso superflua, i dettagli aggiungono poco o niente, i dialoghi risultano banali (colpa della traduzione o dell’originale?), ma il deficit letterario è talmente costante da considerarsi inevitabile nei thriller, dove la trama ha il sopravvento sulla forma e le parole scorrono velocemente sopra uno stile traballante. La storia è talmente cinematografica nelle sequenze che si può essere certi non si aspetterà molto prima di vederla sugli schermi. Anzi, si poteva benissimo evitare il passaggio su carta e renderla da subito per immagini, come invece sarebbe stato utile che non fossero usciti dalle loro pagine i tre romanzi di Larsson.
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di Diana Del Monte i è appena affacciato nel nostro Paese ed è già è pronto a lasciarlo. Out of Context - for Pina, lo spettacolo che Alain Platel ha dedicato alla memoria della coreografa tedesca, sarà in scena stasera e domani al Teatro Comunale di Ferrara per gli ultimi due appuntamenti italiani. Concepito dal coreografo belga subito dopo la scomparsa di Pina Bausch, lo spettacolo è un toccante addio tra colleghi e un omaggio privo di lacrime e retorica a una delle donne più importanti della danza novecentesca. Pervaso dalla figura della Bausch, Out of Context è tutto fuorché didascalico; all’esplicita dedica del titolo, infatti, fa da contraltare la sagace ironia con la quale Platel porta in scena i più svariati atteggiamenti, le abitudini motorie e posturali dell’essere umano. Al centro del lavoro ci sono i rituali della conquista e dell’abbandono, la scoperta del mondo circostante e le dinamiche di gruppo; l’interesse verso il gesto quotidiano ripetuto e posto fuori contesto si fonde, poi, con quello per le di-
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Dedicato
Danza
MobyDICK
spettacoli DVD
UN SUDOKU DI NOME MACCHU PICCHU u scoperta cento anni fa, ma per quattro secoli era rimasta custodita dalla nebbia a quota 2400 metri. Macchu Picchu è oggi uno dei siti archeologici più preziosi del Pianeta. Ma anche uno dei più misteriosi. National Geographic si insinua nella fitta cortina del mito e della storia in un bel documentario dedicato all’antica città Inca, che nonostante le ricerche resta ancora oggi un autentico sudoku che incrocia scienza e leggenda, antropologia delle origini e soluzioni ingegneristiche all’avanguardia. Un fascinoso lavoro d’inchiesta, che ricapitola l’alfabeto della civiltà, direttamente dalla viva roccia.
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ligia, torna poi a rinchiudervisi dentro una delicata citazione agli artisti di strada - ed espone la fragilità umana, tanto amata dalla madre del teatrodanza tedesco, declinata alla maniera di Alain Platel. Si ride di tutto ciò, di cuore, soprattutto grazie all’estrema intelligenza del lavoro coreografico e all’alto livello di preparazio-
a Pina Bausch (con allegria) scrasie e le disfunzioni motorie che il coreografo belga ha iniziato a esibire nel 2006 con VSPRS. Qualità di movimento eterogenee, capacità motorie di varia natura analizzate e poste in scena come su binari paralleli, in assenza di gerarchia, e rivelatrici di tutta l’abilità del magistrale corpo di ballo. Accolto ovunque con entusiasmo, Out of Context è strutturato come un percorso che, partendo da una va-
Televisione
ne della compagnia. Il pudore col quale Platel sembra voler nascondere la dedica del titolo durante lo spettacolo diventa il senso di una profonda affinità tra il lavoro del coreografo e la visione artistica della Bausch che permea tutta la rappresentazione, esplodendo in chiusura con una Nothing compares to you di Prince resa quasi irriconoscibile, da capire e non solo da ascoltare. Dopo l’appuntamento ferrarese, Les Ballets C de la B continueranno la loro tournée all’estero; in Italia torneranno a febbraio, all’Auditorium Parco della Musica di Roma, con una coreografia di Lisi Estaras, primero - erscht. La stagione di danza del Teatro Comunale di Ferrara, invece, volta pagina: con Out of Context, infatti, si chiude una prima fase del cartellone «Danza 2011» dedicata alla memoria e alla storia più recente della danza; dopo aver riportato sul palco Travelogue I Twenty to Eight di Sasha Waltz e Rosas danst Rosas di Anne Teresa De Keersmaeker, si apre un nuovo capitolo dedicato alle novità coreografiche, con Il quattordicesimo fiore di Giovanni Di Cicco e Francesca Zaccaria, in prima assoluta, e con Fuoristrada, la piattaforma rivolta ai coreografi italiani emergenti.
PERSONAGGI
SI SCRIVE BEADY EYE, SI LEGGE OASIS i scrive Beady Eye, ma si legge Oasis. Preferibilmente in una composizione tipo che esclude Noel dalla storia della band. Dopo un profluvio di chiacchiere e illazioni, il nuovo combo orfano del reprobo fratello Gallagher, ridebutta ufficialmente il 22 novembre con il singolo di lancio Bring the light, incunabolo al nuovo album che secondo tradizione includerà una b-side, Sons of stage. Nessuna innovazione anche nel cast, con Gem Archer, Andy Bell e il batterista Chris Sharrock, a fare da personale a tempo pieno. Forse è la volta buona per capire chi, tra i due geni, usurpava il talento dell’altro.
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di Francesco Lo Dico
La regola suprema della natura: migrare per vivere i ha il desiderio, in questi tempi, di volare un po’ più alto, anche davanti al piccolo schermo. È fuori dubbio che le vicende italiane diano un senso di nausea, dallo squallore morale che nutre terreni di delitti (Avetrano) alle cronache sulle volgari abitudini di certi (anziani) politici, dai sempre rimandati problemi ecologici all’incuria colpevolissima che segna il nostro straordinario patrimonio artistico (Pompei). Per concederci uno stacco da questa mistura di farsa e tragedia il programma in sette puntate di National Geographic Channel (Fox in prima serata, con repliche a diverse ore) ci offre l’impareggiabile sguardo su una natura che è violenza e gioia, ma mai farsa. The Great Migrations s’intitola. Ed è davvero stupendo.Tutto imperniato su quella legge severa che è: «vive solo chi si muove». Nel Dna di tutti gli animali esiste un misterioso meccanismo che li
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fa spostare: alla ricerca del cibo, dei luoghi di riproduzione, di climi più favorevoli. La nostra attenzione è quanto mai desta anche perché anche noi umani conosciamo le migrazioni. Da millenni. E chi le vuole negare o impedire va ottusa-
mente contro quel principio etico così bene espresso dal Pontefice allorquando parla di «unica grande famiglia mondiale». In terra africana gli gnu devono attraversare il fiume Mara, sfidando il
massacro, visto che i coccodrilli «sanno» quando e dove aspettarli. Cinque cuccioli di gnu su sei non arrivano a un anno. Le zebre femmine impauriscono i ghepardi più piccoli che poi, crescendo, apprendono il valore della pazienza predatrice. L’erba e le piogge muovono mandrie, molti soccombono. Dal cuore della foresta i granchi rossi dalle dimensioni di un piatto devono tornare al mare perché solo in quell’elemento è possibile l’accoppiamento. Lottano contro le formiche gialle pazze, contro il rischio della disidratazione, della fatica mostruosa. Vanno avanti i maschi, seguiranno le femmine. Qualcuno ha calcolato che ce ne siano 80 milioni. La riproduzione contiene sorpresa numerica e poesia. Ogni femmina ha centomila uova lucenti, che solo il mare (un mare rosa) e poi il bagnasciuga possono accogliere. Le nascite sono accompagnate da danze antiche, quasi tribali.Tra il fitto fogliame d’una zona messicana si
alzano in volo milioni di farfalle «monarca», dopo l’inverno. Sarà la terza generazione a tornare dal Canada, posandosi addirittura sugli stessi rami degli antenati. La mappa del viaggio è stampata nel loro Dna. Per tornare al sole del centro-America compiono tremila chilometri, con movimenti regolati da un campo magnetico per noi indecifrabile. Degna di un romanzo è la vita del capodoglio, il predatore (45 tonnellate) più dotato di denti che vive anche per 70 anni, 40 dei quali passati negli abissi. Nell’arco della loro vita i capodogli si spostano per due milioni di chilometri, ossia sei volte la circonferenza della Terra. Creature che vivono in solitudine.Tornano, poi, e hanno un commovente incontro con le femmine. I piccoli, che si muovono sotto l’occhio vigile della madre, devono attendere dieci anni prima di iniziare l’avventura oceanica. Storie di nomadi in una Terra che pare bisbigliare «migrate, migrate, vivete». La natura splendida e crudele che si autoregola. E non per un posto al ministero o in un (p.m.f.) carcere.
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poesia
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Diego Valeri, la vita in chiaroscuro di Francesco Napoli
ALBERO Tutto il cielo cammina come un fiume, grandi blocchi traendo di fiamma e d’ombra. Tutto il mare rompe, onda dietro onda, splendido, alle fuggenti dune. L’albero, chiuso nel puro contorno, oscuro come uno che sta su la soglia, muto guada, senza battere foglia, gli spazi agitati dal trapasso del giorno. Diego Valeri da Poesie
l primo problema che la poesia di Valeri ci pone è di ordine storiografico. Dove collocare questa poesia, in un panorama del Novecento italiano? Con chi? A che punto introdurre il discorso?». Questi interrogativi che Luigi Baldacci si poneva alla Fondazione Cini di Venezia il giorno dei festeggiamenti degli 85 anni di Diego Valeri mi paiono più che mai attuali e provare a dargli una risposta, casomai anche continuando a farci aiutare dal critico toscano sempre lucido e attento ai percorsi «diversi» della nostra letteratura, permetterà di comprendere meglio questa solitaria ma caratterizzata voce che, almeno all’anagrafe, del Novecento è pienamente partecipe. Diego Valeri (1887-1976) nasce a Piove di Sacco (Padova) ed è il minore di tre fratelli, più grandi di lui, uno di quattordici, l’altro di sedici anni. Il piccolo Diego è molto timido e schivo, legato alla figura della madre con cui instaura un ottimo rapporto, mentre col padre, uomo di indole iraconda, ha difficoltà a relazionarsi. Ha solo pochi mesi quando la sua famiglia si trasferisce a Padova perché, a quanto pare, il padre, Abbondio, e la madre, Giovanna Fontana, non vanno d’accordo. Infatti, malgrado le agiate condizioni del padre, la madre e i figli preferiscono vivere a Padova in notevoli ristrettezze. Nel 1911 è intimamente provato da un grave lutto: il fratello maggiore, Ugo, muore suicida. Ugo, pittore incompreso dallo spirito tormentato, trasmette al fratello Diego l’amore per l’arte pittorica. «La tragica morte di mio fratello Ugo fu talmente dolorosa per me, che poi, per oltre cinquant’anni, non ho avuto l’animo di scrivere su di lui e sulla sua arte neppure una pagina».
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Inizia a insegnare nei licei ma il suo convinto socialismo e l’antifascismo intransigente l’obbligano, nei duri anni della Repubblica di Salò, prima a lasciare la professione e poi a rifugiarsi in Svizzera, e con lui sono esuli, al campo di Mürren, nello Jungfrau, Amintore Fanfani, Dino e Nelo Risi, Giorgio Strehler. Ricordando quell’esperienza tragica scriverà: «Percossi sradicati alberi siamo,/ ritti ma spenti, e questa avara terra/ che ci porta non è la nostra terra» (Campo di esilio). Ma l’esordio in poesia l’aveva già compiuto, nel 1913, con la prima raccolta, affidata alle cure editoriali del grande amico Piero Nardi mentre era in Francia ad approfondire i suoi studi: Le gaie tristezze. Siamo in piena temperie crepuscolare, certo, come il titolo denuncerebbe con evidenza, eppure l’Italia poetica dei tempi è anche futurista, ma ancora di Pascoli e D’Annunzio, e c’è da fare i primi conti con la persuasa ostinazione fuori le righe di Saba e l’incipiente arrivo di Ungaretti che sì, avrebbe davvero dato inizio al Novecento poetico. Dopo la guerra ottiene la revisione di uno dei concorsi universitari da cui era rimasto escluso per non essere iscritto al Partito fascista. Si classifica al
il club di calliope
primo posto ed è subito chiamato dalla Facoltà di Lettere dell’Università di Padova come professore ordinario di Letteratura francese e incaricato di Storia della letteratura italiana moderna e contemporanea. Era conversatore di amabile e finissimo eloquio, le sue lezioni universitarie hanno lasciato tracce durevoli in tantissimi discepoli. Gli anni Sessanta costituiscono la stagione più matura della sua vita. È ormai un poeta apprezzato, le sue raccolte di versi sono tradotte all’estero, riceve numerosi premi e riconoscimenti: gli viene concessa la Legion d’Onore dal governo francese e il 6 aprile 1965 riceve la laurea in Lettere honoris causa dall’Università di Ginevra. Nel 1967 vince il Premio Viareggio con la raccolta Poesie. A Roma si trasferirà quasi per forza, su suggerimento dei medici, dopo una vita spesa con amore sconfinato per la sua regione veneta, seguendo due amate figlie, poco prima di spegnersi ormai alla soglia dei novant’anni.
La poesia di Valeri è apparentemente facile, ma forse è difficilissima perché traduce in clarté quella cosa oscura chiamata vita. Costruita su versi che possiedono ritmo e colore a un tempo («Sotto la fuga leggera del vento/ s’apre il ventaglio del mandorlo bianco./ Alto sta un cielo di rosa e d’argento / ma il cuore è stanco»), risente sul piano della formazione letteraria di Pascoli, dal quale acquisisce in gran parte lessico, sintassi e forme metriche, ma anche del D’Annunzio di Alcyone e di alcuni amati francesi, in particolare Verlaine e i post-simbolisti. Al centro del mondo di Valeri vi è «un accordo sensitivo e sensuale fra l’io e la natura, o quella alleanza con la vita» (Debenedetti) nella latente opposizione tra «natura» e «mondo». L’io di Valeri allora tende a rinchiudersi con un movimento auto-protettivo dai mali dell’uomo stesso («Tra queste povere effimere cose,/ deboli, felici, paurose,/ chiuso dentro la legge del cuor mio,/ io sono io»). E ha ben ragione Baldacci quando sottolinea che il naturalismo di Valeri esclude, alla maniera di Pascoli, l’uomo e l’io, così come la bellissima lirica Albero lascia ampiamente intuire: «L’albero, chiuso nel puro contorno, oscuro come uno che sta sulla soglia,/ muto guarda, senza battere foglia,/ gli spazi agitati dal trapasso del giorno». Un poeta dunque Valeri, per rispondere ai quesiti posti all’inizio con una formula sintetica, antinovecentista perfino nell’Antinovecentismo italiano. Andrea Zanzotto sulle colonne del Corriere della Sera nel ricordare il suo conterraneo ha forse centrato con dovizia le qualità poetiche di Diego Valeri la cui poesia «così connivente con l’effimero, con l’appena detto, con ciò che emerge in sensazione delicatissima o pungente, è sempre stata attraversata dal senso di un mancamento» accompagnata poi da «una “strana”, particolare trasparenza delle cose, degli esseri, degli stati d’animo».
IL BATTITO PRIMORDIALE CELATO IN UNA ROSA in libreria
Parlava come al vento e al vento tornava senza altra dimora nell’ora che trema le sere fuggite i passi smarriti e l’amore l’amore restava come al vento ferito e al vento tornava ferito tornava Roberto Veracini
di Loretto Rafanelli
appiamo che uno dei temi privilegiati dai poeti è quello della madre, versi spesso emozionanti e confortanti, vogliamo ricordare ad esempio le belle poesie di Maurizio Cucchi in Vite pulviscolari o un’antologia recente come Io a sempre a te ritorno. Poesie per la madre edita da Crocetti, che raccoglie scritti di vari autori, da Pasolini a Penna a Poe, da Montale alla Pozzi («…la mamma che portava una lucciolina/ alla sua bambina malata»). In questa schiera che guarda al «battito primordiale», inseriamo volentieri anche Luca Nicoletti, che ha scritto una plaquette (Rosa-sarò, Raffaelli edito-
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re), delicata e struggente, misurata e amorevole, in memoria della propria madre, morta di recente. Una figura per lui sempre presente e a cui dà voce, in prima persona, in questi versi: «sarò nei tramonti infuocati/ e nelle albe dorate,/ nelle onde del mare/ nei petali delle rose/ sarò sempre con voi». Nicoletti in alcune poesie parla dei fiori, per accostarli alla madre, in specie la rosa, che ne evoca il nome, Rosita. Egli la vede presente in ogni dove ed è un sospiro che riempie lo sguardo della propria vita, l’alito che saluta le stagioni («il raggio di sole tra le magnolie/ ha il tuo saluto di primavera»).
Fantascienza
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di Gianfranco de Turris
uando si parla di Ray Bradbury il pensiero va immediatamente ai suoi due capolavori, Cronache marziane (1950) e Fahrenheit 451 (1953), anche se lo scrittore ha ormai alla spalle una carriera settantennale (esordì nel 1941) nel corso della quale ha pubblicato storie di tutti i generi, e non solo quel particolare tipo di fantascienza che a suo tempo si definì «umanistica»: dal fantastico all’orrore, dal giallo al thriller, dal gotico alla semplice suspense, sempre caratterizzati da quel suo tocco personale, da quel suo stile unico, evocativo, dalla singolare aggettivazione, che avvolge il lettore senza che lui se ne accorga. Bradbury ha compiuto 90 anni il 22 agosto scorso e la ricorrenza è rimbalzata sui quotidiani nazionali rivelando al pubblico che questo scrittore, l’ultimo rimasto della grande «età d’oro della fantascienza», è ancora vivo e vegeto, ancorché bloccato su una sedia a rotelle da anni, e che continua a scrivere con regolarità pur se per interposta persona: ogni mattina per tre ore detta telefonicamente alla figlia Alexandra perché da tempo non può usare la sua vecchia macchina da scrivere meccanica a causa di un malanno al braccio. La città di Los Angeles lo ha voluto omaggiare con una settimana di festeggiamenti. Qui in Italia lo si sarebbe potuto ricordare degnamente, come da tempo chiedo, con una «edizione critica» dei due suoi capolavori: aggiornando le traduzioni del tutto invecchiate di Giorgio Monicelli e aggiungendo introduzioni e note adatte alla bisogna. Troppo costoso a quanto pare, dato che la Mondadori non è priva di gente all’altezza di questo compito.
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A suo tempo, negli anni Cinquanta-Settanta del Novecento, quando in Italia si sono conosciute anche le antologie dei suoi racconti, ciò che colpiva di Bradbury era la visione malinconica e tragica del destino dell’uomo contemporaneo e futuro, preda della massificazione totale, dello sradicamento dell’ego individuale e della sua personalità umana, succube di una macchinificazione della vita, intendendo per questo non solo i marchingegni meccanici e robotizzati, ma anche la virtualità che in America si stava già imponendo a metà del secolo scorso, mentre da noi ci si sarebbe accorti di tutto questo soltanto a partire dagli anni Ottanta con il moltiplicarsi dei canali televisivi. Non c’è dunque da meravigliarsi che oggi lo scrittore se la prenda con gli aggeggi elettronici che hanno invaso la nostra vita e la condizionano al punto tale che Ray Bradbury tra l’allora presidente Bush e la first lady, alla Casa Bianca: una foto che ha contribuito all’irritazione di molti fans dello scrittore americano. Sopra, la locandina del film e la copertina di “Fahrenheit 451”. In alto, un’illustrazione per “Cronache marziane”, altro capolavoro di Bradbury
MobyDICK
ai confini della realtà
Chi ha paura
di Ray Bradbury?
molti psicologi e sociologi affermano che il loro uso intensivo ci sta facendo diventare più stupidi (fa diventare soprattutto le nuove generazioni più stupide, dato che le vecchie ormai sono quelle che sono…). «Abbiamo troppi telefonini. Troppo internet. Dobbiamo liberarci di quelle macchine. Abbiamo troppe macchine, ormai», ha detto in una intervista per il suo compleanno al Los Angeles Time. Perché meravigliarsene come ha fatto qualcuno? È la logica conseguenza
quella del telespettatore, o reality show dove la gente comune diventa protagonista attiva (tema questo di molti suoi tragici racconti). È contro la pandemia televisiva che lo scrittore si scaglia in difesa di un altro tipo di cultura che questa cercava di sommergere e annullare, e non aveva affatto di mira il senatore McCarthy o una specifica dittatura parafascista o paranazista come volevano dare a intendere certi critici e lettori impegnati qui in Italia. Una tesi, questa, da me so-
“Fahrenheit 451” non è una critica alla censura di una dittatura parafascista (leggi McCarthy), piuttosto all’incultura televisiva che quel romanzo preconizzava. Parola dello stesso, ormai novantenne autore. Per la grande delusione (con proteste) dei suoi fan progressisti, che hanno da sempre equivocato... delle critiche che alla macchine Bradbury ha fatto in tutte le sue opere specialmente in Fahrenheit 451: anche cellulari, iPhone, iPod, lettori elettronici, smartphone lo sono e producono conseguenze. Delle chat e di facebook ha detto: «Perché tanta fatica per chiacchierare con un cretino col quale non vorremmo avere a che fare se fosse in casa nostra?». La sua crociata contro i deficienti e l’incultura risale ai primordi della sua carriera. Tutto sta in quel capolavoro antiutopico che è appunto Fahrenheit 451 che come si sa indica la temperatura in cui la carta brucia da sé (236 gradi centigradi). Un libro che è l’esaltazione dell’uomo e della cultura vera dell’uomo, quella trasmessa dai libri e non dalle finzioni virtuali della televisione. Già nel 1951-1953 Bradbury immaginava schermi grandi come una parete e la vita falsa che trasmettevano tramite quelle che oggi si chiamano sitcom e vanno avanti per decenni quasi fosse una realtà parallela a
stenuta anni fa sin da una conferenza a Ferrara e poi sulle pagine di liberal mensile, dati storici e riferimenti alle parole di Bradbury alla mano.
Adesso, con grande delusione di certi suoi fans, è lo stesso scrittore a confermarlo: nel 2007, sempre in una intervista al Los Angeles Times (che peraltro è un giornale conservatore), affermò che il suo famoso romanzo non si doveva interpretare come una critica alla censura o a una dittatura o specificatamente al senatore McCarthy, perché era piuttosto una critica alla televisione e al tipo di (in)cultura che essa trasmette: «La televisione ti dice quanto è nato Napoleone, non chi era (…) Ti riempiono con un sacco di roba priva di vera informazione finché non ti senti pieno». Insomma, Bradbury ce l’aveva e ce l’ha, contro la pseudo informazione, la pseudo vita, gli pseudo fatti, quelli che Gillo Dorfles ha battezzato fattoidi, e che sono ormai la «normalità» delle tv di tutto il mondo, ma in specie in Italia. In un’altra intervista ha detto: «I libri e le biblioteche sono davvero una parte importante della mia vita, perciò l’idea di scrivere Fahrenheit 451 è stata naturale. Io sono una persona nata per vivere nelle biblioteche». Scoramento profondo, quindi, di tutti i
suoi lettori e analizzatori progressisti: nessuna motivazione politica e/o ideologica dietro il famoso romanzo strumentalizzato in tal senso per decenni, anche se, leggendo bene quel che Bradbury diceva, non era affatto impossibile afferrarlo. Sicché è ovvio che sia stato scritto in un sito internet: «Delusione per intere generazioni cresciute nel mito di Fahrenheit 451. La condanna non era per i regimi che bruciano i libri, ma per la superficialità della tv. Lo ha voluto precisare lo stesso Bradbury». Di chi la colpa: dell’autore o dei suoi lettori ideologizzati? Era sufficiente saper analizzare senza paraocchi e non farsi condizionare dai propri punti di vista politici. Tanto è vero che spesso, negli Stati Uniti, Bradbury si è platealmente irritato quando qualcuno gli voleva spiegare quel che aveva scritto, le sue intenzioni (il che avviene anche in Italia). Delusione che era iniziata nel 2004 allorché Bradbury se la prese aspramente con il regista Michael Moore che aveva intitolato un suo film revisionista e complottista sulla catastrofe delle Torri Gemelle Fahrenheit 9/11, e poi si fece fotografare alla Casa Bianca con il presidente Bush e signora che un sito di delusi fantascientisti italiani così definisce: «Un presidente che non sarà certo ricordato per il suo contributo alla democrazia, ai diritti civili e alla libertà di informazione»… Come si vede la tanto apprezzata e semplicistica equazione fantascienza/progressista e fantastico/reazionario è una solenne sciocchezza, anche se purtroppo ancora qualcuno ci crede, magari forzando le tesi degli scrittori. Ovviamente ognuno può analizzare una storia fantascientifica e fantastica come meglio crede, con gli strumenti critici che vuole, ma da ciò a trarne regole generali ce ne corre. Bradbury è stato un sostenitore da sempre di una cultura umanistica e ci ha dato una fantascienza di questo genere con veri e propri capolavori: ma non sta scritto da nessuna parte che ciò sia sinonimo di progressismo ideologico e politico. Come lo definiamo oggi chi preferisce un libro di carta a un libro elettronico che si «sfoglia» su una «tavoletta»?
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g e di cronach di Ferdinando Adornato
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Vittoria della corporazione degli avvocati contro i consumatori Il Senato ha votato per l’esclusiva, nella consulenza stragiudiziale, agli avvocati. Con un solo colpo di spugna, con un’anomala alleanza tra Pdl e Italia dei Valori fortemente denunciata dai senatori Radicali, si è levato il diritto alle associazioni di consumatori, oltre a sindacati, patronati, etc, di svolgere attività di consulenza. Un servizio senza il quale la maggior parte dei consumatori non farà più ricorso alla conciliazione stragiudiziale o non cercherà di capire se ha torto o meno nell’ambito delle migliaia di truffe che subisce quotidianamente: i costi di un avvocato e la loro disponibilità sono ben diversi da quelli di un’associazione. Il governo dice di promuover il mercato in ogni ambito, ma qui sta facendo proprio il contrario: si premia la corporazione non per dare un miglior servizio ai cittadini, ma per garantire il monopolio ad una corporazione sempre più in affanno e assediata dal decadimento di qualità. Decadimento a cui si dovrebbe risponde sparigliando nella situazione che l’ha determinato e non chiudendo il mercato. Questo voto è uno dei tanti a cui assisteremo nelle prossime settimane per dare al Paese quella che chiamano “riforma forense”. Se queste sono le premesse, la lotta sarà dura.
Vincenzo Donvito
LA SOLITA INIZIATIVA DA POLITICA SPETTACOLO Il Fondo Gasparrini è un Fondo di solidarietà per i mutui per l’acquisto per la prima casa, consente la sospensione delle rate di mutuo per un massimo di 18 mesi, e il suo scopo è quello di farsi carico degli interessi delle rate sospese; interessi che vengono corrisposti agli istituti bancari. I beneficiari, per poter accedere alle agevolazioni, alla data di presentazione della domanda, devono essere proprietari dell’immobile oggetto del contratto di mutuo; avere un mutuo di importo erogato non superiore a 250.000 euro, in ammortamento da almeno un anno; avere un indicatore della situazione economica equivalente (Isee) non superiore a 30.000 euro. Ma ci sono diversi punti di criticità: a) il fondo ha in dotazione 20 milioni di euro (corrispondente al residuo della finanziaria del 2008) si tratta di una somma esigua e che comprende anche i costi della società di gestione del fondo stesso (la Consap). Non ci è dato sapere a quanto ammonta tale cifra e di conseguenza a quanto ammonta l’effettiva somma a cui si potrà accedere; b) oltre alla esiguità della somma, il fondo «opera nei limiti delle risorse disponibili e sino ad esaurimento delle stesse».
Questo vuol dire che non hanno alcuna rilevanza situazioni di particolare disagio economico e sociale. Da questo punto di vista il beneficio diventa anche iniquo, in quanto va a premiare solo chi ha avuto la fortuna o la “dritta” di conoscere l’informazione. La domanda deve essere depositata dal richiedente presso la propria banca, sarà quest’ultima ad avere l’onere di inviare la domanda completa alla Consap, ai fini dell’accesso al beneficio. Eventuali inadempimenti della banca, quindi, ricadranno direttamente sull’utente, pregiudicandone la posizione. c) terzo dato da rilevare è l’assoluta mancanza di trasparenza in tutta l’operazione, nessuna adeguata informazione ai possibili interessati. d) la posizione dei mutui a tasso variabile (quelli che garantiscono alla banca la maggior sicurezza in fatto di recupero dei costi e, allo stato attuale, oltre il 60% del mercato) hanno un minor accesso rispetto ai mutui a tasso fisso se poi si tratta di mutui a tasso variabile con rata trimestrale, l’accesso al fondo è consentito solo se la rata aumenta rispetto alla precedente almeno del 20%, di fatto tali mutui sono fuori dalla possibilità di ottenere il beneficio. Arriviamo infine ai mutui cartolarizzati che pur essendo inseriti tra quelli per i quali è possibi-
L’IMMAGINE
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Compra il carcere dove era detenuto PENTRIDGE. Graeme Alford ha passato diversi anni nella prigione di Pentridge, a Melbourne, per appropriazione indebita e rapina. I guai di Alford sono iniziati quando si è trovato con grossi debiti a causa del gioco e dell’alcool, che lo hanno spinto prima a appropriarsi di fondi dell’azienda dove lavorava, e poi a tentare una rapina a mano armata in banca. Alford è stato poi condannato e rinchiuso a Pentridge, uno dei carceri di massima sicurezza, che ha ospitato alcuni dei criminali più pericolosi ed efferati ed è stato teatro dell’ultima esecuzione capitale in Australia, nel 1967. Alcuni anni fa, il penitenziario è stato chiuso, e allora Graeme Alford ha deciso di comprarlo. Non per andarci ad abitare: il carcere infatti è stato trasforamato in una cantina per i vini. Alford ha spiegato che si è trattato solamente di un investimento: tra l’altro dopo che è stato rilasciato ha anche smesso di bere. All’uomo, che viene considerato un esempio per la riabilitazione degli ex-detenuti, sono state consegnate le chiavi della prigione in una cerimonia pubblica.
le ottenere la sospensione e l’accesso al fondo di solidarietà, non è sicuro che ciò accada. Infatti il credito riferito agli stessi è ceduto alle c.d. società veicolo che procedono a cartolarizzarlo attraverso gli investimenti finanziari, la maggior parte delle società veicolo è sottratta alla disciplina giuridica italiana, avendo normalmente sede all’estero e operando su mercati internazionali. In sintesi siamo in presenza della solita iniziativa da politica-spettacolo che invece di far fronte ai problemi effettivi e investire i soldi dei contribuenti in maniera organica, razionale e equa, punta solo sull’effetto spot sull’opinione pubblica.
Carmine Laurenzano
ALEMANNO ATTIRATO DALLE SIRENE DEI PALAZZINARI
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e di cronach
LE VERITÀ NASCOSTE
Mister Carota Chi faticasse a considerare i vegetali esseri “viventi”, forse non ha mai visto un ortaggio come questo. La curiosa carota è stata raccolta da Clive Williams in un orticello in Inghilterra. Subito Williams l’ha portata dai nipotini, che ci hanno riconosciuto la sagoma di Buzz Lightyear del Pixar Toy Story
La rumorosa contestazione che ha accolto Alemanno nei giorni scorsi davanti all’Università di Tor Vergata è la naturale conseguenza della politica basata sugli eventi e non sui fatti. I rappresentanti dei comitati di quartiere sono stati invitati a rivolgere domande al primo cittadino senza possibilità di argomentare le ragioni del dissenso. Nessuna partecipazione, nessun coinvolgimento dei cittadini in uno dei progetti urbanistici più folli della Capitale. Si continuano ad ignorare le esigenze di un territorio, quello del Municipio VIII, che reclama servizi indispensabili. Alemanno vuole abbattere 14 palazzi (di 1000/1500 appartamenti) e non pensa che seimila persone a Borghesiana non hanno ancora l’acqua corrente, che le famiglie non sanno come mandare i figli a scuola perché hanno soppresso il servizio di trasporto scolastico comunale. Si vuole demolire un quartiere ma non si riesce a gestire la manutenzione dei parchi pubblici del municipio. Riqualificare le periferie romane non vuol dire abbattere intere aree urbane e cementificare senza alcuna logica le aree agricole adiacenti a Tor Bella Monaca. Alemanno continua ad ignorare le richieste dei suoi cittadini, attirato dalle voci di sirena dei soliti palazzinari”.
Fabio Nobile
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grandangolo Ue e Fmi smentiscono l’imminente salvataggio
Tra mattoni e debiti, incubo irlandese sull’Europa
I mercati danno già per certa la richiesta di un maxiprestito da 80 miliardi di euro per mettere una falla alle esposizioni bancarie. Ma la Tigre celtica vuole andare avanti, tentando di frenare la speculazione. Fa ben sperare l’abbassamento degli spread dei titoli di Stato sul bund, ma a risentirne sono i listini del Vecchio Continente sull’onda dell’allarme contagio di Francesco Pacifico
ROMA. Il ministro delle Finanze Brian Lenihan ha ricordato anche ieri che fino al giugno 2010 il grosso debito irlandese non andrà a scadenza. «E quindi non ha senso chiedere aiuti all’esterno». Dalla Ue e dal Fondo monetario sono arrivate smentite sull’ipotesi che Dublino stia già trattando per un maxiprestito da 80 miliardi di euro. Ma tutto questo non è bastato a far rallentare le borse di mezza Europa e a far schizzare verso nuovi record gli spread dei titoli di Stato dell’area sul Bund tedesco. A dirla tutta, quelle che ieri hanno registrato meno pressioni sono state proprio le emissioni irlandesi: il differenziale sui titoli tedeschi è passato in 24 ore dall’8,95 all’8,30 per cento, a riprova che i mercati non paventano soltanto o semplicemente il default dell’isola, quanto l’incapacità delle economie periferiche dell’area (nella lista nera anche Spagna e Portogallo, se non la stessa Italia) di intensificare la ripresa e di ridurre i sempre più forti squilibri della bilancia commerciale. Visto che soltanto l’anno prossimo sarà rifinanziata la maggior parte del debito del Paese, non ha tutti torti il premier Brian Cowen, quando sottolinea all’Irish Independent che «i mercati obbligazionari stanno seguendo un comportamento irrazionale». Perché dietro alle mosse dei trader – o dei rader – c’è il sospetto di nuove speculazioni. Si intravede il sentore che, co-
me accaduto già con la Grecia, il vero problema sia quello del “contagio”verso altre economie dell’area. E ad “ammalarsi” potrebbero essere quelle che hanno in agenda delicatissime emissioni di debito. Come il Portogallo, che deve ancora varare un ennesimo piano di austerity ed è guidato da un governo di minoranza, o la Spagna che ieri ha visto volare lo spread dei suoi titoli a 226 punti base contro il Bund tede-
A peggiorare le cose anche la crisi del Fianna Fàil. Serve una nuova maggioranza per la manovra bis chiesta da Trichet sco, pur esso sotto pressione. Della tigre irlandese che dava lezioni di business e di liberismo al mondo non è rimasto nulla se non una miriade di case vuote. A riprova che il boom non si è costruito soltanto sulle liberalizzazioni o sulle agevolazioni fiscali alle imprese e alla finanza (a dirla tutta meno liberali di quanto si possa pensare) ma sulle speculazioni immobiliari.
Per la cronaca questo mercato è crollato del 37 per cento nell’ultimo triennio, in linea con gli altri indicatori economici: il deficit/Pil corre verso il 32 per cento, il debito delle famiglie è arrivato al 194, la disoccupazione al 13,7. Contro tutto questo il Paese ha presentato una draconiana manovra da 15 miliardi di euro, che Jean Claude Trichet ha già bollato come insufficiente. Ma più di sapere che almeno la metà del passivo del Paese è intrecciato ai titoli spazzatura posseduti dai maggiori istituti europei, gli operatori sono spaventati dalla debolezza politica dell’Irlanda. Dall’assenza di un governo in grado di far ingoiare ulteriori lacrime e sangue ai suoi cittadini. Con toni da ultimo giapponese Cowen si vanta che «il piano di rientro del deficit varato da Dublino sta procedendo secondo i piani». Critica la Germania e la Francia, che non sono state molte chiare quando hanno ricordato che stando agli attuali trattati comunitari non si può ristrutturare il debito sovrano privato degli Stati insolventi. Seppure rifugga dalle dietrologie – «Il mercato ha, come conseguenza di queste dichiarazioni, messo in dubbio l’impegno del Governo irlandese al rimborso del debito sovrano, non certamente ci ha voluto penalizzare – ricorda un po’ il collega Papandreou, quando prima del crack diceva che sforzi già fatti erano sufficienti, ma che per responsabilità Dublino è pronta a nuovi tagli.
Nessuno, infatti, gli crede. Perché l’autorevolezza di questa maggioranza (e del principale partito Fianna Fàil) è ai minimi storici. Per evitare gli scontri di piazza della scorsa settimana, Cowen e i suoi hanno anche deciso di rinviare al mese prossimo l’annuncio di una nuova stretta fiscale, che potrebbe portare con sé anche un aumento delle tariffe di luce e acqua. Figurarsi parlare di crisi di governo ed elezioni anticipate, che sono però passaggi ineludibili per ridare linfa a questo Paese. I maggiori economisti sono tutti concordi che terminate le risorse ancora in cassa – e in prospettiva della richiesta di nuovi soldi al mercato – l’Irlanda chiederà a metà del 2011 all’Unione europea e al Fondo monetario come fatto già dalla Grecia. Di conseguenza, questa soluzione finisce per fare da cartina di tornasole per un’Unione europea che litiga ancora sulle regole mentre l’America stampa nuova moneta per invertire il ciclo. Potrebbe essere il banco di prova per quel fondo anticrisi comunitario, attivo dal 2013 e nato a margine della riforma del Patto di stabilità.
È in questa logica che vanno lette tutte le prese di posizione delle istituzioni europee e internazionali, dopo che al G20 di Seoul José Manuel Barroso ha annunciato che «la Ue è pronta a intervenire se necessario». Forse il presidente della Commissione voleva soltanto tranquillizzare i mercati e smentire l’at-
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Nel documento finale di Seoul si parla soltanto di «buone intenzioni» del G20
È stato un altro vertice degli eterni rinvii. E Obama porta a casa solo le promesse di Alessandro D’Amato
tendismo di Bruxelles. Per tutta risposta gli operatori hanno rivisto in queste parole lo stesso avvio che portò in pochissime settimane la Grecia sotto l’ombrello europeo e del Fmi. Per smentire l’imminente salvataggio del Paese e il gap di funzionalità del meccanismo di aiuto europeo, i ministri delle Finanze dell’area presenti al G20 hanno diffuso una lunga nota congiunta. E a leggerla in filigrana devono aver pesato parola per parola. Gli esponenti di Germania, Francia, Gran Bretagna, Italia e Spagna hanno
Il premier Cowen dichiara che c’è liquidità per buona parte del 2011. Solo allora, secondo i maggiori analisti, si rischierà il default messo nero su bianco che il meccanismo europeo di stabilizzazione finanziaria, con la sua dotazione da 750 miliardi di euro creato dopo lo scoppio della crisi greca, «sia già operativo e la sua attivazione non richieda interventi del settore privato». Come dire che, se c’è bisogno, le economie dell’area non hannop bisogno di inventarsi altri veicoli.
Quindi, memori delle critiche della Merkel subito confermate dalla francese Christiane Lagarde, non soltanto hanno ricordato che gli eventuali salvataggi non ricadranno soltanto sulle spalle dei contribuenti, ma si è precisato che «quale possa essere il dibattito nell’Eurozona sul futuro meccanismo permanente di risoluzione delle crisi e il possibile coinvolgimento del settore privato, noi abbiamo ben chiaro che questo non si applica ad alcun debito in circolazione o ad alcun programma avviato in base agli investimenti attuali».
Al momento, intervenire in Irlanda non va catalogato neppure nel novero delle ipotesi. Anche perché «un eventuale nuovo meccanismo entrerà in vigore solo dopo la metà del 2013 e non avrà alcun impatto sugli impegni attuali». Dal canto suo il direttore generale del Fondo monetario internazionale, il francese Dominique Strauss-Kahn, ieri ha dichiarato che «negli ultimi giorni non ci sono stati contatti fra il fondo e l’Irlanda al di là dei normali contatti per le operazioni day-to-day». Nessuna richiesta dal governo di Dublino per esplorare la possibilità di ricevere aiuti. Europa e Fmi concordano nello smentire per Dublino un futuro sotto tutela come quello di Atene. Ma per avere la conferma bisognerà attendere martedì prossimo, quando l’Eurogruppo discuterà delle regole per far funzionare il meccanismo permanente anticrisi. E ricorderà ai primi che se il fondo non prevede anche un impegno dei privati, questo non li esime dal mantenere l’esposizione in titoli, prorogare la scadenza dei titoli esistenti, per delle azioni collettive nelle future emissioni dell’ Eurozona.
Chissà se basterà tutto per tranquillizzare i mercati e limitare le speculazioni. Fatto sta che ogni giorno nella Tigre celtica chiudono quattro aziende. I giovani, che hanno protestato quando hanno saputo che le tasse universitarie passano da mille a 2.500 euro, stanno lasciando in massa gli atenei. E stanno decidendo, come facevano i loro nonni, di emigrare. Anche se stavolta la meta è l’Australia e non più l’America. Per non parlare delle maestranze dell’edilizia – vanto del Paese – che hanno visto dimezzare il loro numero. O delle banche, cervello finanziario di tutt’Europa grazie a una migliore tassazione dei fondi di investimento, che stanno colando a picco con le tante attività che hanno sovvenzionato. Di fronte a tutto questo che sarà mai vedere l’euro difendersi (ieri ha chiuso a 1,3715 sul dollaro) dopo che il ministro delle Finanze Brian Lenihan ha promesso che l’Irlanda non si salverà grazie ai soldi dei contribuenti tedeschi.
ROMA. Un piano d’azione necessariamente di basso profilo. E un sistema di allerta preventiva in caso di squilibri commerciali. Ma nessun impegno alla rivalutazione della valuta cinese. È stato l’ennesi vertice interlocutorio, il G20 tenutosi a Seoul, come è normale che siano – lo dice lo stesso presidente Barack Obama – gli incontri tra così tanti paesi. Ma il piano d’azione il presidente americano lo incassa, mentre Mario Draghi parla di buoni progressi dal punto di vista finanziario, ma avverte che siamo ancora a metà strada. E nel documento finale si percepisce la spinta diplomatica: «La ripresa globale continua ad avanzare, ma i rischi di inversione permangono. Siamo decisi a fare di più», dicono i Grandi. Il G20 lancia dunque un piano di azione di Seoul per assicurare un fermo impegno a cooperare, per «produrre un piano con impegni politici di ciascun Paese e raggiungere i tre obiettivi di una crescita forte, sostenibile, equilibrata». Il G20, inoltre, resterà vigile sugli «eccessi di volatilità delle valute» e ribadisce il no alle svalutazioni competitive sostenendo la flessibilità dei tassi di cambio per riflettere i fondamentali economici. «Riconosciamo l’importanza di fare fronte alle preoccupazioni più vulnerabili - si legge nel testo - e a questo fine siamo determinati a mettere i posti di lavoro come punto centrale della ripresa e fornire protezione sociale e lavoro dignitoso, oltre che ad assicurare una crescita accelerata nei Paesi a basso reddito». Viene poi rilanciata la necessità per le economie avanzate di risanare i bilanci pubblici deteriorati dalla crisi, attuando «piani a medio termine chiari, credibili, ambiziosi e differenziati a seconda delle condizioni di ciascun Paese».In pillole, il piano d’azione di Seoul messo a punto dai leader del G20 nelle conclusioni del summit si articola sui seguenti punti: vigilare sugli eccessi di volatilità nei cambi, no alle svalutazioni competitive, flessibilità dei tassi di cambi che devono riflettere i fondamentali economici; no ai protezionismi e riduzione degli eccessi nelle partite correnti a livelli sostenibili. Entro metà 2011 linee guida indi-
cative da presentare ai ministri delle finanze e ai governatori centrali. Via libera a nuovi requisiti di capitale per le banche e a nuove regole per le istituzioni finanziarie ’too big to fail’. I cittadini non dovranno più pagare per i fallimenti bancari. Sì alla riforma delle quote e della governance dell’Fmi, per dotare il Fondo di «maggiore legittimità, credibilità ed efficacia», garantendo maggiore rappresentanza ai Paesi emergenti. Sulla crescita, i Grandi certificano che la ripresa c’è ma i rischi di inversione restano. Bisogna fare di più, producendo un piano con gli impegni politici di ciascun Paese e puntando a una crescita forte sostenibile ed equilibrata. Il vero dramma però è l’occupazione: la situazione preoccupa e la creazione di nuovi posti di lavoro deve essere «al centro della ripresa, assicurando protezione sociale, lavoro dignitoso e crescita accelerata nei Paesi a basso reddito». Anche il risanamento resta una priorità assoluta per garantire la crescita, anche se può pesare sulla ripresa, con i Paesi chiamati ad attuare piani a medio termine chiari, credibili, ambiziosi e differenziati a seconda delle condizioni di ciascun Paese. Resta una priorità assoluta combattere il riscaldamento globale, con l’impegno di adottare misure forti e orientate a risultati e a dedicarsi completamente ai negoziati delle Nazioni Unite.
Alla fine del vertice si contano vincenti e sconfitti. Obama non porta a casa l’accordo con la Corea, oltre a non essere riuscito a piegare – ma era prevedibile – la Cina. Francia e Germania si portano addosso la responsabilità di un’Europa sempre più a rischio sistemico (Irlanda e Portogallo, per ora) e, proprio per questo, il loro valore negoziale scende. Hu Jintao presenta un piano in quattro punti per realizzare una crescita solida, sostenibile e bilanciata a livello globale, con il libero commercio, la promozione di politiche di sviluppo coordinate, la riforma del sistema finanziario e la riduzione degli squilibri. Un modo come un altro per ricordare a tutti che la Cina punta alla leadership globale.
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Diritti umani. La “Signora”, come viene chiamata dai seguaci, sta trattando: non vuole alcuna limitazione di tipo politico
Il giorno di Aung San Dopo 15 anni di arresti domiciliari, la leader democratica torna oggi in libertà di Vincenzo Faccioli Pintozzi arà probabilmente oggi, il giorno migliore della Birmania. Dopo 21 anni di assenza dalla scena pubblica, di cui 15 trascorsi agli arresti domiciliari, Aung San Suu Kyi potrebbe tornare in libertà. Le voci di una sua liberazione si erano già sparse da circa un mese, anche se rimanevano dubbi sulla loro veridicità: ieri, invece, il generalissimo Than Shwe ha firmato il decreto di scarcerazione che, verso mezzogiorno, è stato consegnato alla donna. Si aspettava la libertà in giornata, ma al momento in cui andiamo in stampa ancora non è possibile sapere di più. Per U Win Tin, co-fondatore della Lega per la democrazia (il partito della Suu Kyi), sarà oggi il giorno giusto. Per U, infatti, nella serata di ieri erano ancora in corso i negoziati tra la giunta birmana e la donna sui termini della sua liberazione. Aung chiederebbe un rilascio incondizionato, mentre il regime starebbe tentando di porre limitazioni alla sua libertà di muoversi all’interno del paese e di incontrare i suoi sostenitori. Per questo, ha spiegato U Win Tin, anche se a Suu Kyi era stato detto che sarebbe potuta andare lo stesso giorno della consegna dell’ordine di scarcerazione probabilmente, proprio per l’impasse nei negoziati, si dovrà attendere ancora una notte prima di vederla riapparire in pubblico.
S
tazione. L’uomo, missionario evangelico, aveva attraversato a nuovo il lago che separa la casa della “Signora della Birmania” dalla capitale ed era rimasto per due giorni all’interno dell’abitazione. La vicenda è apparsa da subito un pretesto per mantenere la leader dell’opposizione in stato di fermo e impedirle di partecipare alle elezioni generali - le prime in 20 anni - che si sono tenute lo
Figlia dell’eroe nazionale, il generale Aung San che guidò il Paese all’indipendenza, ha vinto le uniche elezioni libere nella storia di quello che è stato chiamato dai militari “Myanmar” scorso fine settimana. Sul voto pesano le accuse di brogli e la Nobel per la pace ha già promesso che, una volta libera, collaborerà nelle inchieste sul regolare svolgimento delle elezioni. Ha inoltre chiarito che non accetterà ”condizioni” alla sua liberazione, fra cui l’ipotesi di rinunciare alla lotta politica a fianco dell’opposizione birmana. Fonti locali riferiscono che la giunta ha predisposto un piano per la sicurezza della “Si-
cevuto il messaggio di auguri di Global Council of Indian Christians (Gcic). Gli attivisti cristiani indiani sottolineano che «la giunta militare non ha alcun diritto morale di continuare a dettare legge [in Myanmar]» e spiegano che il rilascio di Aung San Suu Kyi deve essere “privo di condizioni”, perché possa riprendere un “ruolo attivo” nel processo politico del Paese. I leader cristiani chiedono infine al regime birmano di
«ripristinare la democrazia, restituendole la vittoria alle elezioni del 1990». Suu Kyi è figlia del generale Aung San, eroe dell’indipendenza birmana che fu assassinato dai suoi avversari interni nel 1947, sei mesi prima della fine del dominio coloniale britannico. All’epoca sua figlia aveva solo due anni.
Nel 1960 la giovane Suu Kyi seguì in India la madre Daw Khin Kyi, nominata ambascia-
tore a Nuova Delhi. Ma nel 1962 un colpo di Stato militare mise fine alla democrazia birmana. Rimasta all’estero, Suu Kyi studiò all’universita’ di Oxford e sposò l’accademico britannico Michael Aris, con il quale ebbe due figli, Alexander e Kim. Ma Suu Kyi non ha mai dimenticato il suo Paese. Nel 1988 torna in patria per assistere la madre gravemente ammalata, mentre nel Paese studenti e monaci buddisti scendevano
I vincitori del prestigioso riconoscimento sono riuniti a Hiroshima per l’incontro annuale
I Nobel per la Pace: libertà per lei e Liu di Massimo Fazzi
L’opposizione birmana e la comunità internazionale attendono la liberazione di Aung San Suu Kyi, Nobel per la pace e icona della lotta per la democrazia in Myanmar. Imponente lo schieramento di forze dell’ordine attorno alla casa della leader dell’opposizione in University Avenue, a Yangon, mentre in centro città almeno 800 sostenitori si sono radunati nei pressi della sede della Lega nazionale per la democrazia (Nld). Aung San Suu Kyi, 65enne, ha trascorso 15 degli ultimi 21 anni agli arresti. L’ultimo provvedimento restrittivo della giunta risale all’agosto del 2009, una condanna agli arresti domiciliari per 18 mesi, con l’accusa di aver ospitato un cittadino americano nella sua abi-
gnora”, tra cui l’allestimento di un reparto speciale della polizia formato da funzionari che, già in passato, hanno garantito la sua incolumità. Dalla mattinata di oggi le autorità hanno rafforzato la presenza di agenti e militari attorno alla sua abitazione. Le voci di un’imminente liberazione hanno sollevato una vasta eco in seno alla comunità internazionale.Tra i primi commenti AsiaNews ha ri-
vincitori del Premio Nobel per la Pace, che come ogni anno si sono riuniti per discutere di un mondo senza armi nucleari, hanno chiesto libertà per Liu Xiaobo e Aung San Suu Kyi. I due sono attualmente gli unici detentori del Premio in galera, anche se in passato ci sono passati quasi tutti. Per l’autore del manifesto democratico Charta ’08 si è fatto portavoce un altro dissidente cinese, Wu’er Kaixi, che dal summit ha chiesto oggi alla Cina di scarcerare il premio Nobel per la pace 2010. Parlando al summit dei premi Nobel per la Pace in corso ad Hiroshima, città martire della Seconda guerra mondiale l’ex leader della rivolta studentesca di Tienanmen nella primavera del 1989 - che vive ora in esilio a Taiwan - ha chiesto ai partecipanti di fare pressioni sulla Cina affinché si comporti «come un membro responsabile della comunità internazionale. Le autorità cinesi devono scarcerare Liu Xiaobo immediatamente e senza condizioni». Liu è stato condannato ad unidici anni di reclusione il giorno di Natale del 2009: la sua colpa è quella di aver chiesto al governo comunista una strategia di aperture alla democra-
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zia in Cina. Il Dalai Lama, leader spirituale dei buddisti tibetani, ha immediatamente raccolto l’appello e si è pronunciato in difesa dei due Nobel Liu Xiaobo e Aung San Suu Ky. Il leader spirituale si è rammaricato per la loro assenza: «La Cina ha bandito le armi nucleari e questo è un bene. Ma oggi qui come vedete non è potuto venire Liu Xiaobo e questo è molto triste, e così è anche per Aung San Suu Kyi, che non è una donna libera». Lo scopo del summit dei premi Nobel è lanciare un appello contro la proliferazione delle armi nucleari. Al vertice era atteso anche il presidente Obama che, impegnato al G20 a Seoul, non si presenterà. Nel corso del vertice, i premi Nobel consegneranno a Roberto Baggio il Peace Summit Award 2010, il riconoscimento che annualmente viene concesso a personalità che si sono distinte nel campo della solidarietà e degli aiuti ai più bisognosi. All’apertura dell’incontro, il leader dei democratici italiani ha invitato i presenti a «non dimenticare il pericolo nucleare in un mondo radicalmente cambiato ma attraversato da nuovi rischi». Hiroshima e il 6 agosto del 1945 «sono un luogo e una da-
Il Dalai Lama si “rammarica” per l’assenza al summit dei due dissidenti: «La Cina deve dimostrarsi una grande potenza liberando Xiaobo»
mondo
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L’opinione del primo ministro birmano in esilio in India
Falsando le elezioni, la giunta ha perso Per garantirsi di nuovo il potere, i militari si sono condannati a sparire per sempre dalla storia del Paese di Tint Swe el mondo intero nessuno si aspettava che le elezioni di novembre in Birmania fossero libere o giuste. Alcuni governi sono inclini a permettere pratiche elettorali relativamente scorrette. Molti in Birmania speravano, dicendo che qualche cosa è meglio di niente. I partiti politici che hanno partecipato alle elezioni si attendevano che si giocasse corretto. I votanti pensavano che i loro voti sarebbero stati contati giustamente. I candidati non della giunta volevano affidarsi al verdetto della gente.Tutte le attese si sono rivelate sbagliate. La partita è stata falsata dall’arbitro e dai guardialinee. La Commissione dell’unione elettorale ha accuratamente preparato e sistemato tutto affinché fosse pronto in caso di emergenza. L’arma più efficace ampiamente usata è stato il “voto in anticipo”. I funzionari di governo sono stati istruiti a votare davanti ai propri superiori. Gli abitanti dei villaggi dovevano votare di fronte al capo del villaggio. I soldati e le loro famiglie dovevano votare davanti ai loro comandanti. E quando i voti in anticipo sono stati contati il 7 novembre, si è trovato che erano sufficienti. C’erano numerosi candidati pieni di gioia, quella sera, quando hanno visto che i voti li facevano vincere, Ma è durato solo un paio d’ore, e i funzionari di alto livello della commissione elettorale si sono dati da fare per portare sacchi pieni dei cosiddetti “voti in anticipo”, segnati da una sola penna. Arrivavano con il numero necessario di voti, 100, o 1000 o 10mila. Così il cosiddetto annuncio ufficiale ha rovesciato tutto. Tutto va al Partito dell’unione, della solidarietà e dello sviluppo, (Usdp) che si assicura non meno dell’80 per cento dei tre gradi parlamentari. I due maggiori partiti pro-democrazia, la Forza nazionale democratica (Ndf) e il partito democratico (Myanmar) hanno perso. U Khin Maung Swe, leader del più grande partito di opposizione, ha detto: «Abbiamo perso la testa, all’inizio, ma l’Usdp in seguito è cresciuto con i cosiddetti voti in anticipo e ha cambiato i risultati completamente, così abbiamo perso». U Thu Wai, presidente del Partito democratico, ha vinto in 29 su 30 seggi, ma alla fine è stato dichiarato perdente.
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Un bambino tocca il manifesto che chiede la liberazione di Aung San Suu Kyi. A destra il voto nel Paese. In basso, il Dalai Lama insieme a Nelson Mandela a Hiroshima in strada per chiedere la democrazia. Ispirandosi all’esempio della protesta pacifica del Mahatma Gandhi, padre spirituale dell’indipendenza indiana, Suu Kyi assunse presto la guida del movimento. Ma i militari risposero con la legge marziale e la protesta fu repressa con brutalità. Neanche le ele-
zioni stravinte servirono a nulla. Anzi, le aprirono le porte di quella prigione che si riaprono oggi per la prima volta. Per non aver piegato la testa, ha conosciuto galera e privazioni, ma non ha ceduto ai ricatti di una giunta che mostra tante crepe e che, senza l’aiuto della Cina, sarebbe già stata deposta.
1990 quando il popolo ha dato un successo travolgente alla Lega nazionale per la democrazia (Nld). Questa volta la gente ha visto uno spettacolo di prestidigitazione.
Il leone, simbolo dell’Usdp, è venuto fuori dal cappello del mago. Può essere che nelle aree etniche ci siano vincitori non della giunta, ma possono solo sedere nelle assemblee regionali sotto i Capi nominati dal governo. Mentre la gente e i partiti politici si occupavano della commissione elettorale, la gente al confine con la Thailandia stava scappando dalla battaglia fra l’esercito birmano e l’Esercito democratico buddista Karen (Dkba) a Myawaddy e al passo delle Tre Pagode. Il lea-
Tutte le attese si sono rivelate sbagliate. La partita è stata truccata dall’arbitro e dai guardialinee. La Commissione dell’unione elettorale ha accuratamente preparato tutto
ta che hanno cambiato la storia del mondo per sempre».Veltroni, che promosse l’iniziativa quando era sindaco di Roma, ha aggiunto: «Non averne memoria, metterne il ricordo in un angolo nascosto, può essere fatto, come ha scritto il grande premio Nobel per la letteratura giapponese Kenzaburo Oe, “solo da quanti, di fronte all’evidenza, osano restare muti, sordi e ciechi”. Sottrarsi a questo rischio è il dovere di ognuno di noi».
E il fatto che l’undicesima edizione del Summit dei Premi Nobel per la Pace «si svolga proprio qui, a Hiroshima, a sessantacinque anni di distanza da quel giorno, assume in tal senso un significato particolare e simbolico».
Il giornale dello Stato la Nuova luce del Myanmar ha scritto che l’Usdp ha vinto 91 seggi, il PaO ha vinto 11 seggi, il Taaung Palaung 12 seggi, il Kayn e il Partito di unità nazione due seggi ciascuno e il Wa partito democratico ha vinto 4 seggi. Il 7 novembre 2010 non può essere paragonato al 27 maggio del
der del Dkba conosciuto come “Sig. Baffo” ha detto che stanno combattendo per esprimere disapprovazione per le elezioni ingiuste, e ha ripetuto che Aung San Suu Kyi è il leader nazionale della Birmania. Sembra una tradizione dell’India come della Birmania che l’ospite non debba dire nulla che non piaccia all’anfitrione. Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama invece ha seguito il costume americano e ha parlato della Birmania nella sessione congiunta del Parlamento della più popolosa democrazia del globo. Ha detto: «Di fronte a così grandi violazioni dei diritti umani, è responsabilità della comunità internazionale e specialmente di paesi leader come India e Stati Uniti di condannarle». Ha continuato dicendo che parlare a nome di coloro che non possono farlo non è interferenza negli affari interni di altri Paesi. Non è una violazione della sovranità nazionale. È restare fedeli ai principi democratici. Così queste notizie danno il benvenuto al Presidente birmano appena eletto e al nuovo parlamento in Birmania.
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Sana’a. La penisola arabica occidentale ancora abbandonata a se stessa quasi un anno di distanza dal fallito attentato sul volo Amsterdam-Detroit, al Qaeda ha provato a diffondere nuovamente il panico in Occidente. Due settimane fa, le autorità britanniche hanno intercettato un pacco bomba a bordo di un cargo commerciale diretto negli Usa. Londra ha dichiarato che l’ordigno sarebbe scoppiato alle 10.30 del 29 ottobre, ora italiana. Gli inquirenti hanno concluso che la rete qaedista non voleva abbattere degli aerei cargo o colpire delle sinagoghe - come era stato inizialmente detto - bensì provocare una nuova Lockerbie. A questo punto, è evidente che Gran Bretagna e Stati Uniti restano i target preferiti per gli shahid seguaci di Osama bin Laden. Eccezion fatta per la Francia, che recentemente è tornata nel mirino del terrorismo di matrice islamica. Quel che va rilevata è la comune origine yemenita di questi piani non andati a segno. L’estremità occidentale della penisola arabica resta abbandonata a se stessa, carica delle sue criticità strutturali e quindi facile centro di smistamento del jihadismo. Lo Yemen, in questo senso, offre molti vantaggi rispetto all’Afghanistan, l’Iraq e al nord Africa. Nei primi due, al Qaeda vede il fronte aperto con l’Occidente. La macro area nordafricana, a sua volta, resta un quadrante a sé, in cui il terrorismo è concentrato nell’affermazione di “Maghreb islamico”e nient’altro. In entrambi i casi, inoltre, appare eccessiva l’attenzione del nemico affinché si possa organizzare un attentato terroristico. Troppi soldati stranieri, troppe operazioni di intelligence, di conseguenza l’impossibilità di organizzare un’attività su scala globa-
A
Dallo Yemen rinasce la minaccia qaedista Da qui sono partiti i pacchi che volevano portare di nuovo il terrore nel mondo di Antonio Picasso
permette una facile manovra nel territorio da parte dei terroristi. Scarsi controlli, facile corruzione e comunque un Paese morfologicamente difficile da perlustrare appaiono ottimali per l’organizzazione di attività sovversive. Le aree interne sono in prevalenza montuose, quindi difficili da raggiungere, soprattutto per un
Il Paese è perfetto per addestrare al meglio le truppe fondamentaliste: lontano dalle rotte classiche, è comunque islamico quanto basta le com’è invece nei piani di bin Laden. Meglio, a questo punto, un Paese fuori dalle rotte classiche. Lo Yemen occupa comunque una posizione strategica, perché si trova a metà strada tra l’“Af-Pak war” e il Corno d’Africa, punto di approdo per i mujaheddin inviati nel Maghreb. Qui la presenza dei governi occidentali è pressoché nulla. E questo è un errore che al-Qaeda ha saputo sfruttare. La debolezza delle istituzioni centrali di Sana’a e delle forze armate locali
esercito che dispone di scarse risorse da un punto di vista tecnologico. Le coste, a loro volta, sono infestate dalla pirateria di origine somala, fenomeno anch’esso strumentalizzato da al-Qaeda. Anche qui gli interventi militari appaiono di difficile realizzazione. A questo bisogna aggiungere la presenza di una società tribale, povera e tradizionalmente propensa alla guerra. Si tratta di elementi antropologici che tornano vantaggiosi ai jihadisti. Non che la fram-
La setta sciita che sfida lo sceicco del terrore
Zaiditi, nemici di bin Laden Sono lontani dall’idea di jihad globale promossa da al Qaeda. Sono sciiti e quindi nemici di Osama bin Laden. Tuttavia gli zaiditi costituiscono la vera spina nel fianco del debole regime yemenita. La loro presenza, per quanto limitata alle regioni meridionali della Penisola arabica, non è esigua. Corrisponde infatti al 40% circa della popolazione locale. La setta è seguace del martire Zaid, morto nel 740, ucciso dopo aver condotto un’insurrezione contro il califfo omayyade Hishâm ibn Abd alMalik (691-743). Zaid è considerato il quinto Imam della famiglia del Profeta. In principio gli zaiditi inclusero nella lista dei propri Imam i due califfi Abu Bakr e Omar. Tuttavia, successivamente li cancellarono e fecero riferimento alla discendenza di Ali,
nipote di Maometto. Da qui la loro vicinanza con gli sciiti. Il fatto di vivere nel cuore del sunnismo ha provocato una lotta senza quartiere con le truppe yemenite. Due anni fa, tuttavia, era stato raggiunto un accordo di pace. Questo però era venuto meno con la mancanza di coesione fra i vari capi tribali zaiditi. Molti di questi, finanziati ed equipaggiati da governi stranieri - interessati a mantenere instabile la regione - rifiutarono il dialogo con Sana’a. Alla fine dello scorso anno, infine, è circolata la voce che il leader della minoranza sciita, Abdel Malek alHouthi, fosse stato ferito in uno scontro a fuoco. La notizia venne poi smentita. Da allora però, se di al-Houthi si sono perse le tracce, la guerriglia non si è ri(a.p.) dotta di intensità.
mentazione clanica dello Yemen includa in sé il germe del terrorismo. Tuttavia, la difficoltà incontrata dalle autorità governativa a pacificare vaste aree del Paese – dove persistono scontri fra villaggi nemici e altri contro le stesse forze governative – permette ad al-Qaeda di fare proselitismo, ma soprattutto di insediare i propri campi di addestramento senza che nessuno si metta di traverso. Non si contati, infatti, le tribù di opposizione al presidente Ali Abdullah Saleh. In primis gli zaidithi, di confessione sciita, quindi distanti da al-Qaeda. A seguire altre realtà che con l’organizzazione jihadista possono convivere facilmente. A sua volta, gli appena 2.500 dollari di reddito pro capite annuo della popolazione yemenita permetta al jihad di apparire uno sforzo di emancipazione e di lotta sociale. Contro Sana’a e contro i governi stranieri, ritenuti responsabili del declino economico del Paese. Nel suo complesso, lo Yemen è soggetto a un conflitto interno di bassa frequenza e dimenticato dalla comunità internazionale. Un tempo il porto di Aden, alla bocca del Mar Rosso, poteva rappresentare una ragione valida affinché l’Europa prestasse maggiore attenzione a questo Paese. non è un caso che, in epoca coloniale, la città fu colonia dell’Impero britannico. Oggi, da un lato le rotte a lunga percorrenza e dall’altro le criticità della zona hanno segregato Aden a una posizione di secondaria importanza rispetto ad altri scali.
In controtendenza appaiono le operazioni contro la pirateria, organizzate in maniera congiunta dall’Unione europea, dalla Nato e in collaborazione con la maggior parte dei Paesi asiatici. Recentemente, inoltre, Washington ha disposto l’invio di altri droni, i velivoli senza pilota, al fine di scovare i nuclei di attività del gruppo “al-Qaeda in Yemen”. È anche vero, però, che queste iniziative hanno preso piede da circa due anni. I risultati tardano ad arrivare. Non tanto, o non solo, per la scarsa efficacia dei raid nelle montagne yemenite e per l’estrema capacità di sfuggire da parte dei pirati, nascondendosi tra le coste arabe e quelle della Somalia. Ciò che emerge è soprattutto l’inefficienza del governo di Sana’a, il quale non offre quella garanzia di stabilità politica e trasparenza richiesta per la pacificazione del territorio.
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I due leader già in disaccordo sulla formazione dell’esecutivo
Il primo ministro israeliano incontra Hillary Clinton
Baghdad, primo scontro tra Allawi e al Maliki
Netanyahu a Washington, riprendono i negoziati
BAGHDAD. Si preannuncia difficile il compito del Primo ministro uscente Nouri al Maliki, che da ieri lavora per formare il nuovo esecutivo iracheno: due giorni fa, a poche ore dal raggiungimento di un accordo fra i partiti che, incentrato sulla spartizione delle tre più importanti cariche del Paese, dovrebbe portare ad un governo di unità nazionale, si è verificata già la prima spaccatura con il suo rivale Iyad Allawi, leader del blocco sciita laico Iraqiya. Insieme ad una sessantina di deputati (su 91) di Iraqiya, che è sostenuta da una maggioranza di sunniti, Allawi ha abbandonato il Parlamento prima della rielezione, prevista dall’accordo, del curdo Jalal Talabani alla presidenza della Repubblica, accusando il blocco dello sciita Maliki di non rispettare l’accordo faticosamente concluso dopo un impasse di otto mesi.
WASHINGTON. Il primo mini-
Nello specifico i ”frondisti”volevano che il Parlamento prima di votare approvasse un provvedimento per la scarcerazione di detenuti sunniti accusati di legami con il passato regime di Saddam Hussein e per la riabilitazione di tre candidati del partito messi al bando per lo stesso motivo. Prima di riconfermare Talabani, che appena eletto ha annunciato l’intenzio-
Vendetta annunciata nel cuore di Karachi Braccati dai militari, i talebani fanno una strage in Pakistan di Pierre Chiartano
KARACHI. I talebani sono stati di parola. «O rilasciate il nostro capo o arriverà una bomba» avevano affermato. E infatti un camion carico di una tonnellata di esplosivo è stato fatto deflagare contro il Dipartimento centrale per la sicurezza (Crime investigation department) di Karachi, in Pakistan, utilizzato dalla polizia per tenere sotto chiave sospetti terroristi. Nell’attacco sono morte almeno una ventina di persone, molti poliziotti e sarebbero rimaste ferite 130, tra cui 25 donne e 20 bambini. L’attacco è avvenuto in una delle zone più protette della capitale economica pakistana, non lontano dalla sede del consolato americano e di diversi uffici governativi, oltre che delle maggiori catene di hotel a cinque stelle frequentate dagli occidentali. L’attentato è stato paragonato a quello del 2008 contro l’hotel Marriott in cui perirono 60 persone. Il Crime investigation department è una sezione della polizia specializzata in antiterrorismo e che ha sede in una palazzina nella zona rossa della città, a pochi passi dall’hotel Sheraton. Anche l’albergo, frequentato soprattutto da stranieri, è stato parzialmente distrutto. Le pareti del cortile interno sono saltate in aria e sono completamente divelte. L’esplosione ha infranto i vetri delle camere da letto, ribaltato le sedie, come uno tsunami. L’azione era stata annunciata dai talebani. Infatti l’esercito giovedì aveva arrestato Iqbal Bajour, uno dei capi dei militanti talebani pakistani in Nord Waziristan, e sei altri membri di Lashkar-e-Jhangvi. Bajour era stato portato proprio nella sede del Crime investigation department, ovvero il centro interrogatori di Karachi dove sono detenuti i talebani di alto profilo. I terroristi avevano annunciato un autocarro pieno di esplosivo se non lo avessero liberato entro la mattinata. Verso le 20.10 ora locale di giovedì un commando di terroristi ha attaccato il centro di polizia. C’è stata una sparatoria di dieci minuti, che inizialmente non aveva creato alcun allarme nel quartiere. Il centro di polizia si trova infatti vi-
cino a un locale, dove si celebrano matrimoni – in Pakistan le cerimonie nuziali terminano con una sparatoria “augurale” – per cui nessuno degli abitanti della zona all’inizio ci aveva fatto caso. Quando la gente ha cominciato a sospettare che non si trattasse di un matrimonio e molti sono usciti per strada, sono stati investiti dall’esplosione del camion-bomba che ha lasciato sul terreno un cratere di tre metri e ha polverizzato i vetri degli edifici in un raggio di cinque miglia.
Le autorità pakistane parlano di una tonnellata di esplosivo fatta esplodere dal camion bomba. Il complesso del Cid è completamente crollato. Una ventina di edifici e abitazioni adiacenti sono andate distrutte lasciando molte vittime tra le macerie. Decine di automobili e di moticlette, attorno al luogo dell’attentato, si sono completamente fuse a causa dell’altissima temperatura provocata dall’esplosione. Il progetto dei terroristi era quello di attaccare per liberare i miliziani arrestati «ma questo loro progetto è fallito» ha dichiarato Qaim Ali Shah, governatore della provincia del Sihnd di cui Karachi è la capitale. Ma non è ancora chiaro quale fosse il vero intento del commando talebani se la liberazione del loro capo oppure l’attentato. L’esercito sta aumentando la pressione sulle regioni di confine con l’Afghanistan con numerose operazioni di rastrellamento mentre l’esercito Usa dall’inizio dell’anno ha effettuato più di cento raid con i droni senza piloti. Era chiaro che sottoposti a una pressione militare così forte i talebani prima o poi dovessero reagire. Dalla Cina, dove si trovava in visita, il presidente Asif Ali Zardari ha duramente condannato l’attacco. «Il governo non si lascerà intimorire da questi atti di violenza e continuerà la guerra contro il terrore», ha poi aggiunto il presidente. Da diversi mesi, inoltre, a Karachi è in corso una faida tra gruppi politici con centinaia di morti, ma che non sembra legata ai movimenti integralisti islamici.
L’esercito aveva arrestato Iqbal Bajour, un capo dei fondamentalisti pakistani, con altri sei membri di Lashkar-e-Jhangvi
ne di incaricare Maliki di formare il prossimo governo l’annuncio sarà formalizzato nei prossimi giorni - il Parlamento era riuscito ad eleggere il suo nuovo presidente, il sunnita Osama al Noujaif del blocco di Allawi. La prossima seduta del Parlamento è stata fissata per oggi ma al momento non si sa se Allawi e gli altri deputati frondisti saranno presenti. Uno dei parlamentari di Iraqiya che non ha preso parte alla protesta, si è tuttavia espresso in toni ottimisti. «Credo che Iraqiya tornerà in Parlamento e che l’accordo sarà firmato perché Massud Barzani ne è il garante», ha dichiarato Hassan Alawi alla stampa.
stro israeliano Benyamin Netanyahu e il segretario di Stato americano Hillary Clinton «hanno convenuto sull’importanza di continuare i negoziati diretti» per giungere ad una pace con i palestinesi. È quanto afferma il comunicato diffuso a New York al termine di un incontro maratona di sette ore. Ma al momento non è chiaro se il lungo faccia a faccia possa veramente portare ad una svolta sulla ripresa del negoziato. Alla domanda di un giornalista se i negoziati diretti riprenderanno presto, la Clinton ha risposto: «Questo è quello che discuteremo. Siamo entrambi molto impegnati in questo senso». Alla base dello stallo
nei negoziati diretti, ripresi ai primi di settembre e sospesi alla fine dello stesso mese, vi è la mancata estensione della moratoria delle costruzioni negli insediamenti, senza la quale i palestinesi non vogliono tornare al tavolo delle trattative. La diplomazia americana sta cercando di superare l’impasse offrendo una serie d’incentivi agli israeliani perché accettino una nuova moratoria ed è di questo che Netanyahu e la Clinton hanno discusso a lungo.
Il comunicato finale parla di una «buona discussione con un amichevole e produttivo scambio di opinioni fra le parti». Ma successivamente, nota il sito Politico.com, espone la visione americana per una soluzione con due Stati «basata sulle linee del 1967 con scambi concordati», senza aggiungere quale sia l’opinione di Netanyahu. Il testo non fa inoltre menzione di una possibile disponibilità israeliana ad una nuova moratoria. Il testo del comunicato indica però che si è parlato di garanzie americane agli israeliani: «Gli Stati Uniti ritengono che, attraverso negoziati in buona fede, le parti possano concordare su un risultato che metta fine al conflitto».
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Ritratto. Per un quarto di secolo ha insegnato a Perugia, formando numerose coscienze critiche in pieno conformismo
La storia smascherata Compie ottant’anni Piero Melograni, il grande studioso che ha raccontato le bugie del potere di Gabriella Mecucci a ottant’ anni Piero Melograni, e la sua vita è stata varia, intensa, e piena di cesure. Cambiamenti profondi senza che però nulla sia stato rinnegato. Gettato alle ortiche. Cambiamenti raccontanti senza paure o infingimenti, accettandosi.
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dalle coordinate marxiste, anticonformista, senza pregiudizi ideologici. E questi tratti del suo modo di lavorare resteranno ben saldi in tutta la sua produzione futura. Melograni con la sua prima “impresa” ha profondamente cambiato la storiografia sulla prima guerra mondiale. Non ha raccontato un susse-
Pochi sanno che ha iniziato a esercitare il suo “mestiere” principale, quello dello storico, non proprio da giovanissimo: il suo primo libro e forse il più bello, Storia politica della grande guerra è uscito quando già aveva trentanove anni. Prima aveva fatto, con non troppo entusiasmo, l’imprenditore, seguendo l’azienda di famiglia. Figlio della borghesia romana, con una madre Forges Davanzati, approdò con un po’ di ritardo a scegliere la storia. Ora, dall’alto dei suoi ottant’anni, racconta con ironia come e perché si prendono certe decisioni: «Accade spesso che ognuno di noi tenda a scegliere il mestiere per il quale non è portato, poiché in esso ha trovato la vera sfida. Chi non ha molta memoria tende a diventare storico, chi possiede difetto alla vista ha la tentazione di diventare un fotografo, e quindi chi è debole può essere tentato dall’ambizione di diventare capo». Queste poche parole dicono qualcosa della personalità di Melograni: la profondità raggiunta attraverso la via della semplicità. Il fastidio per gli arzigogoli, un misurato gusto del paradosso.
Il libro sulla grande guerra come si diceva - segnò il suo ingresso nella professione di storico. E fu un ingresso col piede giusto. Con la sua opera prima, infatti, donò alla storiografia italiana uno dei suoi classici migliori, di “culto”, si direbbe oggi. Con quel testo si affacciava alla ribalta un nuovo storico, interprete di una cultura svincolata
trascorsi dal “radioso maggio”a Vittorio Veneto». Ha ricostruito il primo conflitto mondiale come un grande dramma di uomini contro. Scopriamo - leggendolo - la sfiducia nell’esito finale che attraversava il nostro esercito, la crudeltà dei capi militari, le diserzioni, le decimazioni e tutte le cause che portarono a Caporetto. E poi ci vengono mostrate le ragioni che determinarono l’inversione di rotta sino ad arrivare a Vittorio Veneto. La narrazione indaga il rapporto fra esercito, politica e società soffermandosi su come la guerra sia stata vissuta dalle grandi masse. Un approccio che non ebbe solo estimatori, ma anche parecchi critici importanti: da Rochat a Isnenghi.
La carriera di storico iniziò comun-
Da giovane, subito dopo la Seconda guerra, è stato un militante comunista, ma lasciò il Pci nel 1956 dopo i fatti d’Ungheria. Nel 1994 è stato fra gli intellettuali che aderirono a Forza Italia e al berlusconismo guirsi di battaglie. Non ha spiegato le strategia militari, o i movimenti delle armate, né si è limitato a narrare le sconfitte e le vittorie, ricercandone le ragioni nei comportamenti dei generali. Ha scritto un libro, spinto dal desiderio di comprendere «quali furono i sentimenti, i problemi, le trasformazioni della società italiana durante i 44 mesi
que alla grande e un paio d’anni dopo Piero Melograni venne chiamato ad insegnare all’Università di Perugia, dove è rimasto per ben 25 anni: dal 1971 sino al 1996. E lì che chi scrive lo ha incontrato. In una città “rossa”e in una facoltà di Scienze Politiche “allineata” al politically correct dell’epoca, arrivarono due strani professori, parecchio eterodossi. Uno, Sergio Bertelli molto appariscente nel sua trasgressività filoamericana: si andava a cena al “Cantinone” tutti insieme e, con curiosità, ma anche con incredulità, potevano ascoltare - mentre impazzavano la rivoluzione, l’antimperialismo, e gli slogan tipo “yankee go home” - il racconto della vivacità, della libertà, della modernità degli States. Fu una rottura: un bagno sprovincializzante che aprì qualche breccia in noi, comunisti coriacei e spesso acritici. L’altro strano professore, era Piero Melograni con uno stile meno colorito, poco incline alle kermesse serali. Riservato, ma capace di mettere in discussione con pacata signorilità le nostre titani-
che certezze a suon di giudizi secchi, a cui seguivano lezioni molto documentate e a suon di domande, a cui rispondevamo con rabberciate frasi propagandistiche o con imbarazzati silenzi. Eppure, sebbene tetragone, le nostre menti venivano turbate, scalfite da quelle narrazioni problematiche. Non so se se ne siano mai accorti, ma quei due professori, oltre ad innovare la storiografia quando scrivevano i loro saggi, lavorarono in facoltà e nelle nostre teste come la talpa che scava al buio, in profondità. A uno che detesta non solo la retorica, ma anche l’enfasi, e preferisce i toni bassi, potrebbe dare persino un po’di
fastidio essere definito un maestro a lento rilascio. Però Melograni era proprio così.
Di lui come studioso ci sarebbe molto da dire. I suoi libri sono preziosi, ma non li citeremo tutti. Non hanno certo bisogno di pubblicità: l’ultimo, Toscanini è stato tradotto anche in Cina. Già, perché il nostro ottantenne ama molto la musica e nel suo lavoro di storico ha infilato anche questa passione, redigendo biografie di straordinari musicisti: quella del grande direttore d’orchestra italiano e quella di Wolfang Amadeus Mozart. Una produzione multiforme la sua. Difficile da riassumere in poche
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I potenti, i miti e la realtà del Novecento italiano nei suoi libri
Dalla Grande guerra all’arte di Toscanini Piero Melograni è nato a Roma, 15 novembre 1930. Ha insegnato Storia contemporanea all’Università di Perugia. Laureatosi a Roma, raggiunse notevoli risultati presso le Università di Napoli e di Washington, ottenendo riconoscimenti e borse di studio. Ha pubblicto molti libri, tra i quali: Storia politica della grande guerra. 1915-1918 (Laterza, 1969); Gli industriali e Mussolini (Longanesi, 1972); Saggio sui potenti (Laterza, 1977); Fascismo, comunismo e rivoluzione industriale (Laterza, 1984); Il mito della rivoluzione mondiale (Laterza, 1985); Guida alla tesi di laurea (Rizzoli, 1993); Dieci perché sulla repubblica (Rizzoli, 1994); La modernità e i suoi nemici (Mondadori, 1996); Le bugie della storia (Mondadori, 2006); Toscanini (Mondadori, 2007).
La sua lezione è sempre stata quella di andare oltre la patina ufficiale delle cose passate; riuscendo a ricostruire le dinamiche individuali, oltre a quelle sociali e politiche. Un’impostazione che fin dall’inizio suscitò clamore righe. Parleremo, dunque, di quei saggi che più raccontano di lui, che contengono cioè quella voglia di guardare le cose in totale libertà, quella curiosità insaziabile, quella capacità di stupirsi e di stupirci, quel divertirsi a mettere in discussione i luoghi comuni. Ce n’è uno, ad esempio, che non è considerato fra i suoi lavori più profondi, ma che aiuta molto a comprendere la sua personalità intellettuale. È Le bugie della storia. In poche pagine, Melograni dimostra come sia stata vera, a suo modo, l’accusa - considerata risibile - che i comunisti mangiassero i bambini. O per meglio dire: che in epoca comunista si mangiassero i bambini.
Fu proprio così - spiega il professore. Quando scoppiarono in Urss le grandi carestie, capitava che le madri non in grado di allattare il figlio piccolo, destinato quindi probabilmente a soccombere, lo dessero in pasto al grande. Storie agghiaccianti di sofferenze indicibili proprio nel paese in cui si voleva edificare “il paradiso in terra”. E che dire dell’Ucraina, dove addirittura la carestia fu voluta e indotta da Giuseppe Stalin? Melograni nello stesso libro ci sottopone un altro paradosso: Karl Marx non aveva mai messo piede in una fabbrica e non sapeva nulla dei problemi del lavoro. Più avanti, e in altre sedi, sosterrà che Antonio Gramsci probabilmente venne ucciso e che l’incidente d’auto di Berlinguer in Bulgaria era in realtà un attentato.
La vita del professore, dello storico fu lungamente attraversata dalla politica. Il giovane Piero prese parte a pericolosi volantinaggi antifascisti, sfuggendo alle grinfie di soldati delle Ss. Poi si iscrisse al Pci («Per seguire mio fratello Carlo che adoravo») e si impegnò, come
In queste pagine, due immagini dello storico Piero Melograni e due caroline d’epoca sugli eventi della Prima guerra mondiale, cui Melograni dedicò il suo saggio più importante. A sinistra, dall’alto: Enrico Berlinguer, Bettino Craxi e Silvio Berlusconi tanti, nelle diffusioni militanti della stampa comunista: persino di una testata dal nome chilometrico e programmatico come «Per una pace stabile e una democrazia popolare». Rimase nel partito sino al 1956, quando ne uscì firmando il Manifesto dei 101. Non trascurò di appoggiare il dissenso dell’Est: fu uno di quegli intellettuali italiani che presero parte alla Biennale di Venezia del ’77. I più la disertarono un po’ per conformismo filocomunista, un po’ per semplice opportunismo. Lui c’era, e, all’epoca, seguiva con interesse i tentativi di innovazione di Bettino Craxi. Poi, in un altro tempo, crollata la prima Repubblica, fu tra i primi intellettuali – con Lucio Colletti, Pera, Rebuffa e altri – ad aderire a Forza
Italia. Una volta gli hanno chiesto se avesse amato più il Pci o il partito di Berlusconi e lui non ha avuto dubbi: il Pci, ha risposto. Anche perché a Melograni, ormai da tempo uscito dal partito, Giorgio Amendola regalò quella splendida intervista (uscita per Laterza) in cui parlava fuori dagli schemi del fascismo, tanto da riconoscere - cosa all’epoca molto eterodossa presso i comunisti - che il regime aveva avuto il consenso degli italiani.
Del Cavaliere invece pensa che è un incantatore, un vero seduttore. Ma che è stato l’uomo politico che ha finito col frantumare tutti gli schemi della guerra fredda, portando al governo gli ex fascisti, mentre dall’altra parte c’erano gli ex comunisti non più segnati dal fattore K. Quando era di Forza Italia cercava di spiegare a Berlusconi che «in Italia le prime vittime del comunismo sono state i comunisti», ma questi non gli «dava retta». Come Melograni stesso ha raccontato: «Quella tesi non gli serviva». Per lui - lo ha affermato più volte - il vero dramma del Pci è stato proprio quello di non riuscire a fare i conti con la propria storia. Con tutta: quella drammatica dell’appoggio o dei complici silenzi verso le persecuzioni sovietiche, ma anche quella parte positiva. Credo - a affermato in un’intervista - che «Berlinguer sia stato un eroe dell’autonomia da Mosca». Mentre ci sono dirigenti del Pci che negano di essere stati comunisti, Melograni non ha timore di ammettere di aver avuto anche un periodo stalinista: «Ha sofferto per la morte di Stalin più che per quella di mio padre». Onestà intellettuale, ma anche un pizzico di «epater le bourgeois». Ha vissuto intensamente i suoi primi ottant’anni. Non è stato solo protagonista sul piano politico e culturale, ma anche avuto grandi amori e altrettanto grandi passioni; ha sfidato con coraggio e battuto due gravissime malattie; ha sposato non più giovanissimo la sua ultima compagna, Paola Severini con la quale ha un rapporto felice. Ha attraversato un bel pezzo di Novecento ed è entrato da protagonista negli anni Duemila. Ha aderito a cose e a luoghi che ha poi giudicato sbagliati, ha cambiato idea radicalmente e lo ha rivendicato. Ha fatto tutto questo con signorilità, con leggerezza, non perdendo nemmeno nei momenti più difficili il gusto di vivere. Nel biglietto d’invito alla festa del suo ottantesimo compleanno sulla prima pagina appare la foto di un bambino paffutello, con i grandi occhi azzurri pensosi e buoni. Sotto la spessa cultura, la vita ricca di impegni e successi importanti, sotto i dolori e le sfide, quel bambino curioso c’è ancora.
ULTIMAPAGINA Il personaggio. L’archeologo che riporta al Cairo i capolavori esposti all’estero
Zahi Hawass, l’Indiana Jones dei tesori (rubati) di Luisa Arezzo
ome Indiana Jones, si barcamena fra le lezioni di archeologia (non tanto nelle aule universitarie quanto negli studi televisivi di National Geographic, History Channel e al Jazeera) e la caccia ai tesori nascosti. Ma più che a quelli della sua terra, mira a quelli conservati nei musei di mezzo mondo. Soprattutto British Museum, Louvre e Museo Egizio di Torino. Come Harrison Ford, ha un carattere rude e spigoloso e come lui porta il cappello a tesa larga inconfondibilmente color sabbia. Un vezzo che George Lucas, come ha confidato a Barack Obama la scorsa primavera, «gli ha rubato di sana pianta» quando ha creato l’avventuroso personaggio dei suoi film. Stiamo parlando di Zahi Hawass, l’archeologo più famoso d’Egitto, direttore dei beni archeologici del Paese e oggi vice ministro della Cultura al Cairo.
C
Comincia a lavorare alle 5 del mattino, quando le strade della capitale sono ancora vuote e bisogna affrettarsi per evitare il traffico mattutino e fuma senza sosta solo pipe ad acqua, visto che ha già avuto un infarto. Ha un carattere infernale, gli piace comandare e di
va appena nominato vice ministro della Cultura, permettendogli in questo modo di lavorare fino alla fine della sua vita. Bisogna però dire che questo enigmatico personaggio, carattere a parte (o forse proprio grazie a quello) ha veramente realizzato qualcosa. Con la sua frenetica attività di pubbliche relazioni e la sua sconfinata vanità, ha cambiato la consapevolezza dei quasi 80 milioni di egiziani e ha creato una nuova sensazione di orgoglio. Sempre da Der Spiegel: «Per i piccoli contadini, prima il mondo ruotava intorno a Maometto e al Corano - dice l’egittologo Christian Loeben - ma poi è arrivato Hawass, ed è riuscito a convincere ogni fellah (la popolazione rurale) che i faraoni sono parte del loro patrimonio culturale». Per restituire un orgoglio storico ai suoi connazionali, Zahi Hawass tiene una rubrica sul quotidiano governativo Al-Ahram e ogni 15 giorni è ospite di programmi televisivi. Dal pic-
colo schermo lancia strali contro i grandi musei colpevoli di aver depredato l’Egitto nel corso dei secoli. L’egittologo dice che avrebbe bisogno di migliaia di gambe e di braccia per cancellare tutto il disonore inflitto al suo Paese. La sporcizia, la povertà, la mancanza di organizzazione e le inadeguate attrezzature tecniche. «Una volta eravamo al top», dice riferendosi ai tempi dei faraoni. E alla gente piace il suo approccio di dialogo alla pari con l’Occidente. È visto come il liberatore d’Egitto da una posizione di umiliazione. Sono esattamente questi successi che stanno causando così tanti problemi ai musei di Parigi, Londra, New York e Berlino. È la sua tenace campagna vendicativa da auto-proclamato “guardiano” delle
D’EGITTO Come il celebre personaggio di Lucas, anche lui si barcamena fra lezioni di archeologia e caccia ai patrimoni nascosti. Ma più che ai beni del suo paese, mira a quelli conservati nei musei di mezzo mondo. Come il British, il Louvre e il Museo di Torino piramidi a farli tremare, soprattutto adesso che l’Egitto conta sempre di più sullo scacchiere internazionale.
fatto gode di una sorta di licenza che gli permette di essere volgare e arrabbiato quando e come vuole. D’altra parte, è lui il protettore finale di tutti i monumenti del Paese. Sono più o meno 30mila le persone che gli fanno rapporto e circa 225 i team di archeologi che lavorano lungo il Nilo. «Sono tutti tenuti con la museruola» ha scritto tempo fa un giornalista di Der Spiegel, «e nessuno di loro ha il permesso di riferire scoperte importanti senza l’approvazione ufficiale». Una regola che gli ha provocato parecchie inimicizie. Il 28 maggio scorso, data del suo 63esimo compleanno e normalmente età della pensione, pare che i “nemici” gli avessero preparato una festa a sorpresa per il suo addio. Ma al suo arrivo, l’annuncio: Mubarak in persona lo ave-
Vanitoso e informale, a una conferenza di studio di qualche mese fa ha presentato un elenco di richieste «imprescindibili» per conto del suo Paese e che includevano: il busto del “visir”Ankhaf dal Museum of Fine Arts di Boston; la Stele di Rosetta dal British Museum; il bassorilievo astrologico raffigurante uno zodiaco dal Louvre; il busto di Nefertiti dal Neues Museum di Berlino; la statua di Hemiunu dal museo di Hildesheim e la scultura di Ramses II (o Ramesse II) dal Museo egizio di Torino. Tutti pezzi da Novanta, insomma. Anche se Hawass non fa distinzioni: finora è riuscito a portare a casa oltre 30mila oggetti, principalmente pezzi ottenuti con scavi illegali e venduti negli ultimi 50 anni. Oggetti che presto troveranno casa nel nuovo museo nazionale del Cairo da lui voluto (costato oltre 550 milioni di dollari) e che aprirà i battenti nel 2013.