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Si può resistere alla forza

di un esercito; non si può resistere alla forza di un’idea

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Victor Hugo di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 25 NOVEMBRE 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

«Dal presidente della Camera m’aspetto un passo indietro, dall’Udc l’appoggio esterno»: lo show di Silvio

Il Cavalier Fracassa

Il Paese chiede responsabilità. Lui insulta. È davvero l’ora che si dimetta Berlusconi offende tutti: Fini, Casini e Montezemolo. Si vede che ha paura del nuovo polo. E intanto Napolitano attacca i giornali del premier: «Basta con certe speculazioni ingiustificabili» La risposta del presidente della Ferrari Parla il cardinal Joseph Zen

«L’one-man-show è finito. Sono pronto a impegnarmi» Sit-in dell’Unione di Centro davanti alla Rai

«Fazio e Saviano, fate parlare anche la vita»

«Sento di dover fare qualcosa per il mio Paese. La situazione è grave: c’è bisogno di una grande operazione verità. Il Cavaliere rappresenta una fase personalistica della politica superata dalla storia. È il momento di fare squadra» Errico Novi • pagina 2

di Joseph Zen Ze-kiun

Proteste, slogan e uova marce a Roma

Assedio al Senato: esplode la rabbia degli studenti

di Paola Binetti

Il centro della capitale per un giorno teatro di incidenti, odiose provocazioni e proteste contro i tagli. Si tratta di un grave campanello d’allarme: se si risponde così alla crisi, la tenuta sociale dell’Italia rischia davvero grosso

diritti individuali sono una delle conquiste più rilevanti della seconda metà del 900, sono diritti universali che spettano ad ogni uomo in virtù della sua stessa natura umana, senza distinzioni di sorta. Lo prevede l’articolo 2 della nostra Costituzione, lo prevede la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, lo prevede la più recente dichiarazione Onu. a pagina 8

I

La crisi della moneta europea vista da Paolo Savona

Va in scena il ricatto della famiglia Kim

«È vero, l’Euro rischia, ma la politica lo salverà»

Una portaerei americana arriva nel Mar Giallo. Si rinfocola la tensione nella penisola, e la Cina nicchia

«Angela Merkel, Van Rompuy e i capi di Stato parlano troppo: è da irresponsabili farlo con i mercati così turbolenti»

Enrico Singer •pagina 14

Francesco Pacifico • pagina 18

I QUADERNI)

La Santa Sede contro la Cina: «Smettetela di ordinare vescovi senza permesso»

Marco Palombi • pagina 3

La Corea del Sud paga la successione fra padre e figlio

seg1,00 ue a (10,00 pagina 9CON EURO

Vi spiego perché a Pechino non c’è più religione

• ANNO XV •

NUMERO

229 •

WWW.LIBERAL.IT

accaduto di nuovo ciò che non doveva accadere! Sono comodamente seduto nella basilica di san Pietro illuminata a festa. Fra poco il papa procederà a creare 24 nuovi cardinali. Ma non mi sento a festa, avendo appreso la triste notizia: ciò che non doveva più accadere è accaduto di nuovo; hanno ordinato in Cina un altro vescovo senza il mandato pontificio ed i vescovi che hanno preso parte al rito erano addirittura otto! Ma sono stati tutti sequestrati e trascinati in chiesa? Sappiamo che qualcuno avrebbe potuto rifiutare.

È

a pagina 20

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


prima pagina

pagina 2 • 25 novembre 2010

il fatto Il Cavaliere riapre anche la polemica con Fini: «Faccia un passo indietro e si dimetta da presidente della Camera»

L’Irresponsabile

Il premier chiede l’appoggio esterno all’Udc, che risponde: «Dimettiti» Poi attacca Montezemolo, che replica: «L’one-man-show è finito» di Errico Novi

ROMA. Nel pieno di una crisi spaventosa, internazionale ma anche interna, Berlusconi si mette a sparare bengala. Fuochi pirotecnici con cui prova a illuminare la strada della sua maggioranza, o meglio il suo personale orizzonte politico. «Se non ci sarà la fiducia? Allora meglio andare al voto, anche se ci fosse una fiducia senza governabilità», dice in conferenza stampa, tra un roboante annuncio di nuove iniziative in favore dei giovani (al suo fianco compare Giorgia Meloni, dopo mesi di silenzio) e stoccate a chiunque gli capiti a tiro. Fini? «Si dimetta lui, che ha mostrato di essere un presidente della Camera di parte». Casini? «Chiedete a lui cosa vuol fare. L’Udc dovrebbe pensare al bene del Paese e non a quello del proprio leader». Montezemolo? «Facile parlare, più difficile misurarsi sui fatti, come facciamo noi». Ne ha per tutti, il Cavaliere. Ma in particolare per le figure chiave di quel terzo polo che in fondo è il suo vero problema, il passaggio a vuoto che rischia di compromettere la sua strategia. I mes-

qualcuno si proponga per offrire soluzioni diverse, com’è facile comprendere, diventa fonte di irritazione per il presidente del Consiglio.

Immediata risposta di Cesa: «Pensi lui all’interesse del Paese, si dimetta e apra una fase politica nuova». Il presidente della Ferrari: «Il mio impegno d’ora in poi diventerà più forte» saggi rabbiosi del premier sono forse anche un riflesso nervoso nel giorno in cui Montezemolo presenta le sue proposte. Al convegno di Italiafutura sui giovani il presidente della Ferrari descrive con rapidi passaggi la situazione di immobilismo «in cui l’Italia si trova da 15 anni». Poi indica una serie di interventi dai quali bisognerebbe ripartire.

Insomma offre spunti per un’agenda di governo alternativa alla frequente afasia dell’esecutivo attuale. Mette in campo idee. E chiede che altre ne vengano «dalla società civile», a condizione che a questa si offra l’opportunità di far valere le proprie istanze. In definitiva un’idea di Italia diversa da quella di Berlusconi e del berlusconismo. E già il fatto che

La giornata dell’impeto guasconesco, per Berlusconi, è in realtà la giornata della paura. Dà l’impressione di voler tornare al voto al limite anche a dispetto di un pronunciamento parlamentare non sfavorevole. Ma i suoi dati parlano chiaro, e il suo entourage non fa che rigirarseli tra le dita, nello sconcerto per interventi temerari come quello di ieri. I dati ricordano che in caso di voto anticipato con la presenza di un terzo polo, al Senato sarebbe praticamente impossibile ottenere la maggioranza assoluta. «In Piemonte, nel Lazio, in Sicilia, ma anche in Puglia rischiamo di perdere», non smette di preoccuparsi più d’uno dei suoi. Se si somma la fondatezza di questo pronostico alla diversa distribuzione dei seggi nelle regioni rosse, dove Pdl e Lega non avrebbero più il monopolio della quota di minoranza, ecco che si arriva al temuto rischio di

una maggioranza (quella del Cavaliere) fatalmente azzoppata. Da ieri, per giunta,Berlusconi si trova a doversi misurare anche con le proposte di Montezemolo. «Giovani al lavoro. Rimettiamo in moto l’Italia» è il titolo del convegno di Italiafutura. Si parte da alcune proposte di base: preso atto che «l’Italia è la nazione in cui è più facile essere disoccupati se si rientra nella fascia d’età tra i 15 e il 24 anni» e che questo dato si accompagna al «più basso tasso di crescita del mondo», vengono indicati alcuni possibili interventi. esposti nel dettaglio in un rapporto messo a punto per l’associazione di Montezemolo da Stefano Micelli dell’università Ca’ Foscari di Venezia, Marco Simoni della London school of economics e da un’altra campionessa dell’eccellenza italiana messa in fuga dall’Italia stessa, Irene Tinagli dell’università di Madrid.

Prima di tutto «il recupero dell’evasione fiscale dovrebbe essere utilizzato per ridurre le tasse a cominciare dai giovani». Quindi andrebbero introdotte


la testimonianza Il presidente Schifani: «Attenti a non provocare eventi luttuosi» misure per agevolare la creazione di nuove imprese da parte di chi abbia meno di 34 anni: con l’accesso al credito, la completa esenzione fiscale delle aziende messe su dai giovani per i primi tre anni e l’istituzione «in maniera selettiva» di centri per l’imprenditoria giovanile. Quindi uno scambio tra generazioni: innalzamento di un anno dell’età pensionabile e destinazione delle risorse da qui liberate (1,2 miliardi di euro l’anno) per assicurare borse di studio a 100mila studenti meritevoli. C’è anche la previsione di «un alleggerimento delle tasse sul lavoro compensa almeno in parte da una più attenta e non distorsiva tassazione sulle attività finanziarie e sulle rendite».

Queste le idee. Poi Montezemolo si sofferma davanti alla platea del convegno soprattutto per illustrare con quale metodo andrebbero messe in pratica. Concessa una replica ironica alla polemica del Cavaliere («il governo fa i fatti? Spero che continui a bruciarsi, o meglio a bruciarci sul tempo», è il lapsus molto applaudito), il fondatore di Italiafutura non fa sconti sul giudizio complessivo: «Veniamo da 15 anni di non scelte, il Paese va ricostruito sotto tanti aspetti». Si sta chiudendo, aggiunge, «e si sta chiudendo male, un ciclo storico, quello della Seconda Repubblica, quindici anni di non scelte che hanno portato a un obiettivo arretramento del Paese». Ora «dobbiamo volgere lo sguardo alla ricostruzione, al futuro, e anche per questo i giovani sono chiamati a essere parte attiva». Arriva a questo punto del discorso l’annuncio di Montezemolo: «Ho il dovere di fare qualcosa per il mio Paese, è ora di uscire dal proprio particolare recinto per contribuire al bene comune». Ma come, con quale schema? E qui appunto il presidente della Ferrari diventa più esplicito sul “metodo”: «Basta con i superuomini, il periodo dell’one man show è finito. Serve uno spirito di squadra, bisogna trovare collaboratori sempre più bravi per lavorare con noi». Vale per la produzione delle idee ma evidentemente anche per la politica, impegno al quale Montezemolo non nega di volersi dedicare. Ma «entrare in politica da soli non significa niente, ci vuole una squadra. E oggi inizia una fase nuova per Italiafutura e per il mio impegno personale, una fase che chiederà di più a me e ai molti che credono in questa associazione». La chiave del progetto di Montezemolo è dunque anche nel ruolo che la sua associazione intende assumere rispetto al quadro politico e una nuova area dei moderati: rappresentare al meglio la «società civile» e consentirle di contribuire alla «ricostruzione». Dice ancora il

fondatore di Italiafutura: «Crescerà la nostra presenza sul territorio, alla ricerca di quelle eccellenze civili di cui l’Italia è ricca soprattutto nelle realtà locali». E dunque «crescerà il nostro lavoro di idee e di proposte, continueremo a far sentire la nostra voce, nella convinzione che il contributo della società civile sia determinante soprattutto in questa fase, piaccia o meno a questa classe politica».

La rabbia degli studenti assedia il Senato

Degenera la protesta contro la Gelmini. È un campanello d’allarme: se si risponde così alla crisi, l’Italia rischia grosso di Marco Palombi

E invece dall’altra parte l’one man show continua eccome. Berlusconi si scaglia innanzitutto contro i giornali, colpevoli di aver dato eccessivo spazio al gossip. Ma poi è proprio contro i giornali vicini al presidente del Consiglio che va a indirizzarsi una nota del Quirinale, riferibile soprattutto a un violento attacco rivolto a Napolitano da Libero: «Ci sono ingiustificabli speculazioni sui poteri del presidente», accusa il capo dello Stato, che gli attribuiscono «intenti e affermazioni infondate». Nei suoi confronti, almeno nei suoi, Berlusconi invece tende a controllarsi. Ma poi si scaglia contro e Montezemolo e contro Fini, con il clou della sua sventagliata dedicato tutto a Pier Ferdinando Casini: «L’Udc ha perso un’occasione, quando c’è stata l’operazione dei finiani in un momento di crisi globale in cui era importante andare avanti con un governo solido, c’era per l’Udc l’occasione di avanzarsi. Lo facciano nell’interesse del Paese appoggiando una maggioranza e un governo dall’esterno».

Oggi, dice il presidente del Consiglio, l’Udc «avrebbe l’occasione di dimostrare che non pensa solo al tornaconto del proprio leader, ma a quello del Paese che ha necessità di avere una maggioranza stabile». Arriva nel giro di pochi minuti la risposta di Lorenzo Cesa: «Ringraziamo Berlusconi per i consigli che ci ha dato, ma sono troppo interessati per risultare credibili, pensi lui all’interesse del Paese e non perda un’occasione storica: si dimetta e apra una fase politica nuova». Concetto ribadito con chiarezza dal segretario dell’Udc anche quando gli segnalano supposte “aperture” di Bossi: «Berlusconi si dimetta, il resto sono chiacchiere: l’unico fatto concreto ce l’Udc si aspetta sono le sue dimissioni». Da Palazzo Grazioli riecheggiano le considerazioni di qualche berlusconiano irriducibilmente schierato per la governabilità: «Crediamo possano esserci sollecitazioni rivolte all’Udc da diverse parti perché dia l’appoggio esterno e poi magari sia disponibile anche a un accordo elettorale quando si tornerà alle urne, entro la primavera del 2012. Andrebbe considerato che di lì a un anno Berlusconi non penserebbe più a Palazzo Chigi ma al Quirinale...». Sogni a occhi aperti.

ROMA. Gli studenti in piazza, Bersani sui tetti, Schifani in trincea, Berlusconi nel bunker, la riforma dell’università a bagnomaria. Una normale giornata nel paese in cui tutto è teatro, persino il colare a picco: orchestrine del Titanic suonano ad ogni angolo di strada. Per le città della penisola ieri è andata in onda quella che potrebbe sembrare una giornata di lotta politica e in realtà ne è solo la fotocopia funzionale: le proteste contro il ddl Gelmini, infatti, hanno portato in piazza studenti universitari in tutta Italia, ma in numero assai ridotto rispetto alle dimensioni del problema che, comunque, non è tanto la quasi innocua riforma della ministra, ma i tagli previsti da una legge già in vigore da oltre due anni, il decreto Tremonti del 2008. La cronaca dovrebbe raccontare di una guerra – gente sui tetti, lanci di uova, scontri, feriti – che in realtà non è avvenuta, se si esclude quella degli automobilisti romani per sfuggire al traffico impazzito della capitale. È normale che in un Paese in cui manca qualunque forma di racconto collettivo riconoscibile, e di classe dirigente di peso, il disagio e la protesta prendano vie che hanno molto a che fare con la società dello spettacolo e assai poco con la politica. Così è dei circa cinquecento studenti che ieri mattina si sono presentati a sorpresa davanti al Senato per manifestare contro la riforma dell’università. Alcune decine di dimostranti, vista l’arrendevolezza dell’obiettivo, si sono lanciati contro l’ingresso di palazzo Madama tentando, non si sa perché, di entrare: hanno superato il primo portone di legno, ma sono stati respinti da alcuni poliziotti davanti a quello di vetro. “Aprite”, gridavano, e “dimissioni”, mentre da dentro Rosi Mauro, pasionaria leghista e vicepresidente del Senato, urlava «ma porca eva, ma chi ha permesso una cosa del genere?». Alla fine qualche pugno e qualche uovo contro il vetro, il leggero malore di un funzionario di polizia e i titoli dei telegiornali sono il risultato dello spettacolino. Il corteo, dopo qualche minuto, si è allontanato tentando l’unica azione impossibile nella Repubblica italiana, un happening di protesta sotto palazzo Grazioli, residenza romana di Silvio Berlusconi. È lì che la polizia ha fatto quelle che le agenzie hanno chiamato “minicariche”, innescando gli inevitabili scontri tra forze dell’ordine e manifestanti, anche questi in tono minore: qualche ferito e un paio di fermi, pare. Svolto il compitino, il corteo è tornato a La Sapienza con relativo lancio di uova contro il palazzo dei Rettori, rei di non essersi schierati abbastanza contro la riforma Gelmini. Intanto altri studenti - anche dei licei - avevano sfilato per il Lungotevere (e non solo), mentre un altro gruppo era arrivato, venendo da via dei Fori Imperiali, davanti a

Montecitorio per un sit in. Programma: «Fermare questo scempio del sistema universitario pubblico italiano». Ingessati in una ritualità ormai stanchissima i movimenti di piazza, scritte in una polvere vecchia secoli le risposte della politica: “viva”e “contro”i cortei come da copione, condanna unanime per l’assalto a palazzo Madama,“fascista”,“squadrista”,“gravissimo”e via deprecando. Il presidente del Senato Renato Schifani, forse ancora in preda all’agitazione degli scontri, s’è spinto un po’ più in là: attenti, ha spiegato, o qui ci scappa il morto. Che è la traduzione in italiano della seguente frase: «Da tempo ci sforziamo con i nostri appelli e richiami al senso di responsabilità di tutti ad abbassare i toni per evitare che l’aumento degli episodi di violenza e di intolleranza in occasione di manifestazioni pubbliche possa trasformarsi in gesti non solo incivili ma anche forieri di eventi luttuosi». Ieri, un giro nello show che non ha mai fine, ha voluto farselo anche Pierluigi Bersani che, giornalisti al seguito, è salito sul tetto della facoltà di Architettura a piazza Borghese per dare la sua solidarietà ai ricercatori che, lassù, protestano contro la Gelmini: «Il suo è un disastro omeopatico», ha dichiarato. La ministro, invece, ha derubricato il tutto a “sceneggiata”: «Gli studenti che contestano le riforme del governo rischiano di difendere i baroni, i privilegi e lo statu quo».

I manifestanti, per parte loro, hanno capito benissimo come funziona la cosa a livello parlamentare e quindi, più che all’opposizione, si sono appellati a Gianfranco Fini: «Siamo ormai ‘appesi’ al senso di responsabilità dei deputati di Futuro e libertà: la speranza è che decidano, come sembra, di bocciare il ddl salvando il sistema universitario pubblico italiano», spiega il coordinatore dell’Unione degli universitari, Giorgio Paterna. Non si sa se Fli sia un chiodo sicuro cui appendersi, comunque per ora il ddl Gelmini naviga a vista a Montecitorio, sballottato dal procelloso mare dei contrasti interni della maggioranza. Oggi, come che sia, le proteste degli studenti continuano in tutta Italia e per le 10 di stamattina è convocato un nuovo sit-in davanti a Montecitorio, mentre sono in preparazione nuovi flash mob di protesta nel centro della capitale. Come ogni volta, l’unico rischio per la tranquillità dei palazzi della politica è nell’effetto imitazione, che potrebbe far raggiungere al movimento la massa critica capace di “spostare”una maggioranza politica debolissima: la visita in Senato era un simbolo, spiegavano ieri gli studenti, di quello che succederà se il ddl Gelmini passa alla Camera. Sempre in attesa che tutto finisca, fra tre settimane circa anche questa riforma avrà reso l’anima a dio.

In una giornata caotica, Bersani è salito sul tetto della facoltà di Architettura per esprimere la propria solidarietà ai precari e ai ricercatori


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l’approfondimento

Dietro agli insulti lanciati all’indirizzo di Casini, Fini e Montezemolo, c’è il limite politico di quindici anni di berlusconismo

La Bestia bianca

Ha sempre pensato di farli fuori facilmente, ma ogni volta ha dovuto arrendersi. Storia del complesso di inferiorità del Cavaliere nei confronti del centro. Un timore che oggi esplode di fronte alla nascita del nuovo polo di Giancristiano Desiderio na volta, quando c’era ancora un partito chiamato Forza Italia, il suo fondatore disse: «È un partito di centrodestra ma anche di sinistra». L’ideale politico di Silvio Berlusconi, infatti, coincide con l’occupazione di tutto l’arco costituzionale: nulla deve essere escluso e irrappresentabile. La cosiddetta Seconda repubblica è proprio la realizzazione di questo ideale berlusconiano visto che la pessima democrazia dell’alternanza è stata costruita sulla polarizzazione pro e contro Berlusconi: anche l’opposizione giacobina a Berlusconi è berlusconiana e i suoi tratti caratteristici sono la demonizzazione dell’avversario e la tendenza all’egemonia. Proprio come Berlusconi. Due gocce d’acqua. Da questo meccanismo infernale i cui valori comuni non sono la storia condivisa e il senso liberale delle istituzioni bensì la incompiutezza della storia d’Italia, è rimasto fuori il centro politico ossia la cultura moderata

U

che è la spina dorsale di ogni sana democrazia liberale. Ecco perché oggi Berlusconi è intollerante verso il centro: lo teme perché rappresenta quella cultura moderata e istituzionale che gli manca.

Ieri il presidente del Consiglio in una stranissima conferenza stampa, che era soprattutto una conferenza elettoralparlamentare, ha voluto spiegare - bontà sua - all’Udc cosa deve fare per risolvere la crisi di governo che si protrae ormai senza soluzione di continuità nientemeno che dall’aprile scorso: “All’Udc suggerisco un appoggio esterno al governo”. A Gianfranco Fini ha “suggerito”invece di dimettersi ed a Luca di Montezemolo ha detto ciò che un po’ tutti gli italiani in questo momento pensano proprio del capo del governo: «Parlare è facile, fare i fatti è difficile». Casini, Fini e Montezemolo rappresentano per Berlusconi e il suo governo sempre in crisi un pericolo che è allo

stesso tempo una salvezza: ne vuole fare a meno, ma vuole anche il loro consenso o un “appoggio esterno”. Il premier, che persino la Lega si sta ora semplicemente limitando a sopportare, finge di non capire che l’unico appoggio possibile è l’“appoggio interno” dopo che, nel rispetto della pratica istituzionale che è il vero bene democratico che tutti ci dobbiamo tenere ben stretto, lui ha rimesso il mandato nelle mani del capo dello Stato. L’appoggio esterno

La “rivoluzione liberale” promessa nel 1994 è durata molto poco

a mo’ di delega in bianco esiste solo nella testa di Berlusconi perché coincide con la tutela della sua convenienza politica che, mettendo tra parentesi il funzionamento delle consuetudini istituzionali, intende perpetuare il fallito sistema bipolare che altro non è stato che un sistema berlusconicentrico. Detto in due parole: oggi Berlusconi non sta facendo i conti con i centristi o con Casini e Fini ma con il suo fallimento. Casini, Fini, Rutelli, Montezemolo stanno solo rappresentando quella cultura moderata che lui, Berlusconi, in qualità di leader del centrodestra e più volte di capo del governo non ha saputo innestare nel bipolarismo per istituzionalizzarlo secondo le regole delle moderne democrazie liberali. Il centro è stato ignorato da Berlusconi, ma siccome il centro è l’idea stessa che regola la democrazia, ecco che il centro ritorna.

Se si dà anche un rapido e sommario sguardo alla storia

politica e personale di Silvio Berlusconi si nota che sono stati tanti gli incontri, ma altrettanti sono stati gli addii. Si ricorderà che l’esordio di Berlusconi avvenne con la stagione dei professori: Urbani, Pera, Colletti,Vertone, Melograni. Ma quella stagione che avrebbe dovuto produrre la “rivoluzione liberale” durò molto poco. Quando ci fu la seconda volta di Berlusconi al governo si diede vita alla Casa delle libertà in cui Berlusconi recitò il ruolo del federatore. Ma un federatore che non ha saputo costruire una casa comune perché riteneva di essere il “padrone della ferriera”. Non è davvero un caso se l’opposizione dei moderati a Berlusconi è composta da chi un tempo è stato berlusconiano. Ma l’accusa di tradimento - fin troppo prevedibile - è inutile e insensata, a meno che Berlusconi non la rivolga a se stesso. Perché l’idea di fondo di tutta la storia di quella che tutti noi ci siamo acconciati a chiamare Seconda repubblica era


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«Basta il mio nome sul simbolo», dice il premier progettando la “revisione” del Pdl

Anno nuovo lifting nuovo: verso il terzo partito personale

I sondaggisti giudicano il prossimo predellino: «A questo punto logo e marchio sono indifferenti, a prendere voti ormai è solo il Cavaliere» di Riccardo Paradisi e c’è un rischio che senza il logo Pdl Berlusconi perda i voti del suo elettorato? «Non esiste proprio – ci risponde Renato Mannheimer – chi vota Pdl ha votato Silvio Berlusconi. Sicchè qualsiasi nuovo nome potrebbe funzionare, che sia “Avanti Italia” o che sia “Berlusconi presidente”funzionerebbe tutto per l’elettorato berlusconiano». Il brand è il Cavaliere. Ed è tanto vero che uno dei nomi al vaglio dello staff del premier che lavora al nuovo nome del partito è proprio “Berlusconi presidente”. One party, one man, one show insomma. «E poi – come nota Nicola Piepoli – Pdl è un nome scarsino, ha poca presa, è ridondante…mica è un caso che Berlusconi aveva pensato di cambiare nome al partito molto prima che il capogruppo di Futuro e libertà Italo Bocchino tirasse fuori quel contratto secondo cui il presidente non può utilizzare da solo il marchio Pdl».

Insomma si sarebbero battuti inutilmente quelli che in questi giorni si sono distesi in polemiche coi finiani sulla questione del nome. Come il sottosegretario all’Istruzione, Giuseppe Pizza che detto per inciso ha utilizzato nell’accalorata disputa argomentazioni imbaraz-

E poi è evidente, al di là delle dispute legali e notarili, che Pdl è anche l’ex partito di Fini. È lo stesso Berlusconi dunque ad avere interesse a un restyling radicale del suo movimento politico. Insomma nessun trauma a lasciare il logo Pdl, anzi. «Tanto più che Pdl è un marchio recente – come nota Maurizio Pessato di Swg ricerche – troppo giovane e con troppa poca storia per essere radicato nell’immaginario nazionale e del centrodestra. Una nuova iniziativa, un nuovo battesimo del partito da cui intanto sono fuoriusciti i finiani potrebbe essere addirittura positiva da un punto di vista del marketing e della spinta elettorale». Sul nome nuovo è difficile capire per ora quello che funzionerebbe di più. «Forza Italia – dice Pessato – era invece tecnicamente indovinatissimo. Vincente, funzionale ed evocativo insieme. Popolo delle libertà lo è molto meno. È barocco, è troppo esteso». Insomma la disputa nominalistica e sul copyright del Pdl lascia il tempo che trova e Berlusconi pensa a un nuova sigla non perché Futuro e libertà lo intimi di non usare un simbolo che sarebbe in comproprietà ai due fondatori, ma perché quel marchio non gli piace, non lo ha mai convinto. «Già il nome partito – dice un suo fedelissimo – fa venire al presidente l’orticaria. E poi il movimento politico intorno a Berlusconi ha senso proprio se fondato sul principio e la dinamica della rivoluzione permanente continuamente suscitata dallo stesso Cavaliere. Chi si illude che questo non sia un partito, meglio un movimento carismatico, sbaglia di grosso».

zanti: «Se Fini e il premier hanno cofondato il partito con atto notarile congiunto, bisogna verificare se l’espulsione dei finiani sia stata o meno legittima. Se lo è stata, il simbolo resta al Pdl ufficiale. Se la procedura di espulsione è stata rispettata i finiani non possono pretendere nulla, in caso contrario si crea un grande imbroglio politico giudiziario». Argomentazione imbarazzante si dice-

S

Nel «Partito del presidente» pensato la Brambilla sarà testimonial. A disagio gli ex An

va visto che a sostenere che Fini non è mai stato espulso dal partito, ma solo dichiarato incompatibile con esso, è stato niente meno che lo stesso presidente del Consiglio. Contraddizioni su cui capita d’inciampare, ma tant’è. Il dato è che se fosse per Berlusconi lui tornerebbe addirittura al vincente Forza Italia, come gli ha consigliato, in amicizia, il siciliano Gianfranco Miccichè che non a caso ha chiamato il suo nuovo movimento meridionalista Forza Sud. Dunque? Dunque il problema in questo caso sarebbero gli ex di Alleanza nazionale. Che nel partito costituiscono una costola importante e rappresentano quella dorsale di destra organizzata sostanzialmente in corrente che ha spalleggiato il cavaliere senza mai smarrire il senso della propria autonomia politica. «Non posso farlo, non posso tornare a ”Forza Italia”ci sono anche gli ex An...» avrebbe detto lo stesso Berlusconi parlando con Miccichè.

E in effetti qualcuno tra gli ex An storce un po’ il naso di fronte alle nuove ipotesi di logo. Un esponente Pdl vicino alla componente del sindaco di Roma Gianni Alemanno dice per esempio di non essere contrario ad un nuovo nome ma certo ”Berlusconi presidente” e ”Forza Italia” sarebbero penalizzanti proprio per chi, come noi, per fare un partito unitario ha accettato di sciogliere il suo». Più laici e meno allarmati gli ambienti vicini a La Russa: «Il partito – dice uno di loro – è ancora un work in progress, se il nome fosse ”Berlusconi presidente” paradossalmente darebbe a tutti maggiore libertà. Un partito dove le varie componenti sono unite per esprimere un leader…poi si vedrà». Ma se sarà nuovo nome sarà anche un nuovo grande strappo simbolico, una altro predellino magari coincidente con il nuovo anno e con una testimonal come Maria Vittoria Brambilla. Un gesto di rottura e di ricostruzione, un pronunciamento che segni lo start-up d’una fase nuova. Intanto il Pdl, si prepara a una mobilitazione filogovernativa da tenere nelle varie piazze di Italia nel week end che precederà il voto di fiducia a Camera e Senato. Un’iniziativa proposta proprio da un ex An come La Russa che ha ottenuto il placet del premier. Ecco i gazebo e la successiva manifestazione potrebbero essere e probabilmente saranno occasioni per sondare umori e scaldare i motori della nuova ripartenza. In vista del voto naturalmente. E di un partito che sarà sempre di più il partito di Berlusconi: one party, one man, one show.

quella di avere due centri moderati capaci di alternarsi al governo del Paese e non quella di utilizzare il bisogno di governo del Paese per creare un cesarismo inconcludente. Se Berlusconi avesse effettivamente lavorato per formare un nuovo sistema politico oggi non avrebbe alcuna paura, come invece ha, di lasciare il governo: la politica ne produrrebbe uno nuovo. Invece, siccome il sistema berlusconicentrico necessita del governo per esistere - soprattutto adesso che è al tramonto - Berlusconi si sente al mondo (politico) solo se resta a Palazzo Chigi o con una maggioranza pur che sia una o per andare a votare e sperare nei “numeri” della peggiore legge elettorale d’Europa. In entrambi i casi ciò che il presidente del Consiglio senza consiglio prova a mettere in fuorigioco è il “centro politico”: al centro di tutto per il super-realista Berlusconi non c’è né il Paese né le istituzioni che sono pur sempre la cosa migliore che abbiamo a disposizione per vivere decentemente e continuare a governarci democraticamente. Alla fin fine Berlusconi si rivela per quello che è ed era: un socialista in cui la vecchia dottrina dell’occupazione del potere e dello Stato prevale sulla cultura moderata o liberale che invece pensa che il potere vada limitato e istituzionalizzato. È un socialista che si è mascherato da liberale. In questo senso per Berlusconi il “centro politico” sarà sempre un problema: più cercherà di negarlo e più se lo troverà parare innanzi perché le società moderne sono organizzate per loro natura proprio intorno al ceto medio.

L’idea dell’appoggio esterno è così rivelatrice. In fondo, anche se Berlusconi si è presentato agli italiani come colui che interpreta una cultura politica non partitocratica, alla fine la sua cultura si rivela partitocratica per eccellenza. Che cos’è l’appoggio esterno se non la quintessenza di quella che una volta era chiamata “delega in bianco”? L’unica differenza rispetto al passato - ma è una differenza fondamentale - sta nel fatto che la delega in bianco di un tempo poggiava su una maggioranza parlamentare e la delega in bianco nella versione berlusconiana intende far passare in cavalleria proprio questo piccolo particolare: una crisi di governo conclamata e la inesistenza della maggioranza parlamentare. Berlusconi dimentica che l’appoggio esterno presuppone almeno l’esistenza del governo. Soprattutto colpevolmente trascura il fatto che il governo è solo una parte del sistema istituzionale. Altro da fare non ha che questo: verificare se ha o no la maggioranza e se l’avrà potrà continuare ma se non l’avrà dovrà andare a casa senza fare troppe storie. Attendiamo.


diario

pagina 6 • 25 novembre 2010

Auto. Dopo le pressioni di Bonanni, il Lingotto sblocca la trattativa. E questa volta ci sarà anche la Fiom

Fiat chiama tutti a Mirafiori

Domani si apre un nuovo tavolo sul futuro dello stabilimento ROMA. «Negli Usa si fa, da noi

di Alessandro D’Amato

si parla», aveva detto Sergio Marchionne l’altroieri dagli Usa. E, forse per dare il buon esempio, l’amministratore delegato del Lingotto ha convocato i sindacati per domani mattina alle 9,30. Urbi et orbi, ovvero davvero tutti i sindacati: oltre a Fim, Fiom, Uilm e Fismic, la Fiat ha convocato anche l’Ugl metalmeccanici e l’associazione quadri e capi. Appunto: questa volta il Lingotto - per discutere del centro di produzione più delicato per la sua presenza in Italia - non ha fatto come per Pomigliano.

Nei giorni scorsi il gruppo Fiat aveva ribadito la “piena disponibilità” per un incontro con i sindacati sul futuro di Mirafiori. Una disponibilità apprezzata dal leader della Cisl, Raffaele Bonanni, che sabato scorso aveva posto l’ultimatum di otto giorni all’azienda per l’apertura del confronto. Alle sollecitazioni di Bonanni, il gruppo Fiat aveva risposto con un comunicato in cui ricordava che venerdì scorso l’Unione Industriale di Torino aveva inviato a tutti i sindacati di categoria «una lettera formale in cui è stata confermata l’intenzione dell’azienda di avere un incontro congiunto, relativo a Mirafiori Plant, con tutte le organizzazioni sindacali». A questo Bonanni aveva risposto che «la Cisl è pronta al confronto senza pregiudiziali», auspicando che «la trattativa si apra nei prossimi giorni per fugare le incertezze ed ogni equivoco, avviando una discussione concreta sui programmi di in-

ri - aveva sottolineato - è ampio e forte. Il mancato consenso della Fiom non puo’ essere ragione di ulteriori incertezze e di scelte destabilizzanti il contratto nazionale». «Per Mirafiori - afferma Roberto Di Maulo, segretario generale Fismic - dobbiamo fare un accordo entro Natale per non far scappare l’amministratore delegato, che ha già portato via i monovolumi L1 ed L0». E proprio sul modello da produrre nello stabilimento torinese, il numero uno della Uilm, Rocco Palombella, sostiene che la

Negli Stati Uniti l’azienda torinese ha già investito tre miliardi in 18 mesi. E Marchionne annuncia: adesso la Chrysler ricomincia ad assumere vestimento della casa torinese nel nostro Paese». Bonanni si era detto anche disponibile «a trovare le eventuali soluzioni contrattuali per rendere praticabile il rilancio della produzione automobilistica nel nostro Paese ed il mantenimento dei livelli occupazionali».

Fiat potrebbe non essere ancora pronta. «Presumo che stia facendo tutte le verifiche necessarie per mettere a punto le proposte da presentare ai sindacati. D’altra parte abbiamo detto che non ci accontenteremo di cose generiche», spiega.

Anche il numero uno della Fim Cisl, Giuseppe Farina, aveva chiesto al Lingotto «di procedere con l’attuazione di Fabbrica Italia all’interno del sistema contrattuale. Il consenso sindacale e dei lavorato-

Ma la chiamata di Marchionne ha suscitato reazioni discordanti. «È bene che ci sia l’incontro, finalmente c’è la data, anche se dal nostro punto di vista sarebbe stato meglio un incontro nazionale»,

A settembre -0,2 per cento rispetto ad agosto

Cala il commercio ROMA. Vendite del commercio fisso al dettaglio in calo nel mese di settembre. Lo rende noto l’Istat, che specifica come «l’indice destagionalizzato del valore del totale» delle vendite al dettaglio ha registrato una flessione dello 0,2% rispetto ad agosto 2010. Nel confronto con il mese di settembre 2009 l’indice grezzo ha registrato una variazione positiva dello 0,3%. In termini congiunturali (al netto della stagionalità), le vendite di prodotti alimentari sono rimaste invariate, mentre quelle di prodotti non alimentari hanno registrato una diminuzione dello 0,2%. Rispetto a settembre 2009, sia le vendite di prodotti alimentari sia quelle di prodotti non alimentari hanno registrato un aumento (rispettivamente più 0,2 e più 0,3%). Nell’ultimo trimestre (periodo luglio-settembre) l’indice destagionalizzato del valore del totale

delle vendite al dettaglio ha registrato un incremento dello 0,3% rispetto ai tre mesi precedenti. Nello stesso periodo, le vendite di prodotti alimentari e quelle di prodotti non alimentari sono aumentate, rispettivamente, dello 0,5 e dello 0,3%. L’aumento dello 0,3% registrato nel confronto con il mese di settembre 2009 per il totale delle vendite, deriva da una variazione negativa dello 0,1% delle vendite della grande distribuzione e da un aumento dello 0,5% delle vendite delle imprese operanti su piccole superfici. Nella grande distribuzione le vendite di prodotti alimentari hanno registrato un aumento dello 0,3%, mentre quelle di prodotti non alimentari sono diminuite dello 0,5%. Le imprese operanti su piccole superfici hanno segnato una variazione positiva (rispettivamente più 0,1 e più 0,6%).

ha dichiarato segretario piemontese della Fiom Giorgio Airaudo. Rilevando poi che l’incontro «è stato preparato con dichiarazioni dagli Usa che mettono in cattiva luce i lavoratori e l’Italia mentre Marchionne non può dimenticare che è negli Usa anche per il sacrificio di molti lavoratori italiani che hanno sostenuto la Fiat e la sua gestione negli anni passati», Airaudo aggiunge: «Temo che l’azienda stia preparando una ennesima drammatizzazione e noi opereremo perché questo non accada nell’interesse dei lavoratori». Anche Bonanni ha puntato il dito sulle frasi rilanciate dall’ad Fiat in America: «Tutte chiacchiere mediatiche. La verità - ha osservato Bonanni a margine di un seminario intercategoriale della Cisl piemontese - calerà su tutto quando si dirà: io investo tot soldi su Torino per fare questi modelli, questa è la mia offerta e ho bisogno di questo. A questo punto noi diremo che cosa possiamo dare e per ricevere che cosa». Bonanni ha ricordato che lo stesso clamore aveva preceduto l’intesa di Pomigliano: «Tante chiacchiere ha detto - che poi si sono squagliate di fronte ad investimenti certi. I lavoratori di Pomigliano sono più contenti di prima e che sostengono i sindacati firmatari dell’accordo (tutti tranne la Fiom e i sindacati di base, ndr), più di prima e ciò si rileva anche dall’aumento delle iscrizioni al sindacato».

Insomma, dal nuovo tavolo ci si aspetta probabilmente l’annuncio di un nuovo piano, sul quale i sindacati avranno occasione di dividersi ancora. L’ipotesi sul piatto è che anche per Mirafiori come per Pomigliano si possa costituire una newco a cui farà capo la nuova produzione dello stabilimento torinese. Un quadro che non sembra dispiacere a Bonanni: «A noi interessa se ci sono gli investimenti e chi sono i garanti. Se come a Pomigliano i capitali li mette la Fiat e il presidente della nuova società è Sergio Marchionne, noi non abbiamo alcun problema». Forse pensava al fatto che Marchionne, in 18 mesi, ha investito negli Stati Uniti quasi tre miliardi di dollari; e forse proprio grazie a ciò Chrysler ha ricominciato ad assumere.


diario

25 novembre 2010 • pagina 7

Il piccolo comune deciso a passare al Friuli Venezia Giulia

Anche Spagna, Portogallo e Cipro alla Corte di giustizia

Zaia contro Sappada: «Deve restare in Veneto»

Inquinamento e acqua: l’Ue processa l’Italia

ROMA. «Una guerra tra poveri: la secessione quotidiana di uno o più Comuni non porta a nulla», fa sapere Luca Zaia. Il governatore veneto risponde così alle intenzioni migratorie di Sappada, comune desideroso di essere annesso al Friuli Venezia Giulia. Non tutti, però, sono d’accordo con Zaia. A Belluno, il presidente della Provincia, il leghista Gianpaolo Bottacin, non fece contare il suo nome tra gli oppositori qualche mese fa, in primavera, quando il Consiglio da lui presieduto votò un ordine del giorno a favore del passaggio di Sappada dal Veneto al Friuli. «Non mi fa certo piacere perdere un pezzo di provincia, ma l’articolo 3 della Costituzione dice che il popolo è sovrano – dichiarò all´epoca e l’articolo 132 dice che un Comune può fare un referendum per chiedere di passare a un’altra regione. Dopodiché decide il Parlamento». Al momento né il Parlamento e né il ministero dell’Interno hanno affrontato il caso. Ma il referendum nel 2008 vedeva esprimersi a favore i consigli provinciali interessati, Udine e Belluno.

BRUXELLES. La Commissione europea mette l’Italia sul banco degli imputati alla Corte di giustizia dell’Ue. Il nuovo capo d’accusa riguarda i livelli di polveri sottili e trattamento delle acque reflue. Nel primo caso, il nostro Paese è stato deferito insieme a Spagna, Portogallo e Cipro. Per Bruxelles «non è stato finora affrontato in modo efficace il problema delle emissioni eccessive di Pm10», i cui valori limite sono stati superati in numerose zone. Gli Stati sotto accusa avrebbero dovuto adeguarsi entro il 2005 alla legislazione europea, secondo la quale i cittadini non dovrebbero essere esposti alle microparticelle Pm10 i cui valori limite non devono essere superati per più di 35 volte in un anno di ca-

Ieri il Consiglio regionale ha votato la richiesta di Sappada. Una proposta avviata su iniziativa dell´Udc, che la Lega non ha ostacolato. «Siamo

Solo la Lega non vuole i rifiuti di Napoli Piano delle Regioni. Tranne Veneto e Lombardia di Francesco Lo Dico

ROMA. Non più tardi di tre giorni fa, ebbro nel trasfigurare il meridionale Gaetano Salvemini nel patrigno biologico del leghismo, Maroni elencava da Fazio: «Il federalismo è l’unica via per la soluzione della questione meridionale. Date all’Italia meridionale una costituzione federale e in pochi anni il Mezzogiorno diventerà nella vita italiana un magnifico elemento di progresso». Ma per comprendere di quali fraterne intenzioni cristiane sia lastricata la tav secessionista, basta seguire le impronte lasciate ieri da Cota e Zaia sulla via dei rifiuti. Giunti da lontano alla conferenza delle Regioni convocata dal ministro Fitto per fronteggiare l’emergenza rifiuti, i re magi devoti al bambinello federalista, si sono imbattuti nella putrida concretezza della spazzatura. Il Cavaliere aveva assicurato che era sparita. E invece, a sua insaputa, esiste ancora. O magari è risorta.Tipici effetti collaterali dei miracoli, di cui i due governatori di Piemonte e Veneto non vogliono farsi cattivi apostoli. I due presidenti al traino del Carroccio non ascoltano Regioni. Piemonte e Veneto non sono disponibili ad accogliere i rifiuti di Napoli, mandano a dire i due rais in camicia verde. E se la Lombardia temporeggia, Renata Polverini, governatrice del Lazio, è l’unica ad aprire senza se e senza ma alla richiesta: «Disposti a prenderci di rifiuti di Napoli».

spazzatura – proclama – il rischio è che dovunque la porti, scateni il casino. Bisogna colpire chi è responsabile come il sindaco di Napoli». «L’unico che può dire qualcosa è Berlusconi – dribbla Bossi – perché ha dimostrato di saper fare». Messaggio di chiarezza palmare: Silvio ha voluto la spazzatura, e ora che se la sversi da solo. I rifiuti, in questa camera con vista sulle elezioni, sarebbero come la stella delle Alpi nelle aule di Adro: una vera monnezza. Ma in tema di gran rifiuti, c’è da registrare nella giornata di ieri anche il colloquio tra il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, e il coordinatore del Pdl campano, Nicola Cosentino. Al centro il ddl che ha portato a il ministro delle Pari opportunità, Mara Carfagna, verso le dimissioni. Cosentino e gli altri delegati campani hanno assicurato anche l’immediata apertura della discarica di Macchia Soprana. Nelle stesse ore in cui i granducati padani respingono i rifiuti clandestini, si è conclusa la missione degli ispettori Ue.

Bossi lascia il cerino nelle mani di Silvio: «È lui ad occuparsi della spazzatura, tocca a lui decidere cosa fare della Campania»

friul-giuliani, voteremo come chiedono i sappadini» – aveva anticipato il capogruppo del Carroccio, Danilo Narduzzi. Nonostante l´opposizione del presidente Zaia, il consiglio regionale veneto non ha ancora espresso il proprio parere consultivo, richiesto dalla Commissione Affari costituzionali della Camera. Non è la prima volta che la Lega entra in contraddizione con se stessa sugli autonomismi triveneti. Nel 2006 le camicie verdi si schierarono a fianco dei comuni del bellunese che volevano invece passare dal Veneto al Trentino, regione più ricca, meno tassata e a statuto speciale. Vantaggi del federalismo.

«Il governo deve chiedere l’impegno e la collaborazione a tutte le regioni perché dobbiamo dare un segnale concreto che tutto il sistema istituzionale si muove con grande responsabilità. E di questo deve essere garante il governo nella sua collegialità», aveva auspicato il presidente della conferenza delle Regioni,Vasco Errani. Ma l’onda lunga della solidarietà, del magnifico progresso maroniano sembra essersi smarrita dunque prima di affluire nel Po. A specificare le ragioni del beau geste di Zaia e Cota, viene in soccorso il leader padano Umberto Bossi: «Non si risolve il problema spostando la

Il portavoce del responsabile all’Ambiente, Janez Potocnik, annuncia che «la Commissione europea tratterà con urgenza il dossier dei rifiuti. Ora spetta a noi decidere se dobbiamo aprire una seconda procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia», dopo la condanna già comminata nel marzo scorso dalla prima sentenza della Corte di giustizia europea. Un bis che ha portato in Aula un clima di pacificazione e responsabilità. Il deputato dell’Idv, Franco Barbato, si è presentato al suo seggio agitando un sacchetto di rifiuti. Ma un paio di probiviri del Pdl, non meglio identificati, hanno sedato l’atto rivoltoso a suon di ceffoni. L’Aula come la Padania, dunque. Afflitte entrambe da un sogno comune: vietato introdurre spazzatura. Meglio avrebbe fatto Libero, a rompere gli indugi metaforici. Invece di scomodare Saviano, bisognava gettare il cuore oltre l’ostacolo, e fare un titolo più fervido, più schiettamente democratico: “Il Sud ha rotto i Maroni”.

lendario. Un’esenzione è possibile fino a giugno 2011, ma solo se il Paese dimostra di avere adottato misure per rispettare gli obblighi entro il termine prorogato. La Commissione, però, ritiene che, per quanto riguarda l’Italia, «le condizioni per concedere la proroga non siano state rispettate» e per questo «ricorre alla Corte di giustizia europea».

La Commissione europea ha anche deciso per di intervenire contro il nostro Paese per il mancato rispetto delle normative comunitarie sul trattamento delle acque reflue provenienti da vari comuni della provincia di Varese e sversate nel bacino del fiume Olona. In questo caso si tratta in realtà di un secondo ricorso, per inadempienza rispetto a una sentenza della Corte già emessa quattro anni fa, nel novembre 2006, a cui le autorità italiane non hanno mai dato esecuzione. In caso di un seconda condanna, l’Italia rischia quindi pesantissime sanzioni pecuniarie giornaliere, proporzionali alla durata del mancato adeguamento. Una terza procedura contro l’Italia riguarda la direttiva europea sul rendimento energetico degli edifici.


società

pagina 8 • 25 novembre 2010

Sit-in davanti alla sede della tv di Stato per chiedere di dare rappresentanza anche ai familiari di pazienti che vogliono vivere

Una voce anche alla vita

L’Udc, insieme a parlamentari di destra e sinistra, chiede alla Rai di far parlare a “Vieni via con me” anche chi non sceglie l’eutanasia di Paola Binetti diritti individuali sono una delle conquiste più rilevanti della seconda metà del 900, sono diritti universali che spettano ad ogni uomo in virtù della sua stessa natura umana, senza distinzioni di sorta. Lo prevede l’articolo 2 della nostra Costituzione, lo prevede la dichiarazione universali dei diritti dell’uomo, lo prevede la più recente dichiarazione Onu specificamente dedicata ai diritti delle persone portatrici di handicap. E non c’è dubbio che la vita sia il primo dei diritti da garantire a tutti gli uomini, così come tutti gli uomini hanno diritto ad una corretta informazione anche per poter giungere a conoscere la verità. Diritto alla Vita e diritto alla Verità sono a loro volta il fondamento della nostra democrazia, e meritano da parte di tutti noi un forte impegno per la loro salvaguardia. Non è solo compito di politici e governanti, di medici e di docenti, di giuristi e di scienziati, di giornalisti e di scrittori… È davvero compito di tutti, secondo quell’approccio che si sta imponendo sempre di più all’attenzione dell’opinione pubblica e che lega etica e globalizzazione; diritto universale di tutti e per lo stesso motivo dovere di tutti nella loro tutela.

I

Queste le indispensabili premesse per riflettere su quanto sta accadendo in questi giorni in merito alla trasmissione di Fazio e Saviano Vieni via con me. Non c’è dubbio che il successo di pubblico, gli indici di ascolto, l’intensità delle polemiche sollevate tra critici e fautori, dimostrano che si tratta di una formula innovativa di info-intrattenimento, che provoca ed incuriosisce, che convince e mette in crisi. Una trasmissione che fa pensare è già di per sé una conquista in un contesto sciatto ed ambiguo, in cui assistiamo ad una sorta di clonazione di modelli informativi, ripetitivi nei contenuti, nelle immagini e nelle impostazioni. La sobrietà della trasmissione, nelle sue scenografie asciutte totalmente centrate sullo speaker di turno, voce e volto in primo piano, offre una lettura scandita con frasi brevi, a tratti taglienti, priva di parole, aggettivi, commenti superflui. Una trasmissione la cui modernità non concede nulla a certi standard televisivi ridondanti, chiassosi e non poche volte francamente volgari. Vieni via con me è certamente diversa. Proprio per questo i messaggi lanciati dal programma, dietro l’apparente freddezza di una oggettività che rinuncia ad orpelli seduttivi, coinvolge in profondità i telespettatori, spiazzati dal nuovo stile. Per uno di quei paradossi ben noti a chi fa comunicazione televisiva l’impatto emotivo provocato è altissimo e ha raggiunto punte di intensa drammaticità, soprattutto quando ha affrontato il tema della vita, ricollocandolo sullo sfondo della morte.

Morte e vita hanno assunto contorni confusi, anche per l’alternarsi di frasi che rivelavano tutta la loro intrinseca contraddittorietà. Nell’ascoltatore si è creato un certo smarrimento, che ha colpito soprattutto le persone che condividevano esperienze simili a quelle narrate, ma ne davano una diversa interpretazione. Si può voler vivere nonostante tutto, si può voler rimanere accanto a persone malate, disabili, creando nuovi canali di comunicazione, nuove forme di condivisione di affetti e di valori. Si può amare cercando di trattenere accanto a sé le persone che si amano, anche quando la società sembra chiudersi a riccio e respingere le costanti richieste di aiuto che vengono da queste persone. Si può voler vivere creando nuovi circuiti di solidarietà, di reciproca comprensione, di impegno umano e morale. Lo stordimento provocato dalla prima trasmissione e in parte reiterato

Il diritto alla vita e alla verità è il fondamento della nostra democrazia, e merita da parte di tutti noi un forte impegno

anche la seconda volta induce a chiedersi perché persone di grande qualità comunicativa si prestino a gettare sconcerto tra chi soffre e appartiene al gruppo, molto più numeroso di quanto non si creda comunemente, delle persone più fragili clinicamente e socialmente. Perché insinuare nel cuore e nella mente di queste persone che la loro sofferenza si può risolvere con un click, staccando una spina, sommi-

nistrando un sedativo. Perché far credere che il gesto d’amore più significativo è quello di scegliere la separazione, come è accaduto nelle due storie raccontate, mentre nella stragrande maggioranza dei casi chi ama desidera stare insieme, vuole un intenso e profondo contatto con la persona amata. Si ama scegliendo di stare insieme a chi si ama, per condividere con lei gioie e dolori, per sopportarne i pesi quando non è in grado di farlo da sola, per chiedere e per dare aiuto, come da sempre hanno fatto coloro che si amano.

Non a caso amare è un altro modo per affermare che si vuole bene, che si vuole il bene di chi si ama.Tra il sentimento dell’amore e il gesto della volontà che vuole bene c’è una sintonia che il linguaggio popolare ha colto da sempre. L’amore è un sentimento, il bene è un valore, il valore dei valori, e la volontà individuale lega l’uno e l’altro offrendolo a chi ama e chiedendo di essere riamata. La trasmissione in questione ha lasciato pensare a tanti italiani che amare un malato, tanto più se è un malato grave, significa sancirne il distacco, bypassando completamente una tradizione e un sapere sapienziale che da millenni hanno visto proprio nella famiglia la garanzia maggiore per questi malati. Eppure è la famiglia che in questi casi dice no, no alla loro vita, rivestendo questo no di nobili argomentazioni, rispettabili, anche quando non sono condivisibili. Meno rispettabile appare però l’operazione di chi costruendo la trasmissione, pezzo per pezzo, ha preteso di fare di queste scelte una sorta di proclama per indicare quale sia il modo migliore di amare, dando un vantaggio comunicativo a chi vuole “staccare la spina”. L’interrogativo che scaturisce induce a chiedersi se si è compreso bene il senso del messaggio complessivo della trasmissione. L’eutanasia in Itala è reato, sono solo i radicali che hanno presentato più di una volta dei ddl chiedendola. Almeno formalmente l’intero parlamento si è sempre affannato a dire di no a qualunque proposta di falsa

dolce morte. Eppure la trasmissione ha schivato in un solo passaggio: la nostra Costituzione, il nostro Codice, il disegno di legge sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento, che dopo essere uscito dalla XII Commissione della Camera, giace in una sorta di limbo parlamentare. E comunque il suo no all’eutanasia è chiaro e fermo, non consente dubbi di sorta. Abbiamo in compenso approvato a grande maggioranza il disegno di legge sulle cura palliative e sulla terapia contro il dolore, proprio per assistere nel miglior modo possibile tutti i malati fino al termine della loro vita. In modo evidente il Parlamento ha detto si all’etica della cura, sia pure investendovi risorse inferiori a quanto sarebbe stato necessario. Tutto il nostro sistema giuridico, sociale e culturale è un sistema che esprime consenso alla vita e sottolinea il valore della solidarietà come espressione dell’ethos comune del nostro Paese e quindi come collante robusto della nostra società.Vieni via con me ha capovolto questa impostazione, ha messo in primo piano la volontà di morte e l’ha fondata sulla dialettica della separazione. Questa è stata la profonda mistificazione a cui abbiamo assistito, dopo averla rivestita di un maquillage di sicura presa sui telespettatori: il senso della pietas, la paura di essere di peso e quindi di essere abbandonati.

Nello scorrere progressivo delle immagini e delle frasi si è andata consolidando la sensazione che la visione degli autori stesse colpendo in profondità proprio il valore della vita. Tutto sembrava concorrere a legittimare il desiderio di morte davanti alle difficoltà in cui ci si può imbattere: meglio andarsene di propria volontà che essere abbandonati. Il pur legittimo diritto all’autonomia nelle scelte ordinarie e straordinarie è sembrato ridursi all’unica opzione possibile: la volontà di morte, dando la falsa convinzione che ci sono vite che non sono degne di essere vissute. È un leit motiv che è ritornato anche in molte delle liste lette nelle altre trasmissioni, anche nella più che discutibile sceneggiata riservata alle persone portatrici di handicap. La lettura complessiva delle liste affidate ad interlocutori di volta in volta diversi per profilo professionale, ma sostanzialmente simili per quadro culturale di riferimento, riflette la sostanziale mancanza di pluralismo della trasmissione. Politici e sindacalisti si sono alternati cambiando partiti e gruppi politici di riferimento. Ma attraverso tutti i passaggi intermedi, apparentemente slegati tra di loro, il messaggio trasmesso è andato acquistando progressivamente forza e penetrazione. Si è definito un quadro culturale con tutte le caratteristiche di un pensiero debole, che purtroppo è il pensiero prevalente del nostro tempo;


società

25 novembre 2010 • pagina 9

Basini e Morandi aderiscono all’Udc

La tradizione liberale con i centristi di Aldo Bacci

ROMA. La vera rivoluzione liberale promessa e mai attuata da Berlusconi si incarna oggi nell’azione dell’Udc-Verso il partito della Nazione. È per questo che molti eredi della tradizione liberale aderiscono con entusiasmo a questo progetto. È quanto affermano Giuseppe Basini e Giancarlo Morandi, accolti ieri pomeriggio dal presidente del partito Rocco Buttiglione. Duro l’attacco all’attuale politica del Pdl da parte dei nuovi aderenti alle posizioni centriste: «Non siamo noi che cambiamo idea, ma Berlusconi che le ha tradite. Oggi le nostre stesse idee le ritroviamo convintamente difese dall’Udc». Il professor Basini ha una sua spiegazione del fallimento della rivoluzione liberale in questi 16 anni, anzi del suo tradimento, come preferisce dire: la presenza autenticamente liberale inizialmente significativa è stata progressivamente espulsa dal centro-destra, a partire dai “50 professori” candidati inizialmente in Forza Italia e non più ricandidati. Adesioni molto rilevanti anche per il loro significato politico-culturale. I due esponenti liberali, rappresentanti di un movimento per l’Italia liberale capillarmente diffuso sul territorio nazionale, sono stati infatti protagonisti della vita politica del centro-destra degli ultimi anni. un pensiero caratterizzato da uno spiccato relativismo che appiattisce i valori riducendoli a semplici desideri e affidandoli alla soggettività individuale. Solo apparentemente tollerante e rispettoso di posizioni diverse dalle proprie, mentre in realtà accusa di fondamentalismo e di integralismo tutte quelle posizioni che cercano una validazione oggettiva affidandola ad una riflessione sulla comune natura umana e sulla legge morale, scritta nel cuore di ogni uomo. Si sta tentando di accreditare una scorciatoia sottile ma graffiante, quella che punta ad affermare il diritto ad avere una presunta volontà forte, assolutamente autoreferenziale. Sganciata però dalla oggettività dei dati, come se la verità delle cose e delle idee restasse consegnata alla pressioni di una emotività che assurge al ruolo di una verità, anchìessa egocentrica ed autoreferenziale. La trasmissione mentre dà forza all’atteggiamento che afferma il diritto a riaffermare la propria volontà, non spende neppure una parola nel mostrare come i contenuti su cui si decide vadano commisurati alla fondatezza delle osservazioni su cui si basano e alla intensità del bene che sono capaci di produrre e non solo sulla tenacia con cui sono perseguite. Sembra che la volontà individuale possa costituire l’unico criterio guida e non ci siano altri valori a cui attenersi, escludendo l’indispensabile pluralismo che molti spettatori hanno rivendicato. C’è un fondamentalismo della volontà che diventa l’unico valore, monocratico, e pertanto

In trasmissione, morte e vita hanno assunto contorni confusi, anche per l’alternarsi di frasi che rivelavano tutta la loro contraddittorietà Alcune immagini della manifestazione dell’Unione di Centro davanti alla sede centrale della Rai di viale Mazzini, a Roma. Nella pagina a fianco il leader del Partito Pier Ferdinando Casini

da rispettare come criterio assoluto, senza neppure indagare sulla fondatezza delle scelte fatte. Oggi Masi, Galimberti, ricevendo una commissione di parlamentari insieme ai familiari di pazienti che vogliono vivere con la forza che viene loro anche dall’amore attualizzato di una madre, di un padre, di un marito o di una moglie hanno promesso una concreta forma di riparazione: ristabilire quel pluralismo che sostanzia una par condicio venuta meno, non tanto per una distratta superficialità, quanto per un calcolo ben evidente. Siamo tutti in attesa: dal Parlamento quasi 200 deputato del Pdl, una cinquantina di deputati del Pd e tutti, ma proprio tutti i parlamentari dell’UDC sottoscrivendo l’appello lanciato da Avvenire hanno assunto una responsabilità forte che riguarda non solo il valore della vita, ma anche il valore della corretta informazione. L’uno e l’altro sono alla base della nostra democrazia, ma l’uno e l’altro minacciano di usurarsi velocemente, se non ci sarà una onesta capacità di indignarsi e di reagire da parte nostra. E nessuno di noi intende sottrarsi a questa responsabilità. Solo un mese fa Berlusconi, venendo in Aula a chiedere la fiducia, ha messo al V posto, l’ultimo per la verità, anche la questione etica. Nulla è stato fatto in queste settimane. Nulla su nessuno dei punti su cui si era impegnato. Oggi noi vogliamo vedere se su questo punto il Governo saprà dare una risposta concreta e puntuale: alle famiglie, ai pazienti, ai telespettatori, al parlamento intero.

Giuseppe Basini è stato uno dei sette soci fondatori di Alleanza Nazionale, di cui è stato anche senatore dal 1996 e membro della direzione nazionale. Già tra i più giovani membri della direzione nazionale del Pli, è stato presidente del Consiglio nazionale del Partito Liberale Italiano quando venne ricostituito nel 2004. Il suo saggio De Libertate, un trattato di politica liberale uscito nel 2001, ha la prefazione di Silvio Berlusconi. Il professore è poi un eminente scienziato, dirigente di ricerca dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, protagonista di una rilevante ricerca presso il Cern di Ginevra sull’innovativa teoria dell’Open Quantum Relativity. Nell’Udc darà il suo contributo anche nel campo del rapporto col mondo della scienza. Giancarlo Morandi, dopo essere stato segretario lombardo del PLI, è stato tra i primi esponenti di spicco di Forza Italia, partito per la quale dal 1995 ha rivestito il ruolo di presidente dell’assemblea regionale della Lombardia. Nel 1998 è stato Coordinatore nazionale della Conferenza dei presidenti dei Consigli regionali italiani. In precedenza in regione Lombardia è stato Assessore al Bilancio e Programmazione Economica, Assessore al Commercio Turismo e Sport, Assessore all’Energia e alla Protezione Civile e Vicepresidente della Giunta regionale. È stato membro dell’esecutivo dell’Anci. Nel 1989 ha curato il volume Per una riforma delle Regioni e nel 2000 Libertà e identità. Ruolo europeo, radici territoriali e comunicazione istituzionale nel federalismo del 2000. Morandi è anche un affermato manager, oggi presidente del Cobat, il Consorzio obbligatorio delle batterie esauste. A loro fanno riferimento numerosi esponenti della tradizione liberale italiana.


panorama

pagina 10 • 25 novembre 2010

ragioni&torti di Giancristiano Desiderio

La verdura a foglia larga della Iervolino n tempo c’era la foglia di fico, mentre oggi c’è la foglia di verdura ma la funzione è la stessa: coprire le vergogne. È stato notato che Rosa Russo Iervolino amministra il comune di Napoli da molto tempo, tanto che le stagioni di Lauro e di Valenzi, se si fa un confronto con i due mandati della Iervolino, appaiono delle meteore. Eppure, giunta ormai alla fine della sua giunta, la sindaca, che avrebbe dovuto garantire il servizio della raccolta differenziata, scopre che la verdura ha la foglia larga e quindi gli ortolani devono impegnarsi a “sfogliare” i mazzi di insalata prima e non dopo la vendita. La stessa cosa va fatta per scarole, carciofi, broccoli, sedani, peperoni, lattuga, finocchi, radicchio, cavoli e tutti quegli ortaggi che hanno una parte da scartare. La Iervolino, in pratica, non paga di non aver saputo fare il sindaco s’impegna ora a insegnare il mestiere ai fruttivendoli e verdurai. Ben presto arriverà un decreto anche per le bucce dei mandarini.

U

La foglia di verdura della Iervolino non copre né le vergogne di Palazzo San Giacomo né quelle di Palazzo Santa Lucia. In particolare, si può osservare che il centrodestra di Caldoro ha in breve tempo ripercorso la stessa parabola del centrosinistra di Bassolino. Come Bassolino, sia pure con maggior spirito messianico, aveva iniziato da un progetto di rigenerazione e rinascita politica e perfino antropologica di Napoli per poi approdare a una riscoperta dell’inciviltà meridionale degna della cultura positivista di fine Ottocento, così il centrodestra Caldoro dopo aver assicurato, sulla scorta del lavoro del governo Berlusconi, la “soluzione finale” del caos dei rifiuti è ritornato alla condanna di sempre: non siamo noi che non governiamo bene, sono i napoletani che sono quel che sono. Il ministro Bondi, infatti, lo ha dichiarato senza mezzi termini: «Ciò che accade non è solo colpa della Iervolino ma di un degrado di una parte del Sud». Viene in mente la gag del comico Francesco Paolantoni: «Non siamo noi che siamo razzisti, sono loro che sono napoletani». In questo, come in tante altre cose, la differenza tra destra e sinistra è solo nel tempo: la destra è riuscita a raggiungere gli stessi non-risultati della sinistra più rapidamente. Un record. Il ritorno alla gestione commissariale è fin troppo emblematico. La sola esistenza del governo regionale di Caldoro avrebbe dovuto garantire la fine delle crisi e dell’emergenza e quindi la chiusura di ogni stagione commissariale. Invece, Caldoro che è stato eletto dai cittadini per uscire dalla crisi è stato nominato dal governo commissario per meglio entrare nella crisi. Con la nomina a commissario Caldoro è destinato suo malgrado a incarnare la crisi dei rifiuti diventando commissario di se stesso e istituzionalizzando l’emergenza. La crisi dei rifiuti è ormai una legge di natura e un buco nero che divora tutto: civiltà, istituzioni, soldi. L’unica cosa che non fagocita ma espelle sono i rifiuti.

Caro Veltroni, su Ustica basta improvvisazioni L’ex sindaco di Roma sbaglia a credere in un depistaggio di Aurelio Misiti a una persona come Walter Veltroni, ottimo ministro e buon sindaco di Roma nonché eccellente giornalista scrittore, non mi sarei mai aspettato una dichiarazione tanto improvvisata e senza una documentazione adeguata sull’incidente aereo di Ustica. Credere alla favola, mai documentata, di una fantomatica battaglia aerea nei cieli dell’Italia centro-meridionale la sera del 27 giugno 1980, cancellata dalle sentenze del Tribunale, della Corte d’Assise e della Cassazione, a me, che ho studiato la tragedia in lungo e in largo per ben quattro anni insieme ai maggiori esperti di incidenti aerei italiani, inglesi, tedeschi e svedesi, è sembrata una inaspettata imprudenza. Non capisco le ragioni che lo hanno indotto a parlare addirittura di depistaggio di fronte alla illustrazione della perizia tecnica riconosciuta valida nei tre processi sopra citati e dagli stessi pubblici ministeri (Giovanni Salvi e Vincenzo Roselli) che hanno seguito le indagini. Basterebbe consultare i verbali con le conclusioni per rendersi conto del lavoro serio che è stato svolto dal collegio peritale da me diretto e dalle commissioni tecniche precedenti che, nonostante non avessero a disposizione l’intero velivolo, sono giunte a conclusioni molto vicine alla verità.Il giorno successivo all’incidente il ministero dei trasporti ha nominato una commissione d’inchiesta presieduta dal dr. Carlo Luzzatti, che dopo due anni di lavoro ha concluso scrivendo che la deflagrazione da ordigno esplosivo era stata la causa del disastro. Il 21 novembre 1984 il giudice istruttore nominava una seconda commissione presieduta dal prof. ing. Massimo Blasi, incaricata tra l’altro di accertare la natura, esterna o interna, dell’ipotetico fenomeno esplosivo. La commissione, non avendo ancora a disposizione l’insieme del velivolo ma solo una piccola parte, ha confermato l’ipotesi dell’esplosione, considerandola prima esterna e successivamente, approfondendo il relitto che man mano veniva portato in superficie, si è divisa tra chi propendeva per un’esplosione esterna e chi una deflagrazione interna. Il Consiglio dei ministri il 23 novembre 1988 nominò una propria commissione non peritale, detta Pratis, per esaminare la documentazione esistente e riferire al Governo. La commissione accolse l’ipotesi di esplosione interna, dovuta a un’azione terroristica resa possibile dalla

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scarsa efficienza dei sistemi di sorveglianza dell’aeroporto di Bologna. Il 31 agosto 1990 l’autorità giudiziaria costituì un collegio peritale non più solo italiano ma internazionale, formato da undici personalità tecnico-scientifiche di indiscussa competenza nel settore. La presidenza è stata affidata al sottoscritto, allora preside della facoltà di ingegneria della Sapienza, con vicepresidente il prof. Paolo Santini, riconosciuto in campo mondiale come uno dei maggiori esperti di ingegneria aeronautica.

Il lavoro di questo collegio internazionale nominato dal giudice istruttore Bucarelli e poi confermato sostanzialmente da Priore, ha depositato la perizia dopo aver vagliato per quattro anni tutte le ipotesi in campo, dal missile alla quasi collisione, dal cedimento strutturale all’esplosione, arrivando alla conclusione unanime che l’incidente era stato provocato da una deflagrazione all’interno della toilette del velivolo, che nel frattempo era stato ricostruito a Pratica di Mare. Le risultanze del collegio, accolte dai pubblici ministeri, dal tribunale di Roma e dalla Cassazione, che in base ad esse hanno assolto con formula piena i militari rinviati a giudizio da una ordinanza in cui, senza valutazioni tecnico-scientifiche, si negava validità alla perizia e si faceva riferimento ad una ipotetica guerra aerea avvenuta il 27 giugno 1980 sui cieli di Ustica. La commissione stragi, presieduta dal senatore Giovanni Pellegrino e i giudici nei processi di Roma hanno accantonato l’dea della battaglia aerea. Le recenti dichiarazioni di Cossiga, smentite da lui stesso pochi giorni dopo averle espresse, secondo le quali Giuliano Amato sarebbe stato a conoscenza di nuove informazioni Nato che avrebbero portato a una“nuova verità” sulla vicenda di Ustica, hanno subito messo in moto tutte quelle forze che vorrebbero si arrivasse alla “loro verità” e naturalmente una procura si è già mossa. La Nato ha smentito, Amato ha smentito, il governo italiano a suo tempo ha ricevuto missive di Clinton e di Chirac che escludevano coinvolgimenti di Usa e Francia. Caro Veltroni, non inganniamo ancora gli italiani; oggi l’obiettivo della giustizia e quindi della procura che indaga dovrebbe essere solo quello di individuare coloro che a Bologna hanno deposto l’esplosivo sull’aereo e i loro eventuali mandanti, senza inseguire fantasiosi depistaggi.

Non facciamoci ingannare troppo da fantasiose ricostruzioni: l’ottimo lavoro di tanti esperti dimostra che fu una bomba


panorama

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L’esercito italiano inaugura la «psy-ops», un’iniziativa psicologica per guadagnare il consenso della popolazione

La Russa, il D’Annunzio di Herat Il ministro della Difesa lancia volantini sull’Afghanistan: «Come il Vate a Vienna» di Gabriella Mecucci a Russa come D’Annunzio? Il ministro come il Vate? Di cose in comune ne hanno pochine: entrambi piccoletti, entrambi ammiratori del duce, entrambi col pizzetto... Per il resto, poco o niente. Ma da ieri sono accomunati da un’impresa aeronautica, come ha rivendicato, soddisfatto e sorridente, La Russa. Il ministro della Difesa ha infatti presenziato – si trovava a bordo dell’elicottero Ch-47 – al lancio di volantini italiani sulle popolazioni dei villaggi dell’area di Bala Murghab, Afghanistan. L’operazione vuole conquistare «i cuori e le menti» delle popolazioni locali, sottraendole all’egemonia talebana. La Russa, dopo il volo, è sceso all’aereoporto di Herat e lì, ostentando buon umore nonostante le grane del governo, ha fatto, davanti ai giornalisti, l’ardito paragone col volo dannunziano su Vienna.

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Allora il Vate aveva 55 anni, più o meno quelli che ha il ministro oggi. Era stato sin dal 1914 un interventista convinto: aveva deciso di rinunciare alla cattedra universitaria che fu di Giovanni Pascoli per impegnarsi nella guerra. Aveva compiuto missioni eroiche e in una aveva perso un occhio. Quanto a La Russa purtroppo non si conoscono particolari tanto esaltanti nella sua vita. Per non dire della quan-

tità di cose belle già composta, prima del fatidico volo, da D’Annunzio: Il piacere, L’innocente, La Fiaccola sotto il moggio,La figlia di Iorio e l’elenco potrebbe andare avanti a lungo. Ma che c’entra La Russa con la letteratu-

nostro “pizzo di ferro” può rivendicare di avere un passato da nazionalista convinto come D’Annunzio e ieri un bel lancio di volantini l’ha fatto anche lui. C’erano scritte frasi tipo: «Il benessere proviene dalla pace», oppure: «Il Corano dice: la pace è felicità». E poi ci sono le illustrazioni che raffigurano i combattenti che abbandonano la via della violenza o anche scene di disperazione di famiglie colpite dagli ordigni. Le “psyops”sono elaborate e condotte dai militari del ventottesimo reggimento Pavia di Pesaro. E della missione conquista “dei cuori e delle menti”fanno parte anche i messaggi tramite altoparlanti o le comunicazioni attraverso le radio. Speriamo bene. Il tutto – per quanto possa essere utile – non può certo essere circondato dall’alone di eroismo del volo su Vienna. Quanto ai testi: la penna di D’Annunzio che scrisse gli storici volantini, non è neanche lontanamente paragonabile a quella dei pur bravi militari del nostro contingente.

La missione si propone di conquistare «i cuori e le menti» degli afgani con azioni dismostrative

ra? Forse c’entra di più con gli amori o con la carriera da tombeur de femme? Può darsi, ma su questa è meglio evitare paragoni, il Vate fu imbattibile, senza far nemmeno ricorso a escort, vajasse e nipotine di Mubarak. Ma il

E raccontiamola, dunque, l’impresa dannunziana, visto che La Russa l’ha evocato, sapendo che corriamo un rischio: se il premier ne viene a

conoscenza– visto il suo leggendario presenzialismo e protagonismo – vorrà organizzarne una tutta per lui: magari volantinando la casa di Montezemolo o la questura di Milano. La mattina del nove agosto si alzarono dieci aerei monoposto della squadriglia “Serenissima”e mossero verso Vienna. Arrivarono alle 9,20 in nove – uno era caduto – e scaricarono sui viennesi ben 50mila volantini che iniziavano così: «In questo mattino d’agosto, mentre si compie il quarto anno della vostra convulsione disperata e luminosamente comincia l’anno della nostra piena potenza, l’ala tricolore vi apparisce all’improvviso». Sarà un po’ troppo marziale, ma certo la qualità della prosa è diversa da quella dei volantini afgani. E persino gli slogans finali, scritti da Ugo Ojetti sono preferibili: «Popolo di Vienna, pensa cosa ti aspetta. Lunga vita alla libertà». Quel nove agosto era già iniziata l’offensiva dei cento giorni da parte dell’Intesa che portò a piegare alla fine di ottobre gli eserciti degli imperi centrali. La vittoria insomma era vicina. In Afghanistan purtroppo non può dirsi lo stesso. Infine, dopo la trasvolata sopra Vienna, D’Annunzio non abbandonò le eroiche imprese: nel 1919 toccò a Fiume. E poi, deluso, si ritirò carico di fama e di donne a Gardone. Chissà cosa ha in mente La Russa?

Tremonti ci ripensa e attacca: «L’ho inventato io ma la Camera non l’ha finanziato»

Dietrofront sul cinque per mille di Gualtiero Lami

ROMA. Il ministro Tremonti ha cambiato idea anche stavolta: «Voterò per reintegrare il cinque per mille» ha scritto in una lettera indirizzata al Fatto Quotidiano che l’ha pubblicata ieri. Naturalmente, restando fedele al suo stile simpatico, Tremonti non ha perso l’occasione per pavoneggiarsi: «In politica non esiste il copyright – ha spiegato - ma quella del cinque per mille è una idea della quale sono orgoglioso, una idea esposta per la prima volta in un articolo pubblicato sul Corriere della Sera il 9 novembre 2004. Nell’autunno del 2005, tornato al ministero dell’Economia e delle Finanze, sono riuscito a trasformare il contenuto di quell’articolo di giornale in un articolo di legge. Un articolo che è stato inserito nella legge finanziaria del 2005 sul 2006». Più in concreto,Tremonti ha spiegato che «il fondo attuale, pari a 100 milioni, è iniziale e può, deve, essere integrato». L’importo previsto all’inizio, aggiunge, «è stato eroso da successive diverse scelte parlamentari, ad esempio quelle di incrementare i fondi per l’editoria o per le televisioni private». Come dire: cari amici del no-

profit, se non avete soldi la colpa è dei giornali… Ed ecco spiegato perché Tremonti ha scelto il Fatto Quotidiano per fare questa sua dichiarazione di principio. «Rispetto a tutte le altre scelte – ha aggiunto il ministro –preferivo e preferisco in assoluto il 5 per mille. E fermo il vincolo di invarianza nella spesa pubblica, mi auguro che molti altri in Parla-

Per i centristi è necessario recuperare i fondi dalle rendite finanziare e non dai contributi alle tv private come vuole il ministro mento orientino il loro voto verso questa priorità». Ossia: o i soldi al cinque per mille o all’editoria. Una tecnica perfetta e antica quanto l’uomo per governare sulle liti degli altri. Maurizio Lupi del Pdl ha di fatto attaccato Tremonti con questa dichiarazione: «C’è un tentativo strumentale di innescare una guerra tra poveri sui fondi destinati al 5 per mille e alle televisioni locali. Personalmente

non ho mai pensato di penalizzare un settore a scapito di un altro».

D’accordo con l’intenzione ma con un’altra idea sulla soluzione, infine, i centristi: «Apprezziamo il fatto che Tremonti ci abbia ascoltato e che oggi, al contrario di ieri, si dichiari disponibile a votare a favore del rifinanziamento del 5 per mille. L’Udc presenterà al Senato un emendamento alla legge di Stabilità non solo per ripristinare il fondo così com’era, ma per portarlo fino a 500 milioni». Sono queste le parole del presidente dei senatori Udc, Gianpiero D’Alia, e del vicepresidente dei deputati Udc, Gian Luca Galletti. «Le risorse – hanno continuato i centristi – potranno essere recuperate attraverso la tassazione delle rendite finanziarie, esclusi Bot e Cct. Dal ministro dell’Economia ci attendiamo il suo voto coerente a favore della nostra proposta».


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veva 37 anni, una folta barba brizzolata, una gran criniera di capelli e quel corpo robusto e solenne che lo accompagnò tutta la vita, quando conobbe e repentinamente s’innamorò di Carolina Cristofori Piva. Il primo incontro di Giosuè Carducci con la donna più importante della sua vita avvenne in una sera nebbiosa e fredda dell’aprile del 1872 al caffè di Bologna. È un coup de foudre: i due si incontreranno poi i primi di maggio a Milano e sarà passione travolgente fra il“leone”e la“dolce pantera”. Ne nasce uno degli epistolari più intensi e persino focosi dell’Ottocento italiano. Una corrispondenza che fa il paio per fascino con quella fra Ugo Foscolo e alcune delle sue numerose amanti. Ora le lettere di Carducci a Lina sono state ripubblicate, curate da Guido Davico Bonino per Salerno editrice, col titolo Il leone e la pantera. Carducci è un uomo sposato e non più giovanissimo, ma si butta nell’avventura amorosa con tutta la sua esplosiva focosità.Teme che la moglie lo scopra, ma non si trattiene. Insegue quella donna che lo ha stregato. E già all’inizio di maggio del 1872 hanno il loro primo incontro clandestino. In tutto l’anno si vedranno solo cinque volte. Ma ciascuno di questi convegni sarà memorabile. Le lettere fioccheranno: numerose, calde. Scrive Giosuè il 12 maggio: «Amore, mio ultimo e solo ed eterno amore... Vedi: io non sono neppur sicuro che tu mi amerai per tutta la vita. Chi sa che non venga un giorno che io debba ricordare amaramente e con la disperazione nel cuore questi bei giorni di aprile e di maggio? Eppure l’immagine tua nel parco di Monza, quel bel volto di un così fino e puro ovale, intornato in quelle anella di morbido castagno, reclinato nell’estasi dei baci, con gli occhi socchiusi, o sollevato ed acceso nell’entusiasmo del bello, o inclinato su me mormorando parole di soavità abitano e abiteranno in me sino all’ultima ora, ed io gli adorerò gli consumerò di baci intimamente e sempre…». Carducci è già un uomo molto importante, ha la cattedra di letteratura all’Università di Bologna, ha scritto alcune fra le sue più belle poesie tantochè il suo talento è già paragonato a quello di Foscolo. Chi è la “dolce pantera” per cui ha perso la testa? Carolina Cristofori Piva, quando lo conobbe, aveva 34

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Il legame fra Carducci e Carolina Cristofori Piva ritorna in lib

E Giosuè s’ammalò d’amore di Gabriella Mecucci

Passione cocente, gelosia, paura di essere preso in giro, tenerezza per il figlio “clandestino”. Tutte le sfaccettature del cuore tratteggiate nelle lettere d’amore dell’autore delle “Odi barbare” anni. Mantovana di nascita, milanese di educazione. Il padre Andrea, medico, aveva diretto gli ospedali di Mantova, Padova e Milano – a 25 anni si era sposata col colonnello Domenico Piva che poi diventerà generale di brigata. Prima del matrimonio era stato uno dei Mille e si era molto ben portato nella battaglia di Calatafimi: era insomma una sorta di eroe nazionale. La coppia aveva girato a lungo per la Sicilia, ma poi decise di stabilirsi a Milano, dove frequentava il salotto mondano-letterario della contessa Clarina Maffei.

Carolina, intelligente, colta, ambiziosa, conosceva bene l’inglese e il tedesco, amava scrivere e lo sapeva fare. Era certamente d’aspetto molto gradevole ed era del tutto cosciente del proprio fascino tantochè fu lei a cercare in tutti i modi di entrare in rapporto con Carducci, inviandogli versi e missive. La conquista fu semplice e rapida. Del resto il“vate”soccombeva spesso e volentieri al fascino femminile. Ma quella volta fu tutto speciale. Tanto speciale che - questa la rivelazione contenuta ne“Il leone e la pantera”- fu ben contento di avere da Lina un figlio: Gino Piva che diventerà uno dei giornalisti-inviati più famosi del “Resto del Carlino”e personaggio di primo piano del socialismo irredentista. Sin qui la faccenda del figlio era stata oggetto dei pettegolezzi, ma il carteggio a cura di Guido Davico Bonino contiene la ricostruzione di alcune lettere, contenenti espressioni che rappresentano un’inequivocabile conferma della patenità del poeta. Anche se il piccolo porterà il co-

gnome del marito della madre. Scrive Carducci il 16 marzo del 1873, e cioè 10 mesi dopo il primo incontro d’amore con Lina: «Ora poi c’è il bambino. Il quale io amo. Ma, buon dio, come orribilmente ti contraddici! A voce e per lettera mi preparasti

«Amore, mio ultimo e solo... Vedi: io non sono neppur sicuro che tu mi amerai per tutta la vita... Chi sa che non venga un giorno che io debba ricordare amaramente questi bei giorni di aprile?» con troppa cura ad spettarmi che dovesse nascere nella prima decina del mese d’aprile; si dà il caso che nasca la notte dopo aver ricevuto una mia lettera aspra, ma proprio nel tempo da te determinato ante-


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breria con l’appassionante epistolario “Il leone e la pantera” Fra le opere di maggior successo i “Giambi ed Epodi”

Il senator-massone alla corte di Margherita iosuè Carducci nacque nel 1832 in Versilia e nel 1838 la sua famiglia si trasferì a Bolgheri, da lui celebrata in una delle sue più belle poesie. Laureatosi alla Normale di Pisa in filosofia, iniziò da subito ad insegnare, e questa rimase per tutta la vita una sua grande passione. Si sposò con Elvira Menicucci ed ebbe ben cinque figli: uno dei quali morì ancora piccolo, Dante. A lui dedicò i bellissimi versi di “Pianto antico”. Ebbe numerose storie d’amore e, fra queste, la più importante e appassionata è quella con Lina Cristofori Piva, di cui si parla nell’articolo qui sopra. Di idee repubblicane e laico-massoniche, Carducci diventò particolarmente famoso negli anni ’70-’80. La sua cifra letteraria è un impasto di storicismo e di classicismo con una vocazione verso la poesia nazionale. Cambiò alla fine degli anni Settanta il suo orientamento antimonarchico e coltivò un rapporto particolarmente intenso con la Regina Margherita. Nel 1890 venne nominato senatore del Regno. Nel 1904 fu costretto ad abbandonare l’insegnamento per motivi di salute. E nel 1906 l’Accademia di Svezia gli conferì il premio Nobel. Morì nel 1907 di cirrosi epatica: causata da una vita parecchio sopra le righe. Le sue raccolte poetiche più famose sono “Giambi ed Epodi”(1867 – 1879), “Inno a Satana” (1863) “Intermezzo” (1864), “Rime Nuove” (1861 – 1887),“Odi Barbare”(1873 – 1889)e“Rime e Ritmi”che fu l’ultima raccolta composta e forse la più bella. I giudizi della critica nei suoi confronti sono stati molto oscillanti: è stato giudicato da alcuni grande poeta, secondo solo a Foscolo,mentre altri hanno sottolineato le cadute retoriche dei suoi versi.

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riormente; ed ecco è nato per cause estranee, provenienti dal turbamento ecc., è nato un mese avanti di quel che doveva nascere. Ma ora basta non c’è più carta. Amor mio perdonami. Sai che ti amo, oh ti amo: ed ero moltissimo felice che tu fossi madre». E ancora: «Una delle mie infelicità è di non poterlo allevare io quel bambino e mostrarlo a tutti per mio. E ora digli da parte mia tante di quelle cosine che tu sai dire, e chiedi anche a lui perdono da parte mia. E finisci con tanti baci. Povero e caro bambino. Dunque è davvero bellino quel Gino!». Un padre affettuoso, che non nasconde i propri sensi di colpa verso il figlio. E Lina - sembra di capire - s’impegna ad accrescerglieli quando gli racconta che Gino è nato dopo una sua lettera“aspra”.

Nel 1874 proseguono gli incontri fra i due amanti. Lui teme - e lo farà per tutta la durata del rapporto - che lei gli menta. Che sia infedele. La passione del poeta è però ancora vivissima: «Così anche tu, sola creatura a’cui piedi mi sia prostrato, sola creatura alla quale mi sia abbassato, abbassato è vocabolo proprio, non in onta a te, che sei pur sempre te, per quanto tu abbi freddo il core, ma in onta a me, così anche tu mi manchi. E tu lo sai, s’io t’ho amato, se ho delirato, per te; tu lo sai che mi hai tormentato co’tuoi guizzi di pantera... Sto male, ho un caldo orribile: ho troppo sangue e bevo troppo vino... E mi annoio e ruggisco, e vorrei ritrovare la mia pantera». Gelosia e passione, ma anche stanchezza, cenni autobiografici alla giovinezza ormai lontana, mentre la vecchiaia comincia ad essere vista come una realtà: «Il tempo passa. La vita fugge. La gioventù ormai se n’è andata. Amiamo finchè siamo uomini... Addio». E poi arriva lo sconforto: «Sono stanco e annoiato, mi pare d’esser vuoto, e darei tutto per dormire, per dormire molto, sempre, senza sogni, senza freddo: quel che mi spaventa della tomba è il freddo e l’umido». Intanto durante il 1875 crescevano le voci

su possibili scappatelle della bella Lina. I “rivali” del poeta erano almeno due: Ruggero Bonghi, ministro del Regno (“Pancetta” secondo il soprannome che Carducci gli aveva affibbiato), e Filippo Linati, verboso gentiluomo e poeta un po’ridicolo. Giosuè li avrebbe volentieri uccisi «volentieri tutti, senza pensarci su più che tanto, anzi con soddisfazione intima e cordiale». L’anno dopo si susseguono una mezza dozzina di incontri: forse aVerona, poi sul Garda, a Milano, a Modena. La segretezza di questi appuntamenti diventava sempre più indispensabile sia col crescere della fama del poeta sia con il continuo aumento degli impegni. L’amata continuava a spostarsi al seguito del marito generale e toccava una serie di città di provincia: la silente Rovigo, la piccola Chieti sino ad arrivare a Foggia. Carducci si sente sempre più trascurato e nel 1877 scrive: «Io ti ho amato immutato, ti ho amato da vero, profondamente. Tu sei stata unica per me. Io per te sono stato, non so nè meno io che cosa». Si ha l’impressione che Giosuè tema anche di essere stato oggetto della passione di Lina in virtù della sua fama nei salotti ed del suo potere. Nulla comunque a che vedere con il rapporto fra donna e potente di turno a cui assistiamo oggi sotto i cieli d’Italia. Intanto il poeta, un tempo repubblicano e rivoluzionario, conosce il re e soprattutto la consorte, la regina Margherita. Va all’incontro vestito in modo irreprensibile: abito, gilet, cravatta, guanti. Rinuncia al suo passato protestatario e al suo fiocco nero. La regina lo accoglie come una vera fan: «Sono tanto lieta di conoscerla personalmente. Ma del resto è un pezzo che la conosco. Io sono una delle sue più ardenti ammiratrici. Conoscevo le Nuove poesie: ma le Odi barbare! Sono molto difficili, ma io le so a mente sa!». Sull’adesione di Carducci alla monarchie e sulla natura del rapporto con la regina si è a lungo di-

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scettato. Di sicuro sia dell’una che dell’altra cosa scrisse a lungo a Lina. Ne parlò in molte lettere del 1878. Anche se mai trascurò di far pesare che lei non era più quella di un tempo che il suo fu mai, come le spiega la “pantera”. Il poeta avvertiva però la distanza dell’amata se ne doleva: «Oh come sono stracco, come aggravato, come cascante! Come dispiaccio e faccio nausea a me stesso! Come disprezzo sovranamente il mio vigliacco io, che ha tanto mentito, che si è tanto abbassato, che ha tanto ruffianato!». Il distacco fra i due amanti è lento ma inesorabile. Gli incontri sono sempre più rari, sempre meno cercati, sempre meno appassionati. Fu l’ineluttabilità di un trapasso a riavvicinarli per l’ultima volta: Giosuè aveva scritto un’Ode, Ave a seguito della morte, nel gennaio del 1880 di Guido, figlio quindicenne di Lina. Si incontrarono dunque di nuovo, ma in giugno fu la pantera ad avvertire il comune amico Betteloni d’essere “veramente domata” da un

Il distacco fra i due amanti è lento ma inesorabile. Gli incontri sono sempre più rari, meno cercati, sempre meno appassionati. Fino alla malattia della “pantera”, che si trasferisce a Bologna morbo grave che faceva temere per la sua vita. Col marito si trasferì a Bologna e lì rivide ancora una volta Carducci. La prossimità alla fine fece scoppiare fra i due dopo la passione e l’abbandono, una forte amicizia. Un legame talmente intenso che Giosuè andò a vivere in casa di lei. Sino a quando l’amata morì, il 25 febbraio del 1881: aveva poco più di quarant’anni. Giosuè la vide sino alla fine, poi, il 27 partecipò ai suoi funerali. Qualche ora dopo scrisse: «Alle otto e un quarto, ella era separata dal mondo vivente, dall’aria, dal sole. Ma non mai, non mai dal nostro pensiero».


mondo

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Guerra. Una portaerei statunitense arriva nel Mar Giallo e la tensione militare aumenta. Tremano le Borse mondiali

Il ricatto dei due Kim L’attacco contro l’isola della Corea del Sud nella lotta per la successione a Pyongyang di Enrico Singer desso è Pyongyang che accusa la Corea del Sud di avere sparato per prima nel tentativo di giustificare, così, il bombardamento dell’isola di Yeonpyeong. Seoul risponde avvertendo che qualunque altro attacco scatenerà una «reazione immediata e adeguata», mentre nelle strade manifdestanti bruciano bandiere della Corea del Nord. Gli Stati Uniti fanno sapere che un’altra portaerei, la George Washington, è entrata nel Mar Giallo e si unirà alle manovre navali che dovrebbero scoraggiare l’escalation del conflitto. Anche se, dopo i cannoni, a farsi sentire sono più le parole e le mosse tattiche, il rischio di una vera e propria guerra rimane altissimo e pesa anche su tutte le Borse, già in fibrillazione per la crisi dell’euro. Ma, al di là degli ultimi sviluppi di cronaca, una cosa è sicura: i tiri d’artigleria, che hanno fatto quattro morti e decine di feriti tra gli abitanti dell’isola, non sono stati una semplice scaramuccia, come quelle avvenute negli ultimi anni fra le due Coree.

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Sono stati un’azione militare ancora più grave dello stesso affondamento della corvetta sudcoreana Cheonan, avvenuto il 26 marzo scorso, in cui morirono 46 dei 104 marinai che erano a bordo. Il bombardamento di Yeonpyeong è un salto di qualità allarmante: è la

Jong-il e il suo delfino e terzogenito, Kim Jong-un - in una congiuntura economica che è molto difficile. Come è già successo nelle fasi di transizione al vertice di un regime che fonda la sua esistenza sulla missione della riconquista - o della “liberazione”, secondo la propagan-

Il governo cinese ha la chiave per evitare un conflitto aperto. Ma Pechino non ha ancora scelto tra l’ingresso nel “salotto buono” dei Grandi del mondo e il tradizionale richiamo dei blocchi prima aggressione contro la popolazione civile dal 1987 e il primo attacco armato al territorio del Sud dalla fine della guerra di Corea, nel 1953.

C’è da chiedersi, allora, perché il regime di Pyongyang - e chi, in particolare, al suo interno - abbia ordinato il cannoneggiamento. Le ragioni possono essere più profonde di quello che si pensa: la Corea del Nord sta affrontando il processo di successione tra i due Kim - l’attuale presidente, Kim

da - del Sud della penisola, è nella logica della lotta politica innalzare il livello dello scontro nei confronti del “nemico esterno”: che si tratti di Seoul o di Washington. Quando, nel 1994, Kim Jong-il prese il posto di suo padre, Kim Il-sung, lo storico dittatore della Corea comunista, uno dei suoi primi gesti fu il lancio del Tapedong, un missile che divenne il simbolo della potenza della nuova leadership. Non bisogna mai dimenticare che a Pyongyang il potere si basa sulla forza dell’e-

sercito di cui il presidente è, non solo formalmente, il comandante supremo. E non è certo un caso che Kim Jong-il, per designare suo erede il ventottenne Kim Jong-un, lo abbia nominato vicepresidente della “Commissione militare centrale” del Paese, vera anticamera del trono.

Non è da escludere che nella transizione ormai avviata ci sia anche un dissidio tra i poteri all’interno della leadership militare e poltica del regime. Du-

rante il passaggio tra Kim Ilsung e Kim Jong-il, a metà degli Anni Novanta, ci fu un fenomeno simile accompagnato da massicce purghe nell’establishment delle forze armate, cosa che potrebbe avere spinto alcuni a ritenere che un lampo di guerra come quello fatto esplodere adesso sull’isola di Yeonpyeong fosse un gesto utile da giocare nel nuovo risiko del potere che è in corso. L’ex presidente americano Jimmy Carter, che è stato a Pyongyang nell’agosto scorso nelle vesti

L’ex ambasciatore Usa all’Onu: «È necessario compiere seri tentativi con la Cina per realizzare l’unità della penisola coreana»

Non serve il disarmo, ma la riunificazione di John R. Bolton orprendente» è il modo in cui Siegfried Hecker, ex direttore del Laboratorio Nazionale di Los Alamos, ha descritto il nuovo stabilimento di arricchimento dell’uranio della Corea del Nord. Non solo è più sofisticato ed esteso di quanto si pensasse, ma è assolutamente coerente con i 15 anni di sostenuti sforzi da parte della Repubblica Democratica Popolare della Corea atti a perfezionare il proprio programma di armamenti nucleari.

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I media riportano infatti di un nuovo stabilimento per l’arricchimento dell’uranio emerso nel febbraio 2009. Appena una settimana prima della dichiarazione di Hecker, inoltre, la Corea del Nord confermò che stava costruendo un reat-

tore nucleare più grande a Yongbyon. Il precedente tentativo di Pyongyang (in Siria) di sostituire il reattore esistente ma ormai vecchio è stato vanificato dal bombardamento da parte di Israele nel

coloro che sono ancora incantanti dal mito di una Corea del Nord che negozierà spontaneamente per rinunciare ai propri armamenti nucleari. Sebbene la nostra intelligenza possa essere fallace,

Sono anni ormai che Kim Jong-il prende in giro Washington. L’ultima cosa che la Casa Bianca dovrebbe fare è resuscitare i falliti “Colloqui a Sei” o avviare trattative bilaterali con il Nord settembre 2007. Il ministro della difesa di Seoul è talmente preoccupato che per la prima volta in vent’anni ha suggerito di dispiegare armi nucleari tattiche statunitensi nella Corea del Nord. La misura e la portata delle attrezzature appena emerse della Corea del Nord, tuttavia non sorprenderà nessuno all’infuori di

Pyongyang quasi certamente ha intrapreso l’arricchimento illecito dell’uranio anche prima che si asciugasse l’inchiostro sul lodato accordo Agreed Framework del 1994 dell’amministrazione Clinton. L’accordo era uno dei tanti impegni della Corea del Nord di denuclearizzarsi in cambio di tangibili benefici

dal resto del mondo - ognuno dei quali è stato violato da Pyongyang. Il Nord starà ancora una volta mettendo alla prova la pazienza strategica dell’America. Dobbiamo evitare di ripetere gli ultimi errori. Dopo la dichiarazione unanime da parte delle agenzie di intelligence americane a metà del 2002 secondo cui Pyongyang stava preparando un programma di arricchimento a portata industriale, l’amministrazione Bush decise di affrontare il Nord. In un incontro-chiave nell’ottobre del 2002, il Nord sfrontatamente ammise di essere impegnato nell’arricchimento. Purtroppo, la risposta statunitense fu di lanciare sfortunate trattative note come i Colloqui a Sei, che coprivano i continui progressi del Nord negli armamenti nucleari. Quel che è peggio è che nel secondo


mondo

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l’altra partita della Corea del Nord - non meno dura - è quella con la Cina, la sua tradizionale sponda ideologica, economica e militare, che da tempo, però, è impegnata nella rincorsa al salotto buono dei Grandi e

ché teme che un collasso del regime nordcoreano potrebbe mettere il governo di Seoul - già suo concorrente nella competizione delle “tigri asiatiche” - in una posizione di primato strategico, portando il più fedele allea-

Secondo l’ex presidente Carter «è probabile che l’annuncio della realizzazione di una centrale atomica e l’attacco contro l’isola siano stati pensati per ricordare a tutti che il regime merita rispetto» informali del mediatore, la pensa proprio così. «Nessuno può comprendere totalmente le motivazioni delle azioni nordcoreane - ha scritto in un articolo pubblicato ieri - ma è probabile che l’annuncio della realizzazione di una nuova centrale atomica e l’attacco contro l’isola sudcoreana siano stati pensati per ricordare al mondo intero che il regime merita di essere rispettato». Un messaggio, insomma, diretto verso nemici e amici, a partire dalla Cina. Altro che rilancio dei Six Party

Talks e rimozione dalla lista americana dei “Paesi canaglia”. La Corea del Nord - o, almeno, una parte della sua dirigenza ha deciso di mostrare di nuovo il suo volto aggressivo in un momento in cui Seoul e Pyongyang sembravano addirittura sul punto di scambiarsi osservatori della Croce Rossa Internazionale.

Non solo: l’attacco di martedì è arrivato - come già è stato scritto - dopo la scoperta di un nuovo impianto di arricchi-

mento di uranio che le stesse autorità di Pyongyang hanno volontariamente mostrato a uno scienziato americano. Anche questa è stata una provocazione, l’ennesimo messaggio lanciato a Washington che è stata costretta a fare i conti con i test nucleari nordcoreani dell’ottobre 2006 e del maggio 2009. Per Obama uno schiaffo in più perché appena due giorni prima Stephen Bosworth, l’emissario della Casa Bianca per il dossier del nucleare coreano, aveva visitato Pyongyang. Ma

che si sta riposizionando rispetto al vecchio e scomodo alleato nordcoreano diventato una specie di spina nel fianco per la nuova, spregiudicata politica di Pechino.

Da una parte, la Cina è frustrata dal sabotaggio che Pyongyang mette in atto, con le parole e con i fatti, per silurare le iniziative diplomatiche che tendono alla denuclearizzazione della penisola coreana. Dall’altra, Pechino è comunque costretta a sostenere Pyongyang per-

arricchimento, Pyongyang stava semplicemente portando alla luce un’attività avviata 15 anni prima. Il Nord era riuscito ancora una volta a prendersi gioco di Washington. Dobbiamo evitare di ripetere questi gravi errori, non solo riguardo alla Corea del Nord ma anche riguardo all’Iran, il cui coinvolgimento con Pyongyang sui missili balistici e probabilmente sul nucleare è di vecchia data. Esistono sostanziali motivi di preoccupazione che le capacità di Teheran e la sua inclinazione a cooperare con il Nord oltrepassi le stime dell’intelligence statunitense.

Il lancio di un missile a testata nucleare da una base nordcoreana. In alto il “delfino” del dittatore Kim Jong-il, il terzogenito Kim Jong-un A destra l’esercito del regime, che nel Paese ha più di 3 milioni di soldati mandato di Bush un agguerrito gruppo di rinnegatori all’interno del Dipartimento di Stato e della comunità di intelligence affermò o implicò che la Corea del Nord non aveva un programma, sostanziale o in corso, di arricchimento dell’uranio.Tutto questo avvenne per sostenere le trattative, sperando che

Pyongyang si impegnasse ancora a denuclearizzarsi. Tuttavia rinnegare e minimizzare la minaccia dell’arricchimento per buona parte dell’ultimo decennio ha superato la realtà. Quando la Corea del Nord annunciò, dopo la sua seconda detonazione nucleare nel maggio 2009, che stava “iniziando” un programma di

Inoltre, la rotazione dei settori di intelligence che si occupano della Corea del Nord negli ultimi anni porta un’inquietante somiglianza al notoriamente distorto rapporto National Intelligence Estimate del 2007 sul programma nucleare dell’Iran. Questa politicizzazione dell’intelligence fornisce una chiara base per indagini prioritarie da parte del subentrante Congresso. Inoltre, le capacità appena emerse della Corea del Nord dovrebbero suggerire al Senato una pausa prima che soccomba alla pressione del presidente Obama di ratificare il trattato per il controllo degli ar-

to di Washington a ridosso dei confini cinesi. Oggi i destini della pace nella penisola coreana dipendono molto più dalla Cina che da qualsiasi altro attore regionale, compreso il Giappone l’altro grande alleato degli Stati Uniti - che in queste ore sta cercando di far sentire la sua voce. La speranza dell’Occidente è che Pechino preferisca la sua lunga marcia verso l’integrazione nel G20 e nel Wto all’antico richiamo dei blocchi. Ma la partita è ancora aperta. E Pyongyang sta giocando tutte le sue carte.

mamenti, il New Start, che è miope nel concentrarsi solo sull’eguaglianza con la Russia, perché Washington ha responsabilità mondiali molto più ampie nei confronti di quei Paesi amici e alleati sotto il nostro ombrello nucleare rispetto a quante ne abbia Mosca. Allo stesso modo sono pericolose le crescenti capacità strategiche nucleari della Cina. A questa lista aggiungiamo l’inevitabile proliferazione del Medioriente nel caso in cui l’Iran ottenesse armi nucleari e l’eventualità che Paesi lontani come Venezuela e Myanmar possano intraprendere programmi di armamenti nucleari. Questo non è certo il momento giusto per limitare l’arsenale nucleare americano, anche solo con un trattato come il New Start. L’ultima cosa che Washington dovrebbe fare è resuscitare i falliti Colloqui a Sei o avviare trattative bilaterali con il Nord. Piuttosto, è necessario compiere seri tentativi con la Cina per riunificare la penisola coreana, un obiettivo reso ancora più urgente dalla chiara transizione di potere attualmente in corso a Pyongyang mentre Kim Jong II va incontro ai tavoli di negoziati. La minaccia della Corea del Nord avrà fine solo quando finirà e questo giorno non potrà arrivare abbastanza presto.


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Diplomazia. Il piccolo Stato africano era strategico per gli ayatollah e sanzioni dell’Onu sono state inutili». È una dichiarazione poco sostenibile quella di Mojtaba Samareh Hashemi, vice ministro dell’interno del governo iraniano. Ieri infatti, mentre usciva l’intervista al Washington Post di questo esponente del regime, il governo del Gambia rendeva nota l’intenzione di rompere i rapporti diplomatici e commerciali con l’Iran. Fino a poco tempo fa, il piccolo stato dell’Africa occidentale era considerato un partner strategico per gli investimenti dell’Iran nel continente. La sua posizione geografica e le sue condizioni culturali ne avevano fatto per Teheran un obiettivo essenziale dei propri interessi oltrefrontiera. Del resto, la presenza sciita in quella punta di Africa – circondata dal Senegal sunnita – non è mai stato monopolio iraniano. Da decenni la comunità libanese, quindi vicina a Hezbollah, sta cercando di attecchire nella zona. L’arretratezza economica ha fatto del Paese un terreno fertile dove introdurre qualunque tipologia di prodotto industriale e di know how tecnologico. Lo stesso presidente Ahmadinejad si è recato due volte in visita nel Paese. La prima è stato nel 2006, la seconda l’anno scorso. Il capo dello Stato gambiano,Yahya Jammeh, ha ricambiato l’ospitalità effettuando un viaggio ufficiale nella capitale iraniana. Ieri le autorità iraniane hanno cercato di tenere coperta la rottura voluta dal governo di Banjul. Il tentativo è apparso inutile. L’interruzione dei rapporti, infatti, non cade come un fulmine a ciel sereno. Il primo elemento al quale si può ricollegare è il cosiddetto Nigeriagate. All’inizio della settimana, quest’altro Paese africano ha sequestra-

«L

Il Gambia rompe i ponti con Teheran Il regime tuona: «Le sanzioni? Inutili» Ma i vecchi alleati iniziano a defilarsi di Antonio Picasso

Nazioni Unite. Petrolio in cambio di nucleare. Che poi si tratti di un arsenale militare e non solo di energia questo è un discorso a parte. Teheran è alla ricerca di un appoggio diplomatico non qualitativamente di livello, bensì quantitativamente importante. I Paesi africani di per se stessi, contro il 5+1 (i membri permanenti del

Sembra svanire il sogno di Ahmadinejad: creare una nuova alleanza di “non allineati” per contrastare Stati Uniti e Unione europea to un carico di armi, ritenuto di provenienza iraniana e, forse, indirizzato allo stesso Gambia, oppure a gruppi di ribelli filo-sciiti operativi nell’Africa sub-sahariana.

La strategia dell’Iran in Africa corre su due binari: la via diplomatica e quella operativa. Forte della sua potenza in campo petrolifero, il regime degli ayatollah sta lavorando per la creazione di un blocco di Paesi non allineati da schierare contro i suoi avversari in seno alle

Consiglio di sicurezza, oltre alla Germania), non possono far nulla. Tuttavia una quarantina di voti sostegno dell’Iran nell’Assemblea Generale non potrebbero essere ignorati. L’idea è quella di rispolverare il discorso – a onor del vero inflazionato – dei Paesi arretrati vittime del mondo industrializzato. Quest’ultimo, imponendo le sue sanzioni al nucleare iraniano, non farebbe altro che mettersi di traverso al progresso di tutti i Paesi in via di sviluppo. Sul fronte ope-

Non si contano i miliardi investiti nel Continente Nero

La rete iraniana in Africa Sono quaranta i Paesi africani che hanno rapporti economici e commerciali con l’Iran. Teheran è penetrata nel continente prima cercando l’aggancio con i fratelli islamici, poi ha saputo stendere una rete che supera le barriere della confessione religiosa. Tuttavia, il Nord Africa è quasi tabù per gli ayatollah. Egitto e Marocco, alleati dell’Occidente, rappresentano due ostacoli non indifferenti. L’Africa sub-sahariana si è dimostrata altrettanto difficile da conquistare. Il mondo sunnita, è noto, non gradisce condividere lo stesso tetto con gli sciiti. Peraltro nelle aree dove è rilevante la presenza di al-Qaeda (Maghreb e Sahel), l’Iran si è vista osteggiata anche da nemici non convenzionali. Diverso è il caso del Sudan.

Karthoum e Teheran si sono trovate in sintonia nel condividere gli stessi interessi per le rispettive risorse petrolifere.Tant’è che oggi il Sudan è il primo importatore africano di prodotti iraniani. Nella fattispecie, la Cina ha mediato, ovviamente a proprio vantaggio. Complessivamente, non si ha una stima dei miliardi di dollari che l’Iran ha investito in Africa. È intuibile la loro forte presenza, però, osservando i settori interessati. A metà settembre, la capitale iraniana ha ospitato il summit Iran-Africa (automobile, energia elettrica, idrocarburi e armi). L’evento ufficialmente è stato organizzato per promuovere «la fratellanza e la dignità di tutte le nazioni africane e del mio Paese di fronte al mondo». Parola di Ahmadinejad.

rativo, è una caratteristica di Teheran quella di mantenere instabili alcuni punti di crisi nel mondo, alimentando i focolai di tensione. È per questo che il regime sostiene Hamas a Gaza, Hezbollah in Libano e gli sciiti nella penisola arabica. L’idea ha avuto anche un seguito. Visto che Teheran è riuscita a firmare accordi commerciali e di partnership con appunto quaranta Paesi africani. Il lato debole sta nel tornaconto sperato da tutto il continente. Per quanto paradossale possa sembrare, l’Unione africana ha una sua strategia. Ed è quella di firmare accordi e contratti con tutti coloro che le possono garantire entrature economiche.

Gli esempi di Cina, India e Indonesia sono sotto gli occhi di tutti. Le grandi potenze asiatiche stanno facendo man bassa delle risorse in Africa con il nullaosta dei governi locali. Come? Lubrificando sistematicamente gli interlocutori politici e surclassando la concorrenza occidentale. Il tutto a spese delle popolazioni sfruttate da questo nuovo colonialismo. Teheran avrebbe voluto e potuto partecipare a questa corsa all’oro del Terzo millennio, se solo ne avesse avuti gli strumenti. Questi sono venuti a mancare con le sanzioni. L’Iran, in questo momento, si trova invischiata in una crisi finanziaria senza precedenti. Disoccupazione e inflazione sono entrambi oltre il 10% su base annua. Le politiche irresponsabili di welfare paternalistico promosse da Ahmadinejad hanno prosciugato il tesoro pubblico. All’inizio del 2010, si è stimato un deficit di 6 miliardi di dollari. La mancanza di una tecnologia di settore di buon livello – l’Iran non ha raffinerie – non permette l’esportazione di derivati del petrolio. Ed è impensabile che vada a vendere greggio in Africa. Per farne cosa? Il continente ha percepito che dall’Iran non potranno giungere quei capitali promessi. Di conseguenza, lentamente si sta allineando alla comunità internazionale. I governi africani preferiscono confrontarsi con Pechino, Delhi ed eventualmente Parigi e Washington. Insomma, con quegli interlocutori che più facili allo sfruttamento, fornendo poco in cambio.Tuttavia, è meglio sottostare a governi forti e ricchi, piuttosto che affiancare Paesi ostracizzati dall’Onu e ispirati da un’ideologia di non allineamento che, già in passato, non ha avuto successo.


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Il titolare delle minoranze si è espresso a favore della donna

Sepolti da più di una settimana, vengono travolti da un’esplosione

Asia Bibi, minacciato il ministro competente

Nuova Zelanda in lutto, tutti morti i 29 minatori

ISLAMABAD. I partiti religiosi pakistani hanno attaccato pesantemente il governo guidato dal Ppp, e in particolare il governatore del Punjab, Salman Taseer, per i loro tentativi “anti islamici” di ottenere la grazia e l’esilio negli Stati Uniti per Asia Bibi. Hanno chiesto l’immediata destituzione di Taseer da governatore e la sua punizione. Varie organizzazioni islamiche hanno inscenato proteste e raduni per condannare il governo e la “lobby secolarista” del paese, e hanno accusato Taseer di far parte della “cospirazione internazionale” che vuole modificare la legge sulla blasfemia. Ameer Syed Munawar Hasan indirizzandosi a un raduno della Jamaat e Islami ha detto che il governo e Taseer stavano cercando di ottenere la liberazione della donna cristiana condannata e mandarla all’estero in violazione della legge islamica e di quella del Paese, in connivenza con potenze straniere, invece di seguire la procedura facendo appello contro la sentenza di morte.

W ELLINGTON . Una nuova esplosione nella notte, molto più forte della prima, e la Nuova Zelanda è entrata in lutto: non c’è più speranza di trovare vivi i minatori intrappolati da venerdì scorso. Nella miniera si è registrata una seconda deflagrazione sotterranea di gas metano e il responsabile dei soccorsi ha annunciato che nessuno è sopravvissuto: «Iniziamo ora la fase di recupero dei corpi». L’annuncio ha scatenato le lacrime, ma anche la rabbia dei familiari da giorni in attesa: qualcuno ha cominciato a gridare, altri si sono buttati a terra, sono volati anche insulti alle autorità che hanno impedito fino all’ultimo alle squadre di

Ha anche detto che questa campagna sarebbe “il chiodo definitivo” sulla bara del governo di Zardari, dal momento che il Paese si ribellerà contro i tentativi di abolire la legge sulla blasfemia. Un’altra organizza-

Afghanistan, è caos sui risultati del voto La Procura sospende i capi del processo elettorale di Laura Giannone rande confusione sull’esito delle elezioni afgane. Nel giorno in cui vengono annunciati i risultati definitivi del voto del 18 settembre e resa nota la lista dei 249 deputati della Wolesi Jirga eletti nel voto del 18 settembre scorso, il procuratore generale sospende i due massimi responsabili del processo elettorale: il capo della Commissione elettorale indipendente, Fazil Ahmad Manawi (Iec) e il capo della Commissione ricorsi elettorali (Ecc), entrambi per aver rilasciato «incaute» dichiarazioni alla stampa e «aver agito contro la legge e contro gli interessi della nazione». I responsabili, però, non ne vogliono sapere e hanno già comunicato di avere tutta l’intenzione di restare al loro posto dopo l’annuncio dei risultati del voto, contrassegnato dall’annullamento dell’elezione di 24 candidati, già proclamati vincitori. Il procuratore generale Muhammad Ishaq Alako ha fatto l’annuncio in televisione, al termine di due mesi di indagini sulle irregolarità dell’intero processo elettorale: «Le decisioni sulle elezioni afgane sono state prese a Dubai e nelle borse estere di Kabul», ha denunciato Alako, alludendo al fatto che le elezioni sono state comprate e vendute da influenti personalità afgane che tengono il loro denaro a Dubai. «Ho le prove e i documenti e continuerò le indagini. Se queste non dovessero essere consentite, mi dimetterò», ha concluso il procuratore. Di più: il procuratore ha detto anche di avere ricevuto numerose denunce riguardanti il metodo di lavoro dei due organismi. L’accusa, dunque, è punto pesante.

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delle carte a loro disposizione. Diciamolo subito: in assenza di partiti politici tradizionalmente strutturati, l’assemblea che sembra emergere dallo spoglio, vede entrare nella Wolesi Jirga nazionale numerosi signori della guerra, tecnocrati e notabili di varia provenienza. Che inevitabilmente sono espressione dei poteri più diversi, vista anche la frammentazione politica di tutto il territorio.

D’altronde, i poteri del parlamento afgano sono piuttosto limitati, non tali comunque da poter arginare - almeno al momento - la grande influenza del presidente, Hamid Karzai. Che fin dall’inizio governa meglio il Paese con la grande frammentazione in nome del sempreverde detto latino: dividi et impera. Qualche preoccupazione, però, questa volta potrebbe arrivargli dal suo avversario di sempre: Abdullah Abdullah, che risultati alla mano ha rivendicato la conquista di circa un terzo dei seggi nel nuovo parlamento: più o meno 90 deputati. Benché contrassegnato da brogli diffusi e dall’annullamento di almeno un quarto delle schede, i risultati, comunque, riguardano tutte le 34 province, esclusa quella di Ghazni, dove si sono verificati troppi problemi: seggi chiusi, affluenza quasi inesistente, episodi di corruzione. E benché dall’area dovessero uscire ben 11 deputati, è probabile che questo non avverrà mai, visto che secondo i dati forniti dalle autorità locali, è parso “poco plausibile”che tutti e undici i deputati appartenessero a un’unica tribù, quella degli Hazara. Con l’ufficializzazione dei risultati di ieri, un centinaio di candidati al voto sono scesi in piazza a Kabul per protestare contro le irregolarità. «Crediamo che il voto della nazione afgana sia stato rubato. Siamo riuniti qui per contestarlo», ha spiegato Najibullah Mujahed, che non è riuscito ad aggiudicarsi un seggio. La commissione elettorale indipendente ha ricevuto oltre cinquemila denunce per frode elettorale, di cui 2.500 sono state giudicate «serie».

L’accusa: vera e propria compravendita dei seggi, decisi nelle banche di Dubai e nella Borsa di Kabul. Centinaia in piazza

zione, Aalmi Tanzim Ahle Sunnat, ha inscenato una dimostrazione davanti al Club della stampa di Lahore, per condannare una “cospirazione” diretta a modificare la legge sulla blasfemia e a garantire l’esilio a una persona condannata per questo delitto. Anche in questo caso Taseer è stato attaccato duramente. Il capo di Atas, Pir Afzal Qadri e altri con lui negano che la legge sulla blasfemia sia stata creata dal generale Zia-ul-Haq, sostenendo invece che è stata creata dal profeta Maometto e dai Califfi e da quanti lo hanno seguito per secoli. E ieri il ministro per le minoranze Shahbaz Bhatti ha visto il presidente Zardari.

Benché, e questo va detto, è impossibile per chiunque conosca la situazione afgana immaginare un processo elettorale scevro da trattative segrete e compravendita dei voti. Insomma, il procuratore o ha teso una trappola senza precedenti, oppure risponde a qualche logica di potere. Di certo, anche i due massimi responsabili del processo elettorale avranno

soccorso di entrare in miniera proprio per il rischio dei gas tossici e delle esplosioni. Nessun contatto si era riuscito a stabilire con i ventinove minatori dopo il drammatico incidente di venerdì scorso nella miniera di carbone di Pike River, situata sulla costa occidentale della South Island.

D i f f i c i l i i s o c c o r s i : nelle ultime ore si era riusciti ad aprire un piccolo tunnel fino alla galleria, ma quando era stata analizzata l’aria, gli esperti avevano trovato una quantità eccessiva di monossido di carbonio e gas metano, e scarsità di ossigeno. Le vittime, di età fra 17 e 62 anni, sono 24 neozelandesi due australiani, due britannici e due sudafricani. Subito dopo la prima esplosione, due minatori erano riusciti ad uscire dalla miniera ed a mettersi in salvo. Il premier John Key in una conferenza stampa ha parlato di “tragedia nazionale”: «La Nuova Zelanda - ha detto - è un Paese piccolo, in cui ognuno si prende cura dei suoi fratelli, quindi perdere tanti fratelli in una volta è una ferita lancinante».


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grandangolo La crisi irlandese vista dell’economista Paolo Savona

«Sì, l’Europa rischia. La salverà solo l’unione politica» «Angela Merkel,Van Rompuy e i capi di Stato parlano troppo: è da irresponsabili farlo con i mercati così turbolenti come lo sono in questo periodo. L’unico risultato è accelerare l’attacco alle monete. Il mio consiglio è che si mettano attorno a un tavolo, lavorino per una soluzione e ce la dicano solo quando l’hanno trovata» di Francesco Pacifico

ROMA. Ieri l’Irlanda ha svelato il suo piano di risanamento da 15 miliardi e presentato un conto salato tra licenziamenti degli statali e introduzioni di patrimoniali. Paolo Savona, economista che nel suo curriculum può vantare ruoli di primo piano a livello governativo come in ambito finanziaria, si chiede «perché, se tutti sappiamo che il problema è di debito pubblico, allora non si riconosce che il rigore non si può soltanto tramutare in tasse e tagli di spesa. Non fosse altro perché si crea deflazione e disoccupazione che le popolazioni oggi farebbero fatica ad accettare». La Merkel, invece, pretende di «limitare il mercato». Consiglierei alla cancelliere tedesca come al presidente Van Rompuy che i capi di Stato stanno parlando troppo. È da irresponsabili farlo quando i mercati soprattutto quando i mercati sono aperti. L’unico risultato è quello di accelerare l’attacco alle monete. Professore, che cosa consiglia a questi politici che hanno dimostrato di aver perso la bussola? Si mettono attorno a un tavolo, lavorino per trovare una soluzione per l’Europa e ce la comunichino solamente quando hanno raggiunto un’intesa. È da due anni che ci stanno provando. Ma senza risultati concreti. Non ci sono riusciti perché invece dell’unione politica, cercano di fare l’unione delle regole. E questo richiede tante mediazioni, molto tempo e, so-

prattutto, troppe regole. Intanto si specula sull’euro, e dall’Irlanda si assottiglia la distanza verso il Portogallo o la Spagna. Il mercato ha capito che la moneta – e rivendico l’espressione – è senza scettro e senza spada. Dietro di lei non c’è un momento di governo unitario né degli strumenti difensivi. Un tempo le monete le si proteggeva anche con il deterrente militare, ma anche se le cose sono cambiate, sono queste le condizioni per stabilizzare i cambi. Un tempo il tema, parlare di economia e politica, era tabù.

«Il mercato ha capito che la moneta è senza scettro né spada. Dietro di lei non c’è un momento di governo unitario» Prima della crisi non si poteva discutere di assetto finanziario sotto la chiave politica. Nella parola dell’euro il momento di svolta è arrivato con la bocciatura della Costituzione europea messa a punto da Giuliano Amato e Valerie Gi-

scard d’Estaing: un testo molto complicato, non esente da eccessivi compromessi rispetto alle posizioni nazionali. Ma al suo interno c’erano le misure e principi dei quali necessitavano sia la moneta per ampliare la sua stabilità sia l’Europa per crescere come leader globale. Il mercato però non perdona e approfitta di ogni difficoltà. Quando parte, la speculazione raggiunge sempre i suoi risultati. Tentare di interferire con i meccanismi alla base del funzionamento del mercati è di quelle idee socialiste che non hanno mai funzionato. Veramente lo dice la cristianodemocratica Angela Merkel. Pensa al suo elettorato. Questo è il male, il vizio di fondo della politica. Non abbiamo più leader che abbiano il coraggio di fare strappi rispetto ai desiderata dei propri elettori. Quando ci si siede ai tavoli più importanti, non lo si fa per trovare una soluzione, ma per dimostrare che si sa come restare a galla. Berlino difende le sue banche, di fronte alle quali cade ogni intento rigoristico. Nel consenso a partecipare al salvataggio irlandese si nota il peso delle esposi-

zioni delle banche tedesche verso Dublino. Ma non mi soffermerei su un singolo Paese, visto che questo comportamento è piuttosto omogeneo in Europa. Il problema della finanza, da sempre, è affidarsi al denaro pubblico nei momenti peggiori. La conseguenza? Non si possono far fallire le banche altrimenti pagano i più poveri – non certo i più ricchi – con i loro conti corrente. E non si possono far fallire le aziende perché emettono azioni e bond, quindi il contagio sarebbe più invasivo. Come sta accadendo anche questa volta, si trasferiscono gli errori del privato al settore pubblico. Finora non è bastato muoversi in questa direzione. Non è vero. Siamo passati attraverso una delle peggiori congiunture della storia, stavamo sul baratro e ora non lo siamo più. Detto questo, ha sbagliato chi ha escluso che le nuove authorities o il fondo salvacrisi avrebbero evitato che la crisi si trasferisse suoi Paesi più deboli. Quelli che hanno praticato, nel plauso generale, politiche di bassi interessi. È mancata la vigilanza? È mancata proprio l’Europa; che ha fallito sul versante dell’armonizzazione fi-


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Standard and Poor declassa l’Irlanda: i mercati sono ancora in fermento

La difesa dell’Euro adesso è affidata alla “strana coppia” Draghi-Merkel di Gianfranco Polillo esisterà l’euro all’aggressione all’arma bianca della grande speculazione internazionale? Guardare alle borse serve a poco. Il loro nervosismo ormai è sistemico. Analogo l’andamento degli spread (la differenza d’interessi nei confronti del bund tedesco): con Irlanda in fuga, dopo il declassamento decretato da Standard and Poor inseguita, seppure a diverse lunghezze, da Spagna e Portogallo (che manifesta contro la finanziaria decisa dal Governo). Stabili invece le quotazioni italiane. Si vive, pertanto, nell’incertezza e nell’attesa e con un filo di speranza: che tutto alla fine si risolva. Nel frattempo grande attenzione a ciò che si muove. Bisognerebbe essere profeti per anticipare il giorno dopo. Tanta incertezza nasce da un’attenta ricognizione delle forze in campo. Da un lato alcuni Governi, con il sostegno della Bce. Dall’altro i grandi santuari dell’intermediazione finanziaria: broker, hedge fund, fondi pensione, banche d’affari, comprese quelle «troppo grandi per fallire» divenute, nel frattempo, ancora più grandi. Si trattasse solo di questo, saremmo più tranquilli. L’incognita vera è la Fed: la banca centrale americana. È la sua politica che sconcerta. L’azione di quantitative easing – 600 miliardi di dollari in più gettati sul mercato – seppure impostata a fin di bene (il rilancio dell’economia americana), rischia di rifornire il grande esercito della speculazione internazionale. L’eccesso di liquidità, che la manovra comporta, fornisce armi e munizioni per intensificare gli attacchi contro i punti più deboli della situazione internazionale.

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scale. Nell’illusione che si abbassasse la pressione, si è finito soltanto per divaricarla come successo in Irlanda. Non si può dire allora che non esistano strumenti e regole contro la crisi. Certo, ma sono inefficaci. L’insistenza con la quale si bombarda sul tasto delle regole vuol dire che dietro questi processi non c’è un vero potere. Non esiste una leadership. Una volta, nell’area occidentale, questa era esercitata dagli Stati Uniti. Oggi, invece, la Cina è trop-

«Il problema della finanza, da sempre, è quello di volersi affidare al denaro pubblico nei suoi momenti peggiori» po giovane per rivendicare questo ruolo, gli Usa hanno problemi strutturali da affrontare e L’Europa non si vuole dare dei leader. Se poi le riforme calano dall’alto. Non parlerei di problemi di democrazia. Oggi i governi devono conquistare il consenso dell’elettorato anche prima di fare proposte. E non sempre questo è un bene. L’euro intanto, e nonostante le norme e i fondi straordinari, resta debole. Il che non si significa che sia morto. La mia personale opinione è che c’è un’unica strada maestra da seguire: fai l’unione politica, mette le sorti in comune, così quando il mercato attacca l’Irlanda è come se colpisse anche la Germania. Rispetto ai suoi colleghi è ottimista sul futuro della moneta. Chiariamo, se non si rimette mano al-

l’architettura della moneta, non dobbiamo escludere alcuna ipotesi. E mi sembra che i Paesi dell’area si preparino a ogni eventualità. Cosa accadrebbe all’Italia? Attraverserebbe una crisi gravissima, ma salutare. Personalmente sono più ottimista di chi la governa e della sua classe imprenditoriale. Crollerebbe l’inflazione con non pochi benefici sulla gestione del debito, mentre le svalutazioni competitive accelererebbero l’export. Solo vantaggi? Ma accanto a tutto questo ci sarebbero problemi di ridistribuzione. Perché da che mondo è mondo questi eventi vengono sempre pagati dai più poveri. Non dico che bello, prepariamoci al peggio. Non lo auspico, ma la mia è una diagnosi e come tale spero sia sbagliata. Ma se invece si frenano le banche come vuole Berlino? Ancora, ma che torto hanno le istituzioni finanziarie se all’euro non è stato dato né scettro né spada. Eppoi questa è una soluzione ancora peggiore del male. Qual è la strada? Se l’oggetto del contendere è far funzionare appieno il mercato oppure porre paletti, rispondo come Guido Carli: non essendo disposti a prendere la temperatura alla crisi, meglio spaccare il termometro. Certo il mercato fa i propri interessi, dai quali personalmente mi sono sempre tenuto lontano, ma la via opposta è peggiore: cadere nell’intreccio tra politica e interessi costituiti. E il compito della politica? Il mercato ci serve, l’intervento pubblico idem. Il compito di chi ci governa è tenere assieme questi due livelli senza pericolose e dannose sovrapposizioni. Che almeno, come chiede la Merkel, che gli speculatori si prendano in carico un po’ dei debiti che hanno fatto generare. Anche le direttive europee vanno in questa direzione, ma il tentativo di spostare i prestatori di ultima istanza sulle spalle dei privati è illusoria perché i privati hanno spalle deboli.

Nelle scorse settimane, bersagli preferiti erano le monete delle nuove potenze emergenti: Cina, India e Brasile. Fiumi di hot money (moneta calda) si sono riversati in quelle terre nella speranza di acquistare gli asset (azioni, obbligazioni, terreni e via dicendo) che garantiscono rendimenti maggiori, rispetto ai costi sostenuti (tasso zero) per prendere a prestito il denaro necessario. La cosa ha imbarazzato non poco quei Governi, costringendoli a correre ai ripari. Imposte sugli afflussi di capitale, congelamento dell’eccesso di liquidità interna, stretta nel credito: sono stati que-

sti gli strumenti utilizzatiti in prevalenza, con l’obiettivo di contenere i sintomi dell’incipiente inflazione. In Cina, specialmente, i prezzi dei prodotti alimentari aumentano giorno per giorno, determinando un crescente malcontento nella popolazione che mette a rischio il controllo granito del partito comunista su quello che fu il Celeste impero. In Thailandia dazi d’importazione del 15 per cento, per frenare l’inondazione di dollari. In India e Brasile, più o meno, le stesse scelte. Quali le conseguenze sul mercato?

Se si chiude una porta deve aprirsi un portone: questo è il meccanismo che regola il gioco della grande speculazione. L’eccesso di liquidità deve, infatti, trovare alla fine un porto dove potersi scaricare. Ecco allora che l’euro diventa un possibile bersaglio. Basta vendere a termine e garantire il contratto con un deposito in dollari. Alla scadenza si pagherà o s’incasserà solo la differenza tra il prezzo di vendita, oggi più alto, e quello che sarà. Se s’individua la mossa è come fare tredici al totocalcio. Che si può fare per ridurre il rischio? Accelerare la riforma indicata da Mario Draghi e passata, seppure parzialmente, al vertice di Seul. Cominciare a dire che chi specula può anche fallire. Che non esistono più banche talmente grandi da poter evitare la legge del taglione. È la tesi sostenuta anche da Angela Merkel che estende la minaccia agli Stati sovrani. Passata la tempesta – sempre che ci si arrivi – il default potrà riguardare anche questi ultimi, per i quali non varrà più la rete di protezione costruita per la Grecia e per l’Irlanda. Già questa minaccia dovrebbe rendere più costosa e rischiosa ogni operazione. Poi: Basilea tre. Sappiamo che l’argomento non è molto popular, specie dalle parti di Via dell’Astronomia. Ma la scelta, seppure con il necessario gradualismo, è ineludibile. Le banche e le imprese che vogliono rischiare sono libere di farlo. Devono tuttavia garantire, con il loro patrimonio, i legittimi creditori. Altrimenti si torna al vecchio gioco: i profitti al management o agli stakeholder; le perdite al popolo.


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Libertà. La relazione del vescovo emerito di Hong Kong all’incontro fra tutti i porporati voluto da Benedetto XVI prima dell’ultimo Concistoro in San Pietro

Cina, non c’è più religione Parla il cardinale simbolo della lotta alla persecuzione: «Pechino non è cambiata: contro i fedeli, solo violenza» di Joseph Zen Ze-kiun accaduto di nuovo ciò che non doveva accadere! Sono comodamente seduto nella basilica di san Pietro illuminata a festa. Fra poco il Santo Padre procederà a creare 24 nuovi cardinali. Ma non mi sento intonato a festa, avendo appreso la triste notizia: ciò che non doveva più accadere è accaduto di nuovo; hanno ordinato in Cina un altro vescovo senza il mandato pontificio ed i vescovi che hanno preso parte al rito erano addirittura otto! Ma sono stati tutti sequestrati e trascinati in chiesa? Sappiamo che qualcuno avrebbe potuto rifiutare a parteciparvi. Invece di venire in basilica volevo rimanere nella cappella del luogo dove alloggio e sfogarmi in un pianto. Sono sicuro che molti in Cina, nella comunità clandestina e in quella ufficiale, preti, suore e fedeli stanno piangendo. La santissima Vergine Maria sta piangendo [perché] hanno di nuovo crocefisso Gesù! Adesso si può toccare con mano come quel dimenticare alla chetichella le scomuniche era una malconcepita compassione. Quale altro crimine si sarà disposti a commettere con il pretesto di“fare il bene della Chiesa”?

È

Ad ogni modo, non dovremmo aver fretta a condannare i nostri fratelli, prima di aver sentito le loro giustificazioni. Il signor Liu Bainian [vice-presidente dell’Associazione patriottica], però ha già condannato la Santa Sede: «Non possiamo più aspettare». É lui che dice l’ultima parola! Pensavamo ci fosse in atto un sincero negoziato. Ma non è così. Lui vuole che tutto vada secondo il suo pensiero. Le dieci ordinazioni di quest’anno sono andate avanti solo perché lui ne era soddisfatto. È lui il padrone assoluto della chiesa ufficiale in Cina! E poi il sequestro delle persone, le comunicazioni tagliate, il grande dispiegamento delle forze di polizia come per

L’editoriale del direttore dell’agenzia “AsiaNews”

Il coraggio del Vaticano, uno smacco per Hu Jintao di Bernardo Cervellera ordinazione di un vescovo cinese, avvenuta contro il volere del papa, con sequestro dei partecipanti e sotto il controllo delle forze della polizia sembra una cosa di altri tempi, una specie di remake di un film sulla lotta per le investiture, che per due secoli ha dominato la storia medievale d’Europa. Il punto è che tutto questo è avvenuto non 1000 anni fa, ma il 20 novembre scorso a Chengde, nel modernissimo Hebei, una florida regione industriale; non in uno sperduto villaggio della campagna feudale, ma vicinissimo a Pechino, la capitale della seconda potenza economica mondiale, membro del Consiglio di sicurezza dell’Onu, che si vanta di essere all’avanguardia su tutto (anche sulla libertà religiosa?). Una nota vaticana pubblicata oggi (v. La Santa Sede condanna l’ordinazione episcopale illecita a Chengde) condanna senza mezzi termini l’ordinazione illecita di Guo Jincai (v. foto) a Chengde e il sequestro dei vescovi ordinanti come “una grave violazione della libertà di religione e di coscienza”, “una dolorosa ferita alla comunione ecclesiale e una grave violazione della disciplina cattolica”. La nota, chiara e netta, è anzitutto coraggiosa. Questo è un periodo in cui presidenti del mondo intero, premier, imprenditori, ministri fanno a gara per piacere alla Cina, facendosi aedi, adulatori e servi per ricevere compensi e investimenti. Che vi sia qualcuno che – con la schiena diritta - dica la verità al gigante cinese, esigendo il rispetto della libertà religiosa, è davvero un miracolo da applaudire: raro, ma non impossibile. Il comunicato vaticano – forse per la prima volta – cita il nome del “regista” dell’ordinazione illecita: il laico Liu Bainian, soprannominato “il papa” di Pechino. È curioso che quest’uomo, pur avendo ormai 80 anni, sia ancora alla

L’

guida dell’Associazione patriottica da circa 30 anni. Perfino Jiang Zemin ha dovuto ritirarsi al compimento dei 75 anni. Liu Bainian rimane invece l’eterno timoniere dell’Associazione patriottica.

A Liu si devono le diverse regie di ordinazioni illecite nel 2000, nel 2006 e quella della scorsa settimana: tutte avvenute mentre emergevano spiragli di dialogo fra Santa Sede e Cina, quasi per rompere le uova nel paniere. È sempre lui a parlare ai giornali, dicendo di fare ciò “per il bene della Chiesa”. In realtà, i fedeli di Pechino e della Cina accusano Liu di aver abusato dei beni della Chiesa per la sua famiglia, costruendo case su terreni non suoi e pagando gli studi all’estero dei suoi figli, garantendo loro una carriera ricca e sfolgorante. La lotta alla corruzione, tanto predicata dalla leadership cinese per una moralizzazione della società, sembra lasciare indenne quest’uomo il cui operato fa salire dubbi sulla reale consistenza e verità della leadership di Pechino. È come se Hu Jintao fosse tenuto in scacco da Liu, che controlla le attività della Chiesa come ai tempi di Mao Zedong. Infine, va sottolineato che la nota vaticana esprime dei seri dubbi sulla “validità” dell’ordinazione avvenuta. Questa affermazione è un sollievo per i fedeli di Chengde e della Cina, che avevano già deciso di non partecipare all’ordinazione, e ora saranno ben felici di non prendere parte alle attività del futuro vescovo patriottico perché non in comunione col papa. Come per altri vescovi ordinati senza l’approvazione della Santa Sede, il destino di Guo Jincai è di rimanere solo, attorniato da quei pochi cristiani che riesce a comprarsi con favori e soldi che Liu Bainian potrà passargli. Ma il popolo sta da un’altra parte.

Un sacerdote cinese celebra la messa nella Beitang, la “chiesa del nord” dedicata a san Francesco Saverio che si trova nella capitale Pechino. Costruita in stile gotico, è oramai uno degli edifici più antichi della città. A sinistra il vescovo emerito di Hong Kong, cardinale Joseph Zen Ze-kiun. In basso papa Benedetto XVI. Nella pagina a fianco, fedeli in preghiera in una chiesa di Shanghai affrontare dei criminali…Ma non viviamo nel secolo 21mo inoltrato? Questo stile fascista, queste maniere da bandito, gettano il discredito sulla nostra nobile nazione! I nostri dirigenti sanno che cosa sta succedendo? Sono consenzienti? Sono essi che l’hanno voluto? É questa la cosiddetta “società armoniosa”? Signore, svegliati e vieni in nostro aiuto! Perché distogli la tua faccia da noi, e non ti curi di noi? (Salmo 44). Orsù fratelli; “voi che non volete più essere schiavi, alzatevi!” (Inno nazionale). Non guardate ai vantaggi

Contro di noi avvengono sequestri, tagli di comunicazioni, grande dispiegamento delle forze di polizia... Ci trattano come fossimo criminali

immediati, alzate lo sguardo al Signore che sta venendo in “questo” ultimo giorno”! Penso sia mio dovere, essendoci questa speciale opportunità, di informare i miei eminentissimi fratelli che in Cina non c’è ancora libertà religiosa. C’è

in giro troppo ottimismo che non corrisponde alla realtà. Qualcuno non ha modo di conoscere la realtà; qualcuno chiude gli occhi davanti alla realtà; qualcuno intende la libertà religiosa in senso assai riduttivo. Se andate a fare un giro in Cina (il che non raccomando, perché le vostre visite saranno manipolate e sfruttate a scopo di propaganda) vedreste belle chiese piene di fedeli che pregano e cantano, come in qualunque altra città del mondo cristiano. Ma la libertà religiosa non si riduce a libertà di culto. C’è molto di più. Qualcuno protesterà. C’è chi ha scritto: «Pechino vuole i vescovi voluti dal Papa». Fosse vero! La realtà che c’è un “tiro alla fune”, in cui non so chi abbia ceduto di più. Che di recente non vi siano state ordinazioni episcopali illecite è certamente un bene (a parte Chengdu, ovviamente).


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della Commissione per la Chiesa in Cina. In quelle note si chiarisce che la riconciliazione raccomandata dal Santo Padre deve trattarsi di un riavvicinamento dei cuori tra le due comunità, ma una unificazione (intesa come “merger”, come “travaso”) non è ancora possibile data la immutata politica del governo. Ma anche dopo questa chiarificazione, l’operato di chi ha la mano sul manico non sembra abbia cambiato direzione, come si può constatare nei tragici fatti di Baoding, di cui l’ultimo atto è stato l’insediamento del povero mons. An, un atto seriamente ambiguo, ma su cui vi è silenzio – dal 7 agosto fino ad oggi - che lascia disorientata la comunità dei fedeli, non solo nella parte clandestina, non solo a Baoding, ma in tutta la Cina.

La povera comunità clandestina, che è certamente la pars patior [che soffre di più] della nostra Chiesa in Cina, si sente oggi frustrata. Mentre trova molte parole di incoraggiamento nella Lettera del Santo Padre, si vede d’altra parte trattata come fastidiosa, ingombrante, di disturbo. È chiaro che qualcuno vuol vederla scomparire e assorbita in quella ufficiale, cioè sotto lo stesso stretto controllo del governo (così ci

Ma quando il governo cinese fa la voce grossa e le nostre possibilità di indagini sono così limitate, con in più la paura di nuove tensioni, c’è il vero rischio che si approvino dei giovani vescovi non idonei che regneranno per decenni.

Mi domando: perché non si è ancora arrivati a un accordo che garantisca l’iniziativa del papa nello scegliere i vescovi, pur ammettendo uno spazio al parere del governo cinese? Non so come stiano andando le trattative fra le due parti, perché non siamo [fra gli] addetti ai lavori e non ci è dato sapere niente. Ma fra gli esperti che seguono da vicino le vicende, l’impressione generale è che da parte “nostra” vi è una strategia di compromesso, se non ad oltranza, almeno di preponderanza. Dall’altra parte, invece, non si vede una minima intenzione di cambiare. I comunisti cinesi sono sempre rimasti con la politica religiosa di assoluto controllo. Da noi tutti sanno che i comunisti schiacciano chi si mostra debole, mentre davanti alla fermezza, qualche volta possono anche cambiare l’attitudine. C’è stata una Lettera del papa alla Chiesa in Cina già più di tre anni fa, un capolavoro di equilibrio fra la chiarezza della verità e la magnanimità per un dialogo. Purtroppo

penso di dover dire che [essa] non è stata presa sul serio da tutti. C’è chi si è permesso di esprimersi in modo assai diverso (v. le cosiddette “Note esplicative” che accompagnavano la pubblicazione della Lettera); c’è chi le dà un’interpretazione distorta (p. Jeroome Heyndrickx, cicm), citando espressioni fuori del contesto.Questa interpretazione dice che ormai tutti quelli della comunità clandestina devono venire all’aperto [= registrarsi presso il governo]. Ma il papa non ha detto questo. Ha detto, sì, che la condizione clandestina non è la normalità, ma spiega anche che chi si sente forzato ad andare in clandestinità è per non sottomettersi ad una struttura illecita.

Il Santo Padre ha detto, sì, che i singoli vescovi possono giudicare se accettare o chiedere il riconoscimento pubblico del governo e lavorare all’aperto, ma non senza averli premoniti del pericolo che purtroppo le autorità “quasi sempre” (questa particella è scomparsa nella traduzione cinese curata dalla Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli) avrebbero esigito condizioni inaccettabili ad una coscienza cattolica. Questa interpretazione distorta – ma che ovviamente ha trovato consenziente (nella Curia)

di comunione col papa. Qualcuno li descrive così: “Viaggiano felici sulla carrozza della Chiesa indipendente e si accontentano di gridare ogni tanto: Viva il papa!”. Il governo che usava solo minacce e castighi ora ha migliorato i suoi metodi di persecuzione: soldi (regali, automobili, abbellimento dell’episcopio) ed onori (membri del Congresso del popolo, o dell’organo politico consultivo a diversi livelli, con riunioni, pranzi, cene e quel che segue).

Qual è la strategia da parte “nostra”? Temo che sovente è una falsa compassione che lascia i fratelli deboli a scivolare sempre più in giù e diventare sempre più schiavizzati. Le scomuniche comminate vengono “dimenticate” alla chetichella; alla domanda: “possiamo andare alla celebrazione del 50mo delle prime ordinazioni illecite?” si risponde: “Fate il possibile per non andarci” (e naturalmente ci andarono quasi tutti). Dopo lunga discussione nella Commissione per la Chiesa in Cina si decise di mandare un ordine chiaro ai vescovi di non partecipare alla progettata cosiddetta“Assemblea dei rappresentanti della Chiesa in Cina”, ma qualcuno dice ancora: “comprendiamo le difficoltà dei vescovi a non andarci”. Davanti a questi messaggi contrastanti il governo sa di poter ignorare la Lettera del papa impunemente. Cari fratelli, suppongo

La Lettera inviata dal Papa tre anni fa era un capolavoro di equilibrio e amore. Ma non è stata presa sul serio da tutti i cattolici cinesi

chi ha la diretta responsabilità per la Chiesa in Cina – ha creato una grande confusione e causato dolorose divisioni in seno alle comunità clandestine.

Questa interpretazione distorta è stata sconfessata solo dopo due anni in due note nel Compendio della Lettera papale, curato dall’Holy Spirit Study Centre di Hong Kong ed approvato dal comitato permanente

sarà pace!?). Ma come si trova la comunità “ufficiale”? Si sa che in essa quasi tutti i vescovi sono legittimi o legittimati. Ma il controllo asfissiante e umiliante da parte di organismi che non sono della Chiesa – Associazione patriottica e Ufficio affari religiosi – non è per niente cambiato.

Quando il Santo Padre riconosce quei vescovi senza esigere che essi si distacchino subito da quella struttura illecita, è ovviamente nella speranza che essi lavorino dal di dentro di quella struttura per liberarsene, perché tale struttura non è compatibile con la natura della Chiesa. Ma dopo tanti anni cosa vediamo? Pochi vescovi hanno vissuto all’altezza di tale speranza. Molti hanno cercato di sopravvivere comunque; non pochi, purtroppo, non hanno posto atti coerenti col loro stato

che siate informati degli ultimi fatti: stanno tentando di nuovo di fare un’ordinazione episcopale senza mandato pontificio. Per questo hanno sequestrato dei vescovi, messo pressione su altri: sono gravi offese alla libertà religiosa e alla dignità personale. Apprezzo la dichiarazione tempestiva, precisa e dignitosa della Segreteria di Stato. Tra l’altro c’è motivo di sospettare che tali tentativi non vengono neanche dall’alto, ma da quelli che in tutti questi anni hanno guadagnato posizioni di potere e vantaggi e non vogliono che le cose cambino. Preghiamo la Madonna, Aiuto dei cristiani, perché apra gli occhi dei supremi dirigenti della nostra nazione, perché fermino queste malvagie e vergognose manovre e si adoperino per riconoscere ai nostri fratelli la vera e piena libertà religiosa, la quale tornerà pure ad onore della nostra patria. Preghiamo per un raddrizzamento della strategia da parte “nostra”, perché si adegui sinceramente alla direzione indicata dalla Lettera del Santo Padre. Speriamo che non sia troppo tardi per una buona sterzata.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE

Fermiamo questo cannibalismo moderno, camuffato da scienza Sentiamo il dovere di dirvi che anche noi abbiamo, purtroppo, ceduto alla richiesta degli organi di nostro figlio Paolo che aveva 19 anni. Eravamo distrutti dal dolore e abbiamo firmato. Mai decisione fu più sciagurata: noi tutti abbiamo ceduto i nostri figli per disinformazione e sfinimento di fronte alla pressione sanitaria dell’industria dei trapianti. Inconsapevolmente abbiamo fatto macellare, eviscerare, senza anestesia i nostri figli: il chirurgo affonda il coltello dal collo giù fino allo sterno e poi fino all’ombelico e poi fino all’inguine. Il cuore batte. I polmoni respirano. Il sangue circola. Il corpo è caldo. Si muove, cerca di reagire, ma per i chirurghi sono solo riflessi spinali da controllare con farmaci paralizzanti. Inesorabile la mano del boia spacca lo sterno, afferra il cuore che batte, e recide. Così sono morti i nostri figli, indifesi e abbandonati non hanno potuto ricevere una carezza, l’ultimo bacio di mamma e papà. I loro corpi sono divenuti merce contesa da chi ha pregato per ottenere i loro organi.Tutti noi abbiamo dato quella firma perché ci hanno fatto credere di “fare il bene”: l’omertà mafiosa dell’industria dei trapianti ha vinto contro di noi. Combattete perché nessun altro genitore soffra quello che oggi stiamo soffrendo per esserci fidati.

I genitori di Paolo Mondo

LA “DEROGA” DI RATZINGER Cattolici adulti, laicisti e movimenti gay (leggasi anche coloro che ritengono gli istinti sessuali umani non sono dissimili da quelli animali) hanno accolto l’apertura di papa Ratzinger ai preservativi come ad una sorta di cedimento del magistero alla modernità, e quindi al riconoscimento postumo dei cosiddetti valori laici. Peccato che il Santo Padre abbia autorizzato l’uso del condom unicamente in riferimento a particolari condizioni. Vittoria di Pirro dunque: modernisti e “diversamente orientati”devono rassegnarsi al fatto che la chiesa considera il profilattico uno strumento intrinsecamente immorale che genera irresponsabilità e dissolutezza. Anzi, a pensarci bene, chi ha fatto del basso ventre un diritto insindacabile, dovrebbe considerare la “deroga” di Ratzinger non necessariamente co-

me ad un positivo “atto di carità” (Vittorio Messori), ma anche come ad una“negativa” presa d’atto che non tutti gli esseri umani hanno pieno dominio di sé. Non casualmente per spiegare la “dispensa”ha testualmente enunciato «vi possono essere singoli casi giustificati, ad esempio quando una prostituta utilizza un profilattico». Per ovvie ragioni diplomatiche l’elencazione si è fermata qui. Appare scontato che tra le“singolarità” poteva inserire senza rischiare di essere tacciato di discriminazione, talune donne africane dalla prolifica fecondità, i drogati, i malati di aids, le ragazzine e i ragazzini, i cui genitori non hanno saputo trasmettere un’adeguata educazione sessuale e gli omosessuali che a causa delle pratiche sessuali “contro natura” hanno un percentuale di rischio infettivo maggiore agli eterosessuali. Nessun motivo per gioire dun-

Non buttarlo. Riciclalo! Il vostro maglione preferito si è talmente deformato da diventare… così? Prima di sbarazzarvene, pensate a come poterlo recuperare. Ogni anno finiscono nel cassonetto abiti smessi che, se adeguatamente riciclati, porterebbero a un risparmio sul costo di smaltimento pari a circa 36 milioni di euro

que, il via libera al lattice è la prova provata che il genere umano del terzo millennio preferisce i “vizi”animaleschi che degradano alle virtù spirituali che innalzano.

Gianni Toffali - Verona

GESTIONE VIRTUOSA DEI RIFIUTI Si può vincere contro il rifiuto, si può trasformare il rifiuto in risorsa, solo se lo si riduce e si differenzia. Ridurre del 20% il rifiuto prodotto e differenziarlo per almeno il 50%, raggiungendo anche il 70%, comporterebbe un risparmio dei costi di

L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

gestione pari al 65/75%. In Campania, ad esempio, si passerebbe da un costo medio di 395 per una famiglia che produce 2,3 tonnellate di rifiuto ad un costo di soli 138 euro per un totale di 900 kg circa di rifiuto indifferenziato. Un sistema folle, in cui smaltire una tonnellata di rifiuto organico costa 30 euro in più rispetto all’indifferenziato: è una mala gestione che incentiva il cittadino e l’ente locale a non differenziare l’umido, perché se lo fa ha un aumento dei costi di gestione pari al 20%.

Alfonso Fimiani

da “Ynet” del 24/11/2010

Mister Huntington, prenda nota! amuel Huntington fa ancora proseliti a tanti anni dall’uscita del suo famoso Lo Scontro di Civiltà, le sue analisi vengono ancora citate. È questo anche il caso dell’editoriale di Assaf Wohl ripreso da Ynet. Si utilizzano le tesi spesso incomprese dello studioso statunitense per creare un suggestivo parallelo tra la cultura radicale ebraica e quella islamica. Premesso che Huntington cita Israele “solo a pagina 48” del suo libro, cosa che non riempie d’entusiasmo l’autore dell’articolo, ciò che interessa è la dicotomia di quella che viene definita “civiltà”. Nata solo dopo la costituzione dello Stato d’Israele, introducendo un elemento dirompente nel panorama mediorientale: una vera democrazia e un’economia di mercato. Ma ciò che interessa di più è l’esistenza di due culture all’interno della civiltà ebraica. Una prima che bene rappresenta i valori condiviso con gran parte dell’Occidente, tanto che spesso si parla di una tradizione ebraico-cristiana in riferimento alla storia del pensiero democratico-liberale. E una seconda legata alla cultura religiosa ultra-ortodossa della comunità haredi. Ciò che salta agli occhi dell’editorialista è la somiglianza con la parte meno moderata della cultura musulmana. L’oppressione della donna, la persecuzione degli omosessuali e la limitazione della libertà religiosa delle altre confessioni. Si citano molti esempi di questo tipo di mentalità che sono portatori di una visone molto limitata dell’uomo e della comunità. E proprio gli appartenenti a al radicalismo ebraico che rigettano parallelo con la cultura musulmana ad essere, secondo la tesi di

tentativo di smantellare l’intervento dello Stato nella salvaguardia sociale, con reti d’assistenza parallele e di stampo religioso, ed con un rifiuto di contribuire alla difesa del Paese, con l’obbiezione di coscienza. Sarebbero dunque due campioni di antiStato e un limite per lo sviluppo di una democrazia. Il fondamentalismo islamico, in Europa, e il movimento religioso haredim in Israele, non sarebbero altro che le due facce di una stessa medaglia. Esiste un unica differenza che a ben vedere si annulla nell’applicazione pratica. L’ebraismo non è una religione missionaria, non vuole convertire, non vuole assoggettare nessuno al proprio credo fuori dai confine di Israele. È vero. Ma all’interno di questi confini vorrebbe usare la coercizione per imporre le proprie leggi e una visione della vita del tutto particolare.

S

Wohl, molto vicini al pensiero islamico. Altre cose in comune sono la scarsa volontà d’integrazione col resto della società. Con quella ebraica in Israele, con quella europea da parte di molti immigrati musulmani sul vecchio continente. Il forte vittimismo che caratterizza sia il radicalismo islamico sempre in cerca di un riscatto morale, come quello ebraico poco incline a riconoscersi colpe. Infine si denotano per una scarsissima propensione ad ascoltare le ragioni degli altri: sono i depositari della verità. Come a voler dire che i radicalismi sono tutti uguali sotto ogni bandiera o credo. L’accoppiata islamo-ebraica del pensiero unico ultra-ortodosso infine si caratterizzerebbe anche per il

Esattamente come vorrebbe fare l’islam radicale che tende a trasformare il mondo in una umma universale. Entrambe queste culture amano definirsi come un regno. Dar al-Islam per i musulmani e halacha state per gli haredim. In questa loro utopia tutti dovrebbero “seguire il sentiero della verità”. Quale è lo strumento che vogliono utilizzare per raggiungere i loro scopi? Semplice utilizzare le “armi” che la democrazia gli concede per cancellarla. Accumulando potere elettorale nelle capitali europee con la persuasione, la coercizione e le dinamiche demografiche.Tutte ragioni che portano l’autore a disconoscere l’ebraismo come una civiltà. Mister Huntington, prenda nota!


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog LE VERITÀ NASCOSTE

«Mi hanno rubato la marijuana» SALEM. È forse comprensibile che uno ci rimanga male se scopre che gli è stata rubata la marijuana, ma non si può far altro che mettersela via: cosa si può fare, chiamare la polizia? Eppure, Calvin Hoover lo ha fatto. Hoover infatti ha chiamato la polizia di Marion County per denunciare il fatto che, mentre lui era a pranzo in un autogrill, qualcuno aveva forzato il suo furgone e rubato dei contanti, la sua giacca, e una “piccola quantità di marijuana”. Una telefonata che già di per sé lo avrebbe messo nei guai. Per togliere ogni dubbio, però, il 21enne ha pensato bene di chiamare nuovamente la polizia qualche decina di minuti dopo, per lamentarsi del fatto che la polizia non era ancora intervenuta sul

posto. Almeno nelle intenzioni: perché era talmente ubriaco che l’agente all’altro capo del telefono non riusciva a capire cosa volesse. Dalla telefonata si capivano solo tre cose: che era decisamente ubriaco (o drogato), che era alla guida di qualche veicolo, e che aveva dovuto prendersi diverse pause nella telefonata… per vomitare. In effetti, la sua telefonata ha forse avuto l’effetto di accelerare l’arrivo degli agenti, che però lo hanno - inevitabilmente - arrestato per guida in stato di ebbrezza. Un uomo di Uniontown in Pennsylvania, invece,ha pensato bene di chiamare la polizia perché la marijuana che aveva

ACCADDE OGGI

LA PUGLIA NON PUO’ ACCOGLIERE ALTRI RIFIUTI DALLA CAMPANIA Non è una questione di mancanza di solidarietà nei confronti della Campania: la Puglia non può accogliere altri rifiuti e il ministro Raffaele Fitto ha davvero un bel coraggio a chiedere questo. La Puglia sta già affrontando le sue emergenze e la gestione dei rifiuti nella nostra regione ha ancora tanti problemi irrisolti. Il ministro Fitto conosce bene la situazione. Già due anni fa, insieme ad altre tre regioni, la Puglia fu disponibile ad accogliere una quantità limitata di rifiuti, sottolineando che quella sarebbe stata l’ultima volta. In quella occasione nella nostra Regione arrivarono ben 50mila tonnellate di rifiuti campani. L’incapacità del governo a risolvere tale annosa questione non può essere scaricata ancora una volta su altri territori. Il ministro Fitto non può ricordarsi delle Regioni solo all’occorrenza, dimenticando di convocare i governatori in altre occasioni, come quando si discute di tagli imposti dalla manovra finanziaria che quest’anno assegna 302 milioni in meno alla Puglia. La solidarietà tra Enti non deve mai mancare, ma la Puglia oggi non è in grado di offrire un adeguato aiuto alla Campania senza gravi danni per il territorio e i suoi cittadini.

Salvatore Negro

PIENA FIDUCIA NEL MINISTRO BONDI Di fronte alla mozione di sfiducia nei confronti del ministro per i Beni e le Attività Culturali, esprimiamo la più totale fiducia per l’opera saggia del ministro Sandro Bondi, le cui direttive ed azioni sono da noi pienamente condivise: addossargli la

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

25 novembre 1970 In Giappone, il famoso scrittore Yukio Mishima commette un suicidio rituale dopo aver fallito nel portare l’opinione pubblica verso il suo credo politico estremista 1973 Il presidente greco George Papadopoulos viene estromesso da un colpo di Stato militare guidato dal tenente generale Phaidon Gizikis 1975 Paracadutisti di estrema sinistra tentano senza successo un colpo di stato in Portogallo 1980 Sugar Ray Leonard riconquista il titolo mondiale Wbc dei pesi welter contro Roberto Duran 1984 36 dei più noti musicisti pop britannici e irlandesi si riuniscono in uno studio di Notting Hill come Band Aid per registrare la canzone Do They Know It’s Christmas?, per raccogliere denaro per alleviare la carestia in Etiopia 1992 L’Assemblea federale della Cecoslovacchia vota per dividere la nazione in Repubblica Ceca e Slovacchia a partire dal 1 gennaio 1993

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

comprato «era pessima». Gli agenti sono intervenuti per arrestarlo per possesso di sostanze stupefacenti. Se non che le analisi hanno poi evidenziato come la sostanza di cui era in possesso non era marijuana ma normalissima erba di prato, e adesso la polizia sta valutando se sia possibile mantenere dei capi d’accusa o meno contro il giovane.

colpa del crollo di Pompei è davvero operazione squallida, perché strumentalizzare la cultura e fini politico-elettorali è quanto di più sbagliato possa fare un Paese. I tagli ai finanziamenti alla cultura non sono sbagliati, perché spesso i fondi vengono davvero gettati al vento: sono innumerevoli le cattedrali nel deserto che accolgono non più di dieci visitatori in un anno e ricevono ugualmente finanziamenti a pioggia, volti ad alimentare clientele di voti: è necessario introdurre un criterio meritocratico, finanziando non solo chi è, ma soprattutto chi produce cultura, chi la rende fruibile al grande pubblico.

I Circoli dell’ambiente

LA CATTIVA COSCIENZA DEL MINISTRO GELMINI Capisco che Mariastella Gelmini tenti di lasciare un buon ricordo prima di chiudere la sua esperienza ministeriale, ma proprio non ce la fa. Certo, ha fatto bene ad accogliere la richiesta del Pd e dei sindacati di reintegrare gli scatti di anzianità, perché ci sarebbe mancato solo questa assurda decurtazione degli stipendi, ma sulla valutazione del sistema scolastico e degli insegnanti, il ministro è capace di pessima propaganda. Già immagino che nella testa del ministro ci sia l’ipotesi di stilare una sorta di classifica delle scuole migliori, cosa che favorirebbe solo un ingestibile esodo di iscrizioni da un istituto all’altro. Quel che il ministro dovrebbe fare è investire sulla valutazione e la diffusione delle buone pratiche didattiche, per aiutare tutti gli studenti ad avere una scuola pubblica di qualità.

Francesca Puglisi

Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Robert Kagan, Filippo La Porta,

Direttore da Washington Michael Novak

Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,

Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale

Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Collaboratori

L’INFORMATIZZAZIONE E IL SSN Svolgo l’attività di medico di famiglia con il Ssn dal 1978 in provincia di Roma, e vorrei sottolineare alcune problematiche riguardo il nostro sistema sanitario. L’informatizzazione che mi permette di inviare per via telematica i certificati di malattia, come richiesto dal nostro ministro Brunetta, è operativa dal 15 settembre. Sottolineo che l’aut-aut imposto dal ministro potrebbe risolvere le problematiche da lui evidenziate, ma che all’atto pratico comportano delle conseguenze di natura medico legale e legislative importanti. Per spiegare meglio tutto ciò vi informo che il sito internet predisposto dal ministero delle entrate è operativo con grandi difficoltà per noi medici, ad esempio il certificato di malattia non può essere inviato se non viene evidenziata la patologia in atto, ma il lato comico è che il sottoscritto deve porre delle diagnosi improponibili in quanto il suddetto sito non evidenzia moltissime patologie nonostante si

Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,

Maria Pia Ammirati, Mario Arpino,

Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,

Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi,

Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,

Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,

Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,

usino termini tecnici medico scientifici adeguati: non esiste il termine frattura, non esiste la simpaticectomia gangliare ascellare ecc. Il tempo impiegato per fare ciò risulta centuplicato rispetto al vecchio sistema cartaceo, ma d’altro canto capisco la posizione del ministro nei riguardi dei medici a sua detta compiacenti con il paziente per i periodi di malattia. La domanda che mi pongo è: devo essere punito con l’espulsione dal Ssn o devo essere punito perché mi s’impone di cliccare sui certificati diagnosi inesistenti? Non era forse il caso di testare il programma prima di metterlo in uso? Non sarebbe opportuno preparare adeguatamente il personale del call-center del numero verde sul sito del ministero? Quanto è costato al cittadino e quanto costerà in futuro tutto ciò? Paolo Pompei C I R C O L I LI B E R A L RO M A REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE “VERSO IL PARTITO DELLA NAZIONE” SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)

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ULTIMAPAGINA Rassegne. Torna Processi alla storia: 7 duelli tra avvocati e pm di oggi che dibatteranno su celebri personaggi dell’antichità

I nuovi azzeccagarbugli del di Diana Del Monte dee più che persone, questo sono generalmente i personaggi. Eppure, Pirandello ci ha insegnato di quanta forza siano dotati i cosiddetti “personaggi”, entità che vivono la storia in un rapporto con le “persone reali” assimilabile a quello che esiste tra l’eternità dell’arte e il relativismo della vita quotidiana. «Più vivi di quelli che respirano e vestono panni! Meno reali, forse; ma più veri» affermava il padre pirandelliano; un personaggio, appunto, che troverebbe forse interessante il progetto di trascinare la sua categoria in un’aula giudiziaria. Dopo il successo della passata edizione, torna all’Auditorium di Roma Processi alla storia, un progetto a cura di Stefano Dambruoso e Massimo Martinelli. A partire dal 29 novembre la rassegna porterà sul palco della Sala Sinopoli 7 duelli dialettici tra un avvocato difensore e un pm che dovranno difendere o accusare un sentimento, una virtù, un vizio che caratterizzarono la vita dei protagonisti di ogni singolo appuntamento. Ognuno dei Processi sarà celebrato riproducendo le atmosfere e le tensioni caratteristici dell’aula giudiziaria; sul banco degli imputati di questa edizione saliranno Paolo e Francesca (29/11), Cagliostro (10/01), Caravaggio (07/02), Giovanna d’Arco (07/03), Caino (11/04), Antigone (09/05) e Giulio Cesare (30/05).

I

A rivestire i ruoli dell’avvocato difensore, del pm e del presidente della Corte saranno gli stessi protagonisti della vita giudiziaria del Paese: magistrati del calibro di Piercamillo Davigo, Piero Grasso e Pierluigi Vigna; avvocati di grido come Paola Severino e Annamaria Bernardini de Pace; giuristi come Piero Alberto Capotosti, Simonetta Matone, Giuliano Pisapia e Gaetano Pecorella. Il processo si svolgerà attraverso i dibattimenti portati avanti all’impronta, senza un copione prestabilito e senza aver avuto la possibilità di provare la scena. Gli imputati prepareranno le dichiarazioni innocentiste, i loro avvocati studieranno le migliori arringhe difensive e i pm pronunceranno requisitorie tecniche che chiederanno conto delle responsabilità, vere o presunte dell’accusato, ma soprattutto degli effetti che i loro comportamenti hanno avuto nella politica, nella cultura e nei costumi sociali negli anni successivi. Alla fine di ogni dibattimento la responsabilità del verdetto finale sarà consegnata al pubblico che dovrà decidere cosa fare di queste 7 icone della cultura occidentale. Al di là del titolo della rassegna, è evidente come in questi “processi” la “storicità” degli eventi è solo marginalmente rilevante; la forza di questi personaggi, infatti, sta nell’essere interpreti di idee, sentimenti, pregiudizi, paure e speranze che hanno animato e via via costruito quella cultura occidentale di cui la contemporaneità è legittima erede. Si sono trasformati, adattati ai tempi secondo una declinazione culturale del-

PASSATO PASSAT0 ture. Il primo appuntamento è con Paolo e Francesca, interpretati da Stefano Dambruoso ed Erminia Mazzoni. Tra le figure di amanti più controverse e appassionanti della nostra letteratura, Paolo e Francesca hanno viaggiato nel mondo dell’arte ininterrottamente: da Dante e Boccaccio, dai pennelli di Jean Auguste Dominique Ingres alle parole di Gabriele D’Annunzio fino ad arrivare ai ritmi del rap di Jovanotti.

A celebrare in Aula saranno i veri protagonisti della nostra giustizia: da Simonetta Matone a Piero Grasso, da Gaetano Pecorella ad Annamaria Bernardini de Pace.Tra gli imputati, Paolo e Francesca, Cagliostro, Caravaggio, Giovanna d’Arco, Caino,Antigone e Cesare la legge darwiniana per la sopravvivenza e sono giunti fino a noi; personaggi, appunto, con i quali si dà vita a un gioco che potrebbe rivelarsi più serio di quel che appare, nel quale una piccola rappresentaza della società si guarda allo specchio soppesandosi. Anche in questo caso, l’autorialità dei personaggi è un concetto più complesso di quello che sembra e il vero, ma indiretto autore di queste storie è più che noto, è presente, seduto di fronte alle sue creaIn alto, alcuni dei protaginisti della nuova edizione di “Processi alla storia”, dal 29 novembre all’Auditorium di Roma: Annamaria Bernardini de Pace, Simonetta Matone, Piero Grasso, Gaetano Pecorella, Rino Barillari e David Sassoli

Una coppia di amanti che rompe la “sacralità” dell’amor cortese per un vissuto amoroso più concreto, reale; trascinati nel girone dei lussuriosi del V canto della Divina Commedia che «paion sì al vento esser leggieri», Paolo e Francesca sottopongono il poeta fiorentino a una prova estenuante che lo fa oscillare di fronte alla bellezza di un sentimento che si trasforma in dannazione quando rompe il rispetto dovuto alla sacralità dell’impegno matrimoniale. Dante, straziato, perderà i sensi, chissà se il giudizio del pubblico sarà altrettanto sottile e sofferto.


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