ISSN 1827-8817 01214
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La vera generosità verso
il futuro consiste nel donare tutto quanto al presente Albert Camus
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MARTEDÌ 14 DICEMBRE 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Prima al Senato e poi alla Camera, la maggioranza va alla ricerca di un voto che possa salvare in extremis il governo
Il ragionier Berlusconi Legge un discorso di convenienza dai toni buonisti ma si conferma più contabile che statista. Ignorando che, se anche prevarrà di misura, oggi certificherà il suo fallimento politico La maratona in Aula secondo Savino Pezzotta
UN MODELLO CADUTO
«Non cadremo nella fiction del moderato immaginario»
Il bipolarismo che non c’è (in tutta Europa)
«Il Cavaliere è a trazione leghista, lo sappiamo. E spero che quello che ho letto sul sostegno della Chiesa al premier non sia vero. Altrimenti il mondo cattolico dovrebbe fare autocritica» Franco Insardà • pagina 5
di Osvaldo Baldacci
di Errico Novi
di Riccardo Paradisi
ROMA. La giornata della fine politica del berlusconismo, indipendentemente dalla conta di oggi, è rimbalzata dal Senato alla Camera. Il premier ha fatto un discorso «buonista» chiedendo i voti dei moderati che però non cadono nel tranello. Ma poi alla fine ha fatto appello agli indecisi: «Stanotte, per favore, riflettete».
ROMA. Astensione al Senato in cambio di dimissioni di Berlusconi prima della conta alla Camera: è questa la proposta fatta in extremis dai finiani al premier per evitare di rompere con la «colomba» Moffa. Ma la maggioranza, con Bossi e Bonaiuti, ha detto no: «Berlusconi non si dimetterà».
n fantasma si aggira per il mondo. Anzi non si aggira per niente, anche se molti ci credono. È il bipolarismo, con eventuali pulsioni bipartitiche e collegati maggioritari. Sembra che in tutto il mondo questa sia la situazione politica e dei sistemi elettorali. E l’Italia si deve adeguare. Il fatto clamoroso è che è completamente falso. Non si tratta nemmeno di un mito, o di un misterioso animale leggendario. No, è proprio una balla. Per di più, ripetuta tante volte che gli italiani ci hanno creduto a lungo, e qualcuno nell’attuale panorama politico continua a ripeterlo nel tentativo di perpetuarsi. Ma sveliamo che il re è nudo. Il bipolarismo non esiste. Da nessuna parte. E anche i pochi modelli maggioritari che tentano di forzare verso un bipolarismo hanno clamorosamente fallito nel loro intento. Certo, se per bipolarismo si intende la dinamica tra maggioranza e opposizione, questa esiste ovunque, seppur articolata. E nessuno è contrario a questo.
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Appello agli indecisi di Fli
Resta l’enigma-Moffa
La buona notte E Bossi boccia del Cavaliere: l’ultima «Ora riflettete» mediazione
Anche Bonanni contro la strategia del Lingotto, ma si parla di un accordo entro l’anno
Marchionne spacca anche Confindustria E intanto i sindacati si dividono sul contratto al settore auto di Francesco Pacifico
ROMA. Raffaele Bonanni consiglia a Sergio Marchionne di cambiare atteggiamento. «E di non fare una radicalizzazione pari a quella della Fiom». Federmeccanica ha inviato la riunione in programma giovedì per trattare con i sindacati sulle «norme specifiche per il settore auto». Quaranta tra cassintegrati e precari hanno fatto irruzione ieri a Roma dove si presentava l’ultimo libro del leader Cisl. Eppure tra i metalmec-
di Wei Jingsheng na volta, il Premio Nobel per la pace era il premio guardato con più attenzione da parte del mondo intero. Premiati come Nelson Mandela rappresentano un esempio mondiale di morale. Ispirano le persone a compiere dei sacrifici in nome di ideali e convinzioni, in nome della felicità della popolazione. Altri, come Sakharov, rappresentano invece una corrente d’opposizione al dominio comunista.
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canici di Fim Cisl e Uilm sono convinti che entro Natale – e molto probabilmente alle condizioni del Lingotto – si firmerà l’accordo sullo stabilimento di Mirafiori. In quest’ottica decisiva sarà la giornata di domani, quando al direttivo di Confindustria Emma Marcegaglia spiegherà ai suoi i termini dell’accordo stretto a New York con Marchionne.
seg1,00 ue a (10,00 pagina 9CON EURO
Un Nobel che divide i democratici
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IN REDAZIONE ALLE ORE
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il fatto Berlusconi blandisce chiunque al Senato e poi alla Camera nella speranza di restare a Palazzo Chigi. Ma oggi si gioca tutto
Accanimento terapeutico Dimissioni per una nuova stagione politica o inutile conta finale? La maggioranza appesa a un voto da conquistare all’ultimo minuto di Errico Novi
ROMA. Nella ridda delle voci di chi parla sempre, a un certo punto risuona l’eloquio di uno che non interviene quasi mai. Che è rimasto nel Pdl e sopporta con dignità l’isolamento: Marcello Pera. Silvio Berlusconi ha da poco concluso l’intervento a Palazzo Madama che apre la due giorni decisiva del governo. Ha rivolto il suo appello «ai moderati», ossia ai parlamentari di Fli, all’Udc, anche al liberale Paolo Guzzanti (che pure è alla Camera, dove il MARCELLO PERA
da 85 deputati dell’area di responsabilità, con Udc, Fli, Api e Mpa in prima fila, presentata da Ferdinando Adornato. Al dibattito di Montecitorio il presidente del Consiglio risponderà prima di cena, tentando di recuperare consensi in vista del decisivo voto di oggi. A Palazzo Madama invece Berlusconi parla per primo, ascolta con attenzione l’intero dibattito, poi ribatte alle critiche più aspre. Non cita però le obiezioni rivoltegli da Marcello Pera, quelle no. Non entra nel merito delle riforme non fatte e dei dubbi, espressi dal suo parlamentare, sulla possibilità di realizzarle in caso di prosieguo della legislatura. «Ci spero e perciò le do la fiducia», annuncia l’ex presidente del Senato. Ma il capo del governo dubbi non ne ha. Nella sua lunga prolusione al Senato, Berlusconi assicura che se lo lasceranno al governo lui le riforme le farà eccome: «Se ci sarà la fiducia lavoreremo per ricomporre l’area moderata, per allargare quanto possibile l’attuale maggioranza a tutti coloro che condividono i valori e i programmi dei moderati». Riferimento al Fli, e non sarà l’ultimo, ma anche al’Udc, evocata in modo ancora più esplicito quando il Cavaliere si rivolge «a chi si richiama alla forza politica più forte in Europa, il Partito del popolo europeo». Berlusconi tende ai parlamentari finiani tutti gli ami di cui dispone: «Sono certo che nessuno di voi intende gettare via così frettolosamente tutto ciò che in questi anni abbiamo costruito insieme, dal bipolarismo alla na-
«Questa crisi è surreale: ha le sue origini nelle promesse di Berlusconi del ’94 mai realizzate» premier interverrà solo nel tardo pomeriggio). Ecco dunque Pera. Che prima indirizza una durissima critica a Gianfranco Fini, lo accusa di «violazioni sistematiche e arroganti», non dà per nulla l’impressione di voler passare a Futuro e libertà. Perciò quello che dice a Berlusconi subito dopo acquisisce ancora maggior valore: «La crisi di oggi nasce lontano, nel ’94, quando lei creò grandi aspettative e fece grandi promesse: non credo che queste aspettative e promesse siano state mantenute». L’ex presidente del Senato ricorda: «Lei è un presidente del Consiglio che non può cambiare ministri, non può invocare le elezioni. Queste erano riforme della Costituzione, e non sono mai state fatte. Lei le riforme le ha promesse, poi le ha più minacciate che realizzate».
Non passa inosservato, l’intervento di Pera. E infatti molti lo citano. Nell’emiciclo del Senato e persino più tardi, nel pomeriggio, alla Camera. Lì a Montecitorio si discutono le mozioni di sfiducia: quella di Pd e Italia dei valori, illustrata da Enrico Letta, e l’altra sottoscritta
UMBERTO BOSSI
«Avremo sicuramente la fiducia: noi un governo risicato non lo possiamo accettare»
scita del partito unitario dei moderati. Ciascuno di voi sa che qualunque dissenso è legittimo, ma la sfiducia al governo no».
Torna la proposta di un patto di legislatura. E c’è tempo per una chiacchierata in aula con Luciana Sbarbati. Mentre il Cavaliere si prodiga nella ricerca di nuovi adepti, Bossi invia un messaggio chiarissimo: «Con un voto in più non si governa». Gli chiedono dell’ingresso dell’Udc nell’esecutivo e ribadisce che la strada maestra è quella delle urne, poi aggiunge: «Riparliamone tra qualche giorno». Pier Ferdinando Casini, da parte sua, spiega cosa pensa dell’appello ai moderati: «Se Berlusconi ha a cuore la loro riunificazione, prima del voto di domani (oggi per chi legge, ndr) si va a dimettere, altrimenti sono solo propositi ipocriti». Al Senato si fanno notare sempre i leghisti, da Rosi Mauro a Lorenzo Bodega, per il solito aut aut: maggioranza fino al 2013 o il voto subito.Tra i finiani intervengono il capogruppo Pasquale Viespoli che lamenta l’assenza di un vero «salto di qualità», Giuseppe Valditara che infilza l’esecutivo su università e scuola e Mario Baldassarri, che si concentra soprattutto sulle scelte di Tremonti: «La tenuta in ordine dei conti è un atto dovuto, ma non fa la politica economica. Eppure il centrodestra dovrebbe differenziarsi, e tentare di mantenere l’equilibrio finanziario non alla maniera della sinistra ma con meno spesa e meno tasse». Sempre dal capogruppo finano Viespoli arriva addirittura un bacio per Adriana Poli Bortone, che mette in discussione la retorica dei tradimenti. Finché, in coda ai numerosi interventi, il Cavaliere concede un piccolo bis. Si appella di nuovo a una «riflessione notturna» dei parlamentari di Futuro e libertà. E confuta le critiche del democratico Zanda sulla politica estera e l’amicizia con Putin. Nega di essersi messo soldi in tasca nelle trattative tra l’Eni e Mosca: «Garantisco sui miei figli e i miei nipoti». Meno di due ore e la tensione si trasferisce a Montecito-
rio. Qui si parte non dalle comunicazioni del premier ma dalle mozioni di sfiducia. «Questo governo si trova a mendicare una fiducia minima per tentare, come ha detto Marcello Pera, di fare quello che non è riuscito a fare con cento voti in più», esordisce in rappresentanza di Pd e Idv Enrico Letta. Che quindi si interroga sul senso dell’appello rivolto da Berlusconi ai moderati: «È moderazione che il vertice del suo partito dica “ce ne freghiamo del presidente della Repubblica”? Ed è un caso che tanti moderati veri non stanno più con lei e abbiano deciso di votarle la sfiducia? Due anni fa gliel’hanno espressa i moderati dell’Udc, oggi lo fanno i moderati di Futuro e libertà». Pro memoria su Bossi: «Ha già detto che con la sfiducia di un voto si va alle urne. Noi invece diciamo che con il nostro voto si va a un governo di responsa-
MASSIMO D’ALEMA
di 85 deputati moderati che si riconoscono nel Ppe. Lei ha acceso tante speranze ma le ha deluse». A maggior ragione di fronte alla crisi «che richiede una stagione di rilancio e di crescita: ma può assicurarla solo un governo inno-
LORENZO CESA
«Perché sia credibile un appello ai moderati deve essere costruito sui fatti, non sulle chiacchiere» vatore e solido con una base parlamentare più ampia, che lei non ha». Ai moderati, aggiunge Adornato, «non interessa un rimpasto ma una svolta che passa per le dimissioni» del presidente del Consiglio. «Non sarebbe una crisi al buio, è la fiducia che lei chiede ad essere al buio. Parla dei vecchi vizi della politica, ma non è affatto un vizio nuovo quello di tirare a campare senza una svolta di innovazione». Eppure Berlusconi, ricorda Adornato, «aveva la maggioranza più forte dal dopoguerra: doveva solo garantire la democrazia interna, ma chi non è stato in grado di tenere unito il proprio partito, può essere capace di tenere unito il Paese?». Fino all’appello conclusivo: «Non si senta il Berlusconi unto dal Signore ma il Berlusconi cittadino che garantisce un futuro al Paese».
«Lei non è il leader del centrodestra: ne è stato a lungo il proprietario. Temo che non lo sia più» bilità nazionale che dia respiro al Paese. Il Parlamento deve dare la fiducia a una figura autorevole e rispettata come lo era il Ciampi di diciotto anni fa».
Adornato presenta la mozione dell’area della responsabilità e parte dalle contraddizioni del Cavaliere: «C’è una nuova area di moderati che si va formando nel Paese e in Parlamento. Berlusconi chiede unità, ma ci vogliono fatti, atti politici, non parole». E i fatti, secondo Adornato, dimostrano una volontà esattamente contraria: «Lei cerca due o tre deputati in più pur di tirare a campare e rimane sordo alle richieste
Dalle file del Pdl la voce che si leva con più veemenza è quella di Massimo Corsaro, che si scaglia contro Fini il quale «come direbbe Di Pietro, con la destra non c’azzecca più niente». Lorenzo Cesa invece ribadisce: «Perché sia credibile un appello ai moderati deve essere costruito sui fatti, non sulle chiacchiere. Eviti una ridicola conta parlamentare», esorta rivolto al premier, «le sue dimissioni sono l’unico test di onestà della sua proposta, tutto il resto non ci interessa». Il segreta-
il retroscena Continuano fino a notte le trattative per evitare spaccature dentro Fli
Bossi boccia l’ultima mediazione di Fini
Astensione al Senato in cambio dell’addio del premier, chiedono i finiani per recuperare la «colomba» Moffa di Riccardo Paradisi poche ore dal voto sulla fiducia alla Camera e al Senato i giochi sono ancora aperti. L’ultimo fermo immagine rivela un vantaggio di misura per Silvio Berlusconi che dovrebbe avere i numeri per la fiducia. Sono almeno cinque i deputati ancora iscritti nel registro degli indecisi: l’ex Idv, Domenico Scilipoti, l’ex Pd ed ex Api Massimo Calearo, l’ex Pdl Paolo Guzzanti e i finiani Silvano Moffa e Maria Grazia Siliquini mentre Catia Polidori e Giuseppe Consolo sembrano rientrati nei ranghi della linea finiana. Massimo Calearo è talmente convinto dell’astensione da sperare di convincere anche gli altri.
A
Anche ieri, l’alleanza di ferro tra Umberto Bossi e Silvio Berlusconi ha dettato legge nella maggioranza. Puntando anche sulle incertezze del deputato di Fli Silvano Moffa (nella foto qui a destra) rio dell’Udc avverte: «Comunque andrà a finire lei uscirà ridimensionato. Ha governato per otto degli ultimi dieci anni, e oggi siamo dietro Haiti. L’Italia ha bisogno di un nuovo governo, un governo di pacificazione e di responsabilità nazionale».
Ta i finiani tocca a Della Vedova rivolgere a Berlusconi argomenti non lontani da quelli di Enrico Letta: «Lei dice: deve ritornare il senso della misura. Bene: ma che giu-
FERDINANDO ADORNATO
zione, avevano collaborato a creare il centrodestra». E dopo che anche il deputato dell’Api Gianni Vernetti assicura il sì dell’Api di Francesco Rutelli alla mozione di sfiducia, tocca a Rocco Buttiglione – prima che il Cavaliere, verso le 19, inizi la sua replica – ricordare i paradossi di questa crisi: «Nel mondo sembra avverarsi la profezia di Spengler ma qui ci occupiamo di tutt’altro. Abbiamo dato uno spettacolo miserevole, con critiche al parlamentarismo analoghe a quelle che dopo la Prima guerra mondiale hanno preparato l’avvento del fascismo». A Berlusconi, il presidente dell’Udc dice: «È fallito un progetto politico, è fallita la svolta del predellino. Quel progetto prevedeva la soppressione del centro, ma a tramontare è il Popolo della libertà. E con lui il governo e la formula politica del bipartitismo». Lo riconosce persino Walter Veltroni quando prende la parola, mentre D’Alema affonda su un altro punto debole: «Berlusconi non è il leader del centrodestra. Forse ne è il proprietario, o meglio lo è stato: perché anche questo credo non sia più vero».
«Non si senta più l’unto del signore, ma il cittadino Berlusconi: si dimetta per il bene del paese» sta misura c’è in un governo che in piena crisi resta cinque mesi senza ministro dello Sviluppo? Noi le abbiamo chiesto di mettere un punto e ripartire con una maggioranza allargata a quanti oggi all’opposi-
Il fronte della sfiducia perde sicuramente altri due voti: quelli dell’ex Idv Antonio Razzi e del neofiniano Giampiero Catone che annuncia il suo rientro nel Pdl e il suo sostegno al governo. Facendo una stima ancora approssimativa insomma l’opposizione può contare su 309 voti certi: 30 di Fli (Fini come presidente della Camera non vota), 22 di Idv, 206 del Pd, 35 dell’Udc, 6 di Api, 2 liberaldemocratici, 5 di Mpa, il repubblicano Giorgio La Malfa, Giuseppe Giulietti e Roberto Rolando Nicco. Il presidente del Consiglio ha dalla sua 311 si: 235 del Pdl, 59 della Lega, 12 di Noi sud-Popolari, Francesco Pionati dell’Adc, Francesco Nucara del Pri, Maurizio Grassano dei Liberaldemocratici, Bruno Cesario e appunto Catone. Tre invece dovrebbero essere gli astenuti certi: i due deputati di Svp Siegfried Brugger e Karl Zeller e il già ricordato presidente della Camera Fini. Ci sono poi da considerate le probabili assenze delle deputate in gravidanza Giulia Buongiorno, Giulia Cosenza e Federica Mogherini. Se dovessero mancare l’opposizione scenderebbe a 306. Ma mentre Giulia Buongiorno è proprio inchiodata a letto la presenza della Mogherini è a rischio visto che la gravidanza scade in questi giorni. La parlamentare promette però che se Marta, questo il nome della bimba in attesa di venire al mondo, aspetterà qualche ora, lei sarà in aula a votare. La stessa determinazione ha manifestato Giulia Cosenza, anche lei alle prese con una gravidanza difficile. Mogherini lancia addirittura un appello alle colleghe dell’altro schieramento: «Se domattina io fossi in sala parto, sarebbe bello che una collega del Pdl, per fair play, domani non partecipasse
alle votazioni. Sarebbe bello che fosse una collega parlamentare, magari la Saltamartini che è responsabile donne del Pdl». Ma torniamo alle fibrillazioni interne a Futuro e libertà perché è dalla dialettica tra falchi e colombe che dipenderà l’esito di questo voto di fiducia. Per trovare una mediazione nel tardo pomeriggio di ieri è spuntata a Montecitorio l’idea di un escamotage da adottare al Senato anche per aggirare il problema posto dal senatore Pontone che proprio non se la sente di sfiduciare Berlusconi. Si tratta di un documento che offre l’astensione di Fli al Senato di modo che il premier abbia in questo ramo del Parlamento la fiducia piena. Poi però Berlusconi prima di andare alla Camera dovrebbe dimettersi e ottenere così l’appoggio di Fli per un Berlusconi-bis. «Non si deve andare alla conta – dice nel tentativo di spiegare l’operazione il presidente dei senatori Fli Pasquale Viespoli – non è detto che non si possa realizzare un gesto forte del presidente del Consiglio». Ma la doccia fredda, il niet dalla maggioranza, arriva in tempo reale. A ufficializzarlo è il leader della Lega Bossi: che definisce quella dei finiani “proposta tardiva”. Nel Pdl i commenti sono più informali: «Fini fa melina per stanare i suoi moderati e metterli di fronte al fatto compiuto. Sa benissimo che Berlusconi non si dimetterà mai». Ma la proposta di Fli formulata al Senato non scioglie il nodo nemmeno dentro Fli.
Mogherini (Pd) lancia un appello: «Se fossi in sala parto sarebbe bello che una collega Pdl per fair play non partecipasse alle votazioni»
Da Montecitorio infatti
le colombe finiane fanno sapere che il nodo del voto di oggi resta, e per scioglierlo potrebbe non bastare l’incontro previsto in serata tra Fini e i suoi deputati: «Niente è ancora deciso» precisano Moffa e Siliquini. La quale sottolinea di non aver mai dato il proprio assenso a presentare la mozione di sfiducia contro Berlusconi: «Ho dato solo mandato per trattare con il premier. Ci sono diverse posizioni, ormai è chiaro – aggiunge la Siliquini – spero che quest’ultimo tentativo vada a buon fine. Altrimenti non so proprio cosa farò domani» lasciando intendere di non avere alcuna intenzione di votare la sfiducia al premier. Sull’ipotesi di abbandonare il gruppo dei finiani, nel caso in cui la trattativa dovesse fallire, la deputata torinese preferisce rimandare ogni valutazione alle prossime ore: «Domani è un altro giorno si vedrà». Il domani di ieri ora però è oggi. Fra qualche ora si saprà che faranno le colombe finiane e gli indecisi e soprattutto se l’Italia avrà ancora un governo o se si volta pagina.
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l’approfondimento
Le “terze forze” sono determinanti ovunque nel Vecchio Continente. E garantiscono stabilità e governabilità
Il bipolarismo che non c’è In Italia, il bipartitismo è fallito: non volerlo ammettere ha finito per ingessare il Paese, come si vede in questi giorni. Ma in tutta Europa quel sistema è stato superato: perfino nella roccaforte britannica, con l’accordo Cameron-Clegg di Osvaldo Baldacci n fantasma si aggira per il mondo. Anzi non si aggira per niente, anche se molti ci credono. È il bipolarismo, con eventuali pulsioni bipartitiche e collegati maggioritari. Sembra che in tutto il mondo questa sia la situazione politica e dei sistemi elettorali. E l’Italia si deve adeguare. Il fatto clamoroso è che è completamente falso. Non si tratta nemmeno di un mito, o di un misterioso animale leggendario. No, è proprio una balla. Ripetuta tante volte che gli italiani ci hanno creduto a lungo, e qualcuno nell’attuale panorama politico continua a ripeterlo nel tentativo di perpetuarsi. Ma sveliamo che il re è nudo. Il bipolarismo non esiste. Da nessuna parte. E anche i pochi modelli maggioritari che tentano di forzare verso un bipolarismo hanno clamorosamente fallito nel loro intento. Certo, se per bipolarismo si intende la dinamica tra maggioranza e opposizione, questa esiste ovunque, seppur articolata. E nessuno è contrario a questo.
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Se poi per bipolarismo si intende che esistono due maggiori aree politico-culturali di riferimento, a prescindere dal numero di partiti e anche dalle alleanze, questo si verifica spesso, e ha un senso. Ma se il bipolarismo è quello mitico sventolato da politici e politologi italia-
ni, beh, di quello proprio non c’è traccia. Nessuna. O meglio, in Europa un caso bipolare c’è, ma non so se possa fare da scuola: è Malta, dove esistono due soli partiti che si alternano al governo, il Partito Nazionalista e il Partito Laburista (e comunque nel 2008 il 2% dei maltesi ha scelto altre forze politiche minori). Ma vediamo quel che succede nelle grandi democrazie europee. Cominciando dalla Gran Bretagna, patria del modello anglosassone idolatrato come bipolare o meglio ancora bipartitico. Mai stato. E le ultime elezioni lo hanno smentito clamorosamente. Certo, storicamente le due forze maggiori sono i Conservatori e i Laburisti, chi lo discute, ma da sempre esistono altre forze importanti che hanno pesato anche quando il sistema maggioritario ha impedito loro di entrare in Parlamento. È il caso dei Liberal-Democratici, che hanno sempre raccolto consensi a due cifre, e che nonostante ogni avversità istituzionale siedono ora nel governo di coalizione (sì, di coalizione) cui hanno costretto i conservatori. A maggio il partito di Clegg è stato scelto dal 23% degli elettori ed è risultato decisivo, anche se un po’ meno delle attese, e tra le sue richieste incontestabili ha posto la riforma della legge elettorale in senso proporzionale. Sacrilegio nel tempio del bi-
partitismo! D’altro canto forse bisogna ricordare che anche prima dei liberali la Camera dei Rappresentanti era “contaminata” dalla presenza di altri partiti minori, spesso decisivi per le maggioranze. Nell’attuale Parlamento di Londra ad esempio siedono anche sei eletti del Partito Nazionale Scozzese, cinque del Sinn Fein, 8 del Partito Democratico Unionista, 3 del Plaid Cymru, 3 del Partito Social Democratico e Laburista, un Verde e persino un indipendente. A queste realtà vanno aggiunte altre forze politiche divenute importanti, a volte rappresentante a Strasburgo, ma assenti da Westminster: il Partito per l’Indipendenza del Regno Unito (che ha comunque superato il 3%), il Partito Nazionale Britannico (al 2%) e il Partito Unionista dell’Ulster. Un certo affollamento per una realtà dove il dogma prevede che esistano solo due partiti.
Veniamo ora al cuore dell’Europa, forse con una ricerca altrettanto puntigliosa almeno lì troveremo questo mitico sistema bipolare. Proviamo col Benelux, che della Ue è un cuore pulsante. Dunque, il Belgio no, non è un caso che fa per noi. Macché, meglio guardar proprio da un’altra parte: in Belgio persino i partiti di livello internazionale come popolari e socialisti sono divisi in due,
una formazione fiamminga e una vallone. Per non parlare dei movimenti germanofoni e della miriade di altri partiti a metà tra il localismo e le idealità globali. Facendo un conto sommario, attualmente si possono registrare oltre venti partiti politici, di cui dodici siedono alla Camera. Che dire dell’Olanda? Beh, si ricorderà il dibattito provocato dalle forze populiste accusate di xenofobia, prima con Pim Fortuyn, ora con Geert Wilders divenuto il terzo partito d’Olanda, il cui appoggio esterno è stato determinante per formare il governo liberal-democristiano dopo mesi di inconcludenza. Nel Parlamento eletto quest’anno i partiti sono dieci, e altri ancora sono rimasti fuori. Ma forse almeno nel piccolo Lussemburgo ci sarà questa semplificazione del sistema a due partiti o almeno due blocchi? Su duecentomila elettori, i partiti mandati alla Camera sono sei, a coprire tutte le tradizioni classiche (popolari, socialisti, verdi, sinistra). Della Germania e della Francia è quasi inutile parlare. In Germania di recente la Corte Costituzionale ha respinto alcune modifiche alla legge elettorale perché non garantivano a sufficienza il criterio fondante della proporzionalità. La Germania è uno dei Paesi politicamente più stabili e dal dopoguerra ha avuto appena un pugno di Cancellieri. Eppure ha pro-
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Savino Pezzotta giudica il premier un populista estremista che sfida tutti con i suoi comportamenti
«Non cadremo nella fiction del moderato immaginario»
«Spero ardentemente, e credo, che quello che ho letto sulla posizione della Chiesa non sia vero. Altrimenti il mondo cattolico dovrebbe fare autocritica» di Franco Insardà
ROMA. «Quando il mondo non mi vuol più mi rivolgo al buon Gesù». Savino Pezzotta liquida così l’invito che ieri Silvio Berlusconi ha rivolto ai moderati e aggiunge: «Se avesse avuto l’intenzione di fare un discorso serio e parlare ai moderati di questo Paese avrebbe dovuto muoversi prima». Onorevole Pezzotta, che cosa hanno in comune i moderati e il Cavaliere? A giudicare dai suoi atteggiamenti direi nulla. Possiamo dire, senza ombra di dubbio, che è stato un populista estremista che in questi due anni ha sfidato il mondo sia per i comportamenti personali sia per quelli politici. E allora? Non si comprende come pensa di potersi rivolgere ai moderati. È in perfetta sintonia con quelli che sono simpatetici con lui: i leghisti. Lei, quindi, da moderato respinge l’invito del premier? Non potremmo mai far parte di un governo con Berlusconi e la Lega. Siamo un’antitesi profonda verso il populismo di qualsiasi tipo e abbiamo una cultura moderata, democratica e riformatrice. La Chiesa cattolica, però, la pensa in maniera diversa... Se quello che hanno riportato i giornali dovesse essere vero, e spero che non lo sia, sarebbe una posizione inaccettabile. E lo dico da credente laico che segue l’insegnamento di San Tommaso d’Aquino il quale diceva che i prelati vanno ascoltati, ma alla fine bisogna lasciar decidere le coscienze. Se fossero vere quelle cose un po’ di domande anche all’interno del mondo cattolico potrebbero sorgere. Spero ardentemente, e credo, che quello che ho letto non sia vero. È d’accordo, invece, con la battaglia di Famiglia Cristiana sull’etica pubblica? Parliamo di una voce libera e seria in questo Paese, non asservita a nessun se non ad alcuni valori e principi. E io, come cristiano, ringrazio Famiglia Cristiana perché mi aiuta a mantenere quella dimensione di discernimento di cui abbiamo bisogno. Ha posto un problema vero: quello dell’etica pubblica. In questi ultimi mesi si è discusso di tutto tranne che del rispetto di quello che è pubblico, delle regole e del no al conflitto d’interessi. Tutti argomenti non all’ordine del giorno. Purtroppo l’etica pubblica, in questi ultimi anni, è stata bistrattata, strattonata e messa in discussione. Famiglia Cristiana fa bene a ricordarci che, invece, al di là di scandaletti e scandaloni, quando si fa politica ciò che va rispettata è l’etica pubblica e che il confronto e la raccolta di consensi non debba avvenire nei corridoi, nei palaz-
zi e nelle cene in ville private, ma nei luoghi pubblici. Quando la politica è costretta, o ha deciso di nascondersi, a utilizzare forme di pressioni indebite rispetto a chi deve esercitare un ruolo l’etica pubblica va a pallino. E se questo accade non lamentiamoci del declino anche di quella privata. È l’istantanea del governo Berlusconi. Questo governo non ha governato. C’è una questione che riguarda Berlusconi e per questo motivo voterò la mozione di sfiducia e mi opporrò a qualsiasi accordo con lui. Ma il problema è più generale. In che senso? Il sistema non consente di governare. Anche quelli del Pd dovrebbero rendersi conto che il problema non è solo Berlusconi, ma si tratta di qualcosa di
Si è minacciato e si continua a farlo che se si fosse messo in crisi il governo ci sarebbe stata una reazione negativa dei mercati. La cosa è vera, ma mi chiedo: i mercati si fidano di un governo che da sei mesi non governa e investiranno, se dovesse riuscire ottenere la fiducia grazie a qualche voto acquisito nelle ultime ore? Qual è la sua risposta? La situazione diventerà ancora più difficile da gestire e la furbizia e la vendetta dei mercati finanziari con un governo debole sarà più incisiva. Perché peserà su tutto la crisi economica, le famiglie in difficoltà, i milioni di ore di cassa integrazione e il tentativo di Marchionne di modificare il sistema delle relazioni industriali. Che cosa occorre allora? Un governo di grande coalizione per
«Diciamo no a un Berlusconi bis, no a un governo raffazzonato con qualche altro leader, sì a un esecutivo di unità nazionale» più strutturale: un bipolarismo straccione e sbagliato che non consente di governare, come ha dimostrato anche l’esperienza del governo Prodi. Non è un caso che i cofondatori di Pd e Pdl, a un certo punto, hanno sentito il bisogno di rendersi autonomi. E quindi? Bisogna cambiare. Chi si dichiara oggi riformista dovrebbe avere il coraggio di creare un sistema democratico di alternanza, diverso dall’attuale. Come? Basterebbero due piccole cose: togliere, o almeno contenere il premio di maggioranza, e reintrodurre le preferenze. In questo modo ci farebbe un grande passo avanti per la moralizzazione del Paese. Tutti si dicono d’accordo sul cambiare la legge elettorale, ma ognuno ha una sua idea. La mia è una proposta concreta che punta a modificare soltanto due cose. Intanto da almeno sei mesi l’Italia è bloccata sulla tenuta della maggioranza.
riaggiustare il tiro e poi tornare alla dialettica normale. Non inventiamo nulla: è quello che hanno fatto in Germania e oggi l’economia tedesca ha ripreso a correre. L’Italia, quindi, non è al riparo dalla congiuntura? Potrebbe esserlo con un governo di unità nazionale. Un governicchio o il ricorso alle urne sono un danno per il nostro Paese. Condivide il monito di Napolitano ad allentare le tensioni? Il Capo dello Stato non può fare altro. Bisognerebbe abbassare i toni, ma se quotidianamente si accusa e si minaccia chi non è d’accordo con il governo c’è poco da fare. La linea dell’Udc è chiara anche per il futuro. No a un Berlusconi bis, no a un governo raffazzonato con qualche altro leader, sì a un esecutivo di unità nazionale. Quelli del centrodestra devono smetterla di fare i tifosi, difendendo una sola persona, e incominciare a curarsi delle esigenze del Paese.
vato quasi tutte le coalizioni possibili (la stampa tedesca si diverte a dare loro soprannomi secondo l’accostamento dei colori), coalizioni formate dopo il risultato elettorale in base alle possibilità che gli elettori sono andati a creare. Sono ormai almeno sei i partiti storici tedeschi, a partire dai democristiani che però in realtà sono divisi tra la Cdu nazionale e la Csu bavarese. Poi ci sono i socialdemocratici, la sinistra (Linke) nata dalla fusione dei comunisti con i fuoriusciti della Spd, i Verdi, i Liberali.
Dicevamo della Francia dalle grandi personalità presidenziali. Ebbene anche qui, come è noto, nonostante i personalismi e un sistema elettorale a doppio turno che favorisce i partiti maggiori non c’è modo di ridurre a due le realtà politiche. Nonostante la relativamente recente fusione di diverse forze del centro-destra nell’Ump, all’Assemblea Nazionale sono rappresentati numerosi partiti politici. Tre per la maggioranza, quattro per l’opposizione di sinistra, uno per l’opposizione di centro. Resta inoltre fuori il Fronte nazionale. Due seggi sono appannaggio di “altre liste”, mentre indipendenti e movimenti minori hanno 9 deputati che appoggiano la maggioranza e 15 schierati con la minoranza. Il ballottaggio presidenziale e la forte connotazione dei leader è solo una maschera che non può cancellare la pluralità politica del sistema francese. Non è poi nel Mediterraneo che possiamo andare a cercare la chimera del bipartitismo anglosassone, anche se poi si finisce per scoprire che la prevalenza di due blocchi culturali è più facile dove non ci sono forzature. È il caso spagnolo e quello greco, ad esempio. In Spagna il sistema politico è basato sul multipartitismo anche se di fatto la contrapposizione storica è tra Popolari e Socialisti, ma non si governa senza i tanti partiti minori, specie quelli di stampo localistico. Nell’attuale Congresso sono rappresentati dieci partiti, di cui almeno cinque regionalistici. I Socialisti di Zapatero governano ma da soli non raggiungono la maggioranza dei seggi. Anche in Portogallo la scena gira intorno a due partiti prevalenti, il Partito Socialista e il Partito Social-Democratico (che è di centro-destra), ma hanno più di 15 deputati a testa anche il Partito Popolare, il Blocco di Sinistra e la Coalizione Democratica Unitaria. Anche qui, senza i partiti minori non si governa. È semmai in Grecia che il sistema elettorale favorisce la formazione di governi omogenei, grazie a un complesso sistema che è a rappresentanza proporzionale, ma poi premia il primo partito e penalizza il secondo. In questo modo nella giovane democrazia si sono alternati al governo i socialisti del Pasok e i rivali di Nea Demokratia, senza che questo escluda dall’azione politica altri movimenti di varia ispirazione, dagli ortodossi ai comunisti ai verdi, una decina di partiti alcuni dei quali presenti ad Atene (oggi tre per una cinquantina di seggi) o Strasburgo. A Cipro il governo è di coalizione fra tre partiti di sinistra, mentre all’opposizione si collocano il Raggruppamento Democratico, i Verdi ed Euro-Ko. Per chiudere il discorso dell’Unione Europea, restano i Paesi dell’est, i quali troppo a lungo si sono trovati con un partito solo perché ora possano accontentarsi di due. In nessuna di queste realtà vige una forma di bipolarismo stretto. E così, Italia a parte, abbiamo fatto il giro di tutta l’Unione Europea. Di sistemi ingessati su due fazioni non abbiamo trovato traccia.
diario
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Blitz antimafia a Palermo
Bonaccorti, un libro sul fine-vita
PALERMO. Operazione antimafia, ieri a Paleremo, contro il mandamento guidato dai boss Salvatore Lo Piccolo e dal figlio Sandro. Gli investigatori della Squadra mobile hanno eseguito 63 ordini di custodia cautelare in carcere nei confronti di esponenti delle famiglie di San Lorenzo, Tommaso Natale, Partanna Mondello, Terrasini, Carini e Cinisi nel mandamento mafioso controllato dai Lo Piccolo fino al momento del loro arresto, il 5 novembre del 2007. Per tutti le accuse vanno dall’associazione per delinquere di stampo mafioso, all’estorsione, all’associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, porto e detenzione di armi da fuoco, intestazione fittizia di beni, reati aggravati dalla modalità mafiosa.
Tremonti-Report è guerra aperta
ROMA. «Un romanzo che ruota intorno ai confini labili della coscienza». Così Enrica Bonaccorti descrive il suo L’uomo immobile, presentato ieri a Roma insieme all’onorevole Anna Teresa Palmisano dell’Udc e Eugenia Roccella presso la Fondazione Santa Lucia. «L’ho letto con passione – spiega aliberal la Palmisano – perché è capace di innestare mirabilmente l’amore in un tema delicato come il fine vita». «Abbiamo presentato il volume al Santa Lucia per una ragione precisa. È un grande ospedale ad alta specializzazione per la riabilitazione neuromotoria.Tutti ne parlano benissimo, salvo poi venire dimenticato al momento dell’erogazione dei fondi. Un bene di tutti, che va salvaguardato come merita», chiosa la Palmisano.
ROMA. «Perché mi è stato comunicato così in ritardo dell’esposto del ministro Tremonti contro Report e su mia richiesta?». Milena Gabanelli apre la puntata del 12 dicembre con questo interrogativo, lamentando di essere venuta a conoscenza solo due giorni fa dell’iniziativa del titolare del dicastero dell’Economia, che è stata invece notificata alla Rai lo scorso 29 novembre. La Rai, spiega la giornalista, come da prassi, ha 30 giorni di tempo, fino al 29 dicembre, per predisporre le sue memorie difensive. «Io sono entrata in possesso dell’esposto solo il 10 dicembre, quindi 12 giorni dopo la notifica». La direzione Affari Legali della Rai tuttavia ha precisato: «Non c’è stato nessun ritardo di alcun tipo».
Ricomincia la trattativa tra i sindacati per il futuro di Mirafiori: e già si parla di una accordo separato (senza Fiom)
Se la Fiat rompe con Emma
Confindustria sempre più in difficoltà per la strategia di Marchionne di Francesco Pacifico
«Non capisco la voglia di Sergio Marchionne di uscire da Confindustria, mi sembra una radicalizzazione al contrario, pari solo a quella della Fiom»: così ha detto Raffaele Bonanni. «Noi siamo pronti a trovare un accordo con la Fiat, ma tutto deve avvenire dentro il sistema delle regole contrattuali firmate l’anno scorso»
ROMA. Raffaele Bonanni consiglia a Sergio Marchionne di cambiare atteggiamento. «E di non fare una radicalizzazione pari a quella della Fiom». Federmeccanica ha inviato la riunione in programma giovedì per trattare con i sindacati sulle «norme specifiche per il settore auto». Quaranta tra cassintegrati e precari ha fatto irruzione ieri a Roma dove si presentava l’ultimo libro del leader Cisl. Eppure tra i metalmeccanici di Fim Cisl e Uilm sono convinti che entro Natale – e molto probabilmente alle condizioni del Lingotto – si firmerà l’accordo sullo stabilimento di Mirafiori.
In quest’ottica decisiva sarà la giornata di domani, quando al direttivo di Confindustria Emma Marcegaglia spiegherà ai suoi i termini dell’accordo stretto a New York con Marchionne, per evitare l’abbandono di Fiat da viale dell’Astronomia. E che, si teme, vada ben oltre la semplice uscita delle newco di Mirafiori e Pomigliano da Federmeccanica. La richiesta di un contratto ad hoc fatta da Marchionne non è novità: l’aveva lanciata anche un anno fa quando sul tavolo delle trattative era finito il futuro di Pomigliano d’Arco. Ma se non se ne era fatto nulla era anche perché imprese e FimCisl e Uilm avevano stretto un patto di ferro per fare quadrato intorno al contratto dei metalmeccanici. Ma adesso il fronte si è disgregato ed è facile capire chi abbia fatto un passo indietro. Così la decisione della Fiat di regolare in maniera diversa i rapporti di lavoro a Mirafiori, a Pomigliano e forse anche negli
altri stabilimenti del Lingotto, rischia di far riscrivere i basilari stilemi della rappresentanza. Sicuramente questa mossa mette nell’angolo Federmeccanica, che come dimostra il plauso concesso alla Marcegaglia quando ha riaperto le porte a Susanna Camusso, non ha mai voluto spingere l’acceleratore nello scontro con la Fiom. E finiscono nell’angolo anche Bonanni e il suo omologo uil Luigi Angeletti, che potrebbero vedere naufragare il lavoro fatto sulla contrattazione di secondo livello. Per loro la leva principale per aumentare i salari e vincolare la produttività ai posti di lavoro. Secondo Giuliano Cazzola, in passato segretario nazionale della Cgil e oggi vicepresidente della commissione Lavoro del-
la Camera, «l’obiettivo di Marchionne è semplice: ottenere soltanto un’intesa che affronti i problemi di Fiat senza fare tanti giri. Ma questo soluzione può essere lacerante per tutto il sistema. Noi abbiamo un tessuto di piccole imprese che è fuori dalla struttura contrattuale, vive in un mondo e in tutele tutte sue, al di sotto dei vincoli dello Statuto dei lavoratori. Se anche la grande imprese esce da questo alveo, Confindustria e sindacati cosa ci stano a fare?». Di conseguenza c’è da capire a che cosa punta davvero Fiat. Ieri sera, durante un incontro in corso Trieste tra i meccanici di Cgil, Cisl e Uil, si sono poste non poche domande: se l’azienda vuole un pacchetto di norme ad hoc soltanto per rilanciare due stabilimenti scarsamente
produttivi come Mirafiori e Pomigliano oppure li vuole estendere a tutti i siti; se davvero, senza i vincoli imposti da Federmeccanica, è pronta a rientrare in Confindustria dopo una pausa di due anni. Soprattutto spaventa l’idea che questo nuovo contratto non valga soltanto per le automobili, ma anche per tutta la filiera: e in questo caso il Lingotto porterebbe sconquasso anche in altre categorie dove sono iscritte le sue terziste. E parliamo di categorie importanti come i chimici o i trasporti. Spiegano da viale dell’Astronomia: «Quello di Marchionne è come un assist e sta noi a decidere se buttare la palla in rete, approfittando della cosa per superare molti vincoli dell’attuale sistema contrattuale, o
farcela passare sopra la testa. Quel che è certo è che non si può avere la presunzione di contenere tutto il sistema in un’unica realtà, con gli stessi mezzi e le stesse strutture». Non ci sono soltanto gli interessi della meccanica in Confindustria. Soprattutto in un momento come questo dove il settore non è il più principale pivot delle esportazioni italiane e la disoccupazione sale. In Federmeccanica il presidente Pier Luigi Ceccardi fa sapere che non ci sono contrasti con Torino, ma fa notare di non «sapere se nascerà un’altra organizzazione per l’industria dell’auto». Ma non mancano iscritti che dicono senza mezzi termini di «essere stati scaricati dalla Marcegaglia». Sono gli stessi che ricordano che Fiat
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Alberi di Natale: risparmio e rispetto
Il debito (anche quello italiano) nel mirino dell’Europa ROMA. Nei sedici Paesi dell’euro è in corso una «moderata ripresa», ma «i rischi rimangono»: solo tiro e molla macroeconomico per l’Ocse che ieri ha presentato il rapporto sull’area euro. Che cosa serve per il futuro? «Il consolidamento fiscale per stabilizzare i conti pubblici è la priorità», innanzi tutto. E poi: «I deficit dovrebbero essere ridotti attraverso dettagliati e credibili piani di rientro pluriennali», mentre ”altre misure dovrebbero essere adottate per ridurre l’indebitamento a un livello più prudente». Più nello specifico, per i Paesi dell’area euro con un debito che supera il 60% del Pil (e l’Italia tra questi), «dovrebbe essere adottata una appropriata definizione operativa della riduzione del debito», suggerisce Ocse auspicando che venga finalmente «applicato con efficacia» il criterio del debito del Patto.
rappresenta meno di un ventesimo del fatturato complessivo degli associati e un decimo della forza lavoro. Eppoi ci sono quelle spinte del Lingotto «per esasperare le trattative sindacali», le richieste di aumentare il numero degli straordinari e i sabati lavorativi, sulle quali Federmeccanica ha sempre frenato per evitare scioperi selvaggi. D’altro canto, se esce Fiat, allora il contratto dei meccanici, perno sul quale si fonda il potere d’interdizione dell’associazione di Ceccardi, perderebbe peso. Il Lingotto accuserebbe la sigla di essere troppo rigida, di aver fatto dei contratti talmente deboli per le imprese, che la parte per incrementare la flessibilità è inapplicabile per chi deve modulare le catene di montaggio in base alle curve di mercato. Senza, per giunta, riuscirsi. Eppoi il livello di conflittualità del Paese. Se è vero che il numero di scioperi all’interno degli stabilimenti Fiat è contenuto, Fiom e Cobas non perdono l’occasione di mettersi di traverso: emblematico che a Pomigliano, stabilimento ancora in fase di restyling, gli autonomi abbiano già proclamato per il triennio scioperi preventivi sugli straordinari. Da qui l’ambizione di un nuovo contratto fuori dal sistema confindustriale, per rendere meno agevole l’attività sindacale di chi respinge i contratti. Visto che l’accordo interconfederale del 1993 prevede che anche le sigle non firmatarie possano presentare le liste per le Rsu in uno stabilimento, se hanno il 5 per cento degli iscritti. Se il sistema delle relazioni di Confindustria si dimostra conservativo, anche il sindacato fa fatica a seguire le richieste del Lingotto. Al riguardo il capo dell’auto della Uilm, Eros Panicali, ammette che «è vero che Fiat aveva proposte simili già nei mesi scorsi, ma noi pensavamo che la strada giusta da seguire fossero le deroghe, come per Pomigliano d’Arco. Ma se non le applica il colosso dell’auto, chi le applicherà mai? Tanto che a questo viene da chiedersi se sedersi al tavolo
g i u d i z il e t t e r ep r o t e s t es u g g e r i m e n t i
D’altra parte, «sarà necessario un grosso sforzo di consolidamento del debito per soddisfare gli impegni del Patto, e in molti Paesi servirà una posizione di bilancio rigorosa per molti anni per poter tornare a livelli prudenti di debito. Insomma, anche l’Ocse dà per scontato che la politica europea sul rientro del debuto entro il 60% (una strategia comune che penalizzerebbe parecchio l’Italia) sia la strada che la Ue seguirà effettivamente nei prossimi mesi.
Si lavora per trovare un’intesa entro Natale. Scontri alla presentazione del libro di Bonanni
Dall’alto: Susanna Camusso, Bonanni, Maurizio Landini e Emma Marcegaglia. Nella pagina a fianco, Sergio Marchionne
per Mirafiori o per discutere di tutti gli stabilimenti dell’auto presenti in Italia». Qui, nel Belpaese, Marchionne vuole entro il prossimo quadriennio costruire 1,3 milioni di auto, investire 20 miliardi di euro e mantenere intatta una pianta organica che è di quasi 80mila dipendenti. Per non parlare del fatto che il manager è disposto a pagare il surplus di flessibilità, i 18 turni e i sabati lavorativi, con circa 300 euro nette in busta paga per gli operai e consentendo al sindacato di trattare persino sull’indennità dei manager, che fino all’anno scorso è stata sempre concessa in maniera unilaterale. Dato per scontato che anche questa volta Fiom non firmerà nulla, FimCisl e Uilm studiano come uscire dalle impasse. Ufficialmente le due organizzazioni hanno detto no alla Fiat sia per le nuove regole per ridurre i giorni di malattia sia per il contratto dell’auto. Ma stanno lavorando con i loro consulenti legali per salvare sia la produzione della Giulietta e della Jeep sia per evitare che questo tipo d’intesa finisca per indebolire la contrattazione di secondo livello.
La proposta alla quale si lavora è semplice: come concesso trent’anni fa alla siderurgia, si vuole prevedere una disciplina speciale per l’auto nel contratto dei metalmeccanici. E se questo non bastasse, in via Po e via Lucullo potrebbero accettare anche un’uscita temporanea di Fiat dal sistema confindustriale e un’intesa ad hoc. Sono in molti a scommettere in un via libera entro Natale. Per un accordo l’importante però è fissare dei tempi ben precisi. Perché, come ha ricordato Raffaele Bonanni, «Marchionne deve investire, questo è il primo punto. Poi, una volta che si acclara che c’è l’investimento, discutiamo le forme, ma qualsiasi soluzione deve restare dentro le linee guida contrattuali, che la Cisl ha contribuito notevolmente a costruire nel 2009». Quel secondo livello che un tempo era un mantra anche per la Confindustria.
Acquistare un albero di Natale: come risparmiare? Il consiglio primario è di rinunciare all’abete vero e scegliere quelli finti: le produzioni sono diversificate e l’effetto “abete vero”si può facilmente ottenere anche con quello finto; la maggiore precauzione, specialmente per quelli più economici che provengono dai mercati asiatici, è di porre attenzione ai marchi di garanzia di produzione e al materiale utilizzato: trattandosi di un oggetto che sarà sicuramente molto palpeggiato dai bambini; la sensibilità di questi ultimi a materiali irritanti è maggiore di quella degli adulti, quindi la precauzione non è mai troppa e i consigli del commerciante possono essere importanti. Se proprio non si può fare a meno dell’abete vero, ci sono due metodi: non fermarsi alla prima offerta e, soprattutto, non credere che quelli venduti per strada da improvvisati ambulanti debbano necessariamente costare meno; aspettare ad acquistarlo fino agli ultimi giorni prima di Natale, quando la possibilità di un esubero di una merce invendibile dopo il 25 dicembre, indurrà i commercianti a essere più disponibili nel praticare sconti. Infine - consiglio valido anche per chi non è interessato a risparmiare - scegliere l’abete vero solo se si ha possibilità di ripiantarlo. Se non si ha un giardino proprio, dove magari l’albero potrà essere riutilizzato anche l’anno successivo con una suggestione diversa rispetto al chiuso delle mura domestiche, conviene informarsi presso le locali associazioni ambientaliste e il corpo forestale dello Stato: ripiantarlo in un luogo giusto (per armonia, anche estetica, della natura), oltre ad arrecare un beneficio all’ambiente, serve meglio alla propria coscienza ecologica.
Giuseppe Abete
UN PENSIERO SU CUI MEDITARE Semplicemente per ricordare che la violenza sugli animali è il tirocinio della crudeltà sugli uomini.
Associazione Animalisti Italiani Onlus
L’IMMAGINE
Pelosa e... contenta La peluria superflua non le dà noia. Anzi, è il suo “salvavita”. Grazie alla spessa pelliccia, infatti, la lontra di mare sopporta le rigide temperature delle coste nordamericane e asiatiche del Pacifico LE LETTERE AL DIRETTORE TUTELANO IL CITTADINO L’uomo della strada è il signor nessuno, il milite ignoto della battaglia per la libertà. Egli è il comandato, che deve ubbidire agli obblighi e ai divieti del potere comandante. Pur meritevole, può soccombere nella dura lotta per la vita, se estraneo a lobby o congreghe. Molte pubbliche amministrazioni evitano di nominare il Difensore Civico. La stampa ha il dovere di dedicare ampio spazio alle rubriche “Lettere al Direttore”, per tutelare la persona comune, altrimenti indifesa e talvolta umiliata. Il potere tende a corrompere. Chi lo detiene può abusarne, per avvantaggiarsi, nonché raccomandare e assumere familiari, amanti, amici, sodali e altri potenti. Cane non mangia cane. Il comune cittadino può venire emarginato, imbavagliato e derubato di posti e funzioni. I trucchi possono battere il merito e avvilire le virtù e il consorzio civile.
Gianfranco Nìbale
ALEMANNO COME BABBO NATALE? “E chi sono io, Babbo Natale?”È la frase di una nota pubblicità che fa riferimento ad una eccessiva generosità che potremmo adattare alla questione “parentopoli romana”, di cui sono piene le cronache di questi giorni. Insomma, il sindaco Alemanno, potrebbe essere paragonato a Babbo Natale: tutte quelle assunzioni fatte negli ultimi due anni e mezzo sono una manna per gli assunti, ma non lo sono per i romani che ripetono la frase di Totò nel film 47 morto che parla: «E, io pago!» Si accerterà che il sindaco non c’entra nulla, che le procedure sono state rispettate, ecc. Già, ma qualcuno dovrebbe spiegare ai contribuenti romani come si riesce a unificare tre aziende di trasporto comunale e contestualmente assumere nuovi dipendenti. In genere un’operazione del genere comporta una contrazione del personale, invece, assistiamo a nuove assunzioni.Vorremmo dire al sindaco Alemanno che non è tanto la sinistra, cioè l’opposizione, che lo accusa, ma i cittadini che non vedono luce ai mali della città a iniziare dalle cose semplicisemplici, come disintasare tombini e caditoie affinché Roma non faccia il gemellaggio con Venezia ogni volta che piove.
Primo Mastrantoni
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il paginone
Giovane maestro del pensiero liberal, declinò istanze sociali e liberaliste in un’originale alchimia ideo molto raro che un archivio personale (sia pure gestito da una Fondazione o da un Centro studi) finisca per avere una vita propria, pubblicato da una casa editrice e messo in vendita in libreria. Un elenco di titoli (di volumi, epistolari, carteggi, appunti, e quant’altro rappresenta la memoria di un uomo): arido, persino impersonale, freddo e privo di una qualunque suggestione. Questa sorte è toccata alle carte di un personaggio chiave dell’Italia liberale, quella che cercò di ostacolare la presa del potere di Mussolini e pagò prezzi individuali (e collettivi) altissimi quando il fascismo si trasformò, a tutti gli effetti, in un regime. L’archivio di Piero Gobetti (curato da Silvana Barbalato) è stato pubblicato dall’editore Franco Angeli (342 pagine, 40 euro) e dal Centro Studi intitolato al giornalista-editore che fu uno dei più fieri, e lucidi, oppositori del fascismo, con un sottotitolo che offre una chiave che giustifica l’iniziativa, affatto speciale: Tracce di una prodigiosa giovinezza.
È
L’eccezionalità dell’evento è sottolineata nell’introduzione da Marco Scavino: «La pubblicazione dell’inventario di un fondo archivistico non è mai stato un fatto di routine. La maggior parte degli inventari non gode, infatti, di questo privilegio; la si trova semplicemente nelle sale di consultazione degli archivi, a disposizione degli studiosi, e semmai ne esistono delle versioni informatizzate – più o meno sintetiche e standardizzate – nei siti internet degli istituti di conservazione. Si tratta di strumenti di lavoro, utilissimi (anzi: indispensabili per la ricerca storica) ma di carattere inevitabilmente specialistico e quindi, in genere, pressoché sconosciuti al grande pubblico». Gobetti meritava quest’attenzione in virtù della sua vita breve e intensissima. Morì ad appena venticinque anni, ed era – da tempo – uno degli intellettuali più impegnati nelle battaglie civili e nell’opera di risveglio delle coscienze. Nel 1917, ancora minorenne e studente liceale, aveva fondato un quindicinale – Energie nuove – che si ispirava alla filosofia di Croce e di Gentile e al liberalismo di Luigi Einaudi, di cui si considerava un allievo nella concezione del liberalismo antiparassitario. Divenne poi il leader del liberalismo rivoluzionario, che giudicava positivamente la rivoluzione russa, come liberazione di massa e premessa per uno Stato Nuovo. Era stato amico di Gramsci e collaboratore del suo quotidiano Ordine nuovo. Nel 1922 (quando aveva soltanto ventuno anni, e mancavano pochi mesi alla Marcia su Roma) pubblicò il primo numero del settimanale La rivoluzione liberale che si proponeva di formare «una classe politica dotata di una chiara coscienza delle sue tradizioni storiche e delle esigenze sociali nascenti dalla partecipazione del popolo alla vita dello Stato». Il giornale subì parecchi sequestri, e lo stesso Gobetti fu incarcerato e subì una grave aggressione squadristica, che ne minò seriamente il fisico. Nel 1923, quando il fascismo aveva preso il potere, Gobetti fondò anche una casa editrice: come sfida ai nuovi governanti, i libri pubblicati recavano impresso il motto: “Che ho a che fare io con gli schiavi?”. Alla fine del 1924, rendendo-
Franco Angeli ricostruisce l’archivio del grande animatore della cultura antifascista, che pagò a caro prezzo il sogno di una società nuova
Gobetti, il libera
di Massim si conto di quanto fosse difficile e pericoloso il compito che si era assunto, fondò una nuova rivista – il Baretti – che si occupava esclusivamente di cultura e letteratura e alla quale collaboravano molti intellettuali di altissimo livello come Benedetto Croce, Luigi Einaudi, Giuseppe Prezzolini, Giustino
un saggio – intitolato ancora Rivoluzione liberale – che contiene la summa del suo pensiero. Nell’introduzione Gobetti scriveva: «Non si comprende nulla del nuovo pensiero dei giovani se non si avverte che la nostra formazione spirituale è stata in qualche modo interrotta e travagliata per opera del fascismo, che
con un articolo intitolato “Operai e industria moderna”.
Un gesto estremo di provocazione e di sfida al regime, deciso a soffocare le voci residue di opposizione. Scrisse una lettera a Giuseppe Prezzolini: «Le mie previsioni sono compiute: ho avuto una
Nel 1923, quando il fascismo aveva preso il potere, fondò una casa editrice. Come sfida ai nuovi governanti, i suoi libri recavano impresso il motto: “Che ho a che fare io con gli schiavi?” Fortunato, Leone Ginzburg, Natalino Sapegno, Emilio Cecchi. Titolare di una casa editrice, pubblicò alcune centinaia di opere, fra le quali spicca la prima edizione di Ossi di seppia, la più famosa fra le raccolte di poesie di Eugenio Montale. Nel febbraio del 1926 fu costretto a lasciare l’Italia per rifugiarsi in esilio a Parigi. Ma la sua salute era stata fiaccata dalle molte violenze subite e, una settimana dopo essere arrivato nella capitale francese, morì venticinquenne. Poco prima di morire aveva scritto
ci ha costretti a una chiusa e severa austerità, a un donchisciottismo disperatamente serio e antiromantico, quasi fossimo diventati noi i paladini della civiltà e delle tradizioni».
Nel mese di ottobre del 1925 una diffida prefettizia aveva rivelato a Gobetti la cruda realtà: la condanna definitiva del suo settimanale. Incurante dei rischi ai quali andava incontro, aveva compilato l’ultimo numero della Rivoluzione liberale, che si apriva
diffida che informazioni assunte mi fanno ritenere di origini presidenziali e quindi irrevocabili». Concluse quel messaggio con questa frase: «Potrei venire a patti, ma non lo farò». Pochi giorni più tardi – esattamente l’8 novembre – uscì l’ultimo numero, condannato a una diffusione talmente limitata che alcuni illustri studiosi (Lelio Basso, fra gli altri) ne ignorarono l’esistenza. L’intimidazione del regime non riguardò soltanto Gobetti. Pochi mesi prima era stato arrestato Gaetano Salvemini. Alla fi-
il paginone
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ologica che fu ritenuta assai pericolosa nel corso del Ventennio. Nelle sue carte, c’è la storia del Paese Qui accanto, un’immagine simbolica scattata a Anzio, luogo del celebre sbarco a sud di Roma, subito dopo la Liberazione dal nazifascismo. Il regime combatté duramente il pensiero liberale di Piero Gobetti (qui in una rara immagine): prima costringendolo
all’esilio poi malmenandolo. In conseguenza dei colpi subiti, Gobetti morì a esule a Parigi nel febbraio del 1926, a soli 25 anni. Nella pagina a fianco, la copertina del volume edito da Franco Angeli
ale senza libertà
mo Tosti ne di novembre il Corriere della Sera pubblicò il “commiato”di Luigi Albertini. Mettendo in rapporto la sorte di Albertini e quella di Gobetti, molti anni più tardi Giovanni Spadolini scrisse: «I due grandi filoni del liberalismo italiani, quello che si ricollegava alla Destra storica con una vibrazione quasi religiosa, e quello che si spingeva in direzione dell’esperienza gramsciana dei Consigli di fabbrica con l’anticipazione di una diversa e molto più comples-
di una grande casa editrice, non più soltanto italiana ma europea, destinata a diventare quello che era stata la tipografia di Capolago (che in Canton Ticino editò in modo clandestino molte opere di patrioti) per il Risorgimento italiano». In quella lettera a Prezzolini, gli annunciò: «È probabile che mi decida di venire a Parigi, per lavorarci come editore, se sarà possibile. Qui qualunque mia iniziativa, anche letteraria, sarebbe sabotata in odio a me».
stato un grandissimo editore, se avesse potuto realizzare fino in fondo il suo piano».
Gobetti non ebbe il tempo di sviluppare i propri progetti politici ed ideologici che lo avrebbero portato al connubio fra liberalismo e socialismo, la linea che fu poi teorizzata dai fratelli Rosselli e che, al momento del crollo del fascismo, portarono alla nascita del Partito d’Azione.
Alla fine della Grande Guerra, scrisse: «L’Italia ha vinto, ma se i suoi dirigenti fossero stati migliori l’avrebbe fatto prima. È finita una guerra. Ne comincia un’altra. Più dura e spietata». sa società italiana, erano soffocati quasi negli stessi giorni». E due mesi prima la Stampa di Frassati era stata addirittura sospesa per un mese, con il pretesto di una inesistente offesa all’esercito. Gobetti non si dette per vinto, fino all’ultimo, anche se tutto sembrava franare intorno a lui. Mantenne, raccontò ancora Spadolini, «il sogno
Anche con un’altra anima del liberalismo (quella impersonata da Benedetto Croce) Gobetti si trovò spesso in contrasto. Ma, un quarto di secolo dopo la sua morte, don Benedetto serbava un ricordo commosso di Gobetti: «Fu un grande scopritore di talenti», confidò a un amico, «e sarebbe
Nel 1948 un altro enfant prodige del pensiero politico, Giovanni Spadolini (allora ventitreenne) pubblicò un articolo in ricordo di Gobetti, del quale vale la pena citare alcuni passaggi, anche perché (mentre ci apprestiamo a celebrare il 150° anniversario dell’Unità d’Italia) chiamano in causa il Risorgimento incompiuto e i problemi
che l’Italia dei notabili non era riuscita ad avviare a soluzione. Alla vigilia della fine della Grande Guerra, Gobetti scrisse: «L’Italia ha vinto. Ma se avesse avuto una classe dirigente meno incolta, più consapevole delle sue tradizioni e dei suoi doveri, meno avida moralmente, l’Italia avrebbe vinto assai prima e assai meglio. È finita o sta per finire una guerra. Ne comincia un’altra. Più lunga, più aspra, più spietata». La guerra per la riforma del Paese, innanzitutto sul piano culturale e morale (una guerra non ancora conclusa, quasi cent’anni dopo quelle riflessioni). «La rivoluzione liberale? L’Italia», scrisse Spadolini nel 1948, «non ha mai avuto una rivoluzione liberale. Gobetti lo sapeva e lo capiva appunto perché era liberale più che nella misura esterna della sua posizione politica nel profondo del suo atteggiamento spirituale. Il liberalismo era coscienza dei problemi e volontà di risolverli e il Risorgimento aveva sentito e risolto così pochi problemi che non fossero puramente giuridici materiali e formali. Il liberalismo era senso della crisi e tensione alla novità e il Risorgimento era stato più un compromesso con la tradizione, che non una crisi rivoluzionaria, più un ritorno al passato, all’Italia cattolica e romana, che non uno slancio verso il nuovo, verso l’Italia liberale e moderna. Piuttosto rivoluzione conservatrice, che non rivoluzione liberale il Risorgimento era stato. L’unico liberalismo, ch’era allignato in Italia nell’Ottocento, l’unico liberalismo, che poteva allignare in un paese come il nostro, conformista e tradizionalista per definizione, era una specie o una sottospecie del conservatorismo, come capiva Gobetti, che rappresentava un termine inseparabile dal cattolicesimo in religione, dallo spiritualismo in filosofia, dalla monarchia in politica. Il liberalismo era per lui un impegno di vita, una forma della morale e della coscienza. Esso implicava una nuova iniziativa spirituale, una diversa dialettica politica, una liberazione economica, ma per affermare un liberalismo siffatto, erano necessarie una riforma religiosa, un rinnovamento morale e una revisione istituzionale».
Gobetti riuscì a mettere insieme (prima di Giustizia e libertà dei Rosselli) le molte anime “moderne” che si affacciavano allora (nonostante i problemi creati dal regime) il “problemismo” di Salvemini, l’“eclettismo” di Prezzolini, l’“empirismo” di Einaudi, lo “storicismo” di Croce, il “rinnovamento liberale” auspicato da Missiroli e l’idealismo inquieto dell’epoca. Se ne andò a venticinque anni non ancora compiuti quel «giovane alto e sottile» (così lo descrisse Carlo Levi) che «disdegnava l’eleganza della persona, portava occhiali a stanghetta, da modesto studioso», con «i lunghi capelli arruffati dai riflessi rossi» che «gli ombreggiavano la fronte». Una specie di sacerdote laico che lasciò questa frase, che ha l’impronta di un testamento morale: «La sicurezza di essere condannati – la crudeltà inesorabile del peccato originale, volendo usare forme mitiche di espressione – è la sola che possa dare l’entusiasmo dell’azione, con la responsabilità, con il disinteresse». L’inventario dell’archivio gobettiano potrà, forse, riaprire gli studi su un uomo che – fino a oggi – non ha trovato lo spazio che meriterebbe nella storia del pensiero politico del secolo da poco concluso.
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Taglio alla burocrazia: al via la semplificazione della procedura di richiesta per placet di soggiorno e lavoro in Europa di cittadini di Paesi terzi
Un immgrato per tutti Strasburgo vota il “permesso unico” per i migranti nei 27 Stati dell’Ue. Una svolta piena di ombre di Laura Giannone
ROMA.
Se non ci saranno cambiamenti di programma o reazioni dell’ultima ora, l’Europa oggi si appresta a dare la seconda stoccata agli immigrati che vorrebbero raggiungere il Vecchio Continente. Il Parlamento di Strasburgo, che ha già cominciato ieri la discussione, dovrebbe infatti votare nel pomeriggio in sessione plenaria la direttiva sul cosiddetto “permesso unico”, uniformando i procedimenti previsti dai diversi membri dell’Unione. Il testo, che mira a creare una politica globale in materia di immigrazione, atto più che ragionevole, presenta però una serie di ombre che, se non verranno sciolte attraverso l’approvazione di emendamenti ad hoc, rischiano di mettere sul tavolo un testo potenzialmente discriminante nei confronti dei lavoratori extra-europei, minando alla base alcuni diritti fondamentali e prevedendo l’esclusione di determinate comunità. Secondo Claude Moraes, eurodeputato laburista, infatti, la direttiva stabilisce «un’ingiusta differenza tra i lavoratori europei e quelli dei Paesi terzi», con la conseguenza che molte aziende saranno costrette ad aprire nuove sedi in Marocco o Turchia (vedremo più avanti perché).Tra le deroghe più significative, quelle che riguardano il trasferimento della pensione, il riconoscimento delle prestazioni familiari, il diritto alla casa e alla formazione professionale. Un esempio per tutti: un immigrato turco che ha lavorato tutta la vita in Germania non potrà godere della sua pensione se deciderà di trasferirsi nuovamente nel suo Paese d’origine.
Ma facciamo un passo indietro, nel giugno del 2008 la Ue ha approvato - dopo tre anni di acceso dibattito - la direttiva sui rimpatri, giudicata dalla sinistra e tutte le organizzazioni per i diritti umani, troppo severa con i clandestini. Il testo prevedeva (e prevede) il «ritorno volontario» entro 730 giorni degli immigrati illegali; la du-
rata della detenzione per un massimo di 6 mesi prorogabile fino a un totale di 18 a certe condizioni; il divieto di riammissione per 5 anni; il patrocinio legale gratuito agli immigrati privi di mezzi e una serie di garanzie per i minori. Per i sostenitori della direttiva il motivo era chiaro: con un’Europa che ospitava (dato 2008) più di 8 milioni di clandestini, ci voleva una normativa che snellisse il sistema di esplusione. Peraltro, il legislatore europeo, proprio perché consapevole della durezza della nuova norma, in quell’occasione disse che la direttiva sui rimpatri era una soluzione ponte in attesa di un testo che affrontasse - a livello Ue - la questione dell’immigrazione. Il tema è però talmente spinoso da non aver ancora trovato un accordo condiviso. Un altro inciso è però necessario: la contestata direttiva sui rimpatri è stata fino ad oggi recepita soltanto da quattro Stati membri (Belgio, Spagna, Lettonia e Slovacchia).Tutti gli altri devono ancora farlo e il tempo stringe, visto che il termine ultimo per farlo è il 24 di-
cembre prossimo. Dal Viminale ricordano come durante un’audizione parlamentare dello scorso aprile il ministro Roberto Maroni abbia sottolineato che «il governo farà di tutto per rispettare questa scadenza, ma si orienterà verso un recepimento della direttiva che non incida su alcuni importanti aspetti della normativa sull’immigrazione recentemente introdotti».
La stessa direttiva europea, precisò il ministro in quell’occasione, «lascia liberi gli Stati membri di decidere modalità di recepimento, che ne escludano l’applicazione agli stranieri il cui rimpatrio costituisce sanzione penale o deve avvenire come conseguenza di una sanzione penale». Dall’estate 2009, infatti, è diventata operativa la stretta sulla clandestinità attraverso l’introduzione del reato e l’allungamento a sei mesi del tempo massimo di trattenimento negli ex Cpt. L’appuntamento, però, è decisivo. Perché le discussioni e i contrasti che hanno accompagnato il rimpatrio dei Rom in Francia e nel no-
Paradossi legislativi: un migrante che ha lavorato tutta la vita in Germania non potrà godere della sua pensione se deciderà di trasferirsi nuovamente nel suo Paese d’origine
In tutte le foto, immagini di immigrati. Il testo oggi al voto mira a creare una politica globale in materia di immigrazione, ma presenta però una serie di ombre che, se non verranno sciolte attraverso l’approvazione di emendamenti ad hoc, rischiano di mettere sul tavolo un testo potenzialmente discriminante nei confronti dei lavoratori extra-europei
stro Paese potrebbero estendersi anche ai casi, di gran lunga più numerosi, degli immigrati extraUe. Ma torniamo ad oggi. La proposta in discussione, che vuole fissare una serie di diritti minimi uniformi per gli immigrati regolari, sembra tuttavia piena di deroghe ed esclusioni. Per esempio, non riguarda i lavoratori stagionali e i lavoratori distaccati in seno alla propria impresa. Questo cosa significa: che ad un azienda converrà aprire la propria sede legale in Turchia piuttosto che in Marocco e poi spostare i lavoratori nelle filiali della Ue. E che i lavoratori stagionali, come sempre accaduto, non avranno particolari forme di tutela (se pensiamo al nostro meridione possia-
mo, senza tema di essere tacciati di populismo, affermare che non ne hanno proprio). Claude Moraes, eurodeputato laburista in prima linea negli emendamenti proposti al testo, afferma che si sta rischiando di stabilire «un’ingiusta differenza fra i lavoratori europei e quelli che arrivano da paesi terzi».
Le deroghe più significative, tuttavia, sono quelle che riguardano la trasferibilità della pensione il riconoscimento delle prestazioni familiari, il diritto alla casa e alla formazione professionale. Un esempio: un immigrato turco che ha lavorato tutta la vita in Germania non potrà godere della sua pensione se deciderà di trasferirsi nuovamente nel suo Paese d’origine. O peggio, un lavoratore che lavora da trent’anni in Gran Bretagna e che muore per cause naturali o di lavoro, non potrà veder consegnata la sua pensione ai suoi eredi se questi saranno fuori dal territorio dove prestava lavoro. La ratio di questo articolo, diciamolo, è piuttosto oscura. Perché sa da una parte vuole rappresentare un disincentivo (discutibile) al trasferimento di un immigrato, dall’altra sembra davvero accanirsi su di esso, negandogli un bene maturato negli anni di lavoro rego-
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Il rapporto Ismu evidenzia il maggior radicamento sociale degli stranieri in Italia
La crisi frena l’arrivo di nuovi flussi
Meno 40 per cento gli ingressi nel 2009, ma cala anche la disoccupazione e la criminalità per gli extracomunitari di Pierre Chiartano
lare. Se tuttavia dovesse oggi venir votato l’emendamento relativo all’esempio in questione, gli Stati membri potrebbero subordinare l’applicazione della disposizione all’esistenza di accordi bilaterali in cui sia riconosciuto il reciproco trasferimento di diritti a pensione e sia istituita una cooperazione tecnica. Sgombriamo però il campo da equivoci: la direttiva “per una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico di soggiorno e lavoro” nasce con l’obiettivo di dare un taglio alla burocrazia e di semplificare la procedura di richiesta dei permessi di soggiorno e lavoro. Insomma, di inoltrare la domanda attraverso un’unica procedura per risiedere e lavorare in un paese membro. Un altro obiettivo è di garantire ai cittadini dei paesi terzi gli stessi diritti garantiti ai cittadini dei paesi membri nel coso in cui tale permesso venga accordato (i singoli governi possono infatti decidere il numero dei lavoratori effettivamente necessari al mercato), riducendo in questo modo le disparità esistenti tra le legislazioni nazionali per quanto riguarda i diritti conferiti ai cittadini di paesi terzi che lavorano legalmente nell’Unione europea ma che non beneficiano ancora dello
status di residenti di lunga durata. È solo che non sempre, testo alla mano come abbiamo visto, è così. Anche perché, la questione della sicurezza, in questi anni da marginale è diventata centrale, costringendo a compromessi decisamente discutibili. Bisogna però dire che la norma è figlia di molte “peripezie”: il dibattito, cominciato nel 2001, fermato nel 2005, ripreso nel 2007, sta arrivando a una conclusione dopo l’entrata in vigore del trattato di Lisbona, che ha modificato la procedura di adozione degli strumenti legislativi in materia di immigrazione legale.
Se oggi la direttiva verrà approvata (è sufficiente una maggioranza semplice) sarà adottata definitivamente il prossimo 21 dicembre dal Consiglio di Giustizia e degli Interni. Viceversa (ma la relatrice, la popolare Véronique Mathieu, non dovrebbe incontrare particolari difficoltà) si aprirà un nuovo tavolo di discussione che coinvolgerà anche Ong, sindacati e associazioni di categoria.Secondo alcuni, comunque, la direttiva sul Permesso unico è contraria alla Convenzione del Consiglio d’Europa sui lavoratori immigrati del 1977, convenzione recepita da molti paesi membri, fra cui l’Italia.
MILANO. C’è crisi anche per l’immigrazione. Il calo delle prospettive economiche nel nostro Paese ha, di fatto, disincentivato chi emigra per cercare un posto di lavoro. Lo afferma l’ultimo Rapporto della Fondazione Cariplo-Ismu presentato ieri a Milano. Un quadro generale che registra la prima battuta d’arresto nei flussi netti di immigrati in arrivo in Italia: i regolari iscritti all’anagrafe nel primo semestre del 2010 sono 100mila in meno (circa il 40 per cento) rispetto all’epoca prima della crisi. La contrazione dei flussi d’immigrati in entrata non intacca il peso della popolazione straniera di 5,3 milioni, sia regolari che senza permesso, circa mezzo milione più del 2008. Al primo gennaio 2010 gli immigrati più numerosi in Italia sono i rumeni, con un milione e 112mila unità (il 22 per cento del totale), seguiti da albanesi e marocchini. Per gli immigrati già in Italia è andata meglio, grazie a famiglie bisognose di cure e alla rete delle piccole e medie imprese in cerca di operai: un ”salvagente” per gli stranieri che nello Stivale avrebbero attraversato la difficile congiuntura economica meglio che in altri Paesi europei, secondo i dati del rapporto. I posti di lavoro sono aumentati (più 10 per cento nel 2010), in controtendenza rispetto all’occupazione degli italiani. In aumento anche la familiarizzazione (è al 44,4 per cento la quota di immigrati che vive in coppia e/o con figli). Poi un’altra nota positiva per quel 18 per cento di italiani che ritengono l’immigrazione un pericolo, subito dopo disoccupazione e corruzione: si riduce il tasso di criminalità degli immigrati. «L’affermazione che gli irregolari sono criminali è falsa». Nel 2009 (ultimi dati disponibili del ministero degli Interni) il numero dei denunciati stranieri è diminuito del 13,9 per cento, rispetto al 2008. Una parte importante dell’indagine analizza il mercato del lavoro. E troviamo un’apparente contraddizione: se l’occupazione degli italiani ha registrato un’ulteriore contrazione rispetto al 2009, gli occupati stranieri sono aumentati di oltre il 10 per cento e addirittura del 14 per cento, per quanto riguarda la componente femminile. Un andamento che suggerisce l’ipotesi dell’esistenza di mercati del lavoro separati tra italiani e stranieri e conferma i caratteri del tutto specifici dell’offerta immigrata femminile. Altra contraddizione, almeno apparente, è che l’aumento dell’occupazione si è accompagnata a un aumento del tasso di disoccupazione degli stranieri da attribuire, secondo la Fondazione, a una crescita dell’offerta di lavoro e a un afflusso di nuova manodopera dall’estero «sovradimensionato» rispetto alle opportu-
nità del mercato. I disoccupati stranieri hanno raggiunto quota 287mila. Anche le donne, colf e badanti - insostituibili per le famiglie italiane hanno visto salire il tasso di disoccupazione nello stesso periodo preso in esame dal dossier, dal 12,4 al 14,3 per cento. Le preoccupazioni degli stranieri che perdono il lavoro sono legate alla durata semestrale del «permesso di soggiorno per ricerca di nuova occupazione», un tempo non sempre sufficiente a trovare un nuovo impiego in questa fase. I dati sull’immigrazione evidenziano ancora il divario tra Nord e Sud del Paese. È infatti il Settentrione ad assorbire il 60 per cento della forza lavoro straniera, il Centro il 27 per cento e il Meridione solo il 12 per cento. Il rapporto Ismu calcola anche il beneficio fiscale netto, cioé la differenza fra i trasferimenti ricevuti dal settore pubblico e quanto pagato al settore pubblico stesso. È inferiore di circa 3mila euro a quello degli italiani, che si giustifica per lo più con la minore incidenza dei costi sanitari e previdenziali dovuti all’invecchiamento. Il risultato individuale viene confermato a livello familiare, con un beneficio fiscale netto superiore per le famiglie italiane rispetto a quelle extracomunitarie per oltre 3.800 euro all’anno.
Anche sul fronte delle tasse gli extracomunitari sembrano fare il proprio dovere. In media tra imposte personali, contributi sociali e Ici si arriva a 6.407 euro per gli italiani, 5.921 euro per gli immigrati Ue e 5.735 euro per gli immigrati extra-Ue. Il maggior importo di imposte personali pagate dagli italiani è spiegato dal reddito medio più elevato. E veniamo ai numeri virtuosi dell’intrapresa. I lavoratori stranieri con uno status da dipendenti sono un milione e 662mila. Una realtà a cui si sta affiancando la giovane generazione d’imprenditori etnici che, secondo la Fondazione, costituisce un indicatore significativo del grado di radicamento degli stranieri nel sistema economico produttivo e nella società. Ogni anno vengono avviate circa 37mila imprese individuali con a capo un lavoratore non comunitario. Secondo le stime Ismu nel 2010 diminuiscono gli irregolari che sono 544mila. Anche la paventata guerra delle culle sembra subire una frenata, nel 2006 il valore medio della fecondità delle straniere era stimato in 2,5 figli per donna ed è sceso progressivamente sino a 2,05 nel 2009. I valori si abbassano ancor di più nelle grandi città, dove il numero medio di figli per donna non raggiunge neppure tra le straniere il livello di ricambio generazionale. Su quel fronte è proprio una vitaccia per tutti, italiani e stranieri.
Al primo gennaio 2010 l’etnia più numerosa in Italia è quella rumena, con 1 milione e 112mila unità (il 22 per cento del totale)
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Afghanistan, italiani attaccati
Cancun, tiepido accordo sul clima
KABUL. Un convoglio militare italiano è stato attaccato ieri in Afghanistan a colpi di arma da fuoco: nessun ferito. Lo si apprende da fonti qualificate, secondo cui gli “insorti”si sono allontanati anche in seguito all’intervento di elicotteri Mangusta. Continua dunque l’instabilità nel Paese, che affronta anche una crisi politica perdurante. Secondo il portavoce del presidente Karzai, Waheed Omar, «la tensione determinata in Afghanistan dal braccio di ferro fra gli organismi che hanno seguito il processo elettorale per le legislative del 18 settembre e la procura della repubblica non produrrà alcuna crisi grave e sarà risolto nel rispetto della Costituzione». Rimane alto però lo scetticismo della coalizione.
Besançon, terrore in una scuola
CANCUN. La diplomazia mondiale saluta con favore e sollievo l’accordo raggiunto in extremis alla XVI Conferenza delle Nazioni Unite sul clima, conclusasi due giorni fa a Cancun (Messico). L’accordo è soprattutto programmatico e non sarà facile concordare i dettagli, ma era alto il timore di un nuovo fallimento, dopo il “nulla di fatto” del 2009 a Copenhaghen. Ancora una volta i Paesi più potenti e maggiori inquinatori, come Stati Uniti e Cina, sono stati poco collaborativi nella ricerca di una soluzione che chiederebbe loro di tagliare in modo drastico le emissioni inquinanti. L’accordo è frutto di una non stop finale di 2 giorni ed è stato approvato da tutti i circa 200 Paesi presenti, esclusa la sola Bolivia.
PARIGI. Si è concluso nel miglior modo possibile il blitz avvenuto ieri mattina a Besançon, est della Francia, dopo che un folle ha preso in ostaggio 20 bambini e una maestra in un asilo nido. Dopo una mattina di tensione sono stati tutti liberati. Il sequestratore è un giovane di 17 anni con disturbi mentali, entrato nella scuola verso le 8.30 armato di due sciabole. Poco dopo ne aveva lasciati andare la maggior parte, per tenerne alcuni insieme all’istitutrice. Subito sono intervenuti gli uomini del Gipn (Gruppo d’intervento della polizia nazionale, le teste di cuoio francesi) che hanno cominciato a trattare col ragazzo per telefono dall’esterno della scuola. Dopo alcune ore, è avvenuto il rilascio.
Nessun partito raggiunge la maggioranza, mentre aumentano i problemi urgenti che Pristina deve risolvere il prima possibile
Kosovo, Thaci vince ma non basta Il voto divide ancora di più il piccolo Stato balcanico di Antonio Picasso
Il Paese lotta ancora per l’indipendenza formale. Dei 192 membri dell’Onu, soltanto 69 la riconoscono: e di questi, 22 fanno parte dell’Unione europea. I maggiori oppositori sono Russia e Cina, che in casa affrontano movimenti indipendentisti e temono movimenti unilaterali come quello del Kosovo
Q
uello in Kosovo è stato definito un «voto per il buon governo». È stato proprio il Primo ministro uscente, Hashim Thaci, ad essersi espresso in questo modo. Tuttavia, la prima sfida che dovrà affrontare il piccolo e giovane Stato balcanico è la sua stessa governabilità. Nessun partito ha ottenuto la maggioranza assoluta e quindi la possibilità di formare un nuovo governo monocolore. Il Kosovo, inoltre, si trova di fronte a barriera di soggetti ostili alla sua esistenza, in primis la Serbia. E qeusto non aiuta. Del resto, chi ha agevolato il suo cammino di autodeterminazione si aspetta che qualcosa a Pristina cambi. Possibilmente in meglio. Già prima della apertura dei seggi, i sondaggi indicavano il Partito democratico del Kosovo (Pdk), guidato da Thaci, come il vincitore, ma solo di misura. E infatti questo, il 31% dei voti, ha ottenuto al parlamento la maggioranza relativa e non quella assoluta. A questo punto, è probabile che il nuovo esecutivo venga sostenuto da una große Koalition, composta dalla Lega democratica del Kosovo (Ldk) e dal Partito dell’autodeterminazione. Questi sono stati votati rispettivamente dal 25% e dal 16% degli elettori.
Thaci non potrà sottovalutare queste cifre. Come altrettanto non potrà snobbare l’Alleanza per il futuro del Kosovo. Se lo facesse, il Pdk perderebbe l’appoggio dei vari partiti minori, verrebbe emarginato nonché privato dell’attuale potere. È necessario invece che l’Alleanza per nuovo Kosovo, coalizione di maggioranza di cui il Pdk è pietra angolare, resti alla guida del Paese. La leadership di Thaci, sebbene compromessa ed esposta a critiche feroci, resta un ticket di garanzia di fronte a quei governi stranieri che, quasi tre anni fa, hanno sostenuto l’indipendenza kosovara. L’attuale Primo ministro kosovaro è, in un certo senso, il male minore rispetto all’immagine del restante establishment politico nazio-
nale. Le criticità che le istituzioni di Pristina devono affrontare costituiscono una lunga e preoccupante lista. In prima istanza vi è la questione serba. Belgrado per ragioni storiche e politiche ha rigettato da sempre ogni eventualità che il Kosovo potesse diventare una nazione indipendente.
La guerra combattuta nel 1999 contro la Nato era scoppiata proprio per questo motivo. La caduta di Slobodan Milosevic e successivamente il processo di emancipazione kosovara sono stati accolti dalla popolazione serba come una dolorosa pugnalata all’orgoglio della loro patria e delle loro tradizioni. Per questo l’Onu e l’Ue hanno cercato di alleviare il dolore. Come tornaconto
all’accettazione di un Kosovo indipendente, la Serbia si è vista agevolata nel suo cammino di integrazione europea. Ha tratto vantaggio da una lunga serie di investimenti stranieri sul proprio territorio. Per alcuni aspetti, i governi stranieri che si erano dichiarati favorevoli al Kosovo nazione, hanno cercato di comprare la Serbia. L’operazione, però, ha riscosso un successo solo parziale. Sul piano economico, il reddito pro capite del Paese ha superato i 10mila dollari annui.
Questo è sicuramente un dato positivo. D’altro canto, i sentimenti di viscerale avversione nei confronti di tutto ciò che è made in Europe – dalla politica al calcio – sono penetrati nell’opinio-
ne pubblica serba in maniera capillare. Questo è riconducibile al fatto che, secondo Belgrado, Bruxelles è la prima responsabile dell’indipendenza del Kosovo. Il problema serbo tocca direttamente Pristina e il suo governo. Recentemente, il responsabile della politica estera Ue, Lady Catherine Ashton, ha sottolineato che ribadito i legami tra Bruxelles, il Kosovo e la Serbia sono paritetici e non ad excludendum.
Al momento il piccolo Paese balcanico sta facendo anticamera sia presso le Nazioni Unite sia in sede Ue. Oggi dei 192 Paesi membri dell’Onu, solo 69 hanno riconosciuto l’indipendenza del Kosovo. Di questi, 22 fanno parte dell’Ue. A non riconoscere il Kosovo sono la Spagna, Cipro, la Slovacchia, la Romania, la Grecia. E per ora questi Paesi non hanno intenzione di cambiare posizione. Di conseguenza, il Paese è destinato a rimanere in un limbo internazionale ancora a lungo. La comunità internazionale ha preferito questa strada per capire quali siano le capacità del governo Thaci di governare e a quali difetti sia esposto. A New York come a Bruxelles, gli osservatori sono consci del fatto che l’affaire Kosovo potrebbe ispirare altre istanze indipendentistiche, oppure congelare casi di separazione che, al contrario, si vorrebbero risolvere. Dai Paesi Baschi a Cipro, dal Caucaso al Kashmir. Sono molte le minoranze etniche bramose di vedere realizzato il proprio sogno di emancipazione da un altro Stato. Com’è accaduto per il Kosovo appunto. Non è un caso che la Cina e la Russia – direttamente coinvolte in problemi di secessione – si siano fatte alfieri della coalizione contraria all’indipendenza del Paese balcanico.Dalla dichiarazione di indipendenza, proclamata dal premier Thaci il 17 febbraio 2008, le novelle istituzioni non hanno saputo creare un’immagine positiva del Paese al quale si sono messe a capo. Sono state tacciate di collusione con le mafie locali, con il narcotraffico e i mercati criminali di immigrazione clandestina, prostituzione e armi. Il network di intelligence
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e di cronach
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
Iran, licenziato in tronco il ministro degli Esteri Mottaki TEHERAN. Il presidente iraniano Mahmoud Ahmedinejad ha licenziato ieri senza fornire alcuna spiegazione il suo ministro degli Esteri, Manuchehr Mottaki. L’uomo, in carica da cinque anni, era considerato uno degli elementi governativi più vicini al presidente. In giro per il mondo in veste di titolare degli Esteri, Mottaki aveva sempre sostenuto le teorie e le posizioni del governo centrale. Al suo posto, per adesso, è stasto nominato come “sostituto ad interim”l’attuale responsabile dell’Agenzia Atomica iraniana, Ali Akbar Salehi. Come riporta l’agenzia di Stato Irna, l’avvicendamento è stato comunicato sul sito internet della Presidenza, senza che sia stata data alcuna ragione per la sostituzione del capo della diplomazia in carica dal 2005. Nell’ultimo anno tuttavia alcuni deputati avevano fatto pressioni perché Mottaki fosse allontanato nel caso in cui l’Onu - come è avvenuto nel giugno scorso - avesse approvato delle nuove sanzioni contro
Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)
Teheran, ritenendolo non sufficientemente capace di presentare e difendere all’estero gli interessi del Paese. In quest’ottica sarebbe pienamente comprensibile la scelta del successore: Salehi è un “mastino”dell’atomica, e ha più volte riportato dei successi diplomatici considerevoli mettendo a tacere gli esperti occidentali riguardo la capacità nucleare dell’Iran. Salehi ha anche teorizzato con un certo successo il diritto iraniano di sviluppare l’atomica.
Doris Pack, europarlamentare tedesca; Isa Mustafa, sindaco di Pristina e Oliver Ivanovic, vice ministro serbo
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato
internazionale ha messo in luce come proprio in Kosovo sia localizzabile uno dei centri dello smistamento in Europa dell’eroina proveniente dall’Asia centro-meridionale, quindi Afghanistan, e dall’America latina.
Stessa situazione per quanto riguarda la fornitura di materiale bellico alle milizie attive in Medioriente. A marzo di quest’anno un’inchiesta congiunta della stampa croata e israeliana ha messo in luce come dal Kosovo passi la maggior parte delle armi prodotte in Russia e Ucraina e dirette in Libano e nella Striscia di Gaza. Sono da aggiungere poi le piaghe della corruzione e del nepotismo. I tre premier che si sono succeduti alla guida del Paese hanno portato i loro fratelli o sorelle nei gradi più alti delle strutture di governo. Molti alti dirigenti statali sono attualmente inquisiti per riciclaggio di denaro sporco, traffico di armi e violenze. Lo stesso Thaci è stato incriminato per questi capi d’accusa. Al tempo dell’Esercito di liberazione del Kosovo (Uck), il premier, già comandante di quelle milizie, era soprannominato “il serpente”. Un nickname che lascia intendere come Thaci si sia fatto strada nella politica balcanica. Del resto la sua fama di corruttore coincide con questo soprannome. Il 23 luglio di quest’anno, il governatore della Banca centrale del Kosovo, Hashim Rexhepi, è stato arrestato nell’ambito
Cresce il reddito procapite, ma l’urto con la Serbia e con l’Ue sembra ancora in pieno vigore. E il premier appare impotente di un’inchiesta per corruzione ed evasione fiscale. Nel rapporto 2010 redatto da Transparency International sulla corruzione, il Kosovo è stato citato per la prima volta. Tuttavia, per il giovane Stato balcanico si è trattato di un debutto assai deludente. Il Paese è stato posizionato al 110ecimo posto nella classifica generale, su oltre 200 Stati presi in osservazione.
Osservando poi il fronte economico, ci si tende conto che il quadro è ancora più preoccupante. In un Paese di appena due milioni di abitanti, il 14% della popolazione resta disoccupato. Peraltro, bisogna tener conto che la società kosovara è composta prevalentemente da persone in età lavorativa. Giovani, quindi, che potrebbero lavorare in pa-
tria o all’estero e che, invece, sono spesso inquadrati nei ranghi della criminalità organizzata. Il reddito pro capite, del resto, è di circa 2.500 dollari: un quarto di quello serbo. In termini ancora più ampi, il 35% della popolazione vive sotto la soglia di povertà.
È fuori discussione che una tornata elettorale celebrata all’insegna della trasparenza resti positiva. Soprattutto se paragonata allo scenario appena descritto. Il voto di domenica in Kosovo ha rappresentato un esempio di democrazia. «È stato un voto per il Kosovo europeo», come ha detto Thaci. Le sue parole meritano l’apprezzamento degli osservatori occidentali. I fatti, però, invitano alla cautela. La presenza delle Nazioni Unite, della Nato e dell’Ue – attraverso Unimik, Kfor e Eulex – ha permesso la pacificazione della regione. Tuttavia, si è visto che, con il progressivo passaggio di consegne dell’amministrazione locale nelle mani delle autorità di Pristina, la governabilità è venuta a mancare. L’altro ieri, a Thaci e al Pdk è stata data un’ulteriore possibilità di riscatto. Gli elettori kosovari lo hanno confermato premier e la comunità internazionale ha accettato questa vittoria. L’obiettivo è la costruzione di un Kosovo non soltanto europeo, ma anche trasparente, per quanto riguarda la giustizia, democratico ed economicamente stabile.
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società
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L’analisi. Le rivelazioni di Wikileaks su Benedetto XVI e il suo entourage mostrano molto sull’occhio con cui lo guarda l’America
Anti-vaticanismo a stelle e strisce? di Luigi Accattoli
A fianco, un’immagine di papa Benedetto XVI. In basso, uno scatto di Juliane Assange, il fondatore di “Wikileaks”, il sito pirata che ha divulgato alcuni dossier che tanto hanno fatto tremare le diplomazie mondiali
n Vaticano premoderno e tecnofobico che non si aggiornerà con questo Papa e il cui conflitto con i media è destinato a durare: si può riassumere così la veduta americana del vertice della cattolicità e del suo trend storico, quale appare dalla nuova ondata di rapporti diplomatici divulgati da Wikileaks. Come già con la prima ondata, non impariamo quasi nulla di utile sul Vaticano, ma molto sull’occhio con cui lo guarda l’America.
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E si direbbe che sia l’occhio di sempre - risalente nella sostanza, per gli Usa, ai tempi della condanna vaticana dell’americanismo: 1899) - che vede il vertice della cattolicità come un mondo arretrato, smarrito in un irrimediabile conflitto con la modernità, quasi inconsapevole della propria forza. Ma sta di fatto che le diverse amministrazioni statunitensi che si sono succedute lungo l’ultimo mezzo secolo, da Kennedy in poi, mostrano di aver compreso i Papi loro interlocutori molto meglio di quanto, si direbbe, non li comprenda l’attuale personale diplomatico. Forse si dovrà concludere - quando avremo letto tutti i rapporti - che le corrispondenze dei diplomatici, come quelle dei media, tendono a reiterare il già noto e raramente colgono il nuovo. Indipendentemente dalla qualità delle informazioni raccolte, che magari sarà buona, sia il giornalista sia il diplomatico hanno il problema di risultare comprensibili ai destinatari dei loro messaggi ed ecco che l’andare sul “già noto”, a scapito delle novità, garantisce su quella com-
prensione. Provo a chiarire con un esempio in campo ecumenico tratto dai rapporti fino a ieri riservati dell’ambasciata degli Usa presso il Vaticano. Riguarda la questione del passaggio alla Chiesa Cattolica di gruppi di anglicani. Il diplomatico avrà raccolto - possiamo immaginare - un ventaglio di opinioni contrastanti su una materia tanto controversa. Qualcuno gli avrà detto che il passo compiuto da Benedetto XVI con la costituzione Anglicanorum Coetibus - che apre a quel passaggio - è di suo fortemente conflittivo e appare destinato a ingenerare reazioni allarmate nell’opinione pubblica della Gran Bretagna, mentre altri gli
avranno detto che ci sono buone prospettive di una pacifica accoglienza dello stesso, stante il clima dei rapporti tra le due Chiese che un lungo dialogo bilaterale - da Giovanni XXIII a oggi - ha sostanzialmente bonificato dagli antichi rancori. Che fa a questo punto l’autore del rapporto, dovendo pur scegliere una chiave di lettura? Sceglie quella conflittuale che corrisponde meglio alla sua preparazione remota e che reputa possa essere meglio intesa dai destinatari del suo lavoro. Ed ecco l’avviso - contenuto in una delle corrispondenze - che «i rapporti tra gli anglicani e il Vaticano sono alle prese con la loro peggior cri-
maggioranza dei rapporti di cui si è avuta notizia fino a oggi. In uno si legge questa incredula descrizione di una Santa Sede decisa ad autoescludersi dall’era digitale: «La maggior parte dei vertici del Vaticano composta di uomini sulla settantina - non capisce i moderni media e soffre di una muddled messaging (confusione nella comunicazione, ndr) a causa della tecnofobia dei cardinali e dell’ignoranza delle comunicazioni del XXI secolo. Solo il portavoce Federico Lombardi ha un blackberry e pochi hanno un indirizzo e-mail». Vi sono rapporti che insistono sulla «debolezza della leadership» vaticana e si accaniscono cu-
Dalla nuova ondata divulgata, emergerebbe una Chiesa premoderna e tecnofobica, che non si aggiornerà con questo pontefice e il cui conflitto con i media è destinato a durare... si degli ultimi 150 anni a causa della decisione del Papa». Questa viene interpretata come un invito agli anglicani scontenti delle innovazioni della Comunione anglicana a «entrare in massa» nella Chiesa di Roma e si conclude che essa potrebbe far «esplodere» il sentimento «anticattolico» in Gran Bretagna fino al rischio di «atti di violenza» contro la «minoranza» cattolica. Con la stessa logica si prevedeva in quello stesso rapporto - una «fredda accoglienza» per la visita di Benedetto che invece è stato ricevuto benissimo il settembre scorso a Edimburgo, Glasgow, Londra e Birminghan. Una veduta arcaica del mondo vaticano, oltre che dei rapporti ecumenici, è presente nella
riosamente sulla figura del cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato, che invece sportivo e pragmatico com’è potrebbe benissimo destare simpatie in ambienti statunitensi. Viene definito uno “yes man”e si rileva che «non parla inglese» e che - nello stesso Vaticano - c’è chi vorrebbe altri al suo posto. Fin qui si tratta si elementi già noti del gossip curiale. Ma ciò che sorprende è la conclusione che gli imputa di essere più un prete che un diplomatico, e non si vede come questo possa essere un difetto per il braccio destro del Papa: «Ha uno stile personale pastorale che lo porta spesso fuori Roma, a occuparsi di problemi spirituali invece che della politica estera e del governo». Dello stesso Papa si afferma - come fosse un limite - che
«a volte irrita politici e giornalisti facendo ciò che pensa sia meglio per la Chiesa». Si tratta esattamente di ciò che Benedetto afferma continuamente: della necessità di «non conformarsi» al mondo e di non temere di andare «controcorrente» e di apparire «inattuali». Ma si direbbe che la diplomazia americana lo reputi un errore: «Dal di fuori molti considerano che la Chiesa sia lontana dall’essere sulla stessa lunghezza d’onda del nuovo millennio e chiedono che sia più moderna e accomodante».
Impavidamente uno dei rapporti sostiene che il mondo vaticano avrebbe bisogno di «corsi di pubbliche relazioni». La conclusione è scoraggiata: benché ci siano «segnali che almeno qualcuno in Vaticano abbia imparato la lezione [a seguito di “ripetuti incidenti” nei rapporti con i media e con la pubblica opinione] e lavorerà per ridisegnare la struttura comunicativa della Santa Sede», i rimedi che verranno apportati non potranno essere risolutivi perché «le radici strutturali e culturali della situazione attuale sono profonde e non saranno facilmente sradicate, essendo strettamente connesse con lo stile di governo di Papa Benedetto». www.luigiaccattoli.it
spettacoli l Teatro India di Roma fino al 19 dicembre trova casa la seconda edizione di Storie Necessarie, la rassegna di teatro civile ideata e diretta dall’attrice Mascia Musy e organizzata da Argot Produzioni, con il sostegno dell’Assessorato alle Politiche Culturali e della Comunicazione di Roma con il contributo di A.T.C.L. in collaborazione con il Teatro di Roma. Nella scorsa edizione, sul palcoscenico del Teatro Piccolo Eliseo, erano stati affrontati i temi del terremoto all’Aquila in Magnitudo, con Maurizio Donadoni; le morti da inquinamento in fabbrica in Venticinquemila granelli di sabbia; la vecchiaia, il trapasso, la malasanità in Tanti saluti di Giuliana Musso, e dalla stessa Musy, l’infanzia negata di una bambina rom in Love (se li avete persi esiste un cofanetto di 4 dvd che oltre a contenere la ripresa degli spettacoli include interviste ai protagonisti).
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Quest’anno le storie necessarie sono diventate 7: 7 giorni per soffermarsi a riflettere su temi forti, attuali, che nella realtà spesso virano in dramma. La serata inaugurale di ieri, il cui incasso è stato devoluto all’Associazione Libera di Don Ciotti, è stata dedicata alle vittime della mafia. Curata da Maurizio Panici ha visto 39 artisti (impossibile citarli tutti, vi bastino Omero Antonutti, Giuliana Lojodice e Paolo Bonacelli) in rappresentanza dell’indignazione di un intero Paese, passarsi il testimone nella lettura dell’oratorio di Luciano Violante Cantata per la festa dei bambini morti di mafia per dar eco a quei misfatti a cui non vogliamo abituarci. Luciano Violante, torinese, presidente della Commissione parlamentare Antimafia dal 1992 al 1994, nonché presidente della Camera dal 1996, ha composto e pubblicato (Bollati Boringhieri, 1995) questa cantata oratorio in cui ipotizza che le varie vittime di morti violente ad opera di mafiosi si incontrino in un aldilà da cui intrecciano canti di speranza. Un avvio di grande impatto. Il testimone passa poi agli Affari illegali di famiglia, testo e regia di Emanuela Giordano con Rosaria De Cicco e Giuseppe Gaudino per immergersi nella quotidianità di chi lotta ai bordi del benesse-
Pièces. Al Teatro India di Roma, fino al 19 dicembre, la nuova edizione della rassegna
«Storie necessarie» di impegno civile di Enrica Rosso
Traffico di organi, mafia, nuova povertà, eutanasia, immigrazione e sesso a pagamento saranno i temi portanti delle serate in cartellone
re, i nuovi poveri, nel vissuto di una madre nulla tenete che deve badare oltre che a se stessa ad un figlio. Avendo affittato nelle ore pomeridiane il bilocale in cui vivono insieme a un guardiano, i due si ritrovano a svoltare i pomeriggi al parco, su una vecchia altalena, perché anche le panchine sono tutte prese. Una pièce con un ricco pedigree di partecipazioni a varie rassegne di qualità e che
si avvale del patrocinio di Cgil Cisl e Uil. Domani, sempre alle ore 21, Lasciate che i bambini vengano a me firmato da Lorenzo Gioielli, che ne è anche
interprete insieme a Tamara Bartolini. Il testo affronta un tema delicatissimo: la mercificazione degli organi. Un uomo e una donna si incontrano in un internet caffè: ognuno dei due ha le sue motivazioni per trovarsi lì. La regia di Marco Mattolini si sviluppa in termini di multime-
In questa pagina, alcune immagini degli spettacoli di teatro civile portati in scena nell’ambito della seconda edizione di “Storie necessarie” (fino al 19 dicembre al Teatro India di Roma). In alto a sinistra, la direttrice artistica Mascia Musy
dialità a cui contribuiscono Gloria Pomardi, Guido Silveri e la Compagnia di Teatro danza Metis per gli interventi di teatro danza mentre Andrea Zingoni e Guido Laudani firmano i visuals elettronici. Giovedì 16 è di scena l’eutanasia con In bilico per la regia di Alfonso Liguori. Dopo il clamo-
re suscitato lo scorso anno dal caso di Eluana Englaro, Antonio Mazzini ipotizza la vicenda di due fratelli borgatari romani: un ladruncolo sbandato rimasto in coma in seguito a un incidente accorsogli per cosi dire sul lavoro e il fratello, impiegato, che si ritrova ad essergli come sempre accanto. Venerdì 17 lo spettacolo vincitore del Premio della Critica 2005: Giuliana Musso accompagnata in scena dal musicista Pierluigi Meggiorin, con il suo Sexmachine per la regia di Massimo Somaglino. Venticinquemila i rapporti a pagamento al giorno in Italia, dieci milioni all’anno; giusto un paio di dati per capire le proporzioni del fenomeno della prostituzione nel nostro Paese, un mercato in continua espansione. Giuliana Musso si traduce in sei diverse personalità, di entrambe i sessi, per tracciare questa storia di ordinaria solitudine. Sabato 18 l’ultimo pezzo di teatro della rassegna. Veronica Cruciani presenta Il ritorno. Il testo, nato da un lavoro di inchiesta e sviluppato poi dal drammaturgo Sergio Pierattini, ha vinto il Premio della Critica 2008 come miglior testo ed è arrivato finalista nel 2009 al premio Ubu come nuovo testo italiano. In scena Milvia Marigliano, Renato Sarti, Arianna Scomegna e Alex Cedron. L’immigrazione ai tempi della Lega: ovvero la dura vita della provincia nell’esperienza di un piccolo imprenditore alle prese con il ritorno della figlia trentenne. Una storia di pregiudizi incastonata nelle atmosfere nebbiose del bergamasco.
Il 19, in chiusura, Mascia Musy cura Cabaret Social Songs, ovvero canzoni d’autore-corsare-di vita-malavita-d’amored’anarchia-stonate-impegnatescanzonate. In scena il talento e il fascino di due grandi interpreti: Mauro Gioia e Maria de Medeiros accompagnati dal pianoforte di Grègoire Hetzel e il contrabbasso di Enzo Pietropaoli. Il cantante-attore partenopeo, come spesso succede è più conosciuto oltralpe che in patria, e la straordinaria interprete portoghese, adusa a dialogare con la musica con personalità e grazia, si sfideranno a colpi di bravura in un repertorio che spazia dal canto alla poesia. Un ricco programma che va dal duetto di Tango Ballade di Weill tratto dall’Opera da tre soldi di Brecht a Vera signora, composto per Laura Betti da Fabio Mauri, passando per Lèo Ferré con il suo inno alla libertà gli Anarchici, citando Moravia, Parise, Flaiano. Ampio spazio anche ai poeti: da Genet a Pasolini (su musiche di Modugno) con le loro arguzie distillate in versi. Per concludere con Miracolati del ceto medio-basso di Dario Fo-Fiorenzo Carpi, tratto dalla commedia 7° ruba un po’ meno. Per saperne di più www.storienecessarieit.
ULTIMAPAGINA Il più grande dissidente cinese ricorda il passato di Liu Xiaobo e i suoi trascorsi con il governo di Pechino
Ma non è tutto oro il Nobel di Wei Jingsheng na volta, il Premio Nobel per la pace era il premio mondiale guardato con più attenzione da parte del mondo intero. Premiati come Nelson Mandela rappresentano un esempio mondiale di morale. Ispirano le persone a compiere dei sacrifici in nome di ideali e convinzioni, in nome della felicità della popolazione. Premiati come Sakharov rappresentano invece quella corrente d’opposizione al dominio comunista, così come la coscienza degli intellettuali. Sono loro che hanno, di fatto, abbattuto il Muro di Berlino, portando speranza a quelle persone che soffrivano per il desiderio di democrazia e libertà. Se una persona che ha preso parte al movimento di Tiananmen si inchina alle autorità, finisce in galera e lì ripudia il suo passato, possiamo capirlo e perdonarlo. Anche alla luce delle difficoltà che ha provato. Ma non lo prenderemmo mai come modello per educare i giovani, per insegnare ai nostri figli.
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Se questa persona non si limita a ripudiare ciò che ha fatto, ma ha anche aiutato i macellai a mentire su quanto avvenuto durante la repressione di piazza del 1989 – dichiarando in televisione di non aver visto nessuno morire a Tiananmen, nonostante il bagno di sangue sporcasse chiunque – abbiamo meno possibilità di perdonarlo. E questo perché è divenuto complice degli assassini. E forse il desiderio di essere rilasciato era più forte di quanto pensava lui stesso, come ha ammesso più tardi in una lettera inviata ad un amico. Ma dopo il rilascio, quando non aveva più addosso la pressione della prigione, ha continuato a usare toni infamanti contro il movimento democratico, definendolo un “movimento ispirato da bugiardi”, allora il credito morale di questa persona si esaurisce del tutto. Questa persona è Liu Xiaobo, il vincitore del Nobel per la pace 2010. Mi viene dunque da chiedere alla Commissione per il Nobel: «Quale tipo di esempio per i giovani volete fissare, con questo riconoscimento?». Non potranno dire di non conoscere questi fatti: ci sono documenti ufficiali, interi libri scritti proprio da Liu, che confermano quanto dico. La Commissione ha anticipato queste critiche. Prima di annunciare il Premio, hanno dichiarato che esso avrebbe dato “una nuova direzioAndrei Sakharov ne” al mondo. Forse e Nelson Mandela. avrebbero dovuto A destra Wei Jingsheng. In alto la cerimonia di consegna del Nobel
CHE LUCCICA dire, senza farsi problemi di immagini, che intendevano dire “una direzione politica”. Nei casi di Andrei Sakharov e di Lech Walesa, infatti, il Premio ha incoraggiato movimenti di resistenza rappresentati dai loro leader. Liu Xiaobo, invece, non ha questa prerogativa e il suo movimento non comprende il mondo in cui vive. Quando una persona è costretta ad alzare i forconi per difendersi dal furto della propria terra, quando una ragazzina è costretta a uccidere delle persone che cercano di violentarla, Liu e i suoi amici si scagliano contro di loro. Quan-
do delle persone usano invece la non violenza per chiedere al tiranno di rispettare proprietà e diritti, Liu e i suoi amici assumono un atteggiamento cinico e le prendono in giro.
Questa non è opposizione, questo non è dissenso: questi sono complici del regime. È questa la nuova direzione che la Commissione cerca di dare al mondo? A quanto pare, sì. Da-
Il rischio è quello di scendere troppo a compromessi con il regime comunista. Questo non deve essere trattato come un interlocutore, ma come un nemico da combattere to che il Partito comunista usa le opportunità di fare affari che la Cina offre per conquistare i cuori dei capitalisti di tutto il mondo, i politici occidentali corrotti da questi “amici di Pechino”hanno bisogno di una direzione politica come questa, che abbia una bella faccia e non tocchi i loro affari. Se non fosse bastato quello che ha già fatto (o meglio, non fatto), l’Occidente ha trovato un altro modo per dire al movimento democratico cinese: «Non vi sosteniamo». Il calore del coro dei bambini di Oslo e una sedia vuota non potranno coprire questa cruda realtà.