2010_12_28

Page 1

01228

Gli occhi delle donne brillano

he di c a n o r c

del fuoco di Prometeo: sono i libri, le arti, le accademie che contengono e nutrono il mondo

9 771827 881004

William Shakespeare di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MARTEDÌ 28 DICEMBRE 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Donna dell’anno 2010 Venuta dall’Est, “das mädchen”, la ragazza, come la chiamava Kohl, è diventata la sua vera erede. Ora ha sconfitto la crisi consegnando alla Germania la leadership europea. Si può discutere il suo atteggiamento “prussiano” verso l’euro, ma non si può negare che l’Italia avrebbe bisogno di una statista come lei

Angela Merkel Dieci pagine speciali con interventi di Rocco Buttiglione, Enrico Cisnetto, Daniel Gros, Giorgio La Malfa, Roselina Salemi, Enrico Singer, Giacomo Vaciago da pagina 9 a pagina 18

Il ministro apre a Pd e finiani per approvare i decreti attuativi

Il Tribunale contro l’ex imprenditore-simbolo

Washington approva una norma che rivoluziona il fine vita

Calderoli scopre Obama a Natale il porcellum si «regala» del federalismo Condannato (senza prove) Khodorkovsky l’eutanasia

La legge secondo Putin

di Giancristiano Desiderio

di Mario Arpino

di Paola Binetti

oberto Calderoli è ministro per la Semplificazione. L’ultima sua semplificazione è questa: Casini, Fini e il Pd votano i decreti attuativi del federalismo fiscale che sono ancora in ballo e in cambio avranno la riforma della legge elettorale e magari si potrà fare anche una grande riforma costituzionale da qui alla fine della legislatura che cade nel 2013. Può darsi che il ministro leghista abbia ragione: può darsi cioè che grandi temi come il federalismo, la legge elettorale e la riforma della Costituzione si possano affrontare e realizzare con questo che possiamo chiamare “metodo Calderoli”. a pagina 7

ladri devono stare in galera». Così Vladimir Putin liquidava chi gli chiedeva quale sarebbe stata la sorte di Mikhail Khodorkovsky al termine del nuovo processo, dove l’ex patròn della Yukos è accusato, assieme al suo socio Platon Lebedev, di creazione di fondi neri e riciclaggio di denaro sporco. Il primo processo, dopo l’arresto del 25 ottobre 2003 a Novosibirsk, dove l’accusa era di evasione fiscale, si era concluso con otto anni di carcere, ridotti poi a sette, ormai quasi scontati. Il nuovo procedimento, che appare essere stato intentato con il fine nemmeno troppo recondito di dare continuità alla pena, in Occidente consolida l’impressione di un preoccupante ritorno a metodi del passato. Evidentemente, un Khodorkovsky in libertà è considerato dall’attuale regime una spina nel fianco.

embra una semplice modifica nel regolamento contenuto nel Medicare, il programma federale di assicurazioni che copre gli over 65, eppure da oggi in America si potrà morire volontariamente quando e come si vuole. Sospendendo le cure, tutte, non solo quelle salvavita, ma anche quel famoso sostegno di base che assicura per tutti noi un filo diretto con la vita, e che proprio per questo cura non è! Nutrizione e idratazione sono ancora la frontiera che separa vita e morte; eppure proprio il giorno di Natale, qualcuno parla di morte: di morte per sospensione di nutrizione e idratazione. a pagina 21

«I

R

seg1,00 ue a (10,00 pagina 9CON EURO

a pagina 3

I QUADERNI)

• ANNO XV •

NUMERO

251 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

S

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


prima pagina

pagina 2 • 28 dicembre 2010

il fatto Nessuna sorpresa da Mosca: l’ex magnate di Yukos è stato condannato proprio come voleva Putin. Ma è un processo politico

La giustizia dello Zar

Khodorkovsky è stato ritenuto colpevole, con il socio Lebedev, di furto di petrolio e riciclaggio. Rischia il carcere fino al 2017. Ma l’Ue protesta di Luisa Arezzo

erano pochi dubbi, è vero. Ma la speranza, anche in casi di dichiarata real politik come quello di Mikhail Khodorkovsky e Platon Lebedev - è sempre l’ultima a morire. E fino alla fine si è rimasti appesi all’idea, complice anche una dichiarazione di Igor Iourguens, consigliere di Dmitri Medvedev, (secondo cui «l’assoluzione sarebbe una sentenza che potrebbe considerarsi non solo giusta, ma anche pragmatica e razionale sotto tutti i punti di vista») che il verdetto avrebbe potuto prendere un’altra piega, che il Cremlino avesse giocato delle carte importanti a favore dell’ex oligarca. Ma così non è stato. E l’ex patron di Yukos, assieme al suo braccio destro Platon Lebedev, è stato riconosciuto colpevole di aver sottratto alla propria compagnia centinaia di milioni di tonnellate di petrolio. Un reato per il quale l’accusa ha chiesto 14 anni, ma ci vorrà ancora qualche giorno (forse alla fine della settimana, ma non è escluso uno slittamento a gennaio) per conoscere la pena detentiva

C’

inflitta, visto che il giudice deve prima procedere all’intera lettura delle motivazioni della sentenza prima di proclamare il verdetto conclusivo. Quel che è certo, è che nessuno dei due sarà libero per il voto presidenziale del 2012. E questo è già un fatto. Come se non bastasse, dopo questa nuova e pesante condanna per Khodorkovski, tanto per sovrammercato, la polizia ha ricevuto l’ordine di arrestare una

Arrestati almeno 20 manifestanti radunati davanti al tribunale russo. Il loro slogan: «Ognuno di noi può diventare Mikhail» ventina di manifestanti che contro questa condanna stavano protestando fuori del tribunale. Insomma, benvenuti a Mosca: dove il processo/test sullo stato della democrazia del paese è giunto al suo tragico epilogo, negando il diritto a un processo

equo. Pesantissima la voce della Germania, che ha affidato al ministro degli Esteri, Guido Westerwelle, il suo commento: «Il modo in cui il processo è stato condotto è estremamente dubbio e rappresenta un passo indietro sulla strada per la modernizzazione del paese». Anche l’algida Catherine Ashton, Alto rappresentante della Ue, è intervenuta sulla vicenda affermando che «L’Unione Europea si attende dalla Russia il rispetto dei suoi impegni internazionali in materia di diritti umani e dello stato di diritto».

La condanna, in questo clamoroso processo durato 22 mesi, sembra dunque confermare come molti continuino a considerare Khodorkovsky una minaccia e cerchino di impedire il suo rilascio previsto nel 2011. Khodorkovsky, lo ricordiamo, sta già scontando una condanna di 8 anni emessa nel 2005, ma che risale al suo arresto nel 2003. Se fosse stato riconosciuto non colpevole sarebbe stato rimesso in libertà nel 2011, un anno prima delle

elezioni presidenziali russe. E questo andava evitato. Osservatori di tutto il mondo hanno ampiamente criticato la persecuzione giudiziaria contro Khodorkovsky evidenziandone in più di un’occasione i reali motivi: l’eliminazione di un avversa-

rio politico e lo smantellamento della Yukos, oltre che l’espropriazione dei beni dell’ex magnate per un valore superiore a 30 miliardi di dollari. Le motivazioni politiche della detenzione di Khodorkovsky si sono palesate in un’intervista all’ex Primo Ministro russo Mikhail Kasyanov pubblicata dal Financial Times nel 2009 e ribadite pochi mesi fa durante la sua testimonianza al processo. Per la prima volta, Kasyanov ha rivelato i dettagli delle conversazioni che ha avuto a porte chiuse con l’allora Presidente russo Vladimir Putin. Secondo Kasyanov, durante un incontro privato avvenuto al Cremlino nel luglio 2003, il presidente Putin ha detto che Khodorkovsky aveva «superato ogni limite» sostenendo alcuni partiti politici senza il suo permesso. E senza tante perifarsi, nel corso dell’udienza del 24 maggio scorso, Kasyanov ha affermato in tribunale che sia il processo in corso che quello precedente contro Khodorkovsky e Lebedev avevano


prima pagina

28 dicembre 2010 • pagina 3

l’analisi La sua colpevolezza non è mai stata dimostrata in modo inequivocabile

L’oligarca che non molla e turba i sonni del potere A sinistra: Khodorkovsky e Lebedev durante il processo. A destra: i genitori dell’ex patron di Yukos. Nelle altre foto: sostenitori dell’imprenditore

Spina nel fianco del regime di Putin e Medvedev, l’ex imprenditore è diventato un simbolo di Mario Arpino

ladri devono stare in galera». Così, giorni or sono, Vladimir Putin liquidava chi gli chiedeva quale sarebbe stata la sorte di Mikhail Khodorkowsky al termine del nuovo processo, dove l’ex patròn della Yukos è accusato, assieme al suo socio Platon Lebedev, di creazione di fondi neri e riciclaggio di denaro sporco. Il primo processo, dopo l’arresto del 25 ottobre 2003 a Novosibirsk, dove l’accusa era di evasione fiscale, si era concluso con otto anni di carcere, ridotti poi a sette, ormai quasi scontati. Il nuovo procedimento, che appare essere stato intentato con il fine nemmeno troppo recondito di dare continuità alla pena, in Occidente consolida l’impressione di un preoccupante ritorno a metodi del passato. Evidentemente, un Khodorkowsky in libertà è considerato dall’attuale regime una spina nel fianco. Vediamo perché. Putin indubbiamente ha dei meriti innegabili. Nei dieci anni dalla sua ascesa al potere, con i suoi metodi ha cercato, in parte riuscendovi, di restaurare in Russia l’autorità dello Stato, decisamente compromessa dall’ubriacatura della caduta del comunismo.

«I

una «natura politica». Non solo, Il 21 giugno 2010 German Gref, Ceo di Sberbank ed ex-Ministro dello Sviluppo Economico e del Commercio (2000-2007), ha testimoniato affermando che un’appropriazione indebita delle dimensioni di quella di cui sono accusati Khodorkovsky e Lebedev (due terzi della produzione totale di 6 anni della Yukos) sarebbe stata scoperta dal Governo e dal suo Ministero in tempo reale. Come se non bastasse, il giorno succcessivo, l’attuale Ministro dell’Industria e del Commercio, Viktor Khristenko, ha dichiarato in tribunale di non essere a conoscenza del furto delle “milioni di tonnellate” di petrolio di cui parla l’accusa. Nel frattempo la difesa aveva chiesto alla Corte di chiamare a deporre come testimone lo stesso Putin e altri importanti politici, ma senza successo. In compenso, il giudice ha trovato il tempo di leggere un dossier di 188 volumi composto principalmente da copie di documenti della Yukos scelti in modo tendenzioso. Insomma, di carne al fuoco per un legittimo sospetto ce n’è parecchia.Tanta da far almeno passare in secondo piano l’eventuale “allegra” gestione del colosso petrolifero da parte di Khodorkovsky. Messo alla sbarra per aver sfidato la Russia di Putin. Per non aver cioè aderito a quel patto che Putin aveva tentato di stringere con i magnati russi (rompendo lo schema degli anni di Eltsin in cui gli oligarchi tenevano in pugno il governo): il Cremlino non si sarebbe occupato dei loro affari in cambio di altrettanta indifferenza dei miliardari russi nelle faccende politiche. Un patto che Khodorkosky non solo non ha sottoscritto. Ma, anzi, violato, continuando a finanziare l’opposizione dopo aver creato la fondazione ”Russia aperta” per la diffusione dei valori della demo-

crazia liberale nell’accezione piú “occidentale”del termine. Acquistata per pochi centinaia di dollari grazie “agli amici degli amici”negli anni ’90, la Yukos di Mikhail Khodorkovski era arrivata, solo dopo qualche anno, a capitalizzare circa 40 miliardi di dollari. Con una capacità petrolifera vicina a quella del Kuwait.

Ma le sorti del suo patron, finito nel ciclone della battaglia giudiziaria, hanno portato la società alla bancarotta. Che ha visto l’ex gigante petrolifero passare per una lunga e difficile storia fallimentare, fatta di spezzatini e svendite, che si è chiusa circa tre anni fa con un debito complessivo di quasi mille miliardi di rubli (quasi 30 miliardi di euro). E rimborsi ai creditori che sono stati pari a solo 873 miliardi di rubli (24,3 miliardi di euro). Gran parte dei rimborsi sono finiti al fisco mentre la parte del leone, nelle aste dello “spezzatino”, l’ha fatta il gruppo petrolifero pubblico Rosneft diventando la più grande holding energetica della Russia dopo Gazprom. E consentendo la piena riuscita del disegno di rinazionalizzazione del settore voluto dal Cremlino di Vladimir Putin. Il 2 novembre Khodorkovsky ha pronunciato il suo ultimo intervento “Non sono affatto una persona idealista, ma sono una persona che ha delle idee. Per me, come per chiunque, è dura vivere in prigione, e non voglio morirvi. Ma se è necessario, non esiterò. Sono pronto a morire per ciò in cui credo. Credo di averlo dimostrato». Ieri il giudice Danilkin ha cominciato a pronunciare il suo verdetto. L’accusa ha chiesto una pena di quattordici anni - solo un anno meno del massimo consentito dalla legge russa - il che, se venisse concessa, significherebbe per Khodorkovsky e Lebedev il carcere fino al 2017.

Le improvvide lottizzazioni di Eltsin a favore degli “oligarchi”, se da un lato avevano avuto il merito di introdurre le leggi del mercato in un ambiente che da settanta anni le aveva dimenticate, dall’altro producevano impoverimento di capitali e risorse a favore dell’estero e all’interno un intollerabile squilibrio sociale, cui sinora si è riusciti a porre solo parziale rimedio. Gli oligarchi sono quindi stati il primo obiettivo da combattere, e Putin lo ha fatto con i metodi che derivavano dalla sua cultura repressiva. Medvedev, pur con metodi meno ruvidi, sta seguendo la stessa politica. All’epoca Vladimir aveva riscosso il plauso delle democrazie ed una buona dose di consenso interno, mentre lo stesso arresto di Khodorkowsky era stato ritenuto emblematico della normalizzazione nel nuovo corso. Ormai gli oligarchi erano stati piegati, e quelli più coriacei comperati da un tacito patto del tipo “voi badate ai vostri affari, cercate di passare a basso profilo e non interferite negli affari della politica. Specie di quella

interna”. Questa proposizione è ancora valida, ma Khodorkowsky non ha saputo o voluto tenere il passo e, come nelle prove per le parate militari, è stato necessario espellerlo dai ranghi. Ma la Siberia non gli ha fatto abbassare la testa: tramite i suoi avvocati ha cercato di far sentire ancora la sua voce e di intromettersi nell’equilibrio di poteri tra Medvedev e il suo predecessore. Un affronto che Putin, con la sua cultura da Kgb prima e da Fsb poi (Federal Security Bureau), non è proprio riuscito a digerire. C’era da aspettarselo, visto che i precedenti non mancano. Basti ricordare il trattamento riservato al campione di scacchi Garry Kasparov, quando nel 2008 aveva cercato di raccogliere firme per l’elezione a presidente, ma nelle fila dell’opposizione.

Kasparov non era ricco e aveva solo poche migliaia di sostenitori, mentre l’israelita Khodorkowsky nonostante il carcere continua ad essere ricco e di sostenitori ne ha alcune centinaia di migliaia, rinforzati da una opinione pubblica mondiale ormai decisamente orientata in suo favore. In realtà, i reati che gli sono imputati, per quanto gravi, sono quelli cui la nostra epoca ci ha purtroppo abituato. La biografia, in effetti, ai più può apparire come quella di un uomo d’affari certamente spregiudicato, ma anche abile, ricco di iniziativa, tenace, che ha saputo realizzare un impero importante e che, pur in tempo di crisi, ha dato lavoro a molta gente. Nei processi, la sua colpevolezza non è mai stata dimostrata in modo inequivocabile. Senza andare troppo lontano, ci sono anche altri esempi di personaggi di questo genere. In definitiva, è comprensibile che un Khodorkowsky in libera circolazione tra Mosca e Pietroburgo possa ancora turbare i sonni del potere. Per Putin è certamente scomodo, e c’è addirittura chi ritiene che, a prescindere dalla sentenza, il suo destino possa essere quello di uno “scambio” con l’Occidente, sempre che ci sia materiale umano disponibile. Come, ad esempio, il trafficante di armi russo Viktor Bout, attualmente detenuto negli Stati Uniti, ma che il regime moscovita potrebbe ritenere più prudente avere sotto controllo in casa propria.

Non è escluso che venga “barattato” con Viktor Bout, il trafficante d’armi detenuto negli Usa che il regime moscovita ritiene più prudente avere sotto controllo in casa propria


pagina 4 • 28 dicembre 2010

l’approfondimento

La lunga marcia di Vladimir, che dopo l’introduzione della nuova legge elettorale ora guarda alla presidenza nel 2012

Cosca Mosca

Può nominare e destituire governatori e sindaci a proprio piacere; ha riformato il codice penale; ha ingessato l’informazione e ha pure riabilitato Stalin. Putin ha creato un regime a metà tra una «famiglia» e una dittatura di Maurizio Stefanini ipote di un cuoco di Lenin e di Stalin, figlio di un agente dell’Nkvd e lui stesso dirigente del Kgb, Putin è un personaggio che quanto a prediche di affidabilità democratica non è secondo a nessuno. «Chiunque abbia nostalgia dell’Unione Sovietica non ha cuore. Chiunque desideri che venga ristabilita non ha cervello». «La storia dimostra che tutte le dittature, tutte le forme autoritarie di governo sono transitorie. Soltanto i sistemi democratici non sono transitori». Non a caso, di recente si è scandalizzato per l’arresto di Assange: «atto ipocrita e antidemocratico». A parte il recod mondiale di giornalisti ammazzati in Russia: oltre 200 dal 1992; la simpatia per Assange è stato subito seguita da questa nuova pesante condanna per Khodorkovski; Insomma: da bravo allievo della scuola Kgb, Putin si rivela un maestro nell’arte machiavellica del “dissimulare”. Infatti, non solo ha mantenuto in tutti questi

N

anni il guscio del regime pluralista. Addirittura, quando è arrivato il limite costituzionale dei due mandati presidenziali, non ha fatto riforme costituzionali alla Chávez per farsi eleggere una terza volta: si è accontentato di fare il primo ministro, passando la mano a Medvedev. Ma questo guscio della democrazia, certo anche approfittando del caos con cui Eltsin lasciava il potere, ha iniziato a svuotarlo praticamente da subito. Presidente dal 31 dicembre del 1999, confermato dal voto il 26 marzo del 2000 e reinsediato formalmente il 7 maggio, in quello stesso mese fece la riforma con cui si attribuì il potere di destituire gli amministratori locali, che durante l’era Eltrsin si erano ritagliati uno spazio di azione sempre più importante. Sempre durante il primo mandato Putin procedette a una completa ristrutturazione di tutti i codici: da quelli fiscali e della proprietà terriera fino a quelli del lavoro, amministrativo, penale, commerciale, della procedura civile e della proce-

dura penale. Mentre emergeva una nuova élite di “oligarchi” a lui legata, e ostile a quelli che erano emersi nell’era eltsiniana: i vari Gennady Timchenko, Vladimir Yakunin,Yuriy Kovalchuk, Sergey Chemezov.

Nel 2002 durante la crisi degli ostaggi al Teatro di Mosca mostrò lo stile di uomo d’acciaio col mandare le forze speciali contro i terroristi ceceni: una operazione condotta in modo rozzo e che provocò infatti 130

«La storia dimostra che le dittature sono transitorie. Le democrazie no»

morti, ma che a un’opinione pubblica frustrata dalla sfida dei jihadisti piacque. Fu dunque pompato da una popolarità all’83% che nel luglio del 2003 iniziò l’attacco agli oligarchi eltsiniani atttraverso l’arresto a Platon Lebedev, il braccio destro di Khodorkovski. Rieletto nel 2004 col 71% dei voti, Putrin accentuò la stretta dei mass media. Nel settembre del 2004, approfittando della crisi degli ostaggi di Beslan, riprese l’attacco a un sistema di autonomie

sulla cui inefficienza era stato facile scaricare la responsabilità del dramma: accorpando le entità federate, e sostituendo l’elezione dei governatori con la nomina dall’alto. Putin ha cura di presentare questa manovra in una chiave di “assolutismo illuminato” alla Pietro il Grande, cui seguono infatti subito il Programma che nel 2005 promette massicci stanziamenti nei campi di sanità, educazione, edilizia popolare e agricoltura, e l’altra riforma che pure nel 2005 trasferisce le carceri dalla competenza del ministero dell’Interno e quella del ministero della Giustizia. Ma nel contempo prosegue l’offensiva contro Kodorkovski, anche al costo di demolire gli asset della Yukos. All’arresto di Lebedev l’oligarca ha risposto creando quella fondazione “Russia Aperta” che ha nel board Kissinger e Lord Rotschild; come obiettivo strategico dichiarato quello di far attecchire nel Paese i valori della liberal-democrazia occidentale; come strumento tattico il finanzia-


28 dicembre 2010 • pagina 5

Nelle «disavventure» legali di Khodorkovsky la parabola del nuovo potere russo

Storia di un mostro giudiziario (con il nuovo Kgb in tribunale)

Due processi e decine di accuse, sempre diverse e in contraddizione. Nessuna possibilità di difesa equa: uno scandalo che porta al Cremlino di Laura Giannone l “caso Khodorkovsky” ha avuto inizio nel 2003 quando il magnate russo, ex proprietario della Yukos e il suo socio, Platon Lebedev, vennero arrestati sulla base di accuse che, con effetto retroattivo e giuridicamente immotivato (tanto da far gridare all’arresto politico), portarono all’istruzione di un processo per «violazioni gravi delle leggi fiscali e di quelle legate alle regole per la privatizzazione». A conclusione del procedimento, caratterizzato da gravi e riconosciuti vizi procedurali, il 16 maggio 2005 i due uomini d’affari vennero entrambi riconosciuti colpevoli e rinchiusi in Siberia per scontare nove anni di detenzione. Nel settembre 2005 l’udienza d’appello di Khodorkovsky contro il verdetto di colpevolezza si risolse con il rigetto del ricorso, fatta eccezione per la diminuzione della pena da nove a otto anni. «Non solo non sono colpevole, ma il crimine non è mai stato commesso - affermò allora Khodorkovsky - e la mia colpevolezza non è stata provata da un tribunale, ma da un gruppo di burocrati».

I

L’obiettivo del processo d’appello in quel caso sembrò davvero essere quello di privare Khodorkovsky del suo diritto di candidarsi alle elezioni della Duma, assicurandosi che la sua condanna fosse confermata entro una precisa data nell’ambito del calendario elettorale, che si rivelò essere il giorno dopo la sentenza impugnata. Insomma, sarà pure una coincidenza, ma è un dato di fatto che in quel caso le autorità eliminarono qualsiasi possibilità per Khodorkovsky di essere eletto alla Duma. Nel 2007, dopo quattro anni di carcere, quando entrambi avrebbero avuto diritto alla libertà vigilata secondo quanto previsto dal diritto e dalle procedure russe, emersero nuove accuse di «appropriazione indebita e di riciclaggio di denaro», in piena contraddizione rispetto alla precedente sentenza. E come denunciato dai governi (o dalle opposizioni) del mondo occidentale, l’obiettivo di queste nuove imputazioni è stato quello di continuare a trattenere in carcere i due uomini, portandoli così a dover affrontare un nuovo processo, iniziato nel marzo del 2009 e ora in fase conclusiva. L’accusa ha chiesto 14 anni per entrambi gli imputati ovvero, considerando il periodo già scontato, la detenzione fino al 2017. Ma

non è finita: il 5 febbraio 2007 lo Stato russo ha presentato nuove accuse contro Khodorkovsky e Lebedev, contestando l’appropriazione indebita di 350 milioni di tonnellate di greggio, ovvero l’equivalente della produzione della Yukos in sei anni per un valore di circa 25,4 miliardi dollari e il riciclaggio di denaro derivante dalla vendita di tale quantità di petrolio. Tali accuse si contraddicono con quelle del primo processo e non hanno alcun riscontro fattuale

L’accusa ha chiesto 14 anni per i due imputati. Contando gli anni già scontati, resteranno in carcere fino al 2017

né legale. Rispondendo alle accuse di appropriazione indebita, Khodorkovsky ha invitato la Procura a presentare delle prove per dimostrare la scomparsa di 350 milioni di tonnellate di petrolio, ma senza successo. Eppure, per un periodo di undici mesi, dal 21 aprile 2009 al 29 marzo 2010, l’accusa ha continuato a presentare le prove a sostegno della sua tesi. Ma di queste, nessuna ha dato prova né di appropriazione indebita né di riciclaggio. Dal 5 aprile 2010 al 29 settembre 2010 la difesa ha presentato la sua tesi. Fino al 30 aprile 2010 Khodorkovsky ha risposto personalmente alle accuse, ma senza validi motivi legali la Corte ha impedito alla difesa di presentare ulte-

riori prove e di chiamare testimoni ed esperti a deporre. Il giudice ha sempre rifiutato le istanze della difesa mirate a rendere più equo il processo. Come denuncia la Ong Memorial e il quotidiano Novaya Gazeta (quello su cui scriveva Anna Politkovskaya), testimoni ed esperti sono stati minacciati direttamente e indirettamente dagli investigatori e dagli avvocati dell’accusa per influenzare le loro deposizioni o impedire loro di presentarsi in tribunale.Tuttavia, gli imputati hanno reso pubbliche le loro tesi attraverso la pubblicazione in rete di alcuni documenti, per dimostrare l’iniquità del giudice.

Attualmente Khodorkovsky e Lebedev sono sottoposti ad un regime di detenzione preventiva che prevede restrizioni e limitazioni sia per le visite dei famigliari sia per gli incontri con gli avvocati. Tali restrizioni, unite ad una esposizione minima all’aria e alla luce solare e insufficienti opportunità per l’esercizio fisico, rendono il regime di detenzione preventiva piuttosto duro, sia fisicamente che psicologicamente. Le misure di detenzione imposte a Khodorkovsky e Lebedev contraddicono le leggi di procedura penale, la Costituzione e gli obblighi internazionali. Inoltre dall’aprile 2010, in base agli emendamenti all’articolo 108 del codice penale russo e del codice di procedura penale, la detenzione preventiva è esclusa per le persone accusate di alcuni reati economici, tra cui quelli addotti nell’attuale processo contro Khodorkovsky e Lebedev. Tali riforme della legge sono il risultato degli sforzi del Presidente Medvedev di rendere più umano il sistema di giustizia penale russo e di arginare gli abusi da parte di funzionari che usano il sistema della giustizia penale per colpire le imprese. Il mancato rispetto delle recenti riforme del sistema penale nel processo a Khodorkovsky mettono in luce l’abuso perpetrato dal tribunale non solo nei confronti degli imputati ma anche nei confronti della legge. Dal 14 ottobre 2010, dopo oltre un anno e mezzo dall’inizio del processo, 280 giorni di udienze, 210 volumi di documenti processuali, 81 testimoni (52 citati dall’accusa e 29 dalla difesa) è iniziata la fase delle arringhe finali, conclusasi in novembre. Ieri il verdetto.

mento alle forze dell’opposizione. Senza distinzione: i liberali di Yabloko come i comunisti. Qualcosa sarebbe andato perfino a Russia Unita di Putin, ma per condizionarla. «Mi sono sempre considerato un uomo della squadra di Eltsin», spiegherà in seguito dal carcere. «Proprio per questo andai a difendere la Casa Bianca nel 1991 e il municipio nel 1993. E proprio per questo entrai nello stato maggiore informale della campagna elettorale del 199596». Ma il 25 ottobre del 2003 all’aeroporto di Novosibirsk gli agenti dell’Fsb circondano l’aereo di Khodorkovsky, per trarlo in arresto. Il 31 ottobre tutto il pacchetto azionario della Yukos è congelato, con l’accusa di evasione fiscale. E il 31 maggio del 2005 arriva la condanna. Al carcere di Krasnokamensk, una regione della Siberia al confine con la Cina, deve passare otto ore al giorno a cucire guanti, e gli è vietato incontrare giornalisti. “Democrazia Sovrana”, è il nuovo slogan con cui Putin inizia a definire il suo regime dal febbraio del 2006. Il 7 ottobre del 2006 è assassinata la giornalista Anna Politkovskaya, proiettando l’attenzione mondiale sulle sempre più precarie condizioni di indipendenza dei media.

Nel giugno del 2007 Putin propone un nuovo manuale di storia per le scuole in cui Stalin è riabilitato come leader «crudele ma di successo». Nel dicembre del 2007 Russia Unita prende il 62,24% dei voti alle politiche. In un quadro di dipendenti pubblici, medici condotti, perfino studenti che sui blog denunciano di essere stati minacciati di licenziamento o bocciatura se non andranno a votare per Putin. Elettori cui dopo il voto è stata offerta una visita medica specialistica, come a Omsk; o una seduta con uno psicologo, come nella regione del Volga; o un taglio di capelli, come a Kemerovo; o un biglietto per una lotteria con primo premio un’auto, come a Novgorod. I 95mila seggi elettorali dove si offrono salame, formaggio, cioccolato, caviale, concerti. I 450mila “controllori” mobilitati per garantire l’ordine, più di quattro a seggio, di cui il quotidiano di opposizione Kommersant denuncia che si tratterebbe in realtà non di poliziotti, ma di agenti del servizio segreto Fsb. I vari leader dell’opposizione mandati a passare qualche giorno in galera. I 100mila Nashi: gruppo giovanile putiniano sfacciatamento foraggiato col denaro pubblico e protagonista di spedizioni squadriste contro oppositori e perfino diplomatici. La nuova legge elettorale che sopprime quei 225 seggi uninominali di cui ben 100 al voto del 2003 erano stati vinti da indipendenti e candidati di partiti minori. Dall’8 maggio del 2008, come ricordato, Putin passa a Primo Ministro. Ma la sua presa sul Paese, se possibile, si accentua.


diario

pagina 6 • 28 dicembre 2010

Benzina record a 1,50 euro al litro

Giustizia in ritardo, ergastolano libero

ROMA. Continuano ad aumentare i prezzi dei carburanti e nelle regioni meridionali la benzina arriva a sfiorare quota 1,50 euro al litro. Secondo il monitoraggio di «Quotidiano energia», tre compagnie hanno ritoccato i prezzi di benzina e diesel, aumentandoli di un centesimo (Ip) e di 0,5 centesimi (Tamoil e TotalErg). Sul territorio poi ci sono «rialzi generalizzati sui prezzi medi» e valori che, nella media nazionale, superano per alcuni marchi 1,47 euro per la benzina e 1,35 per il gasolio. In alcuni impianti al Sud «la verde sfiora quota 1,50 euro, mentre il diesel si avvicina a 1,38». In particolare, la media nazionale dei prezzi della benzina va dall’1,454 euro degli impianti Esso all’1,474 della Tamoil.

Ancora allarme nelle ambasciate

REGGIO CALABRIA. Un condannato all’ergastolo per reati di mafia legati all’inchiesta sulla faida di Sant’Ilario, che nella Locride ha provocato diversi omidici, è tornato libero per scadenza dei termini di custodia cautelare. Giuseppe Belcastro, 50 anni, condannato all’ergastolo dalla Corte d’assise d’appello di Reggio Calabria il 3 marzo del 2006, ieri è stato scarcerato e avviato a pena alternativa in una casa di lavoro di Sulmona, perché i motivi della sentenza d’appello sono stati depositati in ritardo, quattro anni e mezzo dopo la sentenza del marzo 2006. Per la stessa rgaiuone è uscito dal carcere anche di un altro imputato del processo per la faida di Sant’Ilario, Luciano D’Agostino, condannato a 15 anni.

ROMA. Ancora pacchi bomba nelle ambasciate. Riparte la psicosi nelle sedi diplomatiche di Roma, dopo che giovedì scorso 23 dicembre, due pacchi bomba rivendicati da un gruppo anarchico, erano esplosi presso l’ambasciata svizzera e quella cilena a Roma, provocando il ferimento grave di due persone. Stavolta è toccato alla Grecia. Ma allarme bomba, ancorché infondato, è stato anche al Venezuela, alla Danimarca, al Principato di Monaco, alla Finlandia, all’Albania. Per tutta la mattina, di ieri si sono rincorsi allarmi su plichi sospetti che hanno richiesto l’intervento di artificieri e vigili del fuoco. Tutti falsi allarmi. Tranne il caso greco dove è stato trovato un plico che conteneva un ordigno pronto per esplodere.

Gian Luca Galletti dell’Udc analizza lo studio del Pd sulla perdita di 445.455.041 euro in 92 capoluoghi di provincia

Quando i conti non tornano Il pasticcio della riforma fiscale (e dell’interpretazione dei suoi costi) di Franco Insardà

Secondo lo studio realizzato dal senatore Marco Stradiotto il comune de L’Aquila perderà 26.294.732 euro pari al 66 per cento delle risorse. Gli aquilani dal 2014 pagheranno, 188 euro di Imu, mentre oggi per ognuno vengono dati al Comune 548 euro

ROMA. Per Roberto Calderoli conviene votare il federalismo fiscale: può essere un viatico per entrare al governo (offerta destinata all’Udc), può essere la merce di scambio per ottenere la riforma elettorale (avance per il Pd, che invece il federalismo l’ha sempre appoggiati). Ma ad andare a vedere il bluff, si scopre che quest’apertura nasconde una minaccia, quella di andare al voto. Ma più che le opposizioni, il governo dovrà convincere gli enti locali della bontà del progetto. E non basterà certamente l’obolo di quasi un miliardo (900 milioni di euro) stanziato alle Regioni per il trasporto pubblico locale. Sulle barricate ci sono soprattutto i Comuni. Il parlamentare del Pd, Marco Stradiotto, analizzando i dati della Commissione tecnica paritetica per l’attuazione del federalismo fiscale (Copaff), ha calcolato che la perdita di risorse per i servizi essenziali per i 92 capoluoghi di provincia presi in esame, nel passaggio dai trasferimenti statali all’autonomia impositiva prevista dalla riforma, sarà pari a 445.455.041 euro. Stradiotto sottolinea le forti disparità tra Sud e Nord, con l’unica eccezione per la Sardegna. Napoli e L’Aquila sono le città che avranno la maggiore penalizzazione.

Per Gian Luca Galletti dell’Udc, componente della commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale, i dati dei quali si discute «tecnicamente sono un’altra cosa, nel senso che si tratta di un confronto tra i trasferimenti dello Stato e il totale del gettito delle imposte devoluto in base

al decreto attuativo sul fisco comunale. Il senatore Stradiotto è una persona seria e capace, ma l’interpretazione di quei dati è fuorviante. Anche perché lo stesso esponente del Pd nella sua relazione ha sottolineato che quei dati si basano sugli attuali trasferimenti».

La posizione dell’Udc su questa riforma è stata sempre molto chiara, perché come chiarisce Galletti «diciamo dall’inizio della discussione sul federalismo, che mancano i numeri per fare qualsiasi previsione e non abbiamo novità. È una situazione pericolosa, perché si tratta di un vero e proprio salto nel buio, perché si è partiti dalla parte sbagliata. Bisognava prima disegnare lo stato federale, decidere di chi

erano le competenze e poi fare il federalismo fiscale. Le stesse norme non possono valere per comuni di 34 abitanti e per città come Roma. Diventa una sfida impossibile».

Intanto l’iter parlamentare della riforma continua e, precisa ancora Galletti, «entro il 28 di febbraio dovremmo licenziare il decreto attuativo della fiscalità comunale, ma questa norma apre un’altra serie di problemi collegati alla cedolare secca del 20 per cento sugli affitti. Su questo noi dell’Udc siamo d’accordo, come tutti i partiti, ma costerà una cifra stimata di oltre un miliardo e mezzo. Se lo si inserisce nello schema legislativo sulla fiscalità comunale e lo si fa entrare in vigore già dal 2011, di fatto la copertu-

ra dovrà essere a carico dei comuni, indebolendoli ulteriormente. Su questo siamo contrari e proponiamo lo stralcio dal decreto, perché riteniamo che la copertura economica non possa essere addebitata ai comuni, già in difficoltà per erogare i servizi essenziali. Se togliamo altri due miliardi saranno costretti a chiudere».

Secondo la proiezione fatta dal senatore Stradiotto L’Aquila, ma anche Napoli come molti comuni del Sud perderebbero consistenti fette di entrate (fino al 60 per cento) con il nuovo fisco. Il comune de L’Aquila perderebbe 26.294.732 milioni, seguito di poco da Napoli con 392.969.715, essendo però il comune che riceve i trasferimenti statali più alti rispetto a tutti gli

altri capoluoghi italiani (668 euro per abitante di fronte a una media di 387 euro). Se il decreto sul federalismo municipale verrà approvati il capoluogo abruzzese incasserà 13.706.592 di euro di tasse a fronte di 40.001.324 di trasferimenti avuti nel 2010. Gli aquilani dovrebbero pagare, infatti 188 euro di Imu (l’Imposta Municipale Unica: una tassa unica che comprende la gran parte delle imposte per i servizi locali), mentre attualmente per ognuno di loro vengono dati al Comune 548 euro.

Mentre Napoli incasserebbe 252.054.150 euro, ma nel 2010 ha avuto trasferimenti per 645.023.865. Anche Roma perderebbe 129.540.902 euro (il 10 per cento delle entrate).


28 dicembre 2010 • pagina 7

Caldoro smentisce Berlusconi «Tre anni per pulire Napoli» NAPOLI. Ci sono ancora oltre 1.500 tonnellate di immondizia nelle strade di Napoli. L’obiettivo del Comune è quello di operare un prelievo straordinario di 300 tonnellate per poter arrivare a Capodanno con la città pulita o quasi. Ma comunque la situazione è ancora molto difficile a Napoli dove le tensioni sono sfociate nuovamente in violenza. Un folto gruppo di persone nella notte ha accerchiato e danneggiato i mezzi dell’Asia. Finestrini rotti e ruote bucate o sgonfiate. Nonostante il raid, 5 autocompattatori sono riusciti a sversare 850 tonnellate, ma le quantità di sacchetti che finiscono a Chiaiano non servono a ripulire la città. Anche il lavoro dell’esercito sembra vano quando tutto ciò che è stato raccolto non ha una destinazione certa. Le discariche sono quasi sature, gli Stir, dopo la chiusura per festi-

Calderoli scopre il porcellum del federalismo di Giancristiano Desiderio vità, non riescono a smaltire la giacenza. Forse anche per questo Stefano Caldoro, governatore pdl della Campania, ha docuto smentire Silvio Berlusconi che a più riprese aveva promesso di risolvere la crisi napoletana prima in pochi giorni: «Completeremo il programma del ciclo integrato dei rifiuti fra tre anni», ha ammesso Caldoro. «È evidente che bisogna realizzare nuove discariche e una nuova impiantistica intermedia di trattamento meccanico».

Va meglio, invece ai municipi del Nord o Olbia, con un alto tasso di seconde case avvantaggiati dalla base immobiliare delle nuove imposte.

Questi numeri hanno, com’era prevedibile, scatenato la polemica. Il presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, commentando i risultati di un’indagine di Confartigianato sui costi e le spese delle amministrazioni ha detto: «Anche secondo questo studio la Lombardia è la Regione più virtuosa di tutte, dal momento che a ogni cittadino è chiesto annualmente un contributo di 61 euro per il funzionamento delle istituzioni locali, contributo che scende a 21 euro all’anno se si considera il solo prelievo per il funzionamento dell’amministrazione regionale. Sono dati che collocano la Lombardia in posizione nettamente migliore rispetto a tutte le altre Regioni italiane comprese le più virtuose. Per questa ragione ribadisco con forza che non è giusto né accettabile trattare tutti nello stesso modo, enti e amministrazioni virtuose ed enti che creano solo del deficit e sprecano risorse. È del tutto inaccettabile la logica dei tagli lineari che purtroppo è la regola nel nostro Paese e in Europa quando si deve contenere la spesa pubblica; tagli lineari che mettono sullo stesso piano chi ha fatto del risparmio la propria stella polare e chi no. Occorre finalmente - ha detto ancora Formigoni - quello che viene chiamato federalismo, ma un federalismo autentico e non solo di facciata, un federalismo che sia premio ai virtuosi e non invece un cambiamento di qualche regola perché tutto rimanga come prima. Ecco perché la Lombardia continuerà’ a incalzare e se necessario anche a polemizzare all’interno della Conferenza Stato Regioni, come abbiamo fatto in questi mesi differenziandoci anche da altri perché la riforma federalista sia autentica e incida concretamente nella partita del dare e dell’avere». E l’ex governatore del Veneto, Giancarlo Galan, attuale mini-

stro delle Politiche agricole, avverte: «Attenti al federalismo solidale. Non è certamente questa la soluzione giusta, il federalismo deve basarsi anzitutto sul principio della responsabilità. Se fosse come dice il Pd sarebbe un gravissimo errore. Ma se da una parte è vero che i Comuni vanno messi nella condizione di amministrare bene la soluzione non può essere il federalismo solidale. Dal documento del Pd emerge chiaramente il timore che venga meno il federalismo solidale, in pratica, si sostiene che non arriverebbero ad alcuni comuni del Sud le risorse necessarie per amministrare bene. Il federalismo non deve diventare un alibi per le regioni del Sud incapaci per non fare la loro parte».

Più della metà delle imprese lombarde chiede la riforma per contrastare il fenomeno mafioso

Nelle foto: dall’alto, Marco Stradiotto, Roberto Formigoni, Giancarlo Galan e Gian Luca Galletti

Intanto da un’indagine dell’Ufficio Studi della Camera di commercio di Monza e Brianza, che ha coinvolto circa 1000 imprese lombarde, dal titolo “Economia, crisi e illegalità”, emerge che più della metà delle imprese lombarde chiede il federalismo per contrastare il fenomeno delle organizzazioni criminali di stampo mafioso in Lombardia. Un fenomeno che preoccupa soprattutto in relazione alla crisi che, per oltre il 90 per cento degli imprenditori lombardi, «ha avvantaggiato mafia e ’ndrangheta offrendo un più facile credito e possibilità di commesse e lavoro». E per circa la metà degli imprenditori lombardi una maggiore trasparenza nella Pubblica amministrazione è il mezzo più efficace per arginare la tentazione di scendere a patti con mafia e ’ndrangheta, anche se quasi 1 imprenditore su 3 ritiene che un presidio del territorio da parte delle Forze dell’Ordine funzioni da deterrente contro le infiltrazioni a stampo mafioso. I più convinti del federalismo come ricetta anti-criminalità sono gli imprenditori di Varese e Como, mentre a Milano e a Monza si punta sulla trasparenza nella Pubblica amministrazione. e al presidio delle Forze dell’Ordine.

oberto Calderoli è ministro per la Semplificazione. L’ultima sua semplificazione è questa: Casini, Fini e il Pd votano i decreti attuativi del federalismo fiscale che sono ancora in ballo e in cambio avranno la riforma della legge elettorale e magari si potrà fare anche una grande riforma costituzionale da qui alla fine della legislatura che cade nel 2013. Può darsi che il ministro leghista abbia ragione: può darsi cioè che grandi temi come il federalismo, la legge elettorale e la riforma della Costituzione si possano affrontare e realizzare con questo che possiamo chiamare “metodo Calderoli”, tuttavia c’è davvero qualcuno disposto a credere che oggi si possa fare quanto non si è fatto ieri? Perché ieri no e oggi sì? Il “metodo Calderoli”, in fondo, altro non è che la prosecuzione in altro modo del tentativo necessario di allargare la maggioranza di minoranza uscita dal voto del 14 dicembre. È questa la nuova data che condiziona tutta la politica italiana e in particolar modo la immobile attività di governo.

R

La Lega e il partito di Berlusconi non temono il voto anticipato. Almeno questo è il pensiero che ci si preoccupa di diffondere a piene mani. La Lega ha chiesto più volte il voto e anche dopo il 14 dicembre ha detto che è meglio ritornare al giudizio degli elettori. Anche il presidente del Consiglio ha sempre posto la secca alternativa: o questo governo o il voto.Tuttavia, sia il partito di Bossi sia il partito di Berlusconi lavorano per evitare o allontanare il ritorno alle urne. Si può dire che con la mano destra indicano le urne e con la mano sinistra le allontanano. Il governo è stretto in questa morsa: la volontà o l’illusione di fare e la volontà o l’illusione del voto anticipato. In mezzo a queste due volontà illusorie c’è il tempo presente che è speso nei tentativi, in vero improvvisati e non privi di contraddizioni, di allargare ciò che resta della maggioranza. Il federalismo, che era il primo e più importante dei punti del programma di governo, è stato declassato a materia di trattativa e compromesso per provare a tirare a campare e comunque per spostare più in là il momento del ritorno al voto. Il compromesso elettorale è la pietra angolare su cui riformare la Costituzione secondo Calderoli. Il ministro leghista si spinge a dire che “sarà guerra” se i decreti attuativi non dovessero avere i voti necessari per passare: come se fosse dovere dell’opposizione dare alla maggioranza i voti che non ha per approvare il punto più qualificante del suo programma di governo. C’è qualcosa che non torna: anche la più lineare e semplice delle semplificazioni ha i suoi limiti. C’è una verità che era valida prima del 14 dicembre e resta valida dopo: il dovere di governare. Il federalismo, le legge elettorale e le riforme sono materia di governo. Però, siccome il governo è un governo di minoranza, ecco che la materia che deve governare diventa materia di trattativa per restare a galla. Il governo decisionista diventa governo trattativista (neologismo orrendo ma efficace).


economia

pagina 8 • 28 dicembre 2010

Nuove polemiche dopo l’accordo su Mirafiori. Il Lingotto rallenta in Borsa ROMA. Il mercato saluta l’ennesimo strappo tra la Fiat e la Fiom. E se l’accordo su Mirafiori firmato venerdì sera ha fatto aprire ieri mattina il titolo del Lingotto in aumento del 2 per cento, poco però ha potuto quando la Cina ha annunciato restrizioni al settore. Nel corso della giornata l’azienda torinese ha visto progressivamente assorbire i guadagni – per sprofondare sotto il 3 per cento – dopo che Pechino ha comunicato le ultime mosse nella guerra all’inflazione: nuovo innalzamento dei tassi d’interessi e – ad hoc per le quattro ruote – balzelli per limitare le immatricolazioni delle auto.

Gli analisti consigliano a Sergio Marchionne di non derubricare i flussi di ieri come un gioco di rimbalzi. Soprattutto perché ieri è passato di mano almeno l’uno per cento del capitale complessivo. Il timore, infatti, è che il mercato sia stia riposizionando in prospettiva del 2 gennaio, quando sarà quotata sul mercato la Fiat Industrial, il marchio che controllerà la produzione di camion, mezzi industriali e veicoli commerciali. Se gli investitori non hanno ancora le idee chiare, chiarissime sembrano le intenzioni dei sindacati. Soprattutto quelle bellicose dei metalmeccanici della Cgil. L’accordo per Mirafiori prevede un investimento da un miliardo per il sito torinese, la produzione a regime di 280mila vetture l’anno, il pieno utilizzo degli impianti su sei giorni lavorativi e 40 turni settimanali, 3.700 euro in più all’anno in busta paga con 200

Cgil contro Fiom: è guerra sulla Fiat Cremaschi avverte Camusso: «L’unica risposta a Marchionne è lo sciopero» di Francesco Pacifico

Sergio Marchionne è in rotta di collisione con la neo-segretaria della Cgil, Susanna Camusso ore di straordinari, pause più corte e disincentivi alla malattia. Ma il punto più controverso è che quest’accordo – firmato oltre il perimetro di Confindistria e del contratto nazionale dei meccanici – garantisce piena agibilità sindacale soltanto alle sigle che lo firmano. Tanto basta per acuire l’isolamento nella Cgil, confederazione che nell’ultimo biennio ha fatto della centralità del contratto un mantra. Infatti lo strappo di Marchionne rischia di accelerare la resa dei conti tra corso d’Italia e i meccanici. I quali hanno strategie diverse per uscire dall’impasse. Susanna Camusso prova a disinnescare la bomba,

provando ad allearsi con chi in Confindustria non vuole stravolgimenti sulla rappresentanza. E rilancia sui contratti dell’industria per singoli comparti. Ma la Fiom reputa blanda la strategia. Secondo Giorgio Cremaschi, «l’unica risposta alla svolta autoritaria della Fiat è lo scio-

ficializzare la sua linea dopo un direttivo che si preannuncia rovente.Ma per capire la linea, basta leggere il consiglio di Cremaschi alla Camusso: «Deve finirla di illudersi che la Confindustria isoli la Fiat». Contro la Camusso anche il numero uno di Uil, Luigi Angeletti: «Noi sindacati azien-

Secondo Maurizio Sacconi «non si può definire scellerata un’intesa che porterà ingenti investimenti e che farà scuola». FimCisl, Uilm, Ugl e Fismig accelerano per chiudere su Pomigliano pero generale È vero che l’accordo di Mirafiori è storico, ma ha un solo precedente: il 2 ottobre 1925 quando Mussolini, la Confindustria e i sindacati fascisti e nazionalisti sottoscrissero l’abolizione delle commissioni interne. Oggi Marchionne Cisl e Uil aboliscono in Fiat e Mirafiori le Rsu e le elezioni democratiche. È un atto di un autoritarismo senza precedenti nella storia della Repubblica». Domani la Fiom dovrebbe uf-

dalisti? È ridicolo. A meno che non esista una forma alternativa di fare sindacato che è quella di non fare accordi». Maurizio Sacconi – mai stato tenero con la Fiat e soprattutto con la Cgil – replica ai critici: «Come si può definire scellerato un accordo come quello di Mirafiori che porterà un investimento ingente in una città, che ha avuto il legittimo dubbio sul proprio futuro come sede di produzione automobilistica».

Secondo il titolare del dicastero del Lavoro quest’intesa «potrà fare scuola per spiegare che all’interno di cornici di carattere generale, l’azienda è destinata a essere il luogo nel quale si stabiliscono accordi che devono consentire alle parti di condividere il futuro e la crescita dell’azienda. Fatiche ma anche risultati». Intanto, parallelamente, l’azienda e i sindacati vogliono chiudere sul contratto dello stabilimento di Pomigliano. Da oggi sono in programma una serie di incontri ai quali non parteciperà la Fiom, che non ha firmato la prima intesa per dare il via alla newco che assumerà 4.600 lavoratori. Al centro delle ultime trattative salari, orari, scatti di anzianità e diritti sindacali, nella speranza – spiegano da Fim, Uilm, Fismig e Ugl – «di chiudere entro la fine dell’anno». Giovanni Sgambati, segretario di Uilm Campania, promette che «con Fiat lavoreremo per costruire un contratto collettivo aziendale per Pomigliano, migliorativo dal punto di vista normativo e salariale sia del contratto nazionale sia degli accordi nazionali di gruppo». Quindi un messaggio alla Fiom: «Non siamo più disposti a tollerare altre organizzazioni sindacali che continuano a lucrare sulle rendite del nostro lavoro contrattuale. Troppe volte ci siamo assunti l’onere di responsabilità che dovevano essere comuni per poi subire l’onta dei “critici d’arte” di parte sindacale».

Gli fa eco il segretario generale della Fismic, Roberto Di Maulo: «Il contratto collettivo della newco di Pomigliano sarà migliore del contratto nazionale dei metalmeccanici. Dobbiamo definire le regole normative e retributive che saranno contenute nel contratto collettivo di Pomigliano indispensabile per le assunzioni. Se non si realizza un contratto collettivo, la Fiat procederà a un regolamento aziendale unilaterale e questo il sindacato non può permetterlo. È prevedibile che il nuovo contratto contenga regole più vantaggiose per i lavoratori di quelle previste dal contratto dei metalmeccanici». Di diversa idea sono Michele Gravano e Alberto Tomasso, segretari della Cgil di Campania e Piemonte: «È evidente che la Fiat non c’è più: la firma di Mirafiori dimostra il disegno di Marchionne di creare le condizioni per annullare le differenze che ci sono tra produrre in Italia o in qualsiasi altro Paese, organizzando aziende individuali come Pomigliano e le Carrozzerie di Mirafiori che avranno contratti uno diverso dall’altro».


Donna dell’anno 2010

An ge l a M er k e l Perché abbiamo scelto la Cancelliera tedesca

La ragazza che veniva dall’Est è diventata la vera erede di Kohl. E oggi ha sconfitto la crisi consegnando alla Germania la leadership europea

L’Italia avrebbe bisogno di una statista come lei di Enrico Cisnetto ngela Dorothea Merkel merita senza dubbio la definizione di “donna dell’anno”. In particolare, la merita proprio quest’anno, in cui è stata oggetto di pesanti attacchi in Europa. E la merita proprio in nome dell’Europa, di cui la cancelliera tedesca non è affatto nemica come si vuol far credere, scambiando certa inflessibilità – sacrosanta – per anti-europeismo. D’altra parte, il vertice Ue, che si è svolto tra giovedì e ieri, s’è incaricato di dimostrare questo assioma: la Germania è saldamente alla guida di Eurolandia, semmai sono i paesi meno virtuosi – non a caso, quelli da cui partono le accuse alla Merkel – che minano la moneta unica e con essa l’intero impianto continentale.

A

Guardiamo in faccia la realtà: il processo di cambiamento dei paradigmi dell’economia mondiale s’innesca nel lontano 1989, quando con la caduta del Muro di Berlino e la fine del comunismo organizzato si chiude la stagione degli assetti geopolitici stabiliti a Yalta e se ne apre un’altra, caratterizzata negli anni successivi dall’impetuoso affermarsi della globalizzazione, della rivoluzione tecnologica che trasforma l’economia da“analogica”a“digitale” con l’avvento della cosiddetta “new economy”, della finanzia- Tutto cominciò rizzazione (i cui eccessi faranno nel lontano scoppiare la bolla speculativa 1989, quando nel 2007). Cui, per quanto riguarla caduta da l’Europa, si aggiunge l’arrivo dell’euro. In una prima fase, nel del Muro Vecchio Continente l’affermarsi chiuse la di queste novità sembrano esau- stagione aperta rirsi nel solo progetto della “mo- a Yalta e ne aprì neta unica”. La Germania è quella di Helmut Kohl, che di quel una nuova progetto è padre e fondamentale realizzatore, anche perché egli lo associa, dandogli una dimensione storica ancora maggiore, all’unificazione tedesca. L’europrogetto è però monco della parte politico-istituzionale, e finisce per essere incapace di superare le asimmetrie che i diversi membri del club della moneta unica avevano al momento della sottoscrizione del patto di Maastricht. Anzi, con il passare del tempo quelle diversità non sono certo diminuite grazie al Patto di stabilità “cretino”– nel senso di rigido, di non adattabile, modulabile – e poi si sono clamorosamente accentuate, sul piano della finanza pubblica, con la crisi mondiale degli ultimi tre anni. In questo scenario, in cui l’Europa gode solo in misura parziale della grande fase di espansione dell’economia mondiale che, con qualche piccola parentesi (per esempio, la breve recessione americana del 2001), è durata dall’inizio degli anni Novanta fino al 2007, l’unico paese che capisce, seppure anch’esso con ritardo, il “cambiamento epocale”in atto è la Germania. Si tratta della Germania unificata che si affida, come spesso ha fatto dal dopoguerra in poi, all’Spd, e in particolare al cancelliere Gerhard Fritz Kurt Schröder, che guida il paese dal 1998 al 2005. Ecco, è in questa fase che si avvia una trasformazione del capitalismo renano che è conseguenza della comprensione di ciò che era accaduto e stava accadendo all’economia mondiale, e in particolare in merito alla sfida che i paesi emergenti (allora Cina e India erano tali, oggi noi continuiamo erroneamente a chiamarli così, ma sono già emersi da tempo) portano sul terreno della competizione tra produzioni industriali. segue a pagina 18 28 dicembre 2010 - liberal - pagina 9


DONNA DELL’ANNO 2010

Così “das mädchen” ha conquistato l’Europa “La ragazza”: così la chiamava Helmut Kohl. Lei, in vent’anni ha bruciato tutte le tappe del potere. Figlia di un pastore luterano e di un’insegnante di inglese e latino, è cresciuta secondo una regola imparata da piccola: «La dignità è il miglior abito che una persona possa indossare» di Enrico Singer utto quello che Wikileaks ha trovato d’imbarazzante su di lei è il dispaccio di un diplomatico americano che l’ha definita «dura come il teflon», «per niente disposta a prendere rischi» e «poco creativa». Nella tempesta delle rivelazioni online sui governanti di mezzo mondo dipinti come incapaci, affaristi, inaffidabili, quando non semplicemente nemici della democrazia, i difetti attribuiti ad Angela Merkel basterebbero già per farle meritare il titolo di donna dell’anno. Ma c’è dell’altro. Molto altro. Perché se la Germania è arrivata dov’è oggi lasciandosi definitivamente alle spalle i problemi della riunificazione, se è uscita per prima dalla crisi economica mondiale e ha superato in tasso di crescita ad-

T

pagina 10 • liberal • 28 dicembre 2010

dirittura gli Stati Uniti, se in Europa nulla succede senza la sua approvazione, una grossa parte di merito spetta proprio a lei. A quella che, nel 1990, Helmut Kohl – che la scoprì, appena sbarcata dall’Est - chiamava das mädchen, la ragazza. Parte da lontano Angela Dorothea Kasner, figlia del pastore luterano Horst Kasner e di sua moglie Herlind, professoressa di latino e d’inglese, che l’hanno educata al rispetto di regole interiori precise. La prima delle quali è che «la dignità è il migliore abito che una persona possa indossare». E che i risultati si ottengono soltanto lavorando sodo. Col tempo ad Angela Merkel – che porta ancora il cognome del primo marito, Ulrich Merkel, sposato 1977, a soli 23 anni, e dal quale ha divorziato nel 1982 – sono stati affibbiati molti soprannomi. C’è chi l’ha ribattezzata Frau Nein, la signora no, per la sua caparbia opposizione ad ogni allentamento delle norme del Patto di stabilità che sostengono l’euro. C’è chi rivede in lei il decisionismo dell’ex premier britannico, Margaret Thatcher, e ne parla come di una nuova Lady di ferro. C’è chi non ha condiviso il suo appoggio alla guerra in Iraq e l’ha definita una americana in Germania. Ma non si capisce chi è davvero questa donna che in soli vent’anni di carriera politica ha

bruciato tutte le tappe del potere, se non si parte da Quitzow, un paesino di trecento abitanti nella regione di Prignitz, nel Brandeburgo, che si trovava allora nella Repubblica democratica tedesca.

Qui suo padre si trasferì da Amburgo, dove Angela Dorothea era nata tre mesi prima: il 17 luglio del 1954. Potrebbe sembrare strano che un pastore luterano abbia lasciato Amburgo – nella Repubblica federale tedesca – per passare nella zona orientale del Paese governata da uno dei più duri regimi comunisti di stretta osservanza sovietica. Soltanto nei primi cinque mesi di vita di Angela ben 180mila persone fecero il percorso inverso, fuggendo dallo “Stato socialista dei lavoratori e dei contadini”. Ma nella Rdt, dove le chiese erano considerate “relitti di un ordine sociale borghese e reazionario”, c’era una drammatica carenza sia di preti cattolici che di pastori protestanti e in molti si spostarono da Ovest a Est per missione evangelica. Qualcuno, anche, perché s’illudeva che, nonostante tutti i problemi, nella Rdt fosse possibile realizzare una sorta di cristianesimo delle origini, basato sui principi socialisti. Non si sa se la pensava così anche Horst Kasner che di questo non ha mai voltuo parlare. Fatto sta

che, nel 1958, Kasner si trasferì di nuovo con la moglie e con la piccola Angela. Questa volta a Templin, nella regione di Uckermark, a circa 80 chilometri da Berlino, sempre all’Est, dove andò a dirigere il “Collegio pastorale luterano”. Anche lui si guadagnò un soprannome: Kasner il rosso, che la dice lunga sui suoi tentativi di dialogo con il regime. Divenne persino membro del consiglio direttivo di una “fratellanza”di pastori – il Circolo di lavoro del Weißensee – che era nell’orbita delle autorità comuniste. Uno dei più documentati biografi di Angela Merkel – Gerd Langguth, anche lui esponente della Cdu – ha scritto che «il fatto che la famiglia Kasner avesse addirittura due automobili a disposizione è la prova che il pastore collaborò attivamente con il regime». Una tesi mai dimostrata e che Angela Merkel ha sempre smentito.

Sua madre Herlind che, in quanto moglie di un pastore, non poteva insegnare in una scuola statale, la incitava costantemente a primeggiare, a essere migliore degli altri, per non essere esclusa. E lei seguì il consiglio. Aveva ottimi voti in quasi tutte le materie, ad eccezione della ginnastica, ma non era considerata una secchiona e lasciava copiare i suoi compagni. Un anno vinse anche le “Olimpiadi di russo”, lingua che era obbligatorio imparare nella Germania Est e che ancora oggi parla alla perfezione tanto da avere sorpreso lo stesso Putin. Sia durante gli studi universitari di fisica, a Lipsia, che nel periodo trascorso all’Accademia delle Scienze a Berlino Est, è stata iscritta all’organizzazione giovanile della Sed – il partito comunista – che si chiamava Fdj, sigla che significa “Libera gioventù tedesca”. Qualcuno so-


Angela Merkel dell’Iraq descrivendola come una «azione inevitabile» e accusa Schröder di anti-americanismo. Critica anche il sostegno del governo di allora all’ingresso della Turchia nell’Unione europea: la Merkel preferisce una“alleanza privilegiata”tra Ue e Turchia, una posizione che rispecchia il pensiero di molti tedeschi e che Angela segue tutt’ora in sintonia con il presidente francese, Nicolas Sarkozy.

stiene che Angela sia stata anche una agitprop, un addetto alla propaganda, ma lei lo ha sempre negato nel modo più assoluto dicendo di essersi occupata soltanto di organizzare spettacoli teatrali e manifestazioni sociali. Del resto, l’iscrizione alla Fdj era una condizione necessaria per poter studiare. Angela si laureò nel 1978 con una tesi sulle «Costanti di velocità nelle reazioni elementari dei carboidrati semplici». E trovò subito un lavoro da ricercatrice nella prestigiosa Accademia delle Scienze. Nel 1977 si era già sposata. A soli 23 anni, vestita di blu, si era unita in matrimonio nella chiesetta protestante di Templin con il suo collega di studi Ulrich Merkel. Ma dopo appena quattro anni, era già divorziata. Siamo nel 1982. Il vero amore, quello che dura anche oggi, è arrivato alla metà degli Anni Ottanta, con il pro-

È la sua Germania che sopporta buona parte del pacchetto anticrisi e per questo Angela pretende austerità in cambio degli aiuti e arriva a proporre la perdita del diritto di voto per i Paesi non virtuosi fessore Joachim Sauer, chimico di fama mondiale, che era stato il consigliere accademico del suo dottorato. Dopo avere vissuto insieme per oltre 17 anni, si sono sposati nel 1998 per mette-

re fine ai mugugni crescenti nella Cdu. Non hanno figli e Joachim Sauer nella vita pubblica è un’ombra discreta.

La sua storia politica comincia la sera del 9 novembre 1989, quando si diffondono prime le voci sulla caduta del Muro. Angela Merkel, come tutte le settimane, è alla sauna con un’amica. Soltanto a tarda notte fa un giro nel settore occidentale, finalmente aperto senza più checkpoint, ma torna subito indietro perché l’indomani deve alzarsi presto per andare al lavoro all’Accademia delle Scienze. Anche nei mesi precedenti, scanditi dalle dimostrazioni di piazza contro il regime comunista, il suo interesse per la politica era stato scarso. Il virus la contagia in dicembre, quando aderisce prima a Rivolta democratica, poi a Demokratischer Aufbruch, Rinascita democratica, che diventerà la Cdu dell’Est e che è guidata da un musicologo amico di suo padre, Lothar de Maizière, che vince le prime e ultime elezioni democratiche della Rdt. Angela diventa la portavoce del suo governo. L’ingresso nel primo esecutivo post-unificazione è del 1992: Angela Merkel diventa ministro per le Donne e i Giovani nel terzo gabinetto presieduto da Helmut Kohl. Nel 1994 è nominata ministro per l’Ambiente e per la Sicurezza dei reattori nucleari. Quando il governo Kohl è sconfitto alle elezioni del 1998, Angela diventa segretario generale della Cdu e avvia la rinascita del partito senza l’uomo che fu il suo mentore. Il 10 aprile 2000 un nuovo, grande balzo: è eletta presidente della Cdu non senza una certa sorpresa degli osservatori politici che ritenevano la sua personalità in contrasto con la tradizione del partito: donna, luterana e della Germania dell’Est in un movimento po-

litico dominato da uomini, con forti radici cattoliche e con le roccaforti nella Germania occidentale e meridionale. Nel 2002, però, fu il leader del partito gemello della Cdu – l’Unione cristiano sociale di Baviera, (Csu) – Edmund Stoiber, ad essere preferito come sfidante di Gerhard Schröder, il cancelliere socialdemocratico. Stoiber fu sconfitto con un piccolo margine e Angela Merkel divenne leader dell’opposizione conservatrice al Bundestag. È il vero inizio della sua irresistibile ascesa. Che passa attraverso delle prese di posizione nuove. Sul fronte economico e sociale, sostiene un’agenda di riforme che sono più a favore del mercato e della deregolamenta-

Il 30 maggio del 2005 è una data-chiave nella vita di Angela Merkel. È in quel giorno che ottiene la nomination di Cdu e Csu come sfidante di Gerhard Schröder per le elezioni federali d’autunno. Lo batterà di misura (35,3 per cento contro il 34,2) tanto che l’unico governo possibile sarà di coalizione tra i due partiti maggiori: la Grosse Koalition di cui Angela, prima donna della storia tedesca, sarà alla guida per quattro anni fino a che, il 27 ottobre del 2009, con la crisi economica mondiale già esplosa, il patto con i socialdemocratici va in pezzi. I tedeschi tornano alle urne e, questa volta, la Cdu-Csu ottiene la maggioranza con il partito liberaldemocratico. La Merkel comincia il suo secondo mandato di Cancelliere con la voglia di rilanciare il ruolo di Berlino nell’Unione e, soprattutto, con uno stile ancora più deciso, libera com’è dai compromessi con l’Spd. Efficienza e razionalità, forse anche troppa. «Credo di essere coraggiosa nei momenti che contano. Ma ho bisogno di tempi lunghi e cerco quanto più possibile di riflettere prima di agire perché quello che m’interessa è risolvere i problemi concreti». E i risultati si vedono, prima di tutto, in

zione, propone cambiamenti nelle leggi sul lavoro – in particolare la riduzione delle barriere per il licenziamento e l’aumento delle ore lavorative settimanali – sostenendo che le leggi esistenti rendono il Paese poco competitivo. Spinge perché l’abbandono dell’energia nucleare sia meno veloce di quanto previsto dal governo socialdemocratico. Preme sull’acceleratore dell’alleanza transatlantica e dell’amicizia tra Germania e Stati Uniti. Nella primavera del 2003, sfidando una forte opposizione interna, si dichiara favorevole all’invasione

economia. La Germania, oggi, come ha detto anche il governatore di Bankitalia, Mario Draghi, è il modello che tutti gli altri Paesi europei dovrebbero seguire: politica di stabilità, più fondi per la ricerca scientifica e per la scuola, sostegno alle famiglie, più investimenti e un milione di disoccupati in meno rispetto a due anni fa. E un’altra donna, la presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, ha ammesso che «il paragone con l’Italia è impietoso». È la rivincita del modello-Germania su cui in tanti sparavano a zero e che,

adesso, ha superato per crescita l’America di Obama. Il prodotto interno lordo tedesco è in aumento di un robustissimo 3,7 per cento. È il miglior dato da 23 anni a questa parte, cioè da prima dello shock della riunificazione che costa, ancora oggi, 100 miliardi di euro l’anno per ammortizzare l’operazione più poltica che economica voluta allora da Helmut Kohl: il cambio alla pari tra il marco tedesco dell’Ovest e quello dell’Est che era una moneta buona soltanto per giocare a Monopoli.

Adesso è l’euro la moneta che preoccupa Angela Merkel perché «se dovesse fallire la valuta unica, fallirebbe anche l’Europa». Non solo: è la Germania che sopporta buona parte del pacchetto anticrisi e per questo Angela pretende austerità in cambio degli aiuti, arriva a proporre la perdita del diritto di voto nella Ue per i Paesi non virtuosi. La chiamano Frau Nein, si attira l’antipatia di molti. Ma come si fa a dimenticare che l’euro è l’unica moneta al mondo che non ha uno Stato alle spalle, bensì un’unione di Stati sempre più litigiosa? E che, se si ignorano le regole fissate nel Patto di stabilità, in gioco non c’è soltanto la credibilità dell’euro, ma la sopravvivenza dell’idea europea? Angela Merkel ha il coraggio di dirlo apertamente. Così come ha avuto il coraggio, due mesi fa, di ammettere che in Germania «è fallito il modello multiculturale» affrontando l’altro nervo scoperto del Paese: quello del rapporto con gli immigrati, soprattutto islamici. Durante il congresso dei giovani di Cdu e Csu a Potsdam, ha detto che la Germania non può fare a meno degli immigrati, ma che questi si devono integrare e devono «adottare la cultura e i valori tedeschi». Anche con la Russia di Putin, Angela è riuscita a costruire buoni – anzi, ottimi – rapporti commerciali mantenendo, tuttavia, un’autonomia di giudizio sulla politica di Mosca. La prova? Appena un mese fa, in occasione del meeting economico organizzato a Berlino dalla Süddeutsche Zeitung, Putin ha lanciato la proposta di creare «un’area di libero scambio da Lisbona e Vladivostock»: una specie di mercato comune tra l’Unione europea e la Russia che la Merkel ha, naturalmente, appoggiato in linea di principio, gelando, però, Putin con un distinguo molto critico. «Devo gettare acqua sul fuoco, poiché i passi compiuti dalla Russia negli ultimi tempi non vanno in questa direzione», ha detto Angela riferendosi alle minacce ricorrenti di un innalzamento dei dazi d’importazione da parte russa. La dimostrazione che per realizzare affari con Gazprom non c’è soltanto la strada degli incontri privati nella dacia dell’“amico Putin”.

28 dicembre 2010 • liberal • pagina 11


DONNA DELL’ANNO 2010

Il fallimento del comunismo fu favorito da quello dell’economia pianificata socialista: se si chiede agli uomini di pensare liberamente durante il loro lavoro, allora non vi potranno più rinunciare oi oggi abbiamo ormai superato la lunga ed emozionante discussione sull’importanza del patto di unificazione che è ora considerato un fondamentale, pioneristico e necessario passaggio nel processo politico che ha condotto all’unità tedesca. Probabilmente, l’unità non si sarebbe realizzata senza il grande entusiasmo che ha coinvolto tutti gli attori e gran parte della popolazione, che in un periodo molto particolare è stata capace di sforzi notevoli.

N

Quando oggi ho riascoltato tutto ciò, ho avuto di nuovo la conferma che, al tempo, in qualità di portavoce del governo di Lothar de Maizière, fu presa la giusta decisione ad informare dettagliatamente anche i giornalisti dando così il diritto di poter seguire dietro le quinte tutto ciò che veniva deciso. Imparai molto dal patto di unificazione, soprattutto sulla struttura interna della vecchia Repubblica Federale, poiché forse, mai come in quei giorni, si poté capire con quante sfaccettature ricche di tensioni sia stato realizzato il federalismo. Così non fu solo un momento di conoscenza dell’unità, ma anche un pezzo di storia della vecchia Repubblica Federale. Nell’entusiasmo e nell’emozione collettiva una cosa era chiara a tutti, sia agli uomini che alle donne dell’Est e dell’Ovest: quando si raggiunge ciò che ci si è prefissato, poi si deve anche fare attenzione che funzioni. Il compito del patto di unificazione fu fondamentalmente questo. [...]

odierna. C’era chi credeva ad una terza via molto lunga ed ad un periodo di transizione altrettanto lungo. Vi era, invece, chi si mostrava estremamente impaziente, tanto da provocare quasi uno scandalo il 17 giugno, quando, nella parte occidentale, alcuni, davanti alle finestre, pensavano con il fiato sospeso: Ce la faranno? Ma tutto fu molto ben organizzato dalla parte orientale. La terza strada, quella del giusto equilibrio e della misura, si rivelò ancora una volta la più appropriata, se si pensa, che dal 18 marzo fino al 3 ottobre il tutto fu portato nella forma di stato di diritto. Si sono dovute mettere insieme molte cose: la fondazione delle Regioni, il patto per l’unione monetaria, economica e sociale, i negoziati per l’unificazione ed, infine, l’elaborazione di una possibile politica estera della Germania unita. Se oggi si guarda a tutto questo con un sguardo retrospettivo, una cosa appare chiara: già soltanto l’aver coordinato il tutto, in modo da poter giungere al 3 ottobre all’unità tedesca – senza considerare affatto i processi di unificazione dei partiti e di tutto quello che doveva essere realizzato – fu un’impresa ben riuscita, di cui noi potremo ancora essere orgogliosi tra dieci, venti, trenta, quaranta o cinquant’anni anni.

Quando si raggiunge l’obiettivo che è stato prefissato, poi si deve anche fare attenzione che tutto funzioni bene. Il senso del patto di unificazione fu fondamentalmente questo

Nell’allora Repubblica Democratica Tedesca (Ddr) c’erano diverse correnti, come l’abbiamo potuto percepire anche nella discussione

A noi era tutto

già chiaro tanto che al tempo Wolfang Schäuble disse: «Non è possibile che tutto migliori dall’oggi al domani, molte cose avranno bisogno di tempo. Decenni di economia pianificata comunista con le loro conseguenze non si possono correggere in una notte. Ma ognuno sa, che ora c’è la possibilità di agire in modo indipendente». Per tutto questo si sono

pagina 12 • liberal • 28 dicembre 2010

create le condizioni necessarie. Proprio nella discussione è apparso nuovamente evidente, che gli uomini devono poter far uso di ciò che il diritto mette a loro disposizione. Vorrei ancora una volta ricordare le forze propulsive che ci hanno condotto a questa situazione.Tra queste bisogna considerare soprattutto il coraggio degli uomini della ex Ddr un coraggio che ha avuto precedenti in altri paesi dell’ex blocco orientale, prima fra tutti la Polonia; ma si può anche aggiungere la Praga del 1968, così come Budapest. Questo coraggio era allora molto più grande, di quanto noi oggi possiamo immaginare. Quando si parla di questo con i tedeschi dell’ovest, chiedo sempre di ricordare, nel caso abbiano avuto parenti nella Ddr, cosa si provava a contrabbandare libri oltre cortina – nei rari casi in cui questo fosse possibile – oppure nel portare con sé un giornale. Al tempo, in quella Ddr che ormai andava verso la sua stessa fine, ciò che ci ha spinto ad andare avanti è stato soprattutto il coraggio dei cittadini e di tutti coloro che lasciarono il paese.

Si dovrebbe però anche essere prudenti e chiedersi: la generazione di allora era forse più coraggiosa di coloro che vissero nella Ddr negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta? Alcuni indizi lasciano pensare che non si sia trattato di un improvviso scatto di orgoglio, quanto piuttosto di altre forze propulsive che sono sopraggiunte. A mio parere un fattore essenziale in questo contesto fu il declino economico, che, a sua volta, non sarebbe stato percepito allo stesso modo, se non quando la cosiddetta società del sapere vi fece riferimento, con nuove informazioni e con una nuova gestione delle informazioni. Sino a quando si è trattato di produrre quante più macchine possibile di un solo tipo, nell’economia pianificata socialista era ancora possibile ‘spremere’ la gente. Quando però, per sopravvivere economicamente, fu necessario legare sapere e informazioni a nuovi concetti, si ebbe bisogno di un clima di libertà. Ma se voi chiedete agli uo-

Il tes del suo d al Bund per la riuni tede

Qua vince la nostr con il

di Ange


Angela Merkel

sto discorso destag ificazione esca

ando emmo ra sfida l ’900

ela Merkel

mini di pensare liberamente durante il loro lavoro, allora essi non vi potranno più rinunciare. Essi si trasformeranno allora in dissidenti o in critici del sistema. Il sistema però non lo permise. Per questo non era possibile far finta di non vedere la nuova situazione economica e il progresso. Questa è almeno la mia profonda convinzione.

to in parte causato dal fatto che molti cittadini della Repubblica Federale, che non sapevano nulla della Ddr – e non è né un’accusa né un rimprovero – ponessero sullo stesso piano la Ddr e i suoi cittadini, senza comprendere che come individui è possibile condurre una vita retta ed significativa anche in uno stato ingiusto.

Allora, dopo circa quarant’anni di vecchia Repubblica federale, si generò un’altra forza propulsiva, ovvero il fatto che la vecchia repubblica federale aveva generato, grazie alla sua esistenza ed ai suoi comportamenti fedeli, fiducia nel mondo: negli Stati uniti, in Inghilterra, in Francia ed in Europa. Ci si è fidati di noi anche se in relazione al processo di unificazione in modo non sempre unanime. Certamente fu positivo il fatto che allora governasse in America il presidente Bush padre, che non aveva certo timore di una Germania riunificata. In questo senso credo che, proprio oggi, dobbiamo ringraziare gli Stati Uniti d’America. [...] Allora avevamo numerosi problemi da risolvere tra cui, credo, i più grossi furono i problemi legati alla proprietà. Si poteva diventare veramente furiosi, poiché eravamo naturalmente tutti concordi, che la cosiddetta riforma agraria, l’espropriazione di fondi e terreni in ambito agricolo, era ingiusta. [...] È un peccato che allora non abbiamo avuto la forza di pensare all’ingiustizia umana così come forse sarebbe stato necessario. È ancora un peccato che soltanto nella scorsa legislatura abbiamo raggiunto una pensione per le vittime. È un peccato, che discutemmo, a lungo e con molti fraintendimenti, sulle regole di pensionamento e che, ancora, abbiamo avuto bisogno di quasi un ventennio per creare un luogo di memoria mentale per il ricordo della dittatura comunista – tutto ciò mi fa pensare che, potendo tornare indietro, porrei più attenzione a questi aspetti. A questo punto arrivo anche ad altri problemi, che per una determinata generazione erano forse inevitabili. Il primo: non tutti coloro i quali avrebbero voluto collaborare alla costituzione dell’unità tedesca poterono realmente farlo perchè avevano perso il lavoro o perchè furono vittime della cattiva amministrazione ed dell’economia pianificata. Il secondo: molti si sono a lungo tormentati con l’idea che la propria vita individuale non fossè nè giusta nè di valore, sol perchè si viveva in uno stato ingiusto. Ciò è sta-

Ho sempre cercato di dire: fortunatamente alla Ddr non è riuscito di impedire ai genitori di educare in modo responsabile i propri bambini e che questi hanno insegnato a ricevere le virtù fondamentali. Qualsiasi patto di unificazione non ci avrebbe aiutato, se le vite individuali non si fossero realizzate nei desideri, nei propositi e nelle azioni ai quali si aspirava. Questa fu, dunque, una condizione importante per l’unità tedesca. Davanti ai risultati fin qui raggiunti (al cammino fatto sino ad ora), non ci si può non meravigliare. Negli ultimi mesi abbiamo avuto un numero di disoccupati che è all’incirca pari a quello poco successivo alla riunificazione tedesca. Ci sono meno di un milione di disoccupati nelle regioni della Germania dell’Est. Viene spesso dimenticato che oggi nelle nuove regioni c’è una vita media sette anni più alta per gli uomini e di sei anni per le donne. Si può vedere come la vita nell’allora Ddr era drammaticamente più difficile – probabilmente, in primo luogo, a causa della situazione climatica e, in secondo luogo, a causa della mancanza di assistenza medica ed, infine, a causa dei sintomi di stress. Se la vita media dopo vent’anni è più alta di sei e sette anni, si tratta già di un miglioramento notevole della nostra qualità. Inoltre, ci sono 4,4 milioni di uomini che sono andati da Ovest ad Est e 5,5 da Est a Ovest. Vale a dire che ci sono molti che hanno conquistato una nuova patria – non soltanto cittadini dell’Est nella parte Occidentale, ma anche molti dell’Ovest nella parte Orientale.

biato quasi tutto – a partire dall’Europa come continente dove la guerra fredda si è manifestata in modo più evidente. Con la fine della guerra fredda, con la fine degli anni ottanta e con il trionfo della libertà, la democrazia ha vinto in una misura incredibile. Era un movimento che coinvolse l’intera Europa e che ha condotto ad un’Unione Europea totalmente diversa. Fu un bene che esisteva già l’Unione Europea a 12, alla quale noi potemmo aderire. Oggi l’Europa è a 27. Se un giorno faremo i conti con le conseguenze del crollo della Jugoslavia ed alla fine verranno accolti gli Stati dei Balcani occidentali, allora saremo oltre i 30 stati. Questo pone naturalmente dei problemi, ma ci rende anche più forti in particolare in un contesto globale. [...] Si è anche sviluppato qualcosa che, negli ultimi anni, ci ha plasmato molto. Dopo la vittoria della libertà abbiamo anche conosciuto gli eccessi di libertà come ad esempio nei mercati finanziari. Credo che oggi ci sia di nuovo un movimento che cerca di sensibilizzare alla misura e di questo dobbiamo essere orgogliosi: Ciò che oggi abbiamo come economia sociale di mercato in Germania, si è conservato. In questo senso libertà, se non è accompagnata dalla responsabilità, non ci fa andare avanti. [...]

Se si osserva ciò che è accaduto nel mondo negli ultimi vent’anni si vede che è cambiato tutto: con la fine della guerra fredda e il trionfo della libertà, la democrazia ha vinto ovunque

Se si osserva retrospettivamente ciò che è accaduto nel mondo negli ultimi vent’anni si vede che è cam-

Se ci fermassimo qui, allora ci fermeremmo anche nel nostro benessere e successo. Il mio insegnamento è in questo senso di ricordare e di utilizzare ulteriormente la forza e la passione, che noi avemmo per il raggiungimento della libertà e della democrazia. [...] Ci aspettano altri grandi compiti e sono compiti da svolgere insieme. Non si chiederà più se si viene dall’Est o dall’Ovest, ma soltanto se si ha una buona idea e come si intende realizzarla. Infine, posso solo dire che, al giorno d’oggi, per poter sottoscrivere patti si ha bisogno di molta passione, di molta pazienza e di molto slancio ideale. Per questo il patto di unificazione dovrebbe rappresentare una buon esempio per gli altri patti che devono essere fatti nel mondo. Traduzione di Ubaldo Villani-Lubelli

28 dicembre 2010 • liberal • pagina 13


DONNA DELL’ANNO 2010

Dieci anni di amicizia

«La conobbi all’inizio del 2000 tramite Poettering: già si intuivano le novità» di Rocco Buttiglione o incontrato Angela Merkel per la prima volta agli inizi del 2000. Eravamo ad un ricevimento alla fine di un congresso. Mi presentò Hans Gert Poettering che, dopo avere spiegato chi ero, aggiunse «… ed è un grande amico di Helmut Kohl». L’osservazione non era irrilevante. C’era stato il famoso scandalo dei finanziamenti alla Cdu e Kohl era stato accusato di ogni infamia. Alla fine era risultato solo un finanziamento non registrato, che per la legge tedesca non è un reato penale ma solo un illecito amministrativo, punito con una multa. Kohl si impegnò a risarcire il partito per la multa, ipotecò la casa ed avviò una colletta fra gli amici. Non volle però mai dire da chi avesse ricevuto quei soldi per non tradire la parola data. La Merkel su questo fu in disaccordo radicale: voleva ad ogni costo che Kohl facesse quei nomi. Per ambedue era una questione di principio, sulla quale non potevano arretrare.

H

Alla fine Kohl si dimise dalla carica di Presidente Onorario del partito. Io fui allora spesso in Germania per difendere, in incontri, dibattiti televisivi, interviste ai giornali, la figura morale del Cancelliere della riunificazione.

L’accenno di Poettering , quindi, non era banale. Angela Merkel reagì subito e replicò vivacemente: «Qui siamo tutti amici di Helmut Kohl». La cosa mi stupì. Era chiaro che qualcosa di nuovo era in gestazione. Cosa questo fosse propriamente lo compresi solo qualche mese dopo. Cadeva il decimo anniversario della riunificazione. La Cdu era un partito lacerato ed umiliato. Alcuni prospettavano un destino simile a quello della Dc italiana. Ogni anno l’anniversario veniva celebrato in un Land diverso, ovviamente in cooperazione con le autorità federali. Quell’anno toccava alla Sassonia, un Land governato dai democristiani ma dove il presidente era una antico avversario di Kohl, Kurt Bie-

pagina 14 • liberal • 28 dicembre 2010

denkopf. Questi decise di non invitare Kohl a tenere il discorso commemorativo. Angela Merkel colse la palla al balzo. Indisse una grande manifestazione per celebrare la riunificazione del partito

Dura nel condurre la polemica interna anche con un padre della patria come Kohl ma anche intelligente e generosa nel ricomporre le fratture e sanare le ferite: per questo è già entrata nella storia democristiano dell’est con quello del’ovest, ed invitò Kohl a tenere il discorso celebrativo. Per il pubblico te-

desco e per i giornali di tutto il mondo la cerimonia di partito divenne la vera manifestazione dell’unità della Germania e la celebrazione ufficiale fu degradata a fatto meramente cerimoniale. In un sol colpo la Merkel sanò la ferita nei rapporti con Kohl, rivendicò per la Cdu il ruolo di vero partito nazionale e partito del’unità della nazione tedesca, riunificò internamente il partito ed avviò la ripresa del partito che doveva portare alla vittoria nelle elezioni del 2004. Dura nel condurre la polemica interna anche con un padre della patria come Kohl ma anche intelligente e generosa nel ricomporre le fratture e sanare le ferite.

Le elezioni del 2004 si conclusero di fatto con un pari. La CDU sopravanzò i socialisti di pochissimi voti. La Merkel ebbe il coraggio di fare, insieme con i socialisti, un governo di grande coalizione. Non fu una decisione facile. Larghi settori della pubblica opinione e pratica-

mente tutto l’establishment erano contrari. La Merkel volle tuttavia fermamente fare il governo di grande coalizione. Fortunati i paesi che non hanno bisogno di grandi coalizioni, ma sfortunati i paesi che di grandi coalizioni hanno bisogno e non le sanno o non le vogliono fare. In circostanze analoghe in Italia il governo Prodi la grande coalizione non la seppe o non la volle fare. Dalle diverse decisioni che si presero in quelle circostanze dipende in gran parte anche la differenza fra la Germania e l’Italia di oggi. La grande coalizione fece riforme amare, impopolari ma utili per il paese. Si è riformato lo stato sociale, si è tagliata la spesa pubblica corrente, si sono spese grandi somme per rinnovare le infrastrutture e l’apparato produttivo dei Laender dell’est.I risultati si sono visti proprio in occasione della crisi attuale. Dopo un duro choc iniziale la Germania si è rapidamente ripresa e viaggia oggi su livelli record di aumento del prodotto interno lordo,


Angela Merkel Parla il russo, si è innamorata a Ischia e ha una laurea in fisica quantistica: ecco chi è la signora più potente del mondo

Una donna modello (salvo i tailleurs) di Roselina Salemi li inglesi la paragonano a Margareth Thatcher, ma le due non si somigliano affatto. Certo sono due donne, non top model, non mogli di un leader arrivate al potere per vie traverse, e hanno una visione, ma i punti di contatto finiscono qui. Glaciale Margareth Thatcher, spesso antipatica, acciaio puro; diffidente e guardinga Angela Merkel, ma bonaria o addirittura sbarazzina nella sua teutonica solidità. Certo, il soprannome “lady di ferro” è automatico, ma il più azzeccato forse è “Monna Lisa”, dovuto al suo enigmatico, indecifrabile sorriso. Questa donna venuta dall’Est comunista, protestante, divorziata e senza figli, che ha cambiato per sempre il partito cristiano-democratico e il paesaggio della politica tedesca non corrisponde minimamente allo stereotipo della donna-statista: raffinata, elegante, vagamente esibizionista.

il marito partecipa, bisogna ricordarsi che non va bene il regalo scelto per le first lady. Forbes l’ha incoronata per quattro volte consecutive «la donna più potente del mondo» indicandola come il miglior modello della competenza e del successo alle poverine che si affannano sbattendo contro il soffitto di cristallo. Perché dietro l’apparenza della casalinga bonaria, c’è una mente politica e una grande esperienza. Angela Merkel parla il russo, ha un dottorato in fisica quantistica, è scesa in campo giovanissima con Helmut Khol. A quel tempo la chiamavano das Mädchen («la ragazza») e di strada ne ha fatta tanta, senza tradire se stessa, senza togliersi gli anni, 56, senza le bizze dei potenti, le isterie, la corsa all’inseguimento della giovinezza (non la vedremo mai con gli zigomoni). Non sparirà dalla scena politica per togliersi le rughe in qualche clinica, non rifiuterà un piatto di pasta per puntare a una taglia in meno.

G

Persino quel perfidone di Julian Assange non è riuscito a tirar fuori molto su di lei: «Il cancelliere Angela Merkel è avverso ai rischi e raramente creativo». Vabbè, se si tratta solo di questo, non l’ha danneggiata più di tanto, né ha fatto scricchiolare la sua diplomazia. Lei ha liquidato le rivelazioni come «pettegolezzi da party» e non si è innervosita neanche un po’. Lei sì, sa che cosa significa frugare nelle vite degli altri, perché nella sua, la Stasi ha frugato parecchio, annotando, quando era ragazza, (dopo il breve matrimonio con Ulrich Merkel, del quale ha tenuto il cognome) i suoi occasionali fidanzati, fino all’incontro con l’amore, Joachim Sauer. Una convivenza, la loro, regolarizzata per questioni di immagine, i troppi mugugni del partito e le pressioni di un cardinale. Perché Angela Merkel è questo: una donna e un leader con piedi per terra, bada al sodo, apprezza la prudenza («Essere diffidente mi ha molto aiutato nella vita») non sottovaluta gli avversari. Preferisce piuttosto farsi sottovalutare. E le piace il lavoro di squadra. Ovunque vada porta con sé, da quasi vent’anni, le due collaboratrici principali: la consigliera e stratega Eva Christiansen, detta Suggeritrice, e il capogabinetto Beate Maumann, alias Rasputina (i soprannomi sono piuttosto interessanti). Sui suoi tailleur si può discutere. Verde scuro, grigio, blu, più o meno dello stesso modello (è fedele, non solo nel matrimonio). Ma ha osato anche il lungo, rosa, in seta con la gonna civettuola, ha osato la giacca rossa, incubo delle taglie che superano il limite della 44, e una tunica variopinta comprata in California quasi dieci anni fa (deve piacerle, l’ha messa ben due volte e i te-

delle esportazioni e della occupazione. Tutto il contrario di quello che è avvenuto in Italia. La forza troppo grande della Germania rispetto ai suoi partners europei ha fini-

Tra le sue mise preferite c’è anche una tunica sgargiante comprata in California dieci anni fa: l’ha già messa due volte e i tedeschi hanno apprezzato il fatto che conservi gli abiti vecchi... deschi hanno apprezzato il fatto che conserva i vecchi vestiti), scollature che avrebbero fatto rabbrividire Margareth Thatcher, sempre abbottonatissima.

Un vezzo? Il r ossetto color albicocca intonato alla giacca. Trucco? Pochissimo. Scarpe? Su misura, comode perché ci deve star su un giorno intero, senza tentazioni fashioniste. Ha troppo da fare. Sui suoi capelli, corti, a caschetto (hanno creato una Barbie apposta per lei) i giornali popolari hanno scritto a lungo, registrando ogni minima variazione della messa in piega. «Per gli uomini non lo fanno» ha commentato lei: la distanza tra le donne e il potere emerge anche dettagli come questo. Angela Merkel è l’eccezione, la curiosità, l’accidente. Essere la sola leader europea costituisce qualche volta fonte di imbarazzo. Ai vertici internazionali, se

to con il diventare un problema e ci si augura che la Merkel trovi la forza e la decisione necessarie per imporre ai tedeschi uno sforzo di solidarietà con gli altri paesi

ed agli altri paesi la disciplina necessaria per poter muovere verso il modello renano che si avvia sempre di più a diventare il modello europeo. Devo ricordare infine la te-

Si esprime con chiarezza, più che i filosofi e gli economisti, cita Saint Exupéry: «Se vuoi costruire navi, non metterti a raccogliere legna e tagliar tavole, ma cerca di risvegliare nelle persone la nostalgia del grande mare». In campagna elettorale, il suo slogan è stato: «Non farò mai promesse che non sono in grado di mantenere, io vi dico prima del voto ciò che farò dopo». Ma ammette: «Non si devono rispettare le regole del gioco se si vuole veramente vincere». Se le chiedono, e glielo chiedono spesso, qual è il segreto del suo stile, risponde che sta nel mix: «La mia personalità, la mia formazione scientifica come fisica (se avessi studiato giurisprudenza sarei certamente diversa), la mia provenienza dal Nord della Germania (in Baviera sono più espansivi e già in Sassonia sono abituati a parlare molto di più), l’essere una donna e anche l’essere cresciuta nella Ddr. Nella Germania dell’Est mi sono abituata a non apparire troppo, perché apparire troppo era qualcosa di negativo. E poi nella Ddr sapevamo leggere tra le righe, cosa che avevamo appreso sfogliando il giornale del partito, la Neues Deutschland. Nella Germania occidentale ho invece imparato che bisogna essere molto più espliciti: una cosa va sottolineata cinque volte per indicare che si tratta di qualcosa di nuovo». Verrebbe voglia di dire: tutto qui? No, c’è anche un cuore. Forse per questo, ogni anno a Pasqua torna in vacanza a Ischia dove è nata la sua storia d’amore con il riservatissimo Joachim. Allora non è più la trattenuta, indecifrabile Monna Lisa. Può ridere di tutto, anche dei potenti del mondo.

lefonata di solidarietà che da lei ho ricevuto in un momento drammatico, quando si sviluppò una grande campagna di diffamazione contro di me in occasione della mia

candidatura e vicepresidente della Commissione Europea. Un segno di amicizia e di stima e, insieme, una chiara presa di posizione politica impossibile da dimenticare.

28 dicembre 2010 • liberal • pagina 15


DONNA DELL’ANNO 2010 Qui a destra, Giorgio La Malfa e (sotto) Giacomo Vaciago. Nella pagina a fianco Daniel Gros. Malgrado le diverse opinioni, tutti gli economisti sono d’accordo nel segnalare l’efficacia della «cura Merkel» per la Germania in crisi

Studiando le sue mosse si capisce perché la strategia italiana è sbagliata: parlano Giorgio La Malfa e Giacomo Vaciago

Rigore e investimenti: il modello tedesco è quello da imitare

«Ormai il suo Paese può andare avanti da solo: per paradosso, l’Europa intera alle volte sembra quasi più piccola di questa sua grande nazione riunificata»

Nel corso del 2010, la Germania non è solo uscita dalla crisi, ma ha fatto segnare una crescita del pil senza pari in Occidente di Gabriella Mecucci ngela Merkel superstar. Dopo Helmut Kohl, era diffuso il timore che la Germania e l’Europa intera avrebbero faticato molto a ritrovare un leader alla sua altezza. La “ragazza”, così la chiamava il cancelliere della riunificazione, nel 2004, ormai leader della Cdu, sembrava avviata verso una sicura vittoria. E invece, probabilmente anche a causa di qualche suo errore, arrivò un pareggio. Il mancato successo dei democristiani tedeschi venne caricato in larga misura sulle sue spalle. Ma lei non si spaventò. Un passo dietro l’altro, prima come Cancelliere della Grosse Koalition, poi di un’alleanza coi liberali, ce l’ha fatta: la Germania è più che mai la locomotiva d’Europa e la sua leader è diventata una sorta di deus ex macchina. Il suo secondo nome, del resto, è Dorothea, che in greco significa dono di Dio.

A

Giorgio La Malfa non ha dubbi: «È uno dei personaggi più capaci e interessanti del panorama europeo; ha uno spessore politico davvero notevole». Anche «se con l’Europa in quanto istituzione e con la sua costruzione ha un

rapporto più tenue rispetto a quello che ebbero i grandi predecessori: Adenauer, Smith, Kohl». Un difetto, questo, che ad Angela è stato più volte rimproverato dai suoi critici. La Malfa, pur avvertendo questa caratteristica, si affretta a chiarire: «Certo, i tempi sono cambiati rispetto agli anni gloriosi dello slan-

Da noi ci siamo fermati alle rassicurazioni, al “va meglio che altrove”, ma non si è elaborato nessun vero progetto di spessore cio europeista, simboleggiati dalla celebre foto che immortalava il generale De Gaulle e Adenauer mentre camminavano mano nella mano. Allora l’Europa unita era vissuta come luogo di superamento delle rivalità storiche, come fine della “guera civile”, come “spazio” della pace – lo ha ricordato più volte anche Ciampi – contrapposto ai terribili conflitti che avevano lacerato il Vecchio Continente». Quindi, i

pagina 16 • liberal • 28 dicembre 2010

leader di oggi necessariamente avvertono il sentimento unitario come meno impellente e drammatico rispetto a chi aveva visto le trincee e i massacri della prima e della seconda guerra mondiale. «La Merkel – osserva La Malfa – ha probabilmente un rapporto più forte con la riunificazione tedesca. È stato questo il grande tema del suo tempo. Ed è toccato a lei mettere definitivamente alle spalle le due Germanie. Lo ha potuto fare anche perché favorita dalla sua origine orientale. È perciò inevitabile un certo maggior distacco dall’idea di Europa come luogo di guerra o di pace. Oggi la questione non è più questa: i problemi sono quelli riguardanti lo sviluppo economico, l’innovazione, i diritti civili». Ma l’atteggiamento della Cancelliera, almeno in parte, può essere spiegato anche dall’idea sempre più diffusa che «ormai la Germania può fare da sola», il paese è diventato «più grande e più sicuro», mentre l’Europa allargata è «paradossalmente più contraddittoria e persino più piccola, il progetto politico unificante è più debole». In buona sostanza, «è vero che la Merkel è uno dei massimi personaggi europei, ma non del-

l’Unione europea». «Quanto poi alla sua linea di rigore – interviene La Malfa – deve essere chiaro che questa non si può realizzare senza crescita. E molti paesi della Ue non crescono. In Italia il governo fa una politicadi contenimento del deficit, per la verità piuttosto approssimativa, ma la sua debolezza sta soprattutto nel fatto di non essere in grado di creare sviluppo. Attenti, il rigore della Merkel potrebbe finire col mettere in crisi l’Europa».

Accanto al coté continentale, ce n’è uno anche nazionale della Cancelliera. Da questo punto di vista La Malfa è prodigo di riconoscimenti: «Innanzitutto ha avuto il coraggio di fare il governo con i socialdemocratici. Ha pagato un prezzo, ma ha agito per il bene del suo paese». Quanto ai parametri economici, «la Germania è l’unico paese che ha ripreso a crescere forte». Ciò non è dovuto «solo alla Cancelliera, è merito dell’intera società tedesca: dei suoi imprenditori, dei suoi sindacati, della sua macchina pubblica, ma certo anche lei ha avuto un ruolo importante». E qui La Malfa non si trattiene dal fare un paragone con l’Italia:

«In un solo anno ha ottenuto un livello di sviluppo e dei risultati economici che noi, se tutto va bene, raggiungeremo in almeno sei anni»


Angela Merkel Il controcanto di Daniel Gros, economista e direttore del centro studi Ceps, sui limiti della Cancelliera

«Sull’Europa ci vuole coraggio, segua Kohl» Secondo lo studioso la sua abilità sta nel potersi barcamenare tra destra e sinistra di Francesco Pacifico ngela Merkel sogna un Fondo di stabilità per il Vecchio Continente. Intanto vuole congelare il bilancio dell’area e blocca gli eurobond e un aumento della dotazione dell’Esm. In compenso ha imposto aiVentisette, come accaduto nell’ultima tre giorni europea, di fare quadrato intorno alla moneta unica. Daniel Gros si chiede se «c’era bisogno di fare un Consiglio europeo per ribadire che tutta l’Europa sia ancora unita». Perché da studioso dell’integrazione monetaria il direttore del Ceps – natali tedeschi e studi a Roma e Chicago – non può che sottolineare l’incapacità della Locomotiva d’Europa di dettare ai partner un’agenda comune. Soltanto la Merkel fa cabotaggio? Il voler difendere l’euro è segno di coerenza. Il problema è che tutti i leader europei non sanno come farlo. Anche perché sono mossi da interessi contrastanti, spesso nazionali. Per questo non è possibile pensare alla realizzazione – se non alla stesura – di un piano strategico per rimettere in moto l’Europa. Guardano al loro elettorato. I cittadini non li scelgono per le cose che realizzano in o per l’Europa. Kohl non è stato eletto per come ha cambiato il continente. I tedeschi gli hanno detto: “Abbiamo fiducia di te, anche se non ci piace quello che stai facendo per l’Europa”. L’attuale classe dirigente non è in grado neppure di sviluppare una strategia da spiegare a chi li vota. E la Merkel? Ha sottostimato l’adesione al progetto euro da parte dei suoi cittadini: il numero di chi vuole tornare al marco era superiore due anni fa. Come hanno dimostrato l’intervento di Frank-Walter Steinmeier e Peer Steinbrueck sul Financial Times o il dibattito al Bunde-

A

«Se si pensa che noi siamo rappresentati da un personaggio come Berlusconi, a metà fra il dileggio e lo scandalo, e la Germania da una personalità di grande qualità come la Merkel, si capisce dove stia e in che misura il vantaggio». «La Cancelliera per rilanciare la Germania ha agito in profondità: basti pensare alla riforma della macchina pubblica, all’accorpamento dei Lander. Un modo serio di affrontare i problemi. Da noi ci siamo fermati alle rassicurazioni, al va meglio che altrove, ma non è stato messo in campo alcun progetto di spessore. C’è un abisso. Anche la Francia, con Sarkozy, ha avuto una battuta d’arresto. La Germania però è favorita, oltreché dalla qualità della sua leader, dal suo sistema fondato sui

stag, con la Spd che ha chiesto un passo avanti per salvare l’Europa, la Cancelliera ha esagerato quando ha dichiarato ai Paesi più deboli: “Non vi possiamo dare più soldi perché il popolo tedesco non ce lo permetterebbe”. La sua conclusione? O la Merkel sbaglia le sue analisi oppure fa dei giochi di partito. Alle scorse elezioni si è presentata una forza che chiedeva di ritornare al marco, che ha incentrato la sua battaglia sul rimettere indietro le lancette della storia. Risultato? Ha preso lo 0,01 per cento. Perché un conto è dire non ci piace l’euro, un altro torniamo al marco. I tedeschi conoscono bene i vantaggi portati dalla moneta in termini di concorrenza, ma sanno bene che non c’è un’alternativa. E se c’è, questa piacerebbe ancora meno. Ha letto Wikileaks? Ed è vero che è una cancelliera al Teflon. La Merkel è andata al potere perché ha potuto formare una coalizione trasversale, di destra e di sinistra, senza sposare un’idea o una posizione precisa. Anche oggi si muove all’insegna dell’attendismo: non riesce a creare una maggioranza forte e a evitare che a Berlino siano scettici verso l’Europa. Eppure lei è prussiana. Veramente suo padre viene da Amburgo, per altro città di protestanti molto austeri. Ma non personalizzerei, perché parliamo di un politico che non ha mai introdotto convinzioni personali nella sua attività. In questo è diversa da Kohl, che nella gestione del sistema interno ha fatto quello che doveva fare, anche perseguendo logiche di mero potere. Però in politica estera si faceva guidare da una passione: voglio fare

partiti. E su questo dovremmo tutti riflettere di più».

Se Giorgio La Malfa oltre ai grandi apprezzamenti, esprime anche qualche critica nei confronti di Angela Merkel, l’economista Giacomo Vaciago ne è entusiasta. «Dicono che sia troppo rigida – osserva – ma lei si limita ad indicare come esempio il modello tedesco che indubitabilmente funziona di gran lunga meglio degli altri. Non c’è niente di male ad imitarlo». La Cancelliera è assolutamente convinta che le scelte della Germania «siano le migliori» e come darle torto? «È il paese europeo dove è più alto l’aumento del Pil nel 2010, tantoché ormai è stata recuperata tutta la perdita dovuta alla recentissima recessione. L’Italia per ot-

l’Europa come la voglio io, anche se i sondaggi mi sono contrari. Alla Ue la Merkel impone la linea. In teoria sia. Ma bloccare l’aumento del meccanismo di salvataggio è stato facile, perché una decisione simile sarebbe dovuta passare per i Parlamenti nazionali. In realtà ha portato i leader europei verso un accordo informale di questo tipo: se c’è bisogno di soldi, li metteremo in campo. È sufficiente? Più dell’ammontare dell’Esm discuterei piuttosto su che cosa facciamo con

questi soldi o per le banche. E più in generale su come usare tutti i fondi strutturali. E il no agli eurobond? Intanto dobbiamo interrogarci su cosa significa debito europeo. Diamo per buone le finalità che spingono JeanClaude Junker e Giulio Tremonti, ma queste proposte non si fanno attraverso il Financial Times: dovrebbero essere presentate sotto forma di un piano coerente e approfondito nelle sedi opportune. Uscendo dal vago, dovrebbero anche spiegarci quale parte di debito metteremo in gioco. Intravede dei rischi? C’è il timore che questa soluzione peg-

tenere un analogo risultato impiegherà sei anni». «La solidità e la ripresa della Germania -prosegue Vaciago - sono dovute non solo agli interventi più recenti ma ad un decennio di buon governo che è iniziato con le riforme del mercato del lavoro fatte da Schroeder ed è proseguito con la terapia Merkel prima con la Grosse Koalition e poi con l’esecutivo tutt’ora in carica. Una delle caratteristiche più positive della vita politica tedesca è che tra l’operato dei governi c’è una continuità anche se nessuno rinuncia a caratterizzarsi».

L’ultimo esecutivo si è particolarmente occupato, ad esempio, di «sviluppare la qualità della ricerca». Questa scelta ha entusiasmato Vacia-

giori le cose, visto che i Paesi che non aderiranno agli eurobond, farebbero fatica a rifinanziarsi. La Germania però dice no. Il ministro dell’Economia, Wolfgang Schäuble, non ha escluso la cosa, ma ha chiesto che queste emissioni seguano una convergenza politica economica. Non credo che molti Stati siano pronti a realizzare questo processo: vorrebbe dire che la politica fiscale italiana o francese la farebbe Bruxelles. Quella tedesca si fa a Karlsruhe. Dietro gli ultimi accordi europei c’è proprio il potere d’interdizione della Corte di Giustizia Federale, che impedisce politiche di debito. E le banche tedesche? La radice di molti problemi sta proprio nell’ambiguo rapporto tra Reichstag e credito. E dalla soluzione di questo conflitto d’interesse, dal che fare con le banche, che passa il futuro della Germania. Di conseguenza è poco credibile teorizzare, come fa la Merkel, che i privati debbano partecipare al risanamento dell’economia, quando poi la politica è sempre pronta a pagare i debiti degli istituti. Paga anche la nostra produzione. D’accordo, ma trovo assurdi gli accenni che fanno alcuni Paesi sulla necessità di aumentare l’acquisto di macchine di precisione – come se le comprasse lo Stato tedesco e non le sue imprese – o le critiche del ministro Lagarde sul fatto che la Germania usa il rigore per tagliare le tasse alle aziende. Il problema è perché lo fa soltanto Berlino. Professore, la Merkel è l’ultima bandiera dei liberali in Europa? Non lo so, avesse almeno liberalizzato la Germania... La verità è che la Merkel non passerà alla storia come una leader molto rivoluzionaria.

go: «Se lei naviga sui siti delle università tedesche – la Merkel ha voluto che si selezionassero le 16 più qualificate –trova che ci si esprime in inglese e che ci sono borse di studio per i migliori studenti nel mondo. La riforma Gelmini è riuscita a mettere quattro lire – e ben vengano – per far rientrare i ricercatori italiani all’estero. Loro pescano in tutto il globo, noi ci limitiamo a riprenderci i nostri. È la via tedesca quella vincente quando si deve competere con i cinesi e con gli americani». Non c’è dubbio che in patria la Merkel ha raggiunto eccellenti risultati, ma sullo scacchiere europeo il suo rigore ha ingenerato più di un problema alle economie deboli. Vaciago la giusfica anche in questo: «Dicono che sia troppo rigida. Ma Angela

vuole solo il rispetto dei patti firmati e controfirmati e quando vede qualcuno che si discosta troppo, lo richiama all’ordine e alla coerenza». «Del resto – prosegue – lei ha capito bene come funziona il nuovo mondo: oggi il debito non è più uno strumento di crescita. Si cresce con la ricerca e con le nuove tecnologie. Purtroppo in tanti in Europa non lo hanno ancora compreso. In Italia avevano fatto la “Tremonti ter” per favorire l’innovazione. Quando cominciava a funzionare, il ministro del Tesoro l’ha cancellata». Conclusione: la Merkel è brava ed è «la più adatta a governare il suo paese che, tra i 27 europei, ha dimostrato di essere quello che ha meglio capito il mondo globalizzato». Insomma: che aspettiamo a imitarla?

28 dicembre 2009 • liberal • pagina 17


Donna dell’anno 2010 segue da pagina 9 Schröder – con cui la Merkel dovrebbe idealmente condividere la palma che gli viene assegnata oggi – capì che bisognava delocalizzare ad est, laddove c’erano condizioni del mercato del lavoro non dissimili da quelle asiatiche, le produzioni a più basso valore aggiunto, nelle quali il costo del lavoro era decisivo e che erano prevalentemente concentrate in aziende di piccole dimensioni. Viceversa, favorì gli investimenti nelle imprese più grandi, con produzioni meno labour intensive e a maggiore contenuto di alta tecnologia. Quella scelta fece 5 milioni di disoccupati, ma fu lungimirante. Perché quello fu il prezzo pagato scientemente ad una trasformazione che ora sta dando risultati straordinari. Tuttavia, nel breve i disoccupati furono anche un prezzo elettorale che Schröder e l’Spd dovettero pagare. E fu lì, nel 2005, che la Merkel entrò in scena, assicurando al paese una continuità sostanziale alle scelte fatte da quelli che erano i suoi avversari politici, dando vita ad un governo di Grande Coalizione, da lei presieduto, che metteva insieme Cdu-Csu e Spd, che fu già di per sé un atto di coraggio politico e che ha avuto il merito di completare quel processo di trasformazione dell’economia tedesca che oggi consente alla Germania di chiudere il 2010 con un incremento del suo pil del 3,7% contro l’1,7% medio di Eurolandia. La Grande Crisi iniziata nel 2007 ha costretto i democristiani tedeschi nel 2009, a fine legislatura, ad abbandonare l’accordo con i socialdemocratici, ma senza che questo abbia significato un cambiamento significativo del percorso iniziato da Schröder e poi proseguito nelle due fasi della Merkel. Il risultato di tutto questo è stato, appunto, l’aver messo le Come si fa premesse, una volta finita la rea rimproverarle cessione planetaria, di rilanciadi aver ottenuto re la Germania non solo come prima economia europea, ma dei risultati principale paese esportache tutti gli altri, come tore del mondo. E senza che fosnon solo sero messi a rischio i conti pubblici, anzi. in Europa,

hanno fallito?

Ora, si può rimproverare a quella prussiana della signora Merkel di aver ottenuto questi risultati – magari inventando che ciò è avvenuto a scapito dell’Europa – solo perché gli altri non ne sono stati capaci parimenti? E, adesso, la si può accusare di voler affossare Eurolandia solo perché pretende una “linea dura”nei confronti dei paesi che in questi anni in cui i tedeschi hanno pagato prezzi alti al loro cambiamento, hanno fatto la bella vita scaricando su deficit e debito i costi – si badi bene – non delle loro trasformazioni epocali, ma dell’illusorio mantenimento in vita di sistemi economici e sociali non più compatibili – e da due decenni, non da ieri – con il quadro geoeconomico mondiale? Io direi di no. Poi si può discutere se l’austerità sia il mezzo migliore per uscire dall’impasse in cui è piombata Eurolandia. Si può discutere se sia o meno una buona idea far partire un fondo salva-Stati nel 2013 quando la pressione speculativa è già in atto e certo non aspetterà due anni se ha intenzione di passare dalla fase A – attacco ai pesi più piccoli e deboli, come Grecia, Irlanda e Portogallo – alla fase B, e cioè attacco ai paesi più grandi come Spagna e (facciamo i debiti scongiuri) Italia. E si può anche discutere sui dettagli imposti dalla Merkel, con la sponda di un Sarkozy che con lei è partito leone e ogni giorno si fa sempre più agnello, nel rifacimento delle regole del patto di stabilità. Così come si può anche capire l’obiezione di chi dice che la Germania ha comunque bisogno dei paesi europei che da essa importano, e dunque non può tirare più di tanto la corda. Tutto vero, tutto plausibile. Ma tutto ciò non toglie fondamento alla valutazione che ho cercato di esporre non guardando al contingente ma alla dimensione strategica dei fenomeni. Per questo, auguri sinceri all’europeista Angela Dorothea Merkel. Con una “idea regalo” sotto l’albero: che se e quando la Germania non dovesse avere più bisogno di lei, in Italia l’aspettiamo a braccia aperte perché di un leader politico e di governo come lei abbiamo un drammatico bisogno. (www.enricocisnetto.it)

pagina 18 • liberal • 28 dicembre 2010

An ge l a M er k e l


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g

Inflazione umana: irresponsabilità nell’eccessiva prolificazione ANNIVERSARI, RILETTURE, E REVISIONISMI È oramai quasi una moda che ad ogni anniversario importante seguano puntualmente delle riletture del pensiero e delle azioni che, non di rado, sfociano in un revisionismo di contestazione e di condanna, frutto di convinzioni ideologiche. È quasi una moda perché per alcuni è un vezzo per apparire intellettuali e storici. Alcune riletture e revisioni non sono frutto di ricerche storiche documentate e hanno il difetto di trarre delle conclusioni dall’esame di fatti isolati, avulsi dal contesto storico, e – quel che è peggio – sono frutto di mitizzazioni di “leggende metropolitane”. Archiviate con celebrazioni inferiori a quel che meritavano i bicentenari della nascita di Mazzini (2005) e di Garibaldi (2007), sta passando quasi sotto silenzio il bicentenario della nascita di Cavour. La commemorazione del 150esimo anniversario dell’epica impresa dei Mille si è conclusa, tranne poche lodevoli eccezioni, anch’essa in tono minore e accompagnata da sterili e antistoriche contestazioni. Non migliore fortuna pare sia riservata all’anniversario dell’Unità nazionale, per il rifiorire di vecchi campanilismi per veri o presunti torti subiti, dalla nascita di formazioni politiche territoriali, che rivendicano riparazioni per malgoverno avvenuto nel lontano passato, senza alcuna proiezione per il comune cammino futuro. È pacifico che la storia non si scrive con i “se”, come è evidente che la politica deve guardare al futuro, e che lo sguardo al passato, senza nostalgie, serve soprattutto per evitare di ripetere errori. A quanti nella corsa di un esasperato campanilismo tendente a difendere l’attuale maggiore benessere economico, invocano purezza di razza, mi sembra opportuno offrire alla loro riflessione il seguente pensiero dello storico Edward Gibbon: «La miopia politica di conservare senza interferenze straniere la primitiva purezza del sangue aveva frenato la fortuna e affrettato la rovina di Atene e Sparta». E a quanti, in buona fede, sognano nuove entità territoriali e un federalismo egoista, citando Cattaneo, ritengo sia utile rispondere con il seguente pensiero del Cattaneo: «L’autogoverno locale è il cuore del patriottismo e dell’unità della Nazione, non un espediente per sottrarsi agli obblighi comuni». Luigi Celebre C I R C O L I LI B E R A L MI L A Z Z O

REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE “…VERSO IL PARTITO DELLA NAZIONE” SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)

Gli esseri umani devono seguire virtù e conoscenza, secondo il monito di Dante. L’uomo non è stallone, né mandrillo. La donna non è fattrice, né coniglia. La Terra non va degradata a termitaio. Ogni nuovo essere umano incrementa l’inquinamento. La popolazione mondiale è prevista crescente fino a 8 miliardi nel 2030. L’arresto “naturale”della crescita avverrà a 10-12 miliardi, secondo i demografi. Il continuo boom demografico, la trascurata o ignorata contraccezione e la mancata emancipazione della donna concausano l’intensificazione di notevoli inconvenienti. Fra questi: sovraffollamento, disoccupazione, povertà, sofferenza, inquinamento, fondamentalismo e inasprimento dei conflitti. Nonché proletarizzazione massificata, terrorismo, estremizzazioni climatiche, aggravamento di calamità naturali. I bisogni di masse sterminate richiederebbero immensi volumi produttivi. Ciò appare poco compatibile con le crescenti pretese di qualità, come energie rinnovabili e agricoltura biologica, priva di pesticidi e concimi chimici. Diversamente dal cristianesimo protestante, la Chiesa cattolica ignora l’esplosione demografica mondiale e le sue gravi conseguenze. Il comando divino “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la Terra” non è estensibile all’incessante inflazione umana.

Gianfranco Nìbale

ASILO E PROTEZIONE Questo anno che si chiude è stato difficilissimo per molti profughi che fuggono da situazioni drammatiche, respinti dall’Europa, incarcerati dai Paesi nord africani, persone indesiderate dall’Occidente. C’è stata l’emergenza dei profughi in Libia, che tuttora non ha trovato soluzione. Attualmente viviamo un’altra emergenza di profughi, ostaggi nel deserto del Sinai, e assistiamo al fallimento dell’operato di vari Stati nel contrasto al traffico di esseri umani. Esseri indegni si arricchiscono sempre più mentre la dignità umana viene calpestata senza che i Paesi “civili”, distratti dal consumismo, possano intervenire per salvare centinaia di profughi sequestrati dai trafficanti non tanto lontano dalle porte dell’Europa. Un Natale molto amaro per noi che stiamo seguendo giorno dopo giorno la vicenda di queste persone fuggite per cercare protezione in Europa. Lanciamo un appello a tutti, istituzioni, organizzazioni umanitarie, persone di buona volontà, per chiedere con forza che gli Stati coinvolti in questa vicenda - Egitto, Israele e l’Autorità palestinese nella striscia di Gaza - facciano un fronte comune per combattere il crimine odioso del traffico di esseri umani e dei loro organi. Liberate tutti gli ostaggi che sono nelle mani dei trafficanti. Chiediamo alla Co-

munità europea di assumersi le proprie responsabilità, creando un percorso di ingresso per chi richiede asilo e protezione.

don Mussie Zerai

GIOVANI E PREVENZIONE L’educazione sessuale non è ancora entrata nelle scuole italiane, come invece già fanno in gran parte del mondo. È vero anche che l’Italia è poco preparata all’introduzione di insegnamenti innovativi utili. Educare alla contraccezione, e quindi evitare gravidanze indesiderate, potrebbe essere accolto dalle famiglie come un messaggio contrario che stimolerebbe i giovani all’attività sessuale. Si deve parlare anche di prevenzione delle malattie sessualmente trasmesse. Il rapporto andrebbe sempre protetto con il preservativo soprattutto quando non si conosce il partner. Si può fare oggi ancora di più a livello preventivo vaccinando le ragazzine, a partire dall’adolescenza, con un vaccino che combatte il virus dell’Hpv principale responsabile del tumore del collo dell’utero molto diffuso tra le donne giovani.

Alessandro Bovicelli

UN ERGASTOLANO OSTATIVO A DIO Dio, lo so, non ti dovrei scrivere perché sono ateo e non credo che tu esista, ma ho scritto un po’a tutti e nessuno mi ha mai ri-

L’IMMAGINE

LE VERITÀ NASCOSTE

Doni sgraditi? Provate con l’autoipnosi MOUNT BARKER. In questi giorni, in molti devono fare i conti con il problema di regali di Natale non proprio azzeccati, che però per vari motivi non si possono mettere nel cassetto, soprattutto perché spesso salta fuori la fatidica domanda: «Beh, allora ti è piaciuto il mio regalo?». Bisogna quindi essere convincenti quando si risponde di sì. Dall’Australia arriva una soluzione originale: l’autoipnosi. È un’idea di Matthew Hale. Il procedimento è questo; innanzi tutto serve trovare uno spazio tranquillo, dove sia possibile rilassarsi completamente. Una volta che si è riusciti a rilassare ogni muscolo del corpo, bisogna pensare a un regalo ricevuto in passato che è piaciuto veramente molto. Bisogna cercare di rivivere quell’emozione. All’apice dell’emozione, premere forte il dito medio e il pollice l’uno contro l’altro. Ripetere questo passaggio due o tre volte: in questo modo il cervello associa l’emozione all’azione fisica. Per cui quando incontrerete la vostra vecchia zia che vi chiederà: «Allora, ti è piaciuto il mio regalo?», vi basterà ripetere l’azione di pressione pollice-medio per essere del tutto convincenti quando risponderete: «È stato un regalo fantastico!».

sposto e ho pensato di rivolgermi anche a te. Dio, siamo i cattivi e colpevoli per sempre, siamo gli ergastolani ostativi ad ogni beneficio, quelli che devono vivere nel nulla di nulla, e marcire in una cella per tutta la vita. Dio, diglielo tu agli umani che la pena dovrebbe essere buona e non cattiva e che dovrebbe risarcire e non vendicare. Diglielo Tu agli umani che la pena dell’ergastolo non potrà mai essere una pena giusta, perché una pena giusta ha un inizio e una fine. Diglielo Tu che una pena che ti prende il futuro per sempre ti leva il rimorso per qualsiasi male che uno abbia commesso. Dio, nelle carceri italiane, ci sono uomini che sono solo ombre, che vedono scorrere il tempo senza di loro e che vivono aspettando di morire. Dio, diglielo Tu agli umani che solo il perdono fa nascere nei cattivi il senso di colpa. Diglielo Tu agli uomini che molti ergastolani, dopo venti anni di carcere, camminano, respirano e sembrano vivi, ma in realtà sono morti: l’ergastolo ostativo è una vera e propria tortura che umilia la vita e il suo Creatore.

Carmelo Musumeci - Spoleto

IL CROLLO DELLA CULTURA

Posso giocare anch’io? Che cosa avete trovato sotto l’albero? Questo gorilla, a quanto pare, una console portatile dalla quale non riesce più a staccarsi. In realtà il primate, ospite dello zoo di San Francisco sta approfittando del gioco caduto accidentalmente dalle tasche di un giovane visitatore della struttura. E anche il suo cucciolo sembra interessato al nuovo passatempo

La filigrana delle cose della nostra società si lascia intravedere al di là delle varie chiacchiere e delle strumentali richieste di dimissioni del ministro ma non dei ministeriali. Da questa filigrana traspaiono le relazioni sociali mediate da immagini, spettacolo cioè. Idem per ciò che scaturisce dal crollo dei muri delle antiche case pompeiane: si intravedono i soldoni spesi per illustrissimi video: vince il falso indiscutibile. Anche dei nuovi video, quelli delle macerie. Non ci stupiamo più di nulla, nemmeno dell’ovvia mancanza di denaro e del fatto che il patrimonio culturale italiano sia stato di gran lunga superato dall’attrazione di altre nazioni vicine.

Augusto Debernardi e Marina Moretti


mondo

pagina 20 • 28 dicembre 2010

Anche nel corso della benedizione di Natale, il Pontefice ha fatto appello alla pazienza e al coraggio dei fedeli cinesi

Pechino si fa una chiesa Mentre il mondo sembra aver perso la guerra commerciale con la Cina, solo Benedetto XVI sfida il regime sui diritti e sulla libertà religiosa di Luigi Accattoli l Dragone cinese – mai potente come oggi – ammalia il mondo e sembrano resistergli solo autorità religiose o culturali, relativamente indipendenti dalla gestione di relazioni commerciali: il Dalai Lama, il Papa, il Comitato norvegese per il premio Nobel. Delle tre opposizioni, quella della Chiesa di Roma è la più longeva, la più strutturata e la meglio provvista quanto a forza di denuncia. E dunque la più temuta dalle autorità di Pechino. Lungo l’ultimo mese, tra la Santa Sede e Pechino si è consumata una rottura che forse riporta le loro relazioni alla situazione di conflitto aperto di cinque o di dieci addietro, o addirittura di trenta. Gli specialisti della materia esitano nell’interpretare quanto sta avvenendo e invitano a non tirare conclusioni di lunga gittata da eventi racchiusi in un breve periodo. Il loro motto è che le novità cinesi si intendono solo in un lasso di tempo medio-lungo, comunque superiore a uno o due anni. Ma è certo che i fatti dell’ultimo mese sono straordinari e proiettano brutte ombre sul futuro. Conviene analizzarli passo passo per cogliere la minaccia di cui paiono portatori.

I

ne: l’ordinazione di un vescovo decisa contro il parere di Roma, avvenuta il 20 novembre a Chengde e la convocazione a Pechino il 7-9 dicembre di un’Assemblea dei Cattolici cinesi contro la preparazione della quale per più mesi era intervenuta la Santa Sede, che aveva invitato i vescovi e i fedeli a non prendervi parte. Con due note ufficiali pubblicate il 24 novembre e il 17 dicembre il Vaticano ha denunciato le modalità persecutorie con cui le autorità governative hanno costretto ai due atti vescovi, sacerdoti e fedeli, formulando l’accusa di “grave violazione della libertà di religione e di

Vescovi illegittimi e una falsa Assemblea religiosa: con queste iniziative il Partito comunista ha provocato la Santa Sede dopo anni di tregua

Ci sono state due iniziative dirompenti da parte delle autorità cinesi che hanno provocato due forti denunce vatica-

coscienza” che esse avrebbero comportato (24 novembre), ponendosi anche come rivelatrici di una “intransigente intolleranza” e di un “atteggiamento repressivo”. La protesta è culminata nelle parole accorate pronunciate dal Papa il giorno di Natale nel messaggio Urbi et Orbi, alla Città di Roma e al mondo: «La celebrazione della nascita del Redentore rafforzi lo spirito di fede, di pazienza

e di coraggio nei fedeli della Chiesa nella Cina continentale, affinché non si perdano d’animo per le limitazioni alla loro libertà di religione e di coscienza».

Per intendere la portata di quella consacrazione di un vescovo “illegittimo”e di quell’assemblea di “cattolici patriottici” occorre aver presente che fatti simili non avvenivano più da quattro-cinque anni. Dal 2006 non era stato ordinato alcun vescovo “illegittimo”, designato cioè senza l’approvazione della Santa Sede. Nel 2010 erano stati ordinati dieci vescovi nominati di comune accordo: da quando esiste la Repubblica Popolare Cinese (1949) le relazioni non erano mai state così buone. È stato il governo cinese a interrompere inaspettatamente quel clima di fruttuoso dialogo, che sembrava preludere a una ratifica sul piano della normalizzazione diplomatica. Per via “amministrativa”e con odiose misure di polizia – prelevamento coatto di vescovi e altri esponenti cattolici dalle abitazioni, trasferimento forzoso a Chengde e a Pechino – sono stati realizzati i due eventi di rottura. Secondo la ricostruzione degli avvenimenti fornita da MissioOnLine (il sito internet del Pime) il 12 novembre il vescovo Joseph Li Liangui di Cangzhou (o Xianxian, nell’Hebei), era stato prelevato dalla sua residenza

da ufficiali governativi. Lo stesso era avvenuto per il vescovo Paul Pei Junmin di Liaoning nel Nord-est e per il vescovo Peter Feng Xinmao di Hengshui (Hebei). Essi sono riapparsi il 20 novembre a Chengde, assieme ad altri cinque prelati, per partecipare all’ordinazione episcopale nella chiesa di Pinquan circondata da un cordone di polizia.

Ancora più gravi appaiono le implicazioni dell’ottava Assemblea dei Rappresentanti Cattolici della Cina, che ha aperto i lavori il 7 dicembre al Friendship Hotel, nel distretto di Haidian della capitale Pechino. Essa infatti – secondo l’ideologia del regime – costituisce l’organismo sovrano della Chiesa cattolica cinese, che conta forse venti milioni di fedeli. In quell’assemblea dovrebbero essere prese “democraticamente” le più importanti decisioni ecclesiali, ma in realtà esse vengono istruite secondo procedure controllate dalle autorità politiche. Va inoltre segnalato il fatto che nella composizione di quell’organismo i vescovi sono in minoranza, numericamente dominati dagli altri “rappresentanti” designati per via amministrativa. Anche per l’assemblea è stata palese la coartazione venuta dal regime. Secondo AsiaNews, mentre certi vescovi non hanno opposto resistenza alla convocazione, altri per evitare di essere trascinati a Pechino si sono dovuti nascondere o darsi per malati. Il vescovo Li Lianghui di Cangzhou è scomparso per sfuggire all’incontro di Pechino, e la polizia ha minacciato la diocesi che se non


mondo

28 dicembre 2010 • pagina 21

La norma inserita a sorpresa nella riforma delle assicurazioni sanitarie embra una semplice modifica nel regolamento contenuto nel Medicare, il programma federale di assicurazioni che copre gli over 65, eppure da oggi in America si potrà morire volontariamente quando e come si vuole. Sospendendo le cure, tutte, non solo quelle salvavita, ma anche quel famoso sostegno di base che assicura per tutti noi un filo diretto con la vita, e che proprio per questo cura non è! Nutrizione e idratazione sono ancora la frontiera che separa vita e morte; eppure proprio il giorno di Natale, quando tutte le famiglie sono unite per festeggiare la nascita del Signore, qualcuno parla di morte: di morte per sospensione di nutrizione e idratazione... Sono i paradossi del nostro tempo! In tempi oggettivamente ancora molto difficili per la ripresa economica negli Stati Uniti, con un tasso di disoccupazione sempre più elevato, le assicurazioni mediche americane hanno trovato un modo efficace per contenere la spesa sanitaria. Basta convincere le persone anziane, sole, malate e senza altri punti di riferimento che non vale la pena vivere in questo modo.

S

E il giorno di Natale ha un fortissimo valore simbolico, per far percepire in modo stridente la solitudine e l’abbandono. Basta chiedere e la vita di tante persone può arrivare rapidamente al capolinea, con tutte le certificazioni di Stato. Le parole chiave per In queste pagine, due immagini delle «timide» proteste cinesi per la libertà religiosa. Qui sopra, Barack Obama

Eutanasia di Natale, il regalo di Obama Blitz di Washington: l’interruzione volontaria delle cure diventa legge di Paola Binetti far accettare questo regolamento, che sarà applicato dai cosiddetti burocrati della morte, come i repubblicani hanno chiamato i medici certificatori previsti dalla legge, sono accattivanti e persuasive. Mettono l’accento sulla libertà personale, sul principio di autodeterminazione, sul rifiuto dell’accanimento terapeutico e sulla fatica del vivere in certe condizioni. Una lunga sequenza di parole che in realtà nascondono problemi di ben diversa portata. Per esempio il costo elevato dell’assistenza alle persone spesso anziane e malate, un costo che grava soprattutto sulle famiglie e che lo Stato, e tanto meno le assicurazioni!, non intendono condividere o alleviare. Un costo considerato inutile, data la mancata produttività di queste persone, la cui vita appare ai loro occhi del tutto inutile. Resta quindi solo la fatica dei fami-

In Italia, intanto, ancora non si è concluso l’iter della legge sull’alleanza terapeutica e l’attualità del consenso informato: uno scudo ai regolamenti ostili nei confronti dei più fragili

si fosse consegnato sarebbe stato ricercato in tutto il Paese come un “criminale”. A Hengshui il vescovo Feng Xinmao è stato sequestrato da circa 100 poliziotti e funzionari governativi, dopo che per ore i fedeli avevano fatto scudo per garantirgli la libertà.

All’Assemblea di Pechino, che era stata più volte rimandata, avrebbero partecipato – secondo informazioni provenienti dal suo entourage – 314 “rappresentanti cattolici”, tra i quali 45 vescovi, 158 preti, 24 suore e 87 laici. Al discorso introduttivo, tenuto dal vescovo Fang Xinyao di Linyi (Shandong), sono seguite due relazioni sui lavori degli ultimi anni e sulle revisioni alle attuali costituzioni dell’Associazione Patriottica e del Consiglio dei vescovi. A presentarle sono stati i vescovi Yinglin di Kunming (Yunnan) ordinato nel 2006 e Zhan Silu di Mindong (Fujian) ordinato nel 2000: ambedue “illegittimi”, cioè scelti senza approvazione papale. Ai

partecipanti all’Assemblea è stato chiesto di “eleggere” un vescovo illegittimo come presidente della Conferenza episcopale e un vescovo legittimo come presidente dell’Associazione patriottica cattolica. Alle due elezioni così reagisce il comunicato vaticano del 17 dicembre, che abbiamo già citato: “L’attuale Collegio dei Vescovi Cattolici di Cina non è riconosciuto come Conferenza Episcopale dalla Sede apostolica”ed è “profondamente deplorevole che sia stato designato a presiederla un vescovo non legittimo”; ma anche i “principi di indipendenza e autonomia, autogestione e amministrazione democratica della Chiesa” ai quali si ispira l’Associazione sono “inconciliabili con la dottrina cat-

liari, destinati a farsi carico in perfetta solitudine dell’assistenza alle persone care malate. Una fatica che qualcuno vorrebbe ribaltare, considerandola non un atto d’amore ma solo una forma di egoistico accanimento sociale. Dagli Stati Uniti proprio il giorno di Natale è arrivato un altro passo avanti di quella cultura che fa della morte, solo in apparenza liberamente accettata, la nuova proposta sociale di avanguardia. Quasi uno status symbol di chi è padrone di sé e del suo destino, mentre in realtà è solo vittima dell’indifferenza delle istituzioni e dello spaesamento delle famiglie. Una vittima fortemente condizionata da un circuito mediatico che rifiuta valori come la solidarietà, il sacrificio, la fede.

Dopo questo ennesimo attacco che dagli Usa viene alla vita e alla sua dignità, ci auguriamo però che in Italia l’iter della legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat), centrata su valori quali l’alleanza terapeutica e l’attualità del consenso informato riprenda il suo passo rapido verso una compiuta applicazione, che metta al riparo dai rigurgiti eutanasici a cui abbiamo assistito in questi giorni e dal rischio di regolamenti ostili e aggressivi proprio nei confronti delle persone più sole e più fragili. Su questo punto concreto aspettiamo il Governo per passare dalle parole ai fatti, dalle promesse alla loro piena realizzaione.

caldeggiate dall’ala “collaborazionista” del cattolicesimo cinese. Il professore Ren Yanli, già direttore della sezione “cristiana” dell’Istituto per le grandi Religioni dell’Accademia delle Scienze Sociali di Pechino, intervistato da Ucanews di Hong Kong dopo l’ordinazione di Chengde, trova “incomprensibile” la linea di rottura scelta da Pechino e ipotizza che ci troviamo di fronte alla “vittoria” di una fazione di estrema sinistra del governo che, ancora trent’anni dopo che la Cina aveva scelto una “linea di apertura”, non si rassegna a rinunciare al potere di “scegliere i vescovi”.

Pechino dunque punta i piedi ma il Vaticano non cede e risponde alla forzatura cinese con dei moniti a tutto tondo. D’ora in poi – si può presumere – ogni altra violazione governativa della libertà religiosa sarà denunciata apertamente da Roma. L’efficacia di queste denunce dipenderà dalla disponibilità dell’Occidente a sostenerne lo spirito. Una disponibilità al momento minimale e forse destinata a restare tale fino a quando durerà la stagione di attrazione economica che sta vivendo la superpotenza cinese. www.luigiaccattoli.it

L’efficacia delle denunce del Papa dipenderà dalla disponibilità dell’Occidente a sostenerne lo spirito. Un’apertura minima, per ora, vista la dipendenza delle nostre economie dalla superpotenza asiatica tolica”ed è quindi “deprecabile anche la designazione di un presule legittimo a presiedere l’Associazione Patriottica Cattolica”. Come dicevamo, è presto per un’interpretazione attendibile delle ragioni che possono aver indotto le autorità cinesi ad appoggiare queste “mosse”


cultura

pagina 22 • 28 dicembre 2010

In libreria. Sapo Matteucci racconta la sua passione enologica in “C’era una vodka”, quasi un romanzo di formazione edito da Laterza

Bacco, il maestro e Margarita di Livia Belardelli

a prima trasgressione fu lui: il Campari soda, sottratto e bevuto lungo microanabasi dal bar del Bagno Zara a Viareggio fino all’ombrellone in prima fila, dove se ne stava sdraiata mia madre a cui dovevo portarlo intorno all’una e mezzo. Ne rubavo un sorso entro quel doloroso tragitto di sabbia rovente, sbollen-

«L

do i piedi nelle umbratili oasi degli ombrelloni. Lì nell’ombra, con un po’ d’acqua minerale gassata rifilavo il livello di quella conica bottiglietta, che non sarebbe cambiata mai più». Comincia così l’educazione spirituale – e per spirituale si intende qualcosa di decisamente terreno – di Sapo Matteucci, autore di C’era una vodka (Laterza, 272 pagg. 16 euro). Il «punto esclamativo alla rovescia», come lo chiama lui, doveva essere anche principe del titolo originario Tirare a Campari, poi modificato a causa delle lamentele della casa produttrice che evidentemente non ama nemmeno i rum “dei peggiori bar di Caracas”.

Poco male, di calembour “spiritosi” e originali ne è pieno il libro. Da “Triti tropici” a “Party cesareo”, da “La vite degli altri” a “Siamo tutti Marlon Brandy”. Titoli da libro frivolo e leggero per un ricettario alcolico, manuale da barman alle prime armi, pieno di istruzioni e consigli per miscelare cocktail e servire ottimi aperitivi. Ma questa

è solo una maschera, un costume burlone che nasconde l’essenza vera del libro, la sua vena malinconica, le meditazioni filosofiche e una trama piena di immagini e ritratti che si addicono più al genere romanzesco che a quello compilativo del ricettario. Conferma lo stesso Matteucci: «È un finto manuale, la letteratura c’è, ma è nascosta e indiretta. Sin da piccolo volevo fare il poeta e questo manierismo psicologico di fare lo scrittore me lo sono sempre portato dietro». Suo

padre d’altronde lo sbeffeggiava appellandolo col nome di Carme Presunto – in onore dell’omonima raccolta di poesie di Borges – e lui si nasconde dietro un argomento intoccabile in quanto frivolo, al riparo da giudizi in questa forma di scrittura obliqua che ha innegabilmente lo status di letteratura

Sapo Matteucci, autore di “C’era una vodka” il libro edito da Laterza (a destra, la copertina)

ma lo rende un lussuoso outsider, letterario e pratico al tempo stesso.

Ci sono infatti le ricette, le modalità per preparare un Negroni o un Manhattan coi fiocchi, ma anche il ritratto struggente del nonno paterno che in una solitudine appenninica e innevata mangia e beve voracemente nella penombra del camino. «I suoi due camerieri gli stavano alle spalle come angeli caduti, illuminati dai bagliori sinistri del focolare. Giganteschi

san cristofori, avevano smesso di tagliar legna nei boschi da cui erano stati tratti per essere elevati al rango di servitori in quella fosca corte: per virtù ferine, non certo per grazia di coppieri». Dalla penombra dei ricordi di nipote si procede verso divertenti paradigmi del bere. Passando per Leopardi però, che dialoga col genio di un’Operetta Morale solito abitare «in qualche liquore generoso». Poi via col bere barocco «arricchito dalla piega dei profumi e dei colori, dalla densità ondulata degli zuccheri» fino al bere geometrico, «terso, asciutto come il gin, tagliente come la vodka, barbarico e arso come la tequila». E più in là, tra un dizionario alcolico e la storia delle birre trappiste, si giunge ai paradigmi del bevitore. E allora l’alcol, demiurgo capriccioso, pesca tra le indoli umane incoraggiando qualcuno e condannando qualcun altro. «Il bevito-

re cupo apre innanzi a voi vertiginosi baratri in cui tenterà di trascinarvi» mentre «l’estroverso sbandiera assordanti cantate su un vitalismo stonato». Punisce anche il timido recalcitrante «perché lo espone a gratuite temerarietà» e non va meglio per il timido (non recalcitrante) che «sembra un chihuahua che abbaia a un assonnato mastino napoletano e si spaventa quando quello sbadiglia». «L’alcool aiuta i malinconici arditi come me», dice Matteucci, «dona una lieve spinta a coloro che dimo-

Un’educazione spirituale e sentimentale che porta l’autore dall’adolescenza all’età adulta. Dal Campari al Daiquiri, fra tante alka seltzer...

rano tra Onegin e Münchausen, trasformandoli in Münchausen misurati, in Onegin d’azione». E di come l’alcool l’abbia accompagnato, amico silenzioso e poco invadente, lungo tutto il percorso della sua vita ci racconta con pagine poetiche che mutano il suo componimento, narrazione camaleontica che si fa autobiografia, in un’educazione spirituale e sentimentale che porta l’autore (e tutta una generazione) dall’adolescenza all’età adulta. Dal Campari al Daiquiri, passando per la prima alka seltzer, salvagente materno dei primi hangover. Da un bere distruttivo e adolescenziale a un bere consapevole e colto,

dall’arte quasi incantata del miscelatore che crea cocktail colorati come la coda del gallo (cock tail appunto, coda di gallo) fino a riflessioni esistenziali e luoghi della memoria che diventano perfetti contenitori di liquidi alcolici.

Un climax che parte dagli 0° degli analcolici, passando per spiritosi, spiritati e spiriti magni dalle gradazioni imponenti (dai 40° ai 60°) per poi inciampare e tornare giù, verso gradazioni più sostenibili, entrando, con la stessa competenza e poesia del mondo del vino. Per confermare a «chi pensa che l’alcool non è certo terapeutico» che «senza sarebbe anche peggio». D’altra parte, lo diceva Baudelaire, bisogna essere sempre ubriachi, di vino, di poesia e di virtù.


spettacoli ’era una volta e c’è tutt’oggi in scena al teatro Valle di Roma fino al 6 gennaio Cenerentola di Charles Perrault o Cenerentola ovvero La pianellina di vetro come da traduzione di Federigo Verdinois datata 1910, divenuta Anastasia, Genoveffa e Cenerentola nell’elaborazione proposta da Emma Dante per la sua Compagnia Sud Costa Occidentale. Si specifica nel presentarla che si tratta di una fiaba per bambini e adulti, già vincitrice di una menzione speciale al Festival Giocateatro di Torino 2010. Dato il periodo festivo ci sembra quindi una buona occasione da cogliere insieme, grandi e piccini, per spendere un’oretta a teatro e farsi cullare dall’idea, un po’infantile ma rassicurante, che le fate esistono e ci osservano, sempre pronte a entrare in azione alla bisogna - laddove gli Angeli paiono essersi distratti. Anche per mettersi in pari con tutte le storie, storielle, frottole, favole chiamatele un po’come vi pare ma il risultato purtroppo non cambia - che ci raccontano nella realtà e che di sicuro non fanno sognare.

28 dicembre 2010 • pagina 23

C

La fiaba, che ha formato nel bene e nel male generazioni di femmine e conseguentemente di maschi, strafrequentata dal gossip (la stampa inglese in particolare) è da sempre inesauribile fonte d’ispirazione: siamo state o siamo tutte Cenerentole in attesa di un principe che ci scopra e ci riscatti. La cenerentolitudine è una fase naturale della vita che tutte attraversano e che non sempre coincide con l’adolescenza. Alcune continuano a sognare a occhi aperti per sempre e non realizzano; altre si perdono nella vana attesa del principe azzurro che ha perso la strada e campano di sogni; altre ancora, ma sono la minoranza, si sfilano la scarpetta, scappano di casa e si aprono alla vita. Ma per una che si desta dal torpore quante ancora si ingannano e spendono giorni cercando di comparire in tivù sperando invano che qualcuno di ricco e famoso, ma soprattutto potente, le noti e se ne innamori perdutamente, possibilmente al primo PPP. Nel frattempo si fanno e rifanno il naso, il seno, il sedere, il labbro, sopracciglio, lo zigomo... non basta mai, non si raggiunge mai la perfezione esteriore, figuriamoci quella interiore. Ora Emma Dante, dichiaratamente attratta da tematiche forti che le permettano di aprire squarci di riflessione, offerti attraverso un’elaborazione poetica parossistica, di certo non

Palco. Fino al 6 gennaio al Valle di Roma la regista siciliana dirige la fiaba di Perrault

Emma Dante, la nuova matrigna di Cenerentola di Enrica Rosso

A far spettacolo bastano gli interpreti: Claudia Benassi, Italia Carroccio, Valentina Chiribella e Onofrio Zummo

che ognuno preferisce. A far spettacolo bastano gli interpreti: Claudia Benassi, Italia Carroccio, Valentina Chiribella, Onofrio Zummo (le due sorellastre sono

nel doppio ruolo della fata madrina e di Cenerentola). Una famiglia di pestifere faine quella formata dalle sorellastre e dalla matrigna.

Le prime, iperattive, sia che si tratti di litigare in un danzante rituale di graffi, calci e schiaffi, sia che debbano scegliere l’abito-identità con cui presentarsi al gran ballo a palazzo, così avide da impossessarsi persino del titolo della fiaba; mentre la loro terribile mammina, una sorta di Joan Crawford dei poveri, un’orca predatrice in occhiali da sole e tentativi di tailleur, mai sazia, è in grado di prodursi in risate squassanti da sbattere in faccia alla negletta figliastra in risposta alla sua ridicola richiesta di partecipazione al fatidico ballo.

poteva lasciarsi sfuggire un bocconcino cosi prelibato. Prende di petto la storia, la scarnifica degli orpelli e la butta in pasto ai suoi attori. Il risultato è un teatrino sul vuoto, o meglio sulla vacuità dell’avere. In scena solo l’anima di ferro di un paravento da cui srotolare drappi e trine per suggerire atmosfere, stimolare la fantasia ed evocare ciò Nella foto grande, la regista siciliana Emma Dante, in scena fino al 6 gennaio al teatro Valle di Roma con una nuova versione di “Cenerentola”. Qui sopra, un fotogramma tratto dal cartoon Disney. Ai lati, due momenti dello spettacolo della Dante

Ma anche miss Cenerentola non risulta qui essere la gentil donzella che noi tutti ricordiamo. È di fatto una sempliciotta piuttosto ruvida strizzata come un cotechino in un vestituccio sbrilluccicante che al massimo la fa assomigliare a una Bratz. Indubbiamente in esemplare sintonia con il principe, (emulo del rampollo di Casa Savoia) che poverino, stressato e confuso, dopo aver danzato sotto le stelle un imparaticcio di tango impossibile ma modaiolo, non pago, appena lei si dilegua nella notte non ci pensa due volte e si lascia andare con trasporto a dar voce al suo disappunto impugnando l’esecuzione in playback di Perdere l’amore interpretata dal passionale Massimo Ranieri. Insomma uno spettacolo ironico, giocoso e di gran ritmo incentrato sulla prova degli attori che perseguono con intelligenza un disegno registico che non perde di personalità e smalto pur trattandosi di una fiaba per bambini. Intenso come sempre anche il rapporto con la lingua che nel privato si colora di dialetto per vestirsi a festa e diventare italiano forbito, addirittura francese, nei momenti di rappresentanza (assolutamente esilarante l’arrivo del principe che si presenta inatteso per la prova della scarpetta e sorprende le tre arpie sciatte e scostumate che istantaneamente gli apparecchiano un teatrino di raffinatezze). Il discorso vale per tutti tranne che per Cenerentola, sempre espressa e dichiarata e che quindi non tergiversa. Infine: si rappresenta un mondo fantasioso e magico cadenzato da accenti di quotidianità. Quale l’insegnamento che se ne ricava?

Lo stesso Perrault non potendosi decidere, corredò la fiaba di ben due morali che qui riportiamo nella traduzione firmata da Carlo Collodi: «Questo racconto invece di una morale, ne ha due. Prima morale. La bellezza, per la donna in ispecie, è un gran tesoro; ma c’è un tesoro che vale anche di più ed è la grazia, la modestia e le buone maniere. Con queste doti Cenerentola arrivò a diventar regina. Altra morale. Grazia, spirito, coraggio, modestia, nobiltà di sangue, buon senso, tutte bellissime cose; ma che giovano questi doni della Provvidenza, se non si trova un compare o una comare, oppure, come si dice oggi, un buon diavolo che ci porti? Senza l’aiuto della comare, che cosa avrebb’ella fatto quella buona e brava figliola di Cenerentola?». Dite voi se non c’è bisogno di favole.



Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.