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mobydick ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • SABATO 8 GENNAIO 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Aperte le celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità
Ecco perché il Carroccio si agita
La forza del Quirinale e il rischio del nuovo leghismo
Il Presidente degli italiani
di Francesco D’Onofrio molto probabile che l’analisi sulla inquietudine leghista si soffermi prevalentemente o persino esclusivamente sulle conseguenze che essa può avere sulla stabilità della legislatura e quindi sulle sorti stesse dell’ultimo governo Berlusconi. Occorre, invece, cercare di cogliere ancora una volta l’intreccio tra questioni strettamente territoriali (lombarde in particolare); questioni più evidentemente economiche (il famigerato nord-est veneto in particolare) e questioni più genericamente attinenti alla sicurezza (piemontesi a loro volta in particolare), per cercare di comprendere le ragioni complessive di questa inquietudine che vengono in qualche misura prima della sorte del governo in carica, e vanno quindi molto oltre la sorte medesima del governo per incidere complessivamente sugli equilibri culturali e politici dell’Italia tutta. Occorre infatti aver presente che l’attuale Lega Nord costituisce una sorta di fusione di diversi e distinti movimenti leghisti territoriali.
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Discorso di una esemplare chiarezza del capo dello Stato: «Chi è al governo del Paese deve rispettare i simboli della Repubblica. Altrimenti si mette a rischio il federalismo». E l’Ue lancia l’ultimatum sui conti pubblici. Ora la classe politica è chiamata a una svolta vera di Riccardo Paradisi a pagina 2
• LA LEZIONE DI NAPOLITANO
di Errico Novi a pagina 2
• LA LEGA E LE OFFESE AL TRICOLORE
di Carlo Lottieri a pagina 5
• TRICHET: «NON SIAMO UNA BALIA»
di Giuliano Cazzola a pagina 4
• I “MOSTRI” DELLA NOSTRA ECONOMIA
di Enrico Cisnetto a pagina 10
• I LAICI E IL NUOVO POLO
a pagina 3
L’Eliseo: «Mi batterò sempre per la libertà religiosa»
La stampa carioca quasi unanime: «Governo ipocrita»
«Vogliono epurare i cristiani» Il Brasile critica la ragion-Lula Sarkozy raccoglie l’appello del Papa sui fedeli
L’82% favorevole all’estradizione di Battisti
di Gabriella Mecucci
di Maurizio Stefanini
ROMA. Finalmente un leader europeo ha battuto un colpo. È stato Sarkozy il primo a rispondere agli appelli del Papa e del cardinal Bagnasco, che chiedevano “di difendere i cristiani”. L’Eliseo ha preso la parola ieri è ha denunciato l’esistenza «di un vero e proprio piano di epurazione dai Paesi arabi dei cristiani d’Oriente». Ha poi assicurato, nel corso della cerimonia di auguri per il nuovo anno con i rappresentanti di tutte le fedi, che si batterà «per garantire la piena libertà religiosa». Dopo l’attentato ai Copti d’Egitto, Benedetto XVI aveva espresso tutta la sua preoccupazione per la sorte dei cristiani, “perseguitati”, oggetto di “soprusi”e di “intolleranze gravissime” ormai in molti Paesi. a pagina 8
econdo un sondaggio diffuso dal giornale “O Globo”, l’82 per cento dei brasiliani sarebbe favorevole all’estradizione in Italia di Cesare Battisti. Ma non è finita qui: anche la stampa locale sta duramente attaccando la decisione contraria del presidente Lula. Da “A Folha de S. Paulo” a “Veja”, il coro è stato quasi unanime: «Governo ipocrita». Cresce invece su Internet l’appoggio alla controversa scelta: il sito “Correio di Brasil”s’è schierato in favore del terrorista. Intanto, l’ex ministro degli Esteri e ex giudice al Tribunale dell’Aja Rezek ha dichiarato che se il nostro Paese «facesse ricorso alla Corte Internazionale, sicuramente condannerebbe il Brasile». a pagina 24
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I QUADERNI)
• ANNO XVI •
NUMERO
S
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WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
la polemica
prima pagina
Lega al bivio tra vilipendio e responsabilità istituzionale
pagina 2 • 8 gennaio 2011
Chi pretende le riforme parta dal Tricolore di Errico Novi icano una volta per tutte da che parte stanno. Cosa intendono fare. Cambiare la Costituzione, e intanto ridisegnare il sistema dell’imposizione fiscale? Bene, possono farlo. I leghisti possono promuovere – da anni vorrebbero – una riforma del Senato federale. Possono introdurre il federalismo delle tasse come ci si propone con la legge delega in corso. Possono insomma modificare aspetti significativi dell’architettura istituzionale. Ma a una condizione: che rispettino l’Italia. Perché italiane, nazionali sono le forme di rappresentanza democratica attraverso cui questo processo è possibile. E perché introdurre il federalismo non vuol dire cancellare l’Italia. Come Bossi e suoi, invece, anche ieri hanno dato l’impressione di credere. Perché quando si risponde a Napolitano che «celebrare i 150 anni dell’unità senza il federalismo sarebbe una cosa negativa», come ha fatto il capo del Carroccio; o quando si afferma che «i festeggiamenti rappresentano il passato mentre noi pensiamo al futuro, ovvero a trasformare in senso federale l’Italia» e «per questo siamo grati a Napolitano», come dice Calderoli; ebbene, quando si danno risposte tanto elusive sul richiamo al valore dell’unità rivolto dal presidente della Repubblica, si insiste nella logica del vilipendio. Negli anni scorsi il Senatùr si è prodotto in grevi attacchi alla bandiera, volgari e stupidi, oltre che meritevoli delle condanne che ha subito. Così fanno più o meno incessantemente tanti suoi grandi e piccoli seguaci. Adesso in fondo si continua. Senza alludere a pratiche igieniche, ma comunque negando di fatto il valore della nazione e la sua natura inscindibile. E questi sarebbero i presupposti di un’azione politica che mira a riformare lo Stato?
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Non possono esserlo perché così ci si mette fuori. Fuori dalla Repubblica, fuori dalle istituzioni. Certo, la Lega può fare agio su un alleato, il Pdl di Berlusconi, disposto a derubricare tutto alla voce «folklore propagandistico». Ma il problema stavolta si pone, e non sarà semplice sfuggirvi. Ieri si è svolta solo la giornata inaugurale di una lunga serie di celebrazioni che accompagneranno buona parte del 2011 e avranno il clou proprio in quella primavera che il Carroccio vorrebbe consacrare al voto anticipato. Si ricorderanno i 150 anni di questa difficile Repubblica, con l’intelligenza e la coscienza civile delle frasi pronunciate ieri da Napolitano sulle «storture da non tacere». Ebbene: i ministri, gli uomini delle istituzioni del Carroccio non potranno esimersi dal partecipare a queste celebrazioni. Non potranno ripetere la prodezza di Maroni, che lo scorso 2 giugno ha chiesto che davanti al monumento ai Caduti di Varese si intonassero cover di Andrea Bocelli e Gino Paoli anziché l’Inno di Mameli. Non potranno ammainare la bandiera italiana e issare quella della Serenissima (Riva degli Schiavoni, 1996). Se qualche loro sindaco teppista metterà su facebook il disegno di una carta igienica tricolore (Mainate, giugno 2010), Bossi, Calderoli e compagnia cantante risponderanno di tanta idiozia. In ogni caso, questi signori della Lega di governo dovranno esserci, ai festeggiamenti, e non per comportarsi da pierini. Dovranno cioè assumere verso l’Italia e i suoi simboli la responsabilità propria di chi «ha ruoli di rappresentanza e di governo», come ha detto Napolitano. Non si sentano ridicoli nel cambiare registro. Lo sono piuttosto quando offendono il tricolore. Lo sono stati per anni, e questa è una buona occasione per mostrarsi all’altezza delle innovazioni impegnative che intendono realizzare. E se invece verranno meno al richiamo del Colle, dimostreranno di non essere affidabili come uomini delle riforme e del cambiamento.
il fatto Il segretario dell’Unione di centro, Lorenzo Cesa: «Siamo con il capo dello Stato»
La lezione di Napolitano
Il presidente della Repubblica ricorda a Bossi il dovere di rispettare nazione e bandiera. Ma il Senatùr risponde: «Senza federalismo fiscale non c’è nessuna unità da festeggiare» di Riccardo Paradisi ato che nessun gruppo politico ha mai chiesto una revisione dei principi fondamentali della Costituzione, è pacifico che c’è l’obbligo di rispettarli. E tra questi principi c’è il rispetto del tricolore». Intervenendo a Reggio Emilia nella giornata d’apertura delle celebrazioni ufficiali per i 150 anni dell’Unità d’Italia, Giorgio Napolitano ha voluto rispondere così alle intemerate leghiste di giovedì scorso contro unità d’Italia e tricolore. «I veneti – aveva detto Umberto Bossi – fanno bene a non voler festeggiare l’unità d’Italia».
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La rampogna di Napolitano continua nella denuncia di «comportamenti dissonanti» che «non corrispondono alla fisionomia e ai doveri di forze che abbiano ruoli di rappresentanza e di governo». Le tentazioni separatiste – incalza il presidente della Repubblica – non giovano al federalismo: «Alle forze politiche che hanno un significativo ruolo di rappresentanza democratica sul piano nazionale, e lo hanno in misura rilevante in una parte del Paese, vorrei dire che il ritrarsi, o il trattenere le istituzioni, dall’impegno per il centocinquantenario – che è impegno a rafforzare le condizioni soggettive di un’efficace guida del paese non giova a nessuno. Non giova a rendere più persuasive, potendo invece solo indebolirle, legittime istanze di riforma federalistica e di generale rinnovamento
dello Stato democratico». Napolitano rende dunque omaggio a Reggio Emilia: non c’è luogo più giusto di questa città né giorno più giusto del 7 di gennaio, «per dare inizio alla fase più intensa e riccamente rappresentativa delle celebrazioni del 150esimo dell’Unità d’Italia» dice l’inquilino del Colle dopo un bagno di folla festante alla quale ricorda le virtù del Risorgimento e del patriottismo: «Se c’è stata una memoria del nostro lungo processo storico nazionale, che nei decenni dell’Italia repubblicana non si è mai omesso di coltivare e celebrare, è stata precisamente quella della nascita del tricolore; e ne va dato merito a questa città, a questa popolazione e a quanti l’hanno via via rappresentata». Nel corso del 2010, ricorda Napolitano «le celebrazioni del centocinquantenario hanno richiamato eventi fondamentali del 1860, a cominciare dalla spedizione dei Mille, dall’impresa garibaldina per la liberazione della Sicilia e del Mezzogiorno, che aprì la strada al compimento del moto unitario».
«Oggi – ha poi proseguito Napolitano salutando i sindaci di Roma e delle due prime capitali del Regno unitario, Torino e Firenze – si riparte dall’antefatto di quel moto, dalle prime connotazioni politico-statuali che l’Italia aveva assunto nell’era napoleonica, dalla scelta, 214 anni orsono, dell’iscrivere in un piccolo
l’analisi
Fenomenologia del nuovo leghismo È diviso in tre anime, ha molto poco in comune con Berlusconi: ecco dove punta di Francesco D’Onofrio molto probabile che l’analisi sulla inquietudine leghista si soffermi prevalentemente o persino esclusivamente sulle conseguenze che essa può avere sulla stabilità della legislatura e quindi sulle sorti stesse dell’ultimo governo Berlusconi. Occorre, invece, cercare di cogliere ancora una volta l’intreccio tra questioni strettamente territoriali (lombarde in particolare); questioni più evidentemente economiche (il famigerato nord-est veneto in particolare) e questioni più genericamente attinenti alla sicurezza (piemontesi a loro volta in particolare), per cercare di comprendere le ragioni complessive di questa inquietudine che vengono in qualche misura prima della sorte del governo in carica, e vanno quindi molto oltre la sorte medesima del governo per incidere complessivamente sugli equilibri culturali e politici dell’Italia tutta. Sono ormai numerosi gli studi sul fenomeno leghista, perché si tratta con tutta evidenza di un fenomeno particolarmente rilevante nel Nord dell’Italia e di conseguenza significativo per la politica dell’Italia tutta. Occorre infatti aver presente che l’attuale Lega Nord costituisce una sorta di fusione di diversi e distinti movimenti leghisti territoriali l’uno - quello lombardo - più fortemente sensibile al tema del federalismo antipiemontese e antisabaudo; l’altro - quello veneto in particolare - più sensibile ai temi della piccola impresa nel mondo della globalizzazione; l’altro infine - quello piemontese in particolare - più sensibile alle questioni della sicurezza coniugate prevalentemente in termini rigidi e persino egoistici. Queste diverse connotazioni territoriali originarie dell’attuale Lega Nord (per non parlare delle ulteriori e specifiche caratteristiche leghiste in altre regioni d’Italia prevalentemente nel Nord, ma con qualche incursione anche al Centro) inducono pertanto a considerare l’attuale inquietudine leghista come un fenomeno molto più complesso di quanto non si sia soliti rilevare in riferimento all’attuale governo in carica. Occorre infatti aver presente che tutte queste dimensioni territoriali finiscono anche con l’intercettare in modi significativamente
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diversi gli stessi orientamenti religiosi degli italiani: la Lega Nord appare per un verso promotrice di una sorta di Chiesa padana autonoma da Roma (è in questo contesto che va visto anche il difficile rapporto della Lega con il cardinale Tettamanzi), e per altro verso essa accentua la propria specificità cattolica pur in presenza di evidenti mitologie quale è ad esempio l’acqua del “dio” Po.
Questa analisi induce pertanto a ritenere che la Lega Nord vive contestualmente una propria naturale tensione costituente sia nel senso della trasformazione federalistica dello Stato italiano, sia del rapporto tra capacità produttiva e globalizzazione, sia delle risposte all’evidente bisogno di sicurezza soprattutto dei più anziani e di quanti svolgono attività economiche a contatto con il pubblico: questa tensione ha fatto e fa della Lega Nord un soggetto per sua natura non collocabile a destra o a sinistra secondo le tradizionali categorie culturali e politiche italiane, ma neanche al centro se per centro si intende appunto una sorta di equidistanza geometrica da destra e da sinistra. Questa naturale tensione costituente della Lega la colloca infatti quale soggetto interessato ad un insieme di riforme costituzionali che per loro natura richiedono un largo consenso parlamentare soprattutto se in termini strettamente elettorali questo consenso largo è chiaramente evidente in alcune regioni del Nord, mentre in tutto il Centro-Sud sembra prevalere una sorta di preferenza per un sistema politico ed istituzionale basato ad un tempo sia sull’unità nazionale intesa in senso territoriale coincidente con l’unità che stiamo celebrando, sia su un modello di sviluppo economico più centrato sul Mediterraneo che sull’Europa centrale, sia, infine, su un tipo di politica della sicurezza che fa perno quasi esclusivamente su strutture istituzionali dello Stato (forze dell’ordine e magistratura in particolare) che non su azioni di cittadini singoli o associati, perché questi fanno più frequentemente temere un ritorno a forme che si ritenevano definitivamente superate di “bellum omnium contra omnes”. Se pertanto si considera-
L’unico legame vero con il Pdl è dato dal tema della riduzione della pressione fiscale. Sul resto vanno separati
lembo del territorio italiano». Ma quella del presidente della Repubblica non è un’apologia aproblematica dell’unità: «Non si chiede nel celebrare il centocinquantenario una visione acritica del Risorgimento, una rappresentazione idilliaca del moto unitario e tantomeno della costruzione dello Stato nazionale».
Napolitano riconosce infatti che non tutto nel processo di riunificazione è andato come nelle intenzioni. «La delusione e lo scontento che ben presto seguì il compimento dell’Unità ha finito per riprodursi fino ai giorni nostri. Non a caso la critica del Risorgimento ha conosciuto significative espressioni, ma quel che è giusto sollecitare è un approccio non sterilmente recriminatorio e sostanzialmente distruttivo, e un approccio che ponga in piena luce il decisivo avanzamento storico che l’unità ha consentito all’Italia, al di là di storture da non tacere». La nascita del nostro Stato unitario e infatti hanno consentito al Paese – secondo Napolitano – «la sua rinascita su basi democratiche, nel segno della Costituzione repubblicana». E anche oggi, per uscire in piedi dalla crisi profonda che attanaglia il paese, che spaventa le famiglie, che rende incerto e preoccupato il futuro dei giovani, la via maestra è proprio quella dell’unità e della solidarietà
no i comportamenti complessivi della Lega nella successione temporale e territoriale dei medesimi, si coglie l’inquietudine leghista di oggi in molti e più numerosi aspetti di quel che normalmente si ritiene. Dal punto di vista temporale è sempre più fondamentale considerare che il fenomeno delle Leghe, prima ancora che queste divenissero Lega Nord, ha avuto inizio prima del cosiddetto “biennio giudiziario”di Mani Pulite, e quindi che non si possa affermare proprio in riferimento alla Lega Nord che si tratti di un fenomeno culturale e politico di risposta a Mani Pulite. La frequente riaffermazione duramente antidemocristiana della Lega Nord sembra infatti molto più facilmente conciliabile con le radici culturali della destra missina che non con la proposta politica di Forza Italia che – come tutti sappiamo – tende a rappresentare in qualche modo proprio la Dc di oggi, in particolare con il richiamo al Partito Popolare Europeo. Dal punto di vista territoriale occorre invece cercare di cogliere le diverse declinazioni dello stesso federalismo per come esso è vissuto in Lombardia, in Veneto, in Piemonte o in altre regioni. Dal punto di vista economico occorre infine cercare di aver presente che la sintonia della Lega Nord con Berlusconi è consistita soprattutto nella comune volontà di affrontare il tema della riduzione delle tasse, considerate queste essenziali per la stessa capacità della piccola imprenditoria settentrionale a convivere dapprima con l’euro ed ora anche con una globalizzazione tendenzialmente mondiale. Una inquietudine dunque molto complessa e molto articolata non riducibile pertanto nè ad al cosiddetto asse TremontiBossi, nè ad una collocazione politica permanente della Lega nell’attuale centro-destra autosufficiente del quale pure il Pdl parla costantemente.
nazionale. Il fare appello alle forse storiche positive che sono nella biografia della nazione: «La premessa per affrontare positivamente i problemi del Paese, mettendo a frutto tutte le risorse e le potenzialità su cui possiamo contare, sta in una rinnovata coscienza del doversi cimentare come nazione unita, come Stato nazionale aperto a tutte le collaborazioni e a tutte le sfide ma non incline a riserve e ambiguità sulla propria ragion d’essere, e tanto meno a impulsi disgregativi, che possono minare l’essenzialità delle sue fun-
ché non gioverebbe alle ”legittime istanze di riforma federalistica”. «Il federalismo e’ una speranza”, ha proseguito il leader leghista – rientrato a Gemonio, dopo una decina di giorni di vacanze tra Ponte di Legno e Calalzo di Cadore – Bisognerebbe almeno arrivare a realizzare il progetto di Cavour».
A Bossi replica a sua volta il segretario dell’Udc Lorenzo Cesa. Il vero federalismo - dice l’esponente centrista – è quello del presidente Napolitano, «al quale oggi dobbiamo essere grati per aver spiegato con parole di straordinario significato e chiarezza che non può esistere federalismo che prescinda dall’ideale di Nazione e che metta in dubbio l’unita’ del nostro Paese.Tutte le forze politiche devono fare tesoro delle riflessioni del Capo dello Stato per costruire con spirito di condivisione un federalismo davvero solidale, che non lasci indietro una parte del Paese e che unisca l’Italia e gli italiani nelle loro diversità». A tentare una mediazione tra il richiamo di Napolitano e gli strappi di Bossi è il ministro dei Beni culturali Sandro Bondi: «L’idea di uno stato federale è strettamente intrecciata con la storia del nostro Risorgimento. Così come l’universalismo della cultura italiana e la varietà delle nostre tradizioni locali, spiegano l’unicità e la grandezza della nostra unità nazionale».
«Il ritrarsi dall’impegno per il centocinquantenario - che è impegno a rafforzare le condizioni soggettive di un’efficace guida del Paese - non giova a nessuno» zioni, dei suoi presidi e della sua coesione». Il bersaglio delle riflessione di Napolitano – il ministro delle Riforme Bossi – non fa orecchie da mercante e anzi replica alle critiche, seppure indirette, del presidente. «Celebrare i 150 anni dell’Unità d’Italia senza il federalismo – dice Bossi all’agenzia giornalistica Agi – con tutto ancora centralizzato a Roma, sarebbe una cosa negativa». Il riferimento è evidentemente all’invito del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a non ritrarsi dalle celebrazioni della ricorrenza, per-
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l’approfondimento
L’appello del capo dello Stato all’unità per superare la crisi è determinante in questo momento cruciale per l’economia italiana
Tutti i “mostri” di Tremonti Sta affrontando nemici feroci in carne e ossa, non pixel: statuto dei lavoratori, testo unico sulle imprese, sostegno all’occupazione sono temi fondamentali per il futuro. Senza contare poi il federalismo, ultimo ostacolo del “gioco” di Giuliano Cazzola
Giulio Tremonti piace molto descrivere la sua via crucis quotidiana ricorrendo alla metafora del videogame. Il ministro, manovrando gli aggeggi del computer, distrugge un mostro dietro l’altro, ma un attimo dopo ne compare uno nuovo, così all’infinito. Di sbagliato nella metafora c’è solo un dato di fatto: i mostri con i quali Tremonti deve combattere non sono giochi elettronici, ma creature demoniache in carne ed ossa, spietate e sanguinarie, pronte a devastare in pochi minuti ingenti ricchezze accumulate da milioni di cittadini con il loro lavoro. In un Paese ormai abituato al gossip, il superministro sembra un personaggio di altri tempi: non ha una vita privata, non ha scheletri nell’armadio, ha un prestigio personale che gli viene riconosciuto sul piano nazionale ed internazionale, è sempre pronto ad assumersi le responsabilità in prima persona. Se c’è da tenere la linea non guarda in faccia a nessuno. Si racconta di sue battute fulminanti nei confronti dei colleghi
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di gabinetto. Persino Berlusconi si è dovuto adeguare più volte perché ha capito che Tremonti è difficilmente sostituibile. Nel lontano 2004, Fini ottenne da Berlusconi la «testa» di Tremonti, allora ministro del Tesoro. Prese, infelicemente, il suo posto Domenico Siniscalco. Il Paese rischiò la bancarotta, al punto che Tremonti venne richiamato, novello Cincinnato, a via XX Settembre, col compito di riscrivere la legge finanziaria di fine legislatura.
E Giulio fu così allineato con la Ue che il suo successore Tommaso Padoa Schioppa (ministro di un esecutivo di sinistra-centro) non trovò niente da ridire su quel provvedimento. Da quell’esperienza uscì un Tremonti diverso da quello che avevamo conosciuto in precedenza. All’inizio del primo decennio del nuovo secolo, il ministro si era caratterizzato per le polemiche nei confronti della globalizzazione, per una certa insofferenza verso i vincoli europei. Oggi Tremonti sembra essersi lasciato alle spalle quel-
le critiche. Ma i maggiori cambiamenti riguardano la linea di condotta nei confronti dell’Unione europea. Tremonti ha assunto con coerenza la linea del rigore, in sintonia con le indicazioni della Ue. Anzi si è reso protagonista delle iniziative che l’Europa ha ritenuto di assumere per fare fronte alla crisi. Più volte Tremonti ha dichiarato che solo i numeri fanno politica, che le vere leggi di stabilità sono date dai tassi di interesse con cui vengono sottoscritti, sui mercati internazionali, i titoli del debito sovrano.
Anche il premier deve fare i conti con un ministro che tiene la linea in prima persona
Ormai, che il Governo abbia dato buona prova sul terreno della tenuta dei conti pubblici è riconosciuto anche dagli avversari. La cosa che lascia interdetti è un’altra: sembra che aver garantito la solidità dei bilanci pubblici sia un fatto di ordinaria amministrazione, quando è ben evidente che è proprio questo il terreno su cui alcuni Stati europei rischiano di andare a gambe per aria. Ma, si dice, il risanamento non basta più; è l’ora della crescita, della riduzione delle tasse, del sostegno all’occupazione.
Un’azione di stimolo nei confronti dell’esecutivo sarebbe indubbiamente utile e salutare se non fosse che le difficoltà incontrate dipendono in larga misura dalla crisi latente del quadro politico e da una maggioranza che non è riuscita a stare unita. È ingeneroso, pertanto, pretendere che il governo si lanci in ardimentose riforme quando è esposto al «fuoco amico» che è sempre il più pericoloso perché contro di esso siamo indifesi ed impreparati. Ma non risponde al vero che il Governo abbia perso in spinta propulsiva. È la crisi del quadro politico ad aver influito negativamente sull’azione dell’esecutivo. Eppure, anche gli ultimi sei mesi non sono stati inutili. Il 24 novembre è entrato in vigore il «collegato lavoro», un provvedimento molto delicato, che ha richiesto ben sette letture e che è stato oggetto, al momento della promulgazione, persino di un messaggio di rinvio alle Camere del Presidente della Repubblica ai sensi dell’articolo 74 della Costituzione. Si è trattato di una legge molto
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Evidente il richiamo agli Stati-membri che hanno rischiato nell’ultimo anno la bancarotta
L’ultimatum di Trichet: «L’Europa non è una balia»
Il presidente della Bce parla chiaro: «Le nazioni siano responsabili delle proprie scelte in politica economica. Serve più rigore» di Carlo Lottieri nche chi non segua da vicino le cronache economiche e finanziarie ha ormai più un motivo di ritenere che la situazione, in Europa, stia facendosi davvero difficile.Tra i maggiori responsabili politici sta ormai crescendo la consapevolezza che bisogna voltare pagina e si deve abbandonare la vecchia maniera di gestire i bilanci pubblici, anche se questo comporta un ribaltamento di paradigma. Ieri l’ha lasciato intendere Jean-Claude Trichet, presidente della Banca centrale europea, intervenendo in Germania e provando a rassicurare l’opinione pubblica in merito ai timori – sempre più diffusi – di una rapida accelerazione dell’inflazione. Nel mese di dicembre i prezzi al consumo della zona Euro sono infatti saliti al ritmo annuo del 2,2%, superando per la prima volta negli ultimi due anni quel limite del 2% che era stato fissato dalla Bce. In particolare, Trichet ha richiamato i responsabili degli Stati europei ad assumersi in pieno le proprie responsabilità, evitando quella dilatazione delle spese e quei deficit di bilancio che tanto male hanno fatto alla moneta comune. Il governatore è stato esplicito, sostenendo che è giunto «il momento di rafforzare il codice di condotta dei governi nazionali, e cioè il patto di stabilità e di crescita».
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In effetti, il destino dell’euro è a rischio. Se il 2010 ha obbligato a compiere sforzi colossali per sostenere Grecia e Irlanda, durante l’anno che è appena iniziato non vi sarà la possibilità di ripetere analoghi comportamenti per soccorrere Paesi di ben altro peso: si tratti della Spagna o, addirittura, dell’Italia. Ma l’euro è una moneta il cui destino è legato a quello delle diciassette economie che ne fanno uso e per questo è indispensabile che i governi sappiano procedere sulla strada del risanamento dei conti pubblici. Il governatore non l’ha detto, ma è evidente che l’unico modo per riuscire in questa impresa consiste nell’abbandonare il modello economico renano, e cioè statalista e socialdemocratico (anche se qualcuno – bizzarramente – lo ha recentemente designato usando la formula dell’economia sociale di mercato). Per mettere ordine nei bilanci nazionali bisogna restituire al mercato molte competenze che i poteri pubblici gli ha sottratto, si deve privatizzare e liberalizzare, è necessario tagliare le spese e porre fine alle logiche degli aiuti. Anche se Trichet è rimasto nel vago, quando in Europa si chiede ai governanti di invertire la rotta, è verso questa prospettiva che si suggerisce di procedere, tanto più che la pressione fiscale è già ora altissima e un ulteriore aumento delle entrate produrrebbe solo il collasso della produzione. Le parole usate da Trichet sono quindi significative e in larga misura finiscono
per convergere con le analisi sviluppate da molti altri in differenti circostanze, compreso l’intervento di fine anno del Presidente della Repubblica italiana Giorgio Napolitano. Ma insieme alle parole del governatore della Bce va tenuta in considerazione pure, per così dire, la “location”.Egli si è infatti espresso in tal modo nel corso di un convegno organizzato a Kreuth dalla Csu, la versione bavarese e cattolica della Cdu. È specialmente in Germania, e soprattutto negli
Gli aiuti a Grecia e Irlanda non saranno ripetibili, tanto meno per Paesi come la Spagna e l’Italia ambienti più conservatori, che va crescendo una netta insofferenza verso l’Euro, la moneta comune e la stessa Unione. Aver abbandonato il marco e aver adottato una moneta sovranazionale ha costretto l’economia tedesca a rilevanti esborsi per soccorrere di chi – greci o irlandesi – negli anni scorsi è vissuto al di sopra delle proprie possibilità. Senza dimenticare che i tedeschi hanno più di tutti bisogno di una moneta forte e stabile, dopo che nel primo dopoguerra hanno sperimentato le conseguenze devastanti (anche sul piano sociale e politico) dell’iper-inflazione.Trichet sa bene che in Germania si vuole che l’euro sia davvero l’erede del vecchio marco e per questo ha ribadito loro tale concetto, sostenendo che dopo uno degli anni più difficili per la valuta comune è venuto il momento di voltare pagina con coraggio. Ma cambiare non sarà facile. Perfino un Paese come il Regno Unito, tradizionalmente abituato a gestire con grande fair-play le proprie divergenze interne e le discussioni anche più aspre, nelle scorse settimane ha dovuto fronteggiare una mezza rivolta di piazza conseguente alla riforma universitaria
(peraltro ricca di elementi interessanti) voluta dal premier David Cameron e dal governo liberal-conservatore. Per non parlare di Paesi ancor meno disposti a modificare gli assetti tradizionali e ad abbandonare i propri vizi storici: si tratti della Francia come del Belgio, come dell’Italia. Trichet ha preso alcuni impegni solenni di fronte all’opinione pubblica tedesca, ma il mantenimento di quelle promesse è tutto nelle mani dei governanti nazionali, che in più circostanze devono però fronteggiare una popolarità in calo e talora vedono pure avvicinarsi il momento delle elezioni. Non è affatto detto che, dopo il discorso di Trichet, la platea di Kreuth si sia davvero sentita più tranquilla in merito al futuro del Vecchio Continente.
importante, ricca di contenuti e tale da riempire, in materia di lavoro, un’intera legislatura. È stata approvata in via definitiva la riforma dell’Università: a proposito di questa legge possiamo dire che il tempo si rivela galantuomo prima ancora delle nostre aspettative. Non è vero, dunque, che il Governo sia assente in un momento delicato dell’economia. Non crediamo nell’onnipotenza della politica. Siamo più propensi, sul piano culturale, a vederne i limiti. Ma qualche merito andrà pur riconosciuto al Governo se dopo una crisi violentissima (non ancora conclusa) l’economia torna a crescere grazie alle esportazioni; se la disoccupazione rimane in linea con i trend degli altri Paesi europei; se l’apparato industriale mantiene il quinto posto nel mondo (mentre quello di nazioni più blasonate è scivolato verso il basso); se, dopo l’accordo quadro del 2009, sono stati rinnovati una sessantina di contratti nazionali praticamente senza scioperi; se le misure di riforma del sistema pensionistico hanno stabilizzato ulteriormente la spesa in un clima di pace sociale (Oltralpe le cose sono andate molto peggio).
Tutto ciò è avvenuto in coerenza con la «messa in sicurezza» dei conti pubblici, senza dover ricorrere a quelle cure da cavallo di cui è protagonista, da ultimo, il Regno Unito. Questa è stata la legislatura della riforma delle leggi di bilancio, dell’introduzione del federalismo fiscale nonché del riordino del pubblico impiego e della riorganizzazione della scuola. È stato garantito il finanziamento degli ammortizzatori sociali, ha avuto applicazione la detassazione delle voci retributive legate alla produttività (ciò significa, ad esempio, che i dipendenti di Mirafiori e di Pomigliano riceveranno un incremento retributivo di 3,7 mila euro all’anno tassati al 10%). Poi c’è il ciclone Marchionne: il Governo non ha voluto intromettersi, ma l’azione dell’Ad è sicuramente un assist importante per Maurizio Sacconi.Tra poche settimane, se la legislatura proseguirà, in Aula, alla Camera, insieme allo Statuto dei lavori arriverà anche lo Statuto delle imprese: un segnale di grande attenzione non solo ai lavoratori, ma anche ai diritti delle aziende. Siamo, poi, alle battute finali del federalismo. Forse il decreto sulla finanza locale è di complessa soluzione. Ma c’erano preoccupazioni e dubbi anche in occasione dei decreti precedenti. Preoccupazioni e dubbi che sono stati superati, anche perché il Governo ha espresso capacità di ascolto e di dialogo. Poi, si vedrà. Anche per la riforma fiscale, nonostante i margini ristretti. Di certo, nessuno avrebbe scommesso su di una vittoria del Governo il 14 dicembre.
diario
pagina 6 • 8 gennaio 2011
Disoccupazione record tra i giovani
Chiesto l’ergastolo per Raniero Busco
Legali Scazzi: «No a audizione Misseri»
ROMA. Aumento record per la
ROMA. Chiesta la condanna all’ergastolo per Raniero Busco, accusato dell’omicidio di Simonetta Cesaroni, sua ex fidanzata. A chiedere la condanna è stato il pm Ilaria Calò concludendo davanti alla terza Corte d’Assise la requisitoria cominciata il 21 dicembre scorso per sostenere che Busco è responsabile di omicidio volontario aggravato dalla crudeltà considerato che la vittima è stata trafitta in ogni parte del corpo con ben 29 coltellate. Secondo il pubblico ministero «per uccidere Simonetta Cesaroni bastavano tre coltellate. Le altre sono segno di crudeltà e non vi sono dubbi anche sulla base di perizie tecnicoscientifiche che la responsabilità di quel delitto avvenuto 20 anni fa sono di Busco».
ROMA. «Nella vicenda di Sarah
disoccupazione giovanile. Il tasso tra i giovani dai 15 ai 24 anni è salito a novembre al 28,9%, il livello più elevato dal gennaio del 2004. Lo rileva l’Istat. Il tasso aumenta «di 0,9 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 2,4 rispetto a novembre 2009», aggiunge l’Istat. Per quanto riguarda il dato generale, «il numero delle persone in cerca di occupazione risulta in diminuzione dello 0,4 per cento rispetto ad ottobre e in aumento del 5,3 per cento rispetto a novembre 2009. Il tasso di disoccupazione, pari all’8,7 per cento, diminuisce rispetto a ottobre di 0,1 punti percentuali; in confronto a novembre 2009 il tasso di disoccupazione registra un aumento di 0,4 punti percentuali».
mancano ancora alcuni importanti tasselli. Siamo convinti però che non sarà certo un’altra audizione dell’oscillante Misseri a disvelarla». Lo affermano gli avvocati Biscotti e Gentile, legali della famiglia Scazzi. Nei giorni scorsi la difesa di Sabrina Misseri, amcora in carcere, hanno presentato una richiesta al gip del Tribunale di Taranto, Rosati, per poter interrogare Michele Misseri nell’ambito di indagini difensive come prevede l’articolo 391 bis del Codice di Procedura Penale che dà al gip la facoltà di decidere o meno e pm e difesa la possibilità di esprimere un parere non vincolante. Ma la stessa Procura di Taranto potrebbe decidere di riascoltare autonomamente lo zio di Sarah.
Le province a maggiore crescita, con una forbice che va dal 16 al 17%, sono Prato, Pavia e Rieti. Solo Nuoro registra un - 2,3%
Nemo imprenditore in patria
Aumentano in Italia le aziende degli stranieri, mentre calano quelle nostrane di Angela Rossi
ROMA. Imprenditori stranieri in crescita con una percentuale del 9,2 a fronte di un calo del mercato occupato dagli italiani pari all’1,2. Stando ai dati elaborati dalla Fondazione Leone Moressa di Mestre e riferiti all’arco di tempo che va dal terzo trimestre del 2008 al terzo trimestre del 2010. Nel dettaglio dello studio, basato sugli ultimi dati disponibili di Infocamere, le province a maggiore crescita, si va dal 16 al 17%, sono Prato, Pavia e Rieti.
Solo la provincia di Nuoro ha fatto registrare una percentuale negativa del 2,3. Proprio Prato, insieme alla provincia di Trieste, fa registrare la maggiore presenza di stranieri nel settore imprenditoriale rispettivamente con il 15,3 e il 10,9; e intorno al 10% di aumento si attestano anche le province di Teramo e Gorizia. Restano comunque Milano, Roma e Torino le città con la presenza più cospicua di imprenditori provenienti da altre aree geografiche. Questo per quanto riguarda le cifre. Nell’ambito delle specializzazioni, invece, al Nord è distribuito il più alto numero di imprenditori stranieri che operano nel settore delle costruzioni. A voler leggere i dati al di là dei numeri, una motivazione del fenomeno, va ricercata «nell’aumento naturale della popolazione straniera secondo Valeria Benvenuti, ricercatrice della Fondazione Moressa - e di conseguenza anche del numero di imprenditori. In questo periodo di crisi gli stranieri vedono il lavoro autonomo come l’unica alternativa al lavoro dipendente. Una buona parte infatti opera nel setto-
Secondo alcuni dati elaborati dalla Fondazione Leone Moressa di Mestre, e riferiti all’arco di tempo che va dal terzo trimestre del 2008 al terzo trimestre del 2010, aumentano in Italia gli imprenditori stranieri, con un +9,2%, a fronte di un calo di aziende italiane pari all’1,2%
re delle costruzioni, dove in qualche modo è costretto a lavorare per un unico committente a fronte di un mercato più ampio lavorando autonomamente». Gli aumenti maggiori sono stati registrati nell’edilizia e nel commercio mentre per quanto riguarda le manifatture, settore che vive in maniera più grave la crisi, la variazione è stata limitata. «Alcune fette di mercato - aggiunge Benvenuti vengono lasciate libere dagli italiani e gli stranieri trovano quindi maggiori spazi come, ad esempio, nella ristorazione e nel commercio al dettaglio o, ancora, in alcuni settori nei quali sono maggiormente specializzati. Il livello di competiti-
vità è ridotto poiché gli stranieri offrono prodotti e servizi maggiormente competitivi dal punto di vista del prezzo. Creano servizi a favore di un nuovo tipo di clientela, destinati quindi anche ai nuovi cittadini ed intercettano, così, una domanda che gli imprenditori italiani non riescono ad intercettare». E su quattro stranieri operanti nell’imprenditoria in Italia, uno è donna. La presenza femminile si registra soprattutto nel settore della ristorazione dove si raggiunge quasi la metà della fetta di mercato occupata mentre le quote rosa raggiungono il 27% nel commercio e il 29,5 nelle manifatture. «Ci sono più donne anche per quanto ri-
guarda i servizi alle persone aggiunge ancora la dottoressa Benvenuti - Le straniere vanno a coprire aree che le italiane non coprono. In maniera meno marginale di quanto non siano nel settore imprenditoriale dove abbiamo livelli più bassi dato che parliamo di colf e badanti e quindi di dipendenti e non di imprenditrici».
Marocchini, rumeni e cinesi, con svizzeri e tedeschi coprono il 40% dell’intero comparto. Anche qui, naturalmente, esistono alcune differenziazioni. I marocchini sono presenti in maggior numero in Calabria, Campania ed Emilia Romagna mentre i cinesi in Veneto, Mar-
che e Toscana. I senegalesi in Sardegna ed in Lombardia gli egiziani. Basilicata e Calabria sono le due regioni a maggiore concentrazione etnica. Qui gli imprenditori stranieri raggiungono il 60% delle presenze. Va ancora aggiunto, relativamente al dato generale, che più di tre quarti degli imprenditori stranieri opera in Italia dal 2000, che il 64,7 % ha un’età compresa tra i 30 e i 50 anni mentre il 10% ha un’età inferiore ai 29 anni. Oltre il 54%, infine, gestisce un’impresa personale. Un fenomeno in evoluzione, sempre stando agli studi della Fondazione Moresca, e che non sembra essere colpito dalla crisi. Al contrario invece in Italia,
diario
ragioni&torti di Giancristiano Desiderio
Potenza, agguato contro il giornalista Nello Rega: illeso
J. M. Keynes e la saggezza per la nuova èra
ROMA. Un colpo di pistola è stato esploso nella notte di ieri contro il giornalista del Televideo Rai Nello Rega, a Potenza, mentre era in auto e tornava a casa. L’episodio è avvenuto sulla strada statale Basentana. Rega era solo in auto. È rimasto illeso. Il giornalista potentino è da due anni nel mirino dell’Islam radicale per aver scritto il libro Diversi e divisi, sulla difficile convivenza tra cristiani e musulmani. Dal 2009 ha ricevuto diverse minacce di morte, sia a Potenza che a Roma. Gli è stata recapitata anche una busta con delle pallottole. Rega ha chiesto in tutte queste circostanze di essere protetto dallo Stato temendo per la sua vita. Secondo quanto denunciato, il colpo di pistola è stato esploso da un’auto in corsa che ha affiancato la vettura di Nello Rega. Il proiettile ha danneggiato il vetro posteriore. Rientrato a
Potenza, ha denunciato il fatto alle forze dell’ordine. I carabinieri hanno preso in consegna la vettura per accertamenti. Nello Rega, 43 anni, potentino, lavora nella redazione Esteri di Televideo Rai. Dal 2005 è presidente della Together Onlus e del progetto umanitario LibanItaly. Il libro che ha innescato le minacce, Diversi e divisi, diario di una convivenza con l’Islam, contribuisce a raccogliere fondi a favore dell’Oratorio dei Salesiani a nord di Beirut.
gli ultimi dati Istat non lasciano ben sperare: nel terzo trimestre 2010, si è registrato un tasso complessivo di disoccupazione dell’8,7%, con punte del 12,1% nelle regioni meridionali, il che equivale a più di 2 milioni di persone in cerca di occupazione, la cui metà è in attesa di lavoro da oltre un anno.
Nel terzo trimestre 2010, le cifre sono state negative anche per coloro che sono andati ad ingrossare le fila di chi ha perso il lavoro, con 176mila lavoratori in più (e si parla di lavoro a tempo indeterminato), che hanno perso il loro posto in soli tre mesi, rispetto ai 258mila persi su base annua. Dando poi uno sguardo alla disoccupazione giovanile, e cioè in una fascia di età compresa tra i15 e i 24 anni, c’è un aumento del 24,7%, anche se rispetto al 28,3% del mese precedente è in calo. Va calcolato però su questo dato che alcuni provvedimenti per la lotta alla disoccupazione giovanile nel sud sono recenti, come il Piano straordinario per il Sud e l’apprendistato, anche se quest’ultimo è ancora in attesa di approvazione. I dati della disoccupazione giovanile, uniti ai dati di chi non cerca più lavoro, si attestano intorno al 38,6%. Però, come si evince da studi recenti elaborati nelle ultime settimane proprio dalla Fondazione Moressa, mentre gli imprenditori italiani faticano a mantenere aperte le loro imprese, sembra che invece non subiscano crisi i titolari d’azienda stranieri presenti in Italia. E non solo negli ultimi tempi. Parliamo infatti degli ultimi 5 anni. Un tempo nel quale gli imprenditori stranieri sono cresciuti del 40,5%, sfiorando alla fine dell’anno scorso quota 600mila imprese. Anche nel 2009 l’aumento rispetto all’anno precedente è stato del 4,1%. Queste sono cifre scaturite da uno studio della Cgia di Mestre, secondo la quale, elaborando questi dati, si stima che in queste 600mila attività guidate da titolari stranieri trovino lavoro almeno 2 milioni di persone. La comunità più numerosa è quella degli imprenditori
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I settori più interessati sono l’edilizia, il commercio e la ristorazione
A sinistra, il ministro Luca Zaia. Sopra, alcune immagini di attività avviate nel nostro Paese da imprenditori stranieri
marocchini che conta 57.621 aziende, seguita da quella cinese con 49.854, e quella romena con 49.132. Ci sono poi gli svizzeri (43.973 imprenditori), i tedeschi (36.325) e gli albanesi (34.982). «Ma il dato interessante - sostengono gli artigiani di Mestre - è l’incremento che si è registrato negli ultimi anni». Tra il 2004 e il 2009, ad esempio, gli imprenditori romeni (presenti prevalentemente nell’edilizia), sono cresciuti del 204,1%. I cittadini del Bangladesh (con forte attitudini nel settore del commercio alimentare e nei phone center) sono aumentati del 133,6%. Gli albanesi, ancora nelle costruzioni, nel settore delle costruzioni) hanno registrato una impennata addirittura del 110,1%. «Innanzitutto va ricordato che in questi anni è decisamente aumentato il loro numero in termini assoluti, e quindi è cresciuto in maniera corrispondente anche la loro propensione a mettersi in proprio - ha spiegato alla stampa Giuseppe Bortolussi, segretario degli Artigiani di Mestre - Inoltre, in virtù del forte impulso subito dai ricongiungimenti familiari, molti stranieri hanno scelto di aprire una piccola attività artigianale o commerciale grazie all’aiuto del coniuge o di altri familiari che si sono prestati come collaboratori».
Anche sulla proposta lanciata dalla Lega Nord di introdurre l’obbligo di un corso di lingua italiana per coloro che vogliono aprire un’attività commerciale il segretati oha avuto modo di affermare che «stando ai risultati emersi da una recente indagine presentata dall’Istat nel dicembre scorso, il 90,9% dei lavoratori stranieri intervistati ha dichiarato di far uso della lingua italiana nei luoghi di lavoro. Inoltre, ritengono che questa sia una condizione necessaria per affermarsi professionalmente oltre a rappresentare uno strumento necessario per favorire il loro inserimento sociale. L’unica eccezione conclude - è rappresentata dai cinesi, che praticamente non conoscono la nostra lingua».
riedrich von Hayek è stato acerrimo nemico di John Maynard Keynes, tanto che quando si richiamano delle idee di economia molto lontane da quelle di Keynes si fa il nome di Hayek. Tuttavia, quando Keynes morì Hayek disse: «È stato l’unico grande uomo che io abbia incontrato». Il nemico di Hayek non era semplicemente quello che si chiama un economista e neanche quello che si definisce un grande economista. Era qualcosa di più. La frase con cui Hayek lo volle salutare e rendergli il giusto omaggio ci dice chi fu: un grande uomo. E soprattutto un grande scrittore. Il libro edito da Adelphi e curato da Giorgio La Malfa - Sono un liberale? - lo dimostra con chiarezza.
F
«Gli economisti devono lasciare la gloria del grande volume in quarto al solo Adam Smith, devono vivere alla giornata, gettare pamphlet al vento, scrivere sempre sub specie temporis, e ottenere l’immortalità, semmai, per caso». Così scriveva Keynes nel 1924 in un ritratto del suo maestro a Cambridge, Alfred Marshall, raccolto in questo volume. Forse, quanto Keynes dice per l’economia vale nel nostro tempo anche per tanti altri “campi del sapere”. Tuttavia, per l’economia l’intelligenza della frase di Keynes - perché la frase dice esattamente le cose come stanno - fa più impressione. Siamo infatti soliti pensare all’economia come a una scienza più o meno esatta e comunque come a qualcosa che più si avvicina alle cose esatte e concrete. E dunque come qualcosa il cui sapere può essere raccolto in un “grande volume in quarto” e in un “sistema”. Keynes capovolge questa visione delle cose, tanto che afferma che non si possano scrivere trattati ma solo dei pamphlet, dei “pamphlet al vento”. Le opere maggiori di Keynes furono proprio dei pamphlet: tale fu Le conseguenze economiche della pace e tutto sommato anche la stessa Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta con cui nel ’36 Keynes rivoluzionò la scienza economica era un pamphlet. La lettura dei saggi e scritti raccolti da Giorgio La Malfa è appunto la lettura di un “pamphlet al vento” che colpisce per le cose di genio e di buon senso, di verità e concretezza che vi sono riportate e spiegate con grande eleganza. Keynes sembra essere dotato di uno sviluppato senso storico a tal punto che non si sa se l’economia e il senso storico siano due cose diverse. Nello scritto del 1955 che dà il titolo al libro - Sono un liberale? - prevede con lucidità che nel giro di qualche decennio le questioni che divideranno i partiti non saranno tanto quelle economiche, quanto quelle dei diritti civili, della sessualità, delle scelte individuali. In un passo dice una cosa che è vera soprattutto per noi oggi: «Metà della scolastica saggezza della nostra classe dirigente si basa su assunti che un tempo erano veri - o parzialmente veri - ma che lo sono sempre meno ogni giorno che passa. Dobbiamo inventare una saggezza nuova per una nuova èra». Siamo ancora alla ricerca di questa nuova saggezza.
mondo
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Assurde (e false) le accuse contro Shenouda III, che secondo gli integralisti «avrebbe sequestrato due donne musulmane»
Tutta la verità sui copti Dietro l’attacco alla chiesa di Alessandria c’è una lunga battaglia sulle conversioni di Samir Khalil Samir attentato contro la chiesa dei Santi ad Alessandria di Egitto, il 31 dicembre scorso a mezzanotte, mostra con sempre più crudezza la crescita di cristianofobia nel mondo islamico (e non solo). É importante una denuncia di queste violenze, ma anche trovare passi concreti da fare.Vediamo anzitutto i fatti: i musulmani egiziani accusano la Chiesa copta e il patriarca Shenouda III, di tenere prigioniere in monasteri in Egitto due donne che sarebbero state convertite all’islam. Questa accusa completamente falsa, è stata riproposto lo stesso giorno dell’attacco, il 31 dicembre. Nella moschea a 200 metri dalla chiesa attaccata, a mezzogiorno, dopo la predica dell’imam, vi è stata una manife-
L’
ne di un giornale islamico, alMesreyya, sull’attacco alla chiesa di Alessandria. Invece di addolorarsi per le vittime cristiane, per l’attentato, ecc., tutti – almeno 60 interventi – hanno detto che “è colpa dei copti”, e hanno citato il fatto delle due donne; che l’assalto alla chiesa era organizzato dai copti stessi “per farci fare brutta figura di fronte al mondo”; o che è stata organizzata dagli Usa e dal Mossad.
Io ho fatto un piccolo intervento, ma non è stato pubblicato. Nelle poche righe concesse io chiedevo con quale diritto si costringe alla conversione. Le conversioni sono un fatto che viene sottaciuto in Egitto, dove le conversioni all’islam sono facilitate, mentre quelle dall’islam a un’altra religione sono
In molti Paesi europei i musulmani continuano ad accrescere le loro richieste, presentati come loro “diritti”; fanno cose inconsuete e nessuno dice nulla. È il politicamente corretto all’incontrario stazione di musulmani rivendicando la liberazione di queste due donne e di altre. É da quattro anni che questa storia va avanti. Le due donne, Wafa’ Costantine e Camelia Shehata, spose a due sacerdoti, avrebbero avuto problemi coniugali. Si sarebbero convertite all’islam e poi rapite dalla Chiesa e nascoste. É vero che le donne avevano problemi coniugali, ma non è vero che si sono convertite. Lo stesso defunto capo di Al-Azhar, Tantawi, ha decretato che non c’è la prova della loro conversione. Le due donne sono state allora consegnate alla Chiesa che, per paura di possibili rapimenti da parte dei movimenti islamici, le ha portate in alcuni conventi. Ma la storia ritorna di continuo. Perfino dopo l’attacco della chiesa siro-cattolica a Baghdad, il 31 ottobre scorso, il gruppo che ha rivendicato il gesto terrorista, ha citato il caso di queste due donne, giustificando gli attacchi contro i cristiani, anche in Egitto. Ieri ho partecipato a un forum onli-
ostacolate con forza. Il governo del Cairo afferma che l’attacco alla chiesa di Alessandria è stato compiuto da una mano straniera. E in qualche modo è vero: il gruppo irakeno che ha rivendicato l’attacco del 31 ottobre nella chiesa di Baghdad, legato ad Al Qaeda, ha minacciato violenze fino a che le due donne egiziane non saranno rese alla comunità islamica. Ora, al Qaeda, il cui capo è al Zawahiri, un egiziano, è di fatto una piovra mafiosa terrorista con diramazioni internazionali. L’imam di Al-
Azhar ha criticato il papa che avrebbe chiesto ai governi mondiali di difendere i cristiani e non si preoccupa dei musulmani uccisi in Iraq. Che una personalità come lui, considerato un moderato e una persona molto istruita abbia detto queste parole contro il papa è inammissibile: egli ha criticato il pontefice senza saperne nulla, guardando solo i titoli di giornali. In realtà nel discorso del papa non c’è nulla da rimproverare. Benedetto XVI ha ricordato soltanto che la violenza contro l’uomo è contro la volontà di Dio. È ovvio che egli abbia chiesto di aiutare i cristiani, visto che si stava parlando dei fatti successi in questi giorni. Se anche avesse chiesto la protezione per i cristiani, che scandalo c’è? Se i governi del Medio oriente non sono capaci
di difenderli, perché non vogliono o perché non sono capaci, allora il mondo deve fare qualcosa, altrimenti che senso ha l’Onu o altre assise internazionali?
È pure ridicolo dire - come ha fatto l’imam dell’Azhar - che il papa non ha mai difeso i musulmani dell’Iraq. Giovanni Paolo II e Benedetto XVI non hanno mai approvato l’intervento americano in Iraq, né che sia stato lecito. Va detto poi che molto spesso i musulmani sono colpiti ed uccisi da altri musulmani. Il papa può condannare la violenza e dire che bisogna sconfiggere l’intolleranza, e smetterla di giustificare la violenza in nome di Dio. E questo il papa lo ha fatto innumerevoli volte. Alcuni analisti mettono in guardia contro i tentativi in occidente di strumentalizzare tutte queste violenze contro i cristiani. Di fatto, però, in molti Paesi europei i musulmani continuano ad accrescere le loro richie-
ste, presentati come loro “diritti”; fanno cose inconsuete e nessuno dice nulla.
Ad esempio, in Francia e in Italia, al venerdì i musulmani occupano le strade per la preghiera, bloccando la circolazione. L’Islam in Europa rivendica sempre di più e i governi non sanno come reagire; una parte di loro fa difficoltà a integrarsi; il rapporto fra governi e immigrati musulmani è fra i più difficili. Certo, la stragrande maggioranza dei musulmani vuole la pace, vuole integrarsi, ma fra loro vi sono persone che hanno un altro progetto: noi in Europa abbiamo diritto a vivere la nostra legge, la Sharia, e voi ce lo impedite. Alcuni anni fa, a Milano, il capo della moschea di viale Jenner, a una domanda sui convertiti al cristianesimo in Egitto, diceva: Basta applicare la legge. Che significa l’uccisione di quei convertiti. Se voi condannate questa applicazione – egli diceva – frenate la nostra libertà di religione. Questa posizione e le rivendicazioni per applicare la sharia islamica sta creando problemi in Francia Italia, Danimarca, ecc.. È possibile che i governi europei utilizzino le violenze contro i cristiani per bloccare l’emigrazione islamica. Come è possibile che Israele utilizzi queste violenze per giustificare il razzismo che emerge sempre più nella società israeliana. Ma la violenza contro i cristiani è un fatto che avviene tutti i giorni e ha di mira il farli fuggire dal Medio oriente. In Egitto capitano attentati e uccisioni di continuo.
mondo
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Il presidente francese ha poi assicurato: «Mi batterò per la libertà religiosa»
«Esiste un piano di epurazione dei cristiani d’Oriente»
Denuncia-choc di Sarkozy, primo leader europeo a rispondere agli appelli del Papa e di Bagnasco sulla difesa dei credenti di Gabriella Mecucci
ROMA. Finalmente un leader europeo ha battuto un colpo. È stato Nicolas Sarkozy il primo a rispondere agli appelli del Papa “alle Nazioni” e del cardinal Bagnasco “all’Europa”, che chiedevano “di difendere i cristiani”. Il Presidente francese ha preso la parola ieri è ha denunciato senza mezzi termini l’esistenza «di un vero e proprio piano, particolarmente perverso, di epurazione dei paesi arabi dai cristiani d’Oriente». Ha poi assicurato, nel corso della cerimonia di auguri per il nuovo anno con i rappresentanti di tutte le fedi, che si batterà «per garantire la piena libertà religiosa». Dopo l’attentato ai Copti d’Egitto, Benedetto XVI aveva espresso tutta la sua preoccupazione per la sorte dei cristiani,“perseguitati”, oggetto di “soprusi” e di “intolleranze gravissime” ormai in molti paesi: dall’Egitto, all’Iraq, al Sudan, al Pakistan. all’India, tanto per citare i casi più gravi. Il Papa, nell’ambito dell’appello di Capodanno, aveva poi riproposto l’appuntamento di Assisi, voluto fortemente da Giovanni Paolo secondo, “per favorire il dialogo interreligioso”. Subito dopo, Bagnasco era tornato sull’argomento e aveva direttamente chiamato in causa l’Europa. A queste sollecitazioni, avevano risposto in modo però piuttosto rituale, Silvio Berlusconi e il ministro Frattini. Entrambi annunciando di voler “difendere la libertà religiosa”. Ancora nessuna dichiarazione impegnativa invece da parte della signora Merkel. Ieri la novità più importante: la presa di posizione di Sarkozy che non si limita a riaffermare l’intangibilità della libertà religiosa, ma denuncia - così come aveva fatto il Papa - il duro attacco mosso ai cristiani, “il piano di epurazione” che si sta portando avanti sistematicamente contro di loro. Finalmente si alza una voce forte e chiara dall’Europa. E si alza dal paese più “laico”, o se si vuole, “più scristianizzato”. È lo Stato francese infatti quello che storicamente ha espulso tutti i simboli religiosi dai luoghi pubblici. Lo ha fatto in nome di una laicità che espelle dalla vita pubblica le diverse fedi, puntando a relegarle solo nel privato. Ed è stato prima di tutti l’ex presidente Giscard a non accettare la richiesta di Giovanni Paolo di ricordare nella Costituzione europea “le radici cristiane” del Vecchio Continente. E di profonde divergenze fra la Santa Sede e Parigi ce ne sono state molte anche di recente.
tiva”. Una forma di laicità che non si fonda nè sull’ostilità nè sull’indifferenza verso le religioni, ma sul rispetto di esse. Che non esclude la loro presenza dalla vita pubblica. Poco dopo la sua elezione, venne a Roma per incontrare il Papa e cambiare così la natura del rapporto per tanti anni difficile dello stato francese con la Chiesa cattolica.
Una linea questa che il Presidente, nonostante le innegabili differenze, ha sempre tenuto nei confronti di Papa Ratzinger. Adesso che ha parlato il più “laicista”dei paesi europei, guidato da un Presidente laico ma non laicista, il cammino di una scelta europea chiara in difesa dei cristiani e contro la loro persecuzioni si fa più semplice. Del resto, il Vecchio Continente, che pure non ha voluto riconoscere, le proprie radici giudaico-cristiane, non può
A queste sollecitazioni, avevano risposto in modo piuttosto rituale Silvio Berlusconi e il ministro Frattini. Ancora nessuna dichiarazione impegnativa da parte della signora Angela Merkel
Immagini del terribile attentato che ha colpito i copti il 25 dicembre. A destra Nicolas Sarkozy. Nella pagina a fianco, Shenouda III
Come dimenticare la risposta velenosa del ministro degli Esteri Bernard Kouchner al cardinal Bertone in materia di pedofilia? Ed è di questa estate lo scontro sui rom: sulla decisione di Sarkozy di cacciarli dalla Francia, mentre dalla cattedra di San Pietro partivano appelli all’accoglienza. Distanze siderali che l’Eliseo ha cercato poi di sanare con un incontro, fortemente voluto, fra il presidente e il Papa, svoltosi nell’ottobre dell’anno passato. Eppure nonostante tutto ciò, è stato proprio il capo dello stato francese il primo ad aderire all’appello del Papa e di Bagnasco. Questo comportamento nasce dalla natura della sua personalità culturale e morale, prima che politica. Sarkozy, infatti, ha sempre difeso quella che lui stesso ha definito “la laicità posi-
negare che le fondamenta della sua cultura, della sua civiltà sono da ricercare proprio in quel messaggio. Da lì nascono le idee di libertà e di solidarietà che hanno segnato profondamente la società e gli stati europei. L’Europa, l’Occidente intero, dunque, difendendo i cristiani perseguitati, difendono anche una parte importante della propria cultura. Difendono insomma se stessi dall’intolleranza. C’è una forma di intolleranza, la più grave e pericolosa, che è rappresentata dal fondamentalismo sia esso islamico che induista: in nome di Dio si uccide e si perseguita chi professa una religione diversa dalla propria. Ma c’è anche una forma di gravissima mancanza di rispetto da parte di quei laicisti che vorrebbero impedire a chi crede di manifestare la propria fede nel discorso pubblico. Per costoro la laicità dello Stato non significa tolleranza e rispetto verso tutte le fedi, ma circoscrivere, limitare la libertà di parola di una o più religioni. L’Europa deve combattere la prima intolleranza, ma evitare anche di cadere nella seconda. Sarkozy ha lanciato ieri proprio questo messaggio. E’ un merito importante, in attesa che altri leader, l’intera Unione e il Parlamento di Strasburgo facciano altrettanto.
politica
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È fondamentale evitare di tornare nelle vecchie baracche, di “essere ex” è ancora posto per i laici e la loro dimensione culturale nella politica italiana? La domanda è ricorrente, ma negli ultimi tempi si è fatta insistente. In chi la pone c’è, di solito, un che di nostalgico. Comprensibile – figuriamoci se non lo capisco – ma che finisce per impedire di anteporre a quella domanda un altro quesito ad essa propedeutico: ha ancora senso la definizione di“laico”in politica o non sarà che si tratta di una dimensione legata alla storia del Novecento che non ha più ragion d’essere? La mia risposta, da laico che si è formato nel Pri di Ugo La Malfa e che rispetto a quell’esperienza si è comportato da monogamo, è che del pensiero cosiddetto laico va conservata e salvaguardata la dimensione strettamente culturale, ma che in politica la sua pura e semplice trasposizione dal passato non solo non ha mercato – e questo è un dato di fatto, non un’opinione – ma neppure senso. Di quel pensiero e di quella esperienza – parlo non solo di quella repubblicana, ovviamente, ma di quella liberale, socialista e radicale – va invece conservato il metodo, il modo e lo stile di fare politica.
C’
Riscoprire i laici per riunire il Paese Eliminando i temi etici dall’agenda politica si può dar vita a una collaborazione importante di Enrico Cisnetto
Naturalmente questo ha senso nella misura in cui anche la dimensione cattolica abbandona le velleità di tornare ad essere “democristiana” – e anche qui, le ragioni di mercato lo dovrebbero suggerire, vista la secolarizzazione della società – e recupera i suoi valori solo quando in discussione ci sono le tematiche di natura etica. Questa sorta di “disarmo bilanciato” della vecchia contrapposizione laici-cattolici ha poi bisogno di un “grande patto” metodologico sui temi etici, che più volte ho lanciato – ahimè inascoltato, ho la netta impressione – dalle colonne di liberal piuttosto che in molte sedi politiche, a cominciare dai grandi appuntamen-
Ugo La Malfa, storico leader del Partito repubblicano italiano. A destra, un manifesto del Pri le diverse tesi, ma non i partiti che si candidano alla guida del Paese, che devono avere come unico collante il programma di governo, da cui appunto le tematiche etiche sono escluse. Questo orientamento avrebbe aiutato il Pd ad amalgamare le diverse anime che in esso sono confluite,
Dell’esperienza repubblicana, liberale, socialista e radicale va conservato con cura il metodo, il modo e lo stile di fare politica ti dell’Udc. Si tratta dell’idea di contestualizzare il dibattito e le conseguenti decisioni legislative esclusivamente in sede parlamentare, evitando che i governi li assumano come elementi del programma o li facciano oggetto di propri disegni e decreti legge. Saranno dunque i singoli esponenti politici, i singoli parlamentari e le forze organizzate in forma di circoli culturali e fondazioni a portare avanti
aiuterebbe il Pdl ad evitare clamorosi sbandamenti e consentirebbe all’Udc versione Unione di Centro o ancor meglio al “partito della nazione”– lanciato e mai attuato – di evitare di assumere come costitutive e dirimenti le tematiche che stanno a cuore ai cattolici e in particolare alla Chiesa.
E sì, perché così chi si richiama esplicitamente ai valori cattolici, sia pure laicamen-
te e non clericalmente intesi, non sfonda nell’opinione pubblica – che vuole indicazioni programmatiche stringenti sui grandi temi dell’economia, della giustizia, della collocazione internazionale dell’Italia – e crea barriere all’aggregazione con le forze laiche. Queste ultime, poi, sono anche messe peggio, perché faticano a sopravvivere e quando lo fanno spesso è a scapito della dignità.
Si guardi – e lo dico con dolore – al caso dei repubblicani, che non solo negli anni della Seconda Repubblica hanno subito diaspore a più riprese, ma che ora vedono un ulteriore motivo di scissione dell’atomo nello scontro tra il segretario-padrone del Pri Nucara e Giorgio La Malfa. Il quale è
stato espulso per aver fatto una scelta politica – ha votato la sfiducia al governo Berlusconi dopo essersi da tempo dissociato dall’appoggio al governo che il Pri, seppure con atteggiamenti ondivaghi, ha assicurato al Cavaliere – che la libertà costituzionalmente sancita di parlamentare gli consentiva legittimamente di fare (peraltro fatta prima che gli organi del Pri decidessero a favore della fiducia).
La Malfa ha fatto ricorso, ma è evidente che se un partito che dovrebbe aver fatto della tolleranza il suo credo e il suo stile sancisce il principio che si espelle chi vota in modo difforme, allora non c’è più niente da salvare. E temo che il congresso (si fa per dire) convocato da Nucara a fine gennaio si limiterà a ribadire che quello, come tanti altri, è un partito (anche qui si fa per dire) padronale. E già, perchè anche i liberali e i socialisti sono stati e sono attraversati da queste fratture. Allora vuol dire che l’intera famiglia dei laici è spacciata? Diciamo che secondo le modalità politiche che ho prima indicato, una loro diversità e autonomia ha senso solo sul piano culturale e intorno a certe battaglie civili. Ma sul piano politico-programmatico, essi prima di tutto devono contribuire a ridisegnare il sistema politico italiano. E credo che il punto di partenza comune – delle diverse famiglie laiche al loro interno e tra di esse – debba essere quello di un’affermazione forte e netta della necessità di superare il bipolarismo che ha caratterizzato la Seconda Repubblica. Dunque riunirsi intorno alla parola d’ordine della Terza Repubblica e insieme elaborarne i tratti somatici che dovrà avere e decidere come deve avvenire il passaggio ad essa in modo da evitare gli esiziali errori che caratterizzarono quello tra la Prima e la Seconda Repubblica nel maledetto biennio 1992-94. Possono farlo partendo dalle vecchie case? Escluso. Sono ruderi inservibili. Possono dar vita a qualcosa di nuovo? Certo, se solo smettono di essere ex repubblicani, ex liberali ed ex socialisti. Ma se adottano lo schema “i temi etici fuori dai programmi di governo”, e lo fanno adottare ai cattolici non integralisti, possono anche direttamente convivere dentro ad un partito nuovo che nasca con l’espressa intenzione di portare il Paese nella Terza Repubblica, che tutti insieme occorre progettare. L’unica cosa che i laici non possono fare – non possiamo fare – è quella di aspettare che qualcun altro li adotti. Si può, per certi versi si deve, stare in case non proprie, ma per non essere profughi sfollati occorre avere la forza e la dignità di darsi un disegno politico. Che è cosa diversa dall’inutile ostinarsi intorno alle vecchie case diroccate, vuoi che sia per litigare vuoi per fare lo sforzo di riunificare ciò che è andato in frantumi. www.enricocisnetto.it
mobydick
INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
TAMARA
UTTI PAZZI PER di Anselma Dell’Olio
amara Drewe di Stephen Frears è un simpatico e benaugurante film per buto culturale alla nazione: le sue ironiche strisce e graphic novel che s’ispirano l’inizio del nuovo anno. Esce in contemporanea con il tiepido pasai classici (oltre a Tamara il novel Gemma Bovery). Tamara è apparsa a satempo pseudo-metafisico Hereafter di Clint Eastwood, starpuntate sul quotidiano britannico The Guardian prima di essere pubDiverte e illumina ring Matt Damon. È distribuito in un tale numero di copie blicato come libro. Simmonds si è ispirata in modo non pedisseche sarà difficile evitarlo, mentre il nostro beniamino della quo al romanzo Via dalla pazza folla, anch’esso a suo tempo il nuovo film di Stephen settimana esce solo in sale di qualità. L’inglese Frears e pubblicato a puntate su un giornale, e che ha reso famoFrears, tratto dal graphic novel so lo scrittore e poeta inglese Thomas Hardy (Jude l’americano Eastwood hanno in comune l’essere registi prolifici e premiati di lungo corso, mel’oscuro, Tess dei D’Urbervilles). La rivisitadi Posy Simmonds, tratto, a sua volta, stieranti duttili che cambiano genere con dizione del romanzo nel graphic novel è meno da un romanzo di Thomas Hardy. sinvoltura, e di essere molto amati dagli sceneggiapessimistica della storia dark dell’originale, e nel Dialoghi spiritosi e colte, tori per la tendenza a valorizzare la storia senza rimetfilm la brava sceneggiatrice Monica Buffini, pur restantere mano al copione, cosa rarissima. (L’impulso a esercitare do realista e sanguigna in tono con Hardy, vira ancora più di ma non pretenziose, la proprio creatività senza rischi sul lavoro altrui è una tentazione Simmonds verso la commedia di costume, senza mai cadere nei citazioni cinefile cliché della rom-com. L’eponima protagonista è il personaggio centraquasi irresistibile). Tamara Drewe è una commedia tratta dall’omonile, e anche il MacGuffin o marchingegno attorno al quale si avvitano le molmo, delizioso romanzo a fumetti di Posy Simmonds, riverita cartoonist, inteplici fila della trama, perché il film è corale. signita dalla regina Elisabetta con l’Ordine dell’Impero Britannico per il contri-
T
Parola chiave Consumo di Sergio Valzania Betty Vittori, la nostra “voice” di Stefano Bianchi
NELLA PAGINA DI POESIA
D'Annunzio, le schiume del poeta-vate di Filippo La Porta
Le arance di Solzhenitzyn di Gabriella Mecucci Superare Pasolini con un gesto d'amore di Maurizio Ciampa
L’ineffabile Melotti di Marco Vallora
Tamara
tutti pazzi per
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per l’arrivo in paese di un’ennesima amante di Nicholas. Un’ospite, udendo la sfuriata, dice ai commensali: «Non sapevo che fornissero anche materiale d’ispirazione!». Il fedifrago seriale Nicholas avrà la sua giusta ricompensa in un finale tragico ed esilarante, perché la scrittura della Buffini ha la tonificante fragranza di esperienze femminili ben metabolizzate. Durante una conversazione con Glen, lo studioso che non riesce a finire l’analisi critica dell’opera di Hardy,Tamara gli confida di voler scrivere un romanzo di successo chicklit, tipo Diario di Bridget Jones. L’americano invidioso ironizza sull’inevitabilità di una folgorante carriera facile e superficiale per una strafica ambiziosa come lei. La navigata e consapevole ragazza replica: «Prima della scorciatina al naso non avevo alcun problema a essere presa seriamente come scrittrice; mi avessero tirato fuori il cervello insieme con quel pezzetto di cartilagine, che ne dici?». A proposito della tendenza maschile dimmidammi-fammi: Andy entra nella cucina di Tamara e butta lì: «Che cosa si deve fare da queste parti per avere una tazza di tè?». Lei ribatte secca: «Farlo» e indicando i pensili: «Tè, tazza, zucchero. Io vado a lavorare». Durante un incontro pubblico a un festival di letteratura, la ultra cornificata Beth smutanda Nicholas dalla platea: «Perché tradisci con persistenza tua moglie?». «Perché lei me lo permette», ribatte il marito. L’ultima scena, da non svelare, è d’un cinismo tonificante. Altro che prevedibili e sentimentali commedie romantiche. Lo spirito di Hardy aleggia leggero su questo film, che diverte e illumina senza pesantezze letterarie e con insolita franchezza: non si vedono spesso commedie romantiche con eroine che si portano a letto tre maschi diversi, di cui uno sposato. Non c’è alcun bisogno di conoscere l’opera di Hardy per godersi il racconto, ma come riflette il critico Roger Ebert, «quanto è divertente sapere cose superflue!». L’adattamento del graphic novel della Simmonds è estroso e stravagante, e ci sono solo piccole differenze tra il fumetto e il film. Se poi il film invoglia a leggere o a rileggere il romanzo del 1874, o magari a cercare il dvd del notevole film di John Schlesinger del 1967, con Julie Christie luminosa incarnazione di Betsabea d’Everdene (l’originale di Tamara Drewe), non è certo una disgrazia.
La conturbante Tamara (Gemma Arterton, sfiziosa e brava, con cosce da femmina, non da emaciata supermodella) torna nel paesino provinciale di Ewedon dov’era cresciuta, per restaurare e vendere la splendida casa di famiglia che ha ereditato dopo la morte della madre. Partita brutto anatroccolo goffo con un nasone che la rendeva oggetto di scherno, ritorna in trionfo con un lavoro da giornalista in ascesa, un nasino nuovo delizioso e un corpo tornito in short-shorts di jeans che fa sognare l’intera popolazione maschile della sonnolenta comunità rurale. La proprietà adiacente alla sua si chiama Stonefield, bucolica colonia per scrittori, gestita da Beth e Nicholas Hardiment; lei (Tamsin Grieg) è una bravissima moglie, massaia, agricoltrice e cuoca.Tollera con sofferenza le continue scappatelle del marito mandrillo, cinquantenne giallista d’enorme successo commerciale (Roger Allam). Nicholas si diverte a sfottere il colto scrittore e studioso di Hardy in residenza a Stonefield, Glen McGreavy (Bill Camp), afflitto dal blocco dello scrittore (e segretamente cotto di Beth) mentre l’altro si vanta di non riuscire a scrivere meno di «dieci pagine al giorno, o piove o tira vento». Finge modestia dichiarando la sua smisurata e redditizia produzione «thriller da aeroporto», mentre butta lì con malizia che i suoi libracci sono tradotti in 35 lingue straniere, tra cui «lo swahili e l’islandese». Andy Cobb (Luke Evans) è l’ex proprietario della casa di Tamara, la cui famiglia aveva perso tutto, costringendo l’agricoltore molto appealing a riciclarsi come giardiniere-tuttofare. Aiuta Beth a mandare avanti la fattoria e l’accogliente residenza a pensione completa, che offre un ritiro campestre e dolci fatti in casa a scrittori meno fortunati di Nicholas.
La figura di Tamara è fedele alle eroine di Hardy, autonome,volitive e indipendenti, incuranti della morale imperante che vorrebbe le femmine morigerate e sottomesse come Beth. Adora titillare i maschi che un tempo l’avevano respinta, e uno per volta li seduce. Chiede ad Andy, che un tempo aveva fatto un giro di valzer con lei, di dirigere i lavori di ristrutturazione in vista della vendita. La stangona intervista e s’incapriccia di Ben Sergeant (Dominic Cooper), batterista e rockstar col broncio d’ordinanza, occhi contornati di kajal, reduce da una delusione amorosa. Andy, cotto di Tamara, è costretto a ripiegare sulla gentile e comprensiva ostessa della locanda di paese. Chiudono la compagnia due annoiate teenager, le manipolatrici Jody (Jessica Barden) e Casey (Charlotte Christie), bramose di emozioni più travolgenti di quelle offerte da Ewedon. Jody è un’aspirante Lolita che sogna di fare la groupie di Ben e trama per sovvertire il suo rapporto con Tamara. Le ragazzine, come fatine ignoranti, combinano ogni sorta di malizia, sfruttando il cane indisciplinato di Ben e il computer diTamara quando lei è a Londra. La Buffini è una commediografa che intreccia con mestiere le varie avventure. Uno degli autentici piaceri del film sono i dialoghi spiritosi e impertinenti, con piccolissime e mai pretenziose citazioni cinefile, come l’esclamazione di Tamara quando scende dal taxi che l’ha riportata al paesino fuori mano: «Che posto di merda!» (What a dump!), frase scandita con le inconfondibili cadenze aristocratiche e sdegnose della diva per eccellenza Bette Davis). Parole celebri, tratte dal classico film noir super-camp Peccato (Beyond the Forest, 1949) di KingVidor, sfruttate da generazioni d’imitatori della Davis, che indossa i panni di una moglie di provincia annoiata che sogna la grande città. Sono molte le battute godibili buttate via con la disinvoltura inglese detta understatement: con gli scrittori borsisti intorno al tavolo all’ora di pranzo, in cucina volano parole grosse tra la coppia Hardiment anno IV - numero 1 - pagina II
TAMARA DREWE
- TRADIMENTI ALL'INGLESE GENERE COMMEDIA DURATA 111 MINUTI PRODUZIONE GRAN BRETAGNA 2010 DISTRIBUZIONE BIM DISTRIBUZIONE
REGIA STEPHEN FREARS INTERPRETI GEMMA ARTERTON, ROGER ALLAM, BILL CAMP, DOMINIC COOPER, LUKE EVANS
Frears ha una filmografia anche più invidiabile di quella di Eastwood: My Beautiful Launderette, dal romanzo di Hanif Kureishi, storia d’amore tra un pachistano inglese che ha investito in una piccola lavanderia e un punk proletario, ruolo che ha lanciato la carriera di Daniel Day Lewis; Le relazioni pericolose, con Glenn Close e John Malkovich, adattamento del romanzo di Choderlos de Laclos che ha surclassato Valmont di Milos Forman, uscito nella medesima stagione e tratto dallo stesso libro; Rischiose abitudini (The Grifters), dal bellissimo romanzo pulp di Jim Thompson (L’assassino che è in me), che ha rigenerato le carriere di Annette Bening e Angelica Huston, e per il quale Frears ha avuto la candidatura all’Oscar come miglior regista; The Snapper, deliziosa commedia su una ragazza-madre irlandese che non vuole svelare il nome del padre; Piccoli affari sporchi (Dirty Pretty Things) in cui un medico nigeriano scopre il lato oscuro dell’immigrazione clandestina a Londra; Lady Henderson presenta, commovente commedia su una signora della buona società (Judi Dench) che finanzia un teatro con spettacoli osé; The Queen con Helen Mirren nel ruolo della suocera di Diana, tragica principessa di Galles; Cheri dal romanzo di Colette con una ritrovata Michelle Pfeiffer in gran forma. Sei delle sue protagoniste sono state nominate all’Oscar: Close, Pfeiffer, Bening, Huston, Dench e Mirren, che ha vinto per The Queen. Pollice alto pure per Tamara Drewe. Da vedere.
MobyDICK
parola chiave
8 gennaio 2011 • pagina 13
CONSUMO onsumare appare come un’attività di natura magica. In barba alla terza legge della termodinamica e al principio entropico dell’universo, è attraverso il consumo che si creano la ricchezza, il benessere, la massa degli oggetti del consumo stesso, in una circolarità che stordisce. Si tratta di una delle evidenze del mondo contemporaneo. Il carattere delle società sviluppate consiste nella capacità di produrre molto e di consumarlo tutto, e se possibile di più, in una rincorsa continua e non ci sono dubbi che una qualche verità si annidi in questo apparente paradosso in base al quale è il consumare e non il creare a farci ricchi. Imboccando con decisione, anche se in modo inconsapevole, la strada della produzione, e quindi dei consumi, di massa, una parte sempre più estesa dell’umanità si è liberata dalla fame e dalla povertà endemiche, ha allungato a dismisura la propria speranza di vita, ha conquistato persino una dignità individuale che prima le veniva negata dalla diffusa indigenza. Né vale sostenere che in pochi hanno consumato quello che apparteneva a molti, che alcuni uomini si sono impadroniti anche delle ricchezze che appartenevano alla massa dei deboli. Non solo l’area dello sviluppo si estende sempre di più, anche l’aumento della produzione mondiale, globale e pro capite, pur nelle mille storture con le quali si presenta, è un’evidenza innegabile. La questione sta semmai nel fatto che il consumo sembra aver concesso, almeno alle regioni più economicamente progredite del mondo, tutto quello che era in suo potere. La legge del valore marginale dei beni ci dice che il primo bicchier d’acqua disponibile sul mercato ha un prezzo elevatissimo, ma che il milionesimo ne ha uno molto inferiore, nessuno lo vuole e non vale nulla. Lo stesso capita all’intensità delle soddisfazioni che il consumo di qualunque genere di bene è in grado di offrire. Esso non può che decrescere con l’insistenza nel consumo stesso. Il terzo gelato al pistacchio non ha il sapore del primo.
C
La critica al consumo non condanna lo spreco, in modo moralistico. Sostiene semplicemente che arrivati a un certo punto consumare non serve più, anche se si è in grado di moltiplicare i beni in maniera esponenziale non se ne ricava piacere. Al contrario si rischia di entrare in una spirale negativa, si ha tutto quello che si desidera senza che il desiderio si spenga. Cresce l’attesa e non arriva mai la soddisfazione. Ci rendiamo conto che la felicità che può derivare dal benessere
È una delle evidenze della contemporaneità, che rischia di imprigionarci nella sua implacabile circolarità: acquisizione di un bene, soddisfazione inferiore alle attese, dediderio di un bene ulteriore...
La ricerca della felicità di Sergio Valzania
L’esperienza suggerisce che le vere gioie provengono dal conseguimento di obbiettivi strutturati e complessi. Ma l’inquietudine che serpeggia nelle aree opulente della nostra società, in particolare in quella europea, testimonia la difficoltà a individuarli, ad avanzare proposte in modo convincente non aumenta all’infinito, anzi. Forse smette addirittura di aumentare con la maggior disponibilità di beni: l’abitudine al consumo arriva a produrre assuefazione, insieme ad altri sottoprodotti dalla natura inquietante. Almeno per quello che riguarda le facoltà alte dell’uomo, spiritualità e capacità di ragionamento, rispetto alle quali si manifestano evidenti fenomeni di ottundimento se non proprio di inibizione della funzione. Il circolo vizioso dei consumi genera insoddisfazione quando si innesta la sequenza: acquisizione di un bene, suo godimento, delusione per una soddisfazione inferiore a quella attesa, desiderio di un bene ulterio-
re e così via, con la frustrazione che cresce e il piacere che tende a scomparire. La componente fisica di quest’ultimo ha una variabilità molto contenuta, bevuto il primo bicchier d’acqua non ho più sete e non provo interesse per il secondo, ma la capacità di desiderare oggetti, di moda, di lusso, di prestigio, quasi non ha limiti. Essi si pongono sull’altro versante del processo, su quello relativo al piacere che si può trarre dalla disponibilità di un oggetto, bello o importante che sia. Di più immediata soddisfazione è un desiderio maggiore, è la probabilità che essa risulti incompleta, vuota, ovvero che dimostri l’inconsistenza del
desiderio stesso. L’esperienza suggerisce che le vere gioie provengono dal conseguimento di obbiettivi strutturati e complessi. All’interno dei quali si pongono ad esempio quelli alimentari, che però hanno insito il loro limite: una volta mangiato non ho più appetito. La via che porta alla felicità inizia con la capacità di selezionare e organizzare i desideri indirizzandoli verso obbiettivi che meritano la fatica di impegnarsi nel perseguirli. Raramente si tratta di obbiettivi di consumo.
In un contesto di sofisticazione del desiderio l’abbondanza di beni materiali è in grado di offrire come privilegio reale solo la libertà dai bisogni primari, ossia la possibilità di indirizzare i propri sforzi verso la conquista di beni ulteriori, superando l’iterazione di quelli basilari. Non è questione di materiale o immateriale, dato che la nostra natura, fondata sul mistero dell’incarnazione, ci regala la possibilità di cogliere soddisfazioni realizzate sui due piani, interconnessi, del corpo e dell’anima, o della mente se si preferisce. Così che siamo in grado di apprezzare un tramonto, un oggetto d’arte, un sorriso o un bicchiere di vino incontrandoli con modalità articolate. L’inquietudine che serpeggia nelle aree opulente della nostra società, in particolare in quella europea, più antica e matura nella riflessione, credo abbia anche il carattere che le deriva dall’incertezza degli strumenti da usare nella ricerca della felicità. In questo contesto il consumo di beni sembra aver esaurito quasi del tutto le proprie possibilità di appagamento, ma non è facile individuare gli attrezzi ulteriori per individuare desideri più maturi e per soddisfarli. Qualcuno ripete che lo studio, la meditazione, il lavoro, la preghiera aprono la strada a felicità più intense, complete e complesse di quelle del consumo, ma non riesce ad avanzare la propria proposta in maniera convincente. Forse perché si tratta di pratiche riservate a pochi, almeno nella loro dimensione di occasioni formative, e per di più vissute in forme elitarie, sembra quindi difficile che entro breve si rivelino concorrenziali rispetto all’evidenza materiale degli oggetti, con la loro annessa capacità di essere consumati. Il problema però esiste e forse è persino in via di parziale soluzione. Mi piace pensare che i pellegrini che incontro affaticati ma sorridenti quando cammino verso Santiago o percorro la via Francigena siano una sorta di avanguardia posta davanti a una moltitudine, capace di apprezzare piaceri ulteriori rispetto a quelli che offre il consumo.
MobyDICK
Pop
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di Stefano Bianchi entornata voce. Senza lifting, come quelle d’una volta. Pastosa e fiammeggiante, è la voce di Betty Vittori che in Border Life si fa accarezzare/pizzicare dai Secret Flame: contrabbasso di Giulio Corini, chitarre di Vladimiro Leoni e Simone Boffa. Per noi che avevamo vent’anni negli Ottanta, Betty Vittori è un mito: l’anima di quei Volpini Volanti/Flying Foxes che Carlo Massarini battezza in tv a Mister Fantasy. Se i due ellepì Volpini Volanti (’84) e Flying Foxes (’85) scandiscono una musica succosa cucita addosso alla prodigiosa voce di Betty, pezzi come London Town, So Close e Together la mettono sulle tracce di un agile funky e di un sapido technopop. Lei, di nota in nota, si muove con nonchalance mettendo a frutto l’esperienza jazz acquisita nell’ensemble della Targata Brescia e facendo tesoro dell’intuizione di Alberto Fortis che l’aveva voluta come corista negli album La grande grotta (’81) e Fragole infinite (’82), con tanto di registrazioni agli Abbey Road Studios di Londra, memori dei Beatles. E siccome Vittori vuol dire fiducia, viene contattata a destra e a manca: incide di nuovo per Fortis (El niño) e va con Zucchero (Zucchero & The Randy Jackson Band), affianca Red Canzian in vacanza dai Pooh (Io e Red) e l’amica corista Rossana Casale (La via dei misteri), si concentra sul rock della Premiata Forneria Marconi (Miss Baker) e sul repertorio intimista di Mimmo Locasciulli (Clandestina), passa da Giorgio Gaber a Gino Paoli, da Ornella Vanoni a Enrico Ruggeri. Studi d’incisione e concerti: una miriade, sui palchi d’Italia e d’Europa. Ritmi e tempi scanditi da un’artista vera. E
B
Betty Vittori
The Voice made in Italy
Jazz
musica
adesso, dopo un’assenza che pareva eterna, ecco Border Life: parole e musica scritte da lei, arrangiamenti dei Secret Flame e special guests come il sassofonista Amedeo Bianchi (compagno d’avventura nei Flying Foxes), i percussionisti Riccardo Biancoli e Cesare Valbusa, il trombettista Fulvio Sigurtà e Rossana Casale, corista impeccabile in The Taylor At The 5th Floor. Comincia suonando il pianoforte, Betty, e il suo canto sul filo del jazz incornicia il fascino di The Core Of The Earth. Poi si abbandona al ritmo della bossanova, con Border Life, assecondando il pizzicato della chitarra. Dentro The Hairdresser e fra le pieghe di The Lovers’ Book, invece, la sua voce coglie l’essenza della melodia e del jazz sottopelle, mentre The Meaning è una ballad al colmo della dolcezza che pare uscita dal canzoniere di Burt Bacharach. Sublime, poi, la metamorfosi di The Taylor At The 5th Floor: da composizione classicheggiante, ad accelerazione funky. E infine, ecco i virtuosismi armonici e vocali di Daniel B. con le toccate e fughe del sax soprano di Amedeo Bianchi, che preannunciano il blues jazzato di Do You Feel My Love?, maliardo e tentatore. Scrive Carlo Massarini nel libretto del cd: «La voce di Betty è come i suoi capelli: colorata, scivola giù e si arrampica sulle note con naturalezza evidente, con accento e accenti impeccabili. Si vede che le canzoni sono modellate sulla sua voce, e se ne vanno a braccetto come se non esistesse l’una senza l’altra». Gli fa eco Alberto Fortis: «Ci siamo riuniti sul palco pochi giorni fa e nello “spazio di un gesto” abbiamo riacceso anni di lavoro insieme. E so che quella fiamma era ed è esattamente la stessa con amori, percorsi e capitoli della vita che ci trasportano come l’acqua del fiume nei nostri personali oceani». Bentornata, Betty Vittori. Betty Vittori & The Secret Flame, Border Life, Self, 10,90 euro
zapping
LE BALENE di Charles Mingus di Bruno Giurato
ominciare l’anno con un pazzo. Ci sarà bisogno di creatività e inventiva pazzesche per sfangarla anche in questo 2011, e vuoi o non vuoi siamo assicurati dal cadere a nostra volta nella pazzia dall’uso di psicofarmaci: Benzodiazepine per dormire e stare calmi, ipnotici come il Trittico, antistaminici (con pesanti effetti collaterali di sonnolenza) come il Farganesse. Come antidepressivi ci sarebbero il Cipralex e l’Entact e l’Efexor, per non dimenticare il vecchio, caro, Zoloft. Siamo quasi come il Cristo di Damien Hirst, con le pillole incastonate nella Croce. L’aggancio al nostro mondo non è più la sofferenza, ma l’insofferenza: la medicina del cervello. Le cadute nella follia sono scongiurate. Possiamo permetterci il contatto con l’insania, e appunto cominciare serenamente l’anno con un pazzo. Charles Mingus fa al caso nostro. Il contrabbassista, compositore geniale e pazzo netto (1922-1979). Nero e ossessionato dal razzismo, decise di primeggiare. Dopo gli studi di musica classica diventò il miglior contrabbassista del mondo. Quando scoprì che un collega aveva vinto il referendum di Down Beat al suo posto, negli anni Sessanta, lo minacciò di prenderlo a pugni. Dal 25 gennaio troveremo in negozio un cd, Original album Classics, Charles Mingus. Sono classici del jazz e della pazzia a cura di Mingus. E qui vogliamo segnalare anche un altro disco in serena attesa del 25 gennaio: Mingus plays piano. Difficilotto da trovare, si scarica agevolmente. Lì Mingus suona da solo uno strumento non suo come il pianoforte. Tra qualche andamento bizzarro (ricorda un po’ Monk), infinita dolcezza e cattiveria atroce, anche in questo disco c’è l’essenza mingusiana. Il giorno della morte di Mingus (5 gennaio 1979, morbo di Lou Gehrig) sulla spiaggia di Acapulco si arenarono 56 balene. Contagio di pazzia cosmica? Tanto, noialtri, siamo al sicuro.
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Francesco Cafisio, un altro talento messo in fuga rancesco Cafiso (Vittoria, Ragusa, 24 maggio 1989) è stato considerato uno dei talenti più precoci del jazz e non solo italiano. Oggi, prossimo a festeggiare i ventidue anni, il sassofonista siciliano non è più una promessa come venne considerato al suo debutto ufficiale nel corso del festival di Pescara del luglio 2002, quando all’età di tredici anni fu notato da Wynton Marsalis che lo volle con sé per il tour europeo dell’anno successivo. Da quel momento quel ragazzo siciliano che si era innamorato del jazz sei anni prima, quando ascoltò alla radio una incisione di Phil Woods, è passato da un successo all’altro, da un festival all’altro, New Orleans, Montreal, Melbourne,Tokio, Londra, Ouro Preto in Brasile,Tallinn,Vienna, North Sea in Olanda, Vienne e Marciac in Francia oltre a quelli italiani, fra cui Umbria Jazz, mentre dal 2008 dirige, con grande successo, il «Vit-
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di Adriano Mazzoletti toria Jazz Festival», che si svolge nel mese di giugno nella sua città natale. Ma sono le sue ultime due esibizioni ad averlo reso celebre anche fuori dal mondo del jazz. Il 19 gennaio 2009, su segnalazione di Wynton Marsalis, ha suonato a Washington durante i festeggiamenti in onore del presidente Barack Obama e del Martin Luther King Junior day. Nel 2010 infine si è esibito in Cina durante il festival «The Best of Italian Jazz» in occasione dell’Expò 2010 a Shanghai. Ma non solo, lo scorso anno si è esibito a Torino, presso l’Auditorium Arturo Toscanini, accompagnato dall’Orchestra Sinfonica della Rai e ha conseguito con lode e menzione speciale, la laurea specialistica di II livello in jazz presso il Conservatorio Corelli di Messina. Moltissimi musicisti americani, oltre Wynton Marsalis, lo han-
no voluto al loro fianco. Uno per tutti, Dave Brubeck che ha trovato nel giovane sassofonista italiano un degno sostituto di Paul Desmond. I suoi dischi, quattordici in tutto, fra cui gli ultimi due, gli splendidi Travel Dialogues (Jazzy Records) e 4Out (Abeat Records), dimostrano le indubbie qualità di un solista, forse tra i migliori che oggi possa vantare il jazz. La rivista francese Jazz Magazine nel 2005 lo ha incluso tra i 125 talents pour demain et aujourd’hui, che comprende i più significativi jazzisti del mondo «under 40». Nello stesso anno la rivista americana Down
Beat ha inserito il concerto eseguito al Pescara Jazz Festival nel luglio 2002, in duo con il pianista Franco D’Andrea, tra i 25 più importanti eventi della storia del jazz. Lo stesso non succede in Italia. In una recente intervista Cafiso ha dichiarato «che purtroppo in Italia non c’è la stessa cultura per la musica e il jazz che c’è in Francia. Roma e Parigi non sono paragonabili a livello di club, scuole, produzione di concerti. La Francia è purtroppo molto più avanti dell’Italia per tantissime cose, tant’è vero che molti musicisti fuggono dall’Italia, quelli che restano fanno fatica ad emergere».
MobyDICK
arti
Mostre L’ineffabile Melotti
arola di Melotti. «La visita al castello, depositati in guardaroba ombrello e macchina fotografica, viene guidata dal custode-cicerone. Ma è stanco. Dice:“Vada pure da solo. Percorra i saloni le gallerie i cortili. Se le avvengono incomprensioni sulle pitture sugli ambienti, incertezze, non le butti, le conservi. Il mistero aiuta il ricordo. E il ricordo è tutto”». Come non essere d’accordo? Qui dentro c’è l’ironia tragica di Kafka, il pensiero bergsoniano di Proust, un po’ delle Botteghe color cannella di Schultz e magari anche qualcosa della Classe morta di Kantor. Certo, il ricordo è tutto. Ma che fare della nebbia dell’oblio che sale, salutare? È sempre Melotti che parla, in quella piccola, sarcastica Bibbiolina meravigliosa che è Linee, consegnato a fatica e pudori all’editore Adelphi. «La verità è che io non ricordo niente», scriveva. Un consiglio quasi, una ricetta morale, da parte dell’indomito ottuagenario (così scrivevo tempo fa... lo so che non si deve, ma mi torna comodo citarmi e spiegherò perché), un vademecumino portatile, per aiutarci a penetrare meglio in questi suoi lunari giardini, appesi al cielo dell’immaginario, a questi suoi interrotti pensierini crudeli, di gesso e immaterialità. Il gesso
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Moda
di Marco Vallora
che cancella, rimanendo polvere di se stesso. Mi cito, perché son tornato a rileggere quello che avevo scritto anni fa, anzi, quello che avevo fatto dire a lui, cucendo con euforia alcune delle sue formidabili citazioni, ebbene, avevo resettato via quasi tutto, tabula rasa, ma via via che ora rileggo, mi torna al witz del cervello la gioia, l’emozione di quella sua sottile, effervescente, decapitante ironia. Però che vale, se tutto si cancella? «La verità è che io non ricordo niente»: quasi un augurio, però, di obliante dormire. Anche se non è vero, nel fondo. Perché poi, si sa, si ricorda anche senza ricordare. E lo ammette lui stesso, dopo pochi aforismi: la sua solitudine di Minotauro triste, «è sempre inquinata dalle memorie». Anzi vive, si nutre, parassitariamente, degli scarti, degli esiti, delle esitazioni categoriali, che i manuali dell’arte han lasciato dietro di sé, comete moleste, vergognati escrementi di giumente accademiche. La cacca degli ismi. Perché sempre «le licenze poetiche vivono con un complesso di colpa». Una sorta di strascico-coda, vergognata. Sì, anch’io in parte mi tingo di paonazzo interiore, perché mi è già successo troppe
volte di uscire dalle mostre di Melotti come felice ed esilarato, ma poi è come se non avessi memorizzato nulla, come se avessi vissuto un sogno beato. Tutto si dissolve e imborotalca nella felicità dell’«io non ricordo più niente».Vaghe memorie, sì, di dischi oro-volanti, frenati in gabbie provvisorie e macilente; vacillanti stabbi per stinti aquiloni, strappati e laceri, come dopo una battaglia in camere di collegio, alla JeanVigo. Animalucci quasi-Lenci (l’amicizia con Giò Ponti torna a galla) anemici e biancastri, entro presepi senza più gesubambini, frammenti glassati di ceramiche tra Fontana e Leoncillo, con teatrini ridotti al silenzio e imbiancati da storie dimenticate, gessi decolorati e graffiati di noia, che non curano nessun osso fratturato. Amnesie che si fanno falsi monumenti al nulla di passaggio, turismo morigerato, ma come mi piace la libertà del divagare e dell’andar padroni di nulla, per il mondo. Così anche, adesso, di fronte alla sapientissima mostra, quasi museale che ha appena chiuso i battenti e che affettuosamente la famiglia Repetto gli ha dedicato, nelle magnifiche stanze ariose della galleria di Acqui Terme, ebbene, quasi mi fossi immerso
in un bagno termale arcaico, etrusco, è come se quelle meravigliose ombre-orme di materia, sculture senza corpo, monumenti al filo che si sfila, fiati d’immaginario, sfilati dalla sua beethoveniana cornetta di sordo, e svolazzanti verso cieli intonacati di color angelicato e paradisiaco, nulla, non s’attaccano alla memoria, non prendono terra: svirgolano, svicolano, salgono verso il nulla celeste, come astronauti senza ruolino di marcia, come acrobati senza più gravità, e men che meno gravitas, nel senso latino e pomposo del termine. Stiribaccole e falbalas, di tolla. Ferrei scudi di don chisciotti, che han la faccia tonta e bucata della luna, stufa di fare la leopardiana. «E che volete che faccia la luna? Guarda». Ho divagato, ma almeno ho evitato di rischiare quella «retorica dell’entusiasmo» che lui detestava: di fargli dire assolutamente qualcosa, magari di «messaggistico», di chiuderlo in un significato, di leggerlo «criticamente», afferrandolo per il rotto del garretto, che sfugge, viscido, su per quelle scale sbilenche, che lo portano verso la salvezza redentrice dell’aria. O sono le scale salvifiche del sogno di Giacobbe? Leggo altri splendidi aforismi scelti in catalogo, ascolto la parola di Enzo Bianchi, la voce di Cacciari e della kenosis. Un Melotti «escatologico». Per me rimane quello dello sberleffo. «Per starsene con gli angeli, bisogna prendere a calci i diavoli. E credere a queste cose incredibili».
Il fascino discreto (e pratico) degli anni Cinquanta di Roselina Salemi a macchina del tempo è partita e chi la ferma più? Sono tornate le ghette, impermeabili, di Karl Lagerfeld, firmate Chanel, sulle décolleté di plexy (per lei) e in montone (per lui) di Giorgio Armani. Sono tornate le forme rotonde, da pin up, le scarpe a punta, il trucco fatale, è tornato il rossetto-rosso alla Marilyn, il fascino un po’misterioso che Monica Bellucci, barricata dietro grandi occhiali neri, dispensa nello spot Martini Gold. È tornata la lacca (per lei) come nei manifesti in cui Freida Pinto sembra Audrey Hepburn, e la brillantina (per lui): Grease vi ricorda qualcosa? Un altro mondo, non solo quando John Travolta era magro. E riecco i guanti, quelli lunghi, di Gilda, anche in versione sexy- burlesque e quelli di stoffa, con i bottoncini. Siamo destinati a celebrare il passato, le icone della tradizione, gli anni Cinquanta, quando la guerra era finita e il mondo era nuovo, c’era ancora tanto da inventare e da scoprire. Il vintage impera. E la
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tradizione, si sa, è il bene rifugio meno costoso che ci sia. Manipolabile, oltretutto. Da Marisa Tomei ad Anne Hathaway, il red carpet detta legge: volant, romantici abiti a ruota, vita strizzata: basta guardare Scarlett Johansson nella campagna autunno-inverno di Mango. O Madonna in quella di Dolce&Gabbana: pizzo e pois, tacchi vertiginosi. Chi non ha visto Mad Man, serie cult sul mondo della pubblicità che ha trionfato agli Emmy Award, gli Oscar della tivù americana, dovrà dedicarle un corso accelerato e studiare i protagonisti per copiare le cravatte sottili di Dan Draper e i vestitini bon ton di Betty, i guanti color crema, i giri di perle, e soprattutto le pettinature romantiche con le onde, genere Veronica Lake, lo chignon o addirittura i capelli cotonati. Il bello è che per le ragazze d’oggi è tutto nuovo, nessuna ha memoria di questi Cinquanta, ma certo l’abito di Louis Vuitton con il fiocco di velluto in vita abbinato alle spalline, è seducente, come le gonne di Prada, copiate e ricopiate
dai colossi fast fashion. Non si tratta, però, soltanto di operazioni-nostalgia. Quel che rimane, nelle citazioni più o meno furbe, è l’aura della practical grace, uno speciale mix di eleganza, funzionalità e creatività che in parte la moda ha perduto, e perciò offre abiti geniali, ma insensati, cerebrali ma immettibili, preziosi, ma più da museo che da festa, pratici, ma spesso orrendi. (C’è stato un momento felice in cui, semplicemente, mademoiselle Coco ha inventato la borsa matelassè con la catena, un cult ormai, e il tailleur di tweed con la giacchina corta…). C’è chi sostiene che guardare indietro aiuti a rinnovare lo spirito creativo e chi pensa che il passato sia soprattutto rassicurante. Gli abiti della festa, dai monospalla di Giorgio Armani a quelli corti, bordati di piume, di Ermanno Scervino non raccontano più il presente. Raccontano un tempo che non c’è e forse non c’è mai stato, un non luogo dove rifugiarsi mentre ripetiamo i gesti di sempre. Gli anni Cinquanta sono in questo lungo inverno, il nostro altrove.
MobyDICK
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il paginone
Raccontare con la profondità “leggera” della letteratura le verità che tanti saggi ci hanno descritto sull’Urss. È quanto fa Serena Vitale, grande conoscitrice della cultura slava, in un libro dedicato all’Unione Sovietica di Breznev, dove lei approdò per ragioni di studio nel 1967. Una cronaca fedele e a tratti divertente di una realtà in cui «una strana amalgama di dolore, speranza e bisogno conferiva alla menzogna la dignità del plausibile» di Gabriella Mecucci n Paese grande e infelice. La Russia può essere commovente, struggente e terribile. La sua storia degli ultimi cento anni è un rosario di tragedie. Eppure la «vecchia madre» aveva e ha tanti amanti appassionati. Serena Vitale, grande conoscitrice di quella cultura, innamorata dei suoi luoghi, della letteratura, delle genti, ha pubblicato di recente A Mosca, a Mosca! (Mondadori) che è una cavalcata nel tempo e nei sentimenti di un mondo: dalla «guerra fredda» a oggi. E soprattutto nei suoi dolorosi affanni che, come gli esami, «non finiscono mai».
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L’autrice arriva a Mosca nel 1967, in pieno breznevismo. Sono con lei altre tre italiane: tutte e quattro hanno imparato ad amare la letteratura russa seguendo le lezioni di Angelo Maria Ripellino, il più grande slavista italiano. Serena e le altre si rivolgono al professor Gheorghij Brejtburd, consulente per l’Italia dell’Unione degli scrittori, per avere l’autorizzazione a dimorare e a studiare nella capitale sovietica.
cinque volte. Sino a quando il suo interlocutore comincia ad agitarsi sulla sedia e a emettere fonemi incomprensibili. Poi, dopo qualche minuto di suspense, tira fuori un articolo dell’Espresso, firmato dall’illustre slavista italiano, che raccontava della sua partecipazione al congresso degli scrittori sovietici. Brejtburd, sfoderando un buon italiano, comincia a leggerlo: «Ritengo che non mi accadrà mai più di vedere una così folta adunanza di mummie sincronizzate. Scrittorelli, scribi, scrivani, imbrattacarte di tutte le risme… liste di nomi, stralci di annuario, cataloghi dei benvoluti, dei probi, degli obbedienti, ossia, per i non citati, liste di proscrizione». Bastarono queste poche righe perché apparisse chiara a Serena la causa dell’agitazione del suo interlocutore. A quel punto c’era poco da fare: le quattro ragazze temettero di venir rispedite in Italia o di essere mandate a studiare in chissà quale landa dell’immensa Russia. Mentre aspettavano, rassegnate, il peggio, arrivò la notizia che potevano restare tutte e quattro a Mosca. Fu festa.
Le arance di S no chiuse «in un fodero di austera ufficialità, di riserbo, di compunzione, di cautela. Nel poco che trapelava dalla maschera di irreprensibile servitore dello Stato, indovinavo ansia, trepidazio-
ceva menzogne nel tentativo di nascondere la drammatica realtà che viveva la Russia. Consenso? Malinteso senso della dignità nazionale? «Una strana amalgama di dolore, speranza e bisogno -
Fu grazie a una retina di agrumi che la studiosa riuscì a portare in Occidente una panciuta bobina che conteneva un inedito dell’autore di “Arcipelago Gulag” sfuggito al controllo della polizia di frontiera Su Serena cade l’onere di fare la portavoce del gruppo. Appena si trova di fronte a Brejtburd, cerca di farsi largo fra la sua diffidenza raccontandogli che lei e le sue compagne sono venute in Russia su consiglio del professor Ripellino. E ripete il concetto quattro o
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L’episodio, raccontato all’inizio del libro, consente di inquadrare la figura dell’intellettuale sovietico di allora. Accanto alle spie del regime e ai fanatici, e accanto a pochi e coraggiosi dissidenti, c’era una folta schiera di persone «a loro modo perbene», ma che era-
ne, un perenne stato di allerta». Forse era causato dalla paura delle possibili persecuzioni o forse dalla voglia di occultare almeno alcuni dei guasti insanabili del Paese, o forse da entrambe le pulsioni. Sta di fatto che Brejtburd, come molti intellettuali russi, di-
scrive SerenaVitale - conferiva alla menzogna la dignità del plausibile». È un passo particolarmente bello del libro questo perché esprime la più dura condanna del regime a suon di parziali comprensioni. E perché restituisce tutta intera la tragedia del mondo
della cultura, costretto a privarsi di una caratteristica che ne costituisce l’essenza, e cioè l’intelligenza critica.
A Mosca, a Mosca! ha il pregio di regalare con la profondità «leggera» della letteratura le verità che tanti saggi ci hanno raccontato sull’Urss. Serena Vitale tratteggia la situazione economica di fine anni Sessanta senza scrivere una cifra. Basta un po’di autobiografia. Basta narrare di come i moscoviti cerchino di acquistare tutto ciò che lei ha. E di come lei venda tutto, ricavandone un sacco di rubli. Con la ragguardevole somma raggranellata potrà acquistare libri, quadri e chissà che altro? Nemmeno a pensarci, con i soldi incassati, non può comprare proprio nulla. Perché non c’è nulla. E quel po’di In alto, Solzhenitzyn, manifesti dell’epoca sovietica e la copertina del libro “A Mosca, a Mosca!” di Serena Vitale (sopra). A sinistra, la Piazza Rossa. Nella pagina accanto, vicino al sommario, una parata militare e Breznev
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Solzhenitzyn merce che circola è per i turisti, quindi, si può avere solo coi dollari. Incredibile a dirsi, ma il colosso comunista, che si presentava come il più feroce nemico dell’imperialismo americano, era vivibile solo se si possedeva moneta americana. Una sorta di legge del contrappasso. E del resto nella Cuba castrista, poverissima e irriducibilmente anti yankee, di fine anni Novanta, l’infinita teoria di accattoni di tutte le età che popolava le vie dell’Havana, si avvicinava al turista chiedendo:
Solzhenitzyn. La polizia ha forse avuto qualche soffiata e comunque teme quella giovane studiosa: il treno dove è salita, viene fermato e perquisito, due terribili virago la sottopongono a una maldestra visita ginecologia. Ma nessuno trova nulla. L’aiuta il medico di frontiera,Valentin, a cui lei affida, prima di essere chiusa in una sorta di camera-prigione, la retina con le arance. Dopo nuovi accertamenti, Serena Vitale può finalmente ripartire alla volta dell’I-
paci. Ma la brava gente non è scomparsa: in una società fatta di menzogne e di paura, miracolosamente sopravvive l’intelligenza e la generosità.
Serena Vitale ritorna diverse volte in Urss: viaggi per la campagna russa, permanenza a casa dell’amico Aljosha: 22 metri quadrati, una ventina di persone accatastate in ogni dove. Un cesso in comune, occupato quasi per-
E di ironie che sfociano nel sarcasmo. In mezzo alla sofferenza per la Russia ridotta in uno stato pietoso, squillano le risate per le tante barzellette sul Cremlino, su Stalin, su Beria e su Bresnev. Eppure ci sono ancora cani e gatti che si chiamano Lenin c’è ancora - alla fine degli anni Sessanta - un sacco di gente che ritiene criminale intrattenere rapporti con un borghese in cappotto di lapin. Andate e ritorni dall’Italia. Poi, di nuovo a Mosca per un lungo periodo, nel 1980. C’è il clima delle Olimpiadi, la capitale è tirata a lucido. La polvere è stata messa sotto il tappeto, ma c’è ancora. Affiora dietro ogni angolo la catastrofe del socialismo reale. Il tassista commenta: «Per l’Ottanta ci avevano promesso le meraviglie del comunismo, in cambio ci stanno regalando le Olimpiadi». E il solito intelligentissimo Aljosha, una sorta di alieno nella società comunista: «Da voi in Occidente ci sono tante forme di governo: monarchia, repubblica, dittatura; da noi ce n’è solo una: il potere». A questo raffinato intellettuale toccherà di scoprire solo nel 2007 dove è stato sepolto suo padre, catturato dalla Nkvd nel 1937. Lo avevano portato a Kommunarka dopo averlo caricato in un camion con su scritto «pane». Le pagnotte venivano scaricate, fucilate e fatte sparire tre metri sotto terra. Serena la prima volta che arrivò a Mosca vide un barbone morire ubriaco. L’alcol e i russi sono come una coppia inseparabile. E quando l’autrice porta in Italia un suo amico scrittore, che stava disintossicandosi, si dimentica che da noi nelle camere d’albergo ci sono i minibar: trova Afanasij in stato comatoso, dopo che si è scolato tutte le bottigliette possibili. Gorbaciov cercherà di aggredire questo temibile morbo, ma non avrà la forza nemmeno di sconfiggere l’alcoli-
capitale. L’enclave plutocratica, eretta sulle ceneri del comunismo non è altro che un insieme di villaggi costruiti lungo una strada a scorrimento veloce. Nel 1664 lo zar Aleksej Mikhajlovich proibì la costruzione di opifici e manifatture in quelle terre per tenerle al riparo dai miasmi della civiltà. Prima ci edificarono le loro dacie gli alti burocrati del partito. Raccontano che a Nicolina Gora, cittadella della show business e dell’intellighenzia, sempre in zona Rubljovka,Vyshinskij avesse una splendida dacia ma che gli piacesse di più la villetta del commissario popolare Serebrjakov, bolscevico della prim’ora. Un giorno se lo ritrovò sul banco degli imputati. È facile indovinare come andò a finire: Serebrjakov condannato ed espropriato, la villetta finita a Vishinskij.
Adesso lì intorno sono concentrati quasi cento miliardi di dollari. Ci abitano i superoligarchi: gli Abramovic, i Deripaska, i Fridman. Soldi, tanti soldi. E c’è tanta gente povera. La Russia - direbbero gli economisti marxisti - sta realizzando la sua terza «accumulazione capitalistica primitiva» con tutte le ingiustizie e i dolori che comporta. Non è mica come l’Inghilterra che ne ha fatta solo una anche se drammatica, come ha magistralmente raccontato Charles Dickens. La Russia di oggi è certamente meglio di quella comunista- brezneviana che Serena Vitale incontrò nel 1967: meno disperata, meno romantica, meno stralunata, e con una vita, tutto sommato, meno difficile e rischiosa. Detto questo, Putin fa il buono e il cattivo tempo. Allora c’era il regime e pochi dissentivano: i pochi o scappavano o finivano in galera. Circolava un manifesto emblematico del mood culturale dell’epoca: «Chiacchierare durante l’orario di lavoro è uno spreco. Quando lavori cuciti la lingua», ma se lo giravi appariva un’altra scritta: «Imparerei l’inglese soltanto perché è la lingua di Lennon», libero adattamento da Majakovskij: «Imparerei il russo soltanto perché è la lingua di Lenin». Oggi gli oligarchi all’ombra di Putin si arricchiscono, mentre esistono an-
Oggi Mosca appare “vetrificata” dai grattacieli voluti dai superoligarchi, eretti sulle ceneri del comunismo. Ma se sotto Putin c’è chi si arricchisce, esitono ancora ragazzi che vivono poco meglio di Oliver Twist «Avete dollari? Regalatemi, per pietà, un dollaro».
Serena Vitale racconta poi la società del sospetto, occhiuta e stupida, ben rappresentata in un episodio del suo rientro in Italia, dopo la prima esperienza moscovita. In una retina piena di arance, porta clandestinamente una panciuta bobina contenente un inedito di
talia. Il treno sbuffa e mentre già si muove, arriva di corsa Valentin con la retina e grida: «Avete dimenticato le arance». Lei apre il finestrino e il giovane medico le lancia il pacco clandestino che atterra nel corridoio del vagone. L’inedito di Solzhenitzyn arriverà in Occidente. Il potere è tanto ottuso per quanto ormai inefficiente, gli esecutori sono spaventati, zelanti e inca-
manentemente dalla «contessa», e una «comoda» di fortuna. I più fortunati hanno scambiato le loro due stanzucce con la «krusciospelonca» (le gelide case di pannelli che Khrusciov aveva fatto costruire per risolvere il problema degli alloggi) che raggiunge, se sei fortunato, i 35 metri quadrati. Eppure regna una strana, dolorosa allegria, fatta di vodka, di partite a carte e di libri, tanti libri.
smo. Figurarsi di riformare il comunismo! A quel fallimento segue la formazione dei nuovi ricchi e dei nuovi poveri. Quando Serena Vitale ritorna a Mosca la trova «vetrificata»: enormi grattacieli tutti costruiti in vetro popolano Moscow city, un cantiere di cento ettari sul lungofiume Presneskaja. E poi c’è da ammirare il nuovo paradiso, Rubljovka, una sorta di Svizzera alle porte della
cora ragazzi che vivono poco meglio di Oliver Twist. Gli imperi economici di chi non ha sufficientemente ossequiato e finanziato l’uomo del Cremlino rischiano di essere distrutti e i loro artefici, che non sono certo dei santi, possono finire in carcere solo perché invisi a Putin. L’autarca si scaglia contro alcuni oligarchi. Quanto alla democrazia… può attendere.
Narrativa
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libri Franco Scaglia LUCE DEGLI OCCHI MIEI Piemme, 306 pagine 18,50 euro
iciamo in sintesi che l’ultimo romanzo di Franco Scaglia, Luce degi occhi miei, associa per mimesi la forma dell’espressione a quella del contenuto e la storia, fortemente centrata sulla protagonista femminile, Maria, si fonde con la lingua e lo stile di un discorso narrativo svolto alla terza persona. Luce degli occhi miei è un omaggio alla lirica, al bel canto, al melodramma e anche per questa ragione la storia di Maria si confà al tema, si mimetizza anch’essa con il clima storico, con i grandi protagonisti della lirica che sempre furono e saranno. Temi popolari in cui le figure di primo piano, da Mimì, a Rosina, a Manon, passano nella storia come piccole grandi eroine di drammi familiari sullo sfondo della grande storia. Ecco quindi che nemmeno Maria sfugge al suo destino e, da aspirante soprano, si trova a vivere come personaggio da melodramma. Maria si presenta nelle prime pagine come una ragazzina speciale che attende i suoi tredici anni «come una tappa decisiva della propria vita». È il 1895, siamo a Firenze e la protagonista vive in casa con la nonna essendo rimasta in pratica orfana dei due genitori. Il papà è morto in scena per una caduta incidentale, la madre si è ritirata lontana dal mondo abbandonando ogni cosa. Maria attende i tredici anni come gli anni della svolta di un’esistenza protetta ma solitaria e tetra, e per festeggiare chiede alla nonna di andare a teatro a sentire, la sera del 2 aprile, l’Aida, con l’interpretazione di Angelo Masini nel ruolo di Radames e della Stolte in quello di Aida. Maria, che ha già una voce potentissima, ha prima di tutto una passione travolgente per il canto. Ma proprio come un’eroina del melodramma il 2 aprile consegna per sempre Maria alla condizione di orfana, la nonna Vittoria muore nella fredda mattina. Resta con la cameriera Euridice prima di scoprire di non avere più un soldo. Ma quando Euridice si suicida per disperazione, Maria viene presa in consegna da uno strano personaggio ottocentesco, emissario della madre Giuseppina. La prima tappa è un collegio a Napoli; altre avventurose tappe seguiranno in una vita difficile, costellata da lutti e mancanze. Ep-
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Il sogno di Maria nell’Italia che fu Il nuovo romanzo di Franco Scaglia racconta anche la storia del nostro melodramma e della piccola borghesia ottocentesca
Autostorie
di Maria Pia Ammirati
pure il lettore seguirà con stupore le vicende di un personaggio forte e tenace che antepone la passione del canto a ogni cosa, al punto da far pensare a uno dei personaggi minori che «a tredici anni lei aveva un bel caratterino. Erano morte in pochissimo tempo nonna Vittoria e Euridice e lei si preoccupava del pianoforte». Maria si preoccupa del pianoforte senza il quale non potrebbe fare esercizio giornaliero anche quando tutto sembra perduto: gli affetti, la famiglia, i beni materiali, i soldi. Il tono avventuroso del romanzo, che è lo stile più proprio di questo libro di Scaglia, trova forse la sua massima espressione in quella sorta di fusione tra finzione e realtà che è l’incontro della giovane protagonista con Pietro Mascagni, incontro fortuito in treno (vari sono gli spostamenti e vari i mezzi a sottolineare le peripezie dell’eroina), che coaugula le citazioni, di cui il romanzo di Scaglia è letteralmente attraversato, di testi del melodramma classico e della letteratura. E chiude il cerchio tra realtà e finzione, tra trama del romanzo e varie trame di storie del melodramma e dei suoi personaggi. Luce degli occhi miei si può leggere, infatti, anche come una storia romanzata del melodramma italiano, nonché come una storia della piccola borghesia ottocentesca. Non mancano straordinarie e minute descrizione di vestiti, cibo e riti dell’epoca: «La prima colazione di Maria consisteva in caffè d’orzo, latte, pane tostato, marmellata e burro. La marmellata era d’arancia, l’unica a disposizione della dispensa». La fine dell’avventura coincide con la realizzazione dei sogni di Maria (fra questi interpretare La Sonnambula e scoprire tanti misteri legati soprattutto alla madre), a cui va una sorta di bonario viatico del lettore: perché Maria appartiene alla storia di quei grandi e difficilmente dimenticabili personaggi del romanzo di tradizione.
Gli ultimi giorni della “Baronessa” da Torino a Barletta ome si è già avuto modo di osservare in questa rubrica, il genere on the road non viene di frequente praticato dai narratori di casa nostra. Per cui capita di sfogliare con non poca curiosità la nuova fatica letteraria di un quarantaquattrenne torinese, per notare quanto il terzo romanzo di Enrico Remmert sia imperniato sul procedere di una Punto che, con a bordo tre persone e un violoncello protetto nella sua custodia, parte dal capoluogo piemontese avendo come termine quello pugliese. Tanto che in premessa del libro (Strade bianche, Marsilio editore, 223 pagine, 17,50 euro) fa bella mostra di sé una schematica cartina della penisola, con segnato il lungo percorso che dovrà portare il composito gruppo sino a Bari, dove il giovane Vittorio ha ottenuto un contratto di violoncellista a tempo determinato e dopo la prima ipotesi di raggiungere la meta in compagnia di Francesca, la sua ragazza, con un viaggio in treno. Ma a loro decide di aggregarsi Manu, amica di Francesca, che possiede una Punto dismessa dall’autoscuola gestita dal padre, «con ancora sulle portiere Au-
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di Paolo Malagodi toscuola Pilone e i doppi comandi che costringono qualunque passeggero a starsene con le ginocchia in bocca perché se allunga le gambe e tocca un pedale al momento sbagliato si rischia la vita. Sali sulla Baronessa, questo è il soprannome della Punto, la accendi, esci dal garage, strade notturne illuminate, strade notturne buie. Una volta usciti dal traffico del centro imbocchi Corso Unità d’Italia, fino alla rampa della tangenziale, al traffico dell’autostrada. E qui cominciano le difficoltà, fra centinaia di camion giganteschi e con, al posto del clacson, le trombe dell’Apocalisse». Matura così l’idea di itinerari meno trafficati, lungo strade bianche non solo intese come vie secondarie, ma anche perché rese candide dalla neve di quella stagione invernale. L’autostrada viene spesso abbandonata per andare verso località minori, come avviene con la scelta di staccarsi dalla costa romagnola per visitare il castello dove venne rinchiuso Cagliostro. Una deviazione di circa venti chilometri, «per San Leo e la strada comincia a salire e
“Strade bianche”, terza prova narrativa di Enrico Remmert, questa volta “on the road”
la nevicata a farsi più seria e intorno i prati e i boschi sono perfettamente imbiancati e più si sale più viene giù forte, finché la neve comincia a far presa anche sul manto stradale e la macchina fatica». Lungo l’itinerario, scandito da una narrazione di tipo corale che dà voce a ognuno dei protagonisti, i pochi euro a disposizione si esauriscono. Inoltre cede il pedale della frizione, anche se si riesce in parte a rimediare con i doppi comandi manovrabili dal passeggero anteriore. Sinché, in prossimità del Gargano, il motore si spegne con un rantolo rendendo inutile ogni tentativo di rianimarlo. In preda allo sconforto è Vittorio, il violoncellista, a improvvisare un malinconico concerto seduto su un paracarro. Frangente che richiama l’attenzione di un automobilista di passaggio, il quale ingaggia i tre per fornirgli aiuto durante un imminente banchetto nuziale nella sua trattoria. Riccardo, così si chiama l’uomo, con un cavo d’acciaio collega saldamente al proprio furgone l’avantreno della Punto, trainandola sino a Barletta. Da qui, in treno, Vittorio potrà finalmente raggiungere Bari e la sua orchestra; mentre, una volta riparata, la Punto prenderà al contrario la strada, in direzione di Torino.
Personaggi Superare MobyDICK
Pasolini
con un gesto d’amore di Maurizio Ciampa i sono libri concepiti per delimitare, quasi con timore reverenziale, il proprio oggetto; altri che vengono pensati con la forza dirompente di un gesto di liberazione. Di questa forza vive il libro di Marco Belpoliti, Pasolini in salsa piccante (Guanda, 136 pagine, 12,50 euro), che continua a suscitare non poche discussioni e polemiche. Ed è giusto che sia così, per l’appassionata, ma ragionata radicalità che il libro sviluppa. Sono passati trentacinque anni dalla morte di Pier Paolo Pasolini, un terzo e più di secolo, un bello spicchio di storia politica e civile del nostro Paese. Davvero molta acqua sotto i ponti. I ponti non hanno ceduto, ma certo hanno vistosamente scricchiolato sotto la pressione di onde d’urto distruttive.
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Un arco temporale così ampio non ha per nulla placato l’irriducibile inquietudine che viene dalla vita e dalla morte del poeta friulano e dal nucleo critico della sua opera. Pasolini resta dove l’abbiamo lasciato, in quella tragica notte all’Idroscalo di Ostia e nei gesti, nelle parole, nelle immagini del suo lungo «scandalo». E, a guardar bene, anche la nostra capacità di comprensione è rimasta ferma dove l’abbiamo lasciata. Qualcosa l’ha imbrigliata, qualcosa ha ostacolato il suo sviluppo. D’altra parte, nulla pesa più di un corpo morto nell’oscurità, martirizzato da una violenza che non ha trovato, e credo non possa trovare spiegazione. Nulla pesa più di un emblema. È vero: le circostanze della morte di Pasolini non sono chiare, la loro ricostruzione, colpevolmente lacunosa, pare elaborata per aizzare dubbi e sospetti. Sono certamente legittime le reiterate richieste di una riapertura del «caso» e di un nuovo procedimento istruttorio. Ma ci possiamo fermare al «caso»? O c’è uno sguardo e c’è una parola da rianimare? Scoprendo il fondo di contraddizioni di cui Pasolini porta il peso, rimettendo a tema la sua omosessualità, che Belpoliti legge come la radice del suo pensiero e della sua azione. Il vasto entroterra dello «scandalo» pasoliniano non è ancora del tutto illuminato. Il libro di Marco Belpoliti può risultare importante, se non decisivo. Smuove acque morte, e forse per questo ha sollevato così tante polemiche, riavvia, attorno alla figura di Pier Paolo Pasolini, quel movimento che da tempo - forse da quella notte a Ostia
Come insegnava il poeta in “Uccellacci e uccellini”, occorre digerire i maestri, meglio se in “salsa piccante”. È quanto tenta di fare Marco Belpoliti in un libro che fa discutere ma che aiuta a fare i conti con un passato che non vuole passare. E a capire l’autore di “Scritti corsari” attraverso le accelerazioni del cuore - si era arrestato. Soprattutto offre un punto di prospettiva. Questo punto è la «salsa piccante» che compare nel titolo. Una strana espressione; sulle prime può suonare quasi fastidiosa, perché sembra macchiare il profilo stesso dell’emblema-Pasolini. Ma è di provenienza nettamente pasoliniana. Belpoliti la estrae da un passaggio di Uccellacci e uccellini, è il consiglio che il Corvo dà a Totò e al figlio Ninetto: «i maestri si mangiano in salsa piccante». Chiarisce Belpoliti: «piccante, se possibile, per digerirli meglio.Attuare il procedimento di cui il poeta è stato un maestro, quello di divorare chi ci ha preceduto in sapienza, intelligenza ed età: ingerire con il maestro anche il suo sapere e la sua forza… Amarlo fino al punto di divorarlo, e ingerirlo per digerirlo». Divorare, mangiare, vuol dire assorbire, assimilare, fare carne e sangue dell’irruenza simbolica che era propria di Pasolini, la capacità di capire attraverso le accelerazioni del «cuore» molte belle le pagine del capitolo forse più importante del libro: «Avere un cuore»), e dunque per salti, per rotture, non per linee di continuità. Proprio all’inizio del suo libro Belpoliti ricorda i versi delle Ceneri di Gramsci: «Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere/ con te e contro di te; con te nel cuore,/ in luce, contro di te nelle buie viscere». Forse Pasolini - e questa è un’altra importante indicazione che viene dal libro di Marco Belpoliti - non capiva, se capire è solo un afferrare per concetti, ma vedeva, e, aggiungerei, sentiva. Su di sé e dentro di sé. E soffriva ciò che vedeva e sentiva. Il suo corpo minuto, teso, un corpo di ragazzo, era l’organo mobile del suo sentire. Il corpo con cui si metteva alla ricerca di un piacere sempre più difficile, sempre più rischioso. Pasolini - è cosa nota - ha visto e ha sentito che il profilo dell’Italia, fra gli anni Sessanta e Settanta, stava cambiando. In atto una metamorfosi mostruosa dei corpi, un’alterazione dei desideri. Nessuno studio sociologico ha fissato l’estensione e la profondità del mutamento con la stessa
precisione, per il semplice fatto che ogni scienza sociale trascrive i fenomeni solo quando diventano numericamente rilevanti. Ma prima? In quell’intervallo, in quello spazio vuoto in cui i processi sono latenti, e la trasformazione è una corrente sotterranea che procede per piccoli, impercettibili spostamenti, chi guarda nella voragine di ciò che non c’è ancora? Chi rischia, chi si espone, dando un nome alle cose quando le cose non hanno un nome? Chi rompe l’inerzia del silenzio? Lo ha fatto un poeta con tutta la sua paura e la sua disperazione, e proprio in virtù della paura, della disperazione, e della solitudine accumulate nel tempo. Pasolini in salsa piccante ci permette di «digerire» Pasolini capendolo e vedendolo attraverso la lenta stratificazione della sua intelligenza, dentro le strettoie della vita, a partire dal primo processo, nel 1949, in Friuli (con l’accusa di «atti osceni in luogo pubblico e corruzione di minori»), i colpi di maglio degli Scritti corsari e delle Lettere luterane, fino al controverso Petrolio, l’ultimo libro (pubblicato postumo nel 1992).
Dicevo all’inizio della forza che emerge dal libro di Marco Belpoliti, la forza dirompente di un gesto di liberazione. Devo aggiungere che molti dei suoi libri più recenti (Il corpo del capo e Senza vergogna, sempre editi da Guanda) portano il segno di questa stessa forza. Pasolini in salsa piccante mette in questione la memoria macerata di un passato che fatica a passare per andare oltre. «Credo sia venuta l’ora scrive Belpoliti - di chiudere con quel decennio di cui Pasolini e Aldo Moro, forse non a caso, sono i due corpi simbolo… È ora di andare oltre un decennio che non finisce di finire nella testa di tanti, il che è un modo per restare legati al passato, quando, invece la discussione, anche a partire da Pasolini, dovrebbe procedere». Procediamo dunque, andiamo avanti, digeriamo, in «salsa piccante» o meno, Pasolini e quel decennio, i Settanta, sapendo che per procedere servirà il «cuore», sapendo poi che un gesto di liberazione, come indica il libro di Belpoliti, può essere anche un gesto d’amore.
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ALTRE LETTURE
QUANDO LA LIBERTÀ NON FACEVA PAURA di Riccardo Paradisi
al 1796 al 1870 c’è stato un tempo della nostra storia nel quale molti italiani non hanno avuto paura della libertà, l’hanno cercata e hanno dato la vita per realizzare il sogno della nazione divenuta patria. È stato il tempo del Risorgimento quando la libertà significava verità. Anzitutto sentirsi partecipi di un’Italia comune, non dell’Italia dei sette Stati, ostili tra loro e strettamente sorvegliati da potenze straniere. La conquista della libertà italiana - sostiene Lucio Villari in Bella e perduta, L’Italia del Risorgimento (Laterza, 345 pagine, 18,00 euro) è stata la rivendicazione dell’unità culturale, storica, ideale di un popolo per secoli interdetto e separato, l’affermazione della sua indipendenza politca, la fine delle subalternità alla Chiesa e al suo potere temporale.
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QUESTO NON È UN PAESE PER GIOVANI *****
a feccia che devasta Roma e assalta uomini e mezzi delle forze dell’ordine non è rappresentativa di una generazione: è appunto solo feccia, canaglia da strada si sarebbe detto nel primo Novecento. E come tale va trattata. Ma sarebbe stupido negare che esiste un disagio generazionale. Che i giovani oggi sono i grandi esclusi dalla rappresentanza politica, dal processo di produzione, dai circuiti culturali e mediatici. Una Generazione tradita la chiama Pier Luigi Celli (Mondadori, 134 pagine, 17,00 euro) da una politica immorale faziosa e strafottente, da un Paese in cui cultura e competenza sono requisiti trascurabili per accedere al mondo del lavoro e dove le aspirazioni di una generazione giovane vengono sacrificate a un sistema vecchio e malato.
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IL MISTERO DEL MALE SECONDO PADRE AMORTH *****
e possessioni sono superstizioni medievali, malattie psichiche travestite in forma religiosa o sono reali? Già porre la domanda è molto politicamente scorretto ma di essere politicamente corretto a padre Amorth, il più noto degli esorcisti italiani importa nulla. Tanto da scrivere con Roberto Italo Zanini un libro intervista proprio su possessioni ed esorcismi: Più forti del male (Edizioni San Paolo, 272 pagine, 14,00 euro), un faccia a faccia con il mistero del male dove Padre Amorth mette in guardia anche dal rischio di alcune forme associative dietro le quali possono nascondersi vere e proprie sette sataniche.
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di Enrica Rosso n mostra alla Casa dei Teatri di Villa Pamphilj, fino all’8 marzo, ottanta pezzi originali provenienti dalle collezioni private di Giorgio Ursini Ursic e Nicola Fano per raccontare la visione del Pulcinella sognatore di Emanuele Luzzati. Promossa da Roma Capitale Assessorato alle Politiche Culturali e della Comunicazione e Biblioteche di Roma è un’occasione giocosa per incontrare uno dei simboli dell’Italia nel mondo, nella rilettura di uno dei protagonisti del teatro del secondo Novecento. Luzzati ha preso a prestito i tratti salienti del Pulcinella, tradizionalmente diabolico, per riscrivergli una storia lieve e restituirci un buffo giocoliere, un tipetto in bilico tra cielo e mare, a cavallo di un sogno. Un mutante allergico alla noia, diabolico sì, nell’inventare rimedi per combattere il grigiore fuggendo a gambe levate da tutti coloro che vorrebbero imbrigliarlo prospettandogli una vita qualunque per tradurla in una formidabile giostra. Sagome a grandezza naturale, fantocci di pezza cuciti dall’autore, lo studio per una scenografia mai realizzata, sculturine lignee basculanti e soprattutto quadri a tecnica mista. Durante il periodo della mostra si potrà godere della rassegna di video on demand frutto della complicità di Luzzati e Giulio Gianini, regista e tecnico del colore nonché animatore delle immagini disegnate. Se Luzzati sta a Pulcinella come mastro Ciliegia sta al burattino Pinocchio, Gianini è la fata Turchina che ha regalato la vita alle immagini altrimenti statiche disegnate da Luzzati. Due grandi sognatori accomunati da una grande passione per il teatro dei burattini che non hanno mai smesso di giocare sul serio. Sono nati così, negli anni capolavori come Il flauto magico, 45 minuti di delizia assoluta su musiche di Mozart diretti da Karl Bohm, o la cosiddetta Trilogia Rossiniana reperibile in libreria dal 27 gennaio in un cofanetto contenente il dvd realizzato da Gallucci editore in omaggio al pittore, illustratore, scenografo genovese nel terzo anniversario della sua scomparsa, comprensivo di booklet a testimonianza del sodalizio artistico dei due creativi - compo-
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Danza
Teatro Il mutante Pulcinella riletto da Luzzati MobyDICK
spettacoli DVD
I SENTIERI SELVAGGI DELLO CHEF MASIERI u per le colline tra la Liguria e la Francia, un’auto si arrampica verso le Prealpi. Paolo Masieri, uno dei più innovativi tra i grandi chef italiani, ha posto lassù il suo orto, la sua casa di campagna e le sue erbe. È l’immagine chiave di Cuoco contadino, bel documentario che Luca Guadagnino dedica al gourmet nostano. Uno spaccato di vita rurale e silente, che ha lo stesso ritmo cadenzato e suggestivo della natura, protagonista insieme a Masieri di un viaggio nel tempo di grande delicatezza narrativa. Settanta minuti in full immersion nella grande tradizione culinaria italiana.
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CONCERTI
GO AHEAD! GLI EAGLES IN CINA uonano insieme dal lontano 1971, hanno avuto un successo planetario, ma è difficile immaginarli mentre fan dagli occhi a mandorla intonano Desperado con le lacrime agli occhi. Eppure, gli Eagles sbarcheranno in Cina a marzo. A rivelarlo, il chitarrista Joe Walsh ad alcuni giornali australiani: «In marzo andiamo in Cina e non ho idea di cosa attendermi, però non vedo l’ora. Non so se il pubblico rimarrà seduto a guardarci, e non so neppure se la gente sappia le parole delle canzoni. Faremo un classico concerto degli Eagles, poi vediamo che succede». Concerti in programma alla Mercedes-Benz Arena di Shanghai il prossimo 9 marzo e alla Wukesong Arena di Pechino il 12. L’augurio è scontato: Go ahead eagles!
S sta da L’Italiana ad Algeri - Pulcinella - La gazza ladra, gli ultimi due candidati agli Oscar nel ‘64 e nel ’73. In tutto 33 minuti, strepitosi. Pulcinella e il pesce magico - La ragazza d’oro - La palla d’oro sono gli ultimi tre titoli in visione alla mostra. In 29 minuti un mondo di colori e paesaggi incantati che sarà possibile ritrovare in libreria sempre edito da Gallucci. Non mancano oltre ai film di animazione pellicole illustri sulla maschera di Pulcinella: Carosello napoletano, Ferdinando I re di Napoli, Il viaggio di Capitan Fracassa, L’ultimo Pulcinella, Pulcinella su musiche di Stravinski. Ancora per oggi (10.30-12.30 e 14.30
16.30) e domani (solo la mattina) sarà inoltre possibile partecipare gratuitamente al laboratorio artistico per bambini dai 6 ai 12 anni. Un tetto massimo di 15 bambini per ogni gruppo che dopo la visita guidata alla mostra potranno creare i loro elaborati artistici guidati dall’esperienza di Danièle Sulewic, allieva del maestro Luzzati. Per non aver delusioni è consigliabile prenotarsi allo 06/45460693 o via e-mail all’indirizzo eventi.casadeiteatri@bibliotechediroma.it . Ultimo appuntamento annunciato alle ore 11.00 di sabato 12 febbraio, la tavola rotonda curata da Nicola Fano su I Pulcinella del Novecento.
I Pulcinella di Luzzati - dipinti, disegni, incisioni, sagome, sculture e oggetti, Casa dei Teatri fino al’8 marzo info: www.casadeiteatri.culturaroma.it
di Francesco Lo Dico
Lo Schiaccianoci nell’era della comunicazione di massa uale insano Natale sarebbe quello che non venisse festeggiato con il panettone, la tombolata con parenti e amici e Lo Schiaccianoci. Se quest’anno, dunque, il Teatro dell’Opera di Roma ha voluto lasciare la via della tradizionale messa in scena, così non è stato per il Balletto di Roma che dal 3 al 6 gennaio ha portato sul palco dell’Auditorium della Conciliazione la rielaborazione pensata da Mario Piazza per la compagnia romana nata dal sodalizio tra Franca Bartolomei e Walter Zappolini. In realtà, la rilettura contemporanea di Piazza si propone come un’alternativa molto apprezzata alla tradizionale coreografia di Petipa-Ivanov già dal 2007; sin dall’inizio, Andrè de la Roche, divo televisivo e rinomato danzatore jazz, ha generosamente prestato il nome al lavoro, richiamando un notevole interesse da parte del pubblico televisivo. Le edizioni
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di Diana Del Monte passate hanno, dunque, registrato spesso il tutto esaurito e nel 2010, per i cinquant’anni del Balletto di Roma, Lo Schiaccianoci, così come si conviene alle dive dopo molte fatiche, ha subito un piccolo restyle. Il carattere della coreografia è rimasto, comunque, il medesimo. Di forte impatto visivo, la scenografia di ispirazione baroccheggiante e i costumi di Giuseppina Maurizi donano al balletto un sapore un po’ dark, ristabilendogli il temperamento della favola di Hoffmann. Clara è una pre-adolescente contempo-
ranea immersa e persa in un labirinto pieno di stimoli contrastanti; la mescolanza di stili, dal jazz al balletto neoclassico, ricorda l’eclettismo di matrice televisiva - in una valuzione tutt’altro che dispregiativa del termine - ed è intrisa di una moltitudine di richiami a quell’immaginario collettivo alimentato dai mass media in cui Clara è costretta a crescere. Alla fine dell’Ottocento, il balletto su musiche di Pëtr Il’ic Ciajkovskij fu l’occasione per Marius Petipa di cavalcare l’onda del successo della sua precedente creazione, La bella addormentata nel bosco; il soggetto gli venne suggerito dal principe Vsevolojskij, direttore dei teatri imperiali, che del racconto di Hoffmann aveva letto la versione francese di Alexandre Dumas padre. Alleggerito dalle atmosfere cupe pensate dallo scrittore e compositore tedesco e con la coreografia di Lev Ivanov, che aveva dovuto sopperire alla malattia di Petipa, lo spettacolo andò in
scena per la prima volta il 18 dicembre 1892 al Teatro Mariinskij di San Pietroburgo. Da allora, questo balletto è stato ricoreografato decine di volte, affermandosi, dal dopoguerra in poi, come uno degli immancabili elementi «profani» del rito natalizio. Dal 1950 i palcoscenici hanno ospitato, solo per citare i più noti, Lo Schiaccianoci di Georges Balanchine, Rudolf Nureyev, John Cranko, John Neumeier, quello punk di Mark Morris e quello biografico di Maurice Bejart, che vi trasmise una delle pagine più tristi della sua storia personale. Un olimpo difficile da scalare, dunque, sul quale Andrè de la Roche si arrampica interpretando un doppio ruolo, quello dello Schiaccianoci e della Fata Confetto; nel nuovo libretto di Riccardo Reim, infatti, la dolce fatina si trasforma in una novella e ancor più subdola strega Carabosse, personaggio originariamente en travesti della Bella addormentata nel bosco, pronta a trarre in inganno la giovane protagonista con false moine.
MobyDICK
poesia
8 gennaio 2011 • pagina 21
Tra le schiume del poeta-vate l lettore mi perdonerà se riprendo - per presentare Gabriele D’Annunzio - un suggerimento apparentemente goliardico, ma non del tutto inattendibile, di Elsa Morante. La grande scrittrice per spiegare la differenza tra «stupido», «imbecille» e «cretino» termini impropriamente considerati sinonimi - invitò a ripensare la triade poetica di fine Ottocento: Carducci, Pascoli, D’Annunzio. Ora, se definire Pascoli «imbecille» (nel senso etimologico di debole fisicamente, limitato) può apparire ingeneroso (mentre su Carducci come «stupido» - e cioè stupìto, inconsapevole di sé e della realtà, ci avviciniamo molto alla verità), credo che l’epiteto «cretino» si attagli perfettamente al poeta-vate. Almeno nell’uso corrente infatti «cretino» si è allontanato dalla propria etimologia («cristiano», «povero cristo») per acquisire una sfumatura morale che implica supponenza, e perfino un po’ di megalomania. D’Annunzio, versificatore sapiente e sublime plagiatore, che dà del tu ai miti antichi e tutto trasforma in ditirambo, mi appare affetto da una tipica - rigonfia cretineria fin de siècle.
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Ma vorrei subito scoprire le carte. A dieci anni sapevo a memoria un numero cospicuo di poesie dannunziane (oltre che pascoliane e carducciane), che poi recitavo alla canuta prozia molto liberty. Ora, rileggendo i suoi versi in età matura tutto mi suona falso, contraffatto, tutto mi appare manipolazione esibizionistica di materiali low budget. Va bene il poeta è un «fingitore», che finge perfino il dolore che sente (Pessoa), ma D’Annunzio a furia di fingere non sa più se un qualsiasi sentimento lo ha mai davvero provato. Matteo Marchesini in una introduzione al Piacere ha preso in prestito una tagliente definizione di Benjamin: «uomo ammobiliato». Lo stile diventa un parco a tema classicheggiante, e ci trasmette il brivido di star compiendo un’esperienza di alto valore estetico. Perfino il saggio su D’Annunzio di Giacomo Debenedetti (fine anni Venti), per quanto pieno di ammirazione, continua a sembrarmi una criptostroncatura. Ripassiamone le formule: «un poeta così irreparabilmente poeta… ci colpisce, ma non ci intriga. Non crea richiami d’aria. Con lui nessuna complicità», e se Stendhal lascia un margine di promesse «il D’Annunzio invece mantiene subito: prima ancora di aver promesso», e soprattutto: «la poesia dannunziana non tocca in noi la corda della nostalgia. Quelle immagini quei suoni quei colori bastano fervidamente a se stessi; ma non implicano d’esser prolungati in noi» (dunque una poesia turgidamente autistica!). Fino alla formula conclusiva: «Vive sempre nella luce, tutto in luce… nessuna delle sue opere è presente come laterale o minore», che è quasi una definizione del Kitsch (ogni scena è una scena madre). In Lungo l’Affrico, tratta da Alcyone, il grido breve delle rondini promette un bene che il nostro cuore ignora, e soltanto intuisce. D’An-
il club di calliope
di Filippo La Porta
LUNGO L’AFFRICO Nella sera di giugno dopo la pioggia
(…) O nere e bianche rondini, tra notte e alba, tra vespro e notte, o bianche e nere ospiti lungo l’Affrico notturno! Volan elle sì basso che la molle erba sfioran coi petti, e dal piacere il loro volo sembra fatto azzurro. Sopra non ha sussurro l’arbore grande, se ben trema sempre. Non tesse il volo intorno a le mie tempie fresche ghirlande? E non promette ogni lor breve grido un ben che forse il cuore ignora e forse indovina se udendo ne trasale? S’attardan quasi immemori del nido, e sul margine dove son trascorse par si prolunghi il fremito dell’ale. Tutta la terra pare argilla offerta all’opera d’amore, un nunzio il grido, e il vespero che muore un’alba certa. (Settignano, fine giugno 1902) Gabriele D’Annunzio
nunzio, a differenza delle rondini, ci informa puntigliosamente su tutto ciò che promette. Riempie per intero, e dispoticamente, il nostro immaginario, un po’ come la pubblicità. Se nei grandi umidi occhi della luna «si tace» l’acqua del cielo (La sera fiesolana), e se «l’Arno porta il silenzio alla sua foce» (La tenzone) il
Vate non tace mai. Tutt’al più, come nell’incipit della Pioggia nel pineto intima all’altro «Taci…». Non tanto un dilettante di sensazioni (Croce) quanto un professionista dell’Ineffabile, amato da lettori ansiosi di intensificare la Vita che «non vive». E, aggiungo, un inesauribile promoter di se stesso: «Le mie parole/ sono profonde/ come le radici/ terrene,/ altre serene/ come i firmamenti,/ fervide come le vene/ degli adolescenti,/ ispide come i dumi,/ confuse come i fumi/ confusi,/ nette come i cristalli/ del monte,/ tremule come le fronde/ del pioppo,/ tumide come le narici/ dei cavalli/ a galoppo,/ labili come i profumi /(…)» (Le stirpi canore). La varietà merceologica è assicurata. L’Alcyone, terzo e più maturo libro delle Laudi, diviso in 88 liriche, è quasi un lungo poema panico-meridiano, con evidente ispirazione nietzscheana (in senso dionisiaco più che superomistico). Come spesso nella sua opera poetica la metrica è nascosta, oscillante tra forme regolari e forme libere: alla rime si preferiscono assonanze e rime imperfette, e in generale i rapporti numerici nella struttura compositiva - numero di strofe e versi, etc. - sono rigorosissimi, benché non percepibili a orecchio. In Lungo l’Affrico il poeta si rivolge al cielo dopo un temporale e gli parla come a una donna. Immaginate Zarathustra, ebbro di rivelazioni cosmiche, che contiene in sé un estenuato Casanova! Eppure la dimensione profetica (il vespero che prelude a un’alba), a differenza che nei romanzi, non suggerisce un kitsch vitalistico, ma si traduce in canto sognante e un po’ fiabesco.
L’influenza di D’Annunzio, accanto a quella di Pascoli, sulla lingua poetica italiana del Novecento è innegabile, e non solo per l’uso del verso libero. Pier Vincenzo Mengaldo insiste sugli aspetti metrico-ritmici, su sperimentalismo (che tende a congelarsi) e registri monostilistici e poi, dal punto di vista lessicale, sui deverbali con suffisso «io» («sciacquio», «balenio») e sull’ossessione per i termini sdruccioli («capricorno sordido...», «sorvolano le rondini...») che diventa cristallizzazione di una trovata inventiva (si pensi alle canzoni di Battiato!). Nel poeta-vate ritroviamo il fonosimbolismo (solo l’inizio di La sera fiesolana: «Fresche le mie parole nella sera/ ti sien come il fruscio che fan le foglie») e un linguaggio aulico, lontano dalle successive contaminazioni di crepuscolari e futuristi («coccole aulenti» per «bacche profumate», «dimandare» per «domandare»…). Leggendo un brano di una lettera mandata all’editore Treves dalla foce dell’Arno mentre componeva Alcyone mi è venuto spontaneo confrontarlo con l’incipit di una poesia di Cesar Vallejo. Se D’Annunzio sottolinea che i suoi versi nascono dall’anima come «le schiume delle onde», per dire enfaticamente tutto il suo raptus creativo, il poeta peruviano annota più sconsolatamente: «Vorrei scrivere/ ma viene su solo spuma».
LA VOCE DEGLI ULTIMI E QUELLA DI BUKOWSKI in libreria
Molte volte ti guardo andare via e molti giorni ancora ti ho guardata distendere i capelli sulle spalle: un uccello reale. Non ti parlo e non so che punto della selva è il tuo profilo. Ma a volte nella notte ti ho condotta a parlarmi come si parla ai morti, per altri tempi e luoghi. Non qui, non questa volta. Daniele Piccini
di Giovanni Piccioni
utti gli annni buttati via di Charles Bukowski, pubblicato da Guanda nei «Poeti della fenice» (18,00 euro), tradotto con efficacia da Simona Viciani, con testo originale a fronte, comprende due raccolte: Mi prende il cuore tra le mani e Crocifisso in una manomorta. Sono poesie che vanno dal 1955 al 1965 e che occupano quindi una posizione centrale nella produzione del poeta e narratore americano, nato nel 1920 e morto nel 1994. Quello di Bukowski è un mondo peculiare: al centro del suo discorso ora dall’andamento narrativo, ora visionario, ora affabulatorio ci sono le esistenze di uomini e donne sconfitti, di luoghi sordidi e malfamati, contrapposti polemicamente, come simboli veritieri, alla trionfante e minacciosa società del benessere.
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Ma nelle bottiglie vuote, nelle bische, nei vicoli, nell’assurdità del dolore, nel mondo che illude e tradisce, nelle puttane e negli ubriaconi, negli artisti morti nell’anonimato, negli operai «senza volto», nelle dive distrutte dal successo, nei vecchi abbandonati, il poeta trova la dimensione della propria voce. La poesia di Bukowski sembra un tentativo riuscito di non abbandonare al loro destino, cui aderisce il destino dell’autore, gli esclusi e di mostrare la loro umanità attraverso il racconto della loro condizione e della loro vicenda. A volte uno scatto d’ironia solleva dalla tragedia, dal «…morire per niente/ come io/ ho / vissuto», dall’insignificanza, con «nessuna saggezza di vita, nessuna capacità di stare al mondo», allorché «la storia si toglie il vestito e diventa meretrice».
Essere&Tempo
pagina 22 • 8 gennaio 2011
n un periodo in cui gli elenchi hanno trovato un loro spazio mediatico, eccone uno sui perché alcuni potrebbero simpatizzare con usi e costumi in voga negli Stati Uniti (perdonando alcuni paragoni isterici): Il Congresso americano è composto da 100 senatori (2 per Stato) fin dalla stesura della Costituzione nel 1787, per garantire una uguale rappresentanza per tutti gli Stati. Da noi i senatori sono 321 (315 eletti e 6 a vita), le cui modalità di elezione, su base regionale, sono state modificate nel 1994 e nel 2005 e sono attualmente quasi impossibili da capire. Gli Stati Uniti hanno anche 435 deputati (calcolati sulla popolazione di ogni Stato) per 300 milioni di statunitensi con un rapporto medio di 1 per circa 689 mila abitanti. Da noi siedono in Parlamento (neanche tanto spesso), 630 deputati per 60 milioni di italiani con un rapporto di 1 per circa 95 mila abitanti. Lo stipendio annuale di un deputato made in Usa è di 174 mila dollari (fonte: US Congress) pari a 132 mila euro e a quattro volte il reddito pro capite medio, che il parlamentare può spendere come vuole; mentre quello made in Italy è di circa 180 mila euro all’anno (fonte: Camera dei Deputati) e include indennità parlamentare, diaria, rimborso per spese inerenti al rapporto tra eletto ed elettori (sic), spese di trasporto e spese di viaggio, e spese telefoniche. La somma corrisponde a otto volte il reddito medio pro capite, un rapporto doppio rispetto a quello statunitense. Tutti i parlamentari possono decidere liberamente di diminuirsi lo stipendio e alcuni effettivamente lo fanno. Il diritto alla pensione scatta dopo almeno cinque anni di partecipazione attiva ai lavori parlamentari non prima dei 50 anni e con almeno 20 anni di servizio, oppure a ogni età con 25 anni di servizio o a 62 anni.
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Il rispetto per le idee, anche religiose, e la possibilità di esprimerle è sancito dal primo articolo della Costituzione (articolo 21 della Costituzione italiana che, invece, mette al primo posto il diritto al lavoro, per davvero). La class action ovvero la possibilità di un gruppo di cittadini di portare in tribunale privati, enti, istituzioni pubbliche o private è una legge negli Usa dal 1938. Da noi è entrata in vigore nel 2010 (sulla carta). La maggior parte delle ricorrenze festive vengono celebrate di lunedì, con un certo vantaggio per il turismo. Una proprietà comune è considerata di tutti e non di nessuno. Ne consegue un discreto rispetto per città, campagne, fiumi e mari. Una casa è mantenuta al meglio sia internamente che esternamente. Si costruiscono molti edifici in acciaio e vetri, che vengono regolarmente lavati. In uno stesso condominio, lo stile delle grate alle finestre non è alla creatività dei singoli inquilini: quadrati o rombi, cancellate spagnole, arabeschi, fiocchi e riccioli di ferro battuto. Lo stesso vale per il colore delle tende da sole. La pratica, repressiva di possibili atteggiamen-
MobyDICK
ai confini della realtà
Ventotto buone ragioni
per essere filoamericani di Leonardo Tondo ti artistici, è controbilanciata da un aumento del valore dell’immobile. Tutte le modifiche o gli usi condominiali (vedi stesura dei panni, anche se pittoresca) sono decisi dall’assemblea in riunioni discrete dove ognuno ha tempo e modo di esprimersi (vale anche per gli show politici televisivi). La fortuna altrui è perlopiù vista con simpatia e non con invidia. Il colore della pelle, la provenienza geografica, le preferenze religiose o sessua-
inversamente proporzionale all’ammontare della multa. Nel Paese del consumismo sfrenato per antonomasia, un pezzo di ricambio per l’automobile, la cucina elettrica, la lavatrice o l’aspirapolvere si può trovare dopo 25 anni. Le cartelline per raccogliere documenti (chiamate manila folder, perché fatte con fibre di abacà, un banano filippino), da almeno cinquant’anni sono sempre le stesse, delle medesime dimensioni e
In un tempo in cui gli elenchi hanno un loro spazio mediatico, eccone uno sul perché simpatizzare con usi e costumi in voga negli Usa. Dal rispetto delle idee a quello per il bene comune, dai comportamenti condominiali a quelli stradali, alla fornitura di qualunque servizio e pezzo di ricambio... li non sono mai elementi che compaiono in una notizia; così come non compare ogni aggettivo che possa essere percepito come peggiorativo. Religione e politica non sono argomenti di discussione a tavola. Quando vorresti attraversare una strada, l’automobilista si ferma, leggendo il tuo pensiero, a dieci metri dalla traiettoria del tuo possibile percorso - passaggio pedonale o no - evitando stridio di freni a un passo dai tuoi piedi (sempreché hai dimostrato con sicurezza il coraggio di attraversare). Dopo cinque minuti dalla fine della sosta a pagamento, sei sicuro di trovare una multa ma per un ammontare fastidioso e non punitivo. Il parcheggio in doppia fila è un uso in cui la frequenza è
tradizionalmente di colore beige. Dopo aver comprato un qualsiasi capo di abbigliamento, una valigia, un cacciavite, un servizio di piatti, un tavolo, le maniglie di una porta, un televisore e se, arrivati a casa, non vi piacciono più, si può tornare al negozio o grande magazzino e restituirli con la certezza che avrete il denaro indietro se avete pagato cash o il credito sulla vostra carta senza alcuna discussione o alcun buono per comprare altra merce nello stesso negozio. Se vi viene in mente un servizio, dalla riparazione di una sedia in paglia di Vienna alla stiratura delle lenzuola di lino, alla spedizione di un qualsiasi oggetto, all’apprendimento dello swahili, cercate e lo troverete (prima sulle pagine gialle, ora su internet). È difficile che in un uffi-
cio pubblico o privato, o una banca, l’impiegato o impiegata di turno non saluti, sorrida e ringrazi.
In una commissione per giudicare una ricerca se un candidato è amico di un commissario, quest’ultimo si alza e se ne va (oltre ad astenersi). Non soltanto per generico conflitto di interessi, ma anche per evitare di dover giudicare favorevolmente una proposta insufficiente o essere responsabile di fronte all’amico di un giudizio finale negativo. In un ristorante camerieri e cameriere controllano continuamente tutti i tavoli e basta alzare un sopracciglio per farli avvicinare. Un assassino, un ladro o il presidente degli Stati Uniti, alla radio o alla televisione, o sui giornali sono sempre preceduti da Mr. Nessuno di loro compare soltanto con nome o cognome e senza l’appellativo. Il segretario di Stato, Mrs. Hillary Rodham Clinton non è mai chiamata la Clinton. Il presidente, Mr. Barack Obama, dopo aver accettato controvoglia il compromesso (imposto dalla maggioranza dei repubblicani al Congresso) sulla diminuzione delle tasse anche a chi guadagna più di 250 mila dollari l’anno, è andato in televisione e su Facebook a spiegare le ragioni: il suo orgoglio democratico ferito non doveva ricadere sulle spalle della classe media americana (il suo partito non ha però gradito il compromesso).
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g
L’insieme degli immigrati riceve più di quanto dà COERENZA, CONCRETEZZA E RESPONSABILITÀ Sono compiaciuto e soddisfatto per l’impegno e i risultati ottenuti dal gruppo Udc alla regione Puglia, presieduto da Salvatore Negro, in occasione dell’approvazione del Bilancio di previsione 2011 e pluriennale 2011-2013. Mi preme ringraziare personalmente il presidente Salvatore Negro e i consiglieri Euprepio Curto, Giannicola De Leonardis e Peppino Longo. I risultati ottenuti in Aula sono il frutto di un duro lavoro e di una linea politica coerente con quella nazionale, ispirata dall’on. Pier Ferdinando Casini, di un’opposizione responsabile, moderata, concreta, equilibrata, equidistante dai due Poli ma senza posizioni preconcette. Abbiamo apprezzato, in particolare, l’impegno a favore dei giovani, per i quali è stato istituito un premio regionale per le eccellenze riservato ai neo-diplomati e laureati con il massimo dei voti. È stato inoltre istituito un contributo per abbattere fino al 50% i costi dei biglietti dei mezzi di trasporto per gli studenti pendolari. Ma l’impegno del gruppo regionale non si è limitato solo alle istanze del mondo giovanile: ha toccato temi a noi cari che riguardano il lavoro e il precariato, la famiglia, i diversamente abili e la tutela dell’ambiente. Per quanto riguarda le famiglie è stato istituito un fondo di solidarietà a favore di coloro che hanno perso un familiare a causa di incidenti mortali sul lavoro. Per i diversamente abili, la Regione ha messo a disposizione delle associazioni di volontariato, a titolo gratuito, alcuni immobili di sua proprietà dove poter svolgere attività a favore di tali soggetti; è stato istituito anche un contributo per le emittenti locali per consentire l’apprendimento delle notizie agli audiolesi. Per quanto riguarda il lavoro e la lotta al precariato, è stato approvato un emendamento dove è specificato che la regione Puglia provvederà, in concorso con gli enti utilizzatori, all’erogazione di contributi finalizzati all’impiego dei lavoratori socialmente utili, elevando il tetto orario fino a un massimo di 36 ore settimanali, unitamente al versamento dei relativi contributi previdenziali per la determinazione della misura dei trattamenti pensionistici. Infine, a tutela dell’ambiente, è stato approvato l’emendamento, in cui per ovviare ai problemi e alle criticità dello sversamento a mare delle acque reflue derivanti dagli impianti fognari di Gallipoli e del comprensorio di Casarano, è stato istituito un fondo per la realizzazione del progetto esecutivo della fitodepurazione e dei recapiti finali nelle cave dismesse “Mater gratia” e nei campi di spandimento esistenti. Sergio Adamo U D C - MO V I M E N T O GI O V A N I L E
REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE “…VERSO IL PARTITO DELLA NAZIONE” SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)
LE VERITÀ NASCOSTE
Per l’equilibrio del sistema produttivo, assistenziale e previdenziale, gli italiani devono accettare anche lavori manuali e “umili”, nonché l’ulteriore innalzamento dell’età di collocamento a riposo. Il fabbisogno di manodopera immigrata è spesso sopravvalutato. Il lavoro d’immigrati può rallentare l’introduzione della tecnologia moderna e ostacolare la crescita della produttività. Lavoratori immigrati sottopagati possono solo ritardare la cessazione di lavorazioni superate e non competitive.Vi sono poi immigrati disoccupati e altri, giunti per ricongiunzione familiare e richieste d’asilo. Il tasso di partecipazione alla forza lavoro degli immigrati è inferiore a quello dei nativi e tende a percentuali sempre più basse. Spesso gli immigrati ottengono più assistenza sociale di quanta ne finanzino. Ricevono (pure con servizi gratuiti, sussidi, agevolazioni, case popolari) più di quanto danno. Il capo della Polizia Manganelli ha affermato che «gli immigrati clandestini costituiscono il 35% della popolazione carceraria e sono responsabili del 30% dei reati predatori» nel Belpaese.
Gianfranco Nìbale
MEGLIO LA CULLA DI UN CASSONETTO Ho seguito con stupore le polemiche che hanno seguito l’inaugurazione della “culla per la vita”situata all’interno dell’Ospedale Maggiore di Parma. Analoghe iniziative a favore della creazione di altre “culle” sono state prese anche in altre città italiane. Nella mia parrocchia, appena arrivai ad abitare nella zona dell’attuale Quartiere Pablo, mi colpì il nome del circolo ricreativo-culturale ivi presente: “La Ruota”. Che strano nome, pensai. Con gli anni, compresi che ci si riferiva alla cosiddetta “Ruota degli esposti”, presente in tantissimi monasteri o chiese della nostra tradizione cristiana europea. Vi era un’alternativa all’abbandono e alla morte.Vi era una possibile alternativa all’aborto, anche nel Medioevo. Ci si augura che “la Ruota” di Parma non sia mai usata. Ma se bastasse a salvare un solo neonato dal cassonetto, ben venga. Il valore simbolico che essa rappresenta è molto forte: vince la vita! Per questo il Movimento per la vita italiano e i Centri di aiuto alla vita hanno sempre visto favorevolmente tali iniziative. Circa centomila bambini, infatti, sono stati salvati, negli ultimi trent’anni. La culla non è assolutamente un incentivo al parto clandestino. Oggi, per una donna è una “scelta” interrompere una gravidanza? Una coppia è messa nelle condizioni di avere il numero di figli che essa realmen-
te desidera? Le istituzioni facciano un approfondito esame di coscienza. Il consiglio e il messaggio che deve passare in ogni caso è che si partorisca in ambiente idoneo, seguiti da professionisti, e qualora si decida di non tenere il bambino, lo si affidi per l’adozione. Alle Istituzioni, Stato, Regione, Provincia e Comuni, si chiedono soprattutto opportunità e alternative: sostenere e incentivare, in una logica di sussidiarietà, quelle realtà associative, culturali e sociali, che spendono le loro energie di volontariato a favore del diritto alla vita e alla maternità. Dobbiamo invertire l’attuale collasso di natalità e il presente inverno demografico, frutto di una cultura che non spera più. Natalità è ricchezza anche economica per una società, alla faccia delle falsità e bugie neomalthusiane che vedrebbero nell’incremento demografico anche un conseguente aumento della povertà. I dati scentifici dicono esattamente il contrario. È necessario invece valorizzare e premiare la maternità, non solo con meritorie politiche inerenti il “fattore” o “quoziente familiare”, ma anche riscoprendo il cosiddetto “salario familiare”. Un salario cioè che consenta di poter mantenere il numero di figli che si desidera. Un figlio è un valore per la società, non deve essere percepito come un peso. La “culla per la vita”è certamente un piccolo segno, ma va nella direzione giusta. È infinita-
L’IMMAGINE
La polizia americana usa Twitter SEATTLE. Twitter è un servizio gratuito di social network e microblogging che fornisce agli utenti una pagina personale aggiornabile tramite messaggi di testo. Gli aggiornamenti possono essere effettuati tramite il sito stesso, via sms, con programmi di messaggistica istantanea, e-mail. Gli aggiornamenti sono mostrati istantaneamente nella pagina di profilo dell’utente e comunicati agli utenti che si sono registrati per riceverli. Ebbene la polizia americana sta sperimentando l’utilizzo di Twitter per ritrovare le auto rubate, e recentemente ha avviato uno spazio chiamato getyourcarback (che potrebbe essere tradotto con “riprendi la tua auto”), dove vengono segnalate le descrizioni delle auto rubate: modello, colore, numero di targa. Lo scopo è, da un lato, sensibilizzare i cittadini sul problema dei furti di automobili, ma senza creare inutili allarmismi. L’altro, è chiaramente quello di raccogliere informazioni e segnalazioni dai cittadini che notassero un’auto che corrisponde alla descrizione di una di quelle rubate. Una soluzione di “crowdsourcing” per combattere il crimine, anche in relazione ai tagli di organici delle pattuglie conseguenti alla crisi economica.
mente meglio accendere un fiammifero, che continuare a maledire il buio!
Glauco Santi
L’AQUILA: DALLA BEFFA ALL’UMILIAZIONE Come accade ormai sovente nel nostro Paese, sono gli operatori del soccorso che, oltre a sopperire alle emergenze, vivono essi stessi nell’emergenza più assoluta. Da tempo si sa che l’emergenza Abruzzo scadeva a fine anno ma, per rimanere in tema emergenziale, solo dopo aver dichiarato lo stato di agitazione e lo sciopero, le organizzazioni sindacali nazionali vengono convocate il 29 dicembre per comunicazioni. Una riunione patetica, al limite del libro Cuore. Una di quelle cui ti danno le pacche sulle spalle per dirti: «Quanto sei bravo, continua a lavorare, perché il Paese ha bisogno della tua opera! Però sappi che questo governo non ha soldi né per quello che avete fatto (arretrati da novembre 2009) né tanto meno per mantenere questo dispositivo di emergenza per il 2011». Ai vigili del fuoco è stato chiesto un altro sforzo in termini di sacrifici familiari ed economici per salvare l’immagine di questo governo. Mentre chi invece sta seduto in comode poltrone ministeriali non ci rimette nulla.
I Vigili del Fuoco
VIVERE E SORRIDERE
Nostalgia canaglia Questo curioso primate del Madagascar si chiama Indri indri ed è conosciuto per i malinconici “canti” mattutini. Una leggenda locale vuole che, in origine, l’Indri e l’uomo fossero fratelli (o padre e figlio). Un giorno, uno dei due si trasferì sugli altipiani a coltivare la terra, lasciando l’altro nella foresta. Da allora tutte le mattine il lemure rimasto solo piange per la malinconia
Nessuno ha il diritto di toglierti la stima di te stesso! Auguro a tutti un felice anno e in particolare un futuro di rinascita a quelle persone che avevano perso la loro strada. La soluzione non sta fuori, in qualcuno o in qualcosa. Ma è dentro di noi. Tutto parte da lì. La vita è movimento, equilibrio, pensiero, rigenerazione continua. E se vogliamo, e se ci amiamo, possiamo riavviare il nostro motore e tornare a vivere e sorridere, insieme agli altri.
M. Rossi
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grandangolo Cresce invece su Internet l’appoggio alla controversa scelta: il sito “Correio di Brasil” s’è schierato in favore del terrorista
Se anche il popolo carioca critica la “ragion-Lula” Secondo un sondaggio diffuso da “O Globo”, l’82 per cento dei brasiliani sarebbe favorevole all’estradizione di Cesare Battisti. Non solo: anche la stampa locale sta duramente attaccando la decisione contraria del presidente. Da “A Folha de S. Paulo” a “Veja” il coro è unanime: «Governo ipocrita» di Maurizio Stefanini ome mai Lula ha aspettato proprio l’ultimo giorno del suo mandato per rendere noto che aveva deciso di bypassare la decisione del Supremo Tribunale Federale in favore dell’estradizione di Cesare Battisti, e permettere invece al giallista condannato per terrorismo e quadruplice omicidio di restare in Brasile? Secondo Veja, che è il settimanale più diffuso del Paese, ci sarebbe sotto un accordo segreto tra lo stesso Lula e Berlusconi, concluso in quel famoso vertice del 29 giugno in cui il Cavaliere venne alla testa di una carovana di sessanta imprenditori, a discutere di commesse miliardarie.
C
Dunque, da una parte Berlusconi avrebbe promesso che la non estradizione non avrebbe turbato i ricchi affari in corso tra i due Paesi. Dall’altra, Lula si sarebbe impegnato a trattare la cosa nel modo più discreto possibile. E forse l’annunciare la svolta a Capodanno, quando in Italia i giornali neanche escono e tutti pensano a festeggiare, avrebbe potuto corrispondere a questo impegno di “discrezione”. Indubbiamente, la soffiata che ha fatto trapelare il tutto in anticipo non ha aiutato le cose, dal momento che ha invece capitalizzato l’attenzione di stampa e politici in un momento in cui non c’era molto altro a calamitare le cronache. Ma si poteva seriamente pensare che anche senza, non sarebbe successo un putiferio lo stesso? È vero che, come ha ricordato anche liberal, ci sono in giro per il mondo almeno 140 ex(?)-terroristi italiani non estradati, e per nessuno
l’Italia ha fatto la stessa baraonda. Ma qui Battisti non può che ringraziare la lobby dei suoi sostenitori: dei quali bisognerebbe effettivamente chiedersi se veramente gli stanno facendo un favore, o se non hanno piuttosto avuto un effetto controproducente... Pur senza escludere del tutto questo tipo di accordi che peraltro lo stesso Berlusconi smentisce, la motivazione più importante per i tempo di Lula è però un’altra: ci sono importanti segnali che l’opinione pubblica brasiliana fosse in gran parte ostile a
L’ex ministro degli Esteri e ex giudice al Tribunale dell’Aja Rezek: «Il ricorso alla Corte Internazionale condannerebbe il Brasile» Battisti, e bisognava togliere questo ingombro dalla campagna elettorale di Dilma Rousseff. Anche se poi sarebbe stato utile che la stessa Dilma non si trovasse più la patata bollente al momento di insediarsi. Diciamo “ci sono importanti segnali”, perché ovviamente non è stato fatto un referendum sul tema. È un fatto che il Supremo Tribunale Federale decise contro Battisti, di misura: 6 con-
tro 5. Ma quello è un organo che cumula le competenze delle nostre Corte Costituzionale e Corte di Cassazione, non un’istanza rappresentativa dell’opinione pubblica. Come negli Stati Uniti, i membri sono nominati dal Presidente con voto favorevole del Senato, e sono poi in carica fino ai settant’anni. Si può peraltro rilevare che, con uno degli 11 posti al momento vacante, 6 degli attuali 10 giudici sono stati nominati da Lula; che quel Marco Aurélio Mello che oggi vorrebbe la scarcerazione immediata di Battisti fu nominato dal presidente di destra Fernando Collor de Mello; e che è invece un nominato da Lula quel presidente Cesar Peluzo che ha deciso di rimandare la scarcerazione e ha riaperto il caso per una nuova decisione, mettendo sullo stesso livello la decisione del capo dello Stato e il ricorso italiano. Insomma, non c’è una corrispondenza ideologica automatica.
Invece, è massicciamente contro Battisti la grande stampa brasiliana. «La decisione su Battisti simbolizza la politica estera ipocrita del governo Lula», ha titolato un suo editoriale Carlos Greib, direttore della già citata Veja. A Folha de S. Paulo, che è il primo quotidiano per diffusione dell’America Latina, ha pubblicato con grande rilievo una intervista all’ex-ministro degli Esteri e ex-giudice al Tribunale dell’Aja Francisco Rezek, secondo cui di fronte al ricorso italiano la Corte Internazionale condannerebbe il Brasile. Più equilibrato sembra O Globo, che è il secon-
do giornale per diffusione del Paese e il primo di Rio de Janeiro. Il 5 gennaio, ad esempio, ha pubblicato assieme un intervento favorevole alla decisione di Lula, “Problema giuridico e politico”, e uno contrario,“Il caso Battisti e la diplomazia compagna”. Mentre il primo era però con la pur rispettabile firma dell’ex-ministro e giurista Humberto Braga, era il secondo che in quanto anonimo esprimeva la linea del giornale. D’altra parte, si deve a O Globo un famoso sondaggio da cui risultava che almeno l’82% dei brasiliani sarebbe favorevole all’estradizione di Battisti. E se l’indiscrezione anticipata sulla decisione di Lula va letta come un tentativo per mettervi i bastoni tra le ruote, O Globo è responsabile anche di questo tentativo. Possiamo continuare con O Estado de S. Paulo, secondo giornale di San Paolo e sesto del Brasile, che titolò: “Lula dà asilo al criminale”. Ma qui è forse il caso di fermarsi, perché abbiamo già dato un’idea. I commenti dei lettori, d’altronde, sono a tono. Ma sono questi giornali e questi lettori effettivamente rappresentativi dell’opinione pubblica? Praticamente tutti i giornali citati stanno contro Lula, ma lui ha vinto due elezioni di fila, ed è riuscito a far eleggere Presidente anche la sua erede Dilma. D’altra parte, uno degli indici da cui viene misurato il merito delle sue Amministrazioni di aver fatto crescere la classe media in Brasile, è proprio quello che è aumentato di un terzo il numero dei lettori di quotidiani. Ma questi restano minoranza: come d’al-
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Commesse militari di valore incalcolabile assegnate a Roma dall’esecutivo sudamericano
Quegli appalti miliardari che hanno fatto perdere la memoria all’Italia di Valentina Sisti
ROMA. Si apre dunque uno spiraglio
La neo presidente brasiliana Dilma Roussef. A destra il suo predecessore Inacio Lula. Nella pagina a fianco il terrorista Cesare Battisti il Brasile è un grande Paese che ha pure mandato i suoi soldati in Italia per liberarci dal nazi-fascismo, e come ci permettiamo di insultarlo? Insomma: sinistrismo del tipo più imbecille e nazionalismo del tipo più becero, più che argomenti veramente razionali.
Ci sono almeno 140 ex terroristi italiani non estradati, e per nessuno il nostro Paese ha fatto la stessa baraonda tronde in Italia. E proprio l’Italia ci insegna pure che Bologna e Firenze siano rimaste città rosse nei decenni, pur se i loro cittadini hanno continuato ad avere come punti di riferimento informativo giornali moderati come Il Resto del Carlino e La Nazione. Per non parlare del contrasto tra l’orientamento in maggioranza anti-Berlusconi della carta stampata, e i risultati elettorali. Proprio per controbattere questa “non rappresentatività” della stampa scritta è nato ad esempio il Correio di Brasil, che esce su Internet e che si è schierato a favore di Battisti. Pure da siti Internet e blog proviene la maggioranza delle posizioni pro-Battisti in Brasile, che sembrano ruotare essenzialmente attorno a due punti di vista principali. Primo: Berlusconi è un “neo-fascista”, e difendere Battisti significa schierarsi dall’altra parte, dell’Italia di “Dante,Trabucchi e Nanni Moretti” (sic! Nell’assoluta ignoranza e della battaglia anti-Battisti di un Di Pietro, e di come Moretti si è espresso sugli ex-terroristi…). Secondo:
Però, è vero che anche le indagini non condotte dai giornali ma da istituzioni che lavorano con campioni più rappresentativi dimostrano il come la delinquenza galoppante sia in testa alle preoccupazioni dei brasiliani. Una delle misure con cui il governo Lula ha cercato di assicurare la vittoria della Rousseff è stata una campagna di pacificazione delle favelas di Rio de Janeiro che a un certo punto è andata avanti a ferro e fuoco, con metodi da occupazione militare del territorio. E se è vero che Dilma è una ex-guerrigliera, si deve a ex-guerriglieri trasformatisi in delinquenti comuni anche la nascita del Comando Vermelho: quel famigerato cartello di narcos contro cui questa campagna di pacificazione è stata in gran parte fatta. Insomma, magari i grandi giornali si riferiscono più a come la pensa il ceto medio-alto che non alla totalità della popolazione brasiliana. Ma il fatto che il caso Battisti in campagna elettorale sia stati silenziato piuttosto che ostentato, dimostra che se proprio non è del tutto dimostrata quell’equazione per cui la gran parte dei brasiliani equiparerebbe l’exrapinatore di banche Battisti ai tagliagole del Comando Vermelho e delle altre bande che insanguinano il Paese; certo né Lula è né Dilma hanno avuto la minima intenzione di andare a verificare. Neanche l’opposizione, va detto, puntò su quel tema in campagna elettorale. D’altronde, Battisti stava in galera, e il Supremo Tribunale Federale aveva deciso per l’estradizione. Ma adesso il Partito della Socialdemocrazia Brasiliana (Psdb) e i Democratici, i due partiti principali del centro-destra, hanno preannunciato che aspetteranno Dilma al varco in Congresso. Anzi: saranno proprio il caso Battisti e la questione del salario minimo le prime due bandiere su cui daranno battaglia.
sul caso Battisti. Tardivo e quasi inaspettato. Secondo il Folha de S.Paulo, il tribunale internazionale dell’Aja darebbe ragione all’Italia che vi farà ricorso, perché il Brasile non ha rispettato il trattato di estradizione. Né il governo italiano né l’ex presidente brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva si aspettavano, tutto sommato, tanto clamore. La tattica di procrastinare, procrastinare per sopire, evidentemente ha fallito. La decisione di non estradizione era infatti stata preceduta da mesi di colpevole silenzio dei principali media e della politica italiana, tanto più colpevole a ridosso del viaggio in Brasile di Silvio Berlusconi lo scorso giugno. Era stato l’ex terrorista a sostenere, candidamente e un po’sfacciatamente, che il suo caso non interessava granché al nostro premier.
Ora che la frittata è fatta, però, c’è stato il tardivo risveglio del Cavaliere, che ha incontrato il figlio del gioielliere ucciso Pierluigi Torregiani, Alberto, finito su una sedia a rotelle a 15 anni in seguito all’attentato di un gruppo di Proletari armati per il comunismo. Si fa viva di nuovo anche Daniela Santanché, referente politico di Torregiani (che aderisce al suo movimento) dopo lo strano silenzio osservato anche da lei e dal Giornale, a cui l’esponente pdl è ritenuta particolarmente vicina. D’altronde nel momento in cui Berlusconi incontrò Lula tacendo su Battisti, la Santanché era in attesa di un posto da sottosegretario: il momento peggiore, dunque, per disturbare il manovratore. E così ora il caso Battisti rischia di rivelarsi un boomerang per il partito del Cavaliere, in caso di campagna elettorale, su un terreno molto caro al tradizionale elettorato di destra. Tanto da costringere - finalmente - il ministro degli Esteri Franco Frattini a dichiarare alla tv brasiliana Globo che l’accordo militare tra Italia e Brasile non potrà essere ratificato dal Parlamento, almeno finché non sarà risolta la vicenda E il presidente del Supremo Tribunal Federal, Cezar Peluso, cerca ora di prendere tempo rinviando il relativo dossier al relatore del caso, Gilmar Mendes, e respingendo la richiesta di libertà immediata per Battisti che, fino almeno a febbraio, resterà quindi in carcere. Ma proprio l’accordo militare pesa come un macigno sulla mancata
estradizione. L’ultima visita del nostro premier in Brasile ha infatti comportato l’avvio per l’Italia di una grossa commessa militare, dopo l’intesa siglata dall’Iveco per la fornitura di 2.044 veicoli blindati e dieci navi militari. All’esame del Parlamento c’è un accordo complesso e dalla portata economica incalcolabile che va dalla forniture militari all’addestramento, dalla sicurezza alla cooperazione giuridica. Ma nel viaggio del presidente del Consiglio del 28 al 29 giugno 2010 a San Paolo, il caso era stato tenuto fuori e in conferenza stampa il premier aveva preferito alleggerire con battute sulle cameriere brasiliane. L’unico a rivolgere più di un appello a Lula era stato Giorgio Napolitano, il solo infatti che possa rivendicare l’impegno profuso nella vicenda, come l’accorata lettera, giuridicamente documentata, inviata nel 2009 al presidente brasiliano. Ha pesato sicuramente l’inconfessabile premura di Carla Bruni, del cui interessamento è stato certo informato anche il nostro presidente del Consiglio, frenato non a caso dall’intervenire sulla vicenda al pari del ministro Alfano, che mai, a quanto risulta, ha assunto iniziative contro il collega brasiliano alla Giustizia, esponente dell’ultrasinistra, Tarso Genro, che concesse l’asilo politico a Battisti. Il quale era arrivato in Brasile grazie a ben accertate complicità francesi, che avrebbero visto un ruolo attivo dell’amica della première dame, la scrittrice francese Fred Vergas, che in questi anni ha sostenuto economicamente l’ex terrorista, divenuto in Francia scrittore di successo di romanzi noir. E potrebbe essere stato proprio il presidente francese – sospetti naturalmente negati recisamente dalla coppia presidenziale – a chiedere a Lula di tutelare Battisti, sin dalla “luna di miele” dei coniugi Sarkozy a Copacabana, a fine 2008, nell’incontro riservato con il presidente brasiliano. Lula ha temporeggiato fino all’ultimo giorno. Poi ha ufficializzato la decisione, in realtà già presa da tempo, sperando di non causare ormai tanto clamore. Ma non aveva fatto i conti col rischio elettorale che in Italia nel frattempo è tornato reale. E induce molti a lacrime, tardive, di coccodrillo.
mondo
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Il futuro di questa corrente eterodossa è un test per valutare il pluralismo promesso dal governo di Recep Erdogan
Ecco l’islam laico Gli aleviti hanno un credo antropocentrico, non sessista e di stampo calvinista sul lavoro di Pierre Chiartano li alevi o aleviti appartengono a un minoranza musulmana in Turchia e la loro condizione potrebbe essere una cartina di tornasole per valutare le vere intenzioni del governo dell’Akp. Visto il nuovo approccio del premier Recep Tayyp Erdogan a favore delle minoranze religiose, sarebbe interessante vedere quale destino avranno gli alevi turcofoni e non, visto che non corrispondono a un gruppo etnico. La nuova democrazia al potere ad Ankara ripete di continuo che i problemi sofferti dalle altre fedi erano da imputare al nazionalismo e a una manovra dei militari per screditare la nuova maggioranza e ingenerare la paura del radicalismo.
G
Ma la politica del governo continua a voler fondere il ”sempre verde” nazionalismo, con una nuova identità sunnita. Lasciando il più laico civismo sullo sfondo di una società che potrebbe vedere nuove discriminazioni. Staremo a vedere, anche se, a onor del vero, qualche segnale positivo si è visto, specie nei confronti della chiesa greco-ortodossa che rappresenta una comunità, la cui presenza nel Paese anticipa di secoli quella musulmana dei selgiuchidi, i conquistatori di Costantinopoli. I membri di questa corrente dell’islam eterodosso sono quasi dodici milioni in Turchia, ma dai tempi del padre della Patria, Kemal Ataturk, sono stati sempre esclusi dal processo di cittadinanza e di identità nazionale. Nonostante tra alterne vicende, abbiano appoggiato il riformismo dei giovani colonnelli, prima, del grande padre (ata) dopo. Lealtà forse non ricambiata. Rappresentano l’islam laico e moderato, non vanno in moschea, ma utilizzano dei luoghi di ritrovo non canonici detti cemevì, sorta di case assembleari, dove la liturgia prevede musica e danza. Ricordano un po’il sufismo, per l’approccio intellettuale alla trascendenza, ma sono nati in Iran per contrastare l’ortodossia musulmana di ceppo arabo e poi migrati anche in Turchia. Volendo lanciare una provocazione, potrebbero ricordare mutatis mutandi i luterani con la loro etica del lavoro. C’è chi si
compiace nel contare il numero di imam in attesa di rivelazione delle varie declinazioni dell’islam. Loro ne aspettano ben dodici, come discendenti diretti del Profeta. Ad esempio gli ismailiti sono in attesa di sette imam e i deydi solo di tre. Non ci sono le cinque preghiere quotidiane, né l’obbligo del pellegrinaggio alla Mecca o il mese del digiuno. Ma la vera ragione della scissione dalla corrente principale dell’islam, nasce dalla difficile convivenza tra sunnismo ortodosso e una cultura molto sofistica e non sessista. Nella storia moderna dell’Anatolia gli alevi sono stati
ayatollah Khomeini aveva dichiarato, nel 1970, che l’alevismo fosse nel solco della tradizione sciita. Anche se ha ben poco a che spartire con l’ortodossia della fede di marca iraniana.
Il pensiero alevita è dominato dall’antropocentrismo, dall’estrema tolleranza nei confronti delle altre religioni, dalla parità tra uomo e donna che pregano insieme e dalla cultura del lavoro considerata come un atto di fede. Esclusi di fatto dal processo di costruzione dell’identità nazionale, periodicamente sono stati protagonisti di lotte e som-
I membri di questa componente religiosa sono quasi dodici milioni in Turchia, ma dai tempi di Ataturk sono stati sempre esclusi dal processo di cittadinanza e di identità nazionale sempre visti come un «problema», perché nel Paese della mille bandiere, del nazionalismo coniugato come un’ideologia, la loro origine ha sempre destato sospetti, rispetto a un’identità nazionale senza ombre. E le ombre degli alevi verrebbero dall’Iran. La setta è infatti una corrente dello sciismo e condivide con questo la fede nell’avvento del dodicesimo imam. Lo stesso
mosse che hanno segnato, anche col sangue, la storia più recente del Paese: nel 1979 nelle province di Kahraman Maras e Corum, nel 1993 a Sivas e poi ancora a Istanbul nel 1995.Vittime di pregiudizi, da tempo chiedono che la Turchia applichi dei principi neutrali rispetto a fede ed etnia. In particolare vorrebbero l’abolizione della dipartimento per gli Affari religiosi
(Diyanet) che percepiscono come lo strumento per privilegiare la maggioranza sunnita, spalleggiata dal nuovo corso dell’Akp. Una posizione che non è improntata a uno spirito dialettico con l’attuale governo. «Ma non si considerano una religione, sono molto appiattiti sulle posizioni laiche del vecchio kemalismo» spiega a liberal, Ahmad Vincenzo, già professore di
Diritto islamico all’Università Federico II di Napoli. Nato come strumento di controllo per formazione degli imam, il Diyanet viene ancora percepito come il vecchio strumento di controllo orwelliano.
Erodogan invece vorrebbe ripristinare il vecchio pluralismo religioso e culturale ottomano. La difficoltà sta nel fatto che lo
Foto grande: il monastero bektashi nel centro dell’Anatolia. Haji Bektash è il fondatore dell’alevismo, ma oggi alevi e confraternite bektashi sono due realtà distinte. In alto a destra: una statua di Bektash. Foto piccola: il premier turco, Recep Erdogan. Qui a sinistra: simboli del nazionalismo
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corso religioso tradizionale. Gli garantirebbe una maggiore tutela culturale e una continuità nel tempo. Altrimenti rischiano di diluirsi, fino a scomparire come identità» spiega l’esperto di diritto islamico, che vede questo passaggio obbligato come espediente per rientrare nei progetti del governo di Ankara. Il fondatore dell’alevismo è considerato Haji Bektash Wali. La confraternita prende piede nel XIII secolo e la sua storia è legata a quella del corpo dei giannizzeri. Un corpo simile era costituito dai pretoriani della guardia personale dell’imperatore tedesco stupor mundi. Uno dei loro ultimi insediamenti fu il castello di Lucera, in Puglia, poco distante dal luogo della morte di Federico II, a Castel Fiorentino.
stesso partito del premier deve lottare contro il residuo di laicismo, coniugato attraverso un kemalismo ideologico, in funzione quasi atea. I padri della Patria non pensavano che religione e modernità potessero andare a braccetto. Una discriminazione vissuta anche in Europa, specialmente dopo la Rivoluzione francese e durata fin quasi a nostri giorni. Il retaggio di una cultura che ha posto a lungo Dio fuori dalla storia, in Turchia, ha però una doppia valenza per la maggioranza che lo governa. Primo, perché spinge a voler riscattare decenni di ghettizzazione dei credenti, in una lotta accesa nei confronti delle elìte dirigenti del Paese, ancora fortemente ancorate al nazionalismo laico kemalista e a un’idea di modernismo all’europea. Secondo, perché all’interno di questo processo di rinascita religiosa è utile mantenere una certa semplicità nei processi identificativi. Nello scontro tra la cultura delle comunità urbanizzate, più laiche, e quella delle regioni anatoliche interne, dove l’islam sunnita è più radicato, l’alevismo rischia di essere una variabile indesiderata, in quanto a ortodossia
identitaria. Ci sono alevi che appartengono a gruppi etnici e linguistici molto diversi fra loro. Ci sono comunità che parlano una lingua azero-turca, e il cui alevismo non è molto lontano dallo sciismo iraniano. Ci sono altre comunità che parlano turco e altri la lingua curda. Quan-
do, invece, la cultura alevita potrebbe diventare l’elemento chiave per avvicinare due mondi che ora, in Turchia, si guardano con sospetto reciproco. Ma entriamo nel campo di ipotesi teoriche, che tuttavia vale la pena analizzare. Gli elementi per considerare l’alevismo una risorsa per la futura società turca ci sono tutti. Se il loro “laicismo” religioso negli anni roventi Sessanta e Settanta gli aveva fatti avvicinare alla sinistra politica, mettendoli inevitabilmente nel mirino dei militari, oggi questa caratteristica li farebbe diventare dei migliori interlocutori per un kemalismo di trincea, spaventato solo all’idea di un islam politico. Visto anche la vicinanza di molti aleviti al Chp, il partito nazionalista che fu di Ataturk. Oltre al fatto che la popolazione alevi ha un elevato livello d’istruzione e di consapevolezza politica e sociale. Quanto basta per diventare classe dirigente e politica affidabile. Ma restiamo sempre nel campo delle pure speculazioni analitiche.
«Occorre valutare quanto gli alevi abbiano voglia di rientrare nel solco della Sunna, nel per-
Con l’abolizione dell’ordine dei giannizzeri, nel 1826, i bektashi vennero banditi dall’Impero Ottomano e i leader della comunità si spostarono in buona parte a Tirana in Albania. In quel luogo i capi bektashi dichiararono la propria non appartenenza alla comunità sunnita, avvicinandosi, così, alla componente sufi. I bektashi hanno in comune con gli aleviti e gli sciiti duodecimani il culto verso l’Imam Ali, genero di Maometto. «Il nome Haji indica colui che ha fatto il pellegrinaggio», spiega Vincenzo, sottolineando le ragioni del distacco avvenuto tra alevismo e il proprio fondatore. «La bektashia è un’antica confraternita di origine iraniana, presente anche nei Balcani, se gli alevi si volessero reinserire nell’ambito religioso potrebbero farsi riconoscere nel Bektashi» continua lo studioso islamista. Il rapporto con il resto del mondo musulmano anatolico è piuttosto critico e il fatto che gli alevi, circa il 25 per cento della popolazione turca som-
turchi siano pronti per un passo simile o addirittura se vogliano rientrare nel solco della religione più tradizionale. A questo proposito sarebbe interessante monitorare le dinamiche che si stanno attivando nel mondo islamico in ambienti vicini al mondo alevita. Un parallelo potrebbe essere costituito dal percorso degli Alawiti siriani, non lontani dagli alevi, tanto da poter essere considerati quasi dei parenti. Il governo di Damasco sta iniziando un processo per riportare gli alawiti nella Sunna. Il professor Vincenzo pone però alcuni paletti nel presentare la carta d’identità del ramo siriano degli aleviti. «Sono una una confraternita più vicina agli ismailiti, quindi di stampo iniziatico. Anche ai tempi di Federico II, ci fu un tentativo per ricondurre nel solco della sunna gli ismailiti». A causa della natura sincretica di questa religione, alcuni studiosi hanno sostenuto che l’alawismo sia correlato addirittura alla cristianità, a causa della presenza di una trinità dei fondamenti della loro fede. Bevono vino come possibile forma di comunione e riconoscono il Natale. Altre fonti sostengono invece che le loro liturgie comprendano reminiscenze di antichi rituali fenici. Gli alawiti comunque riconoscono i cinque pilastri dell’Islam, ma li considerano come doveri simbolici e sono in pochi a praticarli.
Nel 1939 i francesi cedettero alla Turchia una parte del territorio siriano, dove erano più radicati nel sangiaccato di Alessandretta. Con la fine del secondo conflitto mondiale, quelle province vennero riaccorpate a Damasco, con una reazione negativa da parte della comunità alawita. Il loro leader fu catturato e impiccato nel 1946. Con l’av-
Sono stati protagonisti di lotte e sommosse che hanno segnato, anche col sangue, la storia più recente del Paese: dai fatti di Kahraman Maras e Corum (1979), a Sivas (1993) e a Istanbul nel 1995 mati ai curdi che ne costituiscono un altro 30 per cento, siano la maggioranza, preoccupa Ankara non poco. Una Turchia che per quasi un secolo ha fondato la propria struttura sull’omogeneità etnica, dovrebbe compiere una virata strettissima per gestire un cambiamento di forma e di sostanza così ampio. Ma forse è proprio questa la ragione della nuova politica di Erdogan, che il politologo del Brookings Intitutions, Omer Taspinar, aveva definito come «neo-ottomanesimo». Ricreare il vecchio equilibrio tra diversità di etnie, culture e religioni che era stato l’asse portante del vecchio Impero. Un rientro di questi musulmani “laici” nella Sunna potrebbe aiutare, confermano alcuni esperti vicini ad ambienti governativi di Ankara. Occorre però valutare quanto gli alevi
vento della dittatura del colonnello alawita dell’Aeronautica, Hafez al Assad, la situazione migliorò. Nel 1974 Imam Musa alSadr, capo degli sciiti duodecimani del Libano, proclamò l’accettazione degli alawiti come veri musulmani. Se ne trovano anche nella regione libanese vicino a Tripoli. Vedremo cosa succederà agli alawiti siriani, per intuire il futuro degli alaviti turchi. Nel frattempo, tra le more della grande trasformazione strategica della politica turca, resteremo in attesa delle decisioni di Ankara, anche in prospettiva alla «voglia di Europa» che è rimasta nel cuore del popolo anatolico. Vedremo come la metà della Turchia, oggi al potere, dopo aver limato le unghie ai militari. si comporterà con l’altra metà del Paese, costituito dalle “minoranze”curde e alevite.
quadrante
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Afghanistan, altre 17 vittime civili
Giappone, ancora record-suicidi
Uova alla diossina, paura in Germania
KABUL. Diciassette persone so-
TOKYO. Ancora un anno record
BERLINO. Panico in Germania
no morte e 21 sono rimaste ferite in un attacco kamikaze che ha colpito dei bagni pubblici di Spin Boldak, città del sud dell’Afghanistan al confine con il Pakistan. Tra le vittime ci sono anche due poliziotti. Gli attacchi kamikaze sono frequenti in Afghanistan, ma sono rari in luoghi pubblici molto frequentati. Prendono di solito di mira il governo o le forze afgane e internazionali. I talebani hanno rivendicato l’attentato. I ribelli hanno indicato che all’interno c’erano poliziotti e nessun civile. Le autorità al contrario hanno affermato che tutte le vittime, a eccezione dei poliziotti presi di mira, erano civili. L’obiettivo dell’attentato era il comandante della forza di reazione rapida.
per la terribile statistica dei suicidi nel Giappone. Nel 2010 ne sono stati registrati 31.560, in lieve diminuzione rispetto al 2009, quando si erano tolte la vita 32.845 persone. Per il 13mo anno consecutivo, però, il numero di suicidi in Giappone ha superato quota 30mila. Secondo quanto riferito, nel 2010 il 70% delle persone che si sono tolte la vita erano uomini. Fra le cause principali ci sono lo stress da lavoro, la mancanza di famiglie stabili e l’impossibilità di condurre attività ricreative che prescindano dagli impegni aziendali. Va poi sottolineato che, nel Sol Levante, il suicidio è considerato un gesto di estrema nobiltà d’animo ed è socialmente molto accettato.
per un nuovo scandalo dei mangimi alla diossina. Circa 4709 allevamenti sono stati chiusi per timore che, oltre alle uova, possano essere stati contaminati anche carne di maiale e latte. Dei 153 allevamenti della regione dell’Emsland, Bassa Sassonia, 15 sono specializzati nella produzione di latte e altri 31 in quella di mucche e vitelli. Secondo il chimico di Greenpeace Manfred Santen, intervistato dal quotidiano Bild, «i mangimi alla diossina sono stati forniti anche agli allevamenti di mucche. La diossina si deposita nelle parti grasse degli animali, dunque anche nel latte». Non è ancora chiaro se il cibo contaminato sia stato già venduto o distribuito nei supermercati della zona.
Il premier Orban è considerato un illiberale, che con toni nazionalisti cerca di limitare le libertà a danno delle leggi comunitarie
Il “piccolo Putin” alla guida dell’Ue Il semestre di presidenza ungherese criticato dall’Eurocommissione di Enrico Singer i solito sono cerimonie che si esauriscono tra brindisi, sorrisi e un elenco di buoni propositi che rimangono spesso soltanto sulla carta. Ma la tradizionale inaugurazione del semestre di presidenza della Ue che, questa volta, spetta all’Ungheria, si è consumata in un clima di tensione a Budapest dove ieri la Commissione europea al gran completo ha incontrato il presidente Pàl Schmitt, il premier Viktor Orbán e il suo governo. È una tensione che nasce dalle ultime decisioni dell’esecutivo conservatore magiaro – scattate proprio il primo gennaio – che Bruxelles considera fuori dalle regole dell’Unione. Tre in particolare: una legge-bavaglio sull’informazione che prevede un’autorità di controllo non indipendente dal potere politico; una tassa anti-crisi imposta a banche, catene commerciali, imprese di telecomunicazioni ed energia che sono, per lo più, a capitale straniero; e una legge che concede la doppia cittadinanza a tutti gli ungheresi che vivono all’estero che ha immediatamente scatenato le proteste della Slovacchia, dove c’è una comunità di mezzo milione di persone di origine magiara. Il semestre di presidenza ungherese era già considerato a rischio perché il problema principale da affrontare è la crisi della moneta comune e l’Ungheria non fa parte di Eurolandia, ma le polemiche hanno arroventato la situazione.
Nel mirino dell’Ue la legge-bavaglio sui media che prevede un’autorità di controllo dipendente dal potere politico; una tassa anti-crisi imposta a banche e imprese che sono, per lo più, a capitale straniero; e una legge che concede la doppia cittadinanza a tutti gli ungheresi che vivono all’estero
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Non siamo ancora ai livelli dello scontro di undici anni fa con l’Austria di Haider che fu messa sotto osservazione e minacciata di sanzioni perché in odore di nostalgie naziste, ma Bruxelles ha aperto un’indagine, la commissaria olandese Neelie Kroes, responsabile della Concorrenza, ha espresso «forti dubbi» sulle misure e anche Francia e Germania hanno protestato. Il minimo che si può dire è che la nuova presidenza dell’Europa imbarazza l’Europa.Viktor Orbán difende le sue decisioni, si dichiara stupito da tanto rumore e ammette soltanto che cominciare il seme-
stre di presidenza europea con questi provvedimenti è stato «tatticamente inopportuno». La legge che fa più scandalo è quella sui media. Prevede di fatto il controllo di tutti gli organi d’informazione da parte di un ente centrale, l’Nmhh (siglia che significa Autorità per i media nazionali e l’informazione), guidato da un presidente con mandato di nove anni e composto da cinque membri. Sia il presidente – Annamaria Szalai, fedelissima di Orbán – che i componenti dell’organismo sono del partito di governo Fidesz. L’Nmhh ha il compito di distribuire le frequenze, controllare i contenuti e punire i trasgressori per i quali sono previste multe salatissime fino a 750mila euro. Il giro di vite già si è fatto sentire: un conduttore di Radio
Mr1-Kossuth, Istvan Jonas, che per protesta aveva osservato un minuto di silenzio, è stato sospeso assieme al suo capo e una radio commerciale è stata multata per avere trasmesso una canzone del noto rapper americano Ice-T giudicata dalla nuova Autorità una «minaccia alla morale dei giovani magiari».
Tracy Morrow – questo il vero nome dell’artista – ha commentato sul suo sito con ironia: «Sono contento, vuol dire che il mondo ha ancora paura di me». Ma c’è poco da ridere. Il principale quotidiano ungherere – il Nepszabadsag, che è di orientamento di centrosinistra – ha scritto che «la libertà di stampa non esiste più in Ungheria», è uscito con una pagina bianca e ha pubblicato un appel-
lo contro la legge scritto nelle 23 lingue ufficiali della Ue. Le proteste contro l’altra legge contestata – quella sulla tassa anti-crisi – sono arrivate anche dall’estero: dalla Germania, in particolare, dove il quotidiano Die Welt ha pubblicato la lettera che quindici importanti aziende europee (comprese Allianz, E.On, Deutsche Telekom, Spar, Baumax, l’austriaca Omv e la francese Axa) hanno spedito alla Commissione europea accusando il governo ungherese di averle gravate di tasse speciali per tappare i buchi del bilancio pubblico provocando così danni agli investimenti e al funzionamento del libero mercato interno della Ue. Orbán ha risposto a questa lettera dicendo che le imprese fanno male a «correre a Bruxelles con le loro lagnanze, perchè i problemi dell’Ungheria si risolvono in Ungheria». Ma lo scontro c’è, è duro e potrebbe comportare una procedura d’infrazione da parte dell’esecutivo europeo.
L’altra pietra dello scandalo è la legge sulla cittadinanza che, dietro un’apparente misura amministrativa, mira a cancellare quella che la nuova dirigenza ungherese considera un’ingiustizia storica: il Trattato di pace del Trianon (1920) che privò l’Ungheria di due terzi del suo territorio lasciando milioni di magiari fuori dai confini di quello che, una volta, ero lo Stato che faceva parte dell’Impero austro-ungarico. Ma chi è il leader di questa svolta nazional-populista in salsa ungherese? I commentatori di opposizione lo chiamano il «piccolo Putin». Lui li prende in giro replicando con una battuta: «È un passo avanti. All’inizio mi chiamavano il piccolo Hitler». La forza oratoria non gli manca davvero. Viktor Orbán è l’ex dissidente liberale che guidò la rivoluzione dell’89, il tribuno coraggioso che per primo disse «fuori i russi» parlando sulla tomba del premier democratico Imre Nagy fucilato dai sovietici dopo la rivolta d’Ungheria del 1956. È il fondatore del partito Fidesz, nato nel 1988 come Federazione dei giovani democratici – questo vuol dire Fidesz – e diventato la maggiore
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e di cronach
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
Algeria in fiamme: scontri per l’aumento del 20% degli alimentari ALGERI. Tensione altissima in Algeria a causa delle proteste contro i rincari degli alimentari di largo consumo, come il pane, l’olio e lo zucchero, iniziate mercoledì scorso in molte città del Paese. Violentissimi gli incidenti divampati nel pomeriggio di ieri nella capitale. A Baraki, teatro nei giorni scorsi di violenti scontri tra la polizia e la popolazione, sono scesi in piazza persino centinaia di bambini. E ad alimentare le sommosse contribuisce l’alta disoccupazione nel Paese. Gli incidenti sono scoppiati nella notte e nella giornata di ieri nel quartiere di Bab el Oued, dove gruppi di giovani armati di barre di ferro, pietre e coltelli si sono scontrati con le forze di polizia locali. Stesso scenario negli altri quartieri poveri alla periferia della città come Bab Ezzouar, Les Annasers, Bachjarrah e in centro a Belcourt. Centinaia di giovani sono scesi nelle strade anche nelle altre principali città algerine. Rivolte anche ad
Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)
ovest del Paese: Orano a Tipaza, Djelfa, Ouargla, Blida, passando per la Cabilia e arrivando alle città dell’est come Annaba e Costantina. Sospeso per tutto questo fine settimana il campionato di calcio algerino per timore di altre, violente proteste. In Algeria le mobilitazioni di protesta erano iniziate lo scorso 4 gennaio, a seguito degli ultimi aumenti del 20 per cento dei prezzi di prodotti alimentari di largo consumo.
Da sinistra il primo ministro ungherese Orban. Il presidente della Commissione Barroso e la Commissaria Kroes
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato
forza politica del Paese che, nelle elezioni dell’aprile 2010, ha conquistato il 52 per cento dei voti e ha isolato all’opposizione il partito socialdemocratico (ridotto al 20 per cento) che era al governo dal 2002 e che aveva condotto l’ingresso dell’Ungheria nella Ue nel 2004. Orbán, che ha 48 anni, è un avvocato e ha avuto cinque figli da sua moglie Anikó Lévai, era già stato primo ministro dal 1998 al 2002. Adesso, però, la sua linea politica si è smarcata dal liberalismo classico (è stato anche vicepresidente del Ppe) per colorarsi sempre più di tinte nazionalistiche.
Attacchi anche dagli ex compagni di lotta, che accusano il politico di aver cambiato bandiera dai tempi dell’Urss
Ha cambiato nome al partito, che ora si chiama Fidesz-Unione civica ungherese, e nella polemica con Bruxelles usa toni forti: «Combattemmo l’Urss con la verità e con la verità affronteremo anche l’Europa», «non ci faremo mettere paura da qualche critica, e neanche da molte critiche, che vengono dall’Europa occidentale, o anche da più lontano». In politica interna ha promesso di «rivoluzionale l’Ungheria in un anno» e, come prima misura, ha nazionalizzato di fatto i fondi pensione privati confiscando i contributi pagati. Questa misura, secondo gli esperti, azzera i risultati della riforma del sistema pensionistico del 1997 con la prospettiva di tornare al sistema statale entro la fine di quest’anno. Come la tassa una tantum sulle banche e le altre grandi compagnie, si trat-
ta di provvedimenti giudicati in «stile peronista» che non sono graditi alle istituzioni internazionali (dalla Ue al Fmi) che già in passato avevano criticato le scelte annunciate da Orbán. Contro le ricette economiche del governo ungherese si è espressa anche l’agenzia di valutazione finanziaria Standard & Poor’s che ha annunciato di avere confermato il rating sul debito sovrano ungherese – a quota BBB-/A-3 - ma con un outlook negativo, lasciando quindi sospesa l’ipotesi di un possibile declassamento. Tra le ragioni della virata populista di Viktor Orbán, molti osservatori ritengono ci sia anche la voglia di togliere argomenti alla destra estrema del partito Jobbik che, l’anno scorso, è entrato per la prima volta in Parlamento conquistando ben 48 deputati ed è diventato,
così, il terzo gruppo politico ungherese. Alla seduta inaugurale dell’Assemblea, al momento di giurare sulla Costituzione, il leader di questo movimento, Gabor Vona, si presentò indossando il giubbutto della Guardia Ungherese, l’ala paramilitare del partito messa al bando dalla magistratura, con tanto di simbolo dei Crocefrecciati, i nazisti magiari del 1944.
Lo scrittore Gyorgyi Konrad, che di Orbán fu compagno di lotta, bolla la nuova Ungheria con il neologismo «democratura», un intreccio tra democrazia e dittatura. E un altro attento osservatore politico, Gyorgyi Kocsis, sostiene che Viktor Orbán giudica ormai la democrazia liberale «troppo complicata, mentre lui vuole soluzioni rapide, e considera come l’età dell’oro la nazione magiara a cavallo tra le due guerre: una democrazia ristretta, tutta ordine e stabilità». Anche Hegedues Istvan che è stato deputato di Fidesz dal 1990 al 1994, adesso critica il premier. «La sua filosofia è il pressing, come nel calcio che adora e che ha giocato da semi-professionista. È sempre all’attacco, e ha un governo di undici membri». L’obiettivo, secondo Istvan, sarebbe quello di dare vita a «uno Stato forte, privo di veri organi di controllo, ungherese nelle proprietà fondamentali, ostile a forti contaminazioni straniere». Se l’Europa non resterà a guardare.
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il personaggio della settimana Viaggio nella vita (ma soprattutto nella “missione”) del direttore di «Chi» e di «Tv Sorrisi e Canzoni»
Alfonso Signorini, il Feltri “rosa”
Divenuto ormai il “braccio non armato” del berlusconismo morente, si affianca al più duro “metodo Boffo” per garantire al premier il consenso di certa opinione pubblica di Marco Palombi uando la faccenda si fa seria, com’è ora, la clava dei Feltri, dei Belpietro, dei Sallusti non basta più. Il “metodo Boffo”, se preferite, è uno strumento di difesa, serve a stabilizzare la situazione eliminando qualche problemino qui e là, ma non crea racconto pubblico, non sovverte la narrazione dei fatti, non edifica un nuovo splendido edificio utilizzando il materiale di scarto della realtà. Insomma, per convincere qualche deputato a supportare il Cavaliere può essere sufficiente il bastone dei quotidiani politici del centrodestra, ma per garantire la connessione sentimentale tra il premier e le casalinghe di Voghera serve ben altro, serve almeno la carota di Alfonso Signorini, un tempo re del gossip, oggi più semplicemente il miglior intellettuale organico del berlusconismo morente. Praticamente “Rasputini”, come lo chiama la servitù (non in senso tecnico) nei corridoi dei castelli lombardi Mondadori e Mediaset, o se volete un Carlo Rossella 2.0, senza cioè l’ingombrante passato, né le amicizie eterodosse del predecessore.
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«La politica è sangue e merda», sosteneva Rino Formica molti anni fa. Non si sa se fosse del tutto vero allora, ma oggi di certo la politica è sangue, merda e paillettes e questo pacchetto post-post-moderno è il suo territorio di caccia, suo di Signorini s’intende. La regola è non parlare di politica in senso stretto, d’altronde è così noioso, ma buttare lì qualcosa sull’argomento che sia abbastanza laterale: in sostanza impastare sangue, merda e paillettes in velocità e poi ritrarsene inorriditi e passare agli amori di Barbara D’Urso. L’ultimo esempio di questo modus operandi
è anche l’avvio di una nuova fase del regno mediatico del nostro, è il Signorini da campagna elettorale.
Su “Chi” pubblica alcune foto che ritraggono Massimo D’Alema mentre commette un crimine: passa tre giorni a St. Moritz con la moglie, peraltro non vestito di stracci. Quelle stesse foto le utilizza mercoledì sera su Canale 5, nel suo programma Kalispéra, per dire in sostanza: non ci sono più i comunisti di una volta, vanno in vacanza nei posti da ricchi, «vestiti di cashmere dalla testa ai piedi». Segue telefonata «a sorpresa» del presidente del Consiglio contro i comunisti in cashmere, i giudici non importa come vestiti e via dicendo. Spettacolino visto da due milioni e trecentomila spettatori a cui vanno aggiunti i lettori delle 400mila copie di Chi. Sangue, merda e paillettes, appunto. Alfonso Signorini può sembrare innocuo, ma non lo è. Agisce ad un livello dell’immaginario collettivo a cui i custodi dell’oltranzismo berlusconiano con la faccia cattiva non hanno accesso, insegna alla plebe televisiva contemporanea - altrimenti detta elettorato - cosa essere e come pensare nel momento in cui è più ricettiva: quando è distratta. Quel «diavolo di un Signorini», come lo definì a Porta a porta lo stesso Berlusconi ai tempi di Noemi Letizia, spiegò egli stesso il suo ruolo demiurgico in un’intervista del 2003 a Claudio Sabelli Fioretti: «Il pettegolezzo distrugge, il gossip costruisce e lo fa perché distrae e allieta. Ha anche una funzione terapeutica», soprattutto «per chi lo fa: è meglio dell’analista». La base per così dire teorica, insomma, c’era già, ora – dopo anni di paziente sgomitare – il nostro ha anche il potere: direttore dei mondadoriani Chi e Tv Sorrisi e canzoni, titolare di un programma in seconda serata su Canale 5 e, si dice, in rapido veleggiare verso la poltrona di direttore della rete. Che ce la faccia o no, sottovalutare il ruolo “creatore” che è venuto assumendo nel demi-monde berlusconiano sarebbe un grave errore:
fossimo in un altro ventennio, Signorini - scaltro e coraggioso, ragionevolmente colto ed eroticamente aderente al modello umano del capo - sarebbe il Pavolini del Minculpop, pur sprovvisto di una Doris Duranti e scontato il segno piccolo-borghese che è la vera cifra dei decenni berlusconiani. Classe 1964, nato sotto il segno dell’Ariete in una famiglia «semplicissima», Alfonso vive i suoi primi anni a Cormano, «quartiere dormitorio alle porte di Milano»: padre impiegato e madre casalinga, il nostro fu un bimbo e un adolescente solitario. «Odiavo il sabato e la domenica - ha raccontato - vedevo gli altri uscire e io non sapevo dove andare». I miti della giovinezza sono già un piccolo trattato antropologico: Maria Callas («ho una mania, il primo articolo che faccio ogni anno devo citarla»), le telenovelas e la Carrà («quando facevo l’università, la guardavo e mi dicevo: quanto è buona Raffaella»). Laurea nientemeno che in filologia medievale, diploma al Conservatorio in pianoforte, una passionaccia per la lirica («ero loggionista»), insegna italiano, greco e latino dai gesuiti del “Leone XIII”, uno dei licei della buona borghesia milanese.
Lì succedono due cose: il nostro perde la verginità (con la zia di un allievo, ha messo a verbale) e inizia la sua scalata al successo. Il giovin professore scriveva già piccoli pezzi sulla Scala per La provincia di Como, strappa un’intervista a Pavarotti che finisce su la Repubblica e coltiva i suoi alunni ben nati: «Appena vedevo una classe con doppi e tripli cognomi davo il tema: la mia famiglia». È in aula che incontra il figlio di Pier Luigi Ronchetti, allora vicedirettore di Tv Sorrisi e Canzoni: «Gli chiesi una raccomandazione per il padre, perché mi facesse fare una rubrica di musica classica. E lui rispose, forse per piaggeria: “Ma lo sa prof che è una bellissima idea?”». Da lì inizia il percorso del “re del gossip” che lo porta a Noi, Chi, Panorama, alla tv con Piero Chiambretti, alle ospitate come opinionista e su su fino all’assun-
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zione al cielo dei direttori e all’empireo di un programma televisivo tutto suo. Un trionfo. In mezzo, intorno ai trent’anni, c’è il coming out in famiglia, durante un pranzo domenicale coi genitori, la sorella, una gallina lessa fumante e pure una zia Ester, anziana zitella e dama di San Vincenzo: «Mamma, convivo con una persona. È un uomo, sono gay. È una persona straordinaria. Lo amo e lui mi ama». Pare che il padre si sia limitato ad un «mì l’avevi sempre dì», prima di buttarsi sul bollito. Signorini è omosessuale, ma pure cat-
nell’evoluzione banditesca del conflitto d’interessi del premier. Quando la sua immagine di marito e padre amorevole comincia a vacillare per la lettera di Veronica Lario a Repubblica (il «mi sento la metà di niente», seguito alle pubbliche avances a Mara Carfagna), è a Signorini che si rivolge il Cavaliere per riabilitarsi.
Tratta un armistizio con «la signora», come la chiama lui, e poi si fa fotografare da Chi mentre passaggia per Villa San Martino mano nella mano con
La tecnica è non parlare di politica in senso stretto, ma buttare lì qualcosa sull’argomento che sia abbastanza laterale: sangue, gossip e paillettes tolico ed allergico a qualunque forma di rivendicazione politica della sua “comunità”. Da ultimo, per dire, ha randellato a mezzo stampa Elton John e il di lui consorte per aver adottato un bambino, guadagnandosi così le contumelie di Gianni Vattimo: «Alfonso Signorini non ha bisogno di coming out: sembra una zia travestita da zia».
È in altri contesti, però, che s’intuisce il livello di potere raggiunto dal nostro, la sua centralità nella fase erettile del berlusconismo, tra il lettone di Putin (il suo sogno erotico) e il bunga bunga,
Veronica mentre figli e nipoti gli fanno corona. È ancora il settimanale mondadoriano - con tanto di Signorini richiamato in gran fretta dalle ferie - l’arma di distrazione di massa del premier durante la terribile primavera 2009: l’affaire Noemi Letizia, il «ciarpame senza pudore» denunciato da sua moglie per le euroveline e la conseguente separazione, l’inchiesta di Bari sulle notti con Patrizia D’Addario e le altre escort portate a palazzo Grazioli da Gianpi Tarantini. Stavolta, oltre al servizio fotografico del Cavaliere coi nipoti, c’è anche una ponderosa intervista al
premier di Signorini in persona. Riassunto: non so, non ricordo questa signorina, no neanche quest’altra, siamo il miglior governo della storia repubblicana. Il tutto condito da domande tipo «Come convive il Berlusconi nonno con il Berlusconi Superman?» (si saprà solo in tempi recenti, grazie all’altra minorenne Ruby, che ad Arcore c’è una statua di Superman con la faccia di Silvio), «È vero che la chiamano “Duracell”?», «Bisogno di vacanze? Dove andrà questa estate?». Per carità, non è certo la prima volta che si vede un’intervista in ginocchio al proprio editore, sul caso Noemi però il nostro fa ben di più: costruisce sui suoi giornali un racconto rassicurante che nulla ha a che fare coi fatti. Diffonde la favola del signor Letizia «ex socialista» del giro craxiano amico di lunga data del Cavaliere, edifica una Noemi modello Santa Maria Goretti (ovviamente «illibata»), s’inventa un fidanzato - Domenico Cozzolino, ex tronista, che mesi dopo ammetterà la montatura - e tenta di sputtanare il vero ex di Noemi, Gino Flaminio, e L’espresso, rei di aver detto la verità sul rapporto tra il premier e la minorenne (contattata dopo averne visto le foto in un book portatogli da Emilio Fede).
Intanto l’ex professorino Alfonso Signorini è entrato nel cuore della real casa di Arcore: non solo era tra i pochi partecipanti alle cene con le ragazze tra il 2008 e il 2009 (insieme agli aficionados Carlo Rossella e Fabrizio Del Noce, mettono a verbale le testimoni), ha un buon rapporto con Piersilvio Berlusconi ed è amicissimo di Marina. Leggenda vuole che il nostro e la prima donna di Mondadori - secondo molti, la vera erede politica del papà passino parecchio tempo al telefono tutti i giorni: è proprio su Chi infatti che, l’estate scorsa, la primogenita del Cavaliere ha voluto sfoggiare un invidiabile e costoso topless, in un numero - peraltro - che dedicava ai familiari del padrone la bellezza di 25 pagine. Da tempo, però, il magazine diretto da
Da “Chiambretti c’è” a “Kalispéra” Alfonso Signorini è nato a Milano il 7 aprile 1964. Esordisce in televisione nel 2002, quando è fra gli ospiti fissi della trasmissione della seconda serata di Rai 2 Chiambretti c’è. Negli anni successivi è ospite in numerosi programmi, primo fra tutti L’isola dei famosi. Nella stagione televisiva 2005-06 affianca Paola Perego alla conduzione di Verissimo, a cui parteciperà, sempre come coconduttore, dall’anno successivo con Silvia Toffanin. Dal 2006 conduce su Radio Monte Carlo il programma Alfonso Signorini Show, in onda dalle 9 alle 10 del mattino insieme a Luisella Berrino. Sempre nel 2006 fa un cameo nel film Commediasexi, dove interpreta il ruolo di se stesso. Nel 2008 diventa l’opinionista fisso del Grande Fratello, programma che segue tuttora per la terza edizione consecutiva. Ha partecipato come cuoco in una puntata del programma Chef per un giorno su La7. Durante la trasmissione Napoli prima e dopo ha ricevuto il premio come miglior giornalista e intenditore di musica napoletana. Dal dicembre 2010 ha debuttato come conduttore su Canale 5 con il programma di seconda serata Kalispéra.
“Alfonsina la pazza” (copyright Dagospia) non è più solo il veicolo iconografico della famiglia reale, ne è anche il braccio armato: prova ne siano le recenti foto in montagna di D’Alema, i cronisti sguinzagliati dietro al giudice Raimondo Mesiano (quello che ha condannato Fininvest a risarcire De Benedetti per il lodo Mondadori comprato) o la gestione del caso Marrazzo.
Faccenda, quest’ultima, abbastanza spinosa: ai tempi Signorini fu tra i primi a visionare il video, contattato da un’agenzia fotografica, ma fu l’unico direttore a cui fu concesso farsene una copia che finì poi nelle mani di Marina e, successivamente, di Silvio Berlusconi, il quale a sua volta contattò l’ex governatore del Lazio consigliandogli di comprare il video lui stesso e toglierlo dal mercato. Nel frattempo, però, Signorini inviava i venditori anche nelle redazioni di Libero e del Giornale. Non proprio un agnellino, insomma, come sanno la sua ex vicedirettrice Rita Pinci e la photoeditor Paola Bergna, licenziate in tronco e senza motivo apparente proprio nei mesi della vicenda Marrazzo. Adesso, in tempo per la futura campagna elettorale, il nostro s’è piazzato nella seconda serata di Canale 5 e colpisce il nemico là dove fa più male: sotto il livello della percezione di pericolo, parlando d’altro, sembrando altro, laterale come una canzone nel dormiveglia che rimane in testa tutto il giorno. A fine dicembre, su Tv Sorrisi e Canzoni, ha buttato lì un’editoriale dal titolo «Nel 2011 facciamo insieme la rivoluzione». È vero, parlava di «un generalizzato aumento dell’educazione e della gentilezza», però fa paura lo stesso.