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È più importante la ridistribuzione delle opportunità che quella della ricchezza Arthur Hendrick Vandenberg
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 12 GENNAIO 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
I responsabili economici di Udc, Fli e Api insieme portano a Calderoli un progetto di revisione dei decreti
Il federalismo della famiglia Il Polo della Nazione al governo: «Ecco il nostro progetto anti-crisi» L’imposta comunale detratta dall’Irpef. Deduzione sugli affitti a seconda del numero degli inquilini. Partecipazione degli Enti locali all’Iva. Le proposte per un’intesa sulla riforma FURBIZIA E RESPONSABILITÀ
di Franco Insardà
Caro Cavaliere cerchi il dialogo, non inutili terze gambe
Camusso-Marchionne, lite sul futuro della Fiat: «Insulta il Paese» «No, voglio cambiarlo»
di non avere una maggioranza che sostenga il federalismo, ha dato mandato a Calderoli di «trattare» le modifiche alla riforma con Gian Luca Galletti dell’Udc, Mario Baldassarri di Fli e Linda Lanzillotta dell’Api. E ieri i tre esponenti del Polo della Nazione hanno presenetato le loro proposte tutte centrate su aiuti concreti ai nuclei familiari: Imposta comunale detratta dall’Irpef, deduzione sugli affitti e partecipazione degli enti locali all’Iva. a pagina 2
di Francesco D’Onofrio i sente parlare da molto tempo di un “allargamento della maggioranza”. Non vi è alcun dubbio che almeno fino a quando sarà in vigore la Costituzione vigente, occorre che le leggi siano approvate da una maggioranza sia alla Camera sia al Senato. Ed è di tutta evidenza il fatto che sulla base dei risultati pur significativi con i quali sono state respinte le mozioni di sfiducia al governo lo scorso 14 dicembre, non è in alcun modo prevedibile che una maggioranza numericamente sufficiente si possa materializzare anche alla Camera dei deputati. È chiaro infatti che il governo deve poter contare su una maggioranza numerica sufficiente anche alla Camera dei deputati se vuol cercare di portare a termine i provvedimenti legislativi. segue a pagina 2
Alla vigilia della consultazione di Mirafiori
ROMA. Il governo, temendo
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Parla Mario Baldassarri
La crisi della giunta di Roma
«Il vero scoglio è l’Ici: il premier ha paura di cambiarla per ragioni di immagine»
Se fallisce anche Alemanno, il sindaco «leghista» della Capitale
Errico Novi • pagina 3
Riccardo Paradisi • pagina 5
Intanto il sindacato si spacca sulla data del referendum. Fim e Ugl chiedono un rinvio contro la Fiom, ma poi si decide: al voto domani e venerdì Alessandro D’Amato • pagina 6
Dopo l’appello di Benedetto XVI. Due interventi sui valori fondativi del nuovo polo
La fed e, la l i ber t à , l’ a m or e: l ’I ta l i a ch e v og l ia m o seg1,00 ue a p(10,00 agina 9 CON EURO
L’Occidente non può continuare a odiarsi
Liberali e cattolici per ricucire l’Italia
di Rocco Buttiglione
di Giuseppe Valditara
l Papa leva alta la sua voce contro la persecuzione religiosa in atto in gran parte del nostro mondo. Aggiunge coraggiosamente due cose che spesso si preferisce ignorare. La prima è che l’indignazione contro la persecuzione, specialmente nei mezzi di comunicazione occidentali, non è né universale né equanime. Alcune persecuzioni sembrano essere più gravi di altre e (aggiungiamo noi) verso alcuni persecutori c’è talvolta una specie di complesso di inferiorità.
a centralità della persona, e di conseguenza la centralità della famiglia nelle politiche di governo, sono il frutto dell’incontro del pensiero cristiano e di quello liberaldemocratico. E sono un portato relativamente recente nella storia della politica. Di certo la persona non era centrale nelle politiche degli Stati ottocenteschi. Basti pensare a quanto fosse naturale lo sfruttamento dei minori o basti considerare la condizione di minorità delle donne a quell’epoca. a pagina 9
I
a pagina 8 I QUADERNI)
• ANNO XVI •
NUMERO
7•
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
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IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
l’editoriale
prima pagina
Il «gruppo dei responsabili» progettato dal premier
pagina 2 • 12 gennaio 2011
Caro Cavaliere cerchi il dialogo, non terze gambe di Francesco D’Onofrio segue dalla prima Questo vale per quelli ordinari, per i quali è appunto necessaria una maggioranza favorevole alle proposte del governo. Si comprende pertanto che a partire dallo scorso 14 dicembre il governo è impegnato ad “allargare”la maggioranza che, seppur è stata sufficiente per sconfiggere le mozioni di sfiducia, non lo è per assicurare il passaggio parlamentare delle proposte legislative e delle proposte politiche del governo medesimo. È iniziato da quel momento una sorta di “strabismo istituzionale”: si deve guardare a singoli parlamentari per rinforzare la maggioranza politica del governo in carica, o si deve tendere a nuovi rapporti politici con soggetti politici veri e propri esterni alla maggioranza di governo medesima?
Nel primo caso il cosiddetto allargamento della maggioranza finirebbe con il sostanziarsi in una sorta di “protesi” parlamentare, certamente idonea a consentire al governo il passaggio parlamentare delle proposte da esso indicate; ma in tal caso non si potrebbe parlare di una “terza gamba”, perché è di tutta evidenza che le più svariate provenienze politiche dei singoli parlamentari sarebbero considerate persino ininfluenti per il profilo politico del governo medesimo. Il progetto politico che aveva dato vita al Pdl aveva infatti ambiziosamente previsto che all’interno di esso finissero con il fondersi l’identità originaria di Alleanza nazionale e quella (mai forse sufficientemente chiarita) di Forza Italia. La rottura di Futuro e libertà per l’Italia con il Pdl ha posto in evidente chiarezza il fatto che il Pdl medesimo aveva finito con il contenere al proprio interno due identità distinte – An e FI – che costituivano in qualche modo “due gambe”, per così dire, di un’alleanza politica con la Lega Nord. È pertanto di tutta evidenza che l’alleanza di governo oggi in carica è rappresentata da “due gambe” soltanto, l’una rappresentata dalla Lega Nord e l’altra costituita da ciò che resta del Pdl dopo la sottrazione della “gamba” rappresentata oggi da Fli. L’allargamento della maggioranza che voglia politicamente tendere alla integrazione di una “terza gamba” nell’attuale contesto rappresentato dal binomio Pdl-Lega Nord non può pertanto consistere in un puro e semplice “assemblaggio” (per quanto ampio lo si voglia considerare) di parlamentari singoli che verrebbero in tal caso reclutati non in vista di una comune identità politica, ma per l’appunto sulla base di un puro e semplice status di componente della Camera dei deputati. Questa oscillazione tra un allargamento basato su fatti puramente numerici ed un allargamento fondato su ben più rigorose ragioni politiche pone in evidenza in modo persino clamoroso che si tratta sostanzialmente di una alternativa politica tra una pretesa autosufficienza della maggioranza di governo – che finirebbe con l’essere soddisfatta per il solo aggiungersi ad essa di parlamentari singoli – e la formale svolta verso una vera e propria ricerca di un’intesa necessariamente costituente, che renderebbe necessario un allargamento della maggioranza di governo al di fuori dei confini numerici della sua originaria struttura politica. Al fondo pertanto la questione ancora una volta concerne la natura profonda del bipolarismo che abbiamo conosciuto dal 1994 in poi, e che si è particolarmente manifestato nel 2008: autosufficienza parlamentare della maggioranza di governo o ricerca genuina di una nuova intesa costituzionale?
il fatto I moderati lanciano un piano concreto per cambiare la riforma federalista
Un pacchetto per Calderoli
Ecco come un dogma leghista può diventare il grimaldello per cambiare il Paese: con un regime fiscale nuovo che difenda gli Enti locali e i conti delle famiglie di Franco Insardà
ROMA. Gli sherpa del Terzo Polo, Linda Lanzillotta dell’Api, Gian Luca Galletti dell’Udc e Mario Baldassarri di Fli, hanno illustrato ieri mattina al ministro per la Semplificazione, Roberto Calderoli, le proposte per un “federalismo serio”. Fli, Udc e Api hanno ribadito le modifiche al decreto sulla fiscalità municipale: dalla Imu (l’imposta sugli immobili) alla compartecipazione dei Comuni all’Iva, alla modifica sulla cedolare secca sugli affitti estesa agli inquilini, tenendo conto del numero dei componenti anche per la nuova Tarsu sui rifiuti. Poi Calderoli ha ricevuto una delegazione del Pd guidata da Giuliano Barbolini Walter Vitali e Marco Causi. Sono entrate, così, nel vivo le “consultazioni”volute dal ministro Calderoli per tentare di creare una convergenza sul decreto del federalismo municipale, sul quale la commissione Bicamerale dovrà fornire il proprio parere entro il 28 di gennaio.
«Abbiamo espresso le nostre perplessità al ministro - racconta Linda Lanzillotta - in primo luogo sulla struttura dell’imposizione comunale, tale da far perdere qualsiasi senso alla parola federalismo, basato sulla responsabilità degli amministratori nei confronti degli amministrati collegata alla leva fiscale. Questo principio non è rispettato perché l’imposta principale su cui si regge la finanza locale non si applica ai residenti. Per l’Imu, cioè, si continua sulla linea scelta per l’Ici, per la quale abbiamo votato contro, perché riteniamo occorra una imposta senza aggravio dell’imposizione totale, ma che soprattutto riguardi i residenti. Senza sottovalutare che la caratteristica dell’Imu, applicata alle secondo case e agli edifici commerciali ha
delle basi imponibili così differenziate che alla fine per moltissimi comuni la quota di equilibrio e, quindi, di finanza trasferita, diventa superiore a quella attuale. L’altra caratteristica dell’imposizione del sistema federale, quella legata ai consumi, quindi l’Iva, non è prevista nell’attuale riforma. Esiste in pratica un contrasto sostanziale tra i principi affermati dalla legge 42 e il primo decreto che parla concretamente di federalismo. Un sistema che si doveva basare sulla fiscalità propria si trasforma in uno caratterizzato dai trasferimenti, con un meccanismo di perequazione orizzontale dai comuni più ricchi ai più poveri che scatenerà una vera e propria guerra, difficilissima da gestire. Altro che federalismo». Gli aspetti positivi dell’incontro di ieri sono stati sottolineati anche dal presidente dell’Udc, Rocco Buttiglione: «Noi siamo come sempre aperti a parlare con la Lega di federalismo. Manteniamo la nostra posizione negativa sul progetto approvato e riteniamo prioritari l’unità del Paese, la difesa del Mezzogiorno e la solidarietà nazionale. Al momento però stiamo parlando solo di una questione particolare, certamente importante. Cioè la riforma della finanza locale in cui noi riteniamo sia fondamentale fare giustizia per le famiglie, impostando una riforma fiscale prima locale e poi nazionale in cui sia centrale il fattore famiglia. Questa è la nostra battaglia e la nostra priorità».
E Gian Luca Galletti ha aggiunto: «Siamo noi i veri federalisti. Finora abbiamo votato contro tutti i decreti attuativi, ma siamo pronti a discutere se le nostre proposte saranno accettate. Su tutto le famiglie
il retroscena
«Il vero scoglio è la revisione dell’Ici» Mario Baldassarri: «Il governo non vuole modificare la tassa solo per ragioni di immagine» di Errico Novi
ROMA. Il grande obiettivo della Lega, la grande riforma, sarebbe a un passo da un’approvazione ampia, condivisa. «Basterebbe un po’ di buonsenso», dice Mario Baldassarri. Cosa manca davvero, cosa pregiudica il sì decisivo del presidente della commissione Finanze di Palazzo Madama e, probabilmente, di tutto il nuovo polo? «Non vorrei che si facesse un gran pasticcio solo per ragioni di propaganda». Propaganda, immagine: le proposte del nuovo polo, di Baldassarri in particolare, piacciono. Ma almeno una, la più incisiva, implicherebbe un passo indietro: reintrodurre l’Ici, rendendola però deducibile. «Quindi resta a zero». Sì, ma spiegatelo al governo, al premier: l’abolizione dell’Ici sulla prima casa è uno dei pochi risultati concreti ottenuti in quasi tre anni di legislatura. Calderoli lo ha detto, con rammarico, dopo l’incontro con Baldassarri e gli altri rappresentanti del nuovo polo in Bicamerale. La grande riforma della Lega inciampa su un’ordinaria questione di marketing. Andiamo con ordine. Com’è che la Lega non vi segue, sul ripristino della principale tassa comunale? Andiamo con ordine, appunto. Qui si tratta di prendere a esempio Paesi che sono federalisti da decenni. E io sono un federalista convinto. Bisogna chiedersi qual è l’oggetto su cui può innestarsi l’imposta dei comuni, e chi la paga. Il cittadino deve poter controllare come si utilizzano le tasse che paga. Questo è il federalismo. Appunto. È tutto qui, è una rivoluzione nella struttura dello Stato.
Cerco di dare un contributo positivo. E dico: la prima cosa sono i consumi. Il punto è come stabilire la quota di partecipazione dei comuni, abbiamo proposto di partire dalle province: lì il calcolo già c’è, basta suddividerlo secondo il gettito di ciascun comune. Il vero nodo però è un altro. Ovvero? Gli immobili. Già nel 2005 proposi di eliminare l’Ici sulla prima casa, ma rendendola istantaneamente deducibile dall’Irpef. Ci avremmo
“
I trasferimenti dal centro rischiano di crescere, con il testo attuale. E che federalismo abbiamo fatto?
”
vinto le elezioni del 2006, forse. L’ho ridetto a Prodi e PadoaSchioppa, quindi a Berlusconi e Tremonti nel 2008. E sa chi è sempre stato d’accordo con questa mia formulazione? Lo dica. Calderoli. Anche a giugno 2008. Il principio è evidente: se è il governo nazionale a decidere di abolire questa tassa deve assumersene la responsabilità direttamente: consentire dunque ai comuni di incassarla e poi scontarla sull’Irpef. Così siamo davvero federalisti, e non solo per piantare la bandiera. Anche nel Pd molti dicono: alla Lega interessa la bandiera, punto. È così per Calderoli? Assolutamente no. Vede chiaro il paradosso di una tassa sugli immo-
che pagheranno oltre 25 miliardi di euro di imposte ai comuni. Per questo proponiamo che su alcune imposte, come ad la Tarsu, si applichi la scala di equivalenza prevista dall’Isee, così come rivista dai comuni di Parma e Roma. In questo modo ci sarà chi pagherà di più e chi pagherà di meno, ma non sarà un costo per la collettività». Proprio l’incertezza sui trasferimenti delle risorse effettive ai comuni, secondo la Lanzillotta «presentano l’ulteriore rischio che si ricorrerà all’aumento delle tariffe e agli oneri di concessione per l’edificazione. Oltre alla riduzione dell’offerta di servizi alle famiglie».
Un altro punto controverso del decreto è quello della cedolare secca sugli affitti che «appare prima di copertura - come sottolinea sempre la Lanzillotta - perché viene sottostimato l’effetto di minor gettito, aggiunto a un mancato reintegro delle risorse previste per il 2011-2012». E Galletti aggiunge: «Se un milione e mezzo di euro di mancati introiti vengono infatti scaricati sui comuni è ovvio che i primi a saltare saranno proprio i servizi alle famiglie». Nel dibattito si è inserito anche Mauro Libè, responsabile degli Enti locali dell’Udc, che ha replicato alle dichiarazioni di Roberto Castelli: «Finalmente anche la
bili che, secondo la formulazione attuale del decreto attuativo, sarebbe pagata dai non residenti, che però non fruiscono, se non per limitati periodi, dei servizi, e non sarebbe pagata dai residenti a cui invece i servizi sono destinati.Viene meno il principio territoriale. E tutto ricade sul fondo di perequazione. Tutto cioè torna al centro. Paradossale, per la Lega. E certo. Secondo una rilevazione di Stradiotto, con il meccanismo attualmente previsto nel decreto i trasferimenti dal centro alla periferia aumenterebbero. E che federalismo abbiamo fatto? Appunto. Devi convincere i comuni ricchi, quelli turistici ovviamente, a rimettere gran parte del gettito nel fondo di perequazione. Che senso ha? Viene meno il principio della legittimità impositiva, il controllo, l’autonomia locale. Dicono che sono l’ago della bilancia. E invece? Vi dico semplicemente come stanno le cose. Il punto è che decreto vogliamo. Credo che chi è dotato di buonsenso non possa sottovalutare questi argomenti. E gli stessi elettori leghisti non sono stupidi. Si accorgerebbero dopo tre mesi che è peggio di prima. Che se prima il rapporto tra trasferimenti e tasse locali era 50 a 50 ora rischia di diventare 60 a 40. i sindaci del Carroccio sarebbero i primi a ribellarsi. E che vi ha risposto Calderoli? Ci si obietta che è difficile spiegare una reintroduzione dell’Ici. Ma appunto, non vorrei che si facesse un gran pasticcio solo per ragioni di propaganda.
Lega e il viceministro Castelli si rendono conto che in Italia le cose non vanno bene e che gli imprenditori sono in difficoltà. Castelli, però, sembra dimenticare di essere in maggioranza da quasi tre anni e che gli imprenditori che lasciano il Paese non sono la materializzazione della secessione, ma la dimostrazione del fallimento di questo governo. Il federalismo - ha proseguito Libè - potrebbe essere effettivamente una buona occasione se non fosse stato ridotto a un mero spot vuoto di contenuti. A cambiare registro certo non dovrebbe essere Casini, ma la Lega che da anni avvelena i pozzi della politica italiana. Tutti sono liberi di ri-
Al governo tengono all’immagine. Sì, ma sarebbe tutto paradossale. L’altra questione che ho sollevato, e sulla quale siamo d’accordo con gli amici del nuovo polo, è la cedolare secca e la necessità di introdurre la deducibilità per gli inquilini, come forma di contrasto all’evasione basata sul conflitto di interessi. È chiaro che il governo dovrebbe varare rapidamente un provvedimento separato dal decreto sulla fiscalità municipale in cui si istituisce la cedolare. Calderoli è possibilista. Noi riteniamo che qui possa innestarsi una modulazione secondo il principio del quoziente familiare.Vediamo. Se non passano queste proposte? Non pretendo passino tutte. Non sono così arrogante. Ma certo se non ne passasse nessuna sarebbe molto complicato. Dicono che il Pdl è pigro, sul federalismo. In commissione non parlano quasi mai, La Loggia a parte. Dovrebbero essere loro i più interessati al prosieguo della legislatura. A me comunque interessa la trasparenza del confronto. E questo non vale solo nei rapporti con la maggioranza. Prima ancora che si parli di nuovo polo, dobbiamo intenderci sui contenuti. Meglio partire dai programmi che dagli organigrammi.
ni: un’impresa impossibile. Comunque aspettiamo la proposta del ministro Calderoli per esprimere un giudizio definitivo».
Mentre nel pomeriggio di ieri Pier Ferdinando Casini, al termine di un incontro alla Camera con Francesco Rutelli e Raffaele Lombardo ha dichiarato: «Mi attengo rigorosamente alle richieste dei nostri rappresentanti in commissione presentate al ministro Calderoli: sono serie e finalizzate a trovare una soluzione. Ora aspettiamo di avere delle risposte. Se le risposte sono serie è un conto, se non ci sono risposte invece... L’incontro di Calderoli con le opposizione per discutere il provvedimento è metodologicamente una cosa giusta». E Raffaele Lombardo, leader della Mpa, ha aggiunto: «Esamineremo insieme, come Terzo Polo, le aperture sui provvedimenti del governo, a cominciare dal federalismo, e terremo una linea comune: siamo responsabili e vogliamo una pacificazione perché abbiamo la disponibilità a sostenere i provvedimenti che ci convincono. Viene ribadita la linea che ci vede né al governo né all’opposizione, ma attenti esclusivamente all’interesse del Paese. A fine gennaio si terrà un seminario dei cento parlamentari per mettere a punto la posizione comune sui principali temi dell’agenda politica, dal federalismo alla bioetica alla politica economica». Il governatore siciliano ha poi aggiunto: «La nostra appartenenza al Terzo Polo è salda, e in particolare la sintonia con l’Udc per i nostri trascorsi comuni e le nostre radici comuni è granitica».
Lanzillotta: «Non c’è traccia del sistema basato sulla fiscalità propria». Galletti: «Siamo pronti a discutere se le nostre proposte saranno accettate» conoscere la propria patria nell’Italia. Tuttavia, è molto grave che un discorso di questo genere lo faccia un parlamentare, da anni membro del governo italiano».
Il giudizio generale su questo modello di federalismo per Linda Lanzillotta è «negativo, perché oltre tutti i rilievi tecnici non c’è traccia dei criteri di efficienza, di standard, di capacità fiscale, di gestione diversa dei servizi e anche la carta delle autonomie è al palo. Si riducono i livelli amministrativi, non si semplifica l’organizzazione, e non si aggregano i comuni. Stando così le cose la parte fiscale finanzierà un sistema già di per se inefficiente con oltre ottomila comu-
l’approfondimento
pagina 4 • 12 gennaio 2011
Nel Dna ventennale del partito di Bossi c’è un tratto caratteristico che richiama da vicino l’ambiguità del comunismo all’italiana
Il Togliatti di Varese
La Lega sconta una doppiezza cronica: come il vecchio Pci. Da una parte la concretezza nelle amministrazioni locali, dall’altra i miti fondativi della secessione e della xenofobia. Ci vorrebbe un Berlinguer per superare questa contraddizione... di Maurizio Stefanini ultima è di Roberto Castelli, ministro leghista alle Infrastrutture, secondo cui «sta già accadendo la secessione degli imprenditori che lasciano l’Italia per trasferire le imprese in Paesi più competitivi». Da cui l’appello: «Il federalismo è l’ultima occasione per tenere unito il Paese». Certamente siamo su un piano dialettico maggiore, che non quello di un Borghezio sull’Abruzzo “un peso morto”: d’altronde, anche perché Borghezio è un semplice europarlamentare, mentre Castelli è un ministro della Repubblica. Un ministro della Repubblica, però, che ne prevede la fine: pur suggerendone un sistema per evitarla, ma con tono ricattatorio; cioè, o si fa come diciamo noi, o il Paese andrà in pezzi. E, in più, un esponente di un movimento che negli ultimi anni ha predicato le barricate contro la globalizzazione la delocalizzazione e l’invasione degli stranieri; e ora invece sembra se non proprio plaudere per lo meno acconsentire alla
L’
fuga degli imprenditori dal “Territorio”. Ma d’altra parte, anche l’evoluzione anti-Ue e anti-euro della Lega è successiva all’adesione dell’Italia alla nuova valuta. In precedenza, quando questa sembrava in forse, il discorso era proprio l’inverso: liberiamoci del Sud, che impedisce alla prospera e efficiente Padania di entrare in Europa. Ancora.
Ai mondiali del 1998 ci sono i banchetti leghisti che distribuiscono un simbolico Viagra per gli Azzurri, dicendo però che «neanche quello potrà risollevare una nazionale da Cazzo». A quelli del 2006, ecco invece Calderoli che plaude al trionfo della «nostra identità, dove una squadra che ha schierato lombardi, campani, veneti o calabresi ha vinto contro una squadra che ha perso immolando per il risultato la propria identità, schierando negri, islamici e comunisti». A quelli del 2010 il Trota Bossi junior è tornato a dire che tifare per la Nazionale “è cosa da cinquant’anni fa”.
C’è il Berluskaiser, poi alleato, poi di nuovo Berluskaiser, poi di nuovo alleato. C’è l’alternanza tra predica liberista e statalismo municipal-regionale. E tra tradizionalismo cattolico e culto del Dio Po. E tra linea antiUsa sul Kosovo e filo-Usa in Afghanistan. E tra Cattaneo, gli Asburgo, le Camicie Rosse padane di Garibaldi, il Veneto che non vuole festeggiare i centocinquant’anni dell’Unità, ma da ultimo perfino Cavour. E gli insulti al tricolore e all’Inno di Mameli, stando in un governo
Il “contrordine” ha cambiato colore: dal rosso dei comunisti al verde leghista
che in nome del tricolore e dell’Inno di Mameli manda i soldati in zone di guerra dove si rischia la pelle.
Certo: dopo il 1989 la crisi delle ideologie e dei punti di riferimento ha obbligato in molti a cambiamenti e adattamenti, su cui poi è spesso facile fare pesanti ironie. Attenzione, però. È vero che Massimo D’Alema nel 1991 manifestava contro la guerra in Kuwait portandosi il figlio in collo, e nel 1999 diede invece agli americani le
basi per fare la guerra in Kosovo. Ma, appunto, quando si è convertito alla guerra umanitaria ha smesso di fare il pacifista: non è che ha dato l’autorizzazione all’uso delle basi nel mentre manifestava col figlio in collo. È vero che Gianfranco Fini è passato dal definire Mussolini «il più grande statista del XX secolo» al definire le leggi razziali «il male assoluto del XX secolo». Ma quando ha detto la seconda cosa aveva smesso da tempo di dire la prima: non è che ha detto una cosa in Israele per poi dire l’altra nelle riunioni di partito.
No. La sconcertante doppiezza del leghismo, partito di lotta e di governo allo stesso tempo, agisce nel contesto della Seconda Repubblica; ma non appartiene affatto al mondo di identità fragili e in perpetuo adattamento della Seconda Repubblica. La stessa terminologia, rimanda invece a un partito della Prima Repubblica, che infatti si proclamava “di lotta e di governo”, e che fece na-
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L’azzeramento della giunta capitolina segna una sconfitta evidente della maggioranza
Se fallisce anche Alemanno, il sindaco tremontian-leghista
Berlusconi e gli ex-An puntavano su di lui per trovare una nuova sponda a destra del Pdl, ma la sua gestione di Roma è stata disastrosa di Riccardo Paradisi asterà al sindaco di Roma Gianni Alemanno l’azzeramento della giunta per recuperare la credibilità e l’autorevolezza perduta con lo scandalo di parentopoli e una gestione disinvolta del potere capitolino? Per carità la politica italiana e l’opinione pubblica di questo Paese hanno la memoria corta sicché tutto è possibile. Sono legione del resto i precedenti di morti e rinascite politiche in Italia, fenomeno favorito dall’assenza di circolazione di classi dirigenti. Tuttavia l’impresa in questo caso si profila molto ripida e complessa. E non solo perché il danno politico e d’immagine è durissimo – complici anche i particolari della vicenda: un misto di familismo e camerateria amorale e presenza di grandi interessi opachi – ma per una serie di motivi che sono strettamente e precipuamente legati alla stessa figura di Alemanno.
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Soprattutto a quello che ha rappresentato in termini storico-simbolici la sua vittoria alle elezioni amministrative del 2008 salutata come una svolta epocale, l’occasione storica del riscatto e della rivincita d’un mondo umano ideale e politico che aveva imputato alla conventio ad escludendum nei suoi confronti, alla sedimentazione del potere a sinistra e, in fondo, anche al destino cinico e baro, il suo confinamento in un’eterna opposizione che s’è sempre nutrita, soprattutto negli ambienti di destra della capitale, di mitologie improbabili – da quella neofascista a quella neopagana per dire – coltivando al tempo stesso non indifferenti nicchie di sottopotere. L’elezione di Alemanno al Campidoglio doveva insomma segnare l’avvento d’una nuova stagione, dell’occasione a lungo attesa per dimostrare all’Italia che quella destra che per necessità era stata orgogliosamente antagonista sapeva anche essere responsabile e governativa. Senonché questa doppia natura, questa vocazione anfibia all’essere forza di lotta e di governo, questa doppiezza che aveva prodotto l’impasto tra un ideologismo parossistico e un pragmatismo ultraspregiudicato, la colla che teneva insieme Tolkien e le municipalizzate, è uscita dal controllo e tracimando è esplosa in uno scandalo. «Roma è il laboratorio – ha scritto giustamente Alessandro Campi – nel quale chiusa l’era del nostalgismo catacombale gli eredi a vario titolo del partito della fiamma sono entrati nel salotto buono della politica. Rispettabili conservatori fuori sebbene nell’intimo rimasti sentimentalmente legati al loro
pantheon di eroi inattuali e al misticismo comunitario che li ha sempre tenuti uniti e separati dal resto del mondo» ora il terremoto della giunta rappresenta per loro «l’epitome malinconica di un intero mondo che nel passaggio dal sottopotere al potere rischia di fallire malamente per negligenza mista a superbia l’appuntamento decisivo e ultimo che la storia gli ha offerto». Anche perché e veniamo al secondo motivo della particolarità della vicenda,
La crisi di giunta è una pietra d’inciampo nel suo progetto di leadership nel partito Alemanno, il sindaco di Roma a cui la capitale cominciava a stare stretta, era ed è ancora l’uomo della destra postmissina deputato a candidarsi alla leadership del centrodestra italiano. Un’antileghista leghista a suo modo. Antagonista della Lega perché sindaco di Roma ma alla mentalità leghista
omologo per l’attenzione all’identità e alla comunità militante, in possesso di un baricentro politico e un mondo di riferimento autonomo.
La botta romana rischia per Alemanno d’essere una pietra d’inciampo considerevole nel progetto di costruzione di questa leadership nazionale. Prospettiva al tempo stesso favorita e ostacolata dalla cifra politica del sindaco di Roma proprio perché i suoi punti di forza sono anche i suoi punti di debolezza. Di forza perché se Alemanno ha navigato fino ad oggi è perché alle idee che ha portato avanti (in uno sforzo d’elaborazione che comunque gli va riconosciuto) ha saputo associare la forza d’una militanza cementata sempre da idee forti e miti di riferimento mai dismessi. Di debolezza perché rispetto a questa militanza, spesso borderline, Alemanno ha contratto dei debiti che poi ha dovuto onorare; perché queste idee forza e questi miti per essere mentenuti caldi e mobilitanti, non sono mai stati poi declinati nella modernità laica del post-novecento rischiando di trasformare in macchiette coloro che se ne facevano roboanti banditori malgrado rilevanti posizioni di potere. Il cortocircuito di queste tendenze ha prodotto prima la schizofrenia e poi l’esplodere delle contraddizioni su un palcoscenico così esposto e importante da produrre effetti devastanti. E non basta a rimediarla l’orgogliosa difesa d’ufficio dei corazzieri alemanniani che stentorei proclamano «gli ottimi risultati in tanti settori cruciali per lo sviluppo della città, dall’aumento della sicurezza alla creazione di Roma Capitale, dall’incremento della raccolta differenziata al risanamento dell’Ama», Perché sarà anche vero che la giunta Alemanno non ha prodotto solo disastri, che ha ereditato, come dice l’ex assessore alla cultura Umberto Croppi un debito enorme, «una macchina amministrativa creata da logiche dovute a decenni di governo che ha visto l’attuale classe dirigente all’opposizione». Ma insomma l’autocritica non c’è. Siamo di fronte a una battuta d’arresto della ascesa politica che potrebbe essere forse un segnale d’avvertimento che potrebbe essere interpretato come l’esigenza di essere all’altezza delle proprie ambizioni. Di darsi uno spessore culturale e politico che per essere tale ha bisogno di liberare le ali da un mondo di riferimenti, di tic e di tabù che sulla destra italiana hanno sempre gravato come un’ipoteca più che come una risorsa. Come una zavorra di provincialismo, seppur romano.
scere pure una categoria di “doppiezza”. Appunto: la “doppiezza comunista”. Pagine gustosissime dedicò Giovannino Guareschi al “contrordine compagni”!. La facilità con cui Togliatti a seconda delle esigenze tattiche dell’Unione Sovietiche imponeva improvvise giravolte: dall’opposizione intransigente alla monarchia alla Svolta di Salerno; dalla giustizia sommaria per i fascisti all’amnistia; dall’opposizione al Concordato al voto sull’articolo 7 della Costituzione; dall’esaltazione di Stalin alla destalinizzazione- E i “compagni”, puntuali, obbedivano senza discutere. Elena Aga Rossi e Victor Zaslavsky nel loro classico libro su Togliatti e Stalin Il Pci e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca hanno rilevato come «la doppiezza comunista non risiedeva tanto nella compresenza di un’anima legalitaria e di un’anima rivoluzionaria, quanto nella doppia identità di partito nazionale e frazione di un movimento comunista internazionale guidato dall’Unione Sovietica».
Una “doppia identità” simboleggiata anche visivamente dall’affiancamento sul simbolo tra la bandiera sovietica e quella tricolore. Man mano però che la “spinta propulsiva” e il più generale appeal dell’Urss venivano meno, la “doppiezza” finiva però per sfumare appunto nell’ipocrisia di un partito che era perfettamente tranquillamente socialdemocratico, per programmi e prassi; ma continuava ad aborrire la socialdemocrazia, a esaltare la sanguinosa eredità della Rivoluzione di Ottobre, e a riproporre perfino un embrione di dittatura del proletariato nel modello del centralismo democratico. A lungo al Pci fu fatto un processo per questo. Anche quando Berlinguer disse infine di preferire “l’ombrello della Nato”, e forse per averlo detto quasi non ci rimise la pelle in Bulgaria, il Pci continuò comunque a dichiararsi comunista ed a proclamare la necessità di un nuovo modello. La Bolognina non arrivò che dopo la caduta del Muro di Berlino, e a Prima Repubblica quasi scaduta. E solo dopo che il nodo fu risolto poté infine andare al governo: anche se certi strascichi i suoi eredi e chi a loro si è associato li pagano ancora. Favorita dal tipo di bipolarismo che si è affermato con la Seconda Repubblica, la Lega non ha dovuto pagare questo pegno, e lo stesso Bossi è diventato ministro di uno Stato la cui esistenza continua a dire di considerare una disgrazia, e con la cui bandiera ha più volte auspicato l’utilizzo come carta igienica. Forse un Berlinguer della Lega c’è già, in Roberto Maroni. Ma un discorso sull’Ombrello del Tricolore, malgrado tanti anni al governo, ancora non lo ha pronunciato nemmeno lui.
diario
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Per i bot italiani vendita record
Un morto in Puglia per l’influenza A
ROMA. Boom del rendimento dei titoli di Stato: a quanto pare si allontana lo spettro di una grande speculazione internazionale sul debito italiano, tanto a lungo temuto. Il Tesoro ha collocato tutti i sette miliardi del Bot a 12 mesi in programma oggi, con un rendimento salito al 2,067%, massimo dal dicembre 2008. Rispetto alla precedente collocamento il rendimento è salito di 0,053 punti. Boom di richieste da parte degli investitori, con domande superiori agli 11,3 miliardi rispetto ai sette offerti. Si allarga intanto lo spread tra titoli di Stato decennali italiani e spagnoli con quelli tedeschi. Il differenziale tra quelli italiani e tedeschi sale a 204 punti base, mentre quello spagnolo raggiunge i 279 punti base.
Sfiducia a Bondi: voto a fine mese
FOGGIA. L’influenza A comincia a fare vittime e gli esperti ribadiscono la necessità di vaccinarsi, soprattutto per le categorie a rischio. Un uomo di 51 anni è morto a causa del virus H1N1 in una struttura sanitaria del Foggiano. Il decesso è avvenuto in breve tempo. Nella regione ci sono altri due casi gravi accertati: un uomo di 51 anni ricoverato all’ospedale Panico di Tricase (Lecce) per gravi difficoltà respiratorie e trasportato d’urgenza al San Raffaele di Milano; una donna di 60 anni ricoverata da una settimana circa nell’ospedale Dimiccoli di Barletta, dov’è intubata. Non avrebbe patologie pregresse. L’Istituto Superiore di Sanità sottolinea che il virus raggiungerà il picco tra fine gennaio e inizio febbraio.
ROMA. La mozione di sfiducia al ministro della Cultura Sandro Bondi, presentata a dicembre da Pd e Idv dopo il crollo della Casa dei gladiatori a Pompei (definito dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano «una vergogna per l’Italia»), sarà esaminata e votata dall’Aula della Camera nell’ultima settimana di gennaio. Lo ha stabilito la conferenza dei capigruppo. La mozione di sfiducia è stata presentata nonostante Bondi avesse chiesto al Pd di non farlo, sostenendo che i crolli di Pompei non costituivano una ragione sufficiente e che invece si trattasse di un’acrimonia personale nei suoi confronti. Determinate sarà la posizione (ancora da stabilire) dei deputati del Polo della Nazione.
Si infiamma il clima in vista della consultazione a Mirafiori. Fim e Ugl chiedono di rinviare il voto: «Non siamo pronti»
Lite Camusso-Marchionne
La leader Cgil: «Insulta il Paese». E lui: «No, voglio solo cambiarlo» di Alessandro D’Amato
«Marchionne insulta ogni giorno il Paese»: lo detto il leader della Cgil, Susanna Camusso, nella relazione introduttiva all’assemblea nazionale delle Camere del lavoro, accusando la Fiat, tra l’altro, di non rendere noti i dettagli del piano “Fabbrica Italia”. «Non è vero», gli ha subito risposto Marchionne: «Non insulto l’Italia, voglio solo cambiarla».
ROMA. «Insulta ogni giorno il Paese». «No, voglio cambiarlo». Susanna Camusso paga il suo tributo di fedeltà alla Fiom e attacca duramente Sergio Marchionne, che replica a stretto giro di posta alla vigilia del referendum di Mirafiori che segnerà il destino della fabbrica e, probabilmente, quello della produzione di automobili in Italia. Senza contare che due sigle sindacali, Fim e Ugl, hanno chiesto ufficialmente il rinvio del voto: «Così è troppo vicino alle assemblee Fiom che possono condizionarlo».
Quanto al botta e risposta tra Camusso e Marchionne, durante la relazione introduttiva all’assemblea nazionale delle Camere del lavoro, la leader Cgil ha puntato il dito contro la Fiat accusata di non rendere noti i dettagli del piano “Fabbrica Italia”. «Se Fiat può tenere nascosto il piano - ha aggiunto - è anche perché c’è un governo che non fa il suo lavoro ma è tifoso e promotore della riduzione dei diritti», spostando il tiro sull’esecutivo e sul ministro Sacconi. «Il Lingotto sbaglia tempo e sbaglia risposte e riduce i diritti dei lavoratori e la loro fiducia sulle prospettive», ha aggiunto Camusso, sottolineando «la debolezza industriale dell’azienda. Questo governo è così tifoso che non ha il coraggio di vedere che quando l’amministratore delegato insulta ogni giorno il Paese non offende solo i cittadini e il Paese ma in realtà dice della qualità di governare e delle risposte sbagliate che vengono date». Ha poi ironizzato sul fatto che in Fiat non c’è nessun caso di spionaggio come alla Renault («almeno così avrem-
mo potuto conoscere i dettagli del piano») e a Cisl e Uil ha rivolto l’invito a non far diventare le fabbriche come caserme.
«L’accordo di Mirafiori è un accordo “ad excludendum” ed è peggiore di quello di Pomigliano», ha poi detto la leader della Cgil puntando l’indice in particolare contro la clausola di responsabilità individuale e contro le norme sulla rappresentatività sindacale. A Mirafiori secondo la dirigente sindacale c’è stato «più che un accordo separato, un accordo “ad excludendum”. Questo pone anche delle altre domande. La clausola di responsabilità individuale si-
gnifica una limitazione della libertà di sciopero e quindi resta per noi un diritto indisponibile anche se la Fiat lo nega». L’accordo di Mirafiori, ha poi dichiarato, non è uguale a Pomigliano ma peggiore «perché allora, pur essendo paventata, nessuno metteva in dubbio l’uscita dall’accordo del ’93. Questo tema ora è diventato più esplicito a Mirafiori: c’è una lesione al diritto di rappresentanza. Non ci si può sottrarre - ha concluso - dal sostenere la battaglia per il “no” al referendum che stanno facendo le Rsu: loro devono sapere con chiarezza che hanno il sostegno di tutta la loro organizzazione». Ma la Ca-
musso ha mandato anche un messaggio a Landini, invitandolo a evitare forme di lotta barricadere: «La Fiom e la Cgil devono stare dentro le fabbriche per costruire tutele, prospettive e posizioni, altrimenti diventiamo dipendenti non aiutati da altri, dipendenti dai tempi dei magistrati», ha spiegato. «Su questo dobbiamo continuare a riflettere; la domanda che poniamo alla Fiom è se questa è l’unica conclusione possibile. Noi pensiamo - ha aggiunto Camusso - che il tema su cui ci vogliamo interrogare è come il giorno dopo. Per me il cuore della contraddizione sta nei processi produttivi e se non si
riparte da lì si resta fuori, non si ricostruiscono le condizioni per ripartire e costruire un’altra storia e altre condizioni di lavoro». Infine, sulla consultazione di giovedì ha spiegato che «un esito del referendum con i sì non lo auspichiamo ma non lo possiamo escludere. Questo come conseguenza porta anche l’esclusione della Fiom e della Cgil dalle fabbriche. Su questo dobbiamo continuare a riflettere». Camusso ha ribadito la necessità di «sostenere e comprendere le ragioni del no. Non ci si può sottrarre dalla battaglia per il no, bisogna che loro sappiano che hanno il sostegno di tutta la loro organizzazione».
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Rispetto, apertura e partecipazione
Peggiorano i conti familiari, migliorano quelli delle società ROMA. Le famiglie italiane si impoveriscono mentre le società non finanziarie migliorano i propri conti: sono questi i risultati incrociati dei dati di macroeconomia resi noti ieri dall’Istat e da essi si intuisce come la crisi economica pesi ancora e come anzi abbia creato ulteriori spaccature nella società italiana. Nel terzo trimestre del 2010 il reddito disponibile delle famiglie italiane è rimasto al palo: in valori correnti ha registrato una variazione nulla rispetto al trimestre precedete. Su base annua però è cresciuto dell’1,4% (+0,4% in primi nove mesi 2010). tuttavia l’Istat ha anche evidenziato come il potere d’acquisto, nello stesso periodo, abbia segnato un calo dello 0,5% sia su base congiunturale che annua (-1,2% nei primi nove mesi del 2010). Nello stesso periodo, la propensione al risparmio delle famiglie è stata pa-
ri al 12,1%, in diminuzione di 0,7 punti percentuali rispetto al trimestre precedente e di 0,9 punti percentuali rispetto al terzo trimestre del 2009.Viceversa, come si diceva, sempre nel terzo trimestre 2010 la quota di profitto delle società non finanziarie si è attestata al 41,7%, con un aumento di 0,4 punti percentuali rispetto al trimestre precedente. Su base annua, il recupero del tasso di profitto è più marcato, con una crescita di 1,6 punti percentuali.
La replica di Marchionne non si è fatta attende: «Non si può confondere il cambiamento con un insulto all’Italia», ha detto al Salone dell’Auto di Detroit. «Se introdurre un nuovo modo di lavorare in Italia significa insulto mi assumo le mie responsabilità, ma non lo è. L’ho già detto e lo continuo a ripetere: è un messaggio totalmente coerente con la strategia industriale di questo gruppo. Siamo assolutamente convinti che il modo di operare industrialmente in Italia, anche sulla base della nostra esperienza a livello internazionale, debba essere rinnovato. Stiamo cercando di cambiare una serie di relazioni che storicamente hanno guidato il sistema italiano. In questo sono assolutamente colpevole, stiamo cercando di cambiarlo, di aggiornarlo e di renderlo competitivo. Non si può confondere con un insulto all’Italia. Anzi vogliamo più bene noi all’Italia in questo senso cercando di cambiarla. Il vero affetto è cercare di fare crescere le persone e farle crescere bene, stiamo cercando di farlo a livello industriale. Il fatto che sia un modo nuovo non lo metto in dubbio e nemmeno che sia dirompente perché cambia il sistema delle relazioni storiche, ma che in questo si veda una mancanza di affetto verso l’Italia è ingiustificato. È uno sforzo sovraumano, non lo farebbe nessun altro».
Poi, più tardi, dopo aver letto le parole di elogio del New York Times a Chrysler e a lui, ha chiesto alla Fiom indirettamente di accettare la sconfitta: «In qualsiasi società civile quando la maggioranza esprime un’opinione anche con il 51 per cento, la minoranza ha perso. È un concetto di civiltà comune. Quando si perde si perde. Io ho perso tantissime volte in vita mia e sono stato zitto. Sono andato avanti e non ho reclamato. Se venerdì vince il sì ha vinto il sì e il discorso è chiuso. Non possiamo fare le votazioni 50 mila volte. Capisco che nessuno voglia perdere, ma una volta che ha perso ha perso». Ed è difficile, sul punto, non ricordare quello che disse
g i u d i z il e t t e r ep r o t e s t es u g g e r i m e n t i
all’epoca di Pomigliano, quando dalle urne si aspettava una vittoria schiacciante e poi i risultati finali, pur premiando il piano Fiat, furono molto meno lusinghieri. Qui Marchionne sembra sottintendere che anche una vittoria minima potrebbe accontentare il Lingotto.
Intanto il Pd chiede che l’ad del Lingotto presenti il suo piano per la Fiat anche in Parlamento
Dall’alto: Marchionne, Camusso, Landini e Bonanni. Nella pagina a fianco, le lacrime di un operaio Fiat a Mirafiori
La vicenda Mirafiori tiene banco anche tra i Democratici che vogliono evitare si ripeta un nuovo caso Marchionne. Sul punto, durante la segreteria, c’è stato un vivace scambio tra Matteo Orfini e Sergio D’Antoni. Il responsabile Cultura del partito ha condiviso la linea Bersani-Fassina, ma ha invitato il Pd ad essere meno accondiscendente nei confronti dell’ad Fiat. «Siamo apparsi troppo critici con la Fiom, e troppo poco rispetto a un manager che sta travolgendo le relazioni industriali, prospettando una riduzione dei diritti in cambio di occupazione. È inaccettabile». Tutta un’altra posizione quella di Sergio D’Antoni. L’ex segretario Cisl ha difeso l’accordo a spada tratta. «Io avrei firmato il contratto e voterei sì al referendum - ha detto - anche perché credo che non ci sia nessun pericolo di un effetto cascata su altri settori industriali». La riprova, ha osservato, è data da contratti come quello Carrefour e del tessile. «Altro che Fiat, quei contratti sono molto peggio, eppure li ha firmati anche la Cgil. Ma siccome non si tratta della Fiat non fanno notizia». E mentre Andrea Lulli, capogruppo Pd alla commissione attività produttive, chiede che Marchionne venga in Parlamento ad illustrare il piano Fiat, Giorgio Merlo è invece critico: «Il Pd non può e non deve avere dubbi sull’esito del referendum. Un’eventuale bocciatura consegnerebbe uno scenario dove prevalgono il massimalismo, il radicalismo sindacale e il ritorno ad un anacronistico conflitto di classe. L’esatto contrario di ciò che persegue e propugna un partito riformista e di governo come il Pd. Per questo vanno banditi atteggiamenti balbettanti o, peggio ancora, pilateschi».
Siamo tutti spaventati dalle brutture del mondo, ma ognuno di noi può dare il proprio piccolo contributo affinché le cose possano migliorare. Possiamo perciò cambiare ciò che non è buono partendo da noi, decidere ogni giorno di alimentare un piccolo circolo buono e smettere di nutrirne uno meno buono. Prendiamoci cura di chi sta accanto a noi. Mostriamo comprensione e gentilezza con uno sconosciuto. Rispetto vuol dire apertura e apertura vuol dire essere più lieti di vivere e partecipare. Possiamo darci la possibilità di una vita con più amore e senso, meno incasellata, più libera ma anche più responsabile, tornare a desiderare, sperare e sognare un paradiso terreno che, come quello terrestre, ha un solo grande albero proibito, una sola regola intoccabile: quella del rispetto.
Fabio Barzagli
ECONOMIA A SENSO UNICO Mentre si parla in Europa di nuovo ordine monetario internazionale, in Italia stentiamo a misurare le ragioni concrete del contrasto tra Montezemolo e Tremonti, che in realtà nasce ogni qual volta il secondo striglia il rendiconto bancario come causa principale della crisi economica globale. Sicuramente l’Italia è tra i primi Paesi dove l’alta tassazione serve a sostenere gli istituti finanziari e le banche, e la Lega ha puntato spesso il dito contro il modo di “indirizzare”il finanziamento nel nostro Paese. L’unico problema è che prendersela con la centralità di Roma capitale e ladrona è un errore, perché il problema non è di sperperi concentrati ma di un costume allargato di deresponsabilità .
Bruna Rosso
L’IMMAGINE
Onde arcobaleno Un pittore non avrebbe saputo fare di meglio. Dal marrone, al viola, al blu, non c’è una sola sfumatura che non sia visibile nelle Terre dei sette colori, una conformazione geologica dell’isola di Mauritius
DDL IMPRENDITORIALITÀ Il provvedimento sulla libera imprenditorialità e sul sostegno del reddito è positivo perché rappresenta un segnale di attenzione ai lavoratori e a un sistema del lavoro che sente ancora gli effetti della crisi e che deve evolversi. Inoltre, per quanto riguarda l’inquadramento previdenziale dei soci lavoratori delle cooperative artigiane, che consente a quest’ultimi l’opportunità di versare i contributi come autonomi senza cambiare nulla dell’assetto del contratto di lavoro all’interno della società cooperativa. Così facendo si dà una risposta concreta a un’esigenza sentita da molti lavoratori.
N. P.
DIAMO SOSTANZA AI VALORI CRISTIANI Il governo dovrebbe dialogare ancora di più con le famiglie, sostenendole in maniera più significativa e tangibile per rendere la nostra comunità più coesa e forte e affrontare meglio il periodo difficile che attraversiamo. Una sana famiglia si basa sul rapporto naturale tra l’uomo e la donna e sulla procreazione; il governo deve trovare le risorse necessarie per incentivare la maternità, frenata da condizioni economiche sfavorevoli. In Italia attualmente la natalità, gradita, è tenuta alta dagli immigrati. Nel Nord Europa le donne fanno più figli perché ci sono politiche sociali favorevoli alle famiglie. Incentiviamo dunque il desiderio italiano di maternità, dando sostanza ai valori cristiani.
Domenico
IL CIRCO E GLI ANIMALI Gli animali, di qualunque specie e genere essi siano, non sono nati per diventare schiavi, costretti a fare esercizi che, etologicamente parlando, non farebbero mai parte del loro modus vivendi. Non si può assolutamente pensare che un animale possa divertirsi, passando la propria esistenza a fare esercizi ripetitivi e indotti dall’uomo; gli animali subiscono queste attività come delle profonde umiliazioni.
Chiara
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il paginone
Famiglia, stato sociale, educazione sono tra i temi fondativi del Nuovo Polo. Il presidente Ud
L’Occidente non può continuare a odiarsi Libertà e amore: due concetti decisivi per evitare il nostro declino morale di Rocco Buttiglione l Papa leva alta la sua voce contro la persecuzione religiosa in atto in gran parte del nostro mondo. Aggiunge coraggiosamente due cose che spesso si preferisce ignorare. La prima è che l’indignazione contro la persecuzione, specialmente nei mezzi di comunicazione occidentali, non è né universale né equanime. Alcune persecuzioni sembrano essere più gravi di altre e (aggiungiamo noi) verso alcuni persecutori c’è talvolta una specie di complesso di inferiorità. Le persecuzioni contro i cristiani non suscitano eguale riprovazione di quelle contro altre religioni. I cristiani vengono perseguitati in molti paesi perché sono ritenuti particolarmente vicini alle nazioni dell’Occidente che lì sono globalmente percepite come cristiane. Le nazioni occidentali fanno invece fatica a dare loro solidarietà perché, come ha detto una volta il cardinale Ratzinger, l’Occidente odia se stesso almeno con metà della propria anima. Le testimonianze dei cristiani che muoiono per la loro fede ci inquietano e ci imbarazzano, ci costringono a domandarci in che cosa crediamo noi e se noi ancora crediamo in qualcosa.
I
Loro muoiono infatti per gridare una fede la cui voce noi vorremmo sacrificare nel nostro cuore. Naturalmente questo quadro non riflette tutta la cultura occidentali ma alcuni suoi settori, probabilmente minoritari nel popolo ma egemoni nella comunicazione di massa. Esiste per fortuna un inizio di reazione nelle nostre nazioni. Ne è testimonianza la manifestazione di domenica in Piazza San Pietro. Ne è testimonianza anche la risoluzione approvata dalla Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa nello scorso ottobre che protegge il diritto all’obiezione di coscienza davanti all’aborto. Siamo particolarmente grati al Santo Padre per aver pubblicamente ricordato e lodato quel documento che è in buona parte il risultato dell’impegno di uno di noi, l’onorevole Luca Volonté, che è capogruppo del gruppo Partito Popolare Europeo in quella Assemblea Parlamentare.
Qualcosa sta cambiando e può cambiare se ci si impegna con decisione e convinzione in una politica che sia anche, contemporaneamente, testimonianza ai valori. La seconda cosa inusuale che il Papa ha avuto il coraggio di dire è che si sta espropriando il diritto che le famiglie hanno di educare. È la famiglia a non lo Stato il primo titolare del diritto di educare. Si tratta di una polemica che ha una lunga storia ma il Papa la riprende oggi con accenti nuovi. Una volta lo Stato nazionalizzava l’istruzione ed educava secondo una sua visione e secondo una sua moralità. Esisteva una etica laica, diversa da quella cristiana ma non priva di un suo rigore. Quella etica riconosceva, per esempio, che la sfera della sessualità ha una sua intrinseca moralità, ed imparare il controllo degli istinti per porre la forza della sessualità al servizio di uno sviluppo umano integrale è parte necessaria di un processo educativo. Oggi quella etica laica è venuta meno e, davanti alla intera sfera della sessualità, la linea dominante è che bisogna liberare l’istinto e l’istinto non può e non deve essere controllato moralmente.
Il risultato è che ne i programmi scolastici si diffonde una “educazione sessuale” che non è una educazione all’amore e non prepara alla formazione di famiglie e alla generazione ed educazione dei figli. Il mo-
blema è solo che la sessualità è insieme e contemporaneamente un processo biologico ed un valore. Il modo in cui si insegna l’uno è strettamente legato con il modo in cui si insegna l’altro. Il sesso (l’amore) lega valori vitali/corporei e valori spirituali. Se esso viene insegnato in modo semplicemente biologico/naturalistico non ci si colloca su di una posizione di neutralità ma si sceglie una precisa visione unilaterale della sessualità. Qui il Papa tocca un nervo scoperto della nostra società. La separazione fra sesso ed amore e (successivamente ed inevitabilmente) la morte dell’amore sta alla radi-
La separazione fra sesso e amore e (inevitabilmente) la morte dell’amore sta alla radice della crisi della famiglia e dei fenomeni che la accompagnano come la caduta della natalità nopolio statale della istruzione diventa progressivamente il veicolo del relativismo etico e di una visione ideologica e libertina della sessualità che contraddice il sistema di valori su cui si fonda la famiglia e che la famiglia si sforza di trasmettere ai propri figli. Il Papa, ovviamente, non vuole che della sessualità non si parli o che i giovani non vengano aiutati a intendere i processi biologici in atto nel loro corpo e che certamente li interpellano e li inquietano. Il pro-
ce della crisi della famiglia e dei fenomeni che la accompagnano come la caduta della natalità, la rottura del rapporto fra le generazioni, la emergenza educativa e l’abbandono degli anziani. Essa è, d’altro canto, un cardine della postmodernità che è rigorosamente vietato mettere in discussione. Questa grande provocazione del Papa chiama ciascuno ad assumere la propria responsabilità. Noi non ci sottrarremo alla nostra.
il paginone
dc e un senatore di Fli intervengono in un dibattito sempre più attuale
Il Papa, la fede, il Polo della Nazione Liberali e cattolici uniti per ricucire l’Italia I valori di Futuro e Libertà sono basati sulla centralità dell’essere umano di Giuseppe Valditara a centralità della persona, e di conseguenza la centralità della famiglia nelle politiche di governo, sono il frutto dell’incontro del pensiero cristiano e di quello liberaldemocratico. E sono un portato relativamente recente nella storia della politica. Di certo la persona non era centrale nelle politiche degli Stati ottocenteschi. Basti pensare a quanto fosse naturale lo sfruttamento dei minori e più in generale dei lavoratori, o basti considerare la condizione di minorità delle donne, la pratica dello schiavismo in molti Paesi di cultura euroamericana e, ancora nel Novecento, le discriminazioni per motivi di razza, religione, lingua, sesso. Quando si parla di centralità della persona non si può prescindere da una politica che garantisca in-
L
nanzitutto il rispetto di ogni essere umano a iniziare da coloro che sono sempre stati gli “ultimi”. La difesa della famiglia va fatta poi in concreto, non con slogan o petizioni di principio. È di tutta evidenza che ha senso un particolare impegno finanziario pubblico laddove vi siano figli da proteggere. In questa direzione la protezione della famiglia si attua con politiche di sostegno economico, sia fiscale, del tipo quoziente famigliare, sia mediante una particolare protezione sociale a favore della maternità e dei figli minori. La famiglia vede riconosciuta nella costituzione anche una sua autonomia culturale rispetto allo stato, autonomia che si traduce concretamente nel diritto dei genitori di educare e istruire i propri figli secondo valori di riferimento. Il che
Gianfranco Fini, presidente della Camera. In alto Benedetto XVI. Nella pagina a fianco Rocco Buttiglione
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significa favorire la libertà scolastica. È su queste sensibilità che si deve misurare per un cristiano la buona politica. E su questi temi Futuro e Libertà, a iniziare dal suo punto di riferimento politico, Gianfranco Fini, è schierato con chiarezza e convinzione. Una buona politica non può peraltro prescindere da una visione del bene comune, che significa innanzitutto non mentire e non creare false aspettative, e della correttezza, che si deve tradurre nel rispetto delle istituzioni e della legalità.
Vi è infine un altro aspetto non secondario: la scelta dei valori da sostenere e da diffondere. Al di là di ciò che ognuno fa nella propria vita privata, che riguarda la coscienza individuale, la legittimazione o la banalizzazione di comportamenti e pratiche che involgariscano i rapporti umani, magari anche tramite l’abuso del mezzo televisivo, funzionale solo al guadagno imprenditoriale, sono senz’altro contrari ad una visione ”cristiana”. La supremazia del bene comune rispetto agli interessi personali, l’affermazione del principio di buona fede nei confronti innanzitutto degli elettori, la difesa del principio della legalità, e del rispetto delle istituzioni, una politica che, nella libertà del
Quando si parla di centralità della persona non si può prescindere da una politica che garantisca innanzitutto il rispetto di tutti, iniziando proprio dagli ultimi privato, non legittimi il ”pubblico scandalo” sono proprio le ragioni che hanno portato alla costituzione di Fli, sono la bandiera della battaglia politica di Gianfranco Fini. Proprio al cristianesimo vanno attribuiti il principio della laicità dello stato e la libertà religiosa. Il primo è affermato in modo incontrovertibile nella celebre frase ”date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio, ciò che è di Dio”. La libertà religiosa è il frutto innnanzitutto della lotta dei martiri cristiani, è anzi l’oggetto stesso di quella lotta.Tertulliano diceva che «è di libertà naturale, per ciascuno, di praticare il culto secondo quanto egli crede.. Nè compete alla religione di costringere alla religione». All’interno di questi pilastri, vi sono poi argomenti che riguardano più da vicino sensibilità personali e che non possono diventare oggetto di un programma di governo, ma vanno lasciati alla libertà delle coscienze. Questa è la posizione di Futuro e Libertà. Non è un caso che uno degli interventi di più forte contrarietà alla soluzione data alla vicenda di Eluana Englaro sia arrivato da chi, come il sottoscritto, è un convinto sostenitore della iniziativa politica di Gianfranco Fini. D’altro canto già sulla procreazione assistita proprio Fini lasciò a suo tempo ai suoi parlamentari libertà di coscienza. È su queste basi e con queste premesse che istanze liberaldemocratiche e istanze cattoliche, rappresentate in Fli e Udc, possono trovare una importante conciliazione, dando vita ad una fattiva collaborazione, e riunendo i “liberi e i forti” per il bene del Paese.
mondo
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Il massacro porta a 80 i morti cattolici che si possono contare nello Stato federale del Plateau, di cui Jos è capitale
La strage continua... Nuovo attacco in Nigeria: almeno 13 morti in un villaggio a Wareng di Antonio Picasso uesta volta è la Nigeria a scuotere le coscienze europee. Ieri il massacro di 13 persone, nel Paese sub-sahariano, ha confermato che il Cristianesimo sta attraversando un dramma costante. Soprattutto nelle regioni in cui cerca di convivere con l’Islam. Nel piccolo villaggio di Wareng, vicino alla città di Jos (Nigeria centro-settentrionale), un gruppo di giovani musulmani si è scagliato contro la comunità cristiana locale e ne ha fatto scempio. Motivo dell’assalto, apparentemente la necessità di vendicare un affronto subìto venerdì scorso per mano delle vittime. Il massacro porta a 80 i morti cristiani che si possono contare nello Stato federale del Plateau, di cui Jos è capitale. La zona sta vivendo una fase di tensioni crescenti. Ad aprile sono fissate le elezioni amministrative. Secondo gli osservatori, il voto dovrebbe confermare Jonah Jang, attuale governatore. Cristiano e uomo di punta della tribù Berum, Jang è il bersaglio di pesanti critiche da parte della comunità islamica. I gruppi Hausa e Fulani, in particolare, ne denunciano gli atteggiamenti autoritari e le manovre illegali affinché gli appalti pubblici e i lavori infrastrutturali avviati nel Plateau vengano concessi esclusivamente alle aziende a lui vicine. Il caso fa pensare che la tragica condizione dei cristiani nella Nigeria settentrionale non sia da leggere unicamente con le lenti del conflitto etnico. Al contrario, come spesso accade nelle criticità di provenienza africana, si tratta di una sommatoria di cause.
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Il malcontento ne confronti delle istituzioni di Abuja e di quelle dell’amministrazione locale è sempre più diffuso. Il vuoto di potere lasciato dal presidenteYard’ua, morto il 5 maggio scorso, non è stato colmato. Il suo successore, Goodluck Jonathan, non è stato in grado di
E l’Egitto richiama l’ambasciatore presso la Santa Sede
Estremisti pachistani contro il Vaticano e in Nigeria la situazione è ormai sfuggita di mano, il Pakistan sembra essere in una fase solo precedente al collasso. In questi giorni il Papa ha lanciato un appello affinché l’Unione europea si concentri sull’incubo che le Chiese stanno vivendo in molti Paesi a maggioranza islamica. Nel contesto italiano, le reazioni in favore di Benedetto XVI sono apparse compatte. Ieri, è giunta anche la solidarietà del Gran maestro del Sovrano Militare Ordine di Malta (Smom), Matthew Festing. «Desidero esprimere il mio pieno sostegno alla dichiarazione del Santo Padre e di tutta la co-
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munità internazionale sulla nuova ondata di violenza che ha colpito i cristiani in Pakistan, Indonesia, Egitto, Sudan, Nigeria e le Filippine». Di tono completamente contrario è apparso invece l’atteggiamento del governo egiziano. Sempre ieri, il ministero degli Esteri del Cairo ha richiamato per consultazioni il proprio ambasciatore presso la Santa Sede, la signora Aly Hamada Mekhemar. La strage dei copti ad Alessandria sta provocando una crisi diplomatica fra i due governi. E la
morte di un cristiano e il ferimento di altri due in un treno diretto a sud peggiorano la situazione, Nel frattempo, i tentativi del governo pakistano di abrogazione della legge sulla blasfemia hanno provocato le reazioni più radicali da parte della popolazione. A farne le spese, i 3 milioni di cristiani, sui 170 milioni di abitanti totali, che vivono quasi in clandestinità nel Paese dei puri. Da una parte il fanatismo delle piazze aizzato dagli imam, dall’altra una norma religiosa estremamente repressiva nel campo della libertà religiosa e di espressione. Alla fine di novembre scorso, il caso di Asia Bibi aveva richiamato l’attenzione dei media occidentali.
La giovane cristiana era stata condannata a morte perché accusata di aver offeso il profeta Maometto. Con la sospensione della pena, erano scoppiati nuovi scontri di piazza. Una settimana fa poi, il governatore del Punjad, Salman Taseer, è stato ucciso proprio perché si era schierato a favore della scarcerazione della donna. L’assassinio lascia intendere che, nel caso Asia Bibi tornasse in libertà, avrebbe poche possibilità di sopravvivenza. È da circa trent’anni che la legge sulla blasfemia rappresenta un punto dolente per Islamabad. A suo tempo, Benazir Bhutto la sottopose a una revisione in senso moderato. I suoi successori, Nawaz Sharif e Pervez Musharraf, hanno riportato indietro le lancette dell’orologio. I loro calcoli sono stati dettati da interessi politici. Così però l’estremismo è tornato a guadagnare consenso presso le fasce sociali più arretrate, quindi manipolabili. (a.p.)
Cina, Pakistan e Arabia Saudita sono i più intolleranti
L’Abc del Papa per la libertà
Benedetto XVI scrive una ricetta per la libertà religiosa nel mondo di Bernardo Cervellera onvincere il mondo che «una pace autentica e duratura… passa attraverso il rispetto del diritto alla libertà religiosa in tutta la sua estensione»: è questa l’intenzione per nulla implicita che ha dominato il discorso di Benedetto XVI. Con una sequela martellante, l’espressione “libertà religiosa” è citata ben 19 volte, quasi cinque volte per pagina, per richiamare «responsabili politici, capi religiosi e persone di ogni categoria» ad attuarla con impegno. E per questo elenca una serie di passi, una specie di abbecedario, che i governi (anzitutto) devono mettere in pratica. Quasi a rispondere a ogni obiezione e stanare l’indifferenza e la sordità del mondo, il papa cita la filosofia e la storia, per ricordare che «la libertà religiosa è il primo dei diritti, perché, storicamente, è stato affermato per primo e, d’altra parte, ha come oggetto la dimensione
C
costitutiva dell’uomo, tanto che l’uomo può essere definito un essere religioso».
Il pontefice chiede di «rifiutare il contrasto pericoloso che alcuni vogliono instaurare tra il diritto alla libertà religiosa e gli altri diritti dell’uomo, dimenticando o negando così il ruolo centrale del rispetto della libertà religiosa nella difesa e protezione dell’alta dignità dell’uomo». In questi anni Cina, Myanmar e Paesi occidentali continuano a difendersi contro l’importanza della libertà religiosa, rivendicando specificità culturali o pragmatiche (“viene prima il diritto a mangiare e a vestire”) per lasciarla all’ultimo posto. Benedetto XVI passa in rassegna i luoghi dove si umilia la libertà religiosa, primi fra tutti l’Iraq e l’Egitto, dove sono avvenuti gli attentati di Baghdad e di Alessandria, che hanno suscitato molte espressioni di solidarietà
mondo
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nettamente aggregativo che contrasta - secondo fattore con la frammentazione etnica della società. Una divisione, questa, che ha portato a derive indipendentistiche, spesso sfociate in situazioni di stazionaria instabilità. Nel Delta del Niger, per esempio, il movimento ribelle del Mend tiene costantemente sotto scacco le truppe governative e le grandi compagnie petrolifere. Ma in questo caso si tratta di un soggetto che non ha nulla a che fare con l’Islam. Il terzo e ultimo elemento riguarda la ricchezza di risorse in idrocarburi offerte dal sottosuolo. La presenza delle compagnie petrolifere straniere è vista come fumo negli occhi per l’intero Paese, il quale si sente vittima di una nuova espressione di colonialismo. I gruppi armati promotori del jihad, quindi, hanno trovato un contesto ottimale dove intervenire.
Quella nigeriana è una società divisa e connotata da focolai di guerriglia nel suo interno. È inoltre povera, ma mossa da un forte desiderio di emancipazione. Facile, di conseguenza, far passare la Guerra santa come un elemento di revanscismo per contrastare la presennel mondo. Ma - a differenza di quanto fanno le diplomazie internazionali - il papa non si lamenta del terrorismo e non si ferma solo a piangere. Egli domanda che, «malgrado le difficoltà e le minacce», i governi medioorientali garantiscano la sicurezza alle minoranze e piena cittadinanza ai cristiani; chiede che i libri di testo delle scuole - soprattutto
famigerata legge sulla blasfemia.Richieste precise anche alla Cina: il papa rifiuta il “monopolio dello Stato sulla società” ed esige per «le comunità cattoliche la piena autonomia di organizzazione e la libertà di compiere la loro missione, in conformità alle norme e agli standards internazionali in questo campo». E quasi a suggerire a Pechino un
L’affondo di Ratzinger: «Come negare il contributo delle grandi religioni allo sviluppo della civiltà? La sincera ricerca di Dio ha portato ad un maggiore rispetto della dignità dell’uomo» in Arabia Saudita - siano purificati da espressioni di odio; esige che lì dove esistono lavoratori cristiani (negli Emirati o nella stessa Arabia Saudita), «la Chiesa cattolica possa disporre di adeguate strutture pastorali» per la loro cura. Con la stessa nettezza, chiede al governo pakistano non di emendare, ma di “abrogare” la
modello, Benedetto XVI cita l’esempio di Cuba, dove da oltre 75 anni vi sono relazioni diplomatiche con il Vaticano. (Più oltre cita anche la positiva esperienza con il Vietnam, le cui autorità hanno «accettato che io designi un Rappresentante»). Il papa punta il dito anche sull’occidente dove in nome di una falsa tolleranza e
pluralismo «la religione subisce una crescente emarginazione. Si tende a considerare la religione, ogni religione, come un fattore senza importanza, estraneo alla società moderna o addirittura destabilizzante, e si cerca con diversi mezzi di impedirne ogni influenza nella vita sociale».
Questo Abc dell’attuazione della libertà religiosa ha uno scopo preciso: «ribadire con forza che la religione non costituisce per la società un problema, non è un fattore di turbamento o di conflitto». Al contrario, «come negare il contributo delle grandi religioni del mondo allo sviluppo della civiltà? La sincera ricerca di Dio ha portato ad un maggiore rispetto della dignità dell’uomo». Il pontefice scongiura che «nessuna società umana si privi volontariamente dell’apporto fondamentale che costituiscono le persone e le comunità religiose» e cita l’esempio di Madre Teresa che mostra «al mondo quanto l’impegno che nasce dalla fede sia benefico per tutta la società». Infine, vale la pena ricordare il richiamo che il papa fa alla stessa diplomazia vaticana: «L’attività dei Rappresentanti Pontifici presso Stati ed Organizzazioni internazionali è ugualmente al servizio della libertà religiosa». Nunzi e rappresentanti vaticani non sono dunque chiamati solo a mediare o attutire tensioni, ma ad impegnarsi a garantire la libertà religiosa per i cristiani e per tutti.
Una chiamata all’azione dell’Italia affinché «si muova e si faccia promotrice di iniziative presso la Ue e la comunità internazionale per fermare le violenze» è stata chiesta da Rocco Buttiglione raccogliere le redini di un Paese economicamente forte - al punto da nutrire velleità di superpotenza regionale - ma socialmente allo sbando. Non basta il petrolio infatti per emancipare la popolazione nigeriana dalla propria indigenza. Il 70% dei 150 milioni di abitanti vive sotto la soglia di povertà. Il Plateau tuttavia, ma soprattutto Jos, sembrano in controtendenza. Sulla base della tradizione del colonialismo britannico - la città a suo tempo era meta di villeggiatura dei ricchi inglesi trapiantati in Nigeria - lo Stato ha vissuto un periodo di urbanizzazione e di relativo sviluppo.
Questo ha favorito l’immigrazione di numerose famiglie cristiane, che hanno cercato di far attecchire un’agricoltura estensiva, la quale è andata a rovinare i pascoli, unica fonte di sostentamento per molte tribù nomadi e musulmane. Ecco che appunto emerge la poliedricità delle violenze che piegano la Nigeria. Tuttavia, per quanto non si possa parlare solo di scontro etnico-religioso, il fondamentalismo islamico ha saputo sfruttare queste frizioni e trasformarle in spazi di manovra per i propri obiettivi.Tre sono le ragioni strutturali che hanno favorito la presenza di gruppi jihadisti. Prima di tutto il 95% della popolazione nigeriana è musulmano. Il Corano quindi costituisce un elemento
za degli “infedeli” nel Paese. La posizione geografica della Nigeria per il terrorismo islamico in Africa è strategica. Fuori dalle rotte dell’immigrazione clandestina del Sahara, è comunque un avamposto sul Golfo di Guinea. Il Jihad qaedista sta cercando di penetrare nel Paese da nord e da est, attraverso il Niger e il Ciad. In particolare, stiamo parlando di due realtà operative: il Boko Hanar e lo Yan Kala Kato. Il nome del primo significa “La cultura occidentale è un peccato”. Per alcuni osservatori, si tratta di una cellula di alQaeda. Alla fine del 2009, si era giunti a parlare dei suoi militanti come dei “talebani nigeriani”. Secondo altre analisi, Boko Hanar sarebbe né più né meno che una banda disordinata di criminali, di cui non si può stimare la forza in termini di uomini. La Jama’atul Nasril Islam, l’organizzazione islamica rientrante nel novero della politica istituzionale di Abuja, ne ha sconfessato l’ideologia. Notizie altrettanto frammentarie si hanno in merito allo Yan Kala Kato. L’organizzazione è stata fondata all’inizio degli anni Ottanta, da Muhammadu Marwa Maitatsine. A suo tempo i promotori dichiararono guerra a tutti coloro che non credono nei precetti fondamentalisti della Shari’a. Oggi, è ovvio pensare che, in questi progetti, il cristianesimo locale sia il primo nemico con abbattere.
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Spy story cinese per la Renault
Assange, processo il 7 e 8 febbraio
PARIGI. La spy story industriale della Renault si ingarbuglia sempre di più e crea di nuovo tensione tra i già tesi rapporti tra Pechino e Parigi. Mentre la Cina respinge tutte le accuse di aver cercato di impossessarsi di alcuni progetti di auto elettrica, i funzionari della casa automobilistica francese sospesi dalle loro funzioni perché accusati di essere complici nel caso di spionaggio dichiarano di essere solo delle vittime. I tre manager Renault sono sospettati di aver divulgato informazioni preziose sulle auto elettriche della casa automobilistica. L’ipotesi della pista cinese è spuntata venerdì scorso su Le Figaro e i servizi segreti francesi hanno preso molto sul serio la vicenda.
LONDRA. Se Julian Assange venisse estradato negli Stati Uniti potrebbe rischiare la pena capitale. Lo affermano gli avvocati difensori del fondatore del sito WikiLeaks nella memoria presentata ieri al tribunale di Londra che il 7 febbraio prossimo si esprimerà sulla richiesta di estradizione verso la Svezia, dove Assange è ricercato per stupro e violenza sessuale. «C’è un rischio reale che, se estradato in Svezia, gli Usa potrebbero portarlo in America, dove c’è la possibilità che sia rinchiuso nella prigione di Guantanamo» senza che sia rispettato l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, affermano i legali. Assange è in libertà vigilata dopo aver versato una cauzione di 288mila euro.
L’alluvione flagella l’Australia BRISBANE. Non dà tregua il diluvio che da settimane sta sommergendo il nordest dell’Australia, in un’area grande quanto Francia e Germania messe insieme. Dopo uno “tsunami interno” nella cittadina di Toowoomba che ha ucciso almeno nove persone, la piena delle acque avanza verso la costa e sta raggiungendo Brisbane, capitale del Queensland, sulla costa orientale. La città di due milioni di abitanti si prepara ad affrontare la più grave inondazione dal 1893. Migliaia di persone hanno abbandonato i sobborghi più esposti e decine di famiglie hanno preso rifugio nei centri preposti. La polizia ha ordinato l’evacuazione del centro città. Ad aggravare il disastro le difficoltà di comunicazione.
Viaggio nel regno più opaco del pianeta, dove non c’è un cinema e i governanti rifiutano la democrazia. Ma qualcosa si muove
Le (timide) riforme di Re Abdullah L’Arabia Saudita tenta di aprire a un islam più aperto e tollerante di Daniel Pipes l primo gennaio 1996, Abdullah bin Abdulaziz è diventato il reggente e il vero governante dell’Arabia Saudita. Il suo quindicesimo anniversario offre l’opportunità di rivedere i cambiamenti avvenuti in seno al regno sotto la sua leadership per capire dove essa è ora diretta. Il suo è probabilmente il Paese più strano e opaco del pianeta, un luogo privo di un cinema pubblico, dove le donne non possono guidare, dove gli uomini vendono la lingerie femminile, dove un sistema di autodistruzione dotato di un solo pulsante potrebbe annientare le infrastrutture petrolifere e dove i governanti disprezzano perfino la patina della democrazia. In questo luogo sono stati sviluppati alcuni meccanismi estremamente originali e apprezzati per mantenere il potere. Tre tratti definiscono il regime: controllare le città sante della Mecca e di Medina, aderire all’interpretazione wahhabita dell’Islam e possedere di gran lunga la riserva petrolifera più estesa del mondo. L’Islam definisce l’identità, il Wahhabismo ispira le ambizioni globali, la ricchezza petrolifera finanzia le imprese. Più acutamente, la ricchezza al di là della cupidigia permette ai sauditi di affrontare la modernità alle loro condizioni. Essi evitano di indossare giacca e cravatta, escludono le donne dai luoghi di lavoro e aspirano perfino a sostituire l’ora di Greenwich con quella della Mecca.
Tre tratti definiscono il regime di Abdullah bin Abdulaziz: controllare le città sante della Mecca e di Medina, aderire alla interpretazione wahhabita dell’islam e possedere di gran lunga la riserva petrolifera più estesa del mondo
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Non molti anni fa, il dibattito principale che teneva banco nel regno era quello tra le versioni monarchica e talebana del Wahhabismo, ossia un’interpretazione estremistica dell’Islam contro una fanatica. Ma oggi, grazie in gran parte agli sforzi compiuti da Abdullah per «contenere lo zelo wahhabita», il Paese più retrogrado ha compiuto alcuni passi cauti per unirsi al mondo moderno. Questi sforzi hanno parecchie dimensioni, dall’istruzione dei bambini ai meccanismi per selezionare i leader politici, ma forse quello più cruciale è la
Siria, la pena per chi uccide una donna colpevole di sesso illecito passa da 2 a 5 anni
Il delitto d’onore secondo Assad l presidente siriano Bashar Al Assad ha modificato la legge che prevedeva una condanna di soli due anni per coloro che si erano macchiati dell’assassinio di un parente accusato di aver fatto “sesso illecito”. D’ora in poi, la pena per i delitti d’onore comporterà invece dai cinque ai sette anni di carcere. La decisione di Assad ha ricevuto il plauso degli attivisti, secondo i quali ogni anno, in questo Paese, circa 150-200 donne vengono uccise dai loro parenti al fine di preservare l’onore della famiglia, fenomeno molto diffuso soprattutto nelle zone rurali. Basam Al Qadhi, direttore dell’Osservatorio siriano sulle donne ha però già criticato la nuova legge, sostenendo che è ancora troppo
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indulgente e chiedendo che la pena minima sia almeno di 15 anni. Fermo restando che stiamo parlando di un omicidio e che la pena dovrebbe essere molto, ma molto maggiore, un dato va segnalato. Lo scorso luglio Assad era già intervenuto sulla questione emanando un decreto legislativo sostitutivo dell’art. 548 del codice penale, che esentava i perpetratori di delitti d’onore da qualsiasi condanna, e introducendo una pena di almeno due anni di carcere per gli uomini giudicati colpevoli di aver ucciso o ferito parenti di sesso femminile per motivi di onore. Dunque, a distanza di sei mesi, ha inasprito ulteriormente la pena, mandando così un segnale paradossalmente positivo. Detto questo, l’altro
lato della medaglia non è cambiato, visto che non è stato apportato alcun emendamento ad altri articoli del codice penale che prevedono riduzioni di pena per i reati ritenuti essere stati commessi in nome dell’onore. E che le donne hanno continuato a vedersi negata la parità rispetto agli uomini in ambito legislativo, in special modo in riferimento alla legge sullo status personale in materia di matrimonio e di eredità. Le leggi sullo status personale o il diritto di famiglia sono una fonte di contese in molti paesi arabi. Ci sono gruppi di leggi che governano la famiglia, il matrimonio, il divorzio e la custodia dei figli che spesso delineano posizioni particolarmente vessatorie (l.a.) per donne e bambini.
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e di cronach
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
Tunisia, si aggrava il bilancio degli scontri: almeno 50 morti
Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri
TUNISI. Continua ad aggravarsi il bilancio degli scontri tra manifestanti e forze dell’ordine che da giorni si susseguono in Tunisia. Anche il ministero dell’Interno ha ammesso altri quattro morti, risalenti a lunedì, che hanno così portato a 18 il computo ufficiale. Ma la situazione sarebbe ancora più grave: secondo il principale sindacato nazionale Ugtt, negli ultimi tre giorni avrebbero perso la vita oltre 50 persone soltanto nella regione centrale di Kasserine; una cifra analoga era stata già indicata dalla Federazione Internazionale per i Diritti Umani, organizzazione con sede a Lione che raggruppa 164 movimenti umanitari, e che è presieduta dal tunisino Souhayr Belhassen. Di decine di morti ha parlato anche Amnesty International. Ieri a Tunisi l’atmosfera appariva peraltro relativamente tranquilla, in conseguenza della chiusura a tempo indeterminato di scuole e atenei ordinata dal presidente Zine al-Abidine Ben Ali. Il
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)
discorso del capo dello Stato che ha denunciato «atti teroristici» nelle proteste di piazza ha però innescato ulteriori tensioni in varie città, tra cui el-Kef e Gafsa, dove la polizia ha usato i lacrimogeni per disperdere la folla inferocita. Nella capitale le strade sono per lo più deserte, in quanto pochi cittadini si sono recati al lavoro. Mentre è forte lo scetticismo sulla promessa di Ben Ali di creare 30mila posti di lavoro entro il 2012 per contrastare la disoccupazione.
Da sinistra: il presidente siriano Bashar al-Asad, l’haji alla Mecca e una donna mediorientale
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato
battaglia esistente tra gli ulema, i teologi islamici, che si dividono tra riformatori e integralisti. I termini arcani di questa disputa sono difficili da seguire per le persone esterne. Per fortuna, Roel Meijier, uno specialista olandese di Medioriente, nel suo articolo Riforme in Arabia Saudita: Dibattito sulla segregazione tra sessi, ci offre un valido vademecum sugli argomenti dibattuti. Egli dimostra come la promiscuità dei sessi (ikhtilat in arabo) ispira un dibattito essenziale per il futuro del regno e ci mostra come tale dibattito si sia sviluppato.
Molti sauditi sono stufi dell’ingerenza che le autorità religiose hanno nella loro vita e sono diventati anticlericali
Meijier osserva che l’odierna rigorosità riguardo alla separazione dei sessi rispecchia meno un’antichissima consuetudine piuttosto che il successo del movimento Sahwa in seguito a due traumatiche vicende del 1979: la rivoluzione iraniana e la presa di ostaggi all’interno della Grande Moschea della Mecca da parte di fanatici radicali alla Osama bin Laden. Quando Abdullah ascese ufficialmente al trono a metà del 2005, introdusse una normativa mitigata: quello che i critici chiamano discriminazione sessuale. Due episodi fondamentali verso una maggiore promiscuità dei sessi sono accaduti nel 2009: a febbraio si è verificato un cambiamento agli alti vertici del personale governativo e a settembre c’è stata l’apertura della King Abdullah
University of Science and Technology (nota come Kaust), con le sue classi miste e perfino i balli a cui partecipano ragazzi e ragazze. Ne è conseguito un dibattito sull’ikhtilat con tanto di tenzoni tra membri della famiglia reale, figure politiche, ulema e intellettuali. «Sebbene la posizione delle donne sia migliorata a partire dall’11 settembre, l’ikhtilat demarca le linee tra riformisti e conservatori (vale a dire gli integralisti). Ogni tentativo di mitigare la sua applicazione è visto come un attacco diretto alla posizione dei conservatori e dell’Islam stesso». Majier conclude il suo studio sul dibattito osservando che «è estremamente difficile stabilire se le riforme abbiano successo e se siano i progressisti oppure i conservatori a
trarne profitto. Sebbene la tendenza generale sia a favore dei riformisti, la riforma è frammentaria, esitante, incerta e incontra una forte resistenza». Il Paese sotto Abdullah ha promosso un Islam più aperto e tollerante, ma come arguisce Meijer: «è ovvio, come si evince dal dibattito sull’ikhtilat che la battaglia non è stata vinta. Parecchi sauditi sono stufi dell’eccessiva ingerenza che le autorità religiose hanno nella loro vita e si può perfino parlare di un movimento anticlericale. Tuttavia, i progressisti parlano una lingua incomprensibile al mondo del wahhabismo ufficiale e alla maggioranza dei sauditi, ed è pertanto improbabile che li influenzino».
In breve, gli arabi si trovano in mezzo al dibattito, con il futuro corso della riforma finora imprevedibile. Non solo l’elite e l’opinione pubblica hanno un ruolo in ciò, ma a complicare le cose vi sono molte attese legate agli imprevisti dovuti alla longevità e ai personaggi: in particolare, quanto tempo ancora rimarrà al potere l’86enne Abdullah e se gli succederà il sofferente principe ereditario, e suo fratellastro, Sultan bin Abdulaziz, di 82 anni. Poiché l’Arabia Saudita è uno dei Paesi musulmani più influenti al mondo, la posta in gioco è alta, e non solo dentro il regno, ma per l’Islam e i musulmani in generale. Dunque, questo dibattito merita tutta la nostra attenzione.
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grandangolo Dodici mesi fa il terremoto uccideva 220mila persone
Il futuro non è mai cominciato. Port au Prince un anno dopo Dopo tre giorni di scosse ininterrotte è arrivato l’uragano Tomas e soprattutto il colera, portato dai Caschi blu dell’Onu. L’epidemia ha scatenato l’odio e la caccia all’untore, in una società di bande armate. Mentre la ricostruzione stenta ad avviarsi, i fondi del mondo occidentale non arrivano: nessuno è in grado di gestirli con onestà di Martha Nunziata odici gennaio 2010: il terremoto più devastante che abbia mai colpito una singola nazione negli ultimi secoli, 220mila morti e un milione e mezzo di sfollati, quasi un quarto dell’intera popolazione. 5 novembre 2010: l’uragano Tomas uccide sei persone, allagando zone dell’isola che portano ancora i segni del sisma. In mezzo, da agosto ad oggi, l’epidemia di colera: 157mila persone contagiate, 3500 morti. L’emergenza, ad Haiti, non finisce mai. Stefano Zannini, capo missione sull’isola di Medecins Sans Frontieres, fornisce dati impressionanti: «Nell’ultima settimana è morto di colera un haitiano ogni 30 minuti». L’epidemia, anche se ha avuto inizio in un’area non direttamente coinvolta dal terremoto, si è diffusa velocemente in tutti e dieci i dipartimenti del Paese, complici le scarsissime condizioni igieniche nelle quali sopravvive la maggior parte della popolazione haitiana. Un’emergenza sanitaria, l’ennesima, che ha convinto il segretario generale dell’Onu, Ban Kimoon, ad affidarsi ad una task force di esperti per stabilire l’origine del contagio di una malattia che, sull’isola, era stata debellata più di un secolo fa. Una decisione, quella dell’Onu, presa per mettere fine alla ridda di ipotesi che si sono rincorse in maniera incontrollata, dall’eventualità che il contagio possa essere partito dal campo nel quale è alloggiato il contingente nepalese della missione umanitaria “Minustah” fino alle
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spiegazioni che investono direttamente la cultura e la religione locale, un melting pot tra cristianesimo, protestantesimo ed il voodoo. Haiti è l’unico paese al mondo, assieme al Benin, nel quale il voodoo è ufficialmente riconosciuto come religione, e una parte degli haitiani legati a questi riti crede che i sacerdoti voodo siano gli untori della malattia: nel periodo di dicembre sono state uccise a colpi di machete e di pietre più di 50 persone.
Un’altra parte degli haitiani crede che il colera sia arrivato da fuori: si sono registrati casi di infezione ad ottobre nella valle dell’Artibonite, duecento chilometri a nord di Port-au-Prince, nei villaggi a valle di una base dove era appena arrivato un continente di Caschi Blu del Nepal, paese dove il colera è endemico. Ma è anche vero che in situazioni di estremo degrado, dove ci sono servizi igienici solo per il 30% della popolazione, in base ai dati Unicef, e con carenza delle minime regole di igiene, il colera si diffonde con una velocità impressionante. Le strutture mediche haitiane, in un primo momento, non erano preparate a questa emergenza sanitaria. Nella prima fase dell’epidemia, proprio per le strutture poco adeguate di Haiti, si è perso molto tempo, per dare istruzioni e
per intervenire con le medicine di base e per contenere il propagarsi del colera. Intanto, però, ad un anno di distanza dal sisma, molto è stato fatto, ma molto resta ancora da fare, come conferma il rapporto sul terremoto pubblicato dall’Unicef ad un anno di distanza dal sisma che sconvolse la parte più povera dell’isola caraibica (a Santo Domingo non ci sono stati praticamente danni). Un rapporto che si apre con le parole di Anthony Lake, il direttore esecutivo: «Nel corso dell’ultimo anno, la popolazione di Haiti ha fronteggiato sfide enormi, dal devastante terremoto che
stenitori che stanno dando una mano per ricostruire Haiti. Nel 2011, dobbiamo riaffermare il nostro comune impegno per costruire un futuro migliore per tutti i bambini di Haiti».
Haiti, soprattutto per centinaia di migliaia di bambini, era diventata un inferno. Eppure, grazie all’intervento dell’Unicef, di Medici Senza Frontiere, delle decine di Ong che da un anno hanno sposato progetti umanitari finanziati da stati e da privati, molti di loro, adesso, possono sperare di ritrovare il sorriso. Rileggendole ancora adesso, dopo 365 giorni, e pure nella freddezza di un documento ufficiale, le cifre di quella tragedia immane fanno impressione: oltre 220mila morti, solo a causa del sisma, e un numero imprecisato di famiglie distrutte, con effetti diretti su 750mila bambini. Ancora oggi, secondo i dati del rapporto, sono più di un milione gli sfollati che vivono in campi sovraffollati dove le condizioni di vita, gli alloggi e i servizi sono a malapena sufficienti per garantire ai bambini buone condizioni di salute. Haiti è uno dei paesi più poveri del mondo (già prima del terremoto era al 149esimo posto, su 162 paesi, nell’indice di sviluppo), l’80% della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno, il tasso di disoccupazione sfiora il 70%, e la metà
BISOGNI UMANITARI PER IL 2011
Totale:157 milioni di dollari USA ha cancellato centinaia di migliaia di vite, all’epidemia di colera, alle alluvioni. Ho visto in prima persona l’eroismo quotidiano dei cittadini di Haiti e dei so-
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Parla Roberto Salvan, direttore generale di Unicef Italia
Istruzione, sicurezza, acqua potabile e cibo: per il 2011 servono 157 milioni di dollari
degli abitanti con meno di 18 anni non riceve un’istruzione adeguata, o non la riceve nemmeno. Proprio sul diritto all’istruzione si è concentrato parte dell’intervento dell’Unicef che ha, in qualche modo, cercato di porre rimedio ad una situazione che il terremoto, in realtà, ha solo mostrato al mondo intero. Già tra gennaio e marzo, in piena emergenza post sisma, gli operatori dell’Unicef e i loro partner avevano lavorato senza sosta affinché i bambini colpiti dal terremoto potessero ritornare nelle
Terra poverissima, dove oggi l’80% della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno e la disoccupazione sfiora il 70% loro classi alla riapertura delle scuole in aprile. Un impegno esteso in tutto il paese all’inizio dell’anno scolastico 2010/2011: “Tutti a scuola”. Lavorando con i partner locali e con il settore privato, l’Unicef ha assicurato, al culmine dell’emergenza provocata dal terremoto, che oltre 680mila persone avessero accesso a fonti di acqua potabile attraverso il trasporto su strada dell’acqua e sta concentrando gli interventi per trovare soluzioni più sostenibili ed investimenti in sistemi rurali di sviluppo idrico e sanitario e promozione dell’igiene nel contesto del colera. L’Italia, come sempre in circostanze tragiche, è stata in prima fila negli aiuti fin dai momenti successivi al sisma: «Abbiamo stanziato immediatamente un contributo economico importante, circa 70 milioni di euro», ha ribadito ieri il ministro Frattini in un’intervista al Tg1, sot-
tolineando, però, quanto sia necessario un sistema di controllo sui fondi. «È necessario lavorare per la ricostruzione immediata dello Stato caraibico. Enormi quantità di denaro sono state promesse e a volte messe a disposizione ma non spese perché mancano procedure di controllo che diano rassicurazioni agli enti eroganti», ha spiegato Frattini, riferendosi in particolare ai fondi erogati da Onu, Usa e Ue, istituzioni che richiedono rigorosi meccanismi di controllo. «Chi ha promesso il denaro deve vederlo speso in tempi rapidi», ha poi ribadito il ministro a margine di un incontro con la stampa alla Farnesina. «Il denaro non manca, mancano purtroppo regole soddisfacenti per poterlo spendere», ha concluso. Sulla stessa lunghezza d’onda il console onorario ad Haiti, Giovanni De Matteis, il quale ha descritto la situazione sull’isola come ancora «catastrofica, con un milione di persone che vivono ancora nelle tende, e con la campagna elettorale (il ballottaggio, originariamente in programma il 16 gennaio è stato rinviato a fine febbraio, ndr) che ha portato via tutti gli aiuti destinati alla popolazione. Sarebbe necessaria - ha detto ancora De Matteis - una commissione di controllo in grado di stabilire dove finiscono i soldi destinati agli aiuti».
Una Commissione per la ricostruzione, in realtà, ad Haiti esiste: formata da 15 esperti internazionali e 15 rappresentati della società civile haitiana (il copresidente è Bill Clinton, inviato speciale dell’Onu) è stata istituita il 31 marzo dell’anno scorso, e si è riunita tre volte in dieci mesi, approvando una quantità enorme di progetti, già finanziati. Rimasti tutti sulla carta, per mancanza di fondi, nonostante l’enorme quantità di denaro promesso per la ricostruzione (a differenza degli aiuti per l’emergenza sanitaria post-terremoto, destinati alle Ong e regolarmente spesi). La realtà, ad un anno di distanza dal sisma, è che, ancora oggi, Haiti non è in grado di progettare il proprio futuro da sola.
ROMA. Ad un anno esatto dal devastante terremoto di Haiti abbiamo parlato con Il Direttore generale dell’Unicef Italia, Roberto Salvan, in occasione della pubblicazione del rapporto Unicef. Dottor Salvan, qual è la situazione attuale ad Haiti, dopo il terremoto e tutti gli eventi catastrofici che hanno devastato Haiti? Già prima del 12 gennaio del 2010, Haiti era nell’elenco dei Paesi più poveri del mondo, con una situazione economica, sociale e politica disastrosa, con le istituzioni inesistenti. Gli haitiani sono più di 8 milioni e mezzo, con quattro milioni di loro, da 0 a 18 anni, che vivono allo stremo: il 19% dei bambini non arriva ai 5 anni di vita. Oltre alla povertà, il popolo soffre per l’instabilità politica, ormai da decenni. Ad Haiti c’è molta violenza, il pericolo è soprattutto per le donne, che ogni giorno subiscono violenze sessuali, secondo Amnesty International. Ci sono molte bande armate in tutto il territorio e questa situazione impedisce la fase di ricostruzione. Tutte le Organizzazioni umanitarie presenti sul territorio devono viaggiare con la scorta, c’è una forza militare delle Nazioni Unite per tutelare la popolazione civile. Noi abbiamo garantito a 750mila bambini l’accesso alla scuola, con la fornitura di materiale didattico e con la formazione di 15mila insegnanti: insieme ai nostri partner, abbiamo permesso la riapertura delle scuole. Poi abbiamo creato negli accampamenti 370 luoghi e postazioni, vicini ai villaggi o alle cittadine, spazi sicuri a dimensione di bambino dove è possibile giocare protetti dalla violenza della strada, dove i bambini possono dimenticare gli orrori di questo terremoto. Come sono stati utilizzati dall’Unicef i fondi raccolti? L’Unicef ha raccolto complessivamente 309 milioni di dollari, frutto di 125 donatori, tra i quali i Comitati nazionali per l’Unicef (sostenitori privati e aziende) che rappresentano il 70% dei fondi, i governi il 25% e le organizzazioni inter-governative. Attraverso i contributi dei singoli governi donatori sono già stati spesi 186 milioni in questo primo anno, ma per il prossimo occorreranno molte più risorse. Come paesi donatori si parlava di due miliardi e 100 milioni di dollari, che non sono mai arrivati,
molte promesse di denaro da parte di paesi ed organizzazioni che però poi non sono stati spesi sul territorio. Noi invece nel nostro rapporto indichiamo come sono stati spesi questi 309 milioni di dollari. Noi come Unicef-Italia abbiamo inviato più di 7 milioni di euro. Per il 2011 la somma necessaria per far fronte ai bisogni umanitari ammonta a 157 milioni di dollari, ma senza un governo stabile sarà molto difficile il nostro intervento. La comunità internazionale non si deve scordare di questa povera gente, non deve voltare lo sguardo altrove. Noi lotteremo per garantire per il prossimo anno la salute tramite l’acqua potabile e la nutrizione, la costruzione di bagni, servizi igienici, creare una rete idrica permanente e non più solo con le autobotti ma con un normale acquedotto. Senza dimenticare l’istruzione e la sicurezza dei bambini. Il futuro per un bambino è scuola, gioco, essere protetti da ogni forma di violenza. Questo è l’inizio della ricostruzione per Haiti. Esiste ancora il problema delle adozioni irregolari? I controlli, adesso, sono ancora più difficili. Il traffico irregolare dei bambini, negli anni passati, era una triste realtà: la stima che facevano le organizzazioni umanitarie era di circa 2mila bambini all’anno adottati irregolarmente. Attualmente le adozioni sono bloccate, non essendoci di fatto né il governo né l’ufficio preposto alle adozioni internazionali. Le Nazioni Unite ed in particolare l’Unicef hanno chiesto al governo di Haiti, appena sarà insediato, di poter riprendere le procedure per le adozioni internazionali regolari, nel rispetto della convenzione dell’Aja. Purtroppo, però, molte case-famiglia e istituti non riconosciuti continuano a portare avanti delle pratiche irregolari di adozione internazionale. L’Unicef, insieme alla polizia, ed insieme agli altri partner che lavorano sul territorio, ha costituito delle task force al confine con la Repubblica Domenicana e all’aeroporto internazionale di Haiti per limitare questo traffico irregolare. In questi mesi sono stati intercettati alcuni bambini che non avevano tutte le carte in regola, accompagnati da adulti che non erano né i genitori né (m.n.) parenti.
ULTIMAPAGINA Il personaggio. Scomparsa ieri a Roma, all’età di 79 anni, la giornalista cinematografica Lietta Tornabuoni
Addio alla gran dama della di Gabriella Mecucci ietta Tornabuoni, morta ieri a Roma a 79 anni, faceva parte di quel gruppo speciale di nonne giornaliste - “poche ma buone” - che si affermarono negli anni Sessanta e Settanta. I nomi sono arcinoti, si tratta di veri e propri “mostri sacri”: da Oriana Fallaci a Camilla Cederna, da Adele Cambria a Natalia Aspesi. Sino a Giulietta, diciottenne proveniente da Pisa, famiglia di militari con ascendenze aristocratiche, che comincia la carriera da uno dei luoghi più caratteristici della sinistra e dell’emancipazione femminile: Noi Donne, settimanale dell’Udi, associazione molto vicina al Pci e al Psi. Le donne giornaliste allora erano rare e per affermarsi dovevano essere forti e bravissime. Alcune tirarono fuori le unghie e graffiarono, altre conservarono il loro modo di fare signorile, distaccato, e si avvalsero della battuta pungente. Giulietta, diventata ormai Lietta, era di questa seconda specie. Non ha mai disdegnato la cronaca, ha qua e là scritto anche commenti di politica, dai quali trapelava la sua vicinanza alla sinistra, ma il suo “regno”è stato il cinema. È lì che si è esercitata per cinquant’anni. È lì che ha fatto opinione tanto che la rete è piena delle sue recensioni e di dialoghi che partono dalla domanda: sei d’accordo con quanto scrive la Tornabuoni? Sino all’ultimo ha fatto sapere la sua opinione con precisione e senza peli sulla lingua. Era la storica critica cinematografica della Stampa, nonché collaboratrice dell’Espresso. Al quotidiano torinese era approdata nel ’70 e non l’aveva più abbandonato, fatta eccezione per tre anni - fra il ’75 e il ’78 - quando lavorò al Corriere della Sera. In una delle sue più recenti recensioni, scritta per la sua rubrica sul quotidiano, si era occupata del film di Eastwood, Hereafter di cui aveva parlato in modo entusiastico: la pellicola affronta proprio il tema della morte e del dopomorte. Lietta Tornabuoni aveva scritto che il grande Clint questa volta «si mi muoveva sui cristalli», ma che era riuscito a superare brillantemente la prova. Pochi giorni dopo aver vergato questo giudizio, anche lei si trovò davanti a una terribile prova, non edulcorata per giunta dalla ficton cinematografica. Prima di Natale infatti è stata ricoverata in ospedale per un malore che l’aveva colpita durante una proiezione. Sono seguiti una ventina di giorni di Un’immagine di Lietta ricovero nel corso dei Tornabuoni quali ha avuto più di un e, qui sopra, le locandine arresto cardiaco. Semdi “2001, Odissea nello spazio” (sua prima recensione) e di “Hereafter” (l’ultima)
L
CRITICA brava avercela fatta ma ieri il cuore si è fermato definitivamente. Giulietta Tornabuoni era nata nel ’31 a Pisa da un’antica famiglia aristocratica (basti citare il Palazzo Tornabuoni di Firenze). Si era sposata giovanissima e trasferita a Roma. Qui nel ’49 aveva iniziato a collaborare con Noi Donne. Nel ’56 si trasferì a Novella, poi all’Espresso e all’Europeo. Infine nel ’70 arrivò alla Stampa. Da allora, pur non trascurando di cimentarsi anche con altri temi, si occupò in modo sistematico di cinema. Del resto con l’arte aveva avuto una notevole confidenza sin da giovanissima: il fratello Giovanni era un importante esponente della “pittura figurativa” e i due avevano avuto un dialogo continuo e profondo.
tanto è vero che il suo saggio più bello è Sorelle d’Italia, un racconto del ruolo e del profilo diverso assunto dalle donne dopo il ’68. Non trascurava nemmeno la tivù: ha pubblicato Album di famiglia della televisione. E quando andava come inviata ai grandi Festival, non si limitava solo a mandare le recensioni degli spet-
Nata nel ’31, si sposò giovanissima e si trasferì a Roma dove iniziò a lavorare a “Noi Donne”. Nel ’56 passò a “Novella” e all’“Espresso”. Nel ’70 arrivò a “La Stampa”, dove ha lavorato fino a oggi, tranne per una parentesi al “Corsera” (’75-’78)
Lietta diventò famosa grazie alle sue recensioni in genere brevi, che contenevano giudizi netti, che consigliavano senza troppi complimenti quale film andare a vedere e quale evitare. Si trattava insomma di un vero e proprio “servizio al lettore”.Tutti gli anni, poi, usciva un libro, Al cinema dove venivano ripresi e risistemati questi pezzi. Da questi volumi, come dalla sua rubrica traspare il fastidio verso le punte di volgarità che ormai aveva raggiunto certo cinema italiano e certa televisione e le metteva in connessione con l’egemonia berlusconiana. Ma la Tornabuoni non scriveva solo di film, amava occuparsi anche di costume,
tacoli, ma non disdegnava di scrivere brillanti pezzetti di “atmosfera”. In queste occasioni faceva “coppia fissa” con Natalia Aspesi. Le due si stimavano ed erano amiche, ma si facevano anche concorrenza: cercavano di arrivare meglio e prima sulla notizia. Non più ragazzine, ci mettevano l’impegno e l’entusiasmo d’inizio carriera. Con Oreste Del Buono, l’uomo con cui strinse un sodalizio umano e letterario, Lietta scrisse Era Cinecittà, uno dei volumi dei famosi “Almanacchi Bompiani”. Era considerata “una gran dama” del giornalismo: scrittura sciolta, cultura notevole, buone maniere, grande eleganza. E poteva permettersi anche qualche piccolo capriccio come quello di scrivere sempre da casa senza andare mai in redazione. O come quello di non aver mai consentito che cambiassero la foto della sua rubrica, dove appariva come una sorridente signora quarantenne, anche quando aveva ormai quasi ottant’anni. L’ultima civetteria.