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La più coraggiosa decisione che prendi ogni giorno è di essere di buon umore Voltaire
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • VENERDÌ 17 DICEMBRE 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
È polemica per la decisione del Tribunale al processo per direttissima
Già liberi i guerriglieri di Roma Scarcerati tutti i 23 fermati dopo gli incidenti di martedì ROMA. Gli arresti erano stati conpoliziotti (la procura ha aperto di Franco Insardà validati e i processi per direttissiun fascicolo), il Sindaco di Roma aperti e incardinati, ma nel frattempo il tribunale ha de- ma Gianni Alemanno tuona: «Serviva una decisione esemciso la scarcerazione di tutti e 23 i ragazzi fermati dalle for- plare, c’era bisogno di più fermezza». Le parole del sindaze dell’ordine dopo gli scontri di martedì scorso a Roma. co hanno susciato la reazione dell’Anm che chiede «critiTra loro, uno solo è costretto ai domiciliari mentre per tre che e non insulti», dalla politica. Comunque, i 23 ragazzi c’è l’obbligo della firma, un classico provvedimento che in sono stati scarcerati solo in quanto incensurati: nel frattemgenere si prende nei confronti degli ultrà fuori controllo. E po i loro processi sono stati aggiornati al 23 dicembre e al mentre uno degli avvocati della difesa ha depositato in tri- 13 giugno. bunale il filmato in cui il proprio assistito viene pestato dai a pagina 6
Muove i primi passi l’alleanza fondata da Casini, Fini e Rutelli: un’area destinata a cambiare il panorama politico
Il nuovo Polo vola nei sondaggi Tutti i centri di ricerca smentiscono il premier. Altro che «inesistente»: la neonata alleanza è valutata tra il 12 e il 20%. A una condizione: rifiutare l’antiberlusconismo... OLTRE IL BIPOLARISMO
PARLA MASSIMO CACCIARI
La “guerra civile” ora può finire. L’Italia moderata scende in campo
«Può vincere: se intercetta vento del Nord e società civile»
di Rocco Buttiglione
di Errico Novi
ual è il senso politico della convergenza che si è delineata fra Fli,Udc, Liberaldemocratici, Mpa, Liberali etc… e che ha portato ieri ad una specie di patto federativo delle forze parlamentari? Su che cosa siamo d’accordo e cosa fonda quindi la nostra unità? Berlusconi dice che ciò che ci unisce è l’avversione contro di lui. Cosa c’è di vero in questa affermazione? E perché affiorerebbe adesso questa ostilità in gruppi politici che per anni con Berlusconi hanno collaborato, sia al governo che all’opposizione? Sgombriamo subito il campo da un equivoco. Noi abbiamo chiarissima la distinzione fra l’avversario politico, cui possono unirti rapporti di stima e di amicizia personale e il nemico personale cui ti oppongono sentimenti di odio e di disprezzo. Noi non facciamo la politica dell’odio e del disprezzo e crediamo anzi che un elemento caratteristico della presente crisi morale della politica sia proprio l’avere confuso questi due concetti. a pagina 4
ROMA. Tra quelli che lavorano
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Peggiorano le previsioni per il 2011
Ultimatum di Confindustria: ora, la crescita Viale dell’Astronomia boccia l’esecutivo: «Tra riforme mancate, incomplete o inadeguate, il confronto con la Germania è impietoso»
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Francesco Pacifico • pagina 3 I QUADERNI)
• ANNO XV •
NUMERO
245 •
con intensità alla costruzione del nuovo Polo andrebbe citato Massimo Cacciari. Non nel senso che il filosofo già cofondatore del Pd abbia intessuto la strategia della svolta con Casini, Fini e Rutelli. La sua è un’altra storia. Con l’associazione “Verso il Nord” di cui si è fatto volentieri promotore, Cacciari lavora alle proposte, «alle idee e all’orizzonte programmatico che un possibile nuova area dovrebbe darsi per diventare davvero centrale. Cioè per essere non il terzo polo in ordine di importanza ma almeno potenzialmente il vero polo riformatore del Paese». Il frutto di questa analisi «viene messo a disposizione del costituendo nuovo soggetto politico». Sul suo personale impegno, l’ex sindaco di Venezia dice: «Non c’entra. Conta che i tre leader capiscano in positivo il discorso che vado facendo e ne traggano le dovute conseguenze». In particolare, ascoltando il Nord. a pagina 5 WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
Oggi il vertice dei leader stabilirà le regole per i prossimi interventi
Europa, la paura del fallimento va a mille (miliardi) La Bce decide di raddoppiare il Fondo per salvare le economie a rischio: entro dicembre, la Banca d’Italia pagherà altri 624 milioni Gianfranco Polillo • pagina 10
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
pagina 2 • 17 dicembre 2010
prima pagina
il fatto I centri di ricerca individuano un ampio spazio per l’area di responsabilità nazionale: «L’elettorato è stanco di questo bipolarismo»
Il Polo della Nazione al 15% La forbice va dal 12 al 20%. Il maggiore successo dipende dalla scelta del leader, dall’unità dell’alleanza e dalla forza del programma le reazioni di Riccardo Paradisi
l terzo polo - come lo chiamano ancora osservatori e media - il polo della nazione o della responsabilità - come preferiscono chiamarlo i suoi animatori un obiettivo lo ha già ottenuto: ha rimesso in moto la politica italiana. Certo il premier Silvio Berlusconi fa il suo mestiere nell’affermare che il polo di Casini, Rutelli e Fini non esiste, ma intanto i settori cattolici della sua maggioranza aprono a prospettive di dialogo con il leader dell’Udc ora ritenuto indispensabile – in privato anche dallo stesso Cavaliere – per costruire il blocco dei moderati.
I
Del resto se fino a ieri il nuovo polo era solo un’ipotesi politologica o una prospettiva tra le altre adesso il suo battesimo lo proietta attivamente nel campo politico. Sicchè ha più senso oggi cominciare a sondare l’effettivo peso di consenso potenziale di questa nuova costellazione di forze. Le stime degli istituti di ricerca variano tutte da un minimo dell11% a un massimo del 20. Una forbice larghissima che però si spiega con diverse variabili che potrebbero interessare il nuovo polo: la capacità di amalgama delle forze che lo compongono – Udc, Api, Fli, Mpa, liberaldemocratici e repubblicani; l’enucleazione al loro interno di un leader più funzionale di un altro; l’arrivo di un coalizzatore di peso esterno alla politica che potrebbe trovare la nuova formazione come piattaforma operativa. I sondaggi si diceva. Vediamoli. L’istituto di Nicola Piepoli stima tra il 10 e il 12% il peso elettorale dell’area di responsabilità appena nata. Se poi dice Piepoli - alla leadership di questa coalizione ci fosse Luca Cordero di Montezemolo, il nome che circola ormai da anni, il consenso salirebbe al 20%. Ciascuno dei principali attori del terzo polo avrebbe comunque una sua autonoma attrattività che insiste sul proprio elettorato tradizionale. Bacini elettorali che in questa fase aurorale possono essere anche sommati. Ma a patto che l’alleanza si consolidi e crei l’amalgama altrimenti – sottolinea Piepoli – le forze potrebbero anche entrare in attrito. Renato Mannheimer offre un’analisi ancora più articolata. «Il Terzo polo è un soggetto politico che essendo plurale ha diversi gradi di possibilità. In questo momento il mercato elettorale è molto ricettivo perché molti elettori sono stufi, perché vo-
Cavaliere sconfitto per «New York Times», «Economist» e «Financial Times»
E la stampa straniera «sfiducia» il premier di Marco Palombi
ROMA. Da New York a Londra, i pareri dei quotidiani sul modo in cui Silvio Berlusconi è riuscito a sfangarla alla Camera martedì e sulle prospettive che gli si presentano davanti sono unanimi: pessima situazione, pessimo premier. Certo, i giornali stranieri non sono la Bibbia, ma nemmeno semplici veicoli di opinioni a cui si possa reagire facendo spallucce: la stampa statunitense e britannica, quella che gode di credito nel mondo, influenza il modo in cui il nostro Paese viene visto all’estero e le opinioni che dell’Italia hanno gli investitori. Non è mai senza conseguenze, se un giornale come il Financial Times - foglio londinese di Rupert Murdoch - pubblica un editoriale impietoso come quello apparso ieri: «La settima economia mondiale ha bisogno di riforme; un giovane su quattro non ha lavoro; la crescita è poco meno che anemica; il debito nazionale ha toccato 1.800 miliardi di euro. Berlusconi ha dato prova senza alcun dubbio che non è in grado di affrontare queste sfide. La tragedia italiana è che finora non è emerso nessuno più capace che possa farlo sloggiare». Il Cavaliere comunque, nota malignamente il quotidiano, «deve avere delle unghie resistenti» se è riuscito a restare «aggrappato al potere», seppure per pochissimi voti, «tra la violenza nelle strade di Roma e le risse in Parlamento». Berlusconi, sostiene il giornale, ha ottenuto «una vittoria di Pirro, perché ha perso la maggioranza assoluta alla Camera e molti suoi ex colleghi sono oggi all’opposizione». Anche i suoi avversari non hanno di che ridere («non essere riusciti a trarre vantaggio dalla situazione rivela il loro scompiglio»), «ma è l’Italia la grande sconfitta, come spesso durante la farsesca leadership di Ber-
lusconi», perché quel voto ne «ha prolungato la paralisi politica».
Anche nella Grande Mela la lettura delle gesta del nostro presidente del Consiglio non è esattamente lusinghiera: Berlusconi, scrive il New York Times, è «screditato» e «non ha più una maggioranza in grado di funzionare. Non è una situazione che l’Italia può tollerare a lungo. Servono, e servono con urgenza, nuovi leader, nuove elezioni e uno stile di governo più onesto». Il Cavaliere, dice il quotidiano, sinora ha sempre sostenuto di essere una scelta obbligata, essendo l’unico «capace di tenere insieme le varie e disparate fazioni del centro-destra italiano. Ora è incapace di fare persino questo»: dopo una serie di scandali personali o giudiziari «si è alienato anche i suoi alleati politici più stretti», il suo «restare in carica ha estenuato l’Italia, indebolito il discorso pubblico, indebolito il governo della legge». Insomma Berlusconi ha fallito e il suo è «un fallimento personale». Anche The Economist, la bestia nera del Cavaliere, ci va giù pesante: «Aggrappato» è il titolo dell’editoriale dedicato all’Italia, corredato da una vignetta in cui un Berlusconi nudo è attaccato a una colonna mentre sotto infuria la protesta. Il 14 dicembre, scrive il settimanale britannico, tra scontri e voto di fiducia è stata «una giornata non bella per la democrazia parlamentare in Italia» e il futuro non è meno nero. C’è ormai «un governo di minoranza», destinato a passare «di crisi in crisi e a racimolare giorno per giorno e legge per legge maggioranze raccogliticce», la cui unica speranza è «andare avanti finché non ci siano i segni di una ripresa dell’economia e della popolarità personale del premier».
«La sua è una vittoria di Pirro, perché ha perso la maggioranza assoluta alla Camera»
gliono qualcosa di nuovo. Indubbiamente il terzo polo è un soggetto innovativo rispetto ai due grandi schieramenti di destra e sinistra. Al tempo stesso però le persone sono perfettamente consapevoli della difficoltà di tre leader come Casini, Rutelli e Fini di stare assieme. Avere troppi leader è come non averne nessuno. Ai blocchi di partenza comunque, secondo i dati di Mannheimer, il terzo polo ha un consenso potenziale intorno al 15 %, suscettibile di ampliamento nell’ipotesi di discese in campo di figure autorevoli. Di solito in Italia però quando ci si mette assieme i voti tendono a essere dispersi più che sommati. Ed è da questa riflessione che parte Alessandro Amadori dell’istituto Coesis per la sua analisi che muove, dai numeri attuali delle singole componenti del polo: Udc 7%, Fli stimato tra il 4 e 5% e le altre forze tra l’1 e il 2. «Se partiamo da questi dati crudi dovremmo, secondo esperienza, fare una stima per difetto del risultato globale, che potrebbe assestare questo polo tra l’11 e 12%». La sottrazione, spiega Amadori, deriva dal fatto che in queste ”formazioni Arlecchino” ognuno perde una quota di propria identità a scapito di tutti gli altri. Altro discorso si dovrebbe fare se invece di essere una coalizione-Arlecchino il terzo polo diventasse effettivamente un polo con unico leader, una sola struttura e un programma unitario.
Ecco in questo caso le percentuali di consenso potrebbero salire tra il 15 e 20%. Un polo, un leader dunque. Ma chi tra i tre principali dovrebbe essere il leader della coalizione? Amadori, sguardo a dati e tendenze non ha dubbi «Il più attrattivo tra i tre è sicuramente Pier Ferdinando Casini: proviene da una tradizione politico culturale identificabile, ha seguito un percorso coerente, ha anche rischiato tutto per restare nel solco della sua tradizione politica, rappresenta una leadership credibile per i moderati e i cattolici. Rutelli invece viene da altri mondi e negli ultimi anni è rimasto un leader inespresso mentre Fini - sempre sovrastimato nei sondaggi - ha confuso troppo le acque con il suo percorso tormentato. «È vero – spiega Amadori – che il presidente della Camera ha nei sondaggi una buona adesione emozionale, ma si tratta di un consenso generico. Se si scende nel merito il suo tradizionale elettorato resta spesso perplesso per il suo ri-
l’allarme Peggiorano le previsioni del Centro Studi per il 2011
Confindustria boccia il governo sulla crescita
«Tra riforme mancate, incomplete o inadeguate, il confronto con la Germania è davvero impietoso» di Francesco Pacifico
ROMA. Emma Marcegaglia ripete, che per ripartire, l’Italia dovrebbe crescere almeno del 2 per cento all’anno. «Invece non andiamo oltre l’1. Ma così è sempre più difficile creare occupazione, dare spazio alle imprese, far aumentare i consumi interni e diffondere il benessere».
Pier Ferdinando Casini con gli altri leader moderati ha lanciato la sfida al premier Berlusconi (nella pagina a fianco). A destra, Emma Marcegaglia: anche Confindustria ha bocciato il governo posizionamento radical-chic». Amadori relativizza anche il valore aggiunto che dovrebbe portare al nuovo polo una figura come quella di Montezemolo. «La narrazione dell’imprenditore che scende in politica è stata consumata e presidiata da Silvio Berlusconi: non funziona più, non ha più dirompenza. E poi sono troppi anni che si va annunciando l’arrivo in politica di Montezemolo che poi non arriva mai. Oggi Montezemolo verrebbe percepito come la foglia di fico aziendale per un progetto Arlecchino». Anche i sondaggi hanno diversi livelli di lettura, spiega Amadori, che vanno interpretati: «Montezemolo ha l’appeal che potrebbe avere George Clooney: suscita adesione, identificazione ma non consenso». Si devono interpretare anche i sondaggi che vedo spesso Berlusconi in picchiata libera: «La storia di Berlusconi non è finita, è finito un capitolo della sua narrazione ma non lui come narratore. Finisce il capitolo dell’imprenditore di successo che applica le leggi aziendali alla vita politica ma può nascere quella del presidente del Consiglio che nella difesa dell’interesse nazionale rintuzza strenuamente gli attacchi concentrici contro la sua persona». Ha di nuovo ragione Casini dunque
a non usare l’arma dello scontro frontale contro Berlusconi mentre sbagliano alcuni finiani che non hanno evidentemente còlto gli inviti loro rivolti a una più misurata dieta comunicativa. C’è chi tra loro parla di squadroni della morte per riferirsi ai gruppi Pdl che contattano gli indecisi di Fli; chi parla di alleanze con Di Pietro e Vendola mentre Barbareschi raccomanda laicità al nuovo polo. E questo mentre Casini parla dei valori cattolici e della Chiesa come punto di riferimento importante per l’unità nazionale. «Lo spazio per un terzo polo c’è e oscilla intorno al 15% - conferma Maurizio Pessato di Swg – perché c’è un forte scontento che registriamo nell’elettorato e nella popolazione per questo bipolarismo. Non a caso i maggiori flussi di consenso arrivano dal Pdl e dal Pd, meno dal settore dell’astensione». E non a caso anche dal Pd arrivano segnali inequivocabili di attenzione. Tra tutti quello di Chiamparino: «Se dialogare con Fli e Udc significa che non bisogna farsi attirare dal gorgo dell’alleanza con Di Pietro e pezzi della sinistra, sono d’accordo. Ma non si può non vedere come la linea del rapporto con il terzo polo comporti il rischio d’una nostra subordinazione».
Al riguardo ieri Confindustria ha tratteggiato uno scenario a dir poco tragico del futuro – prossimo e lontano – dell’Italia. E se l’aumento del Pil per il 2010 viene ancora rivisto al ribasso (+1 per cento contro l’1,1 già acquisita secondo l’Istat), nel 2011 non si andrà oltre un misero +1,1 contro l’1,3 precedentemente stimato. «E se non ci sarà un’inversione di tendenza si ritornerà sui valori prerecessivi nella primavera del 2015». E nell’Italia lumaca d’Europa – dove la congiuntura è così difficile da costringere la Bce a raddoppiare e portare a quota 10,76 miliardi la sua capitalizzazione – la disoccupazione potrebbe raggiungere altri picchi anche l’anno prossimo, mentre i consumi continueranno a scemare, per non parlare dei criteri patrimoniali imposti da Basilea 3 faranno sì che «le condizioni creditizie rimarranno difficili», con il risultato di far registrare «perdite sui prestiti a famiglie, a imprese e agli stati sovrani (quelli percepiti più in difficoltà)». Questo il giudizio – pesantissimo – è presente nell’ultimo bollettino del centro studi di Confindustria. E si traduce in una bocciatura senz’appello all’azione dell’esecutivo, bollata come «deludente», perché «gli strumenti messi in campo appaiono insufficienti». Non a caso il finiano Adolfo Urso sottolinea che «l’analisi di viale dell’Astronomia avvalora la necessità di quella svolta che avevamo sollecitato al governo». Ma in politica l’hanno buttata anche i maggiori esponenti della maggioranza. Silvio Berlusconi ha fatto spallucce, con un seccato «Sì, ho sentito ... bene», quando i giornalisti gli hanno chiesto un commento. Stesso approccio da Maurizio Sacconi: «Le previsioni di Confindustria», dice il ministro del Lavoro, «sono esercizi che durano un giorno, non credo valga la pena di commentare». Più articolato ma non meno critico il giudizio di Renato Brunetta: «Da economista dico che la differenza di uno o due decimali è una questione di lana caprina, e’ ridicola». Quelle di Confindustria sono stime. Ma il dato che spaventa di più è quello sul Pil 2010, quel che +1 per cento che contraddice
il numero sulla crescita già acquisita (+1,1) e che fa ipotizzare un quarto trimestre nefasto. Allo stesso modo, si deve pensare che lo stato comatoso dell’economia nel 2011 sia legato a una mancata ripresa dell’export. Occorre «investire in ricerca, scuola, infrastrutture», suggerisce Emma Marcegaglia, da mesi critica con l’inattività della maggioranza. Secondo la presidente di Confindustria paghiamo «15 anni di riforme non fatte. Bisogna invece farle velocemente altrimenti il Paese rimarrà troppo indietro». Al riguardo il centro studi di viale dell’Astronomia consiglia di investire maggiormente nel campo dell’Ict (Information and Communication Technology). Attraverso un loro studio hanno calcolato che se l’Italia avesse seguito questa strada, tra il 1997 e il 2007 il Pil sarebbe cresciuto del 7,1 per cento». Anche perché il settore è una leva in grado di «aggiungere lo 0,8 per cento alla crescita annuale del Prodotto interno lordo, quasi raddoppiandola». La soluzione? «Serve invece uno sforzo congiunto tra le imprese utilizzatrici (spesso piccole) e produttrici, tra intervento pubblico e l’università».
Con quasi sette punti di Pil persi dall’inizio della crisi e soltanto uno e mezzo recuperato, è difficile attendersi benefici sul versante dell’occupazione. Confindustria ha calcolato che dal primo trimestre del 2008 al terzo trimestre 2010 il numero di occupati in Italia è diminuito di 540mila. E il dato sarebbe stato peggiore senza il ricorso massiccio alla cassa integrazione (e che ha riguardato 480mila unità di lavoro). Secondo il centro studi di Confindustria «il numero delle persone occupate continuerà a diminuire nel 2011, con un calo atteso dello 0,4 per cento, mentre il tasso di disoccupazione toccherà i 9 punti percentuali nel quarto trimestre 2011, e inizierà a scendere molto gradualmente nel corso del 2012». Dovranno preoccuparsi sia le banche sia le aziende e le famiglie, visto che i criteri di Basilea 3 renderanno più difficile l’accesso al credito. Bankitalia ha calcolato che, se le nuove regole fossero state già introdotte nel secondo trimestre 2010, «i gruppi bancari italiani avrebbero registrato un fabbisogno di capitale di 40 miliardi di euro». Di fronte al quadro fornito da Confindustria Raffaele Bonanni ha commentato: «Condivido le critiche di Confindustria al governo, ai governi locali e alla politica in generale che, come si vede, è in tutte altre cose affaccendata. Anche perché le urgenze delle comunità sono sotto gli occhi di tutti».
Senza cambi di marcia recupereremo il terreno perduto soltanto nel 2015. Nuovo boom per la disoccupazione, languono i consumi
pagina 4 • 17 dicembre 2010
l’approfondimento
Alla radice delle ragioni storiche e politiche che hanno portato alla nascita dell’alleanza della responsabilità
Il partito che non c’era
Nel 1994, Berlusconi ha assunto una “dittatura” sull’area moderata, come accadeva ai tempi dell’Antica Roma. Ma non ha usato questi anni per organizzarla politicamente: la nuova coalizione è nata per andare oltre questa emergenza di Rocco Buttiglione ual è il senso politico della convergenza che si è delineata fra Fli,Udc, Liberaldemocratici, Mpa, Liberali etc… e che ha portato ieri ad una specie di patto federativo delle forze parlamentari? Su che cosa siamo d’accordo e cosa fonda quindi la nostra unità? Berlusconi dice che ciò che ci unisce è l’avversione contro di lui. Cosa c’è di vero in questa affermazione? E perché affiorerebbe adesso questa ostilità in gruppi politici che per anni con Berlusconi hanno collaborato, sia al governo che all’opposizione?
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Sgombriamo subito il campo da un equivoco. Noi abbiamo chiarissima la distinzione fra l’avversario politico, cui possono unirti rapporti di stima e di amicizia personale e il nemico personale cui ti oppongono sentimenti di odio e di disprezzo. Noi non facciamo la politica dell’odio e del disprezzo e crediamo anzi che un elemento caratteristico della presente
crisi morale della politica sia proprio l’avere confuso questi due concetti, legittimando la faziosità senza limiti di cui oggi soffrono (quasi) tutte le forze politiche. Nessuna ostilità personale, quindi; ciò che ci oppone a Berlusconi è invece un giudizio politico. Nel 1994 Berlusconi ha assunto di fatto una dittatura sull’intera area moderata e nazionale del paese. Le forze che avevano guidato l’area moderata sono crollate sotto l’impatto di una offensiva mediatico/giudiziaria ampiamente strumentalizzata dalla sinistra. Occhetto si preparava a vincere le elezioni non tanto per un chiaro mandato popolare quanto per abbandono da parte dell’avversario. In quel momento Berlusconi è riuscito a riunire dietro di sé l’area moderata e a guidarla in una difficile stagione di lotte politiche. Molti di noi hanno giudicato positivamente questo fatto (non, però, fin dal principio Rutelli). Nell’antica Roma in momenti di straordinaria difficoltà il dittatore riceveva
pieni poteri per evitare il collasso della repubblica. La dittatura era però una magistratura temporanea e finiva con la restaurazione della modernità repubblicana. Di regola la dittatura durava sei mesi. Berlusconi esercita la sua dittatura sull’area moderata da 17 anni. In questo tempo Berlusconi ha guidato l’area moderata ma non è riuscito ad organizzarla politicamente. Non è riuscito a costruire il partito dei moderati capace di esprimere democraticamente questa area cul-
È esemplare il caso-Fini, espulso perché voleva costruire una minoranza
turale e sociale. In tempi e momenti diversi tutti coloro che oggi aderiscono al nuovo progetto politico hanno dovuto rendersi conto del fatto che Berlusconi non può o non vuole esprimere organicamente l’area moderata e nazionale organizzando un partito democratico. Un partito democratico è un partito in cui la leadership è contendibile attraverso procedure democratiche ed i processi di selezione della classe dirigente vanno dal basso verso l’alto. Il fallimento dei tentativi di organizzazione democratica hanno portato ogni volta al rafforzamento di una modalità autoritaria di gestione di quella area politica, fondata sulla leadership carismatica del capo e sul rapporto diretto fra il capo ed i seguaci. La vicenda referente di Fini e di Fli esemplifica in modo eloquente questo processo. Fini (io credo) non voleva contendere a Berlusconi il ruolo di numero uno. Ha chiesto il diritto di esprimere opinioni dissenzienti ed eventualmente di costruire una
corrente di minoranza. Il divieto di fare questo ha consacrato definitivamente la impossibilità di organizzare il PdL come partito democratico.
La nostra ambizione è quella di organizzare politicamente l’area moderata. È per questo che siamo in lotta con Berlusconi che questa area ha occupato, non la vuole organizzare lui e non accetta che altri la organizzino. È, diciamo così, una lotta interna all’area moderata. Vi sono due proposte alternative sul modo di guidarla: una carismatica/plebiscitaria, una democratica Avere chiarezza su questo punto aiuta ad affrontare alcune questioni. La prima riguarda le ricorrenti domande sul successore di Berlusconi e sul leader della nostra area.. Sarà Fini? Sarà Casini? Sarà Cordero di Montezemolo? Sarà un altro ancora? A questa domanda non si deve rispondere perché è una domanda sbagliata. Non ci può essere e non ci deve essere un successore di Berlu-
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Parla l’ex padre nobile del Pd: «Vogliamo essere un luogo di elaborazione per il nuovo soggetto»
«Sarà il vero Polo riformatore se avrà più Nord e società civile» Massimo Cacciari: «Impegnarmi di persona? La mia associazione è solo una fabbrica di idee, ma vediamo se a Milano si parte col piede giusto» di Errico Novi
ROMA. Tra quelli che lavorano con intensità alla costruzione del nuovo Polo andrebbe citato Massimo Cacciari. Non nel senso che il filosofo già cofondatore del Pd abbia intessuto la strategia della svolta con Casini, Fini e Rutelli. La sua è un’altra storia. Con l’associazione “Verso il Nord” di cui si è fatto volentieri promotore, Cacciari lavora alle proposte, «alle idee e all’orizzonte programmatico che un possibile nuova area dovrebbe darsi per diventare davvero centrale. Cioè per essere non il terzo polo in ordine di importanza ma almeno potenzialmente il vero polo riformatore del Paese». Il frutto di questa analisi «viene messo a disposizione del costituendo nuovo soggetto politico». Sul suo personale impegno, l’ex sindaco di Venezia dice: «Non c’entra. Conta che i tre leader capiscano in positivo il discorso che vado facendo e ne traggano le dovute conseguenze». In particolare rispetto a due temi: presenza della società civile nel nuovo soggetto e, ancora di più, capacità di interpretare adeguatamente le istanze del Nord. Lei dice: colpa del Pd se non si crea l’alternativa a Berlusconi. Ma un nuovo Polo dotato di solidità non supera il problema del Pd? Il problema sarebbe superato se tra quest’area di centro che si va formando e il Pd nascesse un’intesa programmatica, una strategia di governo. Cosa che però non si vede. Ma con questa legge elettorale basterebbe il nuovo Polo a cambiare gli equilibri. O no? Con questa legge elettorale l’unico obiettivo realistico che può avere un nuovo soggetto politico è che al Senato il suo apporto sia essenziale per qualsiasi governo si vada formando. E quindi si tratta o no di una novità capace di modificare lo schema attuale? Vanno definite meglio alcune questioni. Tra le quali, proprio la legge elettorale: l’idea di tornare a un proporzionale tipo Prima Repubblica sarebbe perdente. E poi? Serve un’idea chiara sul federalismo, che è fondamentale per avere un risultato positivo al Nord, cioè nell’area del Paese più importante dal punto di vista economico e produttivo. L’immagine di questo costituendo polo è positiva per l’apporto di critica al berlusconismo, e al bipolarismo malato all’italiana. In
più, i tre personaggi che guidano l’iniziativa, Fini Casini e Rutelli, hanno dalla loro la credibilità e, direi, anche un’immagine sostanzialmente giovane. Cosa ancora non la convince? È ancora del tutto insufficiente la proposta programmatica per il Nord. La forza attrattiva sarà reale se ci si saprà dare una conformazione territoriale adeguata. E ancora, è assolutamente indispensabile che alle componenti di
«Giusta la critica al berlusconismo, ma ora un principio chiave deve essere parlare di sé, non del Cavaliere»
partenza si aggiunga una forte presenza della società civile. Va cioè garantita la capacità di non essere solo “nel palazzo”. È l’unica maniera per attrarre non solo pezzi di partiti, ma anche gli elettori indecisi e inclini all’astensione. “Verso il Nord”può diventare parte organica del nuovo Polo? Intanto chiariamo che non si tratta di un soggetto politico. È un circuito di persone, di amici, che appunto promuovono il tipo di discorso che ho appena fatto. Che sostengono proprio la necessità per il nuovo Polo di avere
una visione diversa al Nord, di sostenere il federalismo con coraggio e convinzione. Riguardo alla società civile lei fa un nome: Montezemolo. Sì, Montezemolo è l’unico ad essersi proposto politicamente. Ma è un esempio. Intendo dire che qualcosa del genere senz’altro serve: con i leader che hanno assunto l’iniziativa, ai quali faccio i mie auguri, bisogna mettere insieme la società civile. “Verso il Nord” si propone dunque di iniettare nel nuovo polo questa prospettiva settentrionale. Lavoriamo per questo. Per rendere evidente che è necessaria un’immagine nordista, per il costituendo Polo. E come detto, non basta se non c’è l’apertura al mondo delle imprese, alla società produttiva. In ogni caso “Verso il Nord” non può essere un soggetto costituente in senso stretto. Perché? Mancano le forze economiche. Siamo semplicemente un luogo di confronto e di elaborazione. E lei, professore, si impegnerà di persona? Non c’entra la mia questione personale. Spero che i promotori del nuovo Polo capiscano in positivo il discorso che vado facendo e ne traggano le dovute conseguenze. Di lavori da fare ne ho tanti. Con il Pd lei è stato tra i padri nobili, poi non si è mai iscritto. Abbiamo tentato di fare un partito che non ci è riuscito. In quel periodo ero sindaco di Venezia, avevo da fare. Adesso vediamo se il nuovo Polo nasce con le caratteristiche che dicevo. Qui a Milano (perché il professor Cacciari a Milano, tra l’altro, insegna Filosofia presso l’università San Raffaele, ndr) metteremo tutto alla prova. Qui l’iniziativa deve consolidarsi. L’ha definita una sfida europea. Ma se Albertini conferma il suo no? Bisogna trovare altre personalità e credo ce ne siano. Soprattutto, come nel caso di Albertini, tra chi proviene dal centrodestra ed è deluso da Berlusconi e Bossi. Berlusconi, a proposito: già dice che il nuovo Polo non esiste. Esibisce strafottenza per dare l’impressione che è ancora l’uomo forte, ma non lo è più. Un principio del nuovo Polo deve essere proprio non parlare di Berlusconi. Discutere di programmi, strategie, non di Berlusconi. Parlare di sé in positivo.
sconi. Il successore di Berlusconi non deve essere un uomo ma il democratico partito dell’area moderata. Noi dobbiamo camminare verso questo obiettivo. Un partito democratico sceglie poi un leader, in un movimento carismatico il leader crea il movimento ed il movimento non sussiste senza il leader. Chi pone la domanda sulla successione di Berlusconi in termini personalistici ha profondamente assimilato un modo di pensare la politica che noi non condividiamo. Naturalmente non vogliamo negare il ruolo fondamentale del leader ma, nella nostra visione, non è il leader che fa il partito ma è il partito che fa il leader. La seconda questione riguarda la possibilità di convergenze con la sinistra. L’area moderata è tendenzialmente alternativa alla sinistra. Convergenze sono possibili solo in casi straordinari, per la difesa della democrazia e dell’ordine costituzionale (che speriamo non si verifichino) o nel caso si faccia una grande coalizione, come in Germania, per fare riforme che nessuna coalizione è in grado di fare da sola. In condizioni normali siamo invece alternativi alla sinistra. Rifiutiamo invece la demonizzazione della sinistra. Siamo avversari ma non nemici. La guerra civile è finita.
Credo che su queste cose vi sia un accordo generale. Altre cose hanno bisogno di essere definite attraverso una discussione approfondita e saranno poi determinate anche attraverso lo svolgimento degli eventi. La principale riguarda probabilmente il futuro del bipolarismo. Credo che siamo tutti d’accordo sul fatto che questo bipolarismo è fallito. Alcuni però pensano che sia fallito perché il bipolarismo non è adatto al popolo italiano e ragionano sulla base di un sistema con tre o più aree politiche. Altri invece pensano che questo bipolarismo sia fallito per errori commessi (soprattutto da Berlusconi) nel processo della sua realizzazione e che quindi bisogni puntare ad un nuovo, diverso e migliore bipolarismo. In questo caso la situazione attuale sarebbe una tappa verso la desiderata costruzione di un partito che rappresenti tutta l’area moderata, da costruire dopo l’esaurimento del berlusconismo. Quale di queste due prospettive sia quella giusta è cosa che si potrà decidere solo sulla base dei fatti e degli sviluppi che ci attendono nel prossimo futuro. Naturalmente la nuova coalizione deve darsi anche un forte profilo programmatico, sulle questioni, per esempio, della politica europea, della politica economica e della politica sociale. Questo articolo, però, è già troppo lungo e di queste cose, quindi, parleremo in una prossima occasione.
diario
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MILANO. Paolo Berlusconi e Fabrizio Favata, alla vigilia del Natale del 2005 si recarono ad Arcore per fare ascoltare al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi l’audio dell’ intercettazione telefonica (artatamente recuperata dalla società Research control system) tra Piero Fassino e Giovanni Consorte, allora ad di Unipol, con la frase ormai nota dell’allora segretario dei Ds che diceva al banchiere: «Allora abbiamo una banca» riferendosi alla conquista della Banca nazionale del Lavoro. Dopo di che, l’intercettazione venne pubblicata con grande clamore sul Giornale della famiglia Berlusconi, circostanza che mandò a monte l’affare Unipol-Bnl. La ricostruzione definitiva di questi avvenimenti è stata fatta dalla procura di Milano che ha chiesto il processo
Paolo Berlusconi a processo per l’intercettazione Fassino-Consorte per Paolo Berlusconi e altre persone, tra le quali l’ex titolare della Research control system, Roberto Raffaellli, e l’imprenditore Fabrizio Favata. Viceversa, la procura di Milano ha chiesto l’archiviazione per Silvio Berlusconi che si è così scoperto essere stato indagato a propria volta nell’ambito della stessa inchiesta. Il pm Maurizio Romanelli non ha ritenuto di dover inoltrare al gip il rinvio a processo del premier perché non sono emersi elementi sufficienti. Nell’avviso della chiusura delle indagini sulla vicenda, notificato alle parti alla fine dell’ottobre scorso,
Silvio Berlusconi era indicato come «parte lesa» del tentativo di estorsione effettuato da Favata condotto ad Arcore dal fratello del premier Paolo. Poi, forse perché non sembrava credibile supporre che il premier fosse stato ricattato da qualcuno con la complicità del proprio fratello, è stato indagato. D’altra parte, Paolo Berlusconi è indagato non solo per ricettazione e millantato credito ma anche per concorso in rivelazione e utilizzazione del segreto d’ufficio, in quanto editore del quotidiano Il Giornale che pubblicò il testo della telefonata il 31 dicembre
del 2005, nonostante fosse ancora coperta da segreto d’ufficio. Appresa la notizia, l’avvocato dei Berlusconi (Silvio e Paolo), l’onorevole Niccolò Ghedini si è limitato a dire ai giornalisti: «Non intendo fare commenti». Ad ogni modo, la richiesta di archiviazione sarà esaminata dal gip Bruno Giordano mentre quella di rinviare a giudizio Paolo e altri 3 indagati finirà a un gup.
È polemica per la decisione del Tribunale dopo la prima udienza del processo. «Serviva più fermezza», dice Alemanno
Niente carcere per gli scontri «Occorrono nuove prove». E intanto tornano tutti a casa i 23 fermati di Franco Insardà
ROMA. La Capitale rischia di vivere un’altra settimana in stadio d’assedio. E non soltanto perché la tensione cresce, dopo che sono stati liberati i ragazzi fermati dopo gli scontri di martedì scorso. Il Tribunale di Roma ha, infatti, convalidato i 23 fermi. I ragazzi sono stati denunciati a piede libero (i capi di accusa vanno dalle lesioni al danneggiamento e alla resistenza a pubblico ufficiale) e rinviati a giudizio, prima di essere rimessi comunque quasi tutti in libertà, dal momento che si tratta di incensurati. Per 16 non è stata applicata alcuna misura cautelare, per tre è stato stabilito l’obbligo di firma. Soltanto per Mario Miliucci, 32 anni figlio di uno dei leader storici dell’ Autonomia Operaia romana, sono stati disposti gli arresti domiciliari. Inoltre, per due manifestanti arrivati da Pisa e uno da Genova è stato deciso il divieto di rientro a Roma. Alcuni dovranno comparire di nuovo in tribunale il 23 dicembre, gli altri il 15 febbraio, il 17 febbraio e il 13 giugno. Oggi sarà interrogato dal gip del tribunale dei minori il ragazzo di 16 anni, figlio di un esponente di Autonomia Operaia, amico di Mario Miliucci. Il minore deve rispondere delle accuse di rapina per aver sottratto un manganello e le manette a un finanziere, aggredito da un gruppo di manifestanti. La notizia ha provocato la durissima reazione del sindaco di Roma, Gianni Alemanno, alle prese con la quantificazione dei danni causati durante la manifestazione. «Sono costretto a protestare a nome della città di Roma – ha dichiarato Alemanno – contro le decisioni assunte dal Tribunale di Roma di rimettere
Tutti i 23 ragazzi fermati dalle forze dell’ordine dopo gli scontri di martedì scorso a Roma sono stati liberati. Tra loro, uno solo è costretto ai domiciliari mentre per tre c’è l’obbligo della firma, un classico provvedimento che in genere si prende nei confronti degli ultrà fuori controllo. La prossima udienza è fissata per il 23 dicembre
in libertà in attesa di giudizio quasi tutti gli imputati degli incidenti di martedì scorso. C’è una profonda sensazione di ingiustizia di fronte a queste decisioni perché i danni provocati alla città e la gravità degli scontri richiedono ben altra fermezza nel giudizio della magistratura sui presunti responsabili di questi reati. Non è minimizzando la gravità di questi fatti che si dà il giusto segnale per contrastare il diffondersi della violenza politica nella nostra città mentre è evidente che queste persone hanno dimostrato, soprattutto in un momento di grande tensione sociale quale quello che stiamo vivendo, di essere soggetti peri-
colosi per la collettività. C’è veramente da augurarsi di non vedere queste persone di nuovo all’opera quando qualcuno, nei prossimi giorni, cercherà di contrastare le decisioni del Parlamento sulla riforma».
Al sindaco di Roma ha replicato Luca Palamara, presidente dell’Associazione nazionale magistrati: «Criticare i provvedimenti dei magistrati è legittimo, non lo sono però gli “insulti” nei confronti dei giudici e dell’istituzione nel suo complesso». Ambienti del dipartimento della Pubblica sicurezza fanno notare che i fermi di tutti e 23 i giovani bloccati dalle forze dell’ordine
durante gli scontri del 14 dicembre scorso a Roma, sono stati convalidati il che dimostra come «l’autorità giudiziaria abbia confermato la correttezza procedurale di chi ha eseguito i fermi in piazza». Ieri la Consap, la Confederazione sindacale autonoma di Polizia, ha effettuato un sit-in davanti al Senato, mentre nell’aula si discuteva del pacchetto sicurezza.Tra i manifestanti anche i colleghi degli agenti feriti negli scontri. Secondo i responsabili della sigla, «dopo due giorni dal plauso collettivo alle forze dell’ordine la politica ha l’occasione per dimostrare questa vicinanza nei fatti».
Intanto, sugli episodi di martedì il ministro dell’Interno Maroni riferirà oggi al Senato, mercoledì alla Camera. Mentre il ministro dell’Istruzione Maristella Gelmini, alla vigilia di una tre giorni “calda” che attende la riforma universitaria, ha dichiarato di aspettarsi «da tutte le forze politiche una presa di distanze netta e chiara. Non ci sono giustificazioni ad atti di violenza e di danneggiamento alle cose e alle persone. Dobbiamo avere il coraggio di prendere con fermezza le distanze davanti a queste modalità di protesta, che non riguardano gli studenti e i ricercatori. Si tratta di un gruppo di facinorosi e di violen-
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Bondi scrive al Pd: «Salvatemi voi!»
Il Lazio contro l’abusivismo
ROMA. Sandro Bondi, con il timore di perdere il posto, rispolvera il suo passato comunista e scrive ai dirigenti del Pd chiedendo loro di non sfiduciarlo: «Cari compagni, vi spiego perché non dovreste sfiduciarmi» inizia una sua lettera aperta pubblicata dal Foglio. E continua: «Vi chiedo di fermarvi e di riflettere prima di presentare contro di me un atto parlamentare cosi’ spropositato, pretestuoso e dirompente sul piano umano, che rappresenterebbe un’onta non per me che lo subisco ma per voi che lo promuovete». Insomma, non pago di aver scritto a Napolitano per denunciare la «parzialità» di Fini, il ministro continua a perorare se stesso: evidentemente sente la terra franare sotto ai piedi.
ROMA. Per contrastare il fenomeno dell’abusivismo nel Lazio, «sarà strategica la definizione organica del “Sistema informativo dell’abusivismo”, che consentirà di monitorare e controllare il territorio, rendendo sinergici i sistemi già a disposizione delle varie amministrazioni pubbliche». Lo ha detto l’assessore regionale all’Urbanistica, Luciano Ciocchetti. «Il Sistema è in fase di predisposizione da parte delle strutture regionali competenti - ha spiegato Ciocchetti e il prossimo anno verrà offerto in dotazione a tutte le amministrazioni comunali. Il rispetto delle regole è l’elemento fondamentale di una comunità, ne da il senso e il valore più significativo a chi vi appartiene».
g i u d i z il e t t e r ep r o t e s t es u g g e r i m e n t i
La rinascita dell’Italia passa per il Terzo Polo Vorrei poter dire la mia a favore della nascita del terzo polo in Italia. Dopo 15 anni di bipolarismo, siamo in presenza di una crisi di sistema, per cui la sinistra e la destra che hanno governato l’Italia hanno determinarto una polarizzazione dello scontro politico che non fa bene al Paese e riduce i moderati al silenzio. La violenza verbale della politica si sta trasformando sempre più di frequente in violenza nelle strade. Bisogna mettere insieme le forze e le intelligenze libere da schemi o ancora legate alla storia passata. Nella discussione al Senato del 14 dicembre che ho ascoltato per radio, ho sentito un senatore dare del fascista ad un altro. E quello che rinfacciava a sua volta i rubli incassati dai comunisti dell’Urss illo tempore. Non abbiamo più bisogno di tutto ciò, serve unità nazionale che porti al governo persone coraggiose pronte a fare le riforme e liberare il Paese da un passato che distrugge. È per questo che ritengo utile una alternativa politica fatta da uomini moderati aperti a fare le riforme necessarie per il bene comune. La necessità del nuovo polo deve essere chiara a tutti: l’Italia e gli italiani rinasceranno.
Nicola Cassone - Bari
SOLO DANNI A Piacenza il sindaco di sinistra ha emesso un’ordinanza (illegittima perché contraria al codice della strada, che è legge), secondo la quale le biciclette possono andare contromano. Per le automobili, come è evidente, è un pericolo continuo. Quel burosauro che è l’Automobile Club non ha impugnato, e così nessun altro. L’ordinanza resta in piedi e va osservata. Mi chiedo a che cosa serva L’Autombile Club: all’evidenza, è utile solo perché si batte per mantenere in vita una baracca-doppione come il Pra, Pubblico registro automobilistico. Agli automobilisti fa solo danno.
ti, che abbiamo purtroppo visto all’opera anche in occasione del G8 a Genova». Sulla “sua” riforma il ministro Gelmini ha confermato «la piena disponibilità a un confronto sulla riforma dell’Università, sui temi del merito, della governance, del reclutamento. Una piena disponibilità a un confronto che sia pacato e costruttivo a un accoglimento, per quanto possibile in terza lettura al Parlamento, di suggerimenti, proposte e anche proteste da parte dei giovani. Ma soprattutto voglio dire loro che non hanno motivo di avere paura di un provvedimento che mette al centro il loro interesse e le loro aspettative».
Il ministro dell’Istruzione ha assicurato di «comprendere le ansie, le preoccupazioni e qualche volta la sfiducia dei giovani legate al problema della disoccupazione giovanile che è’attorno al 25 per cento e al problema della precarietà. Ma i giovani devono sapere che per risolvere questi problemi, per consentire loro una aspettativa di carriera buona e la possibilità di trovare lavoro serve ed è urgente una profonda riforma dell’università. Basta con i corsi universitari inutili o con un unico studente iscritto, basta a sedi distaccate dove la qualità della didattica è molto bassa. In Italia non esiste ancora un sistema adeguato di borse di studio: ma solo eliminando gli sprechi, corsi di laurea inutili, le sedi distaccate dove la qualità della ricerca è me-
Gianni Albanesi
L’IMMAGINE
Le galassie ci guardano Un inquietante paio di “occhi” celesti ci scruta da 140 milioni di anni luce di distanza. Lo “sguardo cosmico”, situato nella costellazione del Cane Maggiore, è nato dal progressivo incontro-scontro di due galassie a spirale
Nel pomeriggio, fuori dal Palazzo di Giustizia ci sono stati ancora momenti di tensione
In queste pagine, alcune immagini degli scontri dello scorso martedì pomeriggio a Roma in occasione delle proteste contro il governo
diocre possiamo liberare risorse per attuare il dettato costituzionale e far sì che tutti i ragazzi meritevoli e privi di mezzi, possano accedere ai livelli più alti dell’istruzione».
Un’apertura del ministro che denota la nuova fase di dialogo anche con quella parte dell’opposizione responsabile che il governo sta intraprendendo e che ha visto, per esempio sul decreto per l’emergenza rifiuti in Campania, l’accoglimento degli emendamenti proposti dal’area di responsabilità formata da Udc, Fli, Api, Mpa, i liberaldemocratici, i repubblicani e i liberali. Per arrivare a questo obiettivo, sostiene la Gelmini, «dobbiamo riconvertire la spesa, favorendo un ricambio generazionale nelle università. Questi sono i contenuti del provvedimento e monitoreremo la situazione della riforma, sperando che il Senato la licenzi quanto prima». Il tutto mentre la piazza lavora per evitare un bis degli scontri di martedì scorso.
FURTI IN AUMENTO Aumentano i furti negli appartamenti. Le vittime vengono studiate nei loro spostamenti e costumi di vita e spesso, come è successo a una mia amica inglese che vive da sola, colpiscono single e stranieri, anche nel sonno. Ricordiamoci che la lotta alla delinquenza non ha limiti e soste, e che il governo che ha ottenuto i suoi successi, deve aver presente che la criminalità non è solo mafia, camorra e ’ndrangheta, ma anche microcriminalità che nasce da povertà latenti in aumento.
Bruna Rosso
NO AI MESSAGGI NEGATIVI SUGLI ANIMALI Non sappiamo se la comicità del trio Aldo, Giovanni e Giacomo fa ancora ridere, ma a noi interessa il fatto che a volte, forse per mancanza di idee o nel tentativo di far colpo a tutti i costi, i tre ricorrano a battute o scene negative nei confronti degli animali. Ricordiamo le infelici battute di uno spot pubblicitario del trio “bruciare le formiche con la lente d’ingrandimento”e “legare barattoli alla coda del gatto”. Anche nell’intervista di presentazione del cine-panettone per il prossimo Natale, non sono mancati discorsi “ironici” nei confronti degli animali, poi smentiti. Ma intanto un certo messaggio era passato, ossia che maltrattare gli animali sia una cosa fattibile, una bravata. Chi si avvale dei grandi mezzi di comunicazione dovrebbe pensare che quanto dice e fa, purtroppo, diventa un esempio per milioni di persone. Certe battute o scene demenziali possono indurre all’emulazione i soggetti più deboli, che sono tanti. Se si vuole lanciare un messaggio, perché non sceglierne uno di rispetto e di amore verso gli altri esseri viventi? Gli atti di violenza e sevizie contro gli animali sono fin troppi, da quelli quotidiani (allevamento e macellazione) a quelli stagionali (la caccia), fino agli atti gratuiti che vengono compiuti da maniaci, sadici o ragazzotti senza cervello. In questo panorama squallido, a che scopo lanciare altri messaggi dello stesso genere?
Centopercentoanimalisti
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hiunque da un’ottantina di anni a questa parte sia stato a Barcellona conserva nella memoria, e nei consueti reportage fotografici a uso personale, la Sagrada Familia per il solo fatto di essere stato al suo cospetto. Ora questa solenne e, alla lettera, stravagante opera architettonica contemporanea è definitivamente consacrata: dal Santo Padre prima di tutto, che nel viaggio in quel di Catalogna, ne ha ufficializzato l’apertura al culto come basilica minore; così, a scendere, anche da un interesse maturato attorno all’evento e concretizzatosi nel numero novembrino di Luoghi dell’Infinito dedicato al Novecento e il sacro, da una conferenza gremita di pubblico in quel della rinnovata Villa Clerici a Milano, di
C
Maria Antonietta Crippa, docente di Storia dell’Architettura al Politecnico meneghino, e da almeno un paio di libri, autentiche tracce su carta del complesso e affascinante itinerario artistico della Sagrada Familia, certo, ma anche di quel Antoni Gaudí che ne è di fatto l’iniziatore. Se a vederla con gli occhi di un ragazzino la chiesa appare come un immenso e splendente castello di sabbia, con quelli di Paolo Portoghesi regala tutt’altro effetto: «Con questa plasticità densa e insieme sommessa Gaudí costruisce la sua Bibbia pauperum, pensando a un osservatore che cerchi nel racconto non la perfezione della forma ma l’urgenza del logos e il ritmo coinvolgente del racconto» (L’Osservatore Romano, 7 novembre). Un racconto che a lungo ha lasciato ampi spazi al mistero. A cominciare dalla vita dell’architetto catalano, tanto unica da diventare con La chiave Gaudí un mistery di successo. Ma al di là di queste intriganti pagine di finzione di Esteban Martín e Andreu Carranza, per conoscere in profondità e nella sua autenticità il percorso biografico e artistico di Gaudí resta a disposizione del lettore la sostanziosa e circostanziata biografia scritta da Joan Bassegoda i Nonell (Gaudí. L’architettura dello spirito, Edizioni Ares, 216 pp., 18 euro).
Santo o visionario, ispirato profeta del razionalismo o delirante interprete dell’arbitrio, Antoni Gaudí i Cornet è stato sicuramente protagonista di un itinerario che, nell’oscillazione tra passato remoto e futuro anteriore, lo ha visto di volta in volta come l’ultimo degli antichi maestri, erede di pulsioni espressive di età arcaiche, o come il primo dei moderni, anticipatore di molte invenzioni del-
il paginone
La sua eccellenza, al di là della Sagrada Familia, è nell’essere stato insieme l’ulti le avanguardie novecentesche. Ammirata da personalità così distanti tra loro come Le Corbusier e Dalí, Sullivan e Gropius, Aalto e Cocteau, l’opera di Gaudí si presta in effetti, nella sua ricchezza espressiva, a letture multiple e anche contraddittorie. Forse perché la grandezza di Gaudí è proprio nell’essere insieme l’ultimo degli antichi e il primo dei moderni, l’artefice e l’eroe di un mondo creativo dove l’intuito si intreccia alla ragione, dove l’esatta padronanza delle tecniche costruttive è fondamento e stimolo per inaudite libertà formali, prodigiosa unione di genialità ingenua e fortuna.
Le esperienze artistiche successive, delle quali con certosino lavoro critico si sono individuati i germi in Gaudí (e sono molte: dall’espressionismo a Dada, dal surrealismo all’architettura organica e fino alla Pop art), con ogni probabilità non sarebbero state gradite dal presunto precursore, attento casomai a ben altri orizzonti espressivi. Il gioco dei riferimenti è di sicuro facile ed è anche inesauribile, tanto ricco è il materiale offertoci da Gaudí: anche la qualità della sua opera non risiede però nelle diverse “anticipazioni”, ancorché talvolta plausibili, bensì come per tutti i veri maestri, nella viva necessità delle virtù concentrate al suo interno. «Niente si improvvisa», secondo Gaudí, che pure non ammetteva il termine “definitivo” per le cose di questo mondo: le sue opere, non sorrette da un preliminare disegno esecutivo - il progetto è solo un cosa “di carta”, dichiarava - e quindi in perenne trasformazione nel loro farsi sotto le sue mani, sorgono sul sottile crina-
Viaggio nella vita (e nelle visioni) del grande artista catalano attraverso la sostanziosa e circostanziata biografia scritta da Joan Bassegoda i Nonell In queste pagine, un’immagine del grande architetto catalano Gaudí e diversi scatti di alcune delle sue opere architettoniche più prestigiose. Tra queste, la più famosa e ammirata è senz’altro la Sagrada Familia
Gaudí, l’architet
di Frances le tra crescita ed essenza, inesorabilmente concretate in uno degli infiniti istanti del vano inseguimento alla Eliot del tempo verso il traguardo inattingibile del senza tempo. Ricorda ancora Bessegoda i Nonell nella sua preziosa biografia che Gaudí era solito dire che «l’intelligenza dell’uomo può attuarsi solamente nel piano, è a due dimensio-
ni: risolve equazioni a una incognita, di primo grado. L’intelligenza angelica è a tre dimensioni, si attua direttamente nello spazio». Così è per Gaudí stesso il quale, come ispirato da un alito celeste, immagina e progetta spazi tridimensionalmente gravidi, secondo una visione plastica che non procede per successive sovrapposizioni di piani ma nasce come
Barcellona, dopo secoli di decadenza. Quando il giovane Antoni giunge a Barcellona nel 1869 per i suoi studi di architettura, la città sta crescendo a ritmo vertiginoso: i 150mila abitanti del 1850 sarebbero quadruplicati alla fine del secolo; il vasto Ensache (ampliamento) barcellonese, esempio di piano urbanistico d’avanguardia basato su criteri so-
L’intera sua opera si è sempre prestata, nella sua grande complessità ma allo stesso tempo anche nella sua evidente ricchezza espressiva, a letture multiple e anche contraddittorie un’immediata totalità avvolgente. Erede di un’antica famiglia di artigiani del rame, Antoni Gaudí i Cornet nasce nel 1852 a Reus, piccolo centro catalano poco distante da Tarragona. La Catalogna, antica e gloriosa regione dotata di una straordinaria e profonda coscienza nazionale, era allora nel pieno di una ripresa economica, sociale e politica che, dai lontani fasti del Medioevo, per lunghi secoli non aveva più conosciuto. La “Renaixença”è l’orgoglioso rinascimento della regione e della sua capitale,
ciali e demografici, si andava velocemente coprendo di nuovi edifici.
In architettura le istanze rigeneratrici della “Renaixença” trovano concreta espressione in un’attenta e vivace riscoperta del Medioevo, che, per quanto comune in quegli anni a molti paesi europei, in Catalogna assume precise implicazioni nazionalistiche per quella volontà di ricollegarsi all’ultima gloriosa stagione di autonomia politica e culturale. Come per molti architetti europei
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imo degli antichi e il primo dei moderni, l’artefice e l’eroe di un mondo creativo
tto dello Spirito
sco Napoli dell’epoca, la lettura delle opere di Ruskin e degli Entretiens e del Dictionnaire di Viollet-le-Duc è alla base della formazione di Gaudí, una formazione in realtà condotta un po’ disordinatamente nella neonata Scuola provinciale di architettura di Barcellona, i cui accademici insegnamenti fluttuavano in un clima tra nostalgico ed evasivo.
Una penetrante testimonianza del senso di stagnazione espressiva e dell’urgenza di un consapevole rinnovamento avvertiti dalla nuova generazione professionale è data da Lluís Domènech i Montaner, collega e coetaneo di Gaudí che tanta parte avrà nella vita barcellonese non solo come architetto ma anche come attivo catalanista, con un articolo dall’esplicito titolo Alla ricerca di una architettura nazionale apparso nel 1878. In quel medesimo anno il nostro Antoni consegue il titolo di architetto e dopo alcune collaborazioni al servizio di altri professionisti ottiene il primo incarico di rilievo, vincendo il concorso municipale per il disegno dei lampioni destinati alla centralissima plaça Reial di Barcellona: impegno di
modesta entità ma di grande prestigio e visibilità per un giovane architetto. Adotta, per la realizzazione di quanto commissionato, un brillante connubio di pietra e ghisa, animando così i punti luci con guizzanti dettagli anche perché, come scrive nella memoria che accompagna il progetto, «nei nostri paesi meridionali non si esce in istrada esclusivamente per necessità. Ne consegue che dobbiamo favorire l’ornamentazione delle vie più che in altri paesi». Ma è l’incontro con l’industriale Eusebi Güell a rappresentare per Gaudí la vera svolta, almeno fino alla morte di Eusebi nel 1918. L’architetto ignorante, che non aveva letto che un po’ di Goethe e i romanzi del “siglo d’oro” spagnolo, che
stico privilegio d’essere l’architetto esclusivo di un mecenate colto e liberale, tanto prodigo nei confronti delle sue dispendiose esigenze costruttive quanto disponibile a condividerne le eccentri-
Nelle sue creazioni, l’intuito si intreccia alla ragione, dove la padronanza delle tecniche costruttive è stimolo per inaudite libertà formali, prodigiosa unione di genialità ingenua e fortuna non aveva rubriche né aveva redatto manifesti teorici o tenuto conferenze dotte sulla materia, parlava solo catalano, viveva il raro e per i tempi anacroni-
che scelte estetiche: il padiglione di caccia, mai realizzato sulla costa presso Barcellona (1882), e, soprattutto, i padiglioni d’ingresso e alcuni edifici annessi
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alla “finca” Güell (1884-1887), la tenuta estiva della famiglia alle porte di Barcellona, sono le prime commissioni per Gaudí. Il fantasioso e ricco industriale s’era innamorato di una geniale quanto lineare vetrina per guanti disegnata da un giovanissimo Gaudí e da allora l’ha voluto per sé. Ma non aveva ancora messo mano alla “finca” di Güell che riceve l’incarico di proseguire i lavori appena iniziati del tempio della Sagrada Familia, il capolavoro da compiersi nel tempo, un’opera immane che attraversa tutta la sua vita e che, trasformandosi parallelamente all’evolversi del suo linguaggio, diviene l’Opera della sua vita. Un infinito crogiuolo creativo in cui Gaudí concentrerà, negli ultimi anni, un’incessante sperimentazione e che ne fa l’autentico specchio, seppur sempre un po’ sconnesso, della sua genialità fuori del tempo. Sembra aderire a una sua idea molto precisa e ponderata quando mette mano al cantiere in corso: «La retta è la linea degli uomini e la curva è la linea di Dio», ma le sue sono curve tutte regolate dalla geometria (parabole, ellissi, iperboli) e nun “curvas de sentimiento”, come con leggera ironia definiva le convulsioni lineari dell’Art Nouveau. Non so quanto lui possa essere considerato o meno un architetto del Modernismo, perché la sua arte “è puramente individuale e si definirà senza lasciar seguaci” come scrisse con grande intuito critico il suo collega Domènech i Montaner.
Appena al di sotto della visione personale in loco, Gaudí. La Sagrada Familia (edizione italiana a cura di Maria Antonietta Crippa) è un volume che preso tra le mani apre le porte della magnifica chiesa catalana con piacevolissima soddisfazione. Accanto agli scritti della stessa Crippa c’è un repertorio di immagini inedite, dispiegate in pagina con efficace sapienza editoriale, a illustrare con dovizia non solo l’impresa di Gaudí e la sua genialità ormai indiscutibile, ma a dar conto anche del cantiere vivo che è proseguito e degli uomini che hanno portato a termine l’azzardo progettuale, e teologico oserei dire, di Antoni Gaudí. Alla creazione di questo fulgido mito di Gaudí e della Sagrada Familia contribuì anche Joan Maragall, forse il più grande poeta catalano del Novecento, con alcuni articoli apparsi a inizio secolo nei quali, tra simbolismo e naturalismo mitico, vede la Sagrada come «una fioritura di pietra»: «Sembra che vada innalzandosi da sé, come l’albero che cresce con lenta maestà», scrive, e la rupe perde la sua inerzia, e da pietra fiorisce pietra, e le colonne producono archi come rami nella trascendenza di una grande rovina che nasce. Ma nell’ultimo dei suoi articoli dedicati al tempio, intitolato non a caso Fuera del tiempo, Maragall esordisce come è sicuramente bene concludere l’intero discorso su Gaudí: «Ogni volta che entro nel recinto della Sagrada Familia provo la stessa sensazione di uscire dal tempo (…) Da quel momento mi vedo entrare nell’ambito in cui appare soltanto un’ala spiegata per metà, che in modo insolito è sorta dal seno della terra, in cui giace quello che manca della colossale proporzione del tutto».
mondo
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Crisi. Compromesso solo a metà al vertice Ue. Banca d’Italia verserà 625 milioni entro la fine dell’anno
L’Europa raddoppia Il Fondo sale a 1000 miliardi di euro. Ma ancora senza strategie comuni di Gianfranco Polillo ell’aritmetica della crisi cambiano gli addendi, ma i risultati sono sempre gli stessi: mercati in fibrillazione, borse in calo, attenzione crescente a squilibri finanziari sempre meno tollerati. L’andamento degli spread (differenza nei tassi d’interesse sui titoli emessi) sul mercato secondario segnano i peggioramenti climatici e le attese degli operatori. È una marea che sale e che rischia di sommergere gran parte del vecchio Continente. In alcuni paesi gli argini eretti sono stati già superati. In altri l’acqua lambisce i primi bastioni. Parliamo ovviamente di Grecia, Irlanda e Portogallo da un lato. Di Spagna e Bel-
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truffaldine: capaci di nascondere la polvere sotto il tappeto, fino alla resa dei conti finali. Quando Eurostat, il centro statistico europeo, alla fine ha squarciato il velo delle continue falsificazioni, innescando la spirale della crisi e del successivo contagio.
Completamente diverso il caso irlandese. L’Irlanda era la punta di diamante del modello anglosassone. Antica terra di emigrazione era divenuta un benchmark di riferimento.Tassi di sviluppo a due cifre, bassa inflazione, la rete di sicurezza dell’euro una volta abbandonato il rapporto ancestrale con la sterlina inglese. Aveva interpretato meglio di altri la logica della globalizzazione. Garantendo una tassazione fiscale sui nuovi insediamenti – appena il 12,5 per cento sugli utili conseguiti – era divenuta la meta preferita delle grandi multinazionali e la porta principale per i ricchi mercati del Continente. A Dublino si erano trasferiti i nomi più blasonati del nuovo capitalismo. Prosperavano le banche, sempre più coinvolte nel grande gioco dell’intermediazione finanziaria e in grado di finanziarie le impegnative operazioni immobiliari che facevano crescere il prezzo delle abitazioni: prima le sedi prestigiose del jet set internazionale. Quindi quelle destinate ai comuni mortali. Una bolla gigantesca che sembrava proiettarsi in un’ascesa inarrestabile. La crisi ha provocato l’inevitabile terremoto, costringendo dapprima lo Stato a intervenire a sostegno delle banche più indebitate per evitare lo spettro del loro default. Quindi l’Europa, una volta esauriti i fondi pubblici a disposizione. E oggi si pagano i prezzi di quelle più antiche follie. Un senno del poi che si poteva intuire e scongiurare fin dall’inizio, se solo si avesse avuto contezza delle contraddizioni insite nel meccanismo che si stava costruendo.
In alcuni paesi gli argini eretti sono stati già superati. In altri l’acqua lambisce i primi bastioni: è sempre il caso di Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e Belgio. Ma con Francia e Italia a rischio gio dall’altro. Ma nemmeno la situazione francese e quella italiana sono esenti da rischi. La Grecia, com’è noto, ha fatto da apripista. La sua situazione somiglia, seppure decisamente in peggio, a quella italiana. Un welfare troppo esteso per le fragili spalle del suo sistema economico. Una pubblica amministrazione pletorica, segnata da privilegi e deresponsabilizzazioni. Un sistema pensionistico fin troppo generoso con le generazioni nate nell’immediato dopoguerra, ma patrigno nei confronti dei più giovani. Figli e figliastri. Regole contabili a dir poco evanescenti se non
Qualcosa di simile è accaduto sull’estrema frontiera ovest dell’Europa. Il Portogallo, storica appendice della Spagna, è già caduto. Madrid rischia di seguirlo a ruota. Due tagli, a distanza di pochi mesi, del rating del debito, decre-
Si ripropone il dilemma tra economia e unità politica
«Ma serve anche il buon governo»
La «ragioneria europea» da sola non basta, dice l’economista Luigi Paganetto di Pierre Chiartano
ROMA. Come suddividere le responsabilità in caso di crisi di uno Stato? Si discute anche di questo da ieri a Bruxelles tra i leader di Stato e di governo europei che dovrebbero ratificare quanto stabilito già a novembre sul varo di un meccanismo di stabilizzazione permanente, l’Esm, che nel 2013 dovrà sostituire l’attuale Efsf (European financial stability facility) da 440 miliardi. Operazione che richiede delle modifiche limitate ai testi dei Trattati, che oggi vietano esplicitamente il salvataggio di un Paese dell’euro-zona. Le modifiche, dopo essere passate al vaglio di Commissione e Parlamento, saranno approvate al vertice europeo di marzo per passare alle ratifiche nazionali. Mentre si rimpinguano le risorse del fondo salva-Stati per le nuove ombre su Spagna e Portogallo, con la benedizione sia della Bce che del Fmi, la Germania della Merkel ribadisce, in ogni ambito, come il concetto di responsabilità finanziaria debba essere introdotto nelle istituzioni come nel settore privato. Abbiamo chiesto a Luigi Paganetto, professore di economia internazionale all’Università di Roma Torvergata, quale sia l’importanza del meccanismo di sta-
bilizzazione permanente e come l’Europa si stia muovendo per fronteggiare future crisi.
«L’attuale meccanismo cessa di funzionare nel 2013. Ma è necessario avere un sostegno per le economie sofferenti, come per Grecia e Irlanda». È chiaro che la scomparsa di questo salvagente finanziario «avrebbe significato un vulnus potenziale al funzionamento dell’intervento europeo nel caso di nuove difficoltà». Poi l’economista italiano spiega come a questi meccanismi salvaStati vada associata una cultura di buon governo dell’economia che impedisca che si arrivi al rischio default. Servono politiche di governance europea. In questa direzione si muove il meccanismo previsto dal semestre europeo su prevenzione e sorveglianza degli squilibri macroeconomici, a cominciare da quelli della bilancia dei pagamenti. «Sono interventi che dovrebbero aiutare l’Europa a evitare le crisi. È importante sottolineare che i meccanismi previsti dal Trattato, se pure emendato, sono meccanismi sanzionatori. Se qualcuno supera il tre per cento il rapporto deficit-Pil o eccede nel debito,
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di minimo, pari all’84,2 per cento. Oggi siamo, nuovamente, al 98,6 per cento del Pil, mentre da sei mesi il Governo è alle prese con una crisi politica dalle incerte prospettive, che lascia, addirittura, intravedere l’ipotesi di rottura dell’unità nazionale.
Merkel e Sarkozy sono sempre al centro delle strategie europee. Sopra, le proteste contro il governo a Dublino. Sotto, Jean-Claude Junker e, nella pagina a fianco, Giulio Tremonti
Bruxelles interviene, ma lo fa a posteriori. Mentre i due nuovi strumenti danno la possibilità di prevenire le crisi». Parlare di fondo di stabilità significa, per Paganetto, impedire i disastri che punire le cattive pratiche. «Altrimenti le crisi tenderanno a moltiplicarsi». Poi vengono le note dolenti, perché se siamo tutti d’accordo che nessuno debba affogare nei debiti e che gli si debba fornire una scialuppa, non c’è tanto accordo su come non far affondare la nave per eccesso di debito. La kanzlerin Angela Merkel guida la pattuglia di chi vorrebbe cambiare le cattive abitudini dell’Europa spendacciona, pur non
“
Quelli decisi ieri sono solo strumenti d’intervento: leve da usare quando già il danno è conclamato
”
lasciando nessun Paese da solo, come ha recentemente ribadito davanti al Bundestag. Ma c’è anche una pattuglia di Paesi che ancora non digeriscono che le buone pratiche amministrative debbano essere dettate e verificate da Bruxelles. «Da tempo l’Fmi sostiene che occorre, per gran parte dei Paesi, che si proceda a un consolidamento fiscale. Cioè interventi che riducano non solo il deficit, ma anche il debito e che si combinino con meccanismi d’incremento di produttività e crescita». Una formula
quasi magica che riduca i debiti e permetta ai Paesi di produrre ricchezza sufficiente per pagare il resto. Ma come è possibile trovare degli strumenti che permetta agli Stati europei di non sprofondare, anzi di riprendere la salita? Già esisteno, spiega Paganetto. «Sono i piani nazionali delle riforme che servono proprio a monitorare le scelte dei membri Ue in materia di sviluppo e crescita».
Sul fatto che l’Esfs e poi il nuovo Esm possano introdurre una nuova cultura della responsabilità e del buon senso, Paganetto è un po’ scettico. «Sono strumenti d’intervento, quando il danno è conclamato. Come già faceva l’Fmi in passato, può diventare un sostegno condizionato», ma pur sempre quando la frittata è ormai fatta, spiega l’economista. Non solo, ma gli interventi di questa natura dovrebbero essere molto limitati, per non ingenerare lassismo finanziario nei governi: “tanto c’è il fondo monetario europeo”. «E poi è importante la sorveglianza sui conti pubblici». La Germania fa notare come le crisi – ad esempio quella irlandese – nascano da un eccesso d’espansione del credito. «Coloro che hanno assunto rischi eccessivi, siano esse banche o istituti finanziari, non possono pretendere che siano poi i cittadini pagare questi errori, sia pure attraverso il fondo». La Merkel vorrebbe una partecipazione dei rischi per gli investitori privati. Anche un taglio del valore nominale rimborsato alla scadenza dei titoli. «Cioè per la ristrutturazione del debito». Insomma, basta allo Stato-Ue pantalone che paga i conti delle iniziative spericolate delle banche.
tati da Moody’s. Sotto accusa l’eccessivo fabbisogno – il deficit di cassa coperto dall’emissione di titoli – che rende sempre più difficile il relativo finanziamento. Una minaccia, ma anche una punizione, visto che lo spread nei confronti del bund tedesco è salito a 260 punti base (il 2,6 per cento in più). Preoccupano soprattutto i costi del federalismo: di quell’esperimento tanto esaltato anche in Italia, ma che oggi mostra più di una ruga, alimentando le incertezze complessive. E sempre di federalismo si parla, quando si accenna a un altro grande malato, come il Belgio. Lì la rottura fra francofoni e valloni,
Questo è lo sfondo che ha accolto i Capi di stato europei, chiamati al capezzale di un malato che non solo non da segni di guarigione, ma rischia di giungere al collasso. Come se ne esce? Diverse le proposte sul tappeto. Quella più difficile - sostenuta da Mario Monti e fatta propria da Giulio Tremonti, con l’appoggio di Juncker, presidente dell’Eurogruppo - degli eurobond. Sostituire, cioè, una parte del debito di ciascun Paese con titoli direttamente emessi dall’Europa. Ne deriverebbe una maggiore solidità finanziaria e la possibilità di contrattare sui mercati tassi d’interesse minori. Si oppongono francesi e tedeschi, nonché i teorici del rigore. Sarebbe un premio per gli Stati più spendaccioni – si continua a ripetere – ritardando nel tempo i necessari processi di risanamento. Gli stessi che, in mezza Europa, stanno determinando le grandi manifestazioni di piazza e le reazioni violente degli infiltrati nei cortei di protesta. Meglio quindi l’alternativa di rendere permanente il cosiddetto Fondo salva stati. Quelle risorse approntate – per un totale che sfiora i 1000 miliardi di euro – per venire incontro alle economie più colpite. Queste facilitazioni dovevano scadere nel 2013. Diverranno, invece, permanenti. Le risorse saranno concesse su condizione. Saranno, cioè accompagnate, da prescrizioni di politica economica in tema di risanamento dei conti e rigore finanziario. Basteranno? La Merkel giura di sì, visto che finora il tiraggio è stato poco più del 10 per cento. Ma la speculazione più che essere blandita, deve essere domata. Richiede cioè l’ostentazione della forza finanziaria. Ed essa può essere garantita solo dalla disponibilità di fondi, anche se il loro utilizzo non risulterà essere necessario.
Resta il problema del capitale delle banche centrali. Chi più chi meno, quelle dei singoli stati sono intervenute pesantemente acquistando i titoli del debito e quindi esponendosi molto storicamente latente, si era provvisoriamente ricomposta nella duplicazione delle strutture della governance. Un processo che aveva portato il Belgio ad avere, negli anni ’90, un debito pubblico addirittura superiore a quello italiano. Poi era iniziata la discesa, grazie ad una politica più attenta agli equilibri finanziari e un più soddisfacente tasso di crescita complessivo. Un trend che, purtroppo, si è invertito. Nel 2007 si era toccato il punto
Resta infine il problema – questo risolto senza grandi contrasti – del capitale delle banche centrali. Chi più chi meno, quelle dei singoli Stati sono intervenute pesantemente nella crisi acquistando i titoli del debito sovrano. La sola Fed ha in pancia qualcosa come 73 miliardi di obbligazioni “vulnerabili”. Una situazione per niente tranquillizzante che ha spinto l’ex ministro socialdemocratico tedesco, Franz Walter Steinmeier, a parlare del rischio che la Fed si trasformi rapidamente in una bad-bank. Qualcosa d’impensabile negli assetti costituzionali dell’Europa. Si farà fronte a queste incertezze con una nuova iniezione di capitale: 5 miliardi in più. Operazione che trascinerà con sé la Banca d’Italia (625 milioni di aumento). Basterà? Difficile rispondere. Secondo il Comitato di Basilea, se già fossero in vigore le regole ipotizzate al 2013, le banche del G20 avrebbero bisogno di reperire risorse – in termini di patrimonio – pari a 600 miliardi di euro. In Italia il fabbisogno sarebbe, invece, di 40 miliardi. Con una percentuale di appena il 7 per cento: nella crisi più complessiva, un segnale rassicurante.
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Assange libero su cauzione LONDRA. Julian Assange lascerà il carcere. Il giudice Duncan Ouseley della Royal Court of Justice di Londra ha respinto l’appello presentato dalle autorità contro il rilascio del fondatore di Wikileaks. Assange dunque è libero su cauzione (in attesa dell’udienza sull’estradizione l’11 gennaio), ma dovrà indossare il braccialetto elettronico e recarsi ogni giorno a firmare alla stazione di polizia. L’avvocato Mark Stephens ha già trasferito i soldi necessari per la rimessa in libertà, 200 mila sterline. È stato deciso anche che la Svezia paghi le spese legali per l’appello alla Royal Court of Justice e quelle del procuratore britannico che ha rappresentato gli interessi svedesi. La sentenza è stata accolta da applausi.
Turchia, a giudizio i golpisti di Balyoz
«Khodorkovski? È come Madoff»
ISTANBUL. Al via presso il tribu-
MOSCA. «I crimini di Kho-
nale di Silivri il processo per il presunto golpe del Martello, il cosiddetto piano Balyoz che aveva l’obiettivo di rovesciare il governo islamico moderato già nel 2003 guidato da Recep Tayyip Erdogan. Chiamati a rispondere dell’accusa di sovversione ben 196 imputati, compresi alti gradi dell’esercito turco in pensione fra cui l’ex Capo delle forze aeree, Firtina, e l’ex Capo delle forze marittime, Ornek. La Decima Corte Penale di Instanbul sarà presieduta da Ömer Diken, dopo l’allontanamento di Zafer Baskurt. Gli accusati rischiano dai quindici ai venti anni di prigione. In primis il generale Cetin Dogan e il colonnello Dursun Cicek, considerati dagli inquirenti gli uomini chiave del piano.
dorkovski sono stati provati in aula. Un ladro deve stare in prigione». Il premier russo Vladimir Putin non usa mezzi termini per attaccare l’ex oligarca, un tempo leader del colosso petrolifero Yukos, poi finito in disgrazia e in galera per evasione fiscale e tuttora tenuto prigioniero in un carcere siberiano. L’ex presidente russo ha toccato l’argomento durante la diretta tv con i cittadini, e ha paragonato l’ex patron di Yukos al finanziere Usa Bernard Madoff, ad evocare l’ipotesi che l’oligarca sia il mandante anche di omicidi. La questione sul caso Khodorkovsi è stata sollevata da una domanda formulata sarcasticamente da un’anziana signora e non dalla stampa presente.
I due giganti puntano a 100 miliardi di dollari di interscambio entro il 2015. Ma Delhi non molla su Lhasa e Pechino sull’Onu
Il Tibet divide India e Cina
Wen e Singh d’accordo sugli affari. Ma l’agenda politica è bloccata di Antonio Picasso
A New Delhi manca solo un’ultima carta per dichiararsi superpotenza mondiale a tutti gli effetti. Per quanto sia una carta squisitamente formale, è proprio quella che ne attesta la qualifica. L’India non è membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. E la Cina la ostacola
MILANO. La concorrenza tra due superpotenze non si può risolvere sempre con una guerra. Una valida alternativa può essere quella di convertire l’antagonismo in una competizione economica, la quale può sfociare in partnership. L’esempio di Francia e Germania, a suo tempo, ha insegnato al resto del mondo che, nell’impossibilità di eliminarsi reciprocamente, tanto vale prendere un sentiero di crescita comune. È quanto sta accadendo oggi tra India e Cina, i due giganti asiatici temuti dall’Occidente e che, alle volte, sono stati interpretati come un monolite sullo scacchiere internazionale. Negli ultimi anni, si è parlato erroneamente di “Cindia”. Un termine coniato per indicare il percorso parallelo intrapreso dai due Paesi nella conquista dei mercati internazionali e per l’acquisizione di una maggiore influenza geopolitica. In questi giorni è in corso la visita ufficiale del premier cinese, Wen Jiabao, nella capitale indiana. Stando alla tipologia di accordi e alla loro corposità, si può effettivamente pensare che Cina e India siano due grandi alleati, entrambi proiettati nel Terzo millennio con una marcia in più rispetto agli altri Paesi. Wen è arrivato a Delhi con al seguito 400 imprenditori suoi connazionali. Si tratta della delegazione economica più folta tra tutte quelle che hanno visitato il subcontinente nel 2010.
Nell’arco di quest’anno, il premier indiano, Manmohan Singh, ha ricevuto il britannico Cameron e il francese Sarkozy. I due leader europei sono stati accompagnati rispettivamente da 40 e 60 rappresentanti di industrie loro connazionali. Successivamente, il presidente Usa, Barack Obama, è giunto con 215 delegati dell’imprenditoria d’oltre atlantico. Tutti businessman interessati a investire in India, oppure a firmare accordi di importazione da questo Paese. Nulla di paragonabile, però, con l’esercito cinese presente in questi giorni a Delhi. Wen non si recava in India ormai da cinque anni. Da allora i rapporti economici
fra i due Paesi si sono consolidati. Gli scambi tra le due economie, che registrano il più alto tasso di crescita al mondo, sono stati pari a 42 miliardi di dollari nel 2009 e dovrebbero raggiungere i 60 miliardi di dollari nell’anno fiscale in corso - in chiusura a marzo 2011 - con un’eccedenza di 20 miliardi di dollari a favore della Cina. Nella prospettiva del lungo periodo, Cina e India vorrebbero diventare le due superpotenze economiche incontrastate a livello mondiale. Tutto questo entro il 2050. Visti i numeri, non è escluso che il progetto riesca. I due Paesi, complessivamente, sono abitati da 1,2 miliardi di lavoratori. Una manodopera che costituisce quasi il 50% del mercato mondiale del lavoro. Peraltro, il semplice fatto che a New Delhi quest’anno siano sbarcati oltre 700 imprenditori stranieri - in accompagnamento alle visite ufficiali, quindi escludendo i viaggi d’affari privati - può suggerire come il contesto industriale indiano rappresenti attual-
mente il Klondike dell’economia globale. E in questa, la Cina - che fa da apripista per tutto ciò è innovazione - vi si trova perfettamente. Nello specifico degli accordi firmati in questi giorni tra Cina e India, si è arrivati a un volume di affari superiore ai 16 miliardi di dollari. Energia, telecomunicazioni, scambi marittimi e partnership nei più diversificati settori dell’estrazione. Questi i comparti interessati. L’India, inoltre, riceverà derrate di prodotti made in China utili per dare un’ulteriore accelerata alla sua economia. «Nel mondo c’è posto per entrambi», aveva detto lo stesso Wen alla fine di ottobre. Una dichiarazione, questa, volta a scacciare gli spauracchi occidentali di provocazione, orientati a soffiare sul fuoco delle rivalità sino-indiane. Da Washington a Londra, da Parigi a Tokyo magari includendo Berlino, Mosca e Roma - a nessuno giova un asse asiatico così forte e dinamico. Di conseguenza, l’idea di ravvivare gli attriti fra i due Paesi
appare un’arma utile per tutti. Per questo è plausibile che il leader cinese abbia cercato di sedare gli animi. Da una parte, ha sottolineato le buone relazioni in corso con Delhi. Dall’altra, ha svilito le speranze dell’Occidente di vedere i due Paesi nuovamente in contrasto.
Le parole di Wen, però, devono essere prese con le molle. Due colossi come Cina e India sono destinati a gareggiare fra loro. E in questo chi ha cercato di provocare ulteriori scintille ha colto nel segno. Il solo fatto che il governo di Pechino debba preoccuparsi di sfamare 1,3 miliardi di cittadini e che quello di New Delhi debba fare altrettanto per 1,1 miliardi di indiani fa pensare che le parole del primo ministro cinese siano conciliatorie, per quanto di facciata. Due Paesi come la Cina e l’India non possono che essere in competizione reciproca. Una loro alleanza, com’è quella attuale, è volta a contrastare gli avversari comuni. A questo proposito è inte-
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e di cronach
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
Appello del Papa per i cristiani perseguitati anche in Occidente DEL VATICANO. I cristiani sono sempre più perseguitati, rinnegati nei loro simboli, fatti segno di ostilità e intolleranza anche nel mondo occidentale: è il senso dell’appello lanciato da Benedetto XVI in occasione della Giornata mondiale della Pace (primo gennaio 2011) ma pubblicato ieri sul tema «Libertà religiosa, via per la pace». Con queste righe il pontefice chiede anche che le leggi non tollerino il fanatismo religioso o antireligioso e che invece le nazioni promuovano la libertà di fede e difendano le minoranze. Aggiungendo che la libertà religiosa è un’autentica arma di pace. «I cristiani - scrive il Pontefice - sono attualmente il gruppo religioso che soffre il maggior numero di persecuzioni a motivo della propria fede. Il fondamentalismo religioso e il laicismo sono forme speculari ed estreme di rifiuto del legittimo pluralismo e del principio di laicità». Oltre alle «persecuzioni, discriminazioni, atti di vio-
Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri
CITTÀ
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)
lenza e di intolleranza”, nel mondo esistono anche ”forme più sofisticate di ostilità contro la religione», che «nei Paesi occidentali si esprimono talvolta col rinnegamento della storia e dei simboli religiosi nei quali si rispecchiano l’identità e la cultura della maggioranza dei cittadini». «Tanti subiscono quotidianamente offese - continua il Papa - e vivono spesso nella paura a causa della loro ricerca della verità, della loro fede in Gesù Cristo».
Da sinistra, il premier cinese Wen Jiabao e il suo “collega” indiano Manmohan Singh. Il Dalai Lama
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato
ressante segnalare una nota di colore. Recentemente tra le due capitali asiatiche è stata installata una linea telefonica “rossa”, per un diretto collegamento Singh-Wen. Un canale di comunicazione preferenziale e riservatissimo simile a quello, originario della guerra fredda e che unisce Washington a Mosca. Cina e India alla stregua di Russia e Usa: avversari sì, ma sempre con il telefono a portata di mano. Detto questo, sul piano globale, i due Paesi sono visti come un tutt’uno. Più per paura, del resto, che per realismo dei fatti. Non è un caso che Delhi e Pechino si contendano la conquista delle risorse minerarie africane, delle ricchezze petrolifere in Medio Oriente e soprattutto la primazia del commercio mondiale di massa. Il manufatto indiano sta raggiungendo quello cinese, in termini di bassi costi di produzione e distribuzione tentacolare sui mercati occidentali. Certo, in questo caso la Cina è una potenza affermata.Tant’è che il saldo della bilancia commerciale fra i due, quest’anno, si chiuderà 20 miliardi di dollari in suo favore. Tuttavia, l’India ha dalla sua parte la grinta della nazione emergente - molto più veloce della macchina produttiva cinese - una forza lavoro di 467 milioni di persone e soprattutto l’alleanza con il Giappone. Quest’ultimo, storico competitor di Pechino, sta attraversando una fase di seria difficoltà economica e ha trovato nell’India un sostegno per la rinascita. Entrambi, quindi, si sono coalizzati per contrastare Pechino. Passiamo ai dossier aperti
New Delhi guarda con cauto favore la causa dell’indipendenza del Tibet proprio per tenere sotto scacco Pechino sul fronte diplomatico. Il Kashmir per l’India e il Tibet per la Cina sono due motivi di frizione. Il primo resta il punto debole per il governo Singh. Soprattutto quest’anno, che è stato testimone dei sanguinosi scontri a Srinagar e nelle altre città del Jammu-Kashmir.
Per Delhi, l’emancipazione di questo stato federale, abitato da una maggioranza musulmana che vede nel Pakistan (alleato della Cina) un punto di riferimento ideologico e politico, non è fonte di discussione. Del resto, a Pechino non può che tornare vantaggioso osservare come la potenza indiana si sia arenata sugli argini dell’Indo e non sappia, effettivamente, come risolvere il problema kashmiro. Speculare è la questione tibetana. Non è un caso che il Dalai Lama risieda in esilio in India. New Delhi guarda con cauto favore la causa dell’indipendenza del Tibet pro-
prio per tenere sotto scacco Pechino. Si tratta di una guerra di manovre, connotata unicamente da tatticismi e che trova origine negli accadimenti di cinquant’anni fa. Nel 1962, Cina e India si sono fronteggiate in uno dei conflitti più ad alta quota della storia. Motivo dello scontro: il controllo delle regioni di Aksai Chin e Arunachal Pradesh, a sud del Tibet. Il cessate il fuoco firmato il 21 novembre dello stesso anno aveva decretato sul campo la vittoria cinese.
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De facto, il contenzioso è rimasto aperto. Da allora, nessuna delle due potenze ha ipotizzato di riprendere in mano la questione. Proprio perché, quando due Paesi diventano così forti, come lo sono oggi la Cina e l’India, è meglio evitare lo scontro armato. Infine c’è un ultimo punto, in cui però la Cina parte avvantaggiata. A New Delhi manca solo un’ultima carta per dichiararsi superpotenza mondiale a tutti gli effetti. Per quanto sia una carta squisitamente formale, è proprio quella che ne attesta la qualifica. L’India non è membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. È una potenza nucleare. È una forza demografica ed economica senza paragoni. Meglio ancora: è la democrazia più grande del mondo. Tutto questo, però, non ha alcun peso, di fronte all’ambasciatore cinese che rappresenta il suo governo al Palazzo di vetro di New York. Lì, per confutare Wen Jiabao, è difficile che l’India trovi un suo spazio. Uno spazio che proprio la Cina tende a non lasciare scoperto.
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spettacoli
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Al cinema. Fa discutere (e riflettere) il film di Liman “Fair Game” sulla guerra in Iraq sotto la presidenza di George W. Bush
La Casa Bianca e l’uomo nero
di Anna Camaiti Hostert A fianco, un soldato americano in Iraq. Qui sotto, la locandina del film “Fair Game”, che racconta particolari inquietanti sul conflitto Usa-Iraq sotto la presidenza di George W. Bush. In basso, il regista della pellicola Doug Liman
air Game è il titolo dell’ultimo film di Doug Liman (The Bourne Identity e Mr. and Mrs. Smith). Tratto dalla sceneggiatura dei fratelli Jez e JohnHenry Butterworth, questo thriller politico racconta la storia vera di una coppia, Valerie Plame Wilson e Joseph Wilson, interpretata in modo magistrale rispettivamente da Naomi Watts e Sean Penn. Basato sui memoriali e sulla cooperazione dei due coniugi Wilson, il film Fair Game, il cui titolo si riferisce a un’espressione idiomatica che significa «legalmente perseguitato», rivela particolari inquietanti sulla guerra in Iraq sotto la presidenza di George W. Bush.
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Nel 2002, dopo una delicata missione a Kuala Lampur riguardante la non proliferazione di armi nucleari, Valerie Plame, un’agente della Cia sotto copertura, fa ritorno a casa dove l’attende il marito che, con alle spalle una brillante carriera diplomatica, adesso si occupa dei figli e ha appena iniziato un’attività di free lance. Immediatamente dal suo ufficio la donna apprende che ora si dovrà occupare delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein in Iraq. Gli ordini vengono «dall’altra parte del fiume», cioè dalla Casa Bianca, situata appunto sulla riva opposta del Potomac rispetto agli edifici della Cia. La donna comprende subito che questa operazione può essere essenziale ai fini della sua carriera e degli interessi del paese e si mette immediatamente al lavoro. Alle dipendenze di Karl Rove e dunque del vicepresidente Dick Cheney, Lewis (Scooter) Libby, interpretato da un tagliente David Andrews i cui agenti improvvisamente cominciano a sciamare negli uffici della famosa organizzazione di spionaggio, sovrintenderà all’operazione. Il tutto dovrà essere concluso al più presto. E qui cominciano i guai per la coppia. Infatti su richiesta della Cia e con l’approvazione della moglie, un particolare che si rivelerà in seguito fatale, Joseph Wilson si reca in Niger, di cui conosce bene la geografia politica e il personale diplomatico, per verificare se quel paese è in procinto di vendere uranio (la famosa yellow cake) a Saddam Hussein e non riesce a trovare alcuna prova di un traffico del genere. Perciò, quando Bush in una delle sue comunicazioni ufficiali afferma che l’Iraq ha invece ormai com-
piuto il suo acquisto di materiali nucleari in Africa e dunque rappresenta un tangibile pericolo che deve essere assolutamente fermato, Wilson, comprendendo che indirettamente si riferisce al Niger, in un editoriale del 6 luglio 2003 sul New York Times intitolato “What I Did not Find in Africa”, cerca di rettificare i fatti contraddicendo il presidente. Questo ovviamente scatena una rabbiosa reazione da parte della Casa Bianca e in particolare del vice-
privato sia sul piano professionale, mettendo in pericolo le loro vite e quelle di coloro a cui la donna aveva garantito sicurezza in cambio della loro collaborazione. Per quanto riguarda Joseph Wilson, il regista ricorda agli spettatori che il gesto dell’ex diplomatico non era motivato da alcuna simpatia per Saddam Hussein nei confronti del quale aveva espresso forti critiche in precedenza. Alla reazione della Casa Bianca nei confronti della moglie, Wil-
legale, un Fair Game, nei confronti della coppia. Il film funziona, oltreché per le superbe performance dei due attori, per il fatto che Liman, senza effetti speciali o azioni spericolate, attraverso uno stile fluido e scorrevole riesce a bilanciare il dramma privato con i fatti storici che, come si sa, hanno avuto una rilevanza determinante nel
La pellicola funziona, oltre che per le performance degli attori, per il fatto che Liman, senza effetti speciali, riesce a bilanciare il dramma privato con i fatti storici che, come si sa, hanno avuto una certa rilevanza determinante nel conflitto presidente Cheney che, tramite Libby, fa trapelare attraverso un articolo sul Washington Post che la moglie è un’agente della Cia sotto copertura. Questo chiaramente getta la coppia in un tourbillon di eventi che ne sconvolgono l’equilibrio sia nel
son risponde pertanto con una campagna per esporre i colpevoli e difendere la reputazione di ambedue contro il massacro perpetrato nei loro confronti. La Casa Bianca mette in atto tutto il suo potere e comincia quella che è una persecuzione
conflitto iracheno. Il rapporto di coppia che ne emerge è basato su un’alchimia delicata e complessa che descrive Plame come una donna in possesso di un autocontrollo assolutamente rimarchevole, mentre il marito, forse un po’ frustrato per avere lasciato una brillante carriera diplomatica, soffre l’assenza di una moglie che è continuamente in giro senza che nessuno sappia mai dove si trovi realmente. Il tratto fondamentale che accomuna i due coniugi è tuttavia il rispetto della verità e una spassionata analisi empirica dei fatti, che si scontrano però con i progetti di una Casa Bianca decisa a tutti i costi a presentare una realtà diversa. I cosiddetti “burocrati” della Cia incaricati di interpretare questa realtà vengono battuti dai politici la cui missione dichiarata sembra
quella di crearsi una verità su misura. Valerie, che ne è la vittima, fa così buon viso a cattivo gioco e ingoia la pillola. Il marito invece non ci sta e reagisce provocando una catastrofe e una frizione nel rapporto di coppia. La crisi del matrimonio viene descritta dal regista in maniera delicata e non troppo drammatica proprio per non togliere pathos alla gravità del fatto in se stesso.
Un po’ come nel documentario Inside Job di Charlie Ferguson, Fair Game finisce con una nota idealistica che fa tuttavia trasparire un’insoddisfazione generale rispetto agli eventi. Infatti, seppure i due si riconciliano e decidono di intentare una causa contro Libby, che viene condannato, rimane il fatto che gli alti ranghi della Casa Bianca e in particolare il vicepresidente Dick Cheney, principale responsabile delle azioni di Libby, ne escono indenni. Qualcosa su cui riflettere, specie dopo l’uscita del memoir di George W. Bush.
ULTIMAPAGINA
Nata dal progetto di cooperazione italo-russo, l’imbarcazione trasporterà scorie radioattive e resti di sottomarini
Salpa Rossita, la nave di Francesco Lo Dico lla presenza del ministro allo Sviluppo Economico, Paolo Romani, e del suo omologo russo, Viktor Khristenko, è stata varata ieri presso il cantiere spezzino del Muggiano di Fincantieri la nave Rossita. Concepita per il trasporto di combustibile irraggiato e rifiuti radioattivi derivanti dallo smantellmento di sommergibili nucleari russi, la realizzazione dell’unità di trasporto era stata avviata nel 2008 in seguito alla stipula di un contratto da settanta milioni di euro erogati dal nostro dicastero allo Sviluppo. Ma la consegna dell’imbarcazione battezzata ieri nel Mar Ligure, è parte di un accordo da 360 milioni di euro suggellato il 5 novembre del 2003 nell’ambito di una Global Partnership ratificata dal nostro Parlamento nel luglio 2005. Frutto di un progetto fortemente innovativo sviluppato da Fincantieri, Rossita è lunga ottantaquattro metri, larga quattordici, ha una capacità di carico di 640 tonnellate e potrà viaggiare alla velocità continuativa di 12 nodi con un equipaggio di ventitrè persone. E la sua importanza è legata ai sempre più cogenti standard internazionali previsti per il trasporto di contenitori per combustibile nucleare esaurito e rifiuti radioattivi. Una nave dei veleni, insomma. Ma in regola, e rispondente alle norme di sicurezza decisamente più severe, varate per contrastare quello che per i mari di tutti i continenti, è stato un autentico anno nero.
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La neonata Rossita si distingue però anche per l’originale missione per la quale è stata concepita. Nella sua stiva non viaggeranno infatti solo le anonime scorie radioattive inumate in mezzo mondo, ma anche le malinconiche spoglie di alcuni sottomarini nucleari dismessi a suo tempo dalla marina russa dopo anni di onorato servizio. Ne sono già stati smantellati quattro, ma un quinto aspetta l’ordine di demolizione a giorni. Due in più rispetto alle stime di
partenza, grazie a una gestione dei costi oculata condotta alla pari da Russa e Italia. Di fronte a questi relitti giganteschi, spiaggiati negli hangar come balene fredde e colossali, il tuffo nella memoria è inevitabile. Accompagnato da una serie di sussulti da thriller e dall’enigma di avvincenti spy-story. Di questi antichi sottomarini, partoriti alla fine degli anni Cinquanta in competizione con gli Stati Uniti, si dice che se ne contino oggi almeno un
ma anche eroismo, nella scia tracciata dal funesto K lungo la storia truce della guerra fredda. Trent’anni di sciagure e di sacrifici su cui oggi spira un epos melvilliano. Cimenti indimenticati come quello di alcuni uomini dell’equipaggio che nel luglio del 1961 si immolarono alle radiazioni per fermare un’avaria che avrebbe portato alla morte tutti i passeggeri del sottomarino maledetto. Forse ispirato dalla brezza immaginifica che ieri soffiava su
dei RIFIUTI Nella sua stiva non viaggeranno solo le anonime scorie inumate in mezzo mondo, ma anche le malinconiche spoglie di alcuni sommergibili nucleari dismessi a suo tempo dalla marina russa dopo anni di onorato servizio centinaio dispersi chissà dove. E su tutti soffia l’aura sinistra, sospinta in molti casi dal vento hollywoodiano, del K-19. Fu il primo sottomarino russo equipaggiato con missili balistici. Fu varato prima del tempo necessario per ragioni di prestigio. E regalò a molte mogli una precoce vedovanza. Mestizia, megalomania,
La Spezia, Paolo Romani si è segnalato ieri sul molo ligure per una dichiarazione altrettanto evocativa. All’indomani dell’ennesimo suicidio che ha funestato il penitenziario di Sollicciano, il ministro dello Sviluppo ha avanzato un’ipotesi risolutiva: «Quello delle carceri galleggianti, io l’ho trovato sul tavolo come problema e come una possibilità. Ne ho parlato con il ministro della Giustizia, ma è un problema ancora da approfondire perché se quello delle carceri galleggianti puo’ risolvere i problemi di un sito produttivo, ci sono poi delle altre questioni che emergono». Di nuovo il mito che si profila nel lungomare della realtà. Galeotti sferzati mentre infuria la bufera, i capelli irsuti smossi dal vento, i remi impugnati tra le nocche allo spasimo, gli insulti tremebondi del capitano dall’occhio sfregiato: «Traite, fili de le pute!». Quando si dice un’idea controrivoluzionaria, una scoria di inarrivabile creatività. È il caso che Rossita prenda servizio in anticipo.