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he di cronac
Diffama sempre il tuo nemico. Vedrai che qualcosa resta nella memoria della gente Francis Bacon
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MARTEDÌ 18 GENNAIO 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Sempre più grave lo scontro istituzionale sulle abitudini del Cavaliere. I fedelissimi attaccano: «Atti illegittimi»
Silvio, ti perseguiti da solo Arrivati alla Camera gli atti della procura: ecco tutte le accuse «Un rilevante numero di ragazze si prostituivano». Mercoledì la giunta esaminerà le carte. Il Pdl, al solito, grida alla cospirazione: ma stavolta emerge chiaramente l’irresponsabilità del premier Le prove dell’auto-complotto 1) Nessun magistrato l’ha obbligato a “cacciare” Fini dal Pdl, devastando i numeri della maggioranza e mettendo a rischio il governo del Paese (e se stesso) in un momento assai delicato.
2) Nessun magistrato l’ha obbligato ad auto-limitare la sua leadership (in favore di Tremonti) rinunciando a farsi protagonista delle riforme necessarie all’Italia; rinuncia che è la vera causa della sua crisi politica.
3) Qualsiasi persona di buon senso, dopo il “caso
Noemi” e le denunce di Veronica Lario sui rapporti con le minorenni, avrebbe cambiato registro. Soprattutto se convinto di essere vittima di una persecuzione. Lui no: una sorta di istinto autodistruttivo lo spinge a “perseverare”. E, quale che sia la verità sulle feste, non c’è dubbio che frequentava Ruby quando era ancora minorenne, intervenendo per “salvarla” dalla Questura.
DEGRADO E MACCHINAZIONI
di Errico Novi
Se la colpa è sempre degli altri
ROMA. Pochi osano ancora parlare di complotto. Anche tra i fedelissimi. Nelle dichiarazioni sull’ultimo spettacolare caso che coinvolge il premier, ci si tiene tra l’estremo atto di fedeltà e la paura. Paura che nelle carte della Procura di Milano ci sia «un invito a scomparire», come dice il guardasigilli Alfano. L’accanimento ci sarà pure, ma come negare che sia lo stesso Cavaliere a perseguitarsi da solo? a pagina 2
4) Un presidente del Consiglio che abbia a cuore se stesso e il suo Paese, non affida a Lele Mora l’organizzazione del proprio tempo libero. Allora: perché Berlusconi si vuole tanto male da complottare contro se stesso?
di Achille Serra enza assumere la difesa di alcun magistrato in particolare, né del suo specifico operato, credo, infatti, si debba analizzare cosa succede, per l’ennesima volta, di fronte agli occhi attoniti del Paese. Il copione è sempre lo stesso e il protagonista non se ne discosta mai: è ancora il solito personaggio che attribuisce tutte le colpe agli altri adducendo in ogni circostanza giustificazioni incredibili e prive di significato concreto. Nulla è cambiato; siamo ancora di fronte a colui che tenne per anni uno dei più rilevanti esponenti della mafia palermitana in casa sua spacciandolo per uno stalliere. Colui che sbandiera in ogni occasione giustificazioni inutili, che riemergono puntualmente in tutta la loro ridicola “creatività” a pagina 2
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Dai festini alle «pressioni» per salvare Ruby
Se i pa gi ne s co t ta nt i i n at t e s a de l l e tr ec e nt o Documentato il giro di prostituzione di ragazze presso le residenze del presidente del Consiglio, «dietro pagamento di denaro da parte di quest’ultimo» Franco Insardà • pagina 4
La crisi della Tunisia rischia di far esplodere una intera regione strategica
Troppo silenzio sul Maghreb Rompere l’indifferenza italiana: è in gioco il nostro futuro di Rocco Buttiglione a crisi nel Nordafrica interpella direttamente l’Italia e l’Europa per tre ragioni. La prima, perfino ovvia, è che essa offre una grande occasione all’estremismo islamico di reinserirsi e di cercare di determinare il futuro di quei Paesi, guidandoli su di un percorso di guerra santa e di confronto duro con l’Occidente. La seconda ragione è che il collasso eco-
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I QUADERNI)
• ANNO XVI •
Le ragioni economiche del disastro di Ben Ali
nomico di quei paesi alimenterebbe più forti correnti migratorie, probabilmente fortemente ideologizzate in senso antioccidentale, che sì scaricherebbero sul nostro mercato del lavoro in un momento in cui esso non è in grado di accoglierle a causa della crisi. La terza ragione è che noi stessi siamo corresponsabili della crisi.
In Tunisia è finita con la clamorosa fuga del presidente Ben Ali: dopo 23 anni di potere e meno di un mese di manifestazioni. E in molti ora si interrogano sul rischio di un contagio nel resto del mondo.
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NUMERO
11 •
WWW.LIBERAL.IT
L’inflazione mondiale è pronta al contagio di Maurizio Stefanini
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
l’editoriale
prima pagina
Problemi personali e problemi reali
pagina 2 • 18 gennaio 2011
Se la colpa è sempre degli altri di Achille Serra eri sul solito quotidiano era raffigurata l’immagine del pm di Milano Ilda Boccassini. Sotto la sua foto campeggiava il titolo «Un pm fuori controllo»: una dichiarazione secca e ricorrente, volta a richiamare di nuovo l’idea di una magistratura che agisce perseguendo obiettivi indefiniti e folli, senza regola o forse in preda a istinti «persecutori», definita persino Ilda “la rossa”, una toga malata di «protagonismo». Immagini come questa provocano in me un senso di profonda preoccupazione per il nostro Paese.
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Senza assumere la difesa di alcun magistrato in particolare, né del suo specifico operato, credo, infatti, si debba analizzare cosa succede, per l’ennesima volta, di fronte agli occhi attoniti del Paese. Il copione è sempre lo stesso e il protagonista non se ne discosta mai: è ancora il solito personaggio che attribuisce tutte le colpe agli altri adducendo in ogni circostanza giustificazioni incredibili e prive di significato concreto. Nulla è cambiato; siamo ancora di fronte a colui che tenne per anni uno dei più rilevanti esponenti della mafia palermitana in casa sua spacciandolo per uno stalliere. Colui che sbandiera in ogni occasione giustificazioni inutili, che riemergono puntualmente in tutta la loro ridicola “creatività”. È ancora lui a propinare motivazioni di ogni genere, spiegazioni con un unico comun denominatore: le tesi che declama non coinvolgono mai la sua persona, ai suoi occhi oggetto costante di sordidi complotti volti a screditarlo. Qualunque sia l’accusa, la colpa è degli altri. Il copione scatta quando la magistratura gli imputa gravi reati e lui non trova modo migliore di difendersi che accusare l’accusa stessa, ma anche quando il cofondatore del suo partito chiede di discutere e di vedere realizzati alcuni punti del loro stesso programma elettorale e viene accusato di essere un traditore. Lo stesso accade quando una moglie disperata denuncia stanca le abitudini e i vizi del marito. Cospirazioni, complotti, macchinazioni, sono le parole che ascoltiamo sempre più spesso dal nostro presidente del Consiglio, convinto da sempre di essere bersaglio privilegiato di magistratura e media, intenti a «gettare fango sulla sua persona e sul suo ruolo istituzionale» nel tentativo di «eliminarlo dalla scena politica». È ancora lui ad accusare pm e Procura di Milano di una persecuzione giudiziaria in atto nei suoi confronti da 17 anni, senza mai - mai - chiedersi se ci sia altro modo di difendersi che non lanciare sentenze verso la magistratura stessa. Senza mai pensare di potersi difendere nelle aule di giustizia a questo preposte, smascherando finalmente il famigerato complotto ai suoi danni. È allora possibile che la magistratura, da Milano a Napoli, da Roma a Palermo sia compatta nel proprio piano «persecutorio» contro di lui? Mi chiedo quando finirà questa farsa. Quanto tempo ancora la politica dovrà prestarsi a questo teatro e ascoltare lo stesso copione, che recita da anni attraverso i media di sua proprietà, nell’ambito di uno spettacolo che continua a danneggiare il Paese intero e la sua immagine nel mondo. Mi chiedo quando tornerà la speranza negli occhi di quei giovani disoccupati che si vedono depredati del loro futuro e sono costretti a vedere messi da parte i propri problemi di fronte alle questioni personali di qualcun altro, quando gli operai in cassa integrazione o le famiglie italiane attanagliate dalla crisi economica potranno intravedere segnali di cambiamento, quando si affronteranno i problemi veri del Paese nelle aule della politica e le questioni giudiziarie finalmente in quelle della giustizia, cui si tornerà a dare credito. Quando, allora, si interromperà la commedia ridicola delle congiure e dei complotti cui dobbiamo ancora assistere inermi e finalmente calerà il sipario.
il fatto Dalla notte di Casoria alla crisi del Pdl, tutte le prove dell’auto-complotto
L’autodafé del Cavaliere
Stravince nel 2008, ma poi di fatto abdica in favore di Bossi-Tremonti e caccia Fini. Intanto si inguaia con i festini e le ragazzine. Quali pm: è Silvio che perseguita se stesso di Errico Novi
ROMA. Pochi osano ancora parlare di complotto. Anche tra i fedelissimi. Nelle dichiarazioni sull’ultimo spettacolare caso che coinvolge il premier, ci si tiene tra l’estremo atto di fedeltà e la paura. Paura che nelle carte della Procura di Milano ci sia «un invito a scomparire», come dice il guardasigilli Alfano. E no, il complotto lo si nomina pure, ma con timidezza. Senza grandi tirate sui pm politicizzati. L’accanimento ci sarà, ma come negare che sia lo stesso Cavaliere a perseguitarsi da solo? A compiere ogni possibile atto, a commettere i più incredibili errori per farsi fuori? Per scomparire, appunto? C’è un cupio dissolvi, nella paradossale epopea che accompagna il presidente del Consiglio dalla sua vittoria del 2008. Qualche fuoco d’artificio iniziale, il colpaccio messo a segno con il primo blitz sui rifiuti. Poi una serie di mosse sbagliate, e di comportamenti irragionevoli, sconsiderati per un capo di governo.
Nessun magistrato ha costretto Berlusconi a cacciarsi nei guai. È nel lettone di Putin con Patrizia D’Addario il 4 novembre del 2008, la notte in cui Barack Obama conquista la Casa Bianca. E già da mesi Palazzo Grazioli è diventato in un circo. Ballerine, escort, pianisti, feste improbabili. Ogni tanto il Cavaliere si addormenta esausto. Nel frattempo lascia l’iniziativa del governo alla Lega. Il partito di Bossi consuma il potere di Palazzo Chigi. Lo divora poco alla volta. Costringe il nascente partito del premier in un’imbarazzante irrilevanza. Incredibile a dirsi: nonostante in primavera abbia colto la più consistente delle sue vittorie, Berlusconi si trova presto dimezzato. Praticamente commissariato dall’unico partito a cui concede l’alleanza, la Lega appunto.
Si era creduto che l’estrema semplificazione potesse servire al premier per tempestare il Paese con una raffica di riforme. E invece l’esclusione dell’Udc dalla maggioranza si risolve semplicemente in uno svuotamento dell’iniziativa politica. Perché? Per quale motivo il capo del governo, pur avendo l’occasione per realizzare il suo sogno rivoluzionario, preferisce di fatto defilarsi, abdicare? Il clima cortigiano nel frattempo raggiunge un’intensità parossistica. Nessuno, o quasi, osa criticarlo. O sollecitarlo a imprimere un impulso produttivo alla legislatura. I ministri sono deboli. Si profila poco alla volta un’altra leadership collegata all’egemonia del Carroccio, quella di Giulio Tremonti, l’unico dotato di portafogli nel gabinetto Berlusconi. Perché Silvio lascia che il responsabile dell’Economia prosciughi il suo potere? Cosa gli sarebbe costato assumere lui l’iniziativa, approvare sì la linea del rigore e pretendere però di arricchirla con una strategia di crescita? Anche qui Berlusconi si mette nei guai. Appunto, si perseguita da solo, e le toghe non c’entrano. Consegna il timone dell’esecutivo a Tremonti e alla Lega, concordi nel privilegiare la rotta del federalismo su qualunque altra opzione. Certo, un prezzo Berlusconi avrebbe dovuto pagarlo. Una rimodulazione dell’iniziativa politica sarebbe per forza dovuta passare per il riconoscimento di soggetti interni all’alleanza, al partito, come Gianfranco Fini. Fare politica: l’eterna croce del Cavaliere. Sarebbe stato meno faticoso però che tenersi impegnato con gli scandali, le accuse di Veronica Lario, le veline istruite con corsi da europarlamentare salvo rassegnarsi all’inopportunità di metterle in lista.
il retroscena
E nella Lega comincia la resa dei conti I «lumbàrd» vedono allontanarsi il federalismo: scoppia la guerra tra i colonnelli e i giovani di Marco Palombi
ROMA. Imbarazzato silenzio. Non è altrimenti definibile la reazione della Lega davanti all’ennesimo scandalo giudiziario-mediatico che ha investito Silvio Berlusconi proprio mentre tentava di recuperare pezzo a pezzo una maggioranza alla Camera. Il problema è che non sono solo l’oggettiva impossibilità di capire come evolveranno le cose attorno a Ruby o le preoccupazioni per il federalismo fiscale – che pure pesano assai - a bloccare il quartier generale del Carroccio, ma anche una guerriglia sorda al suo interno che oramai gli impedisce di prendere una posizione chiara su molti argomenti: il dopo-Berlusconi che ha cominciato a profilarsi questa estate dopo la cacciata di Gianfranco Fini è infatti anche, in qualche maniera, il dopo-Bossi, il collocamento cioè in una posizione puramente decorativa di un capo ferito nel corpo dall’ictus di sei anni fa e che ha giocato tutta la sua carriera politica nel rapporto col Cavaliere (sia da alleato che da acerrimo nemico, peraltro). Non è un caso, fanno notare in ambienti lumbard, che la stessa afasia abbia riguardato – con l’eccezione dell’istituzionalmente obbligato governatore piemontese Roberto Cota – anche tutta la partita dell’accordo di Mirafiori e successivo referendum. L’unica uscita pubblica della Lega, di questi tempi, riguarda la scomunica pre-
ventiva al film di Michele Placido su Renato Vallanzasca.
Torniamo a Ruby. Venerdì scorso, alla notizia della nuova imbarazzante inchiesta su Berlusconi, era stato mandato avanti il capogruppo in Senato, Federico Bricolo: «Nessuna inchiesta fermerà l’azione del governo e il percorso delle riforme», aveva sostenuto prima di dedicarsi ad attaccare i giudici che pensano “al gossip” invece che «ai criminali che nelle
Nel Carroccio non parla nessuno: è toccato a Bossi dire una parola di conforto nei confronti del premier ferito nostre città spacciano, rubano e svaligiano gli appartamenti». Roba un po’ stantia e, considerando il normale eloquio leghista, quasi una difesa d’ufficio. I lumbard, però, sanno che notizie di questo tipo non piacciono al loro elettorato: niente a paragone di un marocchino ubriaco ai giardinetti pubblici, ma insomma che un anziano signore si accompagni a ragazzine (marocchine pure loro, per di più) non marca bene nelle tradizionalissime osterie padane. È quindi Umberto Bossi, come sempre in questi casi, a dover-
Anche quando la popolarità sembra al massimo grado, il presidente del Consiglio scivola volontariamente nel mare oscuro dell’autolesionismo. È il 25 aprile del 2009, poche settimane dopo il devastante terremoto che sbriciola L’Aquila. Lui, Berlusconi, decide opportunamente di festeggiare la Liberazione a Onna, epicentro della tragedia. Si annoda al collo un fazzoletto da partigiano, spende parole mai pronunciate prima sulla Resistenza. Conquista così picchi di consenso irripetibili. Passa un giorno, una notte, e si abbandona a un’imperdonabile leggerezza: dopo una visita a Napoli dirotta le auto della scorta nella grigia steppa dell’hinterland partenopeo, destinazione Casoria, dove una sconosciuta giovane festeggia i 18 anni. Con Noemi Letizia che si rivolge al premier della sesta potenza industriale chiamandolo «papi», si apre una pagina sconcertante del berlusconismo. Molti osservatori, a cominciare dal direttore del Corriere Ferruccio De Bortoli, gli chiedono in diretta tv perché si abbandoni a simili dissenatezze, «perché farsi vedere in una festicciola di periferia in mezzo a pizzaioli vestiti con t-shirt di dubbio gusto». Nessuna risposta. Silvio insiste nell’autopersecuzione.
ci mettere la faccia: «Il governo non è a rischio», ha detto, almeno finché non passa il federalismo, e poi «con queste vicende Berlusconi guadagna voti: la gente comincia a pensare che sia davvero perseguitato». Infine, un consiglio: «Capisco Berlusconi che si arrabbia, ma è meglio lasciare perdere, lasciare stare la magistratura». Al di là di questo, però, il silenzio. Niente Calderoli – che pure nei week end in genere straparla – niente Reguzzoni, niente Castelli e niente Maroni, il quale – come ministro dell’Interno – sarebbe anche la vittima della presunta concussione del premier ai danni della Questura di Milano.
Si lavora all’approvazione del federalismo municipale, dicono da via Bellerio. «Abbiamo i voti e abbiamo convinto Tremonti a darci i soldi per i Comuni», ha spiegato Bossi. È sicuramente vero perché è proprio sui decreti attuativi del federalismo che una parte dell’opposizione –il Partito democratico soprattutto – tenta di lavorare per incunearsi tra Berlusconi e l’unico partito (compreso il Pdl) che gli è necessario, la Lega. Come detto, però, la Lega non sa come muoversi: troppe sono le faide interne allo stato maggiore del Carroccio in questo momento. La spaccatura ormai è verticale, nel senso che è in larga parte generazionale e vede contrapposti i vecchi colonnelli bossiani – Maroni, Calderoli, Castelli e il più giovane Giorgetti – alle nuove leve leghiste che circondano fisicamente il Senatùr: i capigruppo Reguzzoni e Bricolo e il figlio Renzo, in par-
ning. Berlusconi in pratica è l’unico protagonista maschile, donne arrivano soprattutto dalla Puglia, come la D’Addario, grazie a Giampaolo Tarantini, uno che si distingue per le particolari amicizie femminili e l’uso di cocaina. Altro che Saverio Vertone, Lucio Colletti, Giuliano Ferrara, Marcello Pera. Il Cavaliere ostenta ben altre frequentazioni. Anche grazie alla condiscendenza – sussurrano le voci di dentro – di alcuni tra i massimi dirigenti del Pdl. I quali si sarebbero personalmente adoperati in qualche caso nel procacciare essi stessi ragazze per i party.
Tutto questo mentre il Paese fa i conti con una crisi economica che da due anni non smette di mordere. An-
ticolare, coadiuvati dalle due donne del gruppo, l’ex sindacalista “verde” Rosi Mauro (oggi un po’ in disgrazia, pare) e la moglie del Senatùr Manuela Marrone. Il blocco che gestisce il corpo ferito del capo carismatico della Lega - e in futuro vorrebbe gestire quello inesperto (o inadeguato) del figlio prediletto detto “Trota”- è in gergo chiamato “la famiglia”. Ed è per far fronte a questo battagliero nucleo politico-affettivo che la tradizionale ed annosa guerra tra i colonnelli lombardi conosce un momento di tregua. In soldoni, Calderoli, Maroni e Giorgetti (Castelli è un po’ in difficoltà per altre ragioni) – da sempre l’un contro l’altro armati – hanno smesso di ostacolarsi a vicenda avendo intuito che il pericolo arriva dai quarantenni. Esattamente come nel Pdl, la trasmissione del potere rischia di saltare una generazione, all’ingrosso quella nata negli anni Cinquanta o, più esattamente, quella che ha guidato la Lega dai consigli comunali ai palazzi dei ministeri. In mezzo c’è tutta la partita delle nomine nelle partecipate, nelle fondazioni bancarie e – se tutto crolla – dei posti buoni nelle liste elettorali: è lì che si misura il potere ed è quello il trampolino su cui ci si lancia in alto per il dopo-Bossi. Ammesso che, a quel punto, dopo Bossi e dopo Berlusconi ci siano ancora un Pdl e una Lega.
che Fini steso aveva co-fondato. Altro scacco matto al re, compiuto dal re stesso: Berlusconi mette a rischio il governo ed è sempre più imprigionato nell’alleanza con Bossi. Il Paese, anche la parte che gli ha dato fiducia, si chiede perché il premier sprechi così ogni risorsa. Anche l’offerta di un esecutivo di responsabilità viene respinta come fosse cicuta.
Altri scandali incombono. Arriva la botta micidiale che ancora in queste ore fa vacillare il presidente del Consiglio: a fine ottobre si scopre la sua predilezione per una minorenne marocchina che si fa chiamare Ruby. È il punto più basso, toccato in particolare con la telefonata in questura in cui la giovane viene spacciata per nipote di Mubarak. La supercazzola degli Amici miei monicelliani diventa azione di governo. Lele Mora il più fidato consulente. Ma il ridicolo tracima nel dramma politico, soprattutto adesso. Si scopre che Ruby ha frequentato la villa di Arcore più volte nella scorsa primavera. Già quando il caso affiora in autunno, più di un berlusconiano sbotta: «Però se le va a cercare». Appunto. Dite che il complotto è dei pm? Mettete insieme questa terrificante sequenza di dissennatezze private e autolesionismi politici, poi date la risposta. E se pure ci fossero ragioni per riconoscere una tenace, ostinata attenzione della magistratura, questo non sarebbe che un’aggravante: perché chi sa di essere nel mirino non cerca in tutte le maniere di farsi colpire. Berlusconi invece lo fa. Mostrando che se c’è un piano segreto per farlo fuori, lui lo sta mettendo in pratica alla perfezione.
Nessun magistrato lo ha costretto a fare di Lele Mora il suo principale consulente. Se c’è una strategia per farlo fuori, lui, il presidente del Consiglio, la sta attuando alla perfezione
C’è bisogno di altro? Il caso Noemi anticipa un’altra rivelazione sul discutibile uso che Berlusconi fa del tempo libero: è Patrizia D’Addario a raccontare del giro di ragazze disponibili – e remunerate – che popola le serate di Palazzo Grazioli. La residenza romana del presidente del Consiglio, che è anche sede della presidenza del Pdl, ospita con incredibile frequenza questi happe-
ziché prendersela con la sua inavvedutezza, a fine 2009 il premier inscena una sorta di sciopero della politica: iniziativa di governo ferma in attesa di un salvacondotto che argini processi e inchieste. Qualche mese ed esplode nel Pdl il caso di un personale politico così miserabile che nel Lazio non si riesce a presentare la lista del partito. Le Regionali vanno comunque bene, certo alla Lega più che a Berlusconi: ma anziché approfittare del vento favorevole, il premier che fa? Si avvita in una suicida guerra personale con Fini. Arriva a decretarne l’incompatibilità, quindi l’espulsione di fatto dal partito
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l’approfondimento
In un freddo documento di sei pagine (che rimanda a prove, riscontri e confessioni) la sostanza dei reati contestati al Cavaliere
La parola all’accusa
«Serate allucinanti», «Siamo entrate sempre senza controlli», «Ho chiesto a Silvio cinque milioni»: ecco che cosa c’è scritto nelle carte della Procura secondo la quale «numerose giovani donne si sono prostituite per Berlusconi» di Franco Insardà
ROMA. Rispetto alla letteradenuncia di Veronica Lario mancano soltanto «le vergini che si offrono al drago». Pierluigi Castagnetti, presidente della giunta per le Autorizzazioni della Camera, fa sapere che «nelle prime ottanta pagine delle carte mandate da Milano c’è tutto quello già uscito sui giornali». Ma il faldone che la procura di Milano ha allegato alla richiesta di perquisire gli uffici del contabile di Silvio Berlusconi, Giuseppe Spinelli, è composto da 389 pagine dove sarebbero raccontate per filo e per segno le gesta di Eisa, Iris, Marystelle, Aris, Barbara, Miriam, Alessandra, Raissa, Annina, Imma, Eleonora e, naturalmente, di Ruby, di Nicole che organizzava il divertimento dell’imperatore, di case date in comodato e di usi impropri del potere pubblico.
Infatti Nicole Minetti, consigliere regionale della Lombardia e già igienista dentale del presidente del Consiglio, in concorso con Emilio Fede e Lele Mora, secondo i magistrati
milanesi, avrebbe «continuativamente svolto un’attività di induzione e favoreggiamento alla prostituzione di soggetti maggiorenni e della minore El Mahroug Karima (Ruby)». Secondo la procura la Minetti svolgeva questa attività«individuando, selezionando, accompagnando un rilevante numero di giovani donne che si sono prostituite con Silvio Berlusconi presso le sue residenze, dietro pagamento di corrispettivo in denaro da parte di quet’ultimo nonché gestendo ed intermediando il sistema di retribuzione delle suddette ragazze a fronte dell’attività di prostituzione svolta».
Ruby fu fermata e poi fatta rilasciare con l’affidamento a Nicole Minetti.
La Procura di Milano conferma che i reati imputati a Silvio Berlusconi sono quelli di «atti sessuali con minore in cambio di denaro (articolo 600 bis comma 2 codice penale) e concussione per occultare altro reato(articolo 317 e 61 del codice penale)». Quest’ultima imputazione risale alla telefonata fatta dal premier alla Questura di Milano, quando
Gli allegati consultabili soltanto dai componenti della giunta
Nella documentazione inviata alla Camera si legge che «le indagini, allo stato dei documenti raccolti, hanno altresì consentito di verificare come la minore El Mahroug Karima (Ruby ndr) abbia frequentato la residenza di Silvio Berlusconi in Arcore dal febbraio 2010 al maggio 2010 (annotazione formata a cura del Servizio Centrale Operativo recante la data del 9 dicembre 2010,
contenente l’analisi delle celle radio-base agganciate dalle utenze in uso a El Mahroug Karima nel periodo suddetto».
E nelle cinque paginedi richiesta di autorizzazione a procedere si spiega che Ruby, ancora «minore in data 3 agosto 2010» ha dichiarato «che alcune delle giovani donne che partecipavano» alle feste nelle residenze private del premier «ricevono in corrispettivo da
Silvio Berlusconi la disponibilità gratuita di appartamenti ubicati in “Milano 2”».
I pm fanno anche l’elenco delle ragazze che risultano aver avuto in comodato d’uso gli appartamenti dell’Olgettina: «Toti Eisa, Berardi Iris, Garsia Polanco Maria Ester intesa “Marystelle”, Espinoza Arisleida intesa “Aris”, Guerra Barbara, Visan Ioana intesa “Annina”, De Vivo Concetta intesa“Imma”, De Vivo Eleonora”. Su questo punto, i pm rilevano «ampi riscontri investigativi», che mettono in rilievo il ruolo svolto da Spinelli Giuseppe, quale fiduciario di Silvio Berlusconi. Le «risultanze investigative» comunque «allo stato non lasciano ipotizzare che Spinelli Giuseppe sia consapevole della natura retributiva dell’altrui attività di prostituzione costituita dalla erogazione di somme di denaro e dalla concessione in comodato delle suddette abitazioni a determinati soggetti». Sempre secondo quanto scritto nella richiesta della Procura
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I protagonisti dell’inchiesta L’inchiesta svolta dalla Procura di Milano prevede il reato di consussione (la pressione di Berlusconi per «liberare» Ruby finita in questura nel maggio scorso) e prostituzione minorile. In queste foto, alcuni dei protagonisti: Emilio Fede (secondo l’accusa procura le escort al premier); due ragazze coinvolte, Barbara Guerra e Sara Tommasi; Lele Mora (anche lui reclutava le ragazze, sempre secondo l’accusa); Nicole Minetti (provvedeva alla logistica, secondo i pm milanesi) e, infine, il comprensorio dell’Olgiatina a Milano 2, dove le ragazze venivano ospitate gratuitamente in una serie di appartamenti di proprietà di Silvio Berlusconi
milanese «si ha pertanto motivo di ritenere che per le ragioni esposte, e presso gli uffici ubicati in Segrate-Residenza Parco n. 810 e 802 dove lavora Spinelli Giuseppe, possano rinvenirsi documenti, anche riversati su supporto informatico, pertinenti le abitazioni, ubicate in Milano, via Olgettina n.65». Si tratterebbe di atti e documenti «relativi alla titolarità delle predette abitazioni, ai soggetti che ne sostengono i costi, ivi compreso il pagamento delle utenze, ai soggetti che ne hanno la effettiva disponibilità, al ruolo di intermediazione svolto da Minetti Nicole o da terzi nella gestione dei rapporti concernenti le suddette abitazioni, nonché documentazione pertinente rapporti economici intercorrenti... riguardanti erogazioni di denaro effettuate dal predetto Spinelli, o da suoi collaboratori e dipendenti, in favore delle suddette persone», nonché «documentazione pertinente rapporti economico-finanziari, gestiti da Spinelli Giuseppe, o da suoi collaboratori e dipendenti, intercorsi con Dario Mora inteso “Lele”, o comunque con soggetti o società allo stesso direttamente o indirettamente riconducibili», rilevando al riguardo «documentazione bancaria, copie di assegni circolari e/o bonifici, documentazione societaria specificatamente pertinente i predetti rapporti».
Dalle indagine svolta i pubblici ministeri milanesi ritengono che tre elementi facciano ritenere che «i locali siti in Segrate residenza Parco nn. 801 802 siano nella disponibilità, diretta o indiretta, dell’onorevole Silvio Berlusconi e come tali sottoponibili a perquisizione solo previa autorizzazione alla Camera di appartenenza». Si tratta di: «su una piccola targhetta esterna posizionata all’esterno dell’immobile sito in Segrate residenza Parco n. 801 compare la dicitura “segreteria onorevole Silvio Berlusconi”. L’ufficio, ubicato in Segrate residenza Parco n. 802, è sede di varie società riconducibili alla famiglia Berlusconi. L’onorevole avvocato Niccolò Ghedini, contattato da Giuseppe Spinelli, ha riferito che l’immobile ubicato in Segrate residenza Parco n. 801 è coperto da immunità perché pertinente al Presidente del Consiglio». In base a questi elementi la Procura delle Repubblica di Milano ha chiesto, quindi, alla Camera dei deputati l’autorizzazione a eseguire la perquisizione degli uffici di Segrate «per poi procedere all’eventuale sequestro delle cose pertinenti ai reati per cui si procede, di tracce di reato e di ogni altra cosa necessaria all’accertamento dei fatti per cui si procede». Intanto continua il lavoro degli inquirenti milanesi che avrebbero indagato anche altre per-
sone, probabilmente tre, che però vengono definite «di secondo piano».
Mentre il presidente della giunta per le Autorizzazioni Castagnetti ha reso noto il calendario dei lavori: «Mercoledì cominceremo ad esaminare la richiesta dei magistrati. Abbiamo già previsto che il relatore sia il vicepresidente della Camera Antonio Leone». Nonostante le rassicurazioni di Castagnetti sulla “blindatura”degli allegati che contengono le intercettazioni, alcune indiscrezioni cominciano a trapelare. Come quella della telefonata tra Ruby e la madre di Sergio Corsaro, un parrucchiere, ex fidanzato della giovane marocchina, nella quale la ragazza direbbe: «Il mio caso è quello che spaventa tutti e sta superando il caso della D’Addario e della Letizia. Io ho parlato con Silvio e gli ho detto che ne voglio uscire con qualcosa: 5 milioni. Cinque milioni a confronto del macchiamento del mio nome...». E ancora : «Non siamo preoccupati per niente perché Silvio mi chiama di continuo. Mi ha detto cerca di passare per pazza, racconta cazzate».
Ruby avrebbe detto: «mi ha chiesto di passare per pazza» Castagnetti ha, comunque, avvertito che ci sarà la richiesta «di andare oltre perché non ci sono 21 copie per ognuno dei componenti e ci vuole un giorno solo per leggere tutta la documentazione. Ci sono solo due copie, vengono consultate nei miei uffici alla presenza dei funzionari della Giunta». La consultazione degli allegati è consentita, quindi, solo ai componenti della giunta. Poi, quando toccherà all’Aula di pronunciarsi, dovrà decidere il presidente della Camera se anche gli altri deputati potranno visionare le carte. I tempi per una decisione della giunta sono ragionevolmente prevedibili per la prossima settimana. La giunta è composta da 21 membri. Sette del Pdl, cinque del Pd, due di Fli, due della Lega, due del Misto, due dell’Udc e uno dell’Idv. Stando alla suddivisione dei Gruppi, la maggioranza dispone quindi di 11 voti contro i 10 delle opposizioni. Castagnetti ha anche ipotizzato lo scenario futuro della vicenda: «Se dovesse passare in giunta la proposta di restituire gli atti alla Procura si voterà a scrutinio palese e bisognerà avere la maggioranza in Aula».
diario
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Crac Parmalat, multe alle banche MILANO. Il pm di Milano Eugenio Fusco, nell’ambito del processo Parmalat, ha chiesto al termine della sua requisitoria a condanna di 4 banche estere, Deutsche Bank, Citigroup, Morgan Stanley e Bank of America. Il pm ha chiesto sanzioni pecuniarie complessive per 3,6 milioni (900.000 euro per banca) e la confisca del profitto per 120 milioni. Le banche delle quali si chiede la condanna sono state, secondo il pubblico ministero, «complici di Tanzi nelle false informazioni al mercato per alterare i prezzi del titolo». Se la sanzione pecuniaria chiesta dal pm per ciascuna banca è identica, la confisca del profitto è invece diversa per ognuna delle banche e culmina con i 30 milioni per Bank of America.
Bimbo venduto, arrestati in sei
Croppi fa pace con Alemanno
CASSINO. Ha venduto il proprio
ROMA. «Non si può non apprez-
figlio a una coppia di italiani, prezzo pattuito 25mila euro. Una compravendita tra l’Ucraina, Aversa e Cassino che ieri ha portato all’arresto di ben 6 persone, tra cui l’avvocato che si stava adoperando per gestire la trattativa. Alcuni degli arrestati avevano probabilmente già «comprato» il piccolo di soli 2 anni e lo tenevano nascosto in casa per evitare di essere scoperti. Ma i carabinieri di Cassino, che indagavano sulla vicenda dall’aprile 2009, quando in casa di una coppia - due imprenditori di Cervaro, nel Cassinate - era stato rinvenuto un piccolo di soli 5 mesi, hanno scoperto tutto. La coppia sosteneva che il bambino fosse figlio loro, pur senza avere documenti in merito.
zare lo stile e la sobrietà con cui Umberto Croppi ha commentato la sua esclusione dalla Giunta di Roma Capitale». Lo ha dichiarato il sindaco di Roma Capitale, Gianni Alemanno, che nel suo rimpastino dei giorni scorsi ha estromesso dalla giunta l’esponente di Fli. «Questo - ha aggiunto - è l’elemento distintivo di un uomo di cultura, non attaccato alle poltrone e rispettoso delle Istituzioni. Una differenza che si vede tutta confrontandola con le odierne esternazioni di altri esclusi. A questo punto posso solo augurarmi che tra me e Umberto Croppi si possa stabilire una nuova forma di collaborazione a prescindere da ogni altra considerazione politica».
Domani Alberto Torregiani parlerà a Strasburgo per chiedere l’intervento dell’Europa: «E a febbraio scenderemo in piazza»
L’Italia unita contro Battisti
Alla Camera una mozione per contestare la mancata estradizione di Riccardo Paradisi lberto Torregiani risponderà domani con una conferenza stampa al Parlamento europeo alle bizzarre tesi di Tarso Genro, ministro della Giustizia nel governo Lula che concesse lo status di rifugiato politico a Battisti. La condanna dell’ex terrorista rosso infatti per Genro «è impregnata di dubbi, e in qualsiasi sistema giuridico democratico il dubbio sulle prove è un dubbio che incide sullo stesso crimine». Intervistato dalla Stampa, Genro azzarda addirittura un paragone tra l’Italia degli anni di piombo e il Brasile della dittatura. «Voglio ricordare al popolo italiano che che anche io e altri, tra cui la presidente Dilma Rousseff, eravamo definiti dalla dittatura militare terroristi quando in realtà lottavamo per il ritorno alle libertà democratiche». Bestemmie che in Italia non si azzardano più a dire nemmeno i reduci delle vecchie Br: negli anni Settanta in Italia non c’era una dittatura militare, c’era una democrazia che il terrorismo rosso,a cui apparteneva Battisti, voleva abbattere per sostituirla con una tirannia che in deliranti comunicati veniva definita dittatura del proletariato.
La mozione che oggi sarà presentata al Parlamento tra l’altro «impegna il Governo italiano a percorrere tutte le strade sul versante giudiziario offerte dal Supremo Tribunale Federale, non lasciandone intentata alcuna fino ad adire la Corte Internazionale di Giustizia, affinché il rifiuto alla concessione dell’estradizione di Cesare Battisti venga rimosso»
A
Viene dunque il sospetto su che governo fosse quello di Lula con un ministro come Genro che tra le altre cose definisce i terroristi degli anni Settanta degli ”insorti”e che ha accusato il governo italiano di aver sempre «trattato Battisti come un violento sovversivo e come un agente politico anti-sistema». Ossia per quello che era. Ecco, Alberto Torregiani che per mano dell’insorto Battisti
ha perduto il padre e oggi in seguito all’agguato che lo ha reso orfano è paralizzato su una sedia a rotelle, replicherà a questi deliri annunciando un ventaglio di iniziative che saranno organizzate a livello nazionale per non far calare l’attenzione sulle famiglie delle vittime del terrorismo e per incrementare la pressione sul Brasile per ottenere l’estradizione dell’ex terrorista rosso. «Il no del Brasile – dice Torregiani – non è il fermo rifiuto che arriva da uno Stato ma solo da un gruppo, formato da 4/5 persone, che gestisce il potere in modo personale. La gente, il popolo brasiliano è con me e il Governo italiano e non è contrario all’estradizione di chi
ha ucciso mio padre. Questa non è una battaglia di destra o sinistra. È una lotta per il trionfo della giustizia». Nel promettere, a nome dei parenti delle vittime, che «non abbasseremo la guardia» Torregiani si è augurato che il caso Battisti sia lo sparo per dare il via alla riforma della giustizia in Italia». Anche perché se Battisti dovesse farla franca «potrebbe apire un pericoloso precedente. Chiunque, magari fra una decina d’anni, si macchi di un delitto analogo e per il quale viene chiesta l’estradizione, potrebbe appellarsi a questo precedente». Torregiani non esclude peraltro l’ipotesi di recarsi in Brasile: «mi è stato chiesto di
recarmi in Brasile per spiegare le nostre ragioni. Non è escluso che lo faccia ma per ora sto preparando la manifestazione nazionale che si terrà a Roma agli inizi di febbraio che vuole essere un messaggio forte e chiaro da parte di tutti, senza distinzioni di parte». In queste iniziative Torregiani sarà sostenuto dal consiglio regionale della Lombardia che oggi discuterà sulla vicenda Battisti una mozione unitaria. Ma una mozione bipartisan verrà presentata anche al Parlamento nazionale. Una mozione che ricorda la lunga vicenda processuale di Battisti e ripercorre la sua carriera criminale «Il cittadino italiano Cesare Battisti, è stato condannato
all’ergastolo con sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Milano del 1988 (definitiva in Cassazione nel 1993), per omicidio plurimo , oltre che per i reati di banda armata, rapina e detenzione di armi. Complessivamente ben sette processi e ventiquattro giudici italiani ne hanno stabilito la colpevolezza. Sottrattosi alla Giustizia italiana e rifugiatosi in Francia, Battisti è stato tratto in arresto l’11 febbraio 2004 in esecuzione di una richiesta di estradizione avanzata dalla Giustizia italiana, ma non appena Parigi si è pronunciata in senso favorevole all’estradizione, egli si è reso latitante. Nel 2006 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha
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Nuova giunta comunale. Tre semplici richieste
L’Antitrust firma la pace tra Google news e gli editori ROMA. L’Antitrust chiude l’istruttoria su Google per possibile abuso di posizione dominante e accetta gli impegni dell’azienda americana in tema di contenuti editoriali. Adesso gli editori possono intervenire sul loro prodotto una volta “assimilato” da Google News, il motore di ricerca dedicato all’informazione. Ma, con una mossa dal peso equivalente alla decisione, l’Autorità ha inviato una segnalazione a Governo e Parlamento, chiedendo che venga rivista la normativa a tutela del diritto d’autore, adeguandola alle innovazioni tecnologiche ed economiche del web. Con gli impegni accettati e resi vincolanti dall’Antitrust, Google consentirà agli editori di rimuovere o selezionare i contenuti presenti su Google News Italia, renderà note agli editori le quote di ripartizione dei ricavi pubblicitari e rimuoverà il di-
dichiarato inammissibile il ricorso presentato da Battisti contro il provvedimento di estradizione concesso dalla Francia, stabilendo, tra l’altro, che i giudici italiani avevano perfettamente rispettato gli standard europei (quanto a diritto d’accesso e informazioni sul procedimento, diritti della difesa). Sulla base delle richieste sia italiana che francese, il 18 marzo 2007 Battisti è stato arrestato a Rio de Janeiro, e il 24 marzo dello stesso anno l’Italia ne ha richiesto l’estradizione. Il 13 gennaio 2009 l’allora Ministro della Giustizia brasiliano ha concesso a Battisti lo status di rifugiato politico». In considerazione di questi elementi e soprattutto del fatto che lo scorso 31 dicembre l’ex Presidente brasiliano ha reso nota la propria decisione che non accoglie la richiesta di estradizione dell’Italia nei confronti di Battisti l’Italia ritiene che la mancata estradizione configura una violazione del predetto trattato bilaterale di estradizione del 1989 da parte del Brasile.
Ciò che implicherebbe la responsabilità del Brasile sul piano internazionale per aver disatteso le disposizioni dell’Accordo stesso. «Il caso Battisti – continua poi la mozione – non sembra limitarsi ad una semplice questione bilaterale tra Italia e Brasile, in quanto, dubitando che il sistema giudiziario dell’Italia sia in grado di offrire adeguate garanzie al condannato, il provvedimento brasiliano mette in discussione il rispetto dei principi stessi di civiltà giuridica da parte di tutta l’Unione Europea – quale omogenea comunità di valori e spazio di libertà e giustizia - essendone l’Italia un Paese membro». La mozione dunque impegna il Governo italiano: «a percorrere tutte le strade sul versante giudiziario offerte dal Supremo Tribunale Federale, non lasciandone intentata alcuna fino ad adire, eventualmente, la Corte Internazionale di Giustizia, affinché il rifiuto opposto dall’ex Presidente brasiliano alla concessione dell’estradizione venga rimosso e
g i u d i z il e t t e r ep r o t e s t es u g g e r i m e n t i
vieto di rilevazione dei click sui contenuti. L’effetto sarà un maggiore controllo da parte degli editori online sui propri contenuti e più trasparenza nella vendita degli spazi pubblicitari del motore di ricerca. Per l’Antitrust «è necessario superare l’oggettivo squilibrio tra il valore che la produzione di contenuti editoriali genera per il sistema di internet nel suo complesso, e i ricavi che gli editori online sono in grado di percepire dalla propria attività».
Cesare Battisti possa essere assicurato alla giustizia italiana, a completamento del procedimento estradizionale, come previsto dal Trattato bilaterale».
L’ex ministro della Giustizia brasiliano è arrivato a definire il capo dei Pac un insorto
Nella foto in alto Cesare Battisti poi Alberto Torregiani, l’ex presidente brasiliano Lula e l’attuale, Dilma Rousseff
Impegna poi l’esecutivo a usare «ogni strumento reso disponibile dall’ordinamento giuridico del Brasile per impugnare il diniego all’estradizione, nonché, ove necessario, ricorrere nelle sedi multilaterali ed europee in tale stessa direzione, anche affinché vengano rispettati i principi di civiltà giuridica che sono alla base dello spazio di giustizia europeo e della stessa Unione Europea». Infine il governo italiano si impegna «nel quadro delle ottime relazioni tradizionalmente in essere con il Brasile e in parallelo con il percorso giudiziario» di mantenere costantemente viva la questione in sede di dialogo politico con Brasilia, «cogliendo l’occasione di tutti i possibili contatti con la nuova amministrazione, per rappresentare alle autorità brasiliane la nostra aspettativa per una corretta interpretazione del contenuto del Trattato bilaterale e quindi per l’accoglimento dell’estradizione». Una mozione sul caso Battisti è stata presentata anche al Congresso della Fnsi, conclusosi sabato a Bergamo, nella quale si invitano «i mass media del nostro Paese a continuare a seguire il caso Battisti con l’obiettivo che il criminale venga estradato e consegnato alla Giustizia italiana». Il documento, approvato all’unanimità, «esprime forte e piena solidarietà a tutte le famiglie vittime di azioni riconducibili a Battisti e invita i giornalisti italiani a tenere sempre ben presenti le affermazioni del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in relazione a questa vicenda». Affermazioni inequivocabili sia sulla necessità che chi ha commesso delitti non resti impunito sia di sobrietà dei mezzi di comunicazione nel dare voce e parola a ex terroristi che per troppi hanno hanno sovrastato con la loro voce quella delle loro vittime.
Nuova giunta comunale a Roma. Il sindaco, Gianni Alemanno, ha azzerato la precedente e ne ha varata una nuova. Segno che quella vecchia non funzionava, almeno a parere del primo cittadino. Ma cos’è che non funzionava per i cittadini? Praticamente tutto. In due anni e mezzo di governo non s’è fatto praticamente nulla. Il “nuovo”che è avanzato, con le elezioni di Alemanno e che ha interrotto 14 anni ininterrotti di governi di centrosinistra, non ha prodotto quei cambiamenti auspicati e proposti. Ovvio che la responsabilità non è solo degli assessori ma anche di chi li ha scelti, e la speranza è che la nuova scelta si dimostri migliore della precedente. Noi abbiamo tre semplici richieste al sindaco e alla sua giunta: tappare le buche nelle strade, disintasare tombini e caditoie, pulire la città. Nei restanti due anni e mezzo ci accontenteremo che il sindaco e la sua nuova giunta raggiungessero questi obiettivi. Riproponiamo la frase di un vecchio romanaccio: «forza Alemà, datte da fà». I cittadini che pagano le tasse, compresa l’addizionale comunale, attendono.
Primo Mastrantoni – Aduc
NO A NUOVI ASSESSORI SÌ A NUOVI “CONSIGLIERI” Mi scusi, caro direttore, se“approfitto”del suo quotidiano per rivolgermi al sindaco Gianni Alemanno: «Caro sindaco, non sono un suo estimatore, ma nella sua veste istituzionale la rispetto e ammiro la sua grande fatica nel guadagnarsi giornalmente la prima pagina dei giornali e la credibilità da sindaco di Roma Capitale. Non avrebbe dovuto cambiare gli assessori, avrebbe dovuto cambiare i suoi suggeritori, i suoi consiglieri. Le auguro un buon lavoro assieme alla sua nuova squadra, ricordandole le buche, il manifesto selvaggio, l’abusivismo commerciale, il decoro urbano, la pulizia delle strade, i trasporti, la scuola, l’integrazione, il tema dei nomadi».
Mario Remoli
L’IMMAGINE
Maledetti fiocchi! Questo pettirosso europeo (Erithacus rubecula) è un po’ “accigliato” perché la neve ha coperto tutto il terreno, impedendogli di fare incetta del suo spuntino preferito: i vermi EMITTENTI LOCALI PATRIMONIO DI TUTTI I VENETI Gli editori delle televisioni locali venete sono sul piede di guerra per le modalità di passaggio al digitale terrestre e per varie norme varate dal governo per regolare questa nuova tecnologia. Fanno bene gli editori ad essere inviperiti. Anche perché, quando le regole fissate da governo e ministero competente, sia il primo che il secondo aventi a capo persone con solidi interessi in campo televisivo, si trasformano in penalizzazioni e difficoltà sistematiche, credo sia lecito avere qualche dubbio sulla correttezza degli interventi stessi. Come fa presente la stampa, in regioni come la Sardegna dove il passaggio è avvenuto un paio di anni fa, le tv locali sono in crisi, e la Regione ha dovuto attivare un fondo di sostegno. Non vorrei si arrivasse a questo punto anche in Veneto.
AdP
WOJTYLA E IL MOVIMENTO ESPERANTISTA L’attività svolta dal pontefice per l’esperanto non si limita all’innovazione linguistica in ambito confessionale, ma ha un significato di pace e tolleranza nel rispetto della diversità culturale di tutti i popoli. Wojtyla è stato il primo papa ad impartire la benedizione urbi et orbi in esperanto, nel 1994, a Pasqua, realizzando l’auspicio che il Partito radicale gli aveva trasmesso in una lettera, e introducendo una tradizione che continua ancora oggi sotto il pontificato di Benedetto XVI; Giovanni Paolo II ha sempre manifestato la propria benevolenza nei confronti del movimento esperantista, dall’approvazione del Messale festivo in lingua esperanto ai saluti di benvenuto e arrivederci rivolti ai giovani convenuti a Czestochowa per la celebrazione della Giornata mondiale della Gioventù del 1991. Proprio perché l’Era è associazione dichiaratamente laica, esprimiamo la nostra partecipazione al condiviso messaggio di dialogo fra i popoli contro la violenza e al deciso contributo all’Esperanto come lingua internazionale di Karol Wojtyla, cogliendo l’occasione per rinnovare quei ringraziamenti commossi al Santo Padre oltre quindici anni fa.
Giorgio Pagano Associazione radicale Esperanto
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il caso tunisia
La «malattia economica» che ha travolto Ben Ali è contagiosa: come dimostrano n Tunisia è finita con la clamorosa fuga del presidente Ben Ali: dopo 23 anni di potere e meno di un mese di manifestazioni. E in molti ora si interrogano sul rischio di un contagio nel resto del mondo arabo. Ma in realtà è un po’ tutto il Terzo Mondo allargato (in particolare i Paesi di nuova industrializzazione) che si sta agitando per via di un allarme inflazione sempre più allarmante. È vero: anche l’Europa e il Nord America si agitano. C’è il Tea Party; ci sono le manifestazioni degli studenti; ci sono gli scioperi generali in quei Paesi del gruppo Pigs in crisi che devono affrontare duri processo di ristrutturazione. In Europa, però, il problema è quello di uno Stato sociale che non regge alla crisi e che deve essere ridimensionato. E negli Stati Uniti c’è il timore che le riforme di Obama, anch’esse in risposta alla crisi, provochino un sovradimensionamento dell’apparato federale inusitato nella storia nazionale. Insomma, sono problemi da deflazione. Il Terzo Mondo, o quell’ex-Terzo Mondo rappresentato dai Paesi emergenti, mentre i “Paesi ricchi” soffrivano, ha invece registrato un boom senza precedenti. La Cepal, Commissione Economica per l’America Latina e i Caraibi dell’Onu, ha
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Dal Maghreb all’America Latina, dall’India al Medioriente, senza dimenticare l’Occidente: il caro vita non risparmia nessuno fotografato per il 2010 una crescita del Pil nella regione pari al 6%, e per il 2011 c’è un’aspettativa del 4,6. Il Nord Africa è cresciuto a ritmi del 5% nel corso degli ultimi cinque anni. Per la Cina i dati sono del 10% nel 2010 e di un’aspettativa per il 2011 del 9,5%. E in India siamo all’8,9. Come insegnano però i manuali di economia, è quasi fatale che la crescita a un certo punto comporti anche inflazione. E allora diventano importanti due cose. Vista da sinistra: la distribuzione di ricchezza che questa crescita ha effettivamente comportato nella popolazione, per evitare che i rincari dei generi di prima necessità non vadano poi a ricadere sulla testa di chi non ha potuto accantonare qualcosa della prosperità precedente.Vista da destra: la capacità dei governi di riuscire poi a fare scelte di austerity anche dolorose, sia pure a patto di non compromettere la crescita. E qui entrano allora in campo anche altre cose. L’effettiva legitti-
Il contagio di Tunisi Dopo 23 anni di dittatura, la cacciata di Ben Ali è iniziata con l’aumento dei prezzi. Ma sono tanti i Paesi a rischio. Per tutti un nemico comune: l’inflazione di Maurizio Stefanini mazione del governo, ad esempio, attraverso un suffragio popolare e/o il carisma del governante. O le aspettative che nella popolazione si sono generate: rivoluzione delle aspettative crescenti, la definiscono i sociologi.
O anche il modo in cui la struttura produttiva riesce o no a profittare dell’inflazione per rilanciare l’export: dipende dunque dal fatto se si tratta di un export manifatturiero o di materie prime; e se l’export manifatturiero dipenda da un import di materie prime da trasformare. L’attenzione mondiale, appunto, si è ora proiettata sulla Tunisia. Ma a un certo punto, prima che la situazione a Tunisi precipitasse, l’allarme si era alzato anche per l’Algeria, dove l’esempio tunisino aveva acceso manifestazioni che erano state represse al saldo di cinque morti, 800 feriti e almeno 1.100 arresti. Lì, in apparenza, la decisione del governo di ritirare quelle tasse sugli alimentari che avevano fatto aumentare i prezzi di olio e zucchero del 20% ha contribuito a calmare le acque: anche se forse ancora di più hanno potuto la messa sotto sorveglianza delle moschee e addirittura la sospensione del campionato di calcio. Ma dopo la fuga di Ben Ali
anche l’agitazione in Algeria è ripresa proprio con lo stesso metodo che aveva, metaforicamente e letteralmente, acceso l’incendio tunisino: il suicidio di quattro disoccupati, per autoimmolazione nel fuoco. Tutto era infatti iniziato il 17 dicembre, quando la polizia municipale di Sidi Bouzid, nel centro della Tunisia, aveva sequestrato il carretto di frutta e verdura di Mohammed Bouaziz: un 26enne che dopo aver terminato gli studi non era riuscito a trovare un lavoro adeguato alla sua laurea in informatica, e si era messo a fare il venditore ambulante. Già depresso, per protesta Bouaziz si era dato fuoco davanti al palazzo del Governatore. A quel punto il presidente Ben Ali è andato anche a trovarlo in ospedale, ma il 5 gennaio il ragazzo è morto. Già da subito il suo gesto aveva però scatenato le manifestazioni: che il regime ha cercato di non far filtrare all’estero, ma che invece sono state pubblicizzate attraverso YouTube, Facebook e Twitter. E non è riuscita più a fermarle né la promessa di Ben Ali di creare 300mila posti di lavoro; né la chiusura di scuole e università; né l’arresto di tre noti cyberdissidenti e del rapper una cui canzone diffusa su YouTube era diventata l’inno dei manifestanti; e neanche il tentativo di scaricare la colpa sul governo, licenziando i ministri. Al contrario, a quel punto sono stati i ministri che hanno pensato bene di rifarsi una verginità liquidando il presidente. Ma non c’è stato solo il contagio algerino. Per evitare problemi analoghi, subito il presidente egiziano Mubarak ha disposto in tempi rapidi massicce importazioni di carne, tè e mucche da Kenya e Etiopia. E il raìs libico Gheddafi ha tolto tutte le imposte ai generi di prima necessità. E il re Abdullah II di Giordania ha annunciato “misure immediate” per far abbassare i prezzi di riso e zucchero, oltre a congelare i prezzi dei trasporti. E re Maometto VI del Marocco ha fatto bloccare i prezzi del grano importato. Per lo stesso motivo, un incontro di calcio amichevole Marocco-Libia a Tangeri è stato rinviato sine die, ufficialmente
Proteste a Tunisi. Sotto, il presidente egiziano Mubarak. Nella pagina a fianco, Moncef Marzouki, leader storico della sinistra e fondatore del Cpr “per terminare i lavori dello stadio”. Ma un disoccupato si è ora dato fuoco anche in Egitto, e manifestazioni contro il carovita si sono tenute in Giordania e nello Yemen.
Prima ancora che in Nord Africa, però, il sangue era corso anche con la rivolta dei poliziotti ecuadoriani del 30 settembre scorso: con 8 morti e 274 feriti. All’origine, una legge che non solo sopprimeva una serie di extra al salario, ma addirittura imponeva di accettare il pagamento di una quota dello stesso in titoli di Stato. Come si ricorderà, il presidente Rafael Correa affrontò di persona i manifestanti, venendone aggredito e costretto a rifugiarsi in un ospedale: dentro al quale rimase assediato fino a quando non ce lo vennero a tirare fuori le truppe speciali. Correa parlò di tentativo di golpe, e disse che erano stati settori dell’opposizione a istigare la protesta: cosa non solo possibile ma anche probabile; nello stesso senso che è anche probabile che l’opposizione istighi quei manifestanti in Tunisia definiti “terroristi” dal presidente Ben Ali. Il che, però, non sposta di un millimetro l’essenza dei problemi. L’Ecuador, ricordiamolo, era cresciuto del 3,6% nel 2010, ed ha un’aspettativa del 2,3% per il 2011, ma anche un tasso di inflazione del 3,2. Quadro simile a quello della Bolivia di Evo Morales: governo anch’esso adepto alla corrente del “socialismo del XXI secolo” guidata da Hugo Chávez; crescita del 4% nel 2010; aspettativa del 4,5% nel 2011; inflazione al 3,5. E pure lì c’è
il caso tunisia
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o i conti in affanno di mezzo mondo, dall’India all’Algeria, dalla Bolivia all’Egitto anche se per il momento ci sono stati solo brontolii. L’Argentina è cresciuta nel 2010 dell’8,4%, per il 2011 si aspetta un altro 4,8%, ma l’inflazione è secondo tutte le stime diverse da quelle del governo al 25%. Per far credere che è ancora al 10, in un anno elettorale dove Cristina Kirchner cerca la riconferma, il governo si rifiuta di far stampare banconote oltre i 100 pesos di taglio, che valgono ormai meno di 20 euro.
Così i biglietti spariscono subito, e gli acquisti natalizi hanno prosciugato i bancomat. Misure d’emergenza della Banca Centrale, che ha commissionato alla Zecca brasiliana tre miliardi di pesos in nuovi tagli. Ma, ostinatamente, in biglietti da 100. E nella stessa Argentina inizia ora uno sciopero di sette giorni dei produttori di cereali. Ma non è solo un problema dei governi di sinistra, radicale o moderata. Le sommosse antiinflazione si sono infatti estese al Cile di Piñera, per la decisione di tagliare il sussidio ai combustibili nella regione di Magallanes, nell’estremo sud. Il susseguente sciopero generale di protesta ha bloccato i traghetti, isolando la Terra del Fuoco dal resto del Paese. Piñera dice che quell’aumento del 16,8% dei prezzi del gas è improcrastinabile, o se no il Cile farà la fine dei Pigs. Ma c’è un deputato locale che minaccia una secessione filo-argentina, e un altro che proclama
Dal rais Gheddafi ad Abdullah II di Giordania e il re del Marocco: tutti cercano di bloccare le proteste. Ma la rabbia corre via Internet stata una sommossa, quando Morales a Natale ha deciso di sopprimere i sussidi al prezzo del carburante, provocando un rialzo del 73% nel prezzo della benzina, del 57% della benzina speciale e dell’82% nel diesel. La rivolta popolare che ne è seguita è stata molto meno sanguinosa che quella dell’Ecuador; nessun morto, una quindicina di feriti. Ma è stata generalizzata, e probabilmente non ha provocato danni peggiori semplicemente perché il governo no ha avuto il coraggio di reprimerla. «Se non fossi presidente sarei a manifestare anch’io» ha detto Morales. «Non posso governare contro il popolo». E già il 3 gennaio aveva revocato tutto. Ma il prezzo sussidiato dei carburanti resta insostenibile, specie nel momento in cui la capacità di Chávez di regalare petrolio agli amici si è ridotta drasticamente. Segnale inquietante per Morales: bandiere venezuelane sono state bruciate dai manifestanti. Ma pure Chávez dopo aver perso le politiche in voti, anche se le ha vinte in seggi grazie a una legge truffa, si ritrova in difficoltà nel prendere misure impopolari. A dicembre si è infatti fatto dare i poteri per aumentare l’Iva, ma a gennaio ci ha rinunciato. In compenso, ha soppresso un sistema di doppio cambio che avrebbe dovuto rendere le importazioni di beni di prima necessità più economiche, e che invece aveva contribuito a farli sparire dai negozi, oltre che a un’inflazione del 31%. A sua volta, la scomparsa delle banconote in Argentina è causato da un fenomeno di inflazione che il governo tenta di occultare:
Legalizzati tutti i partiti politici. Via il bavaglio ai media
Il governo di Ghannouchi L’annuncio del rilascio di tutti i prigionieri politici e la composizione del nuovo governo di unità nazionale, affidato al premier Mohamed Ghannouchi, con tre leader dell’opposiione ma sei uomi di Benl Ali confermati, non placa la protesta in Tunisia. Dopo gli scontri di domenica tra Esercito e milizie fedeli all’ex presidente Zine al-Abidine Ben Ali, ieri almeno un migliaio di dimostranti sono tornati in piazza a Tunisi, reclamando l’esclusione dalla compagine governativa di esponenti dell’Rcr, il Raggruppamento Costituzionale Democratico già guidato dal deposto uomo forte tunisino. Malgrado si trattasse di un corteo pacifico le forze di sicurezza, appoggiate da unità militari, hanno fatto ricorso a spari di avvertimento in aria e agli idranti per disperdere la folla: quando il tentativo si è rivelato in larga misura inefficace, gli agenti in assetto anti-sommossa sono
passati a un fitto lancio di lacrimogeni. Manifestazioni si sono registrate anche in altre città, tra cui Sidi Bouzid e Regueb, nel centro del Paese. Nel frattempo ha preannunciato la propria candidatura alle presidenziali anticipate una delle personalità più eminenti dell’opposizione tunisina, Moncef Marzouki, leader storico della sinistra laica. Fondatore del Cpr, il Congresso per la Repubblica, Marzouki aveva tentato di concorrere per la presidenza già nel 1994; poco dopo fu tuttavia fatto arrestare e privato del passaporto per ordine di Ben Ali. L’Unione Europea si è comunque offerta di prestare aiuto immediato alla Tunisia per organizzare le elezioni. Sempre ieri, Il premier tunisino Mohammed Ghannouchi, ha annunciato la liberazione di tutti i prigionieri politici, la revoca del divieto della attività di tutte le ong e la libertà totale di informazione.
l’inizio della «rivolta contro il centralismo». Quel che in altri Paesi succede con i prezzi di benzina o pane, nel subcontinente indiano accade storicamente con quelli delle cipolle. Dall’andamento dei prezzi dipende il ciclo delle politiche governative, e sul prezzo delle cipolle si sono decisi risultati elettorali. Ora l’inflazione al 20% è più che doppia rispetto alla pur spettacolare crescita, ma gli alimentari sono cresciuti del 59%, e le cipolle addirittura dell’80%. Colpa anche del Pakistan, che per calmierare il mercato nazionale ha a sua volta bloccato al confine i camion carichi di cipolle destinati a rifornire le megalopoli indiane. Una guerra di tuberi tra due Paesi armati di bombe atomiche, e divisi già da una marea di risentimenti sin dai massacri che accompagnarono la Grande Partizione del 1947.
In confronto, il 5,8% dell’inflazione cinese sembra poca cosa. E il 6% del caffè, simbolo di occidentalizzazione rispetto alla tradizione del tè, dimostra che lì i problemi sono per i consumi di lusso, più che per quelli popolari. Ma anche lì il malcontento cresce. Ed è pure indicativo che le notizie dal fronte dell’economia abbiano portato le Camicie Rosse thailandesi a rialzare la testa, dopo la durissima repressione che l’anno scorso costò 91 morti e 1800 feriti. Faranno due manifestazioni al mese “fino a quando il governo di Abhisit Vejjajiva continuerà al potere”. O fino a quando non riprenderanno a sparare loro addosso.
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il caso tunisia
a crisi nel Nordafrica interpella direttamente l’Italia e l’Europa per tre ragioni. La prima, perfino ovvia, è che essa offre una grande occasione all’estremismo islamico di reinserirsi e di cercare di determinare il futuro di quei Paesi, guidandoli su di un percorso di guerra santa e di confronto duro con l’Occidente. In questo caso, sarà bene ricordarlo, l’Occidente siamo noi. La sponda del Mediterraneo che sta direttamente di fronte alla Tunisia ed all’Algeria è quella italiana. Su di noi si scaricherebbe in prima battuta il peso del conflitto. La seconda ragione, strettamente collegata con la prima, è che il collasso economico di quei paesi alimenterebbe più forti correnti migratorie, probabilmente fortemente ideologizzate in senso antioccidentale, che sì scaricherebbero sul nostro mercato del lavoro in un momento in cui esso non è in grado di accoglierle a causa della crisi di cui noi stessi stiamo soffrendo. La terza ragione è che noi stessi siamo corresponsabili della crisi. Essa è stata causata in gran parte dal fallimento delle politiche europee verso il Nordafrica e la colpa di questo fallimento è in misura più che proporzionale dell’Italia, che più di altri aveva un vitale intesse al successo di quelle politiche. Il 27 e 28 novembre 1995, a Barcellona, l’Unione Europea decise di dar vita ad un partnerariato mediterraneo per associare strettamente alla Unione i paesi dell’altra sponda del Mediterraneo e per creare un’area di sviluppo e di prosperità con-
L
Quando le armi tacciono e i governi accettano di cercare il consenso con la pace e non con la guerra, allora l’Europa gioca al meglio le sue carte divisa sulle due sponde di questo mare. È da lì che inizia il cosiddetto processo di Barcellona. Le idee erano buone. C’era la colpevolezza della necessità di riequilibrare l’allargamento ad est con una politica comune rivolta verso il sud. C’era anche la colpevolezza del fatto che quando il Mediterraneo è un cammino solcato dagli scambi culturali e commerciali allora anche le regioni mediterranee dell’Europa fioriscono.
Quando invece il Mediterraneo è una frontiera di guerra allora anche il Sud dell’Europa è destinato al declino. È stato un grande storico francese, il Pirenne, a formulare nel modo più convincente questa tesi. Un Nordafrica sviluppato, prospero, in dialogo con l’Occidente, è una barriera naturale contro il diffondersi dell’islamismo fanatico nella direzione dei nostri paesi. Un Nordafrica in crescita e che si sviluppa economicamente è un cliente ed un partner di straordinario intesse per le nostre economie già sviluppate. Dove andrebbero a comprare i macchinari e le conoscenze se non da noi? E se noi delocalizzassimo in Nordafrica almeno una parte dei posti di lavoro che oggi vanno via all’estero sarebbe più facile attivare sinergie con il nostro sistema produttivo, per esempio mantenendo in Italia le produzioni a maggiore valore aggiunto, come la ricerca e sviluppo, il design e la commercializzazione. In una parola: nel processo di Barcellona erano contenute tutte le idee giuste. L’unico difetto del
L’Europa è in parte responsabile delle rivolte che scuotono la regione del Contine
Troppo silenzio s di Rocco Buttiglione processo di Barcellona è che esso è rimasto quasi interamente sulla carta. Sarebbe sbagliato dire che non si è fatto nulla. Qualcosa, o anche parecchio, si è fatto in Marocco (per iniziativa soprattutto spagnola) ed in Tunisia (per iniziativa soprattutto italiana). In questi Paesi c’è stato sviluppo reale soprattutto nella manifattura. Ciò che si è fatto rimane lungi dall’essere sufficiente. È mancata proprio la visione unitaria europea. Sarebbe stato necessario creare un mercato comune del Nord Africa. Nessuno va ad investire per produrre in un mercato così ristretto come quello tunisino o algerino o libico. Occorreva creare il mercato attraverso l’unione doganale ma su questo non si è riusciti. Occorreva creare una rete infrastrutturale collegata con quella europea. Non c’è mercato senza strade. Servirebbe un grande asse attrezzato che andasse da Tangeri fino ad Alessandria, intervallato da porti at-
trezzati, aeroporti ed interporti. L’Europa ha un grande programma per la infrastrutturazione del proprio territorio, sono i cosiddetti TEN (transeuropean networks, reti infrastrutturali transeuropee). Ad est dove finiscono le reti europee già siamo al lavoro per creare nuovi collegamenti con i Paesi vicini con i quali vogliamo cooperare strettamente. Le reti per il trasporto del gas al di là del confine dell’Unione hanno attirato l’attenzione della stampa e su di esse si è aperta una accesa discussione.
Sembra invece che l’Europa non sia interessata alla infrastrutturazione del Nord Africa. Solo la mia amica Loyola de Palacio lavorava ad un grande progetto europeo per la infrastrutturazione del Nord Africa ma era in fondo una iniziativa solo personale e dopo la sua morte tutto si è interrotto. È mancato il mercato e sono mancate le infrastruttu-
re necessarie a passare dalla prima alla seconda fase del processo di modernizzazione. Non si tratta, infatti, di paesi rimasti sepolti nel passato ma di processi di modernizzazione interrotti. Quando gli europei hanno iniziato il processo di Barcellona nel 1995 la loro scommessa richiedeva molto coraggio. Era pienamente in corso la guerra civile algerina fra il governo e i gruppi salafiti per la predicazione ed il combattimento, un antenato di al Qaeda. In questa guerra il governo è riuscito alla fine a prevalere con il ferro e con il fuoco. Alla fine le vittime sono state più di centomila. Dal 2001 (fine della guerra civile) ad oggi noi abbiamo avuto una straordinaria finestra di opportunità che non abbiamo saputo usare. Adesso dobbiamo domandarci se e come è possibile recuperare il tempo perduto. Il problema non è privo di connessioni con la grande questione della libertà religiosa sulla quale si è
il caso tunisia
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L’Africa del Nord ci difende dal terrorismo di matrice islamica e dall’immigrazione selvaggia
hanno saputo stabilire un contatto con la tradizione religiosa del loro popolo e anche per questo sono spesso sentite come straniere. Questa fu una delle cause fondamentali della guerra algerina.
ente Nero. Devono riprendere gli investimenti nell’area
sul Maghreb
Un’immagine delle proteste di Tunisi. In alto lo storico belga Henri Pirenne e, a destra, una veduta del Parlamento europeo con sede a Strasburgo
espresso di recente con voto unanime il Parlamento italiano. In Nord Africa l’estremismo islamico può affermarsi solo insinuandosi nelle pieghe della modernizzazione interrotta o fallita. Per questo è essenziale che il processo di modernizzazione venga rimesso in movimento. Oggi i giovani manifestano per il pane e per la democrazia. Non chiedono una repubblica islamica. Se non troveranno né pane né democrazia allora verrà il tempo degli integralisti. Sarà anche decisiva la capacità di allacciare un dialogo con l’Islam moderato che ha in queste terre una forte tradizione. Le élites di cultura francese che costituiscono la classe dirigente di questi paesi non
Adesso è necessario stabilire questo contatto, come è avvenuto per esempio in Marocco. In Marocco esiste un partito di democrazia islamica che svolge una funzione di mediazione fra tradizione e modernità simile a quella che in Europa hanno svolto i partiti di Democrazia Cristiana. La Internazionale Democristiana ed il Partito Popolare Europeo dovrebbero andare in cerca di forze di questo tipo, che oggi si ritrovano alla opposizione, per aprire con loro un dialogo sui valori fondamentali. E, naturalmente, egualmente importante è riprendere il dialogo religioso fra cristianesimo ed islam. Dobbiamo anche riflettere sulle ragioni per cui il processo di Barcellona e l’Unione Mediterranea sono falliti. L’errore fondamentale è stato forse quello di pensare il Mediterraneo in modo unitario e quindi accettare troppo facilmente la assoluto priorità del conflitto israelo/palestinese. Molti pensano
Il conflitto in Palestina è stato l’alibi di Bruxelles per non lanciare un serio programma di sviluppo dell’area. Ma questo non è vero che fino a quando non si sia trovata una soluzione al conflitto in Palestina nessuna iniziativa nel Mediterraneo possa avere successo. Questo è in realtà l’alibi con cui i ceti dirigenti arabi spesso giustificano le loro incapacità ed i loro ritardi nel promuovere lo sviluppo dei loro popoli. In questo caso è stato anche l’alibi dell’Europa che non aveva voglia di investire seriamente nello sviluppo del Nord Africa. In Palestina il conflitto
si è avvitato su se stesso. Quando scorre il sangue, quando sono forti la paura ed il desiderio di vendetta si ascolta solo la voce delle grandi potenze militari che possono offrire armi e coperture per difendersi o per offendere. La voce dell’Europa allora non conta molto. Quando le armi tacciono e i ceti dirigenti accettano di cercare il consenso dei popoli con le arti della pace piuttosto che con quelle della guerra, allora l’Europa può giocare al meglio le sue carte. L’Europa è infatti di gran lunga il maggior partner commerciale delle nazioni del Nord Africa. Basta guardare la carta geografica per vedere come esista una chiara distinzione fra il Mediterraneo Orientale ed il Mediterraneo Occidentale. È del tutto possibile iniziare un grande progetto per la costa sud del Mediterraneo Occidentale senza attendere la fine del conflitto in Palestina. Questo è anche un modo per aiutare fattivamente la soluzione di quel conflitto.
Una seconda ragione del fallimento europeo è stata il fatto che per una gran parte dei paesi membri un’altra era allora la priorità più sentita: l’allargamento all’est dell’Unione. La Germania vi era allora vitalmente interessata per la connessione sovietica fra riunificazione tedesca e stabilizzazione della Europa centrale ed orientale. Adesso la priorità strategica dell’Unione è il Nord Africa. È qui il crocevia della tensione da cui passa la pace o la guerra, la crescita o la decadenza dell’Europa. È necessaria una forte iniziativa europea, unitaria e coerente, che riassuma in se e rilanci sia il ”processo di Barcellona” che le iniziative successive come ad esempio quella della Unione Mediterranea. Non è difficile indicare le cose da fare. Questa volta però bisogna fare sul serio. L’Italia è il paese più minacciato e anche quello che può trarre il massimo vantaggio dal successo di una politica europea verso l’ Africa del Nord. Per questo dobbiamo essere noi a prendere l’iniziativa.
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Questa sera nizia la visita ufficiale del leader negli Usa. Si presenta da Obama dimissionario (e quindi più forte)
L’offerta di Hu Il presidente cinese ha due strade: aprire agli Usa o perdere il potere di Wei Jingsheng l presidente cinese Hu Jintao sta per visitare di nuovo gli Stati Uniti. Come in passato, l’ambasciata di Pechino nel Paese sta distribuendo dei bonus per attrarre gli studenti cinesi alla cerimonia di benvenuto del leader. Ma questa volta ci sono nuovi programmi. Agli studenti dell’università del Maryland, che si trova vicino alla capitale Washington, sono stati offerti 55 dollari a testa, molto meno dei 100 dollari offerti l’ultima volta. Nonostante questa riduzione, i ragazzi di quell’ateneo sono molto più fortunati degli studenti cinesi residenti a Philadelphia, che si trova a più di 200 chilometri dalla capitale. Mettendo da parte questi aspetti divertenti, ci sono alcuni lati importanti nella visita in America di Hu Jintao. Sicuramente la differenza maggiore rispetto al passato è che, questa volta, il presidente cinese deve fare
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Nella visita a Washington il leader comunista deve tracciare il sentiero del proprio successore. Ma deve al contempo garantirsi una via d’uscita dal governo delle concessioni e impegnarsi in negoziati sostanziali: glielo impongono enormi pressioni interne ed esterne. Non riuscirà a uscirne indenne con un semplice spettacolino. Di conseguenza è sicuro che, su qualche terreno, deve cedere. L’unico dubbio riguarda cosa verrà messo sul tavolo e con quanta energia. Non ci sono soltanto gli americani: anche i cinesi (intendo quelli che vivono nel Paese) sperano in delle concessioni.Concessioni sul tasso di cambio della valuta e sul sistema di commercio estero sono questioni legate agli interessi di cinesi e americani: se uno prospera, anche l’altro prospera. Ma se uno perde, porta con sé anche l’altro. Questa volta, gli interessi delle due popolazioni coincidono.
Quali concessioni, dunque, può fare Hu? Entrambi i lati sanno che il primo punto riguarda le concessioni economiche. Ci sono troppe pressioni da parte del popolo americano, che vuole vedere un apprezzamento della valuta cinese e la rimozione delle restrizioni imposte da Pechino alle importazioni. Queste concessioni sono quasi obbligatorie. Prima della visita, lo yuan è stato apprezzato di qualche punto: si tratta di un regalino all’America che, però, non si avvicina alle aspettative di Washington ed è inaccettabile. Può essere considerato soltanto un inizio, la cui prosecuzione dipende dai dialoghi fra i due. Quindi che scelta ha il presidente? Sostanzialmente, ne ha due. La prima prevede le minori concessioni economiche possibili accompagnate però da grandi concessioni nell’ambito della politica estera americana: Corea del
Nord, programma nucleare iraniano, questione pakistana e via dicendo. Questo significa che, se Hu non vuole vendersi qualche amico, deve vendersi un po’ di sovranità. In questo modo non si risolve nulla, ma semplicemente si dilaziona la soluzione: e i problemi passerebbero da Hu Jintao a qualcun altro. In ogni caso, a lui personalmente non interessa molto: dal prossimo anno il mal di testa colpirà un altro.
Nel perseguire questa strategia si ottiene il risultato di non offendere i grandi capitalisti, cinesi e stranieri. Ma, dopo le sue dimissioni, questi capitalisti si ricorderanno di lui? Saranno disposti ad aiutarlo? È in grado, come alcuni politici americani, di avere in anticipo delle rassicurazioni? Se non lo è, probabilmente si ritroverà senza la gratitudine di alcuno, dato che sarà il suo successore a concedere quello che lui non vuole concedere oggi. Se si comporta in altro modo non sarà inviso soltanto agli Stati Uniti, ma anche a chi verrà indicato come suo successore alla guida del regime comunista. Da quel momento nessuno ricorderà che è stato Hu a mantenere per un altro anno le condizioni economiche attuali. I capitalisti che ne beneficieranno non si ricorderanno di lui, e il suo successore sarà molto risentito per il danno creato. Tuttavia, dato il carattere rigido e inflessibile di Hu Jintao, è probabile che sceglierà un ruolo difficile e condannato a rimanere senza un grazie. Se davvero decide per questa strategia di durezza, allora metterà all’angolo gli americani. I “falchi” del Congresso si alzeranno in piedi, e verrà dichiarata una guerra commerciale improntata sulle tariffe di importazione. Per proteggere i propri interessi, il governo americano non permetterà più alcuna politica favorevole al commercio cinese, che garantisca un beneficio per Pechino a danno degli altri. Questo atteggiamento è sia ragionevole che utile. Nessuno potrebbe impedire agli Usa dal proteggere i propri interessi con barriere tariffarie. E da allora, le esportazioni cinesi inizieranno a calare rapidamente senza tuttavia i benefici di una rivalutazione valutaria. Allo stesso tempo, l’inflazione e la mancanza di beni di prima necessità nel mercato interno costringeranno la Cina a aumentare le importazioni. Di conseguenza, l’unica differenza in tutto questo è che non ci sarà un periodo di prova per sistemare in maniera normale la struttura economica. Tutto, inclusa la tempistica, sarà controllato dagli americani e la Cina perderà la possibilità di controllare il proprio sentiero economico. In sostanza, sopravvivrà soltanto basandosi sugli altri. Chiunque gli succederà sarà molto sfortunato e molto malvisto. Come potrebbero i successori non odiare Hu Jintao. E in effetti non saranno soltanto i caporioni del partito a odiarlo, ma anche la media della po-
Il discorso del ministro degli Esteri cinese al Cfr di New York
Insieme per la pace e la stabilità mondiale In cantiere accordi a tutto tondo fra le due capitali, a partire dall’ambiente di Yang Jiechi a visita di Hu Jintao negli Stati Uniti coincide con il quarantesimo anniversario dalla riapertura degli scambi fra i due paesi e con l’inizio del secondo decennio del XXI secolo. Nel corso della visita il presidente Hu e il presidente Obama definiranno la mappa per la futura cooperazione fra Stati Uniti e Cina. Senz’altro firmeranno una serie di importanti documenti di cooperazione e annunceranno nuovi progetti di cooperazione su economia, mercato, energia, sviluppo delle infrastrutture, scienza e tecnologia e protezione ambientale. Il che è un ottimo inizio, perché abbiamo un immenso potenziale di cooperazione in termini di tecnologia a bassa intensità di carbonio e di tecnologia verde. La storia delle relazioni fra Cina e Stati Uniti ci dimostra che summit di alto livello fra i leader dei due paesi hanno continuamente generato e promosso la crescita di relazioni bilaterali. Così è stato con la visita del Presidente Nixon in Cina
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nel 1972 e con la visita di Deng Xiaoping negli Stati Uniti nel 1979. Così è stato con la visita del presidente Jiang Zemin negli Usa nel 1997 e 2002 e con la visita del presidente Hu Jintao negli Stati Uniti nel 2006. Abbiamo buone ragioni per credere che, con gli sforzi compiuti da entrambe le parti, questo vertice porterà la nostra cooperazione pratica a un nuovo standard e migliorerà la reciproca comprensione e amicizia fra i due popoli. E dimostrerà la volontà di Cina e di Stati Uniti di agire insieme per la pace, la stabilità e lo sviluppo mondiali.
Le relazioni Usa-Cina sono relazioni bilaterali estremamente importanti nel panorama mondiale. E crediamo che sebbene i rapporti Usa-Cina abbiano incontrato qualche difficoltà negli ultimi due anni, si siano raggiunti ottimi risultati. Primo: gli scambi e la comunicazione (e non solo di vertice) fra i due paesi non sono mai stati così buoni. Le relazioni Usa-Cina hanno subito
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polazione. E questo perché si cura soltanto degli interessi dei grandi capitalisti, perdendo opportunità per la nazione e per il popolo e provocando l’accerchiamento della Cina. Ottenuti questi pessimi risultati, anche i grandi capitalisti inizieranno a odiarlo, dato che non potranno più ottenere gli enormi profitti cui sono abituati. In conclusione, la strategia di fare concessioni in politica estera per evitare di farne in politica economica è una decisione che colpisce gli altri e non beneficia la Cina.
Se Hu avesse un gruppo di assistenti composto da saggi, dovrebbe optare per la seconda opzione. Che prevede la possibilità di fare concessioni in campo economico, guidando la barca con la corrente: permettere la rivalutazione dello yuan e aprire relazioni commerciali in cambio di politiche favorevoli nel campo delle tecnologie. Questa scelta aiuterebbe moltissimo la
Il G2 non esiste nei fatti: le due economie sono connesse e dipendenti l’una dall’altra, ma i leader non si parlano fra loro e soprattutto hanno visioni diverse
una trasformazione subito dopo la nomina di Obama. Negli ultimi 24 mesi, i due presidenti si sono incontrati con successo diverse volte. Io ho avuto la fortuna di essere presente a tutti i sette incontri e ne sono sempre uscito con una profonda impressione di sincerità da parte dei due leader. Secondo: il desiderio e la determinazione di entrambi a rafforzare la collaborazione non è mai stata così forte. Basti ricordare che nell’aprile 2009 i due Presidenti hanno stabilito che i rispettivi governi lavoreranno insieme per costruire relazioni positive per il XXI secolo. Terzo: gli interessi cinesi e americani sono convergenti come mai prima d’ora. Ad oggi abbiamo affrontato la crisi finanziaria internazionale, avanzato la riforma per un governo economico globale e svolto un importante ruolo per stimolare la ripresa economica mondiale. Non solo: si prevede che il commercio fra i due Paesi superi i 380 miliardi di dollari del 2010. La Cina è stata il mercato di esportazione degli Stati Uniti con la crescita più veloce per nove anni consecutivi. Gli investimenti da parte delle imprese cinesi negli Stati Uniti sono aumentati rapidamente. Per la fine di novembre 2010, gli imprenditori cinesi hanno realizzato più di 4.4 miliardi di dollari in investimenti diretti non finanziari negli States. Il tutto ha contribuito alla ripresa economica e alla protezione di posti di lavoro negli Stati Uniti. Gli scambi e la cooperazione bilaterale in un’ampia serie di aree, compresa l’energia e l’ambiente, stanno crescendo notevolmente. Quarto: i due popoli non sono mai
stati così profondamente impegnati nelle relazioni Cina-Usa. Oggi, circa 120 mila studenti cinesi studiano negli Stati Uniti e più di 20 mila studenti americani studiano in Cina. Secondo le statistiche cinesi, più di 3 milioni di turisti visitano ogni anno l’altrui paese e più di 110 voli turistici a settimana collegano i due paesi. Quinto: la comunicazione e la coordinazione fra Cina e Stati Uniti su importanti questioni regionali e internazionali non sono mai state migliori. Basti pensare alla situazione nella penisola coreanae alla questione nucleare dell’Iran e dell’Asia meridionale. Adesso stiamo affrontando la questione sudanese, che si definirà inevitabilmente nelle prossime settimane.Per quanto riguarda le questioni globali come il cambiamento climatico, la riforma dell’Onu e la lotta al crimine transnazionale, la collaborazione fra Usa e Cina ha contribuito al mantenimento della pace e della sicurezza mondiali.
Cosa ha avvicinato i nostri Paesi in questi due anni? Io credo l’aumento di interessi comuni. È fondamentale per noi tracciare le diversità e i problemi e affrontarli nella giusta prospettiva. Questo anche per controllare e gestire i rischi e i disaccordi. Naturalmente, occorre sottolineare che le norme che regolano le relazioni internazionali devono essere severamente rispettate in quanto costituiscono la base di condotta delle nostre relazioni bilaterali, soprattutto quando si parla di sovranità, sicurezza e integrità territoriale. In molti seguono l’evolversi della situazione
nella penisola coreana. Colgo quindi quest’occasione per fornire qualche osservazione sull’argomento. La Cina e la penisola coreana dividono un confine e si affacciano sullo stesso mare. La nostra politica verso di loro si può riassumere in tre parole: pace, stabilità e libertà dal nucleare. Abbiamo sollecitato sia la Corea del Nord che la Corea del Sud affinché mantengano la calma e si impegnino nel dialogo. Perché gli eventi hanno dimostrato che le azioni di forza non portano alla soluzione. Crediamo che i colloqui a sei siano la migliore piattaforma da esplorare per mantenere la stabilità sulla penisola e raggiungere pace e stabilità nell’Asia nordorientale. La Cina è il più grande Paese in via di sviluppo e gli Stati Uniti sono il più grande Paese industrializzato. E in mondo globalizzato non solo abbiamo enormi interessi in comune, ma condividiamo le responsabilità nel mantenimento della pace mondiale e nella promozione dello sviluppo comune. Abbiamo avviato un percorso che nessuno mai aveva intrapreso. Dobbiamo avere il coraggio e la saggezza di fare crescere la nostra amicizia. (C) 2011, Federal News Service, Inc., 1000 Vermont Avenue
ristrutturazione economica della Cina e l’avanzamento tecnologico del Paese, dando nel contempo alla nazione la possibilità di espandere gradualmente il mercato interno. La società americana troverà questa decisione accettabile. E credo che gli americani permetterebbero persino a Hu di enunciare i propri successi una volta ritornato in Cina. Come In alto, fece Deng Xiaoping che, dopo i presidenti una visita negli Usa si vantò cinese e dei risultati ottenuti pur avenamericano, do – nei fatti – compiuto un Hu Jintao viaggio mediocre. In effetti, il e Barack regime comunista cinese è staObama. to in grado di guadagnare altri Sotto, 30 anni di vita proprio grazie il ministro all’abilità di Deng nel trattare degli Esteri Yang Jiechi in maniera corretta gli interessi americani.
Probabilmente l’unico gruppo deluso da questa decisione sarebbe quello dei giovani “cinici patrioti”. Questo modello di beneficiare entrambi i lati non corrisponde ai loro sogni di espansione economica. Questo è un gruppo molto particolare, data la povertà della società e le loro sfortune personali. Non hanno un luogo dove esprimere la loro rabbia e oltre tutto non hanno un modo per incanalare il proprio risentimento contro le ingiustizie sociale. Quindi si esprimono con il patriottismo e con il razzismo, temi che il governo difficilmente può punire (come in ogni società). Quando l’economia va male e addirittura peggiora, aumenta il livello di xenofobia. Nella Cina antica, avvenivano rivolte e cambiamenti dinastici. Soltanto i pensierini speranzosi del governo possono permettere al regime di pensare che questi patrioti siano una chiave per mantenere il controllo sulla società. Perché la verità è che, alla fine, si spareranno sui piedi. Vorrei che i prossimi leader pensassero con molta attenzione a queste cose.
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Il suo attivismo passa anche per la beatificazione di Wojtyla e la nomina di un protestante a presidente dell’Accademia delle Scienze
Anno nuovo, Papa nuovo Il 2011 non poteva avere un migliore avvio per Benedetto XVI: dalle nuove leggi sulla finanza alla quarta giornata di Assisi di Luigi Accattoli
l nuovo anno non poteva avere un migliore avvio per Papa Benedetto: dal varo delle nuove leggi sulla finanza (paragonabili per importanza alle nuove regole sulla pedofilia) all’indizione di una quarta giornata di Assisi, dall’annuncio della beatificazione di Papa Wojtyla alla creazione del primo ordinariato “anglicano-cattolico”, alla nomina di un protestante a presidente dell’Accademia delle Scienze.
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Sono cinque buone mosse nel segno del riordino interno, della “continuità” con il predecessore e dell’ecumenismo. Alcune di queste scelte sono occasionali e altre strategiche, ma tutte comprensibili e apprezzabili anche da parte dell’opinione pubblica. Nell’insieme segnala-
no che dal punto di vista del governo - e dell’iniziativa personale del Papa - il Pontificato benedettiano sta vivendo forse la sua stagione migliore. Il nuovo inquadramento delle materie finanziarie promulgato il 30 dicembre - che sarà coronato dalla prossima nomina del cardinale Attilio Nicora a presidente dell’organismo di supervisione: l’Autorità di Informazione Finanziaria - dovrebbe mettere le strutture economiche della Santa Sede, tra le quali lo Ior, al sicuro dalle ricorrenti tentazioni del riciclaggio e delle speculazioni. Per dirla con il portavoce vaticano, con le misure adottate da Papa Benedetto «si eviteranno in futuro quegli errori che così facilmente diventano motivo di “scandalo” per l’opinione pubblica e per i fedeli».
Si direbbe che l’opera di moralizzazione sia risultata - in questo settore - più difficile che in quello degli abusi sessuali. Ma infine ci si è arrivati e la volontà di pulizia del Papa è confermata dalla scelta di Nicora come garante dell’applicazione delle nuove leggi: egli è stato il più rigoroso tra quanti avevano voce in capitolo nella lunga fase di approntamento della riforma. Il primo dell’anno Benedetto ha annunciato la convocazione di una quarta «giornata» interreligiosa ad Assisi per il prossimo ottobre, nel venticinquesimo della prima e dopo quelle del 1993 (guerra di Bosnia) e del 2002 (dopo l’abbattimento delle Torri gemelle). Sono subito arrivate “preoccupazioni” e proteste dall’ala tradizionalista dello schieramento
cattolico, stupita che il rigoroso Ratzinger continui sulla strada dei meeting interreligiosi cari al creativo predecessore.
Io vedo nel ritorno ad Assisi un segnale importante che il Papa teologo vuol mandare al mondo quanto alla fragilità della pace sulla terra, oggi più che mai insidiata proprio da fuochi a matrice religiosa. Nonché un secondo segnale riguardante la “continuità” con i precedenti Pontificati. Come ama riprendere la “croce papale”, che fu propria dei Papi di prima del Concilio, così Benedetto intende restare fedele ai grandi lasciti dei Papi conciliari: Assisi - come già le visite alle sinagoghe e alle moschee - è tra essi. Ed eccoci alla grande ombra di papa Wojtyla: venerdì
14 gennaio Benedetto ha fatto annunciare per il 1° maggio la sua beatificazione, decisa in tempi record rispetto a ogni altra “proclamazione” di esemplarità cristiana in epoca moderna. Ancor più i tempi ci appaiono brevi se teniamo conto che si tratta di un Papa che ha “regnato” per 26 anni e per il quale c’erano da esaminare montagne di testi e di “atti”. Anche qui c’è un’intenzione di continuità: proclamando beato il predecessore - l’Osservatore Romano ha osservato che non ci sono precedenti, lungo gli ultimi dieci secoli, di un Papa che beatifica l’immediato predecessore - Benedetto, che fu per 23 anni il suo principale collaboratore in materia dottrinale, intende anche metterne l’eredità al riparo dalle accuse più
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La missione pastorale del cardinale, tra passato, presente e futuro
Dedizione, amore e fedeltà: da S. Alfonso a Tettamanzi
All’interno della Chiesa hanno operato figure che hanno saputo tracciare un cammino luminoso. Come l’arcivescovo di Milano... di Mimmo Sieni duecento anni dalla sua morte risuona viva la figura di Sant’Alfonso de Liquori all’interno della Chiesa per la sua fedeltà e passione, avendola servita con intelligenza e ardore. Il santo visse in un periodo di grande sofferenza della Chiesa: erano gli anni in cui si stava perdendo di vista l’ideale tracciato dal Cristo, combattuta dagli Illuministi e sottoposta ad assedio del potere politico. Sant’Alfonso si spogliò di ogni riserva e decise di battersi per il rinnovamento della Chiesa, per la libertà d’azione, per la sua santità.
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naif - ma non per questo meno temibili - di “discontinuità”, che non mancano.
Eccoci infine alle ultime due decisioni, ambedue di segno ecumenico, tra quelle che abbiamo posto a oggetto di questa riflessione. Sabato 15 gennaio Benedetto ha istituito un «ordinariato» destinato ad accogliere gli anglicani che entreranno nella Chiesa cattolica, ponendo a capo di esso - e dunque in una posizione paragonabile a quella di un vescovo - un
cia Accademia delle scienze e non era mai avvenuto che un riformato fosse chiamato a tale ruolo. Per intendere lo spirito di questa decisione va richiamata la convinzione più volte espressa dal cardinale Ratzinger che «anche fuori della Chiesa cattolica ci sono molti veri cristiani e c’è molto di veramente cristiano». Ma c’è una ragione più specifica, mirata al fatto che il nuovo presidente dell’Accademia è un medico: e il cardinale Ratzinger aveva sostenuto in occasioni importanti (per
Alcune di queste scelte sono occasionali e altre strategiche, ma tutte comprensibili e apprezzabili anche da parte dell’opinione pubblica sacerdote sposato e padre di tre figli. Si tratta di Keith Newton, 58 anni, già vescovo anglicano di Richborough, riordinato come prete, insieme ad altri due vescovi anglicani, sabato a Londra nella cattedrale di Westminster. È un fatto di rilievo sia in ordine all’avvicinamento con il mondo anglicano, sia in vista di una maggiore pluriformità liturgica e canonica all’interno della Comunione cattolica. Ed è significativo che a questo passo si sia giunti per decisione di un Papa che al momento dell’elezione era stato paventato come un nemico sia dell’ecumenismo sia della pluriformità interna. Sempre il 15 gennaio - cioè sabato scorso - Papa Benedetto ha messo un protestante - lo svizzero Werner Arber, Premio Nobel ’78 per la Medicina - a capo della Pontifi-
esempio a pagina 118 di un volume pubblicato dalle Paoline nel 1987, Chiesa ecumenismo e politica) che i cristiani di ogni denominazione «dovrebbero sforzarsi di rendere insieme testimonianza quanto alle grandi questioni morali». Papa Benedetto confida di trovare nel riformato Werner Arber un alleato per una «testimonianza comune» nel campo sempre più caldo della bioetica.
Tra piccole e grandi notizie ne abbiamo esaminate cinque che sono arrivate in due sole settimane e che depongono bene sulla salute del pontificato di Benedetto XVI, che è ormai in vista del compimento del quinto anno - il 19 aprile entrerà nel sesto - e che ci appare più che mai attivo e proiettato in avanti. www.luigiaccattoli.it
Nato nel 1626, in età giovanile svolse con eccellenza la professione di avvocato: ma testimone di una serie di ingiustizie perpetrate dalla magistratura nella pronuncia e applicazione iniqua delle leggi, interruppe improvvisamente la professione orientandosi verso il sacerdozio. Ma soprattutto presagì invitando (in tempi non sospetti) “re”e “principi”al rispetto della ripartizione di parte dei beni al popolo e suggerendo l’applicazione della giustizia in maniera equa (anche di fronte alla disparità di potere tra le parti) con la pubblicazione del 1777 del volume Fedeltà dei vassalli, stampato e divulgato soprattutto in Francia: inascoltato, dopo dodici anni arrivò la Rivoluzione Francese… Sono passati oltre duecento anni ma la tanto agognata “eguaglianza” non è ancora stata raggiunta. Sono cambiate, in parte, le problematiche ma la fame colpisce e provoca la morte prematura di tante piccole vite mentre le “opulenze”annegano nelle civiltà che impongono, per ragioni matematiche di economie del profitto, che i cibi vengano distrutti e non distribuiti alle genti dove le urla dalla fame e del disagio oscurano la luce dei loro occhi. Risplende la figura di Giovanni XXIII: la sua sensibilità arrivò a tal punto, da fargli presagire alcuni eventi poi accaduti. Il dolore che ricorrentemente accompagnava il suo percorso terreno era il sentire i gemiti delle sofferenze così come le voci dei bambini che piangevano: nel 1976 è stata pubblicata una raccolta di profezie di Giovanni XXIII (Edizione Mediterranee) dove il compianto pontefice, tra le altre, presagiva la caduta del Muro di Berlino e l’avvento di un Pontefice dal nome di Benedetto. Arriva la figura di Giovanni Paolo II, che con il suo pontificato mostrò, in un periodo della storia dell’umanità dominata dal potere economico, come le gesta e le parole nate del profondo dell’anima abbiamo potuto scuotere le coscienze delle persone: l’umanità allo spi-
rar del suo ultimo respiro ha spontaneamente reso omaggio (credenti e non) alla sue gesta ringraziandolo intimamente per essere stati incitati a «non aver paura»… Il suo esempio di come ha lasciato la sua vita terrena ne è stata una prova tangibile: non si è fato intimidire dal disgregamento progressivo che assaliva il suo fisico, e - indefesso - ha continuato fino all’ultimo respiro nella sua missione di pastore dando voce e sostegno alle genti. Abbiamo voluto parlare, in questo periodo di festività, di alcuni uomini che nel corso della storia della Chiesa si sono prodigati per l’eguaglianza, la giustizia, la difesa dei deboli, l’attenzione per il rispetto dei diritti dei fanciulli e del futuro dell’umanità… Parlando invece del presente, appare la figura di Dionigi Tettamanzi, cardinale e arcivescovo di Milano: la sua voce nel richiamare i politici, i banchieri a munirsi di «nuove lenti» per vedere e dar vita all’economia solidale come strumento di sviluppo prossimo è un imput ricorrente nella sua missione pastorale. Con il cardinale Tettamanzi nasce, anche (a nostro avviso), una “parabola” del nostro tempo: il suo opuscolo Nessuno sia solo (lettere alla famiglia) è colmo di momenti di profonda emotività che raggiunge al cuore le famiglie e risveglia l’ardore delle anime assopite dalla rassegnazione. Ebbene, in una delle lettere presenti nell’opuscolo, cioè inviata ai genitori di un figlio con gravi handicap, nasce con una semplicità disarmante una “parabola”dei nostri giorni, si legge: «Ci sono però mamme e papà che come Giovanna e Roberto si sono lasciati condurre pian piano dal figlio che non poteva camminare ma li ha portati lontano… Sono stati istruiti da una sapienza Superiore dal figlio che impara cosi poco e cosi lentamente… sono stati tratti fuori dal loro isolamento, dalla timidezza di comunicare dal loro figlio che comunicare quasi non sa...».
Il suo opuscolo “Nessuno sia solo” raggiunge al cuore le famiglie e risveglia tutte le anime assopite
Questa rappresentazione descritta da Dionigi Tettamanzi lascia il lettore - in estasi - dinanzi a questa realtà nascosta fatta emergere con la semplicità che può solo una mano del Cristo sa offrire… Vogliamo concludere queste brevi riflessioni nel segno della ricerca dell’eguaglianza, dello sviluppo di una finanza con finalità solidale, di una giustizia più equa, del rispetto dei diritti umani e dei fanciulli richiamandoci, ancora una volta, alle parole di Giovanni Paolo II: «Non abbiate paura...». Anche se donando le tue energie e il tuo amore, troverai chi alla spalle ti colpirà, aggiungiamo noi.
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Iraq. Vent’anni fa l’attacco in diretta Tv a Baghdad. Il mondo è cambiato, l’Italia invece no e vuole dimenticare
Desert Storm: chi ricorda di Mario Arpino er la maggior parte dei nostri concittadini, o almeno per quelli più fortunati e per i meno avventurosi, la notte tra il 17 e il 18 gennaio è stata una notte serena, come tutte le altre. Per una trentina di piloti e navigatori dei nostri cacciabombardieri Tornado, per un paio di centinaia di specialisti e per le loro famiglie, invece, è notte di ricordi intensi e coinvolgenti. Venti anni fa, tra il 16 e il 17 gennaio 1991, le forze aeree di una coalizione di 35 nazioni che avevano aderito all’appello dell’Onu iniziavano la fase di attacco alle divisioni irachene che avevano invaso il Kuwait nei primi giorni di agosto. La Guerra del Golfo, di fatto l’ultima ad essere combattuta secondo dottrina e senza troppe falsificazioni ideologiche, entra così nella sua fase calda.
P
tentativi prosegue isolato la missione, attacca e distrugge l’obiettivo, ma poi incappa nel fuoco della contraerea e viene abbattuto in territorio nemico. Per questa azione coraggiosa, verrà poi decorato con la medaglia d’argento al valor militare.Tutte le successive 225 sortite di attacco proseguono con successo fino al
ciò che ci soffermiamo ad osservare. Una prima riflessione porta a pensare che quella guerra, pericolosa e costosa per gli ingenti mezzi impiegati e per le distruzioni apportate, se è stata risolutiva per quanto riguarda il Kuwait, non ha risolto le ambiguità della situazione nell’area. Come non le ha risolte la guerra successiva, dodici anni dopo. Certo, Saddam non c’è più, ma siamo proprio sicuri che, con il senno di poi, per l’ Occidente sia davvero un grande vantaggio? La seconda ri-
COCCIOLONE?
Il 29 novembre il Consiglio di Sicurezza aveva approvato la risoluzione 678, che consentiva l’uso della forza se l’Iraq non si fosse ritirato dal Kuwait entro le 24.00 del 15 gennaio 1991 (06.00 del 16 gennaio, ora di Roma). Ma noi, il giorno dell’inizio delle operazioni, non disponevamo ancora di alcuna autorizzazione nazionale.Tutti partono, ma i nostri, con le bombe già sotto le ali, tra i sorrisetti degli Alleati e con grande imbarazzo, sono costretti a stare a guardare gli altri che decollano. L’autorizzazione, dopo un estenuante dibattito parlamentare, arriva solo il giorno successivo, appena in tempo per essere frettolosamente inseriti nel programma della seconda ondata. Come noto, l’esito di questa nostra prima missione fu sfortunato. Nella notte, decollano otto Tornado, armati con cinque bombe da 1.000 libbre ciascuno. Fanno parte di un pacchetto di una quarantina di velivoli che, in un’area temporalesca, devono agganciare gli aerei cisterna e rifornirsi. A causa della forte turbolenza nessuno ci riesce e tutti, meno uno, ritornano alla base. Solo il maggiore Bellini, che aveva il capitano Cocciolone come navigatore, dopo vari
24 febbraio, data dell’ingresso delle forze terrestri arabe, americane, inglesi e francesi. Saddam, sconfitto, si ritirerà dal Kuwait.
Da quella notte sono trascorsi vent’anni. Cosa è cambiato? Tutto e niente, a seconda di
È stato l’ultimo conflitto ad essere combattuto senza falsificazioni ideologiche: alias “operazione di pace”
flessione riguarda la politica italiana. Qui, non è cambiato nulla davvero. Si continua a lanciare il sasso e a nascondere la mano, senza pensare che per i soldati sul campo è necessaria estrema chiarezza. Non si può mandarli a combattere e legare loro un braccio dietro la schiena, per timore di quella parte di opinione pubblica che i soldati non li vorrebbe proprio, se non per raccattare immondizia o scavare nel fango delle alluvioni o tra le pietre dei terremoti. Ciò nonostante, da allora ad oggi un progresso nell’atteggiamento verso i militari è innegabile. Ma dal grande pubblico, non dalla classe politica. Iraq, Kosovo o Afghanistan, nel Palazzo continuiamo a sentire sempre gli stessi discorsi.
Questa del 1991 era stata una guerra vera, senza troppe alterazioni semantiche, con finalità di cui essere orgogliosi. Ma forse proprio per questo oggi è difficile leggerla negli elenchi delle “operazioni di pace”. Guerra da “dimenticare”, scomoda, dai più già dimenticata.