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ISSN 1827-8817 01223

he di c a n o r c

Le parole possono distruggere,

ma quando sono sincere e gentili possono cambiare il mondo Siddharta Gautama

9 771827 881004

di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 23 DICEMBRE 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

DODICI PAGINE SPECIALI

Il bilancio di un anno decisivo per l’Udc e le prospettive del Polo della Nazione

Il Centro del futuro Un’intervista a Pier Ferdinando Casini e interventi di Adornato, Binetti, Buttiglione, Carra, Cesa, D’Alia, De Poli, D’Onofrio, Galletti, Pezzotta da pagina 7 a pagina 18

A Milano e a Palermo tafferugli e lanci di uova. Ma stavolta a Roma la manifestazione è stata pacifica e più «scenografica»

Solo Napolitano dialoga Giornata di cortei senza scontri.Alla fine il Quirinale riceve una delegazione di ragazzi E in Senato continua la corsa contro il tempo per approvare la legge evitando altri errori LA POLITICA MUTA

di Francesco Lo Dico

Sia i poliziotti che gli studenti sono stati lasciati soli

ROMA. Nessuna guerriglia, tanta ironia e, soprattutto, il Quirinale in ascolto. Questo è il bilancio della giornata di protesta degli studenti. A parte qualche tafferuglio per fortuna lieve prima a Milano e poi a Palermo, la giornata si è conclusa nel pomeriggio con una delegazione di universitari ricevuti dal presidente Napolitano. a pagina 2

di Achille Serra olo il 24 novembre, il Senato è stato assediato da studenti in preda alla rabbia. Dopo poche settimane abbiamo assistito a nuovi scontri, molto più che tafferugli: decine di feriti e di fermati, assalti alle Forze dell’Ordine, zone rosse che hanno inasprito gli animi e soprattutto veri professionisti della violenza in azione. Ieri gli studenti hanno manifestato ancora e la loro linea è stata allontanarsi dai palazzi di una politica sorda alla loro protesta. Una scelta responsabile a fronte degli incoscienti appelli di alcuni o dell’indecorosa bagarre inscenata al Senato. a pagina 2

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Parla l’economista Luigi Paganetto

Continua il dibattito sulla protesta

«Modello inglese: ecco la vera riforma»

se1,00 gue a (10,00 pagina 9CON EURO

I QUADERNI)

• ANNO XV •

La Prestigiacomo lascia il Pdl. La Lega muove contro Fini di Francesco Pacifico

ROMA. Da un lato ci sono le incomprensio-

Le due facce del movimento

«Questo testo fotografa Francesco Perfetti: «Tutte la realtà esistente. strumentalizzazioni». E invece bisognerebbe «No, senza risorse, questi mettere gli atenei in giovani non hanno futuro» concorrenza fra di loro» risponde Asor Rosa Franco Insardà • pagina 5

Il ministro isolato in Aula e il Carroccio chiede un dibattito sul presidente

ni con il suo partito. Ampliate anche dalla vicinanza a Gianfranco Micciché. Dall’altro, la paura di vedere una crepa nel “Sistri”, il sistema di tracciabilità dei rifiuti speciali che tante critiche ha ricevuto dalle imprese. Così Stefania Prestigiacomo non ci ha pensato un attimo a far saltare il tavolo, ad abbandonare il Pdl. Maggioranza scatenata anche contro Fini: la Lega ha chiesto ufficialmente un dibattito in Aula per discutere della posizione del presidente della Camera, ovviamente puntano a una delegittimazione e alle dimissioni. Il Pdl, naturalmente, ha applaudito. a pagina 6

Riccardo Paradisi • pagina 4 NUMERO

249 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


l’editoriale

prima pagina

La politica muta davanti a manifestazioni e scontri

pagina 2 • 23 dicembre 2010

Poliziotti e studenti lasciati soli di Achille Serra olo il 24 novembre scorso il Senato è stato assediato da studenti in preda alla rabbia. Grazie alle Forze dell’Ordine si è evitato un bilancio ben peggiore rispetto alla già grave conta dei feriti cui ci ha costretto la piazza in protesta. Dopo poche settimane abbiamo assistito a nuovi scontri, molto più che tafferugli: decine di feriti e di fermati, assalti alle Forze dell’Ordine, zone rosse che hanno inasprito gli animi e soprattutto veri professionisti della violenza in azione. Ieri gli studenti hanno manifestato ancora e la loro linea è stata allontanarsi dai palazzi di una politica sorda alla loro protesta. Una scelta responsabile a fronte degli incoscienti appelli di alcuni parlamentari o dell’indecorosa bagarre inscenata nella stessa Aula del Senato, che non ha evitato però nuovi scontri in alcune città.

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Condannare le violenze è doveroso ma il malessere che la piazza esprime può per questo essere ignorato? Occorre, a mio avviso, abbassare i toni ma evitare allo stesso tempo quell’ingenuità politica che preferisce sminuire gli eventi piuttosto che comprendere le cause e parlarne. Eppure il silenzio regna sovrano. Le Forze dell’Ordine stanno svolgendo un lavoro straordinario ma non si può pensare, attraverso queste, di chiudere le porte al disagio studentesco, considerando i giovani alternativamente dei teppisti o degli scansafatiche e addossando a polizia e carabinieri il compito di placare la loro voce. Quando si organizzò il Social Forum di Firenze del 2002 era ancora vivo il ricordo dei “fatti di Genova”e le tensioni post-G8 erano altissime. Allora si parlò per giorni con i manifestanti e si cercarono soluzioni per scongiurare la guerriglia. La gestione delle proteste di oggi è stata affidata invece alla foga del momento, lasciando alla prontezza degli agenti il compito di evitare il peggio. Non sono però carabinieri e polizia a dover gestire il malcontento. Non basta schierare le Forze dell’Ordine e organizzare zone rosse per far dimenticare il malessere a quegli studenti che si sentono defraudati del loro futuro, in balia di un lavoro precario o che vedono i loro studi cancellati da un impiego che non c’è. La risposta non può essere ”state a casa a studiare, non andate a manifestare”, o ancora “evitate i cortei”perché là si “nascondono degli assassini”. La politica non può arrivare a ipotizzare infiltrati nelle Forze dell’Ordine invece di riflettere sulle proprie mancanze. Sono tutte risposte cieche, che fanno appello alla paura e acuiscono i toni. Inutili soluzioni, che nulla hanno a che fare con l’animo di una democrazia fondata sul dialogo. Un dialogo finora negato e richiamato più volte dallo stesso Capo dello Stato che continua a sottolineare come i cortei siano la ”spia di un malessere che non va ignorato”. Non ci si nasconda poi dietro la presunta ignoranza di giovani disaffezionati alla politica: la maggior parte di loro conosce la riforma e sa per cosa manifesta. Finché non si metteranno da parte questi alibi non ci si renderà conto che è la carenza della politica a provocare le zone rosse. D’altra parte, è difficile riuscire ad ascoltare le richieste dei giovani se manca il dialogo nelle stesse Aule del Parlamento. Quarant’anni fa la strada della sottovalutazione ha portato il nostro Paese a vivere uno dei periodi più bui della sua storia. Quegli anni di sangue vennero preceduti da movimenti operai e studenteschi che protestarono insieme. Di fronte a quegli studenti e operai c’erano allora uomini e donne in divisa, uomini e donne come loro, protagonisti di una protesta fragorosa. Nello stesso silenzio di oggi.

l’incontro A Roma i ragazzi lontano dal centro, qualche tafferuglio a Palermo e Milano

A lezione da Napolitano

Dopo una giornata di proteste in tutta Italia (senza gli scontri della scorsa settimana), il Quirinale apre le porte a una delegazione di studenti che gli chiedono: «Non firmi» di Francesco Lo Dico

ROMA. Nessuna guerriglia, tanta ironia, e un simpatico paradosso. È questo il bilancio della seconda ondata di cortei di protesta montata ieri nelle piazze italiane contro la riforma Gelmini. Partiamo dal paradosso, l’unica vera notizia di giornata. Nonostante il massiccio schieramento di forze dell’Ordine e camionette della Polizia che presidiavano fin dall’alba i varchi d’accesso per il Centro, la zona rossa è stata violata senza alcuna difficoltà da alcuni studenti evidentemente dotati di pass speciali: i «Giovani del Pdl» hanno infatti superato agevolmente l’area di massima sicurezza disposta nella Capitale, per dar vita a un flash-mob non troppo sovversivo. I pidiellini di «Officina Futura» sono scivolati paciosi fino all’angolo con il Senato, per dire «sì alla riforma Gelmini» e «no all’università dei Baroni». Gli altri ventimila studenti organizzati in corteo, quelli percepiti come facinorosi dopo le manifestazioni del 14 dicembre, hanno invece girato al largo dalla zona rossa, senz’alcuna intenzione di valicarla nonostante il clima conciliante che si respirava ai varchi d’accesso. Rinunciato al cosiddetto “triangolo del potere”, Camera-Senato-Palazzo Chigi, gli universitari hanno marciato nella zona est della Capitale, lungo un percorso che dalla università La Sapienza li ha condotti su viale Regina Elena, scalo San Lorenzo, Pigneto, Porta Maggiore, Casilino e via Prenestina. Come da intenzioni dichiarate alla vigilia, le cronache devono registrare stavolta il grande spazio destinato alla fantasia, e la decisa solidarietà incassata dai giovani al

passaggio nei quartieri periferici, dove famiglie comuni e lavoratori li hanno applauditi e sostenuti. «Noi soli nella zona rossa voi liberi per la città», titolava lo striscione posto a capo del corteo. Che anche in questo caso, era accompagnato dai book-bloc, scudi di gomma intestati a molti classici della letteratura. Nelle mani degli studenti anche alcuni pacchi dono simbolici consegnati nel luoghi simbolo del potere. Dal Policlinico Umberto I, in polemica con la Parentopoli alla Sapienza, all’Atac, in polemica con le assunzioni facili della giunta Alemanno («Ha attaccato le manifestazioni per far dimenticare lo scandalo in cui è coinvolto», commentano gli studenti»). Pacco natalizio anche alla Cgil, invitata a prendere parte al corteo. L’unico fuori programma del corteo è stato rappresentato dall’occupazione della Tangenziale Est e di un tratto del raccordo della A24 RomaL’Aquila, conclusasi intorno alle 14.40, non senza aver prodotto qualche ingorgo. Alla riuscita pacifica della manifestazione, ha senz’altro contribuito la disponibilità giunta dal Quirinale nel pomeriggio. «Caro Presidente – aveva scritto l’Unione degli Studenti all’indirizzo di Napolitano – ancora una volta in tutta Italia gli studenti universitari e medi stanno manifestando contro l’approvazione del ddl Gelmini al Senato. Da anni chiediamo che l’università cambi, siamo i primi che denunciamo che l’università che viviamo non funziona. La riforma proposta dal Ministro Gelmini a nostro avviso non risolve nessuno dei problemi che noi poniamo, anzi li aumenta con tagli indiscriminati e la cancellazione del diritto allo studio. Se porrà la Sua firma alla legge Gelmini Lei sancirà


il fatto

Corsa contro il tempo al Senato Dopo il pasticcio, votazioni a oltranza per salvare la riforma. Con il rischio di nuovi errori di Marco Palombi lla fine la maggioranza e il ministro non ce l’hanno fatta: il ddl Gelmini che vorrebbe riformare l’università non è stato approvato ieri, gli toccherà stare ancora un giorno sulla graticola tra le proteste degli studenti e le manovre dilatorie di Pd e Idv. Il testo, in ogni caso, dovrebbe diventare legge dello Stato oggi, dando per scontato che il presidente della Repubblica lo promulgherà nonostante le richieste (improprie) del movimento studentesco. La faccenda si è messa male fin da ieri mattina – se ovviamente si vuole evitare di ricordare il momento di confusione, diciamo, della vicepresidente Rosi Mauro martedì pomeriggio – quando i senatori di Partito democratico e Italia dei Valori hanno cominciato a perdere tempo sfruttando ogni piega del regolamento, a partire dalle richieste di voto elettronico a quella di verifica del numero legale.

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All’inizio dei lavori, infatti, intorno alle 10.30, quando mancavano alla linea del traguardo poco meno di venti articoli della legge e il voto su qualche centinaio di emendamenti, è cominciata a succedere una cosa strana: prima i gruppi facevano la loro dichiarazione di voto, poi cominciavano a chiedere la parola - come previsto proprio dal regolamento - singoli senatori di opposizione per esprimere il proprio voto in dissenso rispetto al gruppo (annunciando, cioè, l’astensione). Risultato: decine di interventi ciascuno da 1 o 2 minuti. Sullo scranno della presidenza stavolta, fortunatamente, era assi-

so tranquillo il vicepresidente Domenico Nania, avvocato siciliano di lungo corso aduso a cavilli e tecniche dilatorie, ma fra i banchi della maggioranza cominciava a serpeggiare nervosismo. Il presidente del Senato, Renato Schifani, ha provato a metterci una pezza convocando una riunione dei capigruppo. Niente da fare: le opposizioni continuano a sostenere, come martedì quando l’ex sindacalista padana perse la calma, che il ddl Gelmini è inapplicabile visto

I senatori del Pd prendono la parola per annunciare un voto diverso dal Partito (l’astensione). E il tempo passa veloce che c’è contraddizione formale e sostanziale tra gli articoli 6 e 29. «La maggioranza si impegni a cancellare la norma che rende il testo incomprensibile e inefficace ha spiegato Anna Finocchiaro - e i lavori andranno regolarmente a buon fine. Questo significa che il testo dovrebbe tornare alla Camera, ma nessuno nella maggioranza vuole un’altra lettura anche se non si capisce perché». Il fatto in sé, la contraddizione, non è negata da nessuno, neanche dal governo: la ministro Gelmini ha fatto sapere che verrà corretta, non appena approvata la legge, con un emendamento al decreto milleproroghe approvato ieri dal governo. Quanto al perché non si voglia tornare alla Camera, in realtà, il motivo è

meno misterioso di quanto sembri credere la presidente dei senatori del Pd: a Montecitorio non c’è più una maggioranza e il provvedimento andrebbe ricontrattato con le forze del cosiddetto Terzo Polo (che non stanno facendo ostruzionismo) per poi tornare ancora a palazzo Madama. La scelta di PdL e Lega, dunque, è stata quella di procedere a oltranza, dalle 16 e fino a notte inoltrata se necessario.

Minaccia andata a vuoto, pare: se l’obiettivo era scoraggiare i senatori democratici e dipietristi, non è andata a buon fine. Alla ripresa dei lavori nel pomeriggio, infatti, quei testardi hanno escogitato anche un nuovo modo per far perdere la pazienza alla maggioranza: si sono messi a contestare il cosiddetto “processo verbale” della seduta di martedì. Dicesi “ processo verbale” il resoconto schematico della seduta precedente, letto dal presidente all’inizio della successiva: una roba che viene approvata praticamente in automatico. Solo che stavolta si tratta della seduta in cui Rosi Mauro ha dato per approvati quattro emendamenti dell’opposizione e la cosa, secondo Pd e Idv, non è riportata chiaramente. Protesta per primo Massimo Legnini e Schifani gli dà subito ragione: «Condivido le vostre osservazioni: aderisco alla richiesta di maggiore analiticità e trasparenza». Macchè. I venti interventi successivi sono dedicati al

la cancellazione del Diritto allo Studio», recitava la lettera studentesca indirizzata al presidente della Repubblica. E il capo dello Stato, non ha tardato ad accogliere l’appello. Alle 17 il capo dello Stato ha accolto gli undici delegati degli studenti. «Gli chiederemo se questa legge è consona alla nostra costituzione – hanno fatto sapere all’ingresso – ma potremo essere più precisi dopo il colloquio».

Ma il cambio di programma è stato accelerato anche dalla notizia della morte di un operaio maghrebino, rimasto ucciso ieri nel corso della ristrutturazione della facoltà di Scienze politiche della Sapienza. Ma anche nell’ateneo romano è andata in scena

processo verbale per complessivi 48 minuti: alla fine vengono accolte tutte le eccezioni tranne una (Luigi Zanda aveva da dire sul posizionamento dei punti di sospensione). Punto e a capo e nuova capigruppo. Si vedrà se e quando PdL e Lega riusciranno a portare a casa il pannicello caldo del ddl Gelmini. Intanto sono già slittati a gennaio due provvedimenti in calendario questa settimana: la ratifica di un Protocollo internazionale e il ddl sugli incentivi fiscali per il rientro dei lavoratori in Italia (primo firmatario Enrico Letta del Pd).

l’insegna della pace, in un tripudio di mani ben in vista: dipinte di bianco in segno di concordia. A concludere il blitz, alcuni studenti hanno gettato coloranti rossi nelle acque del celebre Fontanone. Goliardia, ma anche qualche incidente da registrare, nelle altre piazze italiane. Da Torino, dove gli universitari hanno sfilato vestiti da garibaldini e hanno bloccato per qualche minuto l’ingresso di una libreria Mondadori, a Palermo, dove si sono verificati lanci d’uova e di arance, e numerosi scontri con le forze dell’ordine costellati da manganellate davanti al palazzo della Regione. A Milano trecento manifestanti hanno bloccato per diversi minuti piazza del Tricolore, mandando in tilt il traffico lungo viale Bianca Maria e scatenando le ire degli automobilisti bloccati in lunghe code. Blitz a Pisa, dove nella piazza antistante il Comune dottorandi e ricercatori precari hanno issato una corda sul balcone di un edificio pubblico alla quale uno di loro si è sospeso in segno di protesta contro il precariato.Circa mille studenti in corteo anche a Napoli, dove i giovani hanno marciato accompagnati da numerosi disoccupati: anche in questo caso lanci d’uova e qualche fumogeno scagliato nei pressi del palazzo della Provincia. A L’Aquila una rappresentativa studentesca ha sfilato contro “l’aziendalizzazione dell’università”, mentre ad Ancona alcuni giovani hanno occupato l’aula consiliare improvvisandovi uno strip-tease. A dire che l’Italia della Gelmini, ha lasciato i giovani in mutande.

Undici studenti accolti nel pomeriggio dal capo dello Stato: «Se porrà la sua firma alla legge Gelmini, sancirà la cancellazione del diritto allo studio» una girandola di iniziative goliardiche: cappelli da Babbo Natale, maschere ispirate al film V per Vendetta, coreografie e waka waka ispirate alla Gelmini e coppie recanti i cartelli di “Padre”e “Figlia”in risposta al paterno invito rivolto ai genitori dal ministro Gasparri affinché i figli non scendessero in piazza perché a rischio di morte. In piazza anche gli studenti dei licei romani, che a partire da piazza Trilussa hanno puntato verso viale Trastevere senza accostarsi però al ministero della Pubblica istruzione. Approdato al Gianicolo, il corteo ha levato canti e cori al-


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l’approfondimento

Dal rapporto con il passato all’assenza di prospettive certe per il domani: continua il dibattito sui «ragazzi senza casco»

Pro e contro il movimento Destra e sinistra ancora a confronto sulla protesta giovanile Francesco Perfetti: «È solo faziosità politica». «No, perché senza risorse, questi giovani vedono compresse le loro prospettive di futuro» risponde Alberto Asor Rosa di Riccardo Paradisi ual è l’analisi sulle contestazioni studentesche di Francesco Perfetti, storico della Sapienza di Roma ed editorialista di area liberale? «Intanto la prima osservazione che va fatta è che siamo in una fase diversa rispetto alla contestazione studentesca della fine degli anni Sessanta. Quella partì da un’esigenza reale anche se nelle forme poi ha dirottato verso un’altra direzione. Insomma lì si protestava contro un’università di elite anacronistica rispetto alle esigenze di una società di massa che premeva verso l’acculturazione. Quindi quella protesta aveva una sua valenza reale, una leva concreta, comprensibile: università costruite per 5mila persone che dovevano accoglierne per 50 mila. L’università che si trovano di fronte oggi i giovani è molto cambiata rispetto a quella, è un’università che offre addirittura un eccesso di possibilità di accesso alle facoltà, una moltiplicazione incontrollata dei corsi di studio». L’impressione di Perfetti è che la

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massa studentesca o chi la manovra si muova su binari vaghi, lungo un vettore di strumentalizzazione a cui la politica imprime un’accelerazione formidabile. «A monte di tutto questo c’è mi sembra la strumentalizzazione politica di un disagio vagamente generazionale».

Si certo, si protesta contro la riforma universitaria del ministro Gelmini «ma in molte occasioni si dà la chiara impressione di non capire bene i termini di questa riforma che va incontro a ineliminabili principi meritocratici di razionalizzazione, di limitazione dello strapotere delle baronie universitarie, di riduzione della proliferazione irrazionale e incontrollata delle facoltà, che mette in mano agli studenti uno strumento importante come la possibilità di valutare i docenti». Gli studenti contestano anche il taglio delle borse di studio. «Ma in questo caso si

tratta di un problema di costi e di ricostruzione della funzione universitaria finora poggiata su logiche corporative. Si tratta di un’operazione di modernizzazione inevitabile della dimensione organizzativa della struttura con ingressi del settore privato. Ma non credo siano questi i temi di fondo in cui si muove la contestazione come si diceva. Mi sembra che il terreno in cui si muove la contestazione è quellopregiudiziale, ideologico e politica alla riforma». «È chiaro che su questo si

sta innestando un discorso di sfruttamento politico della situazione, che riguarda la politicizzazione della nostra società, la ricerca di capri espiatori che diventano obiettivo di sfogo di un disagio esistenziale giovanile verso un futuro che non risponde più alle aspettative progressive generate dai decenni passati. Insomma è evidente che esiste, c’è un problema di fondo che è quello delle attese tradite ma è assurdo e irrazionale che questo disagio elegga come valvola di sfogo Berlu-

Le violenze ci sono ma sono marginali rispetto al grosso del movimento

sconi e non per esempio quegli elementi della generazione degli anni Sessanta divenuta classe dirigente e responsabile delle politiche di questi decenni, soprattutto non facendo nulla per modificare la situazione, salvo cavalcare strumentalmente le proteste». Ma l’instabilità sul futuro non riguarda solo i giovani, nota infine Perfetti: «Riguarda tutti. Riguarda anche i lavoratori di oggi che avranno una pensione drammaticamente decurtata rispetto a quella delle generazioni che stanno andando in pensione in questi anni. C’è un cambiamento radicale nella società italiana e più in generale in quella occidentale, una mutazione delle forme e della natura del welfare. Le energie che vengono impiegate nelle proteste irrazionali dovrebbero essere impegnate in un’analisi seria della situazione. Invece è difficile fare un ragionamento in questo clima, dove


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Il nodo è lasciare agli istituti la possibilità di inventare modelli formativi autonomi

«Atenei modello anglosassone: questa sarebbe la vera riforma» «La legge Gelmini lascia le cose come stanno. Mentre si dovrebbero mettere in competizione le università»: la ricetta di Luigi Paganetto di Franco Insardà

ROMA. Da liberale Luigi Paganetto, professore di Economia internazionale all’università di Tor Vergata e presidente della Fondazione di economia dello stesso ateneo, si affiderebbe al mercato per salvare l’università italiana. Professor Paganetto, che cosa va bene nella riforma Gelmini? Sono da condividere gli obiettivi e in particolare l’idea di merito e di autonomia accompagnata da responsabilità e allo stesso tempo l’obiettivo dell’aumento della produttività scientifica e dell’internazionalizzazione dell’università. Parliamo di aspetti importanti. Su questi punti c’è molto da fare ed è giusto intervenire. Il problema vero è come realizzarli. Appunto. Credo che raggiungere, o cercare di raggiungere, questi obiettivi attraverso un sistema di controlli e di valutazione centralizzata e con le tante procedure burocratiche che sono previste dalla legge in approvazione non è la strada migliore per riformare l’università. Che cosa bisognerebbe fare? Da tempo sostengo che per ottenere un vero cambiamento, in relazione anche a quella che è la mia esperienza, occorre partire dall’idea che l’università non può essere una realtà uniforme, come il disegno di legge Gelmini tende a delineare.Vanno, invece, incoraggiate le differenze, tenendo presente le eccellenze, accanto a quelle che non lo sono. Come è possibile, secondo lei, raggiungere questo obiettivo? Non basta attribuire incentivi del sette per cento ai finanziamenti per differenziare i migliori dai peggiori. Anche perché all’interno delle università ci sono realtà molto diverse. Credo, invece, che bisogna passare dalla logica dell’offerta, che prevale anche nel disegno di legge Gelmini, a quella della domanda. Domanda? In un Paese come l’Italia? Dobbiamo adeguarci ai modelli europei e statunitensi. Occorre dare spazio agli utenti a cominciare dagli studenti, che dovrebbero scegliere le università alle quali iscriversi, in base alle valutazioni di merito e non secondo criteri meramente territoriali. Questo aspetto è una delle condizioni per definire il successo o l’insuccesso di una università o di una facoltà. Ma in questo modo si creerebbero delle differenze. Me lo auguro, perché non sarebbe una cosa negativa. L’offerta di una università

può essere ben compatibile con quella di un’altra, nel senso che non tutti gli utenti sono interessati a raggiungere lo stesso obiettivo. Qualcuno può puntare alla ricerca, altri a inserirsi nel mercato del lavoro. È il criterio adottato da tante famiglie italiane che decidono di mandare i figli a studiare all’estero, selezionando l’università in base al percorso. Non si possono offrire corsi passepartout. Un aspetto che non esi-

«Con la mia proposta sarebbero le stesse università a selezionare i migliori, evitando parentopoli» ste nella legge in discussione al Senato. No, perché la riforma è pensata dal lato dell’offerta e le valutazioni si fanno in base al numero delle pubblicazioni e degli studenti laureati. Una deriva pericolosa che può incidere sulla qualità dei corsi di laurea, che non si preoccupa di

come il pubblico reagisce all’offerta delle varie università. E quindi? Auspicherei un sistema, come accade negli altri Paesi, dove da una parte ci sono una serie di opportunità che attirano più studenti, ma anche più ricercatori, a secondo delle offerte. Se il numero degli iscritti è sostanzioso vorrà dire che l’università ha centrato un percorso formativo che trova soddisfazione. Il sistema non deve essere sanzionatorio per le università che non funzionano, ma deve prevenire le disfunzioni. E il malcostume della parentopoli? Nella riforma Gelmini si prevede giustamente il divieto di assumere consanguinei, ma ancora una volta se fosse attuata la mia proposta sarebbero le stesse università a selezionare i migliori docenti. Un sistema anglosassone, però, che si baserebbe su tasse più alte. Ma se la differenza si destina alle borse di studio, agli alloggi per gli studenti e ai servizi alla fine potrebbe essere più conveniente. All’estero la scelta della facoltà non si fa seguendo il criterio della vicinanza alla propria residenza, ma in base ai propri obiettivi lavorativi e scegliendo una facoltà, piuttosto che un’altra, dimostrano il loro gradimento. L’università di Barcellona, ad esempio, ha avuto un grande boom consentendo che fossero attribuiti ai giovani di tutto il mondo dei contratti parametrati alle loro caratteristiche. In Italia invece? È il contrario. C’è il tentativo di rendere tutte le università uguali, ma alla fine si ottiene un risultato opposto e qualitativamente scadente, che non premia né gli studenti né i ricercatori. E non rendiamo i professori migliori con una lista unica nazionale, né i ricercatori più bravi con i contratti rinnovabili invece di una stabilizzazione. Il successo delle università dovrebbe essere decretato dalla “clientela” che si riesce ad attirare, stimolandoli a scegliere. Allora gli studenti hanno ragione a protestare? Non vedono un’attenzione particolare nei loro confronti, ma si sentono un “numero” da laureare. Se non sono accolti dall’università, nessuno spiega loro quali sono i percorsi e le prospettive, non potranno avere che un atteggiamento negativo.

si cercano scorciatoie continue elevando obiettivi polemici e capri espiatori. Il problema è vedere fino a che punto si può portare la ragionevolezza nella riflessione dentro questo clima». Alberto Asor Rosa, critico letterario, testa pensante della sinistra italiana, ha un’altra idea. Concorda sui nodi principali della protesta: la riforma Gelmini, un futuro avaro di certezze, i tagli all’istruzione.

Temi a cui Asor Rosa ne aggiunge un altro: «Una crescente distanza dalla politica, conosciuta più che come esperienza diretta come spettacolo mediatico, come rappresentazione televisiva. Queste quattro cose messe insieme rappresentano la miscela preoccupante non tanto per i suoi effetti di mera violenza quanto per la difficoltà di rappresentare delle istanze e delle prospettive positive. Di costruire un orizzonte di risposta che comprenda i quattro punti su cui ci siamo soffermati. L’orizzonte di riposta comporterebbe infatti una presa di coscienza molto forte da parte delle forze politiche o almeno di quelle disposte ad ascoltare la ragionevolezza di questa contestazione. Una ripresa di creatività culturale, di riflessione, un discorso scientifico sull’economia del Paese». Non che ad Asor Rosa non preoccupino le devianze violente della protesta: «Le derive violente ci sono indubbiamente ma a me sembrano, per ora, del tutto marginali e del tutto eterodirette. Non hanno a che fare cioè col movimento studentesco in quanto tale, sono fenomeni che si arrampicano sulle spalle del movimento per manifestarsi. Certo, il perdurare di questi episodi di violenza può produrre fenomeni imitativi, sicchè è già pericoloso il loro potenziale». Rispetto gli anni Sessanta e Settanta Asor Rosa ritiene che ogni comparazione sia impossibile e comunque contesta l’idea che si stia assistendo alla rivolta d’una generazione benestante che coltiva aspettative più alte e quindi più foriere di delusioni rispetto alle precedenti. «La mia impressione è che il livello sociale della massa studentesca si sia abbassato, non si sia elevato. C’è una componente molto forte che proviene da famiglie lavoratrici di reddito molto limitato. Questo significa che il disagio e la preoccupazione viene vissuta soprattutto in famiglia, dove si percepisce la sensazione che l’investimento nel percorso di studio rischia di essere dolorosamente improduttivo. Alle spalle di questi ragazzi inoltre non ci sono famiglie in grado di reggere l’urto della crisi. Insomma in piazza ci sono soprattutto dei giovani non agiati che concepiscono lo sforzo personale e famigliare che viene compiuto nel grande canale formativo come destituito di fondamento reale».


politica

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Chiesto l’intervento di Berlusconi. «Da Cicchitto un blitz contro di me» ROMA. Da un lato ci sono le incomprensioni con il suo partito. Ampliate anche dalla vicinanza a Gianfranco Micciché. Dall’altro, la paura di vedere una crepa nel “Sistri”, il sistema di tracciabilità dei rifiuti speciali che tante critiche ha ricevuto dalle imprese. Così Stefania Prestigiacomo non ci ha pensato un attimo a far saltare il tavolo, ad abbandonare il Pdl, quando è passata alla Camera una norma che permette alle piccole imprese di derogare sulla tracciabità delle merci pericolose. Ieri, e in lacrime, ha incontrato i cronisti e ha annunciato l’abbandono del Pdl (ma non del ministero dell’Ambiente): «Non mi riconosco più in questo partito, mi iscrivo al gruppo misto, dopodiché andrò a spiegare al presidente Berlusconi i miei motivi». Sicuramente al premier indicherà un colpevole nella figura di Fabrizio Cicchitto, reo di non aver accettato uno slittamento del voto. «Cicchitto», ha accusato la Prestigiacomo, «non può essere più il mio capogruppo. Io avevo chiesto il rinvio del provvedimento in esame, invece si è deciso un vero e proprio blitz. Un atto contro la mia persona». In maggioranza si prova a gettare acqua sul fuoco. Ma soltanto il ministro per le Politiche agricole, Giancarlo Galan, la difende senza se e senza ma: «Le lacrime e le minacciate dimissioni di Stefania Prestigiacomo mi mettono in crisi. È un bravo ministro, al quale rivolgo l’invito più affettuoso affinché ritrovi subito l’equilibrio e la serenità. E questo perché c’è bisogno di persone come lei, sia nel governo che nel partito». Eppure c’è chi scommette che a giorni ufficializzerà il suo passaggio a Forza Sud. Anche perché si fa notare che la norma in questione – l’articolo 5 del disegno di legge di iniziativa popolare per favorire l’imprenditoria – «è in discussione da mesi». Oppure che «il governo

Il Pdl perde i pezzi, via la Prestigiacomo E intanto la Lega attacca Fini: «La Camera discuta le sue dimissioni» di Francesco Pacifico

La ministro per l’Ambiente Stefania Prestigiacomo durante la seduta di ieri alla Camera, al termine della quale ha annunciato le sue dimissioni dal Pdl. Sotto, Giulio Tremonti legge sul’imprenditorialità e il sostegno al reddito, un testo bipartisan, che contiene «disposizioni in materia ambientale». Alla Prestigiacomo non piace soprattutto la parte che, in via transitoria, esonera le imprese costituite da disoccupati e cassintegrati dagli obblighi previsti in materia di

Il ministro si scaglia contro una deroga per le Pmi alla tracciabilità dei rifiuti. Sullo sfondo la vicinanza a Micciché e le liti con i colleghi si astiene sempre dal dare pareri sugli articoli di un provvedimento. E quando capita un incidente come quello capitato ieri, un ministro può correggerlo nel successivo passaggio parlamentare oppure con un decreto ad hoc». Difficile dire se si è trattato di un agguato, fatto sta che la Prestigiacomo ha subito una bocciatura senza eguali dalla sua coalizione. Casus belli è l’articolo 5 della proposta di

comunicazione e catasto dei rifiuti, di registro di carico e scarico dei rifiuti e di iscrizione all’albo nazionale dei gestori ambientali. In poche parole una deroga a quello che invece impone il Sistri. Il ministro, andando contro una prassi consolidata, prende la parola in aula e chiede di soprassedere: spiega che quell’articolo si sovrappone alle novità che già sono in cantiere in materia di smaltimento

Il Milleproroghe dimentica gli aquilani e il Fus

Al 5 per mille 400 milioni ROMA. Con il Milleproroghe arriveranno 400 milioni per il cinque per mille, dei quali cento destinati alla ricerca e all’assistenza per i malati di Sla. Ma è giallo sulla copertura: il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, è pronto a recuperare 50 milioni dal fondo per il sostegno all’editoria e altri 45 milioni dalle risorse per l’emittenza tv e radio, anche se potrebbe presto arrivare un balzello sui giochi.

Stralciato dal Milleproroghe il reintegro per il Fondo Unico dello Spettacolo, che resta dunque pari a 258 milioni di euro. La motivazione, stando al ministero dei Beni culturali, è che il provvedi-

mento «è troppo ordinamentale». Smentito invece un rincaro sui biglietti del cinema, che doveva garantire la copertura degli incentivi al cinema.

Tra gli altri provvedimenti, c’è innanzitutto il rifinanziamento delle missioni all’estero, una proroga alla regolarizzazione delle cosiddette case fantasma (slitta al 28 febbraio 2011), mentre non c’è traccia di un Piano straordinario per Pompei, portato in Consiglio dei ministri dal ministro Sandro Bondi. Proroga per i versamenti fiscali per gli alluvionati del Veneto, che hanno tempo fino al prossimo 30 giugno. Nulla invece per gli aquilani.

dei rifiuti, ricorda che il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, si era impegnato a presentare parere contrario sull’articolo 5. Il presidente della commissione Lavoro, l’ex Fli Silvano Moffa, risponde picche in nome del duro lavoro fatto dalla Camera. «In aula», dirà in una successiva conferenza stampa, «si sprigionano logiche diverse che non hanno nulla a che vedere con il merito dei provvedimenti e dalle posizioni diverse da quelle che si erano concordate». Dopo un veloce vertice tra il ministro e il capogruppo Cicchito si decide di andare avanti. Le opposizioni capiscono che si sta per aprire un’altra crepa nel governo e ne approfittano. Il Pd, subito con l’appoggio di Udc e Fli, presenta una mozione per rinviare il testo in aula, che però non viene approvata. A quel punto la Prestigiacomo prende le sue carte e platealmente abbandonare l’Aula, per correre dai giornalisti e lanciare il suo ultimatum al premier. Il segretario dell’Udc, Lorenzo Cesa, sottolinea che «c’è stata una divisione profonda all’interno della maggioranza sul caso Prestigiacomo e certamente non si può andare avanti così e governare un Paese». Quindi rivendica che «ancora una volta noi dell’Udc abbiamo dimostrato grande prova di responsabilità in Parlamento, cosa che non ha fatto la maggioranza».

Ma ieri la maggiornata si è scatenata anche contro Gianfranco Fini. Il Pdl, non volendo esporsi in prima persona contro il presidente della Camera, ha pensato bene di mandare avanti la Lega. Il capogruppo Reguzzoni, dopo ave fatto sapere prendeva inizativa d’accordo con Bossi, ha reso noto il contenuto di una lettera nella quale il suo gruppo chiede all’Aula di tenere una seduta ad hoc per parlare del ruolo di Fini, la sua correttezza nella gestione dei lavori e la possibilità o meno che continui a presiedere i lavori. Insomma: la Lega mette sul piatto chiaramente una richiesta di dimissioni, sia pure velata da «dibattito parlamentare». Le motivazioni ufficiali, del resto, non lasciano dubbi sull’obiettivo: «Ha avuto comportamenti lesivi della dignità del Parlamento e un ruolo incompatible con la sua carica». Ovviamente, i primi a unirsi al coro sono stati i colleghi del Pdl: «iniziativa opportuna e positiva» hanno subito commentato. Di tenore opposto le reazioni di Buttiglione dell’Udc («iniziativa strumentale e inopportuna») e del Pd («proposta strampalata»).


speciale/un anno decisivo

La sfida dell’Udc e il Polo della Nazione

23 dicembre 2010 • pagina 7

Il Centro del futuro Intervista con Pier Ferdinando Casini

Non siamo un problema, siamo la soluzione di Vincenzo Faccioli Pintozzi

ROMA. Il Polo della Nazione nasce in un momento estremamente difficile per l’Italia, caratterizzato da una crisi economica e politica. Ha suscitato tante attese, ma anche più di un’obiezione. Per rispondere alle une e alle altre interviene Pier Ferdinando Casini, leader dell’Unione di Centro, che in un’intervista a liberal spiega genesi e obiettivi della nuova formazione politica. Presidente Casini, come è nata l’avventura di questo nuovo Polo? Il Polo della Nazione nasce non per dividere il Paese, come hanno finora fatto destra e sinistra, ma per unirlo. Abbiamo bisogno di uno sforzo di unità nazionale se vogliamo uscire da una crisi che non è soltanto economica, ma anche, e forse, soprattutto politica e morale. Per farlo dobbiamo liberarci dal giogo della scelta secca tra le proposte fino ad ora presentate dal Popolo delle libertà e dal Partito democratico, che si sono dimostrate fallimentari. A noi interessa parlare degli italiani e dei loro problemi e lanciare un messaggio di pacificazione nazionale. Chi sarà il leader del Polo della Nazione? Questa area non nasce attorno a un leader ma a un progetto: qui da noi non c’è un predellino. Stiamo costruendo un disegno politico e credo che vada apprezzata la nostra idea di lavorare per il bene del Paese, anche stando all’opposizione.

Cosa risponde a Berlusconi, che vi ha definito “irrilevanti”nel panorama politico italiano? Se siamo così irrilevanti, lui e Bossi non si dovrebbero occupare così tanto di noi. Mi viene il dubbio, però, che tutte le critiche che abbiamo ricevuto e stiamo ricevendo siano la conferma del fatto che siamo noi la vera novità politica del Paese. Da Pdl e Pd vengono in maniera alternata critiche e offerte di collaborazione… Le loro sono due proposte politiche che si sono dimostrate fallimentari. Parlano i fatti, non sono opinioni. Noi vogliamo che il Paese abbia un’alternativa e lavoriamo per dargliela. Il premier ha ottenuto la fiducia in Parlamento per soli tre voti. Può continuare a governare? Quella di Berlusconi è una vittoria numerica. Prima del 14 dicembre io indicavo il modello della Germania, dove gli interessi comuni hanno prevalso sui calcoli personali. Il premier, però, ha scelto di andare alla conta parlamentare e ha vinto, ma di poco. Pensa di poter governare con pochi voti di maggioranza? Bene, auguri e buon lavoro. Se invece accetta l’idea della responsabilità nazionale, noi siamo pronti a fare la nostra parte. Se Silvio Berlusconi, come ha fatto Obama negli Stati Uniti, farà un appello alle forze politiche in nome

della responsabilità, viste le difficoltà economiche che attraversa il Paese, l’Udc non si sottrarrà. Ma senza chiedere posti nel governo, che non ci interessano: noi non siamo trasformisti, guardiamo all’interesse del Paese non alle poltrone. Come giudica l’operato di questo governo? In questi anni dall’esecutivo abbiamo visto e sentito solo tanti slogan e tante promesse. Le faccio alcuni esempi. Il Cipe si è riunito una quarantina di volte annunciando sempre opere mirabolanti mai viste. La tanto sbandierata riforma della giustizia non è neppure sulla carta; in Italia, secondo l’Istat, un giovane su quattro è disoccupato; le famiglie del ceto medio scivolano ogni giorno di più verso la povertà. Intanto fino ad oggi non sono stati colpiti gli sprechi: i tagli lineari hanno penalizzato soprattutto cultura, ricerca, sviluppo e sicurezza creando un clima di disagio enorme senza che il governo si assumesse la responsabilità di scelte politiche che è invece il primo compito di un esecutivo.


un anno decisivo

pagina 8 • 23 dicembre 2010

L’intervista con Pier Ferdinando Casini

Basta steccati, lavoriamo per il Paese Cosa pensa delle proteste studentesche e delle polemiche che le hanno accompagnate? Ne ho parlato nei giorni scorsi con mia figlia, che contesta la riforma: è un suo diritto. Anche noi siamo stati giovani e siamo scesi in piazza. Ma è assurdo prendersela con i poliziotti che per 1.200 euro al mese garantiscono il rispetto della democrazia e la difesa delle istituzioni. Con quei facinorosi che spaccano vetrine e incendiano automobili bisogna essere severi e gli studenti che sfilano in piazza devono prendere le distanze da questi violenti che rischiano di vanificare la loro protesta. La politica deve ascoltare le ragioni di una generazione che si ritiene – non del tutto a torto - “senza futuro”, che inizia ad avere sfiducia, o addirittura terrore, vero il suo futuro. Le tensioni di questi giorni dimostrano una volta di più che nel nostro Paese sta matu-

rando un’emergenza sociale che non può risolversi senza un armistizio, una pacificazione nazionale. In questo contesto la classe politica non può incendiare: al contrario deve ascoltare e trovare soluzioni. Come intendete muovervi in un’alleanza che conta anche alcuni laicisti? Per noi cattolici esistono valori indisponibili, come la difesa della vita, che sono

dalle parole ai fatti. Un conto è l’esibizionismo valoriale, altro è scrivere, discutere e approvare una legge. Quindi i richiami della Chiesa, come quello apparso su Avvenire, non la preoccupano? Come credente leggo sempre Avvenire con attenzione e considerazione. I suoi moniti vanno tenuti in debito conto. Le parole del cardinale Bagnasco e il suo appello al dialogo sono molto significativi, testimoniano una volta di più il grande amore della Chiesa per l’Italia. Ma sollevare oggi, come fanno altri, il problema della distanza sui valori etici fra me e Gianfranco Fini - che è sempre esistita anche quando militavamo insieme nel centro destra e quando poi lui è diventato cofondatore del Pdl - è strumentale: le mie opinioni sono note, ma sarebbe un errore enorme alzare uno steccato. Dobbiamo affermare il comune denominatore che ci unisce, l’identità cristiana dell’Italia e dell’Europa.

Abbiamo bisogno di uno sforzo di unità nazionale per uscire da una crisi che non è soltanto economica, ma anche e forse soprattutto politica e morale prioritari. Noi non ci proponiamo di rialzare lo steccato fra laici credenti e non credenti o fra cattolici e non: cerchiamo un voto unitario, trasversale di tutti i cattolici che siedono in Parlamento e di coloro che hanno la nostra sensibilità. Prendiamo ad esempio il Garante per la famiglia, una nostra proposta dei giorni scorsi con la quale vogliamo passare

Dialogo con Lorenzo Cesa

Apriamo le istituzioni ai giovani, la Prima Repubblica ne era piena di Errico Novi

ROMA. «Quelle parole, non abbiamo difficoltà a dirlo, ci hanno confortato». Lorenzo Cesa non dimentica il discorso del Capo dello Stato. Non gli sfugge il significato dell’appello alla «comune assunzione di responsabilità». Soprattutto lo rincuora la felice coincidenza tra il richiamo rivolto da Giorgio Napolitano davanti alle alte cariche e la svolta che l’Udc va predicando da quasi tre anni. «Usiamo lo stesso linguaggio. Non oserei mai appropriarmi delle parole del presidente», dice il segretario dell’Udc, «ma abbiamo il medesimo giudizio: il sistema non funziona. Lo scontro tra le due fazioni non è più sostenibile, per il Paese, in una fase del genere». Ma lei intravede un cambio di registro? L’autorevolezza del presidente può pesare. La sua posizione conferma la tesi della crisi di sistema e dei rischi che questa implica. A maggior ragione per il riferimento ad alcune questioni di merito. Per esempio? Il criterio dei tagli, che non possono essere indifferenziati, in particolare per scuola e ricerca. E l’urgenza di recuperare chi rischia di uscire dal ciclo produttivo. Urgenze che andrebbero affrontate insieme, da tutti. Qualcuno però sfugge al confronto. Preferisce lo scontro in nome degli interessi di bottega. C’è chi vive su questo, anzi, il sistema si regge su questo. Anche Berlusconi? Il sistema che ha in testa lui non prevede la presenza di un’aggregazione alternativa al modo di fare dei due blocchi. Però deve rassegnarsi, finisce una fase. E le sue reazioni di fronte all’ingresso di questo nuovo attore sulla scena politica attestano la sua preoccupazione. D’altronde sono gli italiani a sentire la necessità di un nuovo blocco al centro, capace di parlare alle categorie preoccupate delle sorti del Paese. Quest’attesa nell’opinione pubblica è cresciuta? Fate caso alla gravità del tono di papa Be-

nedetto: parla di analogie con il crollo dell’Impero romano. E le persone hanno una consapevolezza diversa rispetto ai politici, che non riescono più a comprendere il malumore diffuso. C’è da chiedersi però se il linguaggio di questi anni, intonato più alle forme dello spettacolo che a quelle della politica, non abbia “alterato” nell’opinione pubblica la capacità di recepire un discorso responsabile. I cambiamenti nella comunicazione hanno inciso. I media hanno modificato il modo di ragionare delle persone, hanno instillato egoismo, individualismo. Chiariamoci: non è solo colpa di Berlusconi. E soprattutto non è un problema solo italiano. Sarkozy vince grazie a questo stesso tipo di incidenza dei media, lo stesso si potrebbe dire per Obama. Personaggi e partiti sono edificati quasi esclusivamente sulla comunicazione, senza sostanza nelle proposte. Ma è arrivato il momento della concretezza. E quale prospettiva si può indicare, se si vuole essere concreti? Si deve rimettere al centro la persona. In tutto. La persona è il lavoratore per il quale sta per esaurirsi la cassa integrazione. O quello che esce a 40-50 anni dal ciclo produttivo senza chances di rientrarvi. O il giovane che non trova spiragli, o quello che vorrebbe fare ricerca ma non trova sostegno nello Stato. Questione sottovalutata, viste le difficoltà incontrate dalla riforma degli atenei. In Germania hanno finanziato due cose: infrastrutture e ricerca. Noi la ricerca l’abbiamo tagliata e sulle infrastrutture abbiamo desistito. Ma per tornare sull’altra

Il premier si rassegni, cresce nel Paese l’attesa di una proposta alternativa ai due blocchi


un anno decisivo

23 dicembre 2010 • pagina 9

Tremonti ha tenuto i conti in ordine ma non ha pensato a far ripartire gli investimenti

Una nuova “via economica” che rimetta al centro la crescita Abbiamo bisogno di creare un milione di posti di lavoro in settori di alta tecnologia, in concorrenza con gli Stati Uniti e la Germania di Rocco Buttiglione siste una politica economica del Polo della nazione? Più in generale: esiste una politica economica alternativa a quella che il ministro Tremonti ha imposto al governo Berlusconi? Per cominciare sgombriamo il campo da un equivoco: l’alternativa non può essere quella proposta dal PD. Il PD oscilla fra una ostentata ortodossia monetarista volta a corteggiare i poteri forti ed una costante domanda di più soldi secondo quel principio del “tassa e spendi”, che è quello che più corrisponde alla sua cultura politica. Non si delinea una politica alternativa se non si tiene conto in modo rigoroso delle costrizioni di contesto che ci derivano dalle regole europee e, più in generale, dalle regole della buona e corretta amministrazione. Prima di entrare nel vivo della questione cerchiamo di capire quali sono le caratteristiche della politica di Tremonti.Tremonti è stato il custode del vincolo europeo contro una maggioranza altrettanto incline della sinistra alla spesa dissennata. Ha gestito in modo impeccabile dal punto di vista tecnico il nostro debito pubblico, e questa non è cosa di poco conto. Ha prolungato la cassa integrazione contro la crisi. Ha contenuto il deficit e l’aumento del debito. Non ha aumentato le tasse.

E

domanda, credo che di fronte a una realtà dura la gente tornerà a invocare una classe dirigente ispirata dalla concretezza. Vuol dire anche un ritorno alla partecipazione diffusa che c’era in Italia fino a qualche lustro fa? Non possiamo derogare da alcuni presupposti: radicamento nel territorio, regole interne democratiche, sedi e gruppi consiliari che stiano tra le persone. I movimenti prendono i voti d’opinione, in periferia però spesso vincono le liste civiche. Propositi che si proiettano sul nuovo Polo. Anche rispetto ai nuovi alleati, però, l’Udc può rivendicare con orgoglio di “esserci arrivata prima”. Siamo orgogliosi che ci seguano altri, che riconoscano la fondatezza delle nostre scelte. E che verifichino di persona il crollo di questo bipolarismo. Tra i propositi non possono mancare almeno tre risposte da dare a chi è sceso in piazza in questi giorni. Abbiamo il dovere di dare a questa generazione le stesse opportunità che abbiamo avuto noi. Quindi, prima di tutto rivedere la politica dei tagli sul sistema scolastico, sulla ricerca. Dare una speranza dopo aver lasciato i ragazzi nell’oblio. Ma il più grande aiuto è nel sostegno allo sviluppo, senza il quale non ci saranno alternative al precariato. Credo anche che i giovani debbano impegnarsi direttamente nelle istituzioni, come abbiamo fatto noi. Nella Prima Repubblica l’età media del ceto politico era molto più bassa, altro che gerontocrazia. Si sarebbe aspettato, nel 2008, di trovarsi oggi in questa situazione così mutata? Ricordo la puntata di Porta a porta la sera del voto: dissi che i giganti dai piedi d’argilla si erano già suicidati scegliendo di allearsi con un solo partito, dopo aver accolto al proprio interno tutto e il contrario di tutto. Ma certo trovarmi nella condizione di oggi è anche una piacevole sorpresa.

Cosa è che invece Tremonti non ha fatto? Non ha messo al centro della sua azione il tema fondamentale del lavoro, dello sviluppo e della occupazione. Ci ha dato la stabilità ma non ci ha dato sviluppo. L’Italia siede al tavolo dell’Ue come un gentiluomo che indossa una giacca impeccabile e di ottimo taglio, però non ha i pantaloni. Il nostro deficit è contenuto, il debito è enorme ed in aumento ma il ritmo di aumento del nostro debito è inferiore a quello medio dell’area euro e quindi la differenza fra il nostro debito e quello degli altri Paesi europei non è aumentata ma, se mai, è diminuita. Quella che non cresce, invece, è la competitività. La competitività non cresce, la disoccupazione aumenta, il Prodotto Interno Lordo aumenta meno di quello degli altri paesi europei. La Germania oggi cresce di quasi il 4% l’anno; noi se va bene dell’1%. La produttività, però, è più importante sia del deficit che del debito. Se la produttività non cresce si potrà contenere il defi-

cit ed il debito solo imponendo sacrifici sempre più pesanti alla popolazione ed alla fine si crolla. Se non cresce la produttività non aumentano i posti di lavoro e aumenta invece la disoccupazione. Il vero problema dell’Italia è la produttività. Di produttività il governo Berlusconi non si è occupato. Per alcuni mesi il Ministero dello Sviluppo Economico è rimato senza titolare. Questo fatto evidenzia il disinteresse del governo per i problemi della produttività. In effetti il governo poteva benissimo fare a meno di un ministro dello sviluppo perché non aveva (e non ha) una politica dello sviluppo. Il governo ha ritenuto e ritiene che la crisi che stiamo vivendo sia fondamentalmente una crisi congiunturale. Il governo pensa che prima o poi questa fase difficile del ciclo economico passerà. Io penso invece che la crisi sia strutturale, che i Paesi emergenti siano diventati dominanti in settori merceologici dove prima eravamo molto presenti noi e che molti posti di lavoro siano definitivamente scomparsi. Se questo è vero (ed è vero) abbiamo bisogno di creare nuovi posti di lavoro e ristrutturare il nostro apparato industriale. Abbiamo bisogno di un vasto programma per il lavoro, l’occupazione e lo sviluppo, per incrementare la competitività dell’Italia. Forse una parte delle risorse usate per la cassa integrazione sarebbero state spese meglio su programmi di creazione di posti di lavoro. Certamente abbiamo bisogno di drammatizzare la situazione davanti alla pubblica opinione, perché essa è effettivamente drammatica. La drammatizzazione deve servire ad avviare un confronto con i sindacati per realizzare dei tagli alla spesa pubblica con un metodo diverso da quello usato da Tremonti. Tremonti ha tagliato gli investimenti ed i consumi intermedi, noi dobbiamo invece intervenire sulla spesa per il personale. È difficile ma indispensabile. Dobbiamo invece concentrare risorse sugli investimenti. Dobbiamo negoziare a livello europeo regole che ci consentano di emettere titoli di debito pubblico per finanziare in-

frastrutture materiali ed immateriali (ferrovie e ricerca). Dobbiamo offrire garanzie sull’uso effettivo dei fondi (che non si travestano spese correnti come se fossero spese di investimento) e dobbiamo offrire regole severe di finanza pubblica (per esempio l’osservanza del pareggio di bilancio invece della regola attuale che consente un deficit del 3%, ovviamente senza considerare le spese di investimento). Abbiamo bisogno di negoziare la reintroduzione della regola aurea. La regola aurea prevede appunto di valutare in modo diverso la spesa corrente e di investimento. Il deficit di parte corrente esprime semplicemente una distruzione di risorse senza contropartita. Il deficit per investimenti ci lascia sì un debito ma anche un’opera che con quella spesa è stata edificata. Se l’opera è buona alla fine siamo diventati non più poveri ma più ricchi. Di quella regola oggi la Germania può fare a meno; l’Italia (e molti altri Paesi) in questa fase storica no.

L’Italia siede al tavolo dell’Ue come un gentiluomo che indossa una giacca impeccabile ma non ha i pantaloni

La politica che qui proponiamo crea un incentivo a produrre posti di lavoro produttivi e disincentiva la creazione di posti di lavoro improduttivi, cioè la distribuzione di stipendi con finalità semiassistenziali. Ma questo non basta. Abbiamo bisogno di creare un milione di posti di lavoro in settori ad alta tecnologia che non siano in competizione con i Paesi emergenti ma con Usa e Germania. Per fare questo l’investimento pubblico non basta. Si deve catalizzare il privato. Bisogna capire le ragioni per cui i privati fanno fatica in Italia ad operare con il project financing. Inefficienza della pubblica amministrazione, ritardi delle procedure, comportamenti delle magistrature amministrative che non tengono conto degli effetti economici delle loro pronunce cospirano nel rendere impossibile il calcolo dei tempi di realizzazione delle opere mentre questo è un elemento fondamentale del project financing. Una rivisitazione di queste procedure è necessaria per facilitare la partecipazione del privato alle necessarie opere di infrastrutturazione del Paese. Il momento è, per molti aspetti, favorevole. La liquidità abbonda ed i gli interessi sono bassi. Le banche però stentano a far credito alle imprese che, a loro volta, non hanno il coraggio di lanciarsi in nuove iniziative. Un intervento pubblico volto non a sostenere la domanda ma a migliorare la qualità dell’offerta è oggi necessario ed opportuno.


un anno decisivo

pagina 10 • 23 dicembre 2010

Dialogo con Ferdinando Adornato

La sfida del nuovo secolo: superare la destra e la sinistra Quello del Polo della Nazione è un percorso appena cominciato. Eppure sono già evidenti le linee di una possibile identità comune Il Polo della Nazione è una scommessa ambiziosa perché è anche una scommessa sistemica. Fin dall’inizio la scommessa era di tipo sistemico. Il terzo polo nasce nel 2008, non adesso. Nasce quando, per la prima volta, nella stagione bipolare della seconda repubblica, c’è una forza, l’Udc, che si colloca, da sola, nell’agone elettorale. E ciò dopo che, sia pure solo per un mese, si comincia a ragionare, dopo il pronunciamento del predellino sulla creazione di un’area moderata composta da Udc e An all’interno della Casa della libertà. Perché quella proposta? Perché i tempi erano maturi per dare forma compiuta, nella Cdl, ad un’area di centro. Ricordo questo passaggio perché gli amici di Fli mettono oggi nel dibattito politico l’esigenza di un nuovo centrodestra. Si sarebbero risparmiati due anni se quel progetto si fosse incarnato allora. Si, non so se Berlusconi sarebbe stato il capo del governo, se la Lega avrebbe avuto al golden share dell’alleanza, se il peso dei moderati sarebbe stato, in quella coalizione, così ininfluente. Ma questa ipotesi non andò avanti; dopo aver definito quelle di Berlusconi le comiche finali Fini sale sul predellino. Andò così. E l’Udc, i circoli liberal, Pezzotta, accettano allora una sfida vita-morte per piantare il seme di un nuovo progetto. Andare a elezioni da soli, sfidando la tenaglia d’un bipolarismo aggressivo era davvero un rischio mortale che Casini ha corso mostrando un coraggio raro in politica. Un coraggio che però ha pagato: perché il terzo polo uscì vivo. E da li partì la scommessa sistemica. Agli italiani noi non diciamo votateci perché siamo belli. Noi diciamo votateci perché il bipolarismo che vi hanno raccontato non esiste, non assicura governabilità, né stabilità ma genera una guerra civile ideologica, devastante per il paese. Su queste posizioni convergono oggi anche Fini e Rutelli. Rutelli prende atto che il Pd ha fallito la sua mission, che il bipartitismo non c’è, che questo bipolarismo non funziona. Fini invece si accorge che quello che aveva detto al tempo delle comiche finali era più vero di quanto aveva accettato salendo sul predellino. Fini però continua a difendere il bipolarismo... Io penso che non ci sia poi una differenza sostanziale tra noi e Fli perché solo una descrizione un po’sommaria delle posizioni dell’Udc ha fatto ritenere che noi fossimo contro il bipolarismo in astratto come sistema. Noi siamo contro il bipolarismo all’italiana e credo che Fli dica la stessa cosa. Loro immaginano già da oggi il nuovo centrodestra e lo chiamano così. Noi siamo più prudenti perché non sappiamo quella che sarà l’evoluzione del sistema. Insomma contro questo bipolarismo non contro il bipolarismo.

di Riccardo Paradisi Noi non siamo contro la democrazia dell’alternanza. Quello che combattiamo è la rigidità sclerotica d’un sistema che impedisce che il parlamento possa aver parola sulla formazione dei governi. La prima repubblica era un sistema rigido, senza alternanza, però il fatto che cadesse un governo ogni anno assicurava una mobilità attraverso le correnti Dc, l’alternanza di Psi, Pri, Pli. Naturalmente era un sistema da superare, perché era finito il ‘900, ma la gabbia della seconda Repubblica è più rigida rispetto a quello della prima. Perché annulla il Parlamento. Un sistema senza ammortizzatori politici. Due schieramenti che alla prova del governo non reggono ma sono vincolati e prigionieri

Difesa dell’unità nazionale, superamento del bipolarismo, riforma condivisa della Carta e del welfare: ecco gli orizzonti del nostro movimento

dello schema elettorale. Se ne sta accorgendo anche Berlusconi che andarsi a cercare singoli deputati che avrebbero un mandato elettorale opposto al suo. Che poi il mondo di domani possa essere bipolare, tripolare o quadripolare, non lo so. Ma ciò che è importante per gli italiani non è il bipolarismo ma la democrazia dell’alternanza. Che non impedisce che si verifichino alleanze anche dopo il voto. In gran Bretagna è avvenuto Appunto ed è avvenuto anche in Germania dove è nato un governo di grande coalizione. Solo noi viviamo in questo bipolarismo della clava in cui è impedito ogni movimento, ogni dialogo, ogni discorso sul bene comune in nome della purezza originaria degli schieramenti elettorali. Arrivando al merito del nuovo polo: tre forze insieme ma ognuna con una sua storia. Qual è il filo comune, l’amalgama che vi tiene insieme. Ci sono secondo me 4-5 punti importantissimi di identità comune. Il primo: andare oltre il

berlusconismo e l’antiberlusconismo. Questo è un punto importante anche perché noi non riteniamo affatto che Berlusconi sia l’origine dei problemi del Paese. Semplicemente riteniamo che Berlusconi non sia la soluzione. Ci unisce poi la consapevolezza di dover ricostruire il tessuto della Repubblica. Tutti noi sappiamo che è saltato l’equilibrio tra poteri, che il conflitto magistratura-politica va risolto e superato, che questo bipolarismo, tra i suoi difetti, ha anche quello di aver umiliato di aver emarginato i corpi intermedi, le forze sociali. Infine se non si esce dal conflitto berlusconismo-antiberlusconsimo non è possibile nessuna, unilaterale riforma della Costituzione. L’altro elemento che ci unisce è che tutti noi riteniamo l’unità nazionale una questione topica. Su cui oggi grava una minaccia ulteriore: se la crisi dell’euro infatti non si risolve in un nuovo patto unitario questo passo indietro potrà influire negativamente sull’unità nazionale. Gli altri elementi d’unità? Tutte le forze del Polo della nazione credono che la rivoluzione liberale promessa da Berlusconi non sia stata compiuta. Molti dei punti programmatici dell’Udc e l’agenda proposta da Fini a Bastia Umbra coincidono in questo punto. Un altro punto che ci unisce è che il sistema di protezione sociale va cambiato lungo le linee del vero riformismo di questo Paese. Non c’è ancora un sistema di ammortizzatori per i precari, un sistema di protezione pensionistico per i giovani, per non parlare dei livelli della formazione e della conoscenza, della riforma Biagi applicata solo a metà. Questi sono i punti fondamentali che già creano l’ossatura del nuovo progetto. Ma ancora più in generale ci unisce la sensazione di dover corrispondere a un mondo nuovo nel quale le categorie di destra e di sinistra non hanno più senso. Perché le gerarchie cattoliche hanno fatto trapelare delle preoccupazioni per l’alleanza di Casini con Fini? È vero, certi settori delle gerarchie hanno espresso delle perplessità. Secondo me non c’è motivo di preoccupazione però. Da quando è finita l’unità dei cattolici, è nato, grazie all’intuizione del cardinal Ruini, un fronte trasversale che unendosi in parlamento ha sparso il sale cristiano ad ogni latitudine politica. Sia nel centrodestra sia nel polo della nazione i cattolici sono maggioritari. Nel Pd no, ma insomma anche lì c’è una fortissima componente cattolica che interviene, incide sulle scelte. Insomma se io fossi un uomo di chiesa e guardassi alla politica italiana sarei soddisfatto. Del resto la forza del progetto del cardinal Ruini consiste nell’aver posto la questione antropologica all’attenzione di tutti, laici e cattolici. Io credo che anche oggi la missione delle forze cristiane e cattoliche non sia la contrapposizione, la barricata ma il dialogo fecondo coi laici. Cercare soluzioni condivise tra credenti e non credenti. Tenendo ben ferme la centralità della persona e del diritto naturale. Che sono i capisaldi non solo del cristianesimo ma anche del pensiero liberale.

Dall’alto Gianfranco Fini; Francesco Rutelli; Raffaele Lombardo. A sinistra Ferdinando Adornato con il cardinale Ruini. Nella pagina a fianco, Angelo Bagnasco e nell’ovale Savino Pezzotta


La Chiesa e noi Due riflessioni sul rapporto tra ispirazione cristiana e laicità della politica Difendere la vita significa anche preferire l’accoglienza ai respingimenti, la stabilità del lavoro alla precarietà

Guai a confondere politica e magistero La nostra laicità positiva: «Meglio essere cristiani senza dirlo che dirlo senza esserlo» a nostra riflessione sull’attuale crisi politica deve farsi sempre più attenta e rigorosa per sfuggire alle tante interessate analisi che in queste ore circolano e fanno crescere la confusione e il discredito verso la politica ponendo anche la questione del rapporto tra cattolici e politica. Avverto con disagio la presenza di un eccesso di “furbizie”, di interessi e tatticismi che non aiutano a dipanare la situazione e a rendere trasparenti comportamenti tra loro diversi. Le situazioni di crisi portano normalmente con sé cumuli d’incertezze, di timori, di dubbi e sospetti.

L

Tuttavia a volte emergono aspetti interessanti della realtà che vanno analizzati con molta attenzione. Chi è interessato a uno spirito missionario e all’estensione del cattolicesimo in Italia, dovrebbe augurarsi il moltiplicarsi delle crisi politiche e del ricorso alle urne, poiché è in queste contingenze che, in ambito politico, emergono tutti quelli che si affannano a dichiarasi cattolici e ad indossare le vesti dei «defensor fidei». Mi scuso per l’ironia ma in questi mesi di crisi del Governo Berlusconi, del Pdl e di incremento delle difficoltà nel Pd, ho sentito e letto tante e tante dichiarazioni di fede cattolica da restare stupito e - come si dice oggi - basito. Per riprendermi dallo choc ho richiamato alla mente quanto diceva il mio vecchio parroco: «I convertitori veri sono quelli che come San Paolo cadono da cavallo e non quelli che si acconten-

di Savino Pezzotta tano di cambiare la cavalcatura». Forse andrebbe praticata più ritrosia nel proclamarsi cattolici, perché chi crede non ha bisogno di dichiarare sempre la propria fede, ma di renderla evidente nella costante tensione verso di essa. «Meglio essere cristiani senza dirlo che dirlo senza esserlo», ha più volte detto l’Arcivescovo di Milano Dionigi Tettamanzi, citando Ignazio di Antiochia. Non è un invito a non dichiarare la propria fede - considerato che viene dalla bocca di un martire – ma a non sbrodolarsi troppo, cercando di essere cristiani mettendo in pratica e testimoniando ciò che Gesù raccomanda nel Vangelo senza suoni di tromba. Queste puntualizzazioni valgono in modo particolare per il cattolico impegnato in politica che dovrebbe caratterizzare il suo impegno, le sue azioni, il suo linguaggio, senza cercare in ogni cosa l’interesse personale o di gruppo ma operando per il bene comune che si sostanzia nella salvaguardia e nella promozione della dignità della persona, dalla nascita fino alla morte. Purtroppo capita che, quando si tratta della vita e della dignità dell’altro, molti difensori della vita preferiscono il silenzio. Difendere la vita significa anche essere con-

tro la guerra, l’uso delle armi, lo spreco di danaro per l’acquisto di aerei come gli F33 che non servono e che non si inseriscono nella logica difensiva dell’art. 11 della Costituzione. Significa preferire l’accoglienza ai respingimenti, la stabilità del lavoro alla precarietà. Significa privilegiare la non violenza come stile e comportamento di vita. Essere non violenti in politica vuol dire scegliere la mitezza nell’agire, nel linguaggio, nei comportamenti e pertanto cercare sempre il dialogo e l’ascolto rispetto allo scontro. In pratica deve esserci uno sforzo verso una visione globale di valori, che è, a parer mio, la conditio sine qua non per orientare il proprio impegno. Non è facile e capita che si possa an-

stenza nelle sue dimensioni individuali e collettive.

Questa iniziale introduzione metodologica era necessaria per fissare alcuni criteri che ci consentano di definire la questione dell’essere cattolici in politica e per valutare come non possa essere semplificata ma debba essere collocata nella complessità dei nostri tempi. Brandire i temi della bioetica e trasformare una questione delicata e complessa in un’arma dialettica per stanare l’avversario politico è tradire i valori che si vogliono affrontare. Sarebbe invece necessario argomentare e dialogare per far comprendere la giustezza delle posizioni che proponiamo. In questi giorni da più parti mi sento interpellato da quanto ho letto sui giornali circa la pressione che esponenti importanti della gerarchia cattolica avrebbero esercitato sul piano politico per evitare la crisi di Governo, su un presunto appoggio al governo Berlusconi, su consigli all’Unione di centro perché non facesse mancare il suo appoggio. Si è molto enfatizzato su tutto questo e non nascondo di essere stato attraversato da un profondo disagio. In tutti i tempi il tema del rapporto tra gerarchie ecclesiastiche e potere politico è sempre stato molto complesso e non privo di tensioni e am-

La cosa peggiore è usare temi etici solo per scopi di partito: così si tradiscono i valori cristiani che scivolare, ma è questa possibilità d’inciampare che segna ogni uomo e ogni azione umana e che ci dovrebbe rendere un poco più misericordiosi. Gli interventi del Papa e della Cei ci dicono che i valori fondamentali abbracciano non solo l’inizio e la fine della vita ma tutta l’esi-

biguità. Lo è stato nei confronti del movimento politico dei cattolici italiani e ha coinvolto personaggi come Murri, Sturzo, De Gasperi. A suo tempo un cristiano di grande caratura come Tommaso Gallarati Scotti aveva evidenziato i tratti di questa complessità.

Dell’articolato rapporto tra la Chiesa come istituzione e il potere politico dobbiamo tenere conto e iniziare a ragionare se in un Paese come l’Italia non sia opportuno che ogni forza, movimento o aggregazione politica, espliciti con chiarezza la propria politica ecclesiastica, ossia come intende vivere il regime concordatario. Ciò che va evitato è confondere i diversi piani e mescolare tutto. Non ha molto significato rimproverare agli ecclesiastici che ricoprono rilevanti cariche istituzionali nell’ordinamento della Chiesa di voler influenzare la vita e gli orientamenti della società civili e del potere politico. In democrazia questo è un diritto e dovere di ogni cittadino, delle comunità e di tutti i corpi associativi che vi agiscono e non comprendo perché alcuni dovrebbero esserne esclusi. I problemi pertanto non si pongono sul terreno delle relazioni istituzionali, ma nel corpo vivo della Chiesa. Gli uomini e le donne credenti si riuniscono (fanno Chiesa), non tanto per conquistare voti o per decidere verso chi orientare il proprio consenso, ma per rendere testimonianza del Cristo Risorto, dell’amore verso il prossimo e il rispetto verso ogni persona.


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È chiaro e consequenziale che questo impegno si direziona necessariamente verso la ricerca del bene comune, ma il compito fondamentale resta quello di comunicare al mondo la fede. Alcuni hanno sostenuto - e forse ancora si muovono in questa direzione - che la trasmissione della fede ha bisogno di una cristianizzazione dell’ordine sociale e politico. Pur non disprezzando questa posizione resto convinto del contrario: è la comunicazione della fede che può contribuire all’umanizzazione del sociale, dell’economico e del politico. L’agire dei cristiani in politica dovrebbe sempre tenere conto della distinzione tra la dimensione istituzionale e quella sacramentale della Chiesa. Confondere i due piani crea solo confusione. Nell’esercizio delle loro funzioni politiche gli ecclesiastici dovrebbero considerare l’incidenza che possono avere sul popolo dei fedeli. Si tratta per tutti coloro che amano la Chiesa di far sempre valere la virtù della prudenza. Il politico che si dichiara cattolico deve inoltre lasciarsi guidare da un profondo senso di misericordia e tenere presente i limiti che stanno in capo ad ogni persona. La logica del limite dovrebbe sempre guidare le sue azioni e proposizioni anche sui temi più delicati e ricordare che l’esercizio del potere dovrebbe essere sempre servente. Se si vuole rispondere all’altissima considerazione che Gesù e la Chiesa hanno della dignità e libertà dell’uomo, dobbiamo sapere che le battaglie che conduciamo sui temi dell’aborto, dell’eutanasia, delle cellule staminali, della famiglia, della disoccupazione, dell’accoglienza degli immigrati e la cura emancipativa dei deboli e dei poveri non sono mai conclusive. In ogni questione c’è sempre un cammino da iniziare, un sentiero da percorrere ed è proprio in virtù di questo che i cristiani non possono che vivere il loro impegno politico con tensione e inquietudine permanente. La vera condizione esistenziale del cristiano che fa politica è quella dell’inappagamento.

I veri nemici del cristianesimo non sono gli atei convinti, gli agnostici e nemmeno i laicisti cui so bene come rispondere, ma quella schiera di politici, intellettuali non credenti che pretendono di essere i sostenitori delle ragioni “politiche” e del messaggio evangelico della Chiesa per volgerli verso i loro obiettivi politici. Con il loro “dire”non fanno altro che svuotare il cristianesimo e ridurlo a una religione civile senza trascendenza. Quando li sento parlare mi viene in mente il personaggio centrale del romanzo di Flannery O’ Condor La saggezza nel sangue. Hazel si è mes-

un anno decisivo so in testa e vuole dimostrare agli uomini che c’è bisogno di «un nuovo Gesù che sia tutto uomo, senza sangue da buttare via» e fondare una Chiesa senza Cristo. Anche quando si schierano per le mie ragioni, resto guardingo verso questi nuovi proclamatori. I laici cristiani impegnati in politica devono porsi altre domande e non continuare a verificare se gli ecclesiastici stanno con loro, se li appoggiano o no, se c’è o meno l’ingerenza dei Vescovi. Oggi in Italia anche nella realtà cattolica e tra l’episcopato c’è una situazione di pluralismo di cui tener conto. Occorre distinguere tra i pronunciamenti politici che sono criticabili e i pronunciamenti magisteriali che vanno ascoltati. Non mi turba se il cardinal Ruini afferma che il maggioritario va bene. È una posizione politica sulla quale posso dire con serenità di non essere d’accordo. I laici cristiani - soprattutto quelli che esercitano la difficile arte della politica - non devono avere timore di entrare in dialettica su certe posizioni politiche espresse dai vescovi da cui deriverebbe un bene anche per la Chiesa. Il tutto deve svolgersi in un clima di unità e di comunione. La liberà dei figli di Dio e dei credenti va sempre esercitata. Altro è l’atteggiamento da tenere sulle questioni di natura dottrinale e morale. Sui valori cattolici non si tratta ma ci si confronta in termini unitivi.

Cinque rispost

Il pluralismo delle opzioni politiche da parte dei cattolici è stato un fatto necessario e di libertà.Va superata invece la diaspora cattolica che ha reso la presenza veramente debole sul piano normativo. Sono convinto che in Italia una formazione politica laica e aconfessionale ma di chiara ispirazione cristiana, possa contribuire a far crescere un’ampia tensione unitiva dei laici credenti su temi che la coscienza cattolica ritiene irrinunciabili. Ma perché ciò possa avvenire occorre uscire da questo bipolarismo che imbriglia anche le coscienze, per progettare una nuova forma di alternanza che sia in primo luogo rispettosa delle coscienze individuali. Anche se in forme diverse dal passato, occorre ricostruire una centralità del Parlamento e delle Assemblee elettive. La strada dei cattolici impegnati in politica è quella della laicità positiva. Servirebbe per contenere le fibrillazioni laiciste e l’islam politico, per riconoscere il ruolo sociale e di coesione che le religioni esercitano. Per laicità positiva intendo quell’ambito del dibattito pubblico, politico, culturale e sociale in cui predomina il confronto, il dialogo e la soluzione dei conflitti, senza che nessuno rinunci al rispetto della storia e della tradizione dell’altro.

La nascita del Polo della Nazione ha provocato qualch di Paola Binetti ochi giorni fa Casini, Fini e Rutelli hanno dato vita ad un coordinamento parlamentare della nuova area di centro con un orientamento prevalentemente, ma non esclusivamente, di ispirazione cattolica. Il nuovo spazio politico, appena creato, conferma l’urgenza di andare oltre il bipolarismo conflittuale che abbiamo finora conosciuto per sollecitare nuove modalità di dialogo all’interno di ogni schieramento e tra i diversi schieramenti. È questa la sfida che il nuovo polo lancia prima di tutto a se stesso e poi agli altri due soggetti politici, a destra e a sinistra. Non c’è dubbio che questa nuova realtà suscita interesse e attenzione ma anche innegabili pregiudizi, e una malcelata diffidenza da parte di chi teme di perdere una leadership tanto vacillante quanto, almeno apparentemente, inossidabile. In questo clima di chiaroscuri e di interpretazioni ambigue vale la pena provare a rispondere alle cinque domande che con maggiore frequenza ci vengono poste. 1) La prima, la più frequente e nello stesso tempo anche la più importante, riguarda l’identità

P

dell’Udc in rapporto alle altre identità presenti nel nuovo soggetto politico. Suona più o meno così: «Chi è oggi l’Udc e cosa vuol fare domani?». In altri termini ci si chiede come ce la caveremo quando nel dibattito sulle questioni eticamente sensibili qualcuno assumerà posizioni probabilmente diverse dalle nostre. 2) La seconda domanda sposta il livello dell’attenzione dall’interno dell’area politica ai rapporti con la gerarchia della

ripetutamente invitato ad entrare in un governo da sempre schierato dalla parte della vita e della famiglia?». C’è un carattere potenzialmente ricattatorio in questo, che fa ricadere sull’Udc la colpa di un eventuale insuccesso su questo fronte. 3) La terza domanda riguarda la collaborazione con gli altri schieramenti e vorrebbe fare chiarezza sulle possibili alleanze future: «Nelle prossime elezioni dove andrete: a destra con Berlusconi o a sinistra con Bersani o magari con Vendola?». Sia nel primo che nel secondo caso si sottintende che molti dei nostri elettori non ci seguiranno; ma se non scegliete - è sottinteso - non andrete da nessuna parte… 4) La quarta domanda è più sottile e sofisticata: «Non vi sembra di esagerare nella vostra fissazione con i temi eticamente sensibili?». Come se il progetto politico Udc non permettesse di cogliere tutta la specificità del suo programma, perché sembra concentrare la sua attenzione solo sulla difesa di vita e famiglia. 5) La quinta ed ultima domanda ha un carattere duro ed aggres-

Il tema è come vivere la propria autonomia, sul piano personale e sul piano politico, nella prudente condivisione dei valori e dei criteri proposti dalla Conferenza episcopale Chiesa, immaginando che la maggioranza dei vescovi sia impegnata a sostenere il governo, ritenendo questo governo più affidabile di altri nella tutela dei valori non negoziabili. La domanda dice più o meno: «Perché non aderire alle sollecitazioni del premier, che vi ha


un anno decisivo

te ai “dubbi”cattolici

he perplessità in alcuni settori della Chiesa. Ecco perché sono infondate sivo e riguarda il rapporto con gli elettori: «Ma perché nonostante tutte le battaglie che fate per difendere i valori cattolici, i cattolici non vi votano? Non siete credibili neppure per loro?». È la domanda insidiosa che pone il dubbio proprio sulla relazione di fiducia con il territorio, una domanda che vuole mostrare come, in tempi di democrazia partecipativa, in fondo i cattolici non si sentano realmente rappresentati da noi. Per cui da un lato non ci votano nella misura che vorremmo, e dall’altro potrebbe anche sorgere il dubbio che in fin dei conti non ci sono più neppure tanti cattolici.

A questo punto vale la pena provare a rispondere anche per dare una nuova vitalità e una maggiore vivacità al dibattito con il mondo cattolico, sia a livello personale che a livello delle associazioni. L’Unione di Centro nasce nel solco della tradizione sturziana, affonda le sue radici nella cultura di un partito popolare, interclassista, laico, ma con profonde radici cristiane. Raccoglie il testimone della Democrazia cristiana nello spirito e nella cultura politica ancor prima che nel simbolo; si rivolge ad un’area di centro,

moderata nello stile che connota la vita stessa del partito, i suoi rapporti interni e la qualità delle sue relazioni con i diversi mondi con cui entra in contatto. Ma la sua moderazione non ha

sia quello di avere una famiglia, anche perché la stessa vita gli viene trasmessa all’interno di un nucleo familiare che lo concepisce. Ripartire dalla famiglia significa riscoprire la dimensio-

Non si può condividere uno stesso coordinamento parlamentare senza la voglia di confrontarsi con i propri alleati su temi di cui si parli con libertà, senza pregiudizi nulla di pigramente schiacciato sul pensiero corrente, quel politically correct che a volte si schiera contro quei valori, che la legge naturale pone alla nostra riflessione da sempre. Alla sua moderazione nei modi corrisponde un’audacia indiscutibile nel difendere la vita e la famiglia, anche in contro-tendenza. La tutela della famiglia non è un vessillo velleitario da sventolare a fini elettorali. È piuttosto un modo per riscoprire un modello antropologico che non considera l’uomo avulso dai suoi legami familiari, nudamente consegnato alla difesa dei suoi diritti individuali. Ritiene che il primo diritto di un uomo

ne familiare della vita sociale. È uno stile di pensiero che non può fermarsi sulla soglia di un bipolarismo aggressivo in cui la conflittualità permanente si risolve in una sterile dinamica politica, che lascia il Paese assai più impoverito di come non lo abbia trovato poco più di 15 anni fa. L’Udc ripropone ai suoi alleati della nuova area politica l’opportunità di approfondire questi temi per tradurli in proposte di legge coerenti, aprendo al suo interno uno spazio di confronto e di dibattito, che faccia luce sui principi e cerchi il massimo di convergenza possibile nelle soluzioni. Il dibattito non sarà mai banale né sconta-

to. Può passare per fasi di intenso contrasto, ma non può non approdare al comune fondamento dei diritti umani. La loro universalità è certamente legata al consenso universale con cui a suo tempo sono stati votati ed approvati, ma quel consenso intanto è stato universale, in quanto c’è stato un esplicito riferimento alla natura universale dell’uomo. Non si può condividere uno stesso coordinamento parlamentare senza avere voglia di confrontarsi con i propri alleati potenziali su temi in cui ci si possa esprimere con libertà, senza pregiudizi, mossi solo dal desiderio di capire e di capirsi di più. Per l’Udc sarà sempre determinante non chiudersi a riccio su questi temi, ma accogliere l’opportunità del confronto come una delle modalità naturali per approfondire e argomentare meglio le proprie convinzioni, per provare a convincere, senza cedere. In questa logica diventa più facile anche comprendere come si possano sviluppare le relazioni con la Chiesa. Ciò che dice il Cardinal Bagnasco, presidente della Cei, costituisce per tutti i cattolici italiani un importante punto di riferimento, sia che facciano o non facciano politica. Nei parlamentari Udc all’a-

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scolto delle sue parole generalmente segue uno scambio di idee, una valutazione delle implicazioni che potrebbero esserci anche nel nostro lavoro. C’è una piena libertà di spirito che permette di interrogarsi sul senso e sul significato di quanto la Chiesa propone, per poi individuare cosa fare e come regolarsi sul fronte delle responsabilità che ognuno può e deve assumersi. Il tema è come vivere la propria autonomia, sul piano personale e sul piano politico, nella prudente condivisione dei valori e dei criteri proposti dalla Cei. Sono molteplici le fonti di informazione che concorrono alla formulazione di un giudizio, alla valutazione di un fatto: e queste spesso influiscono sui nostri processi mentali anche più di quanto ci rendiamo conto. Considerare tra le fonti della nostra riflessione anche le proposte che vengono dalla Cei non toglie nulla alla nostra autonomia e alla nostra libertà personale: concorre semplicemente alla maturazione di un giudizio, che ha tutto da guadagnare se i suoi referenti sono seri ed attendibili. Ma la serietà non può arrestarsi solo al momento del giudizio, deve tradursi in fatti concreti in una operatività di cui troppo spesso questo governo e questa maggioranza non hanno dato prova. Molte promesse e pochi fatti, molti principi generali e poche attuazioni pratiche.

L’Udc considera parte integrante di una politica eticamente coerente anche questa traduzione delle promesse in fatti concreti.Tra i fattori di rischio di una società che assiste allo smottamento progressivo dei suoi valori e delle sue tradizioni si possono considerare anche le mancate misure di prevenzione davanti a problemi che è facile intuire o la carenza di interventi precoci quando questi problemi cominciano ad affacciarsi all’orizzonte. Basta pensare a quanto è accaduto in questi giorni. Il malessere giovanile è esploso in forme di violenza, che niente e nessuno possono giustificare, ma che pure è possibile comprendere. Parte integrante di questa comprensione, dolorosa ma indispensabile, è quell’esame di coscienza che un governo serio e responsabile deve farsi per chiedersi se davvero è stato fatto tutto il possibile per rispondere tempestivamente alla loro ansia di realizzazione. Certamente no. No perché non si è investito nella creazione di nuovi posti di lavoro, perché non si è promosso uno sviluppo industriale essenziale anche sotto il profilo della stabilità sociale. No perché non si sono raccordati adeguatamente i percorsi formativi, quelli della scuola media superiore e quelli universitari, con le nuove esigenze e le nuove opportunità che il mondo del lavoro offre e richiede.


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Giovani “senza futuro”, in un’attesa senza compimento e famiglie stremate da un ruolo di ammortizzatori sociali, in cui monta lo sconforto e l’angoscia davanti ad una crisi più volte negata e mai seriamente affrontata. Certamente nel nuovo coordinamento è solida e sicura la tutela dei valori considerati non disponibili: c’è un impegno condiviso a vivere con vigore e con rigore tutti questi aspetti della vita politica. Ma proprio per questo diventa irrinunciabile anche la tutela delle nuove generazioni, vero patrimonio di un Paese; è altrettanto irrinunciabile l’impegno a contrastare le nuove forme di povertà che si annidano oramai ovunque. L’enciclica Caritas in veritate offre sotto questo profilo una serie di spunti importantissimi per ricordare l’urgenza di dover produrre ricchezza per poterla distribuire. Appartiene al Magistero della Chiesa la sollecitazione ad eludere la spinta seduttiva di un liberismo egoista e autoreferenziale, così come l’ideologia di chi pretende di distribuire ciò che non ha. Il rischio è che in un caso prevalga un modello antropologico individualista ed arrivista, mentre nel secondo caso si genera un approccio assistenziale che sottrae ai giovani il valore della responsabilità personale. Non tutto tocca allo Stato, né tutto può essere lasciato al singolo. E sono proprio certi modelli antropologici, con i loro specifici fattori di rischio, che dettano la linea sul piano delle alleanze possibili. Come quando qualcuno chiede: «Ma voi con chi andrete?», mentre la formulazione esatta è un’altra: «Voi cosa volete fare, che modello intendete presentare al Paese?». Il tema delle alleanze è un tema di valori, di principi, di programmi e di persone. Non c’è dubbio che - almeno in teoria - la nostra alleanza preferita comincia con tutti coloro che si impegnano in politica con gli stessi principi, valori e cultura di solida ispirazione cristiana. Ma è altrettanto chiaro che a monte della visione cristiana della vita e della storia, c’è una visione totalmente laica della natura umana e della legge naturale che la governa. C’è la piena fiducia nella intelligenza umana e nella sua capacità di dialogo e di argomentazione per poter giungere ad una conoscenza ragionata del mondo che ci circonda, dei suoi problemi e delle sue possibili soluzioni. Ecco perché l’onestà intellettuale diventa uno dei prerequisiti essenziali per fare una alleanza politica, perché solo allora è possibile fidarsi e superare quei rigurgiti della cultura del sospetto che avve-

un anno decisivo lenano tutte le relazioni umane, a cominciare da quelle politiche. Criteri, principi e valori hanno valore in sé stessi, ma diventano efficaci solo quando si incarnano in persone concrete, nelle loro storie, nella limpidezza della loro coscienza. Ci si può alleare solo con le persone di cui ci si fida, anche se si è consapevoli delle differenze che possono separare. Ma è nel rispetto reciproco, nella lealtà davanti agli impegni presi, nel coraggio con cui si testimonia anche il dissenso, senza per questo demonizzare l’altro che si costruisce la rete di collaborazione in un gruppo sufficientemente ampio da prevedere già in premessa la possibile diversità di approcci e di interpretazioni.

La quarta domanda ha già trovato spunti concreti di risposta: nessuno di noi pensa che si possa ridurre l’attività politica ai grandi temi etici, ma ancor meno pensiamo che se ne possa fare a meno. Il punto vero è imparare a declinare in maniera eticamente corretta almeno altri tre profili di impegno politico: quello della competenza reale nei problemi con cui ci si confronta e che si affrontano nel lavoro delle commissioni e nel lavoro d’aula. Votare senza sapere bene cosa si sta votando seguendo solo le indicazioni del capogruppo o di chi ha seguito maggiormente il provvedimento non costituisce una risposta eticamente coerente nel lavoro parlamentare. Lo studio delle questioni, la preparazione previa, la capacità di porre domande a chi può saperne di più, sono tutti elementi per farsi una idea chiara dei problemi e po-

Non c’è dubbio che la nostra alleanza preferita comincia con tutti coloro che si impegnano in politica con gli stessi principi di solida ispirazione cristiana. Ma a monte c’è una visione laica della natura umana e della legge naturale tersene assumere piena responsabilità al momento del voto. Le proprie proposte legislative devono nascere da un dialogo costante con chi vive quei problemi sapendo cogliere le ragioni degli uni e degli altri, senza schierarsi aprioristicamente da un lato o dall’altro. Saper prendere delle decisioni che possono risultare impopolari soprattutto quando è in gioco la gestione delle risorse e al di fuori di ogni velleità occorre capire quale sia

Siamo convinti che la vera rivoluzione di cui il Paese ha bisogno passi per la riscoperta di un Ethos pubblico condiviso, praticato e non soltanto predicato un corretto sviluppo sostenibile, anche questo approccio ha una matrice etica sostanziale. La logica dei tagli lineari contraddice al dovere delle scelte e abdica alla responsabilità morale che comportano. In altri termini abbiamo la ferma convinzione che la vera rivoluzione di cui il Paese ha bisogno passa per la riscoperta di un Ethos pubblico condiviso, praticato e non solo predicato. I rapporti tra etica ed economia non sono meno rilevanti dei rapporti tra etica e ricerca scientifica o tra etica e politiche socio-sanitarie.

Per questo: nessuna fissazione di natura etica, ma la ferma convinzione che senza una forte esigenza etica è facile scivolare verso una società assai meno giusta ed umana.

L’ultima domanda conserva tutto il sapore di una provocazione ironica e tagliente: perché nonostante tutto la nostra soglia di successo elettorale è spiccatamente inferiore alle nostre aspettative, per cui mentre da un lato ci candidiamo a guidare il Paese, dall’altro sembra che il Paese non abbia ancora maturato la convinzione che starebbe molto meglio se a governare ci fossimo noi… Consola pensare che nel corso di questa legislatura l’Udc abbia confermato i suoi risultati e rispetto all’inizio della legislatura tutti i sondaggi segnalino un trend in crescita… Ma forse è arrivato il momento di puntare su tre cose concrete: chiarezza nella comunicazione, per rendere intuitivamente visibili i valori e gli obiettivi che ci proponiamo al servizio del paese; affidabilità personale, di ognuno di noi e del gruppo nella sua complessità, puntando sulla disponibilità e sulla coerenza; proposte politiche precise e concrete, che coinvolgano coerentemente tutti i livelli della vita politica. Proposte concordate, realizzabili… e realizzate. Riteniamo che il mondo cattolico rifugga da semplificazioni eccessive, così come da piani arzigogolati e irrealizzabili. È propria del cattolico la coerenza e la concretezza con cui affronta la sue responsabilità, ben sapendo che non è immune da errori, né lui né gli altri. Per questo

è essenziale l’onestà intellettuale del riconoscerli e l’umiltà di ricominciare da capo. Anche in Politica si possono e si debbono riconoscere i propri errori, quelli che riguardano le scelte strategiche e quelle che riguardano le cadute di tono personali. Resta comunque in pole position la tensione etica a cercare il bene comune e a cercarlo insieme agli altri, superando le barriere del personalismo e del narcisismo individualistico. Se il bene a cui si tende è il bene comune, allora non si può che raggiungerlo mettendosi in comune con gli altri, accettando la sfida del confronto, senza rinunciare ad essere se stessi.Vien voglia di dire a tanta gente: Venite e vedrete. A noi piace muoverci lungo tutto l’asse dei famosi valori non negoziabili, negoziandone l’attuazione concreta con coraggio e determinazione. Che di vita, di famiglia e di educazione l’Udc sia sempre occupata forse non fa tanto notizia, ma che se ne continui ad occupare, aggiungendoci anche tutti gli altri punti previsti dalla nota dottrinale del 2003 forse sì: “Conseguenza di questo fondamentale insegnamento del Concilio Vaticano II è che «i fedeli laici non possono affatto abdicare alla partecipazione alla “politica”, ossia alla molteplice e varia azione economica, sociale, legislativa, amministrativa e culturale destinata a promuovere organicamente e istituzionalmente il bene comune», che comprende la promozione e la difesa di beni, quali l’ordine pubblico e la pace, la libertà e l’uguaglianza, il rispetto della vita umana e dell’ambiente, la giustizia, la solidarietà, ecc. “


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Gian Luca Galletti, vicepresidente dei deputati Udc e Gianpiero D’Alia presidente dei senatori

La nostra opposizione “repubblicana”ha vinto di Francesco De Felice

ROMA. Sia a Montecitorio che a Palazzo Madama l’elemento che ha contraddistinto i gruppi parlamentari dell’Udc è stato sicuramente la responsabilità. Un termine che ultimamente rischia di essere inflazionato e usato a sproposito, ma che invece ha caratterizzato il lavoro dei centisti in Parlamento. «Siamo stati coerenti con quello che abbiamo promesso in campagna elettorale – dice Gian Luca Galletti, vice presidente del gruppo Udc alla Camera –, quando avevamo annunciato il nostro appoggio a quei provvedimenti adottati nell’interesse nazionale e la nostra opposizione alle norme che andavano in direzione opposta».

quello Galletti rimarca l’atteggiamento contrario «sui tagli lineari e sulle scelte in generale di politica economica. L’impatto della Finanziaria sui comuni, ad esempio, è devastante. Le famiglie si troveranno costrette a dover sopportare un aggravio di tariffe locali per i servizi primari e sociali che si aggira intorno al migliaio di euro per un nucleo di quattro persone. Il tutto mentre la prima cosa che ha fatto il governo Berlusconi è stata quella di abolire l’Ici alle fasce medio-alte, facendone pagare il conto a tutti i nuclei familiari, anche quelli che non posseggono un’abitazione. Questa è una politica contro la famiglia e noi ci batteremo per modificarla».

Anche Gianpiero D’Alia, presidente dei centristi a Palazzo Madama, si dice soddisfatto:: «Pur dall’opposizione, il gruppo Udc ha dato il suo contributo, concorrendo, con responsabilità all’attività parlamentare, senza pregiudizi, ma sostenendo le proposte ragionevoli che venivano incontro ai bisogni dei cittadini e del Paese e migliorando, con emendamenti e ordini del giorno, quelle non condivisibili sulle quali di volta in volta il Senato ha riconosciuto le nostre ragioni». Il principale terreno di scontro è stata la politica economica adottata dal ministro Tremonti e su

Su questi argomenti insiste anche il senatore D’Alia: «Il sostegno alle vita e alle famiglie, l’occupazione, il welfare state affinché nessuno rimanga indietro, le risorse per l’istruzione, l’università, la ricerca e l’innovazione, necessarie per lo sviluppo sono le principali battaglie, legate ai nostri valori fondanti e ai nostri principali punti di interesse». E il presidente dei senatori dell’Udc sottolinea anche l’attenzione del suo gruppo per «la tenuta dei conti pubblici, fondamentale in una fase di fortissime turbolenze finanziarie come quella che stiamo attraversando, le misure di rilancio del-

l’economia a cominciare dalle piccole e medie imprese, la lotta alla criminalità e sicurezza dei cittadini coniugata con la tutela dei diritti umani, l’ambiente e le fonti energetiche alternative, le liberalizzazioni e la semplificazione della macchina amministrativo-burocratica».

Gian Luca Galletti ci tiene a ribadire l’atteggiamento responsabile del suo partito anche sugli ultimi provvedimenti che sono stati esaminati a Montecitorio: «Su tutti il decreto per i rifiuti in Campania. Ma questo atteggiamento ci caratterizzerà anche per il 2011, consapevoli del fatto che sarà un annus horribilis con una probabile nuova manovra economica, con la disoccupazione in aumento e i tagli per tutti i settori. In questo quadro siamo pronti a sostenere quelle riforme, delle quali si parla da anni, per rilanciare il Paese. Pensare a un federalismo, così come è stato immaginato dalla Lega, non ha senso e i decreti attuativi rischiano di cominciare a produrre effetti nel 2017-2018. A quella data ci sarà un altro Paese e la riforma sarà ovviamente superata. Con gli altri gruppi del Polo della Nazione adotteremo una politica comune in Aula». E a questo proposito D’Alia ne delinea la strategia parlamentare: «Otre al pronunciamento sui singoli provvedimenti, ci proponiamo di costruire un’area di responsabilità, che si collochi all’opposizione, ma senza alcun atteggiamento pregiudiziale e con la precisa volontà di contribuire con una proposta politica sempre più forte alle scelte più importanti che riguardano le riforme e le scelte chiave per il Paese».

Antonio De Poli, portavoce nazionale dell’Udc

Stiamo costruendo un vero partito popolare di Franco Insardà

ROMA. «Il bilancio del 2010 è sicuramente positivo per il nostro partito». Il portavoce dell’Udc Antonio De Poli non ha dubbi sul lavoro svolto. Onorevole De Poli di che cosa è più soddisfatto? II partito sia a livello nazionale che locale ha saputo rinnovarsi per guardare al futuro. Qual è stata la strategia adottata? Dopo l’azzeramento di tutte le strutture territoriali, voluto dal coordinamento nazionale e realizzato dal segretario Lorenzo Cesa, abbiamo registrato una grande apertura di nuovi soggetti politici che volevano entrare a far parte di questo progetto dell’Udc verso il Partito della Nazione. Di quali soggetti parliamo? A quelli costituenti (Udc, Rosa Bianca e circoli Liberal) se ne stanno aggiungendo altri: associazioni cattoliche sia sul territorio sia a carattere nazionale, movimenti civici e socioculturali. E la strada che continua... Oggi c’è l’ulteriore novità del nuovo Polo nel quale sono confluiti anche Fli, Api, Mpa e altre forze politiche. Un 2010 molto dinamico. È stato un anno caratterizzato da una

grande discussione interna e contrassegnato da tantissimi appuntamenti: da Todi a Chianciano, da Milano a Roma, dal Nord al Sud. Proprio per costruire un vero progetto politico. Un vero Partito della Nazione. Esatto. E a questo aggiungerei il buon risultato ottenuto alle Regionali, quando ancora una volta abbiamo dimostrato di avere un partito ben strutturato e un elettorato ben distinto sia dal centrodestra, sia dal centrosinistra. Una distinzione che rispecchia anche l’impostazione diversa nel costruire il partito. Sicuramente è più semplice fondare un partito salendo su un predellino, o facendo un’assemblea straordinaria. È più difficile con un percorso democratico, così come stiamo facendo noi. Perché avete fatto questa scelta? Abbiamo ritenuto fondamentale la condivisione del progetto e la trasparenza dei processi democratici interni. E stiamo realizzando tutto questo partendo dai coordinamenti comunali, fino a quelli nazionali. Un lavoro che ha bisogno di tempo ed energie per organizzare tutto, ma che oggi è giunto nella sua fase finale.

Ci spieghi nel dettaglio. Abbiamo avviato un percorso di adesione innovativo al quale possono partecipare nuovi soggetti politici, culturali e sociali che si concluderà il 31 di gennaio del 2011. E poi? Partiranno i congressi territoriali fino a quello nazionale che si può ipotizzare sarà celebrato verso la metà dell’anno prossimo. Come ha risposto il territorio a questo nuovo progetto politico? Come spesso accade, quando ci sono delle novità si registrano entusiasmi, ma anche qualche chiusura da parte di chi è abituato a ragionare con la vecchia logica della politica. Per fortuna gli entusiasti sono in e noi maggioranza guardiamo avanti confortati dall’attenzione che viene rivolta a noi e al nuovo Polo che abbiamo contribuito a formare. L’univa vera novità all’interno del panorama politico italiano.

Qual è il vostro rapporto con i giovani? Qualcuno si meraviglia che al nostro partito si avvicinano tanti giovani. Invece il rinnovamento che abbiamo messo in atto ha contribuito a coinvolgere le nuove generazioni che vogliono fare politica non con degli slogan e degli spot, ma su cose concrete per il loro futuro. Secondo lei che cosa attrae i giovani? Penso sia piaciuta proprio la scelta di azzerare tutte le cariche e di presentarci alle elezioni da soli per difendere i nostri ideali. Oltre, ovviamente, ai progetti concreti che stiamo portando avanti. In questi giorni non sono mancate le critiche agli studenti. I giovani hanno una tale energia che hanno la necessità di trovare dei riferimenti che li possano accompagnare in un percorso formativo. Oggi, purtroppo, manca qualsiasi tipo di politica che dia delle risposte serie alle nuove generazioni.


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La favola di un re potentissimo che non sa affrontare il suo declino

C’era una volta la belle epoque berlusconiana... di Enzo Carra

era una volta......Un re! Diranno subito i nostri lettori. No, avete sbagliato: c’era una volta un presidente del consiglio potentissimo, ricchissimo, divertentissimo. Tanto potente, ricco, divertente che gli italiani ne avevano subito il fascino e, inavvertitamente, molti di loro da cittadini s’erano fatti sudditi. Subivano quel potere perché, dicevano, di un potere c’è sempre bisogno e non c’è alternativa ad esso e comunque quel potere non ci fa paura. Altri governi - che pure per qualche tempo si erano insediati - tramontarono presto e quando si parlava di cambiare sempre si diffondeva la preoccupazione dei ”salti nel buio”. Troppi rischi.

C’

La ricchezza del presidente poi, beh! quella era un miraggio, e una sicurezza. Chi non avrebbe voluto essere come lui? Inoltre, un uomo così straordinariamente ricco non avrebbe mai avuto bisogno di rubare che, coi tempi che correvano, e corrono, è già una garanzia. Divertente poi, eh sì! Mai una battuta fiacca, una barzelletta che non faccia ridere e, infatti, a sentirlo il popolo rideva fino alle lacrime. Ricco e generoso. Non soltanto per l’enorme quantità di energie e di tempo spesa nei molti anni a servizio dell’Italia. C’era anche un altro aspetto della sua generosità che colpiva profondamente gli italiani. Il presidente aveva intorno a lui, di giorno e di notte, celebri attrici, modelle dalle lunghe gambe affusolate e giovanissime esordienti nel mondo dello spettacolo. E poi scrittori, musicisti, conduttori televisivi, buffoni. Insomma, il presidente poteva svagarsi come e quando voleva con la compagnia meglio assortita che girasse nei teatri e negli studi cinematografici e tv. Poteva goderselo lui quell’ininterrotto, geniale

spettacolo. Tenerle tutte per sé quelle ragazze seducenti, ascoltarla lui quella musica, ridere con il suo seguito ai monologhi dei comici, limitare alla sua stanza la circolazione di voci e di pettegolezzi per poi, evidentemente, sfoderarle lui, quando gli fosse parso e piaciuto.

E invece no: grazie alla sua generosità tutto quel ben di Dio, donne e barzellette, imitatori e favorite, veniva offerto al pubblico televisivo. Cioè al popolo. Si chiederanno i lettori, quel re, pardon, quel presidente che fa oggi? Oggi che è un po’ meno sicuro del suo potere di quanto non lo fosse ieri e il suo governo dispone di una maggioranza che gli viene assicurata da alcuni passaggi di campo, nuovi acquisti alla Scilipoti. Tranquilli, altri sono in arrivo con la riapertura del mercato a gennaio, confida il presidente. Il quale sa, però, che gli acquisti che possono fare di una squadra un candidato allo scudetto sono quelli che costano molto, in denaro o in investimenti. Lui, al Milan, difficilmente prenderebbe a parametro giocatori a fine carriera. Forse è per questo che Berlusconi insiste tanto nel negare di aver dato vita a un nuovo tipo di calcio mercato. Se è complicato vincere un campionato di calcio, lo è ancor di più mandare avanti un paese. I lettori si chiederanno a questo punto: stando così le cose è mai possibile che non spunti un’alternativa valida e credibile a questo governo? Possibile che non si faccia avanti un leader capace di sconfiggere il Cavaliere? In verità - Prodi a parte nessuno in tanti anni (dal ’94 in poi) ci ha mai provato sul serio. Eppur si muove. Inaspettatamente, dopo le elezioni del 2008, il giorno dopo essere salito sullo

scranno più alto di Montecitorio, Gianfranco Fini ha rivaleggiato con il suo ormai ex alleato. Da cofondatore ad oppositore il passo non è poi tanto breve. Fini lo ha compiuto però, coscienziosamente, fino in fondo. Per mesi e mesi è andato avanti uno scontro interno al Pdl, con Berlusconi che proclamava una verità e l’altro che lo smentiva un secondo dopo (a proposito: complimenti all’ufficio stampa del presidente della Camera per la sua occhiuta tempestività). Come si dice: dài oggi, dài domani Berlusconi che non è stupido ha capito l’antifona e ha chiesto a brutto muso al suo cofondatore: ma ce l’hai con me? E in quel momento a Fini non gli è sembrato vero di potergli rispondere che non ne poteva più del ruolo che l’altro gli aveva cucito addosso. Di notabile, politicamente scolorito e ”scaricato”.

La replica del presidente della Camera non è mica andata giù al Cavaliere e c’è stato quell’episodio emozionante con Fini che si alza dalla sua poltrona rossa dell’Auditorium di via della Conciliazione e gli va sotto al suo ex socio: che fai mi cacci? Gli chiedeva, con aria perfida e strafottente muovendo la mano destra ad indicare l’uscita di sicurezza. Le immagini erano eloquenti, le volontà dei due ben radicate e senza alternative al divorzio (uno più, uno meno). Eppure, nel paese che è sommessamente tollerante e incline al compromesso si è andata ripetendo per settimane e settimane che no, il Cavaliere non ha mai cacciato nessuno.Vedrete che Fini ci ripensa, eccetera. L’altro, invece, il Cavaliere ha sottovalutato la separazione. Tanto dove vai?, ha pensato di Fini e inoltre si è poi saputo che quelli che conoscono meglio il presidente della Camera avevano soffiato sul fuoco, per cacciarlo, e intanto giuravano al loro nuovo Capo, loro che di un Capo hanno sempre un forte bisogno, che ”non c’è problema”

Una serie di ritratti di Berlusconi, dalla celebre bandana (indossata per nascondere i postumi di un trapianto tricologico) alle corna nei summit. La cura maniacale dell’immagine è stata una delle costanti della sua stagione

lascialo perdere, gli sussurravano, chi vuoi che lo segua? Al contrario, la separazione (e dàgli con le separazioni che costano tanto a Berlusconi!) ha avuto conseguenze ben più rilevanti e insidiose. Rapporti finiti per sempre, che poi in politica fine è una parola impronunciabile, epperò il Cavaliere la pronuncia e finge di aver già assorbito la lacerazione della sua maggioranza e la fine del popolo della libertà, nel senso del partito unico dei moderati come lo voleva lui, il fondatore e anche lui, il cofondatore, ma siccome simul stabunt simul cadent, ecco qua che il popolo come formazione unificante non unifica più. Il Cavaliere comunque, grandissimo nel bluff, fa le facce di uno che tira dritto e si ripropone ad ex alleati, intenzionato a sedurli di nuovo, ma non attrae più. Perché se uno continua a dare stangate in giro, alla fine uno si rende conto che dirgli di sì è una prova di dabbenaggine, se non proprio di fesseria. Per un uomo politico passare per fesso è molto peggio di sbagliare linea, non azzeccare un’analisi, mancare di lucidità, rimanere isolato.Tutto si spiega, o si può spiegare. Ogni errore ha una sua riparazione. In politica notoriamente si vince e si perde. Ma fesso, no. Quel giudizio è imperdonabile, senza appello. Peggio, quasi, di finire nel pur odiatissimo girone dei menagramo. No, forse è peggio, e il Cavaliere che sa bene quanto conti la jella nel suo

mondo dello spettacolo non ha previsto che la fesseria in politica mette più paura.

C’era una volta un presidente, cari lettori, che sapeva prevedere e prevenire. I sondaggi, lui, ce li aveva in testa. Meglio dei suoi sondaggisti. Le attese della gente le conosceva benissino («So quello che gli italiani vogliono»), e anche le sue paure («Quelli sono comunisti»). Cari lettori, non è che si sia spenta la capacità d’antenna del presidente. Diciamo che entra in panne molto più frequentemente d’un tempo. C’è da credere che la grandissima stima di cui gode possa giocargli


un anno decisivo

23 dicembre 2010 • pagina 17

Dal Ccd al Polo della Nazione: storia di un percorso coerente

La Grande Discontinuità: oltre i cartelli elettorali Le elezioni del 2008 hanno rappresentato lo spartiacque. Ora sta nascendo una nuova era politica e costituzionale di Francesco D’Onofrio e elezione politiche del 2008 hanno rappresentato un vero e proprio spartiacque per quel che concerne la cultura politica ed istituzionale di fondo del Ccd. Questo partito era nato infatti all’inizio del 1994, nello stesso giorno (18 gennaio) in cui era nato il Partito Popolare Italiano fondato da Luigi Sturzo con il famoso appello ai “Liberi e Forti”. Orgogliosamente fu affermato che dalla Democrazia cristiana – che era stata demolita nel corso del biennio di tangentopoli – nascevano due gemelli: il Ccd da un lato e il nuovo Ppi dall’altro. In quella nascita il Ccd conservava gelosamente l’origine democristiana, pur non distinguendo a sufficienza tra il centro geometricamente inteso e il centro quale cultura moderata di governo per l’Italia. Il Ccd infatti vedeva proprio in Forza Italia il soggetto destinato ad esprimere certamente una propria vocazione elettorale maggioritaria, ma cercava allo stesso tempo di salvaguardare il concetto stesso di alleanza politica, forte soprattutto della propria discendenza democristiana, nel ricordo che proprio la Dc aveva concorso a far nascere il Partito popolare europeo. Degasperiani dal punto di vista della laicità dello Stato; europeisti convinti quali parte costitutiva del Ppe; moderati nella proposta politica complessiva, soprattutto per quel che concerne la struttura economica e la politica sociale. Queste erano le caratteristiche fondamentali del Ccd. Nel corso degli anni, sul tronco del Ccd si sono venute innestando alcune culture politiche comunque provenienti dall’esperienza storica della Democrazia cristiana (quale il Cdu e De), ed altre culture politiche, le une molto sensibili alla dimensione sociale dell’ispirazione cristiana (quale il Family day) e le altre protese alla ricerca della compatibilità tra cultura liberale ed esperienza cristiana.

L

dei brutti scherzi. Prendiamo Bossi: chiede le elezioni e il Cavaliere manco gli risponde, è convinto gli basti il solito invito a casa, per cena. Chissà, forse ha ancora ragione lui circa il rapporto con la Lega. Una giocata e via! Quello che non s’aspettava, il presidente, è il nuovo Polo che si è appena presentato agli italiani. Un’operazione che per prima cosa ha l’effetto di rendere più complessa e difficile la manovra di scioglimento della Camera. È presto per parlare di un nuovo ”soggetto politico”, come si dice in casi del genere, ma è comunque assai più che un insieme di parlamentari che vengono da esperienze diverse e che, addirittura, sono stati eletti in poli che si opponevano nelle elezioni del 2008. Si può dire che allora un terzo polo - un polo di centro - c’era già, ed era quello dell’Udc. Neanche Pier Ferdinando Casini nel suo ottimismo (della volontà) all’indomani delle elezioni che pure avevano decretato la rinascita del Centro immaginava di essere raggiunto da Fini, Bocchino, Granata e altri. Meno di lui lo pensava il Cavaliere il quale, invece, oggi deve fare i conti con uno schieramento di forze cospicuo, mobile, pragmatico. Una forza che toglie dalla sua secchezza il partito democratico di Bersani. È ancora lunga la strada che porterà ad alleanze e a progetti condivisi. È già molto, moltissimo passare dall’antiberlusconismo, dal niet come teoria e come prassi a

una azione parlamentare, quindi politica, in grado di incalzare la maggioranza di Berlusconi e di Scilipoti e di metterla alle strette. Tanto la maggioranza è già abbastanza stretta di suo.

C’era una volta un presidente, cari lettori, e a lui si deve molto se una forza politica che sta al centro dei due poli si è via via andata formando. Meno male che Silvio c’è, ho sentito esclamare uno dei partecipanti alla prima riunione del nuovo Polo (o polo della Nazione). Meno male che Silvio c’è: anche in questo senso il suo compito si è ormai concluso. Ora tocca a quanti hanno scelto la libertà insieme all’Udc. Da oggi non basterà opporsi al Cavaliere, addossandogli responsabilità, muovergli accuse. Non basterà dire di no al suo sorriso tentatore. Il problema sarà quello di scegliere bene i temi sui quali impegnare governo e opposizione, evitare ideolologismi e conflitti sui valori, pur nel rispetto delle diverse posizioni. Il confronto duro e con un governo che si chiamava ”del fare” e con un’opposizione che ha fin qui speso molto del suo tempo in travagli esistenziali. Questa forza si misurerà con la concretezza di cui sarà capace. Cari lettori, dite che sia troppo poco? No, che non lo dite. Stanchi come noi di quel ”teatrino” che ha annoiato gli italiani anche perchè regista e attori non erano dei ”professionisti della politica”. E si vedeva.

venta sostanzialmente Unione di centro: non si è trattato soltanto di un fatto letterale bensì di una mutazione profonda: si inizia in modo persino visibile il cammino verso l’affermazione di una cultura di governo alternativa sia al Pd sia al Pdl, perché si tende ad affermare che per il governo del Paese occorre una cultura che sappia ricercare comunque l’intesa sulle regole costituzionali fondamentali anche da parte di soggetti politici anche se questi si fanno promotori di radicali alternative di governo. Questo è il punto fondamentale che ha rappresentato il passaggio dalla ispirazione originaria del Ccd all’approdo attuale del Polo della Nazione.

Nel passaggio dalla partecipazione al governo Berlusconi all’opposizione dapprima al governo Prodi (forse non sufficientemente compresa nella sua dirompente novità) ed ora all’opposizione al governo Berlusconi, vi è pertanto un tratto fondamentale di continuità (l’ispirazione cristiana) e un tratto fondamentale di discontinuità (la cultura di governo). Si tratta di una discontinuità che l’Udc aveva posto anche in modo ripetuto nel corso della lunga legislatura 20012006, ottenendo una soddisfazione che il tempo ha dimostrato essere più formale che sostanziale. La discontinuità che oggi l’Unione di centro sta ponendo al Pdl concerne pertanto proprio la cultura di governo dell’Italia: il passaggio dalla logica del “o con me o contro di me” alla logica della compatibilità tra preventiva indicazione dell’accordo di governo e ricerca dell’intesa costituzionale anche con gli avversari politici. La discontinuità, l’Unione di centro l’ha posta anche al Pd: si tratta della prosecuzione di una pur tormentata linea del post-comunismo, o dell’avvio di una fase radicalmente nuova? Non si tratta dunque di una pigra riproposizione di una “vecchia politica”, ma di una orgogliosa constatazione che quelle che sono state presentate agli italiani quali alternative di governo erano esclusivamente cartelli elettorali capaci di competere alle elezioni per vincere, grazie soprattutto al premio alla maggioranza, ma non anche alleanze politiche composte tra soggetti politici dotati di propria individualità, ma pur sempre tesi al governo complessivo del Paese. La vicenda politico-parlamentare che si è conclusa con il successo numerico del governo Berlusconi pone dunque all’Unione di centro la sfida nuova della capacità di governo e non solo del successo elettorale. Il coordinamento parlamentare che ha dato vita a quello che è stato definito il Polo della Nazione si pone pertanto allo stesso tempo quale punto di approdo del percorso iniziato con l’Udc nel 1994 e proseguito con l’Unione di centro nel 2008.

Oggi i moderati puntano su un’idea del tutto nuova della governabilità, non sulla costruzione di un’ennesima alleanza elettorale

Nel corso di tutti questi passaggi, la proposta di governo restava quella originaria di Forza Italia, della cui adesione al Partito popolare europeo il Ccd si era fatto promotore e garante. Partito laico di ispirazione cristiana nella tradizione degasperiana ha pertanto rappresentato il punto fondamentale di continuità dell’intera esperienza del Ccd dal 1994 al 2008. Con le elezioni politiche del 2008 è avvenuto un vero e proprio salto di qualità: si è passati dalla pigra accettazione di essere un piccolo partito che concorreva al governo del Paese nella Casa delle libertà, alla orgogliosa resistenza politica al tentativo di Veltroni da un lato e di Berlusconi dall’altro, che affermavano che non vi erano soggetti politici utili diversi da Pd e Pdl. È da quel momento che, pur mantenendo la medesima sigla (Udc), si di-


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un anno decisivo

Parlano gli esperti del Lorien Pubblic Affairs: «I dati sono chiari: il bipolarismo è morto»

Il Polo della Nazione? È già al 13,3% I ricercatori: «L’Udc in continua crescita grazie alla sua coerenza politica» di Antonio Valente e Felice Meoli egli ultimi giorni, il grande disagio verso la situazione politica e verso gli attori in campo è sensibilmente aumentato; infatti lo spettacolo offerto dalla vicenda fiducia del 14, con tutto il corollario dei fatti ad esso connesso (compravendita di voti, tradimenti, voltagabbana, incidenti nelle Camere e nelle piazze) non hanno fatto altro che peggiorare l’umore e quindi i giudizi degli italiani. Si riprende leggermente il giudizio sull’operato del Governo, e di alcuni leader e dei partiti, ad eccezione di FLI e del presidente della Camera Fini. Inevitabile riconoscimento del premier Berlusconi, che nel bene o nel male è ancora una volta percepito come il “vincente” al di là delle modalità o della dimensione della vittoria.

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Tuttavia gli italiani fanno veramente fatica a capire ed accettare questa situazione: nonostante l’impressionante pressione mediatici e la pressoché totale occupazione del dibattito, si è dovuto registrare una sorta di dichiarato e volontario isolamento (terapeutico) di grandi segmenti di italiani, che dichiarano sempre più esplicitamente un distacco da tutto il contesto politico. La vicenda è stata sedimentata dalla quasi totalità dei cittadini, ma con sfumature e significati diversi. Le conseguenze sono che il giudizio è nettamente precipitato, su tutto e tutti, tranne che sul vincitore e sulle sue componenti, Governo e parti. E l’Udc, che ha affrontato questo appuntamento con grande coerenza e solidità. Prima ed importante conseguenza dell’evento è la crescita della consapevolezza circa l’inevitabilità delle elezioni: se prima del 14 avevamo rilevato un forte e deciso invito a trovare soluzioni alternative alle elezioni, oggi è esattamente il contrario. Dal punto di vista dell’orientamento elettorale, le tendenze rilevate nel corso degli ultimi mesi sono tutte confermate ed in alcuni casi accentuate. Eppure si presenta una rottura sempre più evidente dello schema bipolare: i due principali partiti (Pdl e PD) continuano a registrare una costante e progressiva riduzione dei consensi a tutti i livelli. Se alle

COME LEGGERE LE SCHEDE Istituto: Lorien Public Affaire di Lorien Consulting Criteri seguiti per la formazione del campione: sondaggio realizzato su un campione rappresentativo della popolazione maggiorenne italiana. Metodo di raccolta informazioni: interviste CATI ad un campione rappresentativo per sesso ed età. Numero delle persone interpellate ed universo di riferimento: Campione di 1.000 cittadini strutturati per sesso ed età. Data in cui è stato realizzato il sondaggio: 15/16 dicembre 2010 Metodo di elaborazione: CATI – SPSS – Intervallo di confidenza 95% Direttore di ricerca: Antonio Valente Rapporto a cura di Felice Meoli

ultime elezioni politiche, sull’onda della forzatura del voto utile, insieme erano riusciti ad aggregare circa il 60% dell’e-

lettorato e il 70% dei votanti, oggi si aggirano intorno al 54% dei potenziali votanti e ben al di sotto del 40% dell’e-

lettorato. Dopo la fiducia è da subito apparso evidente è il fenomeno dell’arroccamento e della ripolarizzazione dell’e-

lettorato più appartenente (ideologico o razionale) anche se non vi è necessariamente un recupero del valore bipolare o bipolarista: infatti, nonostante tutto, i due partiti maggiori non superano il 55% dei votanti ed il 40% degli elettori. Anche se contingente ed emozionale, il consenso al centro destra mostra una decisa inversione di tendenza: recupera il Pdl e non si conferma la tendenza ad una progressiva e costante perdita di valore della Lega, che rimane tuttavia molto al di sopra dei valori della precedente elezione. Nell’ampia e variegata area di centro-sinistra ci sono delle conferme per Pd e per SeL, mentre sicuramente da questa vicenda esce con segni negativi evidenti l’Idv (come c’era da aspettarsi). Nell’area del Polo della Nazione registriamo segnali controversi, dato anche il fatto che la novità della proposta è stata abbondantemente già assorbita dall’opinione pubblica (nonostante il lancio ufficiale del progetto e del nuovo nome). Questo è l’effetto di velocizzazione della “notizia”, data soprattutto dalla grande ed a tratti esagerata visibilità che inevitabilmente crea saturazione: se ne parla tanto e dovunque, quindi si metabolizza più rapidamente!

Seppure con valori inferiori il nuovo Polo, il Polo della Nazione, sembra comunque essere una proposta che attiva simpatie ed adesioni di una grande componente di elettorato non allineato alle due polarità principali. Con qualche punto percentuale in meno rispetto ad una settimana fa, il nuovo polo potrebbe essere scelto da quasi 1 italiano su 5. Come già rilevato negli ultimi mesi, il Polo della Nazione aggrega molto di più della somma delle singole componenti: a maggior ragione dopo la vicenda del 14 che ha visto l’indebolimento serio di uno pilastri fondanti (FLI). Ovviamente la condizione ad oggi è che il concetto vada verso una maggiore finalizzazione: si sono cominciati a delineare i contorni ma non il contenuto, gli attori ma non ancora la leadership o i programmi. Si potrebbero registrare fenomeni di disgregazione o di defezioni, così come di potenziamenti. In buona sostanza, il nuovo Polo è un concetto valido ma tutto da finalizzare!


e di cronach

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o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g

Evviva la Gustosofia, la filosofia del gustarsi le vacanze con più gusto Neve e gelo mettono in ginocchio le strade e i cieli d’Italia e d’Europa; diversi gli scali che rimarranno chiusi fino ai prossimi giorni con numerosi voli cancellati e milioni i turisti costretti a iniziare le loro vacanze natalizie in situazioni di disagio e forte stress. Ma è arrivato il momento di dire basta al nervosismo e alle facce grigie. È ora di ricreare quell’atmosfera natalizia di serenità e pace anche in vacanza. A proporre una soluzione sono gli esperti con la “Gustosofia”: un mix tra neonichilismo, buddismo zen e consigli dei nonni. Seguendo le piccole ricette degli esperti, dunque, questo Natale ci si può regalare un gusto in più. Basta uscire dalla routine lavorativa grazie alla fantasia e vivere le ferie con semplicità, seguendo il proprio istinto. Ecco dunque il decalogo: 1) gusta la vacanza in ogni momento; 2) un sorriso ti aiuta in ogni situazione; 3) riscopri la semplicità in ogni aspetto della vacanza; 4) impara ad apprezzare le piccole cose; 5) non aver paura di uscire dagli schemi imposti; 6) vivi con naturalità qualsiasi occasione; 7) non lasciarti condizionare dagli altri e dalle mode; 8) ricorda che c’è sempre una soluzione; 9) cogli il lato frizzante delle cose; 10) la qualità ti aiuta a vivere meglio.

BuonNataleatutti

L’ETICA DEL NATALE E LA POLITICA Chi mai direbbe al rutilante giorno d’oggi che sobrietà e modestia potrebbero figurare come emblema di questo Natale e di questa politica? Così che una dignitosa e composta onestà non avessero a far vergognare Chi, come il nostro Gesù bel bambinello, un dì deposto in una mangiatoia e tuttora qui a prendere per mano il resto dei poveri altri Cristi? C’è Ebenezer Scrooge, di Londra imprenditor avaro e ricco, che nella notte di Natal s’imbatte in tre anime sante che a farlo rinsavir ce la faranno. Quasi come il nostro di Macherio cavalier che, graziato in Parlamento da tre anime dannate, rinsavito ancor non è. Come nella favola di Dickens: c’è un fantasma, ch’è il passato, che a vicenda è rinfacciato. E un che gioca nel presente, ma non è sano di mente. Aria nuova nei palazzi si vorrebbe respirare. Qui per ora non è cosa che si voglia regalare. Come si potrebbe d’altronde coniugare ciò che potrebbe essere un programma di lacrime e sangue (alla Churchill), quando è così difficile trovare vero un uomo (alla Diogene)? Noi frattanto siam contenti e ci aggiriam tra shopping e sondaggi per avvicinarci a quell’ideale di civil comportamento che alcun da parte lascerà. E poiché siamo anche figli delle stelle e cimento abbiam con la robotica, saremo così in grado di sposar la cibern…etica. Nel dizionario

in opera, che vedremo nel futuro, ahimè speriam non sia che per scovar giustizia si vada a ricercar il contrario di politica. Rudolph, Dixen, Vixen, Cupid, Comet, Dazzle, Donner, Prancer e Dasher, nove son le renne di Santa Claus fidate che porteranno me a portar doni a fanciulli proprio bravi. Così che un pochino ancora sogni e speranze rimangan nei loro cuoricini candidi per giochi e magie che solo la neve riesce ancor a stupire. Ed ecco apparire la mitica pancia e la bianca barba che dalla Lapponia mantiene a leggenda. Un bambinello però s’intravede che senza vestiti ci porta la fede. Poiché gli scaramantici non amano gli auguri, a tutti in bocca al lupo, ch’è un termine politico, e tutti a festeggiare un bel Natale etico.

Edoardo Pozzani

Scherzi venuti dal freddo MAIDSTONE. Nel corso delle giornate di maltempo, la polizia del Kent ha ricevuto una chiamata di emergenza piuttosto insolita. «Non l’ho controllato per qualche ora, ma adesso ero uscita per una sigaretta e non c’è più», ha detto la donna che ha chiamato la polizia. Quando l’operatore ha però chiesto alla donna di spiegarsi meglio, soprattutto su chi fosse sparito, la donna ha spiegato: «Il mio pupazzo di neve. Pensavo che con il freddo nessuno sarebbe stato per strada. Non è una bella strada, ma non ti aspetti che qualcuno rubi un pupazzo di neve». Non è chiaro se il pupazzo sia stato abbattuto dal maltempo, oppure la donna intendeva solo ironizzare sul clima. Quel che però è certo è che la polizia non ha gradito, e la donna adesso è indagata per abuso dei servizi di emergenza. Sempre a proposito di neve, le temperature sottozero hanno creato una sorta di opera d’arte naturale in Ohio, dove il forte vento, unito agli spruzzi di acqua ghiacciata hanno ricoperto un faro sul lago Erie. Un effetto desisamente insolito, che ha imposto il lancio di un allarme per la navigazione, dato che per quanto “coreografico”, il ghiaccio ha reso invisibile la luce notturna del faro.

INDOVINA CHI HA VINTO? Pier Ferdinando Casini ha già vinto. Lo dimostrano i fatti e il fiuto politico di un uomo che, a suo tempo, ha saputo dire no prima al partito del predellino di Berlusconi e, successivamente, ha avuto il coraggio dei “liberi e forti” di sturziana memoria, di presentarsi con il suo Udc da solo alle elezioni, rischiando addirittura la scomparsa dallo scenario istituzionale e politico come accaduto a tanti altri partiti. Schema che qualche volontario e intraprendente ha con audacia riprodotto anche alle ammini-

L’IMMAGINE

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strative del 2009. A distanza di due anni, anche Fini ha dovuto prendere atto dell’inconsistenza del governo Berlusconi e del pericoloso spostamento dell’asse di governo sulla Lega Nord, vero azionista di riferimento. Casini interpreta il grido di dolore di un Sud sempre più emarginato dal contesto economico e produttivo del Paese, sa parlare la lingua della responsabilità nazionale, ricucire la frattura tra aree deboli e forti del Paese, rispettare le istituzioni e le cariche dello Stato. Casini è la politica per chi crede in essa come elemento di moderazione e di confronto tra le parti. È merito suo se in Italia è nato il Terzo Polo, ovvero la composizione di un’area deputata a garantire al Paese un periodo di governabilità capace di guardare e dare risposta ai veri problemi: economia, sviluppo, riforme. Ma, soprattutto, di ridare credibilità ad una Italia che, agli occhi dell’opinione pubblica internazionale, non ha più il credito di una volta. Se si dovesse andare alle elezioni politiche, sia data la priorità ai programmi, si raccolgano le forze e le migliori energie della società civile per assicurare una vera svolta che sia l’inizio di un periodo di crescita e sviluppo per tutti. Nessuno spazio per operazioni algebriche o a pure risoluzioni di facciata.

Enzo Fierro

Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817

BABBO NATALE ENTRA IN CARCERE ANCORA PER TROPPI BAMBINI!

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Che si neghi o meno l’esistenza di Babbo Natale, a tutti rimane però un dubbio: come è possibile che nella sola notte di Natale siano consegnati miliardi di regali in tutto il mondo? Ebbene, il tutto è opera di una grande multinazionale semi-segreta, la Santa Klaus Corporation, fondata da Babbo Natale in persona negli anni Sessanta

Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30

LE VERITÀ NASCOSTE

Sarebbe stato meglio il camino di una casa, possibilmente la loro casa, ma purtroppo per molti bambini, anche quest’anno, Babbo Natale porterà i regali dietro le sbarre di un istituto penitenziario. Sono troppi i bimbi che ad oggi in Italia si trovano ancora in carcere, insieme alle proprie mamme detenute, nonostante ciò costituisca una violazione grave della Convenzione Onu sui diritti del fanciullo.

Rossella Panuzzo, Terre des Hommes


mondo

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Mentre torna a salire la tensione fra Seoul e Pyongyang, gli Usa avvisano: «Le rivendicazioni territoriali mettono in pericolo la stabilità internazionale»

Gli atolli della discordia Da Yeonpyeong alle Malvine, dalle Curili alle Senkaku: è l’ora degli arcipelaghi contesi di Osvaldo Baldacci sole. Fazzoletti di terra in mezzo al mare. A volte sperduti, spesso disabitati, poco più che scogli galleggianti in terre di nessuno o a metà strada tra più Paesi e per questo a volte inospitali. Eppure molte di queste isole ancora oggi, nel terzo millennio, sono teatro di aspre contese territoriali, di contrapposte rivendicazioni politiche, persino di scontri armati, diventando il perno di conflitti internazionali ancor più vasti. Torna a salire la tensione nella penisola coreana e non a caso avviene ancora una volta con massicce manovre soprattutto navali. L’estremo oriente è ricco di contese territoriali e politiche che sono troppo spesso sul punto di incendiarsi. Il caso dell’isola sudcoreana bombardata dai fratelli del nord è solo l’ultimo eclatante caso di contenzioso deflagrato davanti all’opinione pubblica. Ma di casi così ce ne sono molti altri, e molti negli ultimi anni hanno portato a scintille di conflitti. In quanti ad esempio ricordano che tecnicamente la seconda guerra mondiale tra Giappone e Russia non è ancora finita? Nessun trattato di pace infatti è stato firmato, ed è colpa di un pugno di isole, le Curili. Basti poi ricordare le Falkland/Malvinas (per molte delle isole contese anche la toponomastica ha un ruolo politico e i territori in questione hanno un doppio nome) con la guerra tra Gran Bretagna e Argentina della primavera 1982. E la sanguinosa guerra tra Iran e Iraq del 1980-1988 per questioni di confine nel delta dello Shatt el-Arab.

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Ma ci sono anche altri episodi che si ricordano meno ma che non per questo sono privi di importanza. Non lontano nel tempo e nello spazio, nel luglio 2002 Spagna e Marocco sono arrivati a un passo dalla guerra per la contesa sull’Isola del Prezzemolo (Perejil o Leila o Tura), isolotto posseduto da Madrid nello Stretto di Gibilterra presso la costa africana e rivendicato da Rabat. Territorio piccolo e deserto, ma, come detto, spesso non è questo il punto. C’è una questione di or-

goglio nazionale, a volte spontaneo altre volte strumentale, e che magari può favorire corse al riarmo; c’è più spesso un problema di relazioni di cui l’isolotto finisce per essere solo la classica punta dell’iceberg; e poi c’è il valore che quel pezzo di terra assume non tanto in sé quanto per lo spazio marittimo che permette di controllare, con le sue risorse e le sue rotte. La crisi di Perejil si è conclusa con un accordo non-accordo, nel senso che è stata ristabilita la situazione precedente. E con dissidi del genere si potrebbe andare avanti a lungo, e la fine della Guerra Fredda, la nuova rincorsa alle risorse e tutto il resto sembrano aver riaperto le contese territoriali vecchio stile che per alcuni decenni erano rimaste congelate. E le controversie riguardano anche zone

anche Wikileaks sta confermando, l’asse degli interessi mondiali si sposta sempre più verso l’Asia e il Pacifico. E qui ci sono molte questioni irrisolte, anche di sovranità territoriale. A partire proprio da quelle in mezzo al mare. E non è roba da poco. Perché quelle isole possono essere spesso le tappe di importantissime rotte commerciali marittime. In particolare nei confronti della Cina, superpotenza in grande crescita e dal commercio prioritario a livello mondiale. Inoltre quelle stesse isole sono spesso approdi utili anche per il controllo geostrategico e militare di un’area molto più vasta del loro semplice terreno, grazie alle capacità di proiezione della marina. E infine alcune di queste isole hanno anche un’importanza economica legata alle

La Corea del Sud ha annunciato per oggi la più grande esercitazione terrestre della sua storia, a circa 25 chilometri dalla frontiera con la Corea del Nord. E ha cominciato ieri quella della Marina più vicine all’Italia, come il Golfo libico della Sirte o le rivendicazioni di Croazia e Slovenia. Ma torniamo ad est. Una delle aree più calde del mondo sotto questo punto di vista è senz’altro l’Estremo Oriente. Come

risorse sul loro territorio e ancor più nell’area marittima di loro pertinenza, sia per la pesca, sia per gli idrocarburi. Si aggiunga poi che la recente crescita delle regioni estremoorientali ha riportato alla luce nazionalismi e questioni irri-

Un guardiacoste giapponese naviga al largo di Uotsuri Jima, la più grande delle isole Senkaku, reclamate anche dalla Cina; donne della Corea del Sud manifestano per la pace e la cessazione del conflitto con Pyongyang; dei cittadini sfilano nell’anniversario della guerra con la Gran Bretagna per le Falkland, in nome della sovranità argentina solte, e a volte le provocazioni verso le isole, dato che sono circoscritte, possono essere un rischio politicamente calcolato per alzare la voce e provare a ottenere qualcosa. Sembra il caso dell’isola coreana di Yeonpyeong, nel Mar Giallo, quella che ha scatenato la tensione viva ancora oggi: difficilmente il Nord avrebbe bombardato la terra ferma perché questo avrebbe scatenato un’ondata di reazioni imprevedibili e costretto le forze di terra del sud ad attivarsi con effetto domino; l’isola al contrario permette di contenere la situazione, almeno fino ad un certo

punto. L’isola di Yeonpyeong si trova nel Mar Giallo subito a sud della Northern Limit Line, la linea di frontiera marittima stabilita dalle Nazioni Unite dopo la guerra di Corea (195053), ma è situata a nord del confine rivendicato invece da Pyongyang dato che dopo l’armistizio non si arrivò mai a un trattato di pace. Il controverso confine marittimo occidentale è stato teatro di numerosi scontri a fuoco tra le due marine negli ultimi 15 anni, quasi sempre presso l’arcipelago di Yeonpyeong. Nel giugno1999 in uno scontro fra navi del Nord e del Sud viene affondata una nave del Nord e muoiono decine di marinai; un nuovo scontro navale con molte vittime nel giugno 2002; un’ulteriore battaglia navale con qualche morto nel novembre 2009 al largo dell’isola di Daechong; nel gennaio 2010 scambi di artiglieria senza feriti; il 26 marzo di quest’anno nella stessa zona presso l’isola contesa di Baengnyeong l’affondamento della corvetta del Sud Cheonan in cui muoiono 46 marinai, e viene accusata Pyongyang; infine a novembre i quattro morti nel cannoneggiamento dell’isola. Il Mar Giallo poi è un elemento strategico anche per la Cina, che è l’attore-ombra dietro tutte le principali questioni. E forse non è un caso che la riaccensione di tutte le questioni territoriali sia avvenuta in contemporanea con il risveglio degli appetiti del dragone. Nel Mar


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trolla dal 1895 e le ha riavute dagli USA nel 1972, per Pechino il loro controllo vale un canale di accesso al Pacifico oltre che un altro passo verso l’accerchiamento della “provincia ribelle” Taiwan. Negli ultimi mesi un incidente con un peschereccio cinese ha scatenato una grave crisi con ondate di contrapposto nazionalismo nelle città nipponiche e cinesi, l’ipotesi di invio di truppe giapponesi nell’isola di Yonaguni, nonché ritorsioni economiche da parte di Pechino specie sull’export delle terre rare.

Giallo la Cina rivendica una “zona economica esclusiva” e contesta soprattutto la periodica presenza militare statunitense per manovre navali congiunte con Seul. Secondo la Convenzione dell’Onu sulla legge marittima, le Zone economiche esclusive (Eez) sono aree marine sulla quale un Paese ha diritti speciali per l’esplorazione e lo sfruttamento delle risorse naturali.

Le Eez si estendono per 200 miglia marine a partire dal limite delle acque territoriali di ciascun Paese. La Cina ha approvato nel 1998 una legge sulla sua Eez ma non ha trovato l’accordo con gli altri Paesi che si affacciano sull’Oceano Pacifico a causa delle diverse rivendicazioni sui limiti delle acque territoriali. Ma la Corea del Sud non ha contese marittime solo con il nord. Anche con l’al-

leato di ferro giapponese quando si tratta di territorio non si guarda in faccia nessuno. I due amici si fronteggiano a proposito delle isole che Tokyo e Seul chiamano rispettivamente Takeshima e Dokdo, due grandi scogli al limite delle acque territoriali dei due Paesi, nel mar del Giappone, dove c’è solo un presidio della guardia costiera sudcoreana e un’anziana coppia di pescatori. Seul ha persino messo a punto uno studio delle correnti marine secondo il quale le Dokdo non possono che essere della Corea del Sud. Ma la situazione resta bloccata, e ogni volta che una nave cerca di pescare o soprattutto di fare sondaggi geologici, questo è visto come una provocazione. Il Giappone poi, probabilmente perché è un arcipelago, ha contese con tutti i suoi vicini sul possesso di isole. Nelle ultime settimane in oriente si sono riaccesi i casi delle isole Curili e delle isole Senkaku, con affollate manifestazioni nazionalistiche e conseguenze sulle relazioni economiche e diplomatiche. Otto isole disabitate per un totale di sei km quadrati di superficie al sud estremo della prefettura di Okinawa nel mar Cinese orientale, le Senkaku sono la pietra d’inciampo delle relazioni tra Tokyo che al momento le amministra e Pechino e sono rivendicate anche da Taipei (Taiwan a sua volta è senz’altro la più grande e im-

portante isola al mondo ad essere oggetto di controversie territoriali, dato che la Cina la considera ancora un suo territorio). Senkaku è il nome giapponese, Diaoyu quello cinese, Tiaoyutai quello usato a Taiwan, e come al solito il nome non è solo questione di forma: poche settimane fa Tokyo ha chiesto a Google di rimuovere il nome cinese delle isole. Se-

Proprio nei giorni della crisi i marines cinesi hanno compiuto una esercitazione militare nelle acque del Mar Cinese meridionale, mostrando i progressi della forza navale cinese in costante espansione, con una corsa al riarmo specie in diretta relazione con Taiwan. D’altro canto i cinesi contestano agli americani la loro presenza in quei mari e le loro esercitazioni militari con i Paesi alleati dell’area, compreso l’ex nemico Vietnam. Alcuni osservatori internazionali hanno notato come la ripresa delle controversie territoriali nei confronti del Giappone sia andato di pari passo con l’accresciuta collaborazione Cina-Russia, ipotizzando una strategia comune Pechino-Mosca per stringere in una morsa Tokyo. Fatto sta che proprio in questi mesi la Russia ha riacceso il problema delle 56 isole Curili con una visita di Medvedev nell’arcipelago (la prima di un leader russo dal 1945), tanto da provocare come reazione giapponese (per Tokyo le isole si chiamano Territori settentrionali) addirittura il richiamo del proprio ambasciatore. Le isole di Kunashiri, Etorofu, Shikotan e il complesso di Habomai, 16 chilometri a

Spagna e Marocco sono arrivati a un passo dalla guerra per l’Isola del Prezzemolo, isolotto posseduto da Madrid nello Stretto di Gibilterra presso la costa africana e rivendicato da Rabat condo un rapporto Onu degli anni 80 queste isole si trovano in mezzo a ricche risorse ittiche e naturali, soprattutto giacimenti di gas. Se Tokyo le con-

nord di Hokkaido sono state occupate dall’Urss tre giorni dopo la resa del Giappone del 1945, espellendo 17 mila residenti giapponesi. Questo tutt’o-

ra impedisce che in quell’area sia finita la seconda guerra mondiale, in quanto non c’è un trattato di pace tra Mosca e Tokyo. In precedenza con il Trattato di amicizia del 1875, la Russia zarista aveva riconosciuto la sovranità del Giappone sull’arcipelago in cambio del controllo dell’isola di Sakhalin. Di recente Putin aveva ripreso l’offerta di Krushov di chiudere la questione restituendo Habomani e Shikotan, offerta rifiutata dal Giappone sulle cui mappe geografiche le Curili fanno parte del proprio territorio. La Russia su quelle isole ha importanti basi navali, aeree e per i sottomarini. Mosca considera i passaggi tra le isole cruciali per garantire l’operatività della sua Flotta del Pacifico nel mare di Okhotsk. Inoltre le Curili meridionali sono considerate ricche di risorse minerarie, energetiche e ittiche, e la regione circostante sarebbe ricca di petrolio non ancora sfruttato e di riserve di gas. Dal nord al sud, tutta la costa pacifica è puntellata di queste problematiche rivendicazioni che possono portare fino a “guerre calde”. La preoccupazione non è retorica, se è entrata a far parte delle dichiarazioni del ministro Usa della Difesa Gates al vertice dell’Asean: «Le dispute sulle rivendicazioni territoriali e l’occupazione degli spazi marittimi mettono sempre più in pericolo la stabilità e la prosperità regionale». Gates, riferendosi specialmente alle rotte commerciali internazionali, ce l’aveva in particolare con la Cina. Che nel sud est asiatico ha molte controversie aperte.

La Cina si oppone a diversi Stati dell’Asean e a Taiwan a proposito della sovranità su alcuni arcipelaghi contesi nel Mare della Cina Meridionale (circa 250 tra isole, scogli, barriere e banchi), in particolare le Spratleys e le Paracels, tanto per cambiare ricchi di giacimenti di gas e petrolio nonché assolutamente strategici su rotte marittime tra le più trafficate al mondo. La Cina rivendica la totalità del Mar Cinese Meridionale e anzi ambisce a estendere la sua influenza verso il Vietnam, ma Vietnam, Taiwan, Malesia, e Filippine rivendicano a loro volta la sovranità su tutte o alcune di queste piccole isole, per lo più disabitate, mentre Indonesia e Brunei reclamano il controllo di tratti di mare. Nel 1998 anche qui c’è stata una battaglia navale, stavolta tra navi cinesi e navi vietnamite, con una cinquantina di vittime. E nel 2010 i cinesi hanno imprigionato numerosi pescatori vietnamiti. Quella delle isole in giro per il mondo, e specie in Oriente, è una questione da tenere seriamente d’occhio per il prossimo futuro, e non solo da parte degli appassionati del Risiko.


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l presidente Obama, nel tentativo di appoggiare la ratifica del nuovo Start, ha sostenuto che Ronald Reagan l’avrebbe approvato. Entrambi abbiamo avuto l’onore di conoscere il nostro presidente, 40 anni fa. Io però ho lavorato per Reagan e sono sicuro che non è come dice Obama. Ci sono molte ragioni che evidenziano le fragilità dell’attuale accordo, rispetto a quelli firmati in passato da Reagan. Il primo punto è un regime di verifica inadeguato, che in aggiunta fornisce al regime del Cremlino la possibilità, mai avuta prima, di monitorare il nostro sistema di difesa strategica. Ancora più importante, il Trattato ridurrà quasi certamente la nostra capacità di disporre di un’adeguata difesa anti-misislistica. L’amministrazione vorrebbe che un Senato, dove c’è una maggioranza indebolita dal recente giudizio elettorale, votasse il più importante trattato sul controllo degli armamenti. In netto contrasto con una consolidata tradizione americana (che vorrebbe un consenso bipartisan, ndr) – una mossa che sicura-

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Caro Obama, Reagan non avrebbe firmato Il voto sulla ratifica del nuovo trattato Start divide gli Usa di Richard Perle mente Reagan avrebbe deplorato. Mai nella storia americana un Congresso diventato “anatra zoppa”, perché dominato da un partito bacchettato dagli elettori alle urne, aveva ratificato un trattato internazionale. Mai nella storia degli Stati Uniti un Senato indebolito aveva votato un trattato strategico sul controllo delle armi nucleari con l’Unione Sovietica o la Russia. Per questa ragione un gruppo di senatori repubblicani neoeletti ha deciso di inviare una lettera al capogruppo dei parlamentari democratici, Harry Reid, chiedendo poter svolgere il compito, costituzionalmente previsto, di vaglio e approvazione degli articoli del Trattato. L’amministrazione so-

stiene che il Trattato non abbia effetto sull’intero il programma americano di difesa missilistica. Sicuramente dovrebbe conoscerlo meglio. Il paragrafo Nove del preambolo stabilisce un pregiudizio contro la politica di difesa missilistica. Accetta lo status quo, mentre afferma che un futuro aggiornamento del sistema di difesa Usa potrebbe minare la «l’esistenza e l’efficacia» della forza nucleare strategica russa. Con questo improvvido paragrafo, il nuovo Start rimette in piedi il vecchio «equilibrio del terrore» della guerra fredda. E ogni tentativo degli Usa di difendere il proprio territorio o i Paesi alleati contro una minaccia missilistica russa verrebbe identificato come «destabilizzante». Limitare la capa-

cità di difesa Usa, per mantenere l’attuale livello di vulnerabilità alle forze strategiche russe, si tradurrà in una minore capacità di difesa anche nei confronti di altre minacce, come quella iraniana o nordcoreana. Si proibisce la riconversione di lanciatori offensivi in piattaforme per vettori difensivi. È prevista una Commissio-

lanciatori offensivi per test sul sistema di difesa antimissile. Il Senato dovrà valutare con grande attenzione tutti questi articoli del Trattato, per le numerose implicazione per la sicurezza nazionale. Argomenti non analizzati bene durante le riunioni della Commissione sullo Start e che possono nascondere future sorprese.

Il punto cruciale del richiamo a Reagan, fatto da Obama, è che l’approccio reganiano si basava sul detto russo «fidati, ma verifica». È proprio il sistema di monitoraggio per mezzo d’ispettori che è il punto debole dell’accordo. Non esiste alcun sistema di controllo diretto dei siti di produzione dei vettori mobili. Sono previsti pochi strumenti per la verifica di attività non dichiarate ufficialmente dai russi e che non possano essere monitorate dai satelliti o dalle ispezioni. Reagan amava trattare da posizioni di forza e questo trattato, pieno di concessioni fatte a Mosca, è una brutta copia di ciò che avrebbe fatto il vecchio presidente. Da questo punto di vista le posizioni di Obama e Reagan sono diametralmente opposte.

È proprio il sistema di monitoraggio per mezzo d’ispettori che costituisce il vero punto debole dell’accordo ne bilaterale consultiva che può introdurre ulteriori restrizioni alla capacità difensiva americana. L’articolo IX poi, prevede la condivisione d’informazioni sensibili sulle capacità operative. Un altro articolo proibisce l’utilizzo di


società

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L’importanza del Messaggio per la Giornata mondiale della Pace cristiani «sono attualmente il gruppo religioso che soffre il maggior numero di persecuzioni a motivo della propria fede»: è un’affermazione contenuta nel messaggio del Papa per la prossima Giornata della pace (1° gennaio 2011), pubblicato con il titolo Libertà religiosa, via della pace. La percezione del fenomeno non è nuova ma è cresciuta rapidamente negli ultimi anni e forse il pronunciamento papale può aiutarne il riconoscimento – fino a oggi insufficiente – nell’opinione pubblica, nei media, nel dibattito culturale e politico. La denuncia della persecuzione dei cristiani non è di parte e trova conferme in tutti gli ambienti e gli organismi internazionali che si occupano di diritti umani, dall’Osce (Sicurezza e Cooperazione in Europa) all’Onu. I rapporti di Amnesty International segnalano da due decenni il primato persecutorio dei cristiani. Il 9 e il 10 dicembre a Vienna l’Osce, che raggruppa 56 Stati, ha tenuto un convegno sulla libertà religiosa in Europa in occasione del quale l’Osservatorio sull’intolleranza e la discriminazione dei cristiani in Europa ha presentato un rapporto sugli ultimi cinque anni che ha provocato molta sensazione: vi sono segnalati casi di “rigida applicazione del principio di non discriminazione” che comportano un’oggettiva limitazione al diritto dei credenti a manifestare pubblicamente la propria fede.

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L’Osservatorio è una Organizzazione non governativa austriaca – promossa dall’agenzia «Kairòs Consulting» – che dallo scorso 30 settembre è sostenuta dal Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa e ha come coordinatore un vescovo nominato dalla presidenza dello stesso Consiglio, che al momento è l’ungherese Andràs Veres. Della discriminazione dei cristiani in Europa aveva parlato apertamente Benedetto XVI nella Westminster Hall di Londra il 17 settembre scorso, segnalando «la crescente marginalizzazione della religione, in particolare del cristianesimo, che sta prendendo piede in alcuni ambienti, anche in nazioni che attribuiscono alla tolleranza un grande valore». Il Papa teologo è attento a questo aspetto della “laicità” europea, che qualifica come “laicità negativa”, che tende cioè a escludere ogni manifestazione del religioso dalla scena pubblica puntando a un’applicazione radicale del principio di non discriminazione. È tornato sull’argomento nel libro-intervista Lu-

Se il Papa alza la voce contro la persecuzione Soltanto parlando in modo unitario si potranno fermare i massacri nel mondo di Luigi Accattoli

Una veglia di preghiera notturna in una chiesa cristiana del Pakistan: i fedeli locali si uniscono per la libertà e la tolleranza. In basso, una fedele dell’Iraq ce del mondo, segnalando la violenza che si fa al principio di libertà religiosa «quando, ad esempio, in nome della non discriminazione si vuole costringere la Chiesa Cattolica a cambiare la propria posizione riguardo all’omosessualità o all’ordinazione sacerdotale delle donne».

paesi incendiati dal terrorismo islamista: Afghanistan, Pakistan, Iraq.

Secondo lo studioso francese René Guitton (autore di Cristianofobia. La nuova persecuzione, Lindau 2010) nell’insieme del mondo sono oggi oltre cinquanta milioni i cristia-

Va sottolineato con forza anche il sostegno interreligioso: le frasi più forti contro le stragi cristiane in Iraq sono venute dall’ateneo di al Azhar Ma ovviamente la “persecuzione” dei cristiani che il Papa ha denunciato nel messaggio per la Giornata della pace è soprattutto quella dei luoghi dove l’appartenenza alle Chiese cristiane porta alla perdita di diritti fondamentali, alla prigione e alla morte. Avviene in India e in Cina, in Vietnam e nella Corea del Nord, in Arabia Saudita e – con minore intensità – in gran parte del mondo arabo, nei

ni “vittime di persecuzioni”. Il Rapporto 2010 sulla libertà religiosa nel mondo, pubblicato a fine novembre da Aiuto alla Chiesa che soffre, prende in esame 194 Paesi – cioè l’intero pianeta – e afferma che «in una sessantina di essi si registrano gravi violazione alla libertà religiosa». Dunque la forte

affermazione del Papa – dalla quale siamo partiti per questo giro d’orizzonte – ha buoni riscontri ed è bene che sia stata formulata dalla più alta autorità in campo cristiano: ma che si può fare per-

ché essa abbia la giusta efficacia nella nostra vita associata, dai media alla diplomazia? Si dovrebbe innanzitutto percorrere fino in fondo la via ecumenica: trattandosi di persecuzione dei cristiani, di tutti i cristiani indipendentemente dalle appartenenze confessionali, sarebbe bene che su questo scenario si potesse profilare l’intera cristianità. Il Rapporto sulla libertà religiosa è realizzato ogni anno da un’organizzazione cattolica che ha il riconoscimento vaticano. L’“Osservatorio sull’intolleranza e la discriminazione” è anch’esso cattolico. Altre Chiese hanno altri strumenti. Ecco il punto: urge che si proceda insieme.

Solo parlando uniti i cristiani riusciranno a farsi ascoltare. La loro denuncia, inoltre, apparirà libera da sospetto di essere una voce di parte, che agita i fatti di casa propria. Da più parti si sollecita la creazione di una Lega cristiana antidiffamazione a somiglianza di quella ebraica (l’Anti-Defamation League che esiste dal 1913): sono del parere che vada creata, ma credo che abbia senso solo se sarà ecumenica e planetaria. C’è poi la frontiera interreligiosa. «Confermiamo la nostra solidarietà con gli arabi cristiani e la più ferma condanna degli attacchi alle chiese, in Iraq e altrove» ha detto l’11 novembre il consigliere dello Sheikh di Al Azhar per il dialogo interreligioso, Mahmoud Azab. Io ritengo che sia questa – venuta dalla prestigiosa Università del Cairo – la parola più importante di quest’anno sugli attacchi alle chiese nel mondo musulmano. Donde l’insegnamento: la verifica e la denuncia delle persecuzioni sia – per quanto possibile – interreligiosa, oltre che ecumenica. Infine il voto unanime che si è avuto al Parlamento Europeo il 26 novembre sulla strage del 31 ottobre nella cattedrale siro-cattolica di Baghdad: veniva approvata una mozione che impegnava i 27 governi dei Paesi membri dell’Unione europea a premere sulle autorità irachene perché vengano intensificati “in modo drastico gli sforzi per proteggere i cristiani e le comunità più vulnerabili”. Ecco il punto: i cristiani parlino a una voce, il più possibile in compagnia di autorità religiose non cristiane, potendo così influire sulle cancellerie e i parlamenti per fermare un massacro che grida vendetta. www.luigiaccattoli.it


ULTIMAPAGINA

Primo, secondo e dolce: ecco come regalarsi, per una volta, qualche buona abitudine alimentare a Natale

Tre consigli per un cenone di Martha Nunziata ell’era del consumismo, Natale e Capodanno rappresentano le occasioni migliori per l’espressione di questo fenomeno. L’Italia tutta si sta preparando in queste ore alle festività e lo fa, spesso, nel simbolo degli eccessi più sfrenati e dello spreco, il cibo. Nonostante la crisi che morde, la tavola delle feste deve essere imbandita, e il rischio è di farsi prendere un po’ troppo la mano. Anche se c’è un’Italia che quest’anno avrà grandi difficoltà a festeggiarlo, il Natale: sette milioni di italiani vivono sotto la soglia della povertà, altro che tavole sontuosi, tortellini e panettoni. Eppure, ogni anno, durante le feste finiscono nelle pattumiere delle case 4 mila tonnellate di cibi ancora buoni.

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E allora, quest’anno, contro gli sprechi, scendono in campo gli specialisti dell’Andid, l’Associazione nazionale dei dietisti, con tre parole d’ordine per festeggiare il Natale in tempi di crisi: sobrietà, moderazione e buonsenso. Le nostre tavole dovrebbero essere imbandite con giudizio, con attenzione a non sprecare il cibo: non solo per salvare il portafoglio, ma soprattutto per salvaguardare la salute e l’ambiente, con un pensiero rivolto anche ai Paesi poveri. E i dietisti stanno cercando di coinvolgere anche il mondo della politica, per presentare una mozione parlamentare bipartisan anti-sprechi; un tentativo di sensibilizzare gli italiani, in particolare i ragazzi, alla sobrietà nei consumi alimentari e contro lo spreco e che porti ad una campagna informativa nelle scuole su questo tema. Per insegnare, già dai primi anni di vita, l’etica della moderazione. La stessa moderazione che è anche la parola d’ordine dei medici dietologi, che consigliano anche nei giorni di festa la dieta mediterranea, recentemente dichiarata patrimonio immateriale dell’umanità dall’Unesco, ma pericolosamente snobbata proprio dagli italia-

ni. La nostra dieta, infatti, è sempre meno mediterranea: si assume in media il 30% di grassi saturi oltre il limite dovuto. Per questo motivo, soprattutto nei giorni di festa, quando è più facile cadere nella tentazione del dolce, o del salato, sarebbe opportuna una maggiore

va perduta. E l’utilizzo di alimenti freschi, di stagione, che non hanno viaggiato a lungo, garantisce certamente caratteristiche organolettiche migliori e questo naturalmente a tutto beneficio della salute». Una salute che può essere salvaguardata anche facendo attenzio-

DIETETICO Anche a Natale, insomma, si può mangiare

ne a cosa si mette nel piatto: «Certamente - continua la Colbertaldo - ci sono alimenti che aiutano a mantenere pulite le arterie, come il pesce con i suoi famosi omega3, che possono essere assunti anche sotto forma di integratori, o sostanze come il resveratrolo, contenuto nell’uva rossa che è anche peraltro un potente antiossidante , in grado di frenare la produzione in eccesso di radicali liberi che si è vista accompagnarsi a tutti i processi patologici dell’organismo».

di gusto, soprattutto quando si scelgono alimenti “buoni”, e che fanno bene: il wellness e il fitness possono incontrarsi anche per il periodo di feste. Senza l’ossessione della linea, ma senza nemmeno eccedere in calorie. Ne abbiamo parlato con Patrizia Colbertaldo, esperta di nutrizione e problematiche alimentari, naturopata, e accanita sostenitrice delle nostre tradizioni gastronomiche. «La dieta mediterranea privilegia gli alimenti di casa nostra - dice quelli che da sempre produciamo e che fanno parte tradizionalmente della nostra alimentazione di paese del Mediterraneo: quindi il pesce, l’olio di oliva, la frutta e la verdura e quantitativi limitati di carne. In pratica la dieta mediterranea è la dieta delle nostre nonne, come dire che la saggezza non

E se proprio volete provare un menu di Natale alternativo, ma non troppo, ecco qualche consiglio: «Potremmo cominciare con un aperitivo a base di cruditè di verdure con salsa guacamole, involtini di bresaola e ricotta, frutti di mare e gamberetti con qualche crostino di pane integrale tostato, accompagnato da uno spumante mescolato a dei succhi di frutta fresca centrifugata o spremuta. Come primo dei tortellini in brodo, meglio se fatti in casa, con ingredienti selezionati; e per i bambini lasagne con sfoglia di farina integrale. Come secondo potremmo scegliere tra il classico tacchino arrosto e la carne usata per il brodo, entrambi accompagnati da una bella quantità di verdure di stagione. Come dolce, infine, una piccola fettina di panettone che potremo servire con un po’ di gelato alla crema». E se brinderemo con un buon bicchiere di vino rosso di alta qualità, ricco di sostanze antiossidanti, avremo la sensazione di alzarci dalla tavola di Natale leggeri, appagati e ringiovaniti nel corpo e nello spirito. Provare per credere. Bon appétit...

Come al solito le feste di fine anno, con le loro consuetudini consumistiche, rappresentano una minaccia per il nostro organismo. Abbiamo chiesto a Patrizia Colbertaldo, esperta di nutrizione, un menù «sano». Ma in linea con la tradizione attenzione all’alimentazione. Perché il confine tra gourmet e gourmand può essere sottile, e pericoloso per la salute.


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