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he di cronac
Nulla è creduto così fermamente come ciò che meno si sa
Michel De Montaigne 9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 19 GENNAIO 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Prime crepe nella maggioranza: tra Lega e Pdl si inizia a parlare di piano B. Casini: «Faccia un passo indietro»
Il vuoto del potere Allarme dal Colle e dalla Cei: «Chiarezza subito o l’Italia rischia» Il “caso Ruby” non può paralizzare il Paese. Un soldato muore in Afghanistan e Bankitalia dice: «Sale il debito delle famiglie». O Berlusconi decide di lasciare o siamo davvero nei guai di Errico Novi
Il silenzio degli innocenti Lettera aperta a Tremonti, Frattini, Maroni, Formigoni e a tutti i “responsabili” del centrodestra: non è il momento di assumere un’iniziativa presso Berlusconi perché capisca che, al di là dello scontro giudiziario, l’Italia non può più essere rappresentata, in tempi di crisi e speculazioni, da un premier che è ormai, visibilmente,“inadatto” a governare? Oppure ritengono che il loro dovere istituzionale sia quello di difenderlo a tutti i costi? a difesa che del presidente del Consiglio fa la maggioranza era prevedibile, forse scontata ma senz’altro non condivisibile e neanche del tutto comprensibile. Infatti, rispetto ai casi precedenti c’è ora da parte di Silvio Berlusconi un perseverare nell’errore che va ben oltre non la morale e la decenza ma il più realistico calcolo delle opportunità.
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ANCORA SANGUE ITALIANO: la vittima questa volta si chiama Luca Sanna, 33 anni (a pagina 15)
ROMA. Di qua e di là dal Tevere, il Colle e il Vaticano, per una volta sono d’accordo: occorre fare chiarezza subito. Se Berlusconi non risponde al più presto e con fatti concreti alle centinaia di prove che lo accusano, il Paese è a rischio credibilità. È questo il senso della dichiarazione fatta da Giorgio Napolitano che parla di grande turbamento fra gli italiani invitando il premier a chiarire le cose in sede giudiziaria. Quanto ai vescovi, poi, la Sir, agenzia della Cei dice: «Bisogna che si faccia chiarezza in termini stringenti, che la questione sollevata dalla procura di Milano abbia delle celeri risposte, così da non tenere sul filo la politica, le istituzioni, più ampiamente la governabilità». a pagina 2
La partecipazione degli operai agli utili dell’impresa
Vi piace la proposta Marchionne? Purché non sia solo una presa in giro
Capitale & Lavoro: oltre la Costituzione
di Savino Pezzotta
di Francesco D’Onofrio
accordo Fiat, superato di stretta misura il consenso dei lavoratori, ora richiede che l’azienda dia corso ai suoi impegni e renda chiari e visibili le idee e i percorsi di investimento su cui intende appoggiare il rilancio in Italia e nel mondo.
l risultato del referendum Mirafiori è stato analizzato da molti punti di vista: il rapporto tra capitale e lavoro; quello tra lavoro e diritti; quello tra la Fiom e gli altri sindacati che si sono spesi per il sì; il rapporto tra la Fiat e la Chrysler e altri ancora.
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segue a pagina 5
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Il successo di Zalone e Albanese. Il loro Paese è il nostro Paese: purtroppo o per fortuna?
Che bella “qualunque”giornata italiana Checco, l’irriverente
Cetto, il chiaroveggente
di Bruno Giurato
di Riccardo Paradisi
desso lui chiede scusa, perché il suo film è quello che ha incassato di più in assoluto in Italia, e ha superato perfino i due mezzi film di Benigni che rispondono al nome di La vita è bella, tanto celebrati sull’erta filosofica della poesia dopo Auschwitz (anche se il film più forte a riguardo e più atrocemente umoristico è stato Train De Vie di Radu Mihaileanu). a pagina 9
a tentazione di leggere l’epopea calabra di Cetto La Qualunque – chiu pelu per tutti – in filigrana con le vicende porno-politiche di queste ore è il riflesso più facile e più condizionato cui cedere. Un riflesso inevitabile, peraltro, vista la sincronicità tra l’uscita del film e l’esondazione delle presunte rivelazioni sulla vicenda di Ruby Rubacuori. a pagina 8
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I QUADERNI)
• ANNO XVI •
NUMERO
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12 •
WWW.LIBERAL.IT
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IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
prima pagina
pagina 2 • 19 gennaio 2011
il fatto Il Quirinale smentisce una telefonata con il premier. E intanto anche nella maggioranza c’è chi comincia prendere le distanze
L’asse Napolitano-Cei
Il capo dello Stato e i vescovi sono concordi: Berlusconi deve fare subito chiarezza, altrimenti la governabilità del Paese è a rischio la lettera di Errico Novi
ROMA. Clima pesante. Clima da accerchiamento. Il girone infuocato del caso Ruby, dell’inchiesta su donne, festini e stravizi del premier, produce una nube densa, opaca. Che avvolge per ore le residenze di Berlusconi. Non tace il Quirinale. Con una nota Napolitano allontana innanzitutto l’idea di un rassicurante filo diretto tra il Colle e il presidente del Consiglio: «Non c’è stata alcuna telefonata». Il contatto, riferito lunedì da alcuni quotidiani, in cui il Capo dello Stato avrebbe convenuto sui danni arrecati all’Italia dall’indagine milanese, non sì è mai verificato. Non sotto forma di colloquio diretto e personale. Ancora di più pesa la richiesta esplicita contenuta nel comunicato di Napolitano: «Si faccia chiarezza, al più presto». Al più presto vuol dire che senza indugiare «nelle previste sedi giudiziarie si proceda ad una compiuta verifica delle istanze investigative». Berlusconi dovrebbe vedere chiara l’opportunità di recarsi dai magistrati, spiegare la sua posizione e assumersi delle responsabilità. Il presidente della Repubblica si dice «ben consapevole del «turbamento dell’opinione pubblica dinanzi alle gravi ipotesi di reato e ai numerosi elementi riferiti» che sono «relativi all’indagine». Il clima è pesante perché anche l’agenzia dei vescovi, il Sir, interviene per sostenere analoga tesi: «Si faccia chiarezza in termini stringenti» sul caso Ruby, «così da non tenere sul filo la politica, le istituzioni, più ampiamente la governabilità».
Appello che si rivolge evidentemente anche ai titolari dell’inchiesta, esattamente come la nota del Quirinale. Quella del Sir è un’esortazione che si integra con l’editoriale di Avvenire sulla doverosa «sobrietà che deve sapersi dare chi ricopre cariche pubbliche». La presidente di Confindustria Emma Marcegaglia si aggiunge al coro: «L’Italia ha bisogno di un governo capace di governare», dice. Dall’opposizione si colgono toni molto aspri. Soprattutto nelle parole di Dario Franceschini, che chiede alla Camera «un sussulto» di Berlusconi «in quest’ultima fase della sua esperienza politica». Il premier «lasci al Capo dello Stato, al Parlamento e alla sua stessa maggioranza il compito di trovare una guida alternativa per il Paese». Pier Ferdinando Casini ricorda che «non serve
È arrivato il momento di pensare all’Italia, non più solo al Cavaliere
Appello alla maggioranza: basta con il silenzio complice a difesa che del presidente del Consiglio fa la maggioranza era prevedibile, forse scontata ma senz’altro non condivisibile e neanche del tutto comprensibile. Infatti, rispetto ai casi precedenti - Noemi Letizia, Patrizia D’Addario e la stessa Karima El Mahgroug, meglio nota come “Ruby” - c’è ora da parte di Silvio Berlusconi un perseverare nell’errore che va ben oltre non la morale e la decenza ma il più realistico calcolo delle opportunità.
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L a c a r t i na d i t o r na s o l e
lo, ma anche Beppe Pisanu… si devono porre il problema - e crediamo che nelle loro coscienze e in camera caritatis già se lo siano posto - di dare corpo a un’iniziativa che induca Berlusconi a considerare che così non si può e non si deve più andare avanti. Ogni atteggiamento moralistico è fuori luogo. Qui abbiamo a che fare “solo”con la vita delle istituzioni. L’opposizione è impotente per il semplice motivo che è opposizione, cioè minoranza. Ma la maggioranza non può continuare a ritenere che il suo unico scopo sia quello di proteggere il presidente del Consiglio dalla verità che tutto il Paese ormai conosce. La battaglia che difende la vita privata delle persone - anche quella del capo del governo - è sacrosanta: ciò che accade nelle stanze di casa mia è affare mio e basta. Ma questa battaglia civile e liberale ormai non riguarda più Berlusconi che è stato il primo, purtroppo, a far scontrare pubblico e privato, piacere e istituzioni.
Esistono doveri istituzionali per la maggioranza che vengono prima dei calcoli politici
di quanto sta avvenendo sotto gli occhi degli italiani è lo stesso capo del governo: per la prima volta le parole di difesa del premier pronunciate in video con lo strumento collaudato della videocassetta sono risultate non solo non credibili ma anche smentite e confutate dai fatti riportate per filo e per segno dalla stampa. Qui non riteniamo opportuno soffermarci ancora una volta su questi fatti e su queste cronache perché, invece, crediamo che sia doveroso sottolineare l’aspetto civile e politico più importante per tutti: la paralisi del funzionamento delle istituzioni repubblicane. Chi se non la maggioranza e gli uomini più vicini al presidente del Consiglio dovrebbero intervenire e organizzare un “gruppo di responsabili” o una “opposizione repubblicana” per porre al capo del governo ciò che ormai solo lui non vede o solo lui crede che tutti non vedano? La maggioranza, invece, venendo meno ai suoi doveri verso se stessa e verso il Paese, lo asseconda. Giulio Tremonti, Roberto Maroni, Fabrizio Cicchitto, Gaetano Quagliariel-
La maggioranza ha dei doveri istituzionali che vengono prima dei calcoli politici e della difesa del governo. Ma, forse, siamo arrivati a un punto in cui le due cose - calcolo e dovere - iniziano a coincidere. Gli uomini del presidente, però, sono silenziosi. Il loro silenzio non è il contrassegno della loro innocenza. C’è bisogno di un moto di orgoglio. Qualcuno dovrà pur avere il coraggio di dire no a Silvio Berlusconi. In fondo, se si è giunti a questo punto è proprio perché gli uomini che lo consigliano lo hanno fino ad oggi mal consigliato e all’esercizio della libertà di pensiero e azione hanno preferito continuare con l’idea della persecuzione politico-giudiziaria.
minimizzare», «prendersela con la magistratura per la modalità delle indagini», perché «siamo alla sostanza e non più alla forma, e io se fossi il presidente del Consiglio valuterei con serenità l’ipotesi di fare un passo indietro». I finiani di Futuro e libertà sollecitano a loro volta il Cavaliere ad andare dai magistrati a difendersi. «Oppure si dimetta».
Berlusconi comprende che in giro non tira aria di indulgenze plenarie. I fatti di Villa San Martino; le decine di ragazze pagate per spettacolini a luci rosse di cui lui stesso, il premier, è il protagonista principale; il reato di concussione costruito dai pm milanesi su basi fin troppo solide; il rischio di vedere emergere anche l’altro gravissimo profilo penale, quello della prostituzione minorile; tutto questo rende la posizione del Cavaliere assai più delicata e difficile rispetto a vicende precedenti e analoghe. Nulla a che vedere con Noemi Letizia. E il caso D’Addario al confronto è una delle barzellette care al premier. Non si notano d’altronde particolari sussulti nel Pdl. E neppure nella Lega, nonostante la tensione sull’asse Arcore-via Bellerio-Palazzo Grazioli si affetti con la lama del coltello. A tenere appena stabile il quadro della maggioranza è la disperata compattezza dei berlusconiani. Nessuno smottamento verso l’ipotesi, che pure circola, di un incarico a Tremonti. Ipotesi che Napolitano non considera irrealistica. Che lo stesso Letta, nei suoi contatti con il Colle, non si sente di escludere. E che però molti nel governo e nella coalizione considerano un esito quasi ineluttabile. Ciononostante non si notano cedimenti nell’armata del Pdl. Si fanno notare solo Tremonti stesso per il suo silenzio e Formigoni per una frase, magari timida, che però è l’unica ad attestare un barlume di spirito critico: «Dalle intercettazioni emergono fatti non confortanti». Ma anche per il governatore della Lombardia bisogna «andare avanti». Non ci sono alternative a questo governo. A funestare la giornata c’è l’ennesima tragedia che colpisce il contingente italiano in Afghanistan, con la morte dell’alpino Luca Sanna. È un lutto che costringe d’altronde per qualche ora l’esecutivo a occuparsi della realtà. Persino Berlusconi si fa notare con un’attestazione di sostegno ai nostri soldati. Attorno però il clima è plum-
l’intervista Il direttore di “Tempi”: «Certo è che i pm lo perseguitano»
«Se fosse tutto vero, sarebbe terribile»
«Un cattolico leggendo le intercettazioni, pensa: aiutiamolo a uscire da un problema molto grave» di Gabriella Mecucci
ROMA. Prima ancora di quella del Presi-
Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e, sotto, Angelo Bagnasco, presidente della Cei. A destra, Luigi Amicone, direttore di «Tempi», settimanale di Comunione e liberazione beo. Pesano come macigni le parole delle frequentatrici di Arcore, ben presenti tra le carte pervenute alla giunta per le Autorizzazioni di Montecitorio. Pesa il reato ipotizzato su Ruby, la richiesta della Procura di una fase preliminare lampo, capace di trascinare Berlusconi a dibattimento prima ancora che Ghedini possa accendere il fornello sotto l’alambicco. Appena rientra nella sua residenza romana, il presidente del Consiglio tenta di scrollarsi di dosso la fuliggine in un trilaterale (c’è anche Letta) con Luca di Montezemolo. Si parla del vettore ferroviario Ntv a cui lavora il presidente della Ferrari. «Di questo e assolutamente non di questioni relative al governo», spiegano da Palazzo Grazioli. Lo stesso Montezemolo dichiara senza perifrasi che «non si è parlato di politica». Visto il clima per qualche minuto si diffonde tra i palazzi e nelle redazioni il presentimento dell’eruzione. Montezemolo nel governo, o addirittura a Palazzo Chigi. Anche perché coincidenza vuole che subito dopo l’incontro con il presidente della Ferrari, Berlusconi faccia rotta per il Quirinale. Non va a dimettersi ma a officiare una delle tante scadenze del program-
ma di Italia 150. «L’incontro con Montezemolo era in agenda da settimane, quello al Quirinale anche», spiegano con tono calmo i berlusconiani. Nessun allarme.
Se non fosse che le principali istituzioni della Repubblica e del Paese, Vaticano compreso, aspettano con impazienza un passo di Berlusconi verso la Procura milanese. Pier Luigi Bersani dice: «Visto che è così intensa, è proprio alla vita privata che Berlusconi dovrebbe ritirarsi». Accadrebbe se dentro al Pdl l’ansia per l’insopportabile stallo si trasformasse in pressione sul capo, in invito al passo indietro. Di una simile clamorosa svolta però non si scorgono segnali. Anzi, gli infaticabili marmittoni del Parlamento si applicano come se nulla fosse al piano“gruppo dei reponsabili”. Anche Grassano scioglie la riserva. La quota minima dei venti dunque sarebbe al sicuro, e già domani potrebbe avvenire la costituzione formale davanti al presidente Fini. Il parere sul federalismo municipale in commissione bicamerale slitta invece al 26 gennaio, data prossima al limite ultimo del 28. La politica vera, le riforme, possono attendere.
dente della Repubblica, era arrivata in mattinata la reazione allarmata del mondo cattolico alle anticipazioni dei risconti legali sulle accuse a Silvio Berlusconi. L’Avvenire notava: «L’idea del premier implicato in prostituzione ferisce e sconvolge». Il quotidiano dei vescovi, e subito dopo la Sir, agenzia stampa della Cei, chiedevano per questo «chiarezza in termini stringenti, che la questione sollevata dalla Procura di Milano riceva risposte celeri». Nonostante la prudenza, non c’è sottovalutazione della gravità dei comportamenti del capo del governo. Anche il Presidente della Regione Lombardia Formigoni faceva sentire la sua voce a stretto giro di posta: «Non è qualcosa di confortante - ammetteva - ma si tratta di accompagnare alla malinconia per quello che sta uscendo la considerazione che va rispettata la privacy di tutti». Per comprendere meglio quale sia in questo momento lo stato d’animo di un cattolico di centrodestra, abbiamo intervistato Luigi Amicone, direttore della rivista Tempi, settimanale del movimento “Comunione e Liberazione”. Amicone, che impressione le fa leggere quelle intercettazioni? Non c’è dubbio che siano indifendibili. Non posso però dimenticarmi che sin qui ho sentito solo la voce dell’accusa e non ancora quella della difesa. Ho l’impressione che siamo spinti a gridare “a morte, a morte” prima del processo. E questo non mi piace. Ma quello che accade nelle notti berlusconiane è figlio di una cultura e di un costume opposti a ciò che la Chiesa cattolica predica.. Sembra figlio, a quello che si legge, di un’idea del sesso come fuga, una sorta di valvola di sfogo terreno. Un cattolico, ad ascoltare certe cose pensa che chi le dice e soprattutto chi le pratica - ha bisogno dei sacramenti, che deve essere aiutato a uscire da un problema molto serio. Mi fa specie però che ad impugnarle e a usarle come clave contro il premier siano i fautori del libertinaggio. Quelli che un giorno sì e un altro pure chiedono alla Chiesa di non impicciarsi di queste cose, di non infilarsi sotto le lenzuola. Proprio questi signori adesso vogliono far cadere Berlusconi per uno scandalo sessuale. L’unico a suo modo coerente è Pannella. Sostiene che l’operazione della Procura di Milano è tesa a cambiare premier e a portare a Palazzo Chigi Tremonti o Formigoni in chiave sessuofobica. E tutto questo lo preoccupa non poco tantoché lo ha denunciato esplicitamente a Radio Radicale. Gli altri libertini sono diventati moralisti. Ma la cosa che mi colpisce in modo particolare è il metodo
che si usa nelle intercettazioni. Roba da far paura. Cosa vuol dire? Mi spaventa questo registrare per mesi e mesi conversazioni che poi si fanno trapelare sapientemente. Un grande archivio di informazioni sulla vita privata che può diventare una potente arma. Attenti a un simile modo di procedere perchè può essere usato contro tutti. Ora tocca al re, ma poi può arrivare sino a noi. Così si può colpire prima della sentenza. Addirittura prima del processo. È d’accordo quindi con Avvenire e con la Sir affinchè si arrivi a “risposte celeri”? Certo che sono d’accordo. Anche se mi permetterei umilmente di sollecitare Avvenire a una riflessione sul modo di procedere della Procura di Milano. Ma in questa storia c’è di mezzo una ragazza minorenne.. Certo, ma deve essere provato che cosa è realmente accaduto e se il premier fosse a conoscenza dell’età della ragazza. Il testo dell’intercettazione in cui Ruby dice di voler chiedere 5 milioni, potrebbe anche essere interpretato come una banda di malfattori che introduce una minore in casa di Berlusconi per poterlo poi ricattare. Occorre aspettare ciò che dirà la difesa, quali spiegazioni sarà in grado di fornire sul comportamento del premier. E sperare, chiedere che i chiarimenti arrivino prima possibile. La sua prudenza è apprezzabile, ma mi scusi, in questa storia qualche punto fermo si può già mettere... Lo faccio volentieri. Il primo è che Berlusconi è un perseguitato politico. Basta vedere che cosa è accaduto da quando è sceso in campo: perquisizioni, indagini a catena, processi. Non mi dirà che è normale? Non è capitato mica a tutti. Ma come è possibile però che il premier di un grande paese, leader del partito di maggioranza, in poco più di un anno abbia collezionato lo scandalo Noemi, lo scandalo D’Addario e lo scandalo Ruby? Il secondo punto fermo è infatti che Silvio Berlusconi si è comportato in modo imprudente. Questo fa parte della cronaca. Del resto i suoi migliori amici, vedi Giuliano Ferrara gli hanno più volte fatto notare che non può non tener in massimo conto di essere il premier. E che come tale deve muoversi, nel senso che deve stare ben attento non solo alla sostanza dei suoi comportamenti ma anche alle apparenze. Questo è vero, ma non cancella l’elemento persecutorio di certi giudici e il rischio insito in certi modi di indagare e di alzare polveroni.
Il presidente della Lombardia Roberto Formigoni: «Questo non è un momento molto confortante»
speciale fiat
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DAGLI ANNUNCI ALLE DECISIONI
Purché non sia uno slogan Subito nuove regole per non fermarsi alle parole di Savino Pezzotta accordo su Mirafiori, superato di stretta misura il consenso dei lavoratori, ora richiede che la Fiat dia corso ai suoi impegni e renda chiari e visibili sia le idee sia i percorsi di investimento, di nuovi progetti e su quale rete commerciale intende appoggiare il rilancio dell’azienda in Italia e nel mondo. Dalla intervista del dottor Marchione a la Repubblica (due pagine!) mi sarei atteso molto di più su questo terreno, mentre mi è sembrata una sorta di autoanalisi sul come si erano svolti i rapporti con i sindacati. Credo però che ormai questa distribuzione dei ”pani e dei pesci”non serva a molto se non vengono messe in campo le gesta per altro. Non sottovalutato, comunque, che per la prima volta c’è una piccola apertura sulla partecipazione agli utili, ma mi è sembrata più una dichiarazione di buona volontà che non altro. E infatti il dottor Marchionne la lega alla realizzazione degli utili, che mi è sembrata una precisazione lapalissiana. Il problema non è solo di legarla agli utili ma di inserirla in un discorso più ampio di partecipazione.
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tanti dei lavoratori agli organi societari. La questione non riguarda solo la Fiat ma l’insieme del sistema produttivo italiano e non si tratta di produrre un modello di socializzazione corporativa, ma un modello più efficiente. Per questo occorre tenere presenti i diversi modelli di governo societario.
Con riferimento alle società che impiegano il modello dualistico, va prevista la partecipazione di rappresentanti dei lavoratori al consiglio di sorveglianza. Per quanto attiene alle altre società, che occupino più di trecento lavoratori e siano diverse dalle società cooperative, va previsto un momento di confronto diretto fra il consiglio di amministrazione e la rappresentanza dei lavoratori. Proprio perché il confronto è con l’organo direttamente ed esclusivamente responsabile dell’amministrazione della società, non si tratta di una ripetizione di forme di consultazione già previste. Il modello partecipativo può rendere più articolato anche il secondo livello delle contrattazione e concentrarla sulle specificità aziendali, come l’organizzazione del lavoro, la sicurezza, l’accrescimento professionale, le mansioni, il merito e non solo sul semplice e puro salario. In questo contesto si possono definire i piani di partecipazione azionaria dei lavoratori.
La partecipazione di tutti gli operai agli utili dell’impresa
La sfida per la competitività non si vince solo comprimendo i diritti e le tutele, oppure riorganizzando il lavoro
Oggi la partecipazione, soprattutto dopo le vicende della vertenza e del referendum tra i lavoratori, è diventata di stringente attualità. A tempi di Bruno Storti, grande e in parte dimenticato segretario generale della Cisl, nel lancio di un modello trade unionista e non classista del sindacato, era stato lanciato lo slogan del «potere contro potere» ovvero che oltre l’antagonismo deve instaurarsi un equilibrio tra il potere della proprietà e del management e quello dei lavoratori in una logica che l’impresa non era fatta solo di capitale ma anche di lavoro e che se era vero che gli azionisti rischiavano i soldi investiti quando l’azienda perdeva di competitività, il lavoratore perdeva l’unico suo capitale e il lavoro. Nei tempi in cui viviamo, il tema è tornato ad essere di attualità, se si vuole reggere le sfide della competitività a livello internazionale, non basta contenere, modificare e comprimere i diritti e le tutele o fare tutti gli aggiustamenti necessari all’organizzazione del lavoro, serve che l’azienda e le sfide siano vissute come sfide comuni. Ma per portarli dentro, come dice Marchionne, va affrontato il tema della partecipazione dei rappresen-
Il segretario Uil Luigi Angeletti
«Prima aspettiamo g li uti li, p o i di sc ut ere mo d e l rest o» di Franco Insardà
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Non sono mancate esperienze al riguardo. La mancanza di un più articolato quadro normativo di riferimento tuttavia, ha condizionato tali esperienze ed è questa carenza di base legislativa l’aspetto a cui il disegno di legge che ho presentato a Giugno 2010 intende ovviare. A svolgere il ruolo di fonti istitutive dei piani di partecipazione azionaria tocca ai contratti collettivi, ferma restando la volontarietà dell’adesione dei lavoratori a tali piani. Dunque anche da questo si evince che il contratto nazionale ha ancora un ruolo importante e innovativo da giocare. Andrà riformato ma non può essere superato o sbaraccato.Vedremo se la Fiat e il sistema produttivo italiano saranno in grado di accettare l’innovazione partecipativa la logica paritaria di potere e rappresentanze diverse, ma che giocano la stessa partita.
ROMA. A sentir parlare di partecipazione agli utili, di barlumi di cogestione tedesca tanto cara agli alleati della Cisl, a Luigi Angeletti viene da sorridere. «Quando ci saranno gli utili», nota il segretario generale della Uil, «ne discuteremo». Al momento, e l’ha ricordato a Sergio Marchionne anche l’ultima volta che l’ha sentito, aspetta di andare all’incasso, di vedere realizzate «le garanzie sui nuovi modelli e sugli investimenti». Sono state queste condizioni a spingere il sindacato di via Lucullo ad «accettare la scommessa su Fiat. E speriamo di vincerla». Segretario, ma quella di Marchionne è una rivoluzione? Sul tema della partecipazione agli utili noi non abbiamo un atteggiamento ideologico, ma estremamente pratico:
Vi piace la sua proposta?
lo facciamo se ci conviene. Accanto alla salvaguardia dei posti di lavoro e anche al suo incremento pensiamo ci debba essere un aumento dei salari. Poi si potrà pensare alla partecipazione agli utili. Se questo è il futuro, il presente, però, è l’impegno di Marchionne a pareggiare i salari tra gli operai italiani e tedeschi. Ma come ci si può riuscire? Ci vorrà un po’ di tempo, ma si può raggiungere l’obiettivo con un incremento di produttività e con un carico fiscale minore sugli aumenti salariali collegati. Sarebbe un grande risultato al quale si può realisticamente pensare. Marchionne vuole un’intesa separata anche per Melfi e Cassino: vedremo anche per questi due stabi-
limenti la stessa querelle registrata per Pomigliano e Mirafiori? A Melfi già esiste un accordo simile, ma la cosa importante per noi è che si segua la stessa logica che abbiamo cercato di sostenere, finora con successo, a Pomigliano e Mirafiori. Quale? Quella di abbandonare l’antica tradizione sabauda di fare accordi uguali per tutti gli stabilimenti che uguali non sono. Bisognerà affrontare i vari casi con la stessa metodologia adottata a Torino, basata sull’occupazione, l’organizzazione del lavoro, i modelli e gli investimenti. A proposito di modelli Marchionne dice che l’azienda è pronta con quelli nuovi per la ripresa del mercato. Ci credete?
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UNA SCOMMESSA SUL FUTURO
Sì, apre al rinnovamento Vuole costruire un nuovo progetto di industria di Francesco D’Onofrio segue dalla prima Si tratta di argomenti certamente importanti perché attinenti a questioni fondamentali della produzione e della vendita di auto in Italia, in Europa, negli Stati Uniti e in altre parti del mondo. Ma non vi è dubbio che su tutti questi argomenti deve avere la precedenza la questione delle conseguenze che il processo di globalizzazione in atto deve avere e sta avendo anche per quel che concerne un settore produttivo particolarmente rilevante, qual è quello dell’automobile.
Il contratto proposto da Marchionne infatti è stato sostanzialmente motivato dalla necessità di passare da un sistema di relazioni industriali sostanzialmente vissuto all’interno dell’Italia, ad un tentativo di costruire un nuovo sistema di relazioni industriali caratterizzato appunto dal fatto che l’Italia non è più una sorta di isola separata dal resto del mondo ma, appunto, un segmento – seppur importante – del processo produttivo tipico della fase attuale della globalizzazione, della produzione di autovetture. Il contratto infatti è stato sostanzialmente vissuto quale una sorta di adeguamento necessario del sistema italiano di relazioni industriali al sistema oggi in qualche modo imposto dal mondo contemporaneo, caratterizzato appunto dalla competitività mondiale del mercato dell’autovettura. Questa è infatti apparsa la questione di fondo posta dal referendum, e su questa questione occorre pertanto cercar di valutare quel che è necessario cambiare nel sistema di relazioni industriali che la Costituzione italiana ha scritto più di quarant’anni orsono, in un contesto nel quale sembrava che la stessa democrazia politica ed economica dovesse scegliere tra una soluzione individualistico-liberale e una soluzione collettivistico-comunista, mentre era evidente che si cercava anche di proporre un modello di relazioni industriali fondato più sulla ricerca del profitto comune a capitale e lavoro, e non sulla premessa di una contrapposizione irriducibile tra capitale e lavoro medesimi. Nella Costituzione vigente, infatti, l’intero sistema normativo concernente la produzione di beni e servizi, si fonda non solo sulla visione individualistico-liberale e su quella collettivistico-comunista, ma anche – seppur con
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difficoltà – su una visione solidaristica, che vede nella convergente tensione di capitale e lavoro verso la produzione di utili un punto essenziale per la stessa identità politica e sociale della democrazia che i Costituenti volevano proporre per l’Italia post-fascista. Laddove si consideri la rilevanza strategica che il mondo Fiat ha avuto per l’Italia tutta, nell’arco di tempo che stiamo considerando, non sorprende pertanto il rilievo straordinario anche politico che ha avuto il referendum: non è più possibile avere un sistema di relazioni industriali che parta dal presupposto di una asserita specificità italiana. Qualora si consideri ancora più approfonditamente che il “compromesso” contenuto nella Costituzione italiana in riferimento al rapporto tra proprietà e lavoro si concretizzò in un insieme di formulazioni costituzionali che esprimevano da un lato l’apprezzamento per la piccola impresa artigiana e per la cooperazione, e dall’altro prendevano atto della necessità di rinviare a soluzioni legislative necessariamente mutevoli nel tempo, le stesse disposizioni costituzionali concernenti l’equilibrio tra capitale e lavoro o – se si vuole – tra piano e mercato, si possono valutare le conseguenze del referendum medesimo per l’intero sistema di relazioni industriali.
È in questo contesto, infatti, che il risultato del referendum assume un significato destinato ad andare molto oltre Mirafiori, perché i risultati – pur positivi quanto a risultato finale del referendum medesimo – finiranno con l’avere certamente conseguenze rilevanti per la produzione di autovetture, anche al di fuori di Torino, ma significative anche per la ricerca di un nuovo equilibrio tra esigenze di mercato e forme anche nuove di partecipazione degli operai alle strategie ed agli utili di azienda.Appare opportuno rilevare in questo contesto che il processo di globalizzazione in atto pone la Fiat in contatto con sistemi di produzione dell’auto molto diversi tra di loro, sia per quel che concerne il costo del lavoro per unità di prodotto, sia per quel che concerne il rapporto tra capitale e lavoro all’interno di ciascun sistema. Il tema della partecipazione agli utili deve essere pertanto visto anche oggi quale tema di fondo certamente antico, ma capace anche di continuo rinnovamento, e quale modello produttivo chiamato oggi a dare risposte alla sfida della globalizzazione.
La soluzione dell’ad è il modello produttivo chiamato oggi a dare risposte concrete alla globalizzazione
Certamente, altrimenti non avremmo firmato l’accordo. A novembre, nel primo incontro, Marchionne ci ha chiesto di mantenere il riserbo sui progetti in-
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Così è stato? Così è stato. Per Pomigliano e Mirafiori i modelli ci sono e la cosa è scritta negli accordi.
Quello della rappresentanza è un problema che riguarda la Fiom. Con la Cgil abbiamo chiuso un accordo nel 2008
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dustriali, perché doveva discuterne con gli investitori. Abbiamo accettato la consegna del silenzio a condizione che non avremmo firmato alcun accordo senza la certezza su modelli e investimenti.
Ma uno dei problemi rimane quello della rappresentanza. Approfitto di questa domanda per togliermi un sassolino dalle scarpe: voi giornalisti ponete sempre le questioni che vi suggeriscono la Cgil e la Fiom.
”
La rappresentanza è un problema loro, a noi non interessa, la stessa cosa vale per Pomigliano. A Mirafiori si applica la legge, anzi la migliore legge al mondo a tutela dei diritti sindacali e dei lavoratori. Con la Cgil abbiamo sottoscritto un accordo nel 2008 sulla riforma dei contratti. Lo strappo di Marchionne non mette in difficoltà anche voi e la Cisl su tutto il lavoro fatto sulla riforma dei contratti? Assolutamente no, questo è l’ultimo dei nostri problemi. Saremmo in difficoltà se venissero meno gli investimenti. Marchionne ammette che la Fiat avrà più teste, ma un cuore solo. Ma di chi sarà della famiglia Agnelli, dei fondi pensione americani o è possibile uno scenario
che vede la Fiat diventare una grande public company? Il cuore dell’azienda sarà quello di chi avrà il controllo delle azioni. L’amministratore delegato continua a dire di voler garantire la Fiat e i lavoratori: è così? È evidente e ha un solo modo per garantire azienda e posti di lavoro: investire, realizzare un buon prodotto e riuscire a venderlo sui mercati internazionali. Per concludere davvero Fiat sarebbe andata via se avesse perso il referendum? Avrebbe spento lo stabilimento di Mirafiori un poco alla volta, riducendo il numero degli operai, continuando a produrre i vecchi modelli e non avrebbe fatto alcun investimento.
diario
pagina 6 • 19 gennaio 2011
Enrico Giovannini, il presidente dell’Istat costretto a fare il guardiano della buona statistica
Enna, dopo 35 anni confessa un omicidio
ROMA. Da quando è tornato in Italia Enrico Giovannini si è ripromesso di sconfiggere «quella tendenza soltanto italiana di vedere i numeri grigi». In attesa che i suoi connazionali capiscano una volta per tutte che i dati non hanno colore (soprattutto politico), si è dato un nuovo impegno: fare da guardiano alla buona statistica. Il 2011 si prospetta un anno molto impegnativo per il presidente dell’Istat, mandato all’istituto di via Balbo per rimettere in moto un’istituzione che vede la sua autorevolezza ai minimi anche per colpa della malafede della politica: c’è il censimento del Centocinquantenario da realizzare per l’80 per cento in maniera elettronica (in un Paese, però, dove soltanto un quarto della popolazione usa il computer ogni giorno), da lanciare quello dedicato al mondo del non profit, per non parlare delle ri-
PALERMO. «È morta col rosario
levazioni un tempo di competenza dell’Isae e di banche dati destinate alle imprese e tarate sulle loro esigenze. Eppure, nonostante questa mole di lavoro, troverà il tempo di combattere i tanti numerifici che ci sono in Italia, quella pletora di centri studi o sedicenti tali, in grado di poter influenzare la vita politica più di quanto faccia l’Istat. Da qui l’avvertimento di Giovannini: «Dal 2011 sarò molto più attivo nel bacchettare chi diffonde dati sbagliati». Un precendente c’è stato nel 2010, quando un ente è stato costretto a cancellare dal suo sito un grafico basato su dati Istat. «Come? Minacciandolo di rendere pubblico l’errore». (f.p.)
in mano. Il mostro che ha ucciso quella povera donna sono io». Con queste parole un pluripregiudicato, Aldo Consoli, ha confessato ieri l’omicidio di un’anziana donna avvenuto nel 1975 a Enna. Dopo la confessione, è scattata l’attività investigativa, un Cold case all’italiana, avviata a seguito della riapertura delle indagini relative all’omicidio di Irene Sanalitro, di 83 anni, avvenuto proprio ad Enna il 27 agosto del 1975. Le indagini hanno consentito di acquisire «significativi elementi di colpevolezza a carico di Consoli», hanno spiegato ieri dalla Questura, il quale «ha fornito dichiarazioni auto accusatorie sul delitto, riferendone particolari poi riscontrati».
Nel bollettino trimestrale, Via Nazionale lancia l’ennesimo allarme: senza grandi riforme, i conti resteranno al palo
Bankitalia e il Paese «fiacco»
Consumi bassi e disoccupazione: anche il 2011 sarà un anno duro di Francesco Pacifico
Una crescita del Pil dello 0,9% nel 2011 e dell’1,1% nel 2012, con uno sviluppo dell’economia «fiacco» che non fa crescere l’occupazione: sono questi i dati principali contenuti nel bolletino trimestrale della Banca d’Italia. Poi, in polemica con il governo, aggiunge che «il grado di sottoutilizzo del mercato del lavoro è superiore di due punti al tasso di disoccupazione rilevato dall’Istat»
ROMA. Quelle di Bankitalia saranno previsioni, ma in via Nazionale sono convinti che il 2011 potrebbe essere peggiore anche del 2010. Se nell’anno appena terminato il prodotto interno lordo ha visto una crescita dell’1 per cento secco, quello che si è appena aperto si dovrebbe chiudere con un +0,9 per cento, per poi segnare un +1,1 dopo dodici mesi.
Decimale più decimale meno, sintetizzano gli economisti di Palazzo Koch nell’ultimo Bollettino economico, vuol dire che «alla fine del 2012 il Pil avrebbe recuperato circa la metà della perdita subita nel corso della recessione», e che è «pari a quasi 7 punti percentuali». Senza scossoni, senza aumenti inaspettati e vorticosi delle esportazioni, l’Italia dovrà attendere fino al 2015 per recuperare tutto il terreno perduto. Intanto si amplierà la distanza dai nostri competitor, soprattutto su quei mercati (il Sudest asiatico, il Brasile, la Russia) dove si giocano i destini del commercio mondiale. Se questo è il futuro, il presente – con l’attività che resta bassa – è contraddistinto da nuovi posti che si bruciano e dalle difficoltà di riassorbire i precari che non si sono visti rinnovare i contratti e di far entrare nel mondo del lavoro i neolaureati e diplomati. Soprattutto nel primo trimestre dell’anno. «Nel settore privato», si legge nel Bollettino, «la ripresa dell’occupazione si espanderebbe di circa 0,5 punti percentuali, sia nel 2011 sia nel 2012». Tanto che, viene sempre riportato dallo stesso documento,
«in un contesto di perdurante incertezza circa la forza della ripresa dell’attività economica e di attese di un ritorno lento verso i livelli di prodotto precedenti la crisi, le imprese privilegiano le forme contrattuali più flessibili rispetto agli impieghi permanenti a tempo pieno». Proprio guardando al grado di fiducia tra le imprese, ecco gli economisti di Draghi registrare che «il saldo negativo tra la quota di imprese che ne prevedono una crescita e quella delle aziende che ne stimano una riduzione si è ampliato, passando da -3,7 punti percentuali del-
l’inchiesta di settembre a -8,8 punti percentuali di quella di dicembre», si legge. Qualche mese fa Giulio Tremonti avrebbe detto che questi numeri sono elucubrazioni di chi negli anni della crisi ha fatto come i topi messi a guardia del formaggio. Ieri, alla fine di una due giorni europea che si è chiusa soltanto acuendo la distanza tra la Germania e il resto d’Europa, il ministro dell’Economia è sembrata molto preoccupato da quanto sta accadendo in quella che, secondo i più ottimisti, è per l’area l’ultima coda della crisi.
Eccolo spiegare alla stampa che «per l’Italia la disciplina fiscale è fondamentale. Ma vogliamo anche più controlli sulla solidità della finanza privata e delle banche. Questo l’approccio giusto, la via maestra».
In un’Europa che a differenza dell’Asia e degli Stati Uniti non riesce a fronteggiare né la speculazione né la bassa produttività, l’Italia svetta per la capacità di gestire meglio degli altri i disavanzi pubblici. Ma nei prossimi mesi questo non sarà più sufficiente. Nel Bollettino di Bankitalia, non a caso, si legge
che «nel terzo trimestre del 2010 la crescita dell’economia mondiale è proseguita,sebbene a un ritmo meno sostenuto che nel secondo e difforme tra Paesi e aree». Anche perché è impossibile non vedere «la robusta espansione delle economie emergenti e, fra i paesi avanzati, della Germania». Lunedì sera, e prima della rituale cena che dà il via all’Eurogruppo, i ministri dei Paesi con i debiti più sostenibili secondo le agenzie di rating (Germania, Francia, Olanda, Lussemburgo, Finlandia, Austria) si sono riuniti in quello che il
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Normativa adozioni: no agli iter farraginosi
Due anni di Alemanno bocciati dall’agenzia di rating Ficht ROMA. Non è proprio un buon periodo per il povero Gianni Alemanno: la sua gestione del comune di Roma sta continuando a inanellare bocciature. Dopo il rimpastino sulle giunta che ha prodotto più mugugni che entusiasmi, dopo il no di Bernie Ecclestone al Gran Premio di Formula 1 all’Eur che avrebbe dovuto rappresentare la risposta della destra alle notti bianche di Veltroni, ora arriva il colpo finale: l’agenzia Fitch ha abbassato i rating a lungo e breve termine sul debito del Comune di Roma, portandoli rispettivamente da AA- ad A+ e da F1+ a F1. Il taglio del giudizio - si legge in un comunicato di Fitch - riflette un «persistente stress di liquidità», legato alla debole performance operativa e alla crescita dell’indebitamento, compreso quello delle aziende cittadine. Vale la pena sottolineare che la bocciatura ri-
guarda solo la gestione Alemanno, giacché i debiti precedenti all’aprile 2008 sono stati trasferiti alla Gestione Commissariale del Comune di Roma. Immediata quanto formale la replica del neoassessore al Bilancio e allo Sviluppo economico del Campidoglio, Carmine Lamanda: «La riduzione del rating da parte di Fitch evidenzia la necessità di intensificare lo sforzo avviato da Roma Capitale per il risanamento dei conti capitolini».
Sole24ore ha definito “il club della Tripla A”. Ed è facile vedere all’orizzonte un fronte che nel breve futuro potrà rendere più pesante la riforma della governance europea.
A tutti loro come ai mercati Giulio Tremonti ha mandato a dire che «quello che l’Italia sta cercando di spiegare è che l’attuale crisi non è solo una crisi dei debiti pubblici ma anche della finanza privata, delle banche. Pensare che sia solo una questione di debiti pubblici sarebbe un errore. Se un paese mi dice: “Noi abbiamo la tripla A”, io gli rispondo: “Noi 22 miliardi voi 180 di debiti”». Ma nelle maggiori cancellerie non basta sapere che le nostre banche sono meno esposte e più virtuose delle concorrenti comunitarie. Sicuramente non è sufficiente per la locomotiva della Ue. Wolfang Schäuble, ministro delle Finanze tedesco, prima ha spiegato che «non bisogna allarmare i mercati con misure avventate, e per questo un eventuale ampliamento del fondo Efsf deve essere incluso in un pacchetto di misure organico e complessivo». Quindi ha ammonito che «i problemi non possono sempre essere risolti dai paesi con rating tripla A». Tremonti si sofferma quindi sul rigore dei conti pubblici e sulla necessità che le istituzioni finanziarie facciano il loro lavoro – dare soldi all’economia reale – e non si avventurino in pericolose speculazioni. Ma in Bankitalia vanno ben oltre questo concetto. Secondo l’ultimo Bollettino economico le entrate tributarie nel 2010 sono diminuite dell’1 per cento, lasciando sul terreno ben 3,9 miliardi di euro. E «la diminuzione dipende dalla riduzione delle entrate per lo scudo fiscale e delle imposte sostitutive introdotte con il decreto anticrisi del 2008». Tutto sommato una promozione. E una promozione che ha riflessi anche sul versante del deficit/Pil, quest’anno al 5 per cento, meglio del 5,1 previsto dal governo, mentre il debito balzerà fino a sfiorare il 120 per cento del Pil, anche sotto la
g i u d i z il e t t e r ep r o t e s t es u g g e r i m e n t i
Il debito è salito, ma in maniera inferiore rispetto a quello stimato per tutta l’area euro
Dall’alto: Mario Draghi, Giulio Tremonti, Maurizio Sacconi e Jean-Claude Trichet. Nella pagina a fianco, la sede di Bankitalia
media europea. «Il miglioramento», spiegano da via Nazionale, «rifletterebbe principalmente una contrazione delle spese in conto capitale. La dinamica delle entrate, dopo la caduta del 2009, sarebbe tornata positiva, anche grazie all’introduzione, dal gennaio 2010, di nuovi vincoli alle compensazioni sull’Iva». Eppure questo non basta a far ampliare la ricchezza del Paese. Il Paese infatti sembra ingessato, perché i segnali più favorevoli registrati nelle indagini condotte sulla fiducia delle imprese fanno intendere che la crescita ci sarà, «seppur a ritmi blandi». Anche perché l’export, che tanto terreno ha recuperato nel terzo trimestre del 2010, non sembra segnare un’inversione di tendenza. Come cartina di tornasole, ecco un rallentamento negli investimenti delle imprese. Dall’ultima inchiesta trimestrale condotta da Bankitalia e il Sole24Ore si scopre che «la decelerazione della spesa in macchinari e attrezzature osservata durante l’estate dopo la fine degli incentivi fiscali sarebbe continuata nello scorcio del 2010, risentendo anche di margini ancora ampi di capacità inutilizzata e di giudizi più cauti circa le prospettive di crescita di medio termine».
In questo scenario sarà difficile aspettarsi grandi benefici dal mercato interno, visto che i consumi continueranno a essere deboli. «I comportamenti di spesa delle famiglie si confermano improntati alla cautela, risentendo della contrazione del reddito disponibile reale e della perdurante debolezza del mercato del lavoro». Tutte queste pressioni si scaricano sull’indebitamento delle famiglie, cresciuto al punto da attestarsi sul 65 per cento del reddito disponibile. L’incidenza resta comunque largamente inferiore a quella registrata nel complesso dell’area dell’euro, pari al 98 per cento in giugno. In rialzo anche gli oneri sostenuti dalle famiglie italiane per il servizio del debito: sono al 9,6 per cento del reddito.
La vicenda del bimbo ucraino di soli cinque mesi venduto per 25mila euro a una coppia di Cervaro dimostra che è giunto il momento di riformare la normativa sulle adozioni nazionali e internazionali. Occorre stroncare il giro d’affari criminale e dare ai bambini bisognosi l’affetto e la sicurezza dei genitori di cui sono privi. Non bisogna mai dimenticare che, pur comprendendo il dispiacere di una coppia che non riesce ad avere figli, i soggetti deboli sono sempre i bambini. Lasciamo alla Procura di Cassino il compito di verificare se le persone arrestate siano responsabili anche della vendita di altri minori in Italia. Di sicuro, questa vicenda è solo l’ultima di una lunga serie: il business del traffico di adozioni illegali è in costante aumento e la criminalità organizzata sta sfruttando le difficoltà di coloro che aspettano anni il figlio tanto desiderato a causa di iter burocratici farraginosi, lunghissimi ed estenuanti.
Anna Teresa Formisano
DONNE, DONNE E ANCORA DONNE Le donne hanno polarizzato e caratterizzato, nel bene e nel male, questa legislazione. Pochi se ne accorgono. Donne che urlano, donne che lottano, donne che cercano di fuggire dalle prevenzioni, donne che vogliono usare la loro femminilità come arma, altre come difesa; donne che cercano di fuggire dall’isolamento. Indipendentemente da tutto, la presenza di volti nuovi di donna è la migliore risposta al passatismo storico della politica italiana.
Gennaro Napoli
L’IMMAGINE
La forza del colore Questo giovane danzatore con il volto dipinto appartiene alla tribù dei Gadaba, nello stato indiano dell’Orissa. Il colore compare anche sulle pareti delle case di questo popolo, famoso per le pitture murarie
STOP ALLA VIVISEZIONE Milioni di animali ogni anno vengono torturati nei laboratori di vivisezione di tutta Europa, sottoposti a esperimenti crudeli, sfigurati, ingabbiati, incatenati, legati ai tavoli operatori, avvelenati e lasciati soffrire e morire. Questa è la ricerca medico-scientifica portata avanti dai baroni della medicina, finanziata e avallata dal governo e dalla Comunità europea. Una ricerca che prevede lo sterminio di un milione di esseri viventi nella sola Italia, ogni singolo anno. Giorno dopo giorno, agonia dopo agonia. Non vi pare giunto il momento di dire basta a questa crudeltà?
Carmela Del Prete
FALSO MITO DEL REFERENDUM NUCLEARE DEL 1987 Il referendum del 1987 non ha abrogato il nucleare: il primo quesito, infatti, abrogò la norma che consentiva al Cipe di decidere sulla localizzazione delle centrali in caso di inerzia degli enti locali; il secondo, il compenso ai comuni che ospitano centrali nucleari o a carbone; il terzo la norma che consentiva all’Enel di partecipare ad accordi internazionali per la costruzione e la gestione di centrali nucleari all’estero. Il risultato del 1987 fu ottenuto da chi, irresponsabilmente, cavalcò l’onda del disastro di Chernobyl per trasformare l’Italia nell’unico Paese, tra quelli industrialmente avanzati, a totale dipendenza energetica dalle fonti energetiche fossili. In ogni caso, il risultato di un referendum abrogativo, secondo la stragrande maggioranza dei più importanti costituzionalisti italiani, non ha valore oltre i 5 anni dalla sua approvazione. Secondo altra grande fetta della dottrina, le risultanze di un referendum abrogativo decadrebbero con la fine della corrente legislatura. È per questa motivazione formale oltre alle ovvie ragioni sostanziali, per le quali il nucleare, energia pulita, economica e sicura, si è reso oltremodo necessario, che i provvedimenti dell’attuale governo sono assolutamente legittimi e, anzi, necessari e condivisi dagli italiani, come verrà sicuramente dimostrato dal voto.
Alfonso Fimiani
il paginone
pagina 8 • 19 gennaio 2011
Che bella “qualunqu
Albanese e Zalone: i due nuovi geniali interpreti dello spirito de a tentazione di leggere l’epopea calabra di Cetto La Qualunque – chiu pelu per tutti – in filigrana con le vicende porno-politiche di queste ore è il riflesso più facile e più condizionato cui cedere. Un riflesso inevitabile peraltro; vista la sincronicità tra l’uscita del film e l’esondazione delle presunte rivelazioni sulla vicenda di Ruby Rubacuori, dei festini ad Arcore, delle indagini sulle notti bravi e proibite del premier, di belle donne e ragazze appariscenti che hanno proprio la faccia da assessore come dice Cetto a una ragazza in bikini sulla spiaggia mentre medita sulla composizione della sua giunta comunale. «Onda calabra, qualunquemente, se c’è pilu non ci manca proprio niente», dice sigla del film, destinata diventare un tormentone e una formula per chiudere efficacemente in un gingle il senso e il clima d’una nuova decadenza italiana.
L
Un cortocircuito tra realtà ed esasperazione caricaturale cercato e voluto dalla stessa regia del battage di Qualunquemente coi gazebo pubblicitari del film che invadono le piazze italiane, parodia nemmeno troppo spinta della ”normale” propaganda politica in campagna elettorale: i colori sparati dai boa piumati e delle parrucche delle ragazze abbondanti e svestite, i banchetti elettorali con palloncini, bandiere e manifesti del partito ”Du Pilu”animati anch’essi dalle sostenitrici ”sdraiabilissime” di Cetto La Qualunque, che distribuiscono i gadget del partito (spillette, poster, adesivi, flyer e il vademecum dell’elettore) urlano con un megafono gli slogan di Cetto e invitano curiosi e passanti a a votare per il candidato alle primarie come leader unico di sinistra, destra, centro, sotto, sopra. «Cetto è una rappresentazione iper realista della politica italiana», diceva Albanese presentando sei anni fa il suo personaggio che oggi sembra essere stato scavalcato dalla realtà. «Quando l’ho inventato sei anni fa qualcuno mi ha rimproverato e mi riprendeva» mentre «oggi invece è addirittura un moderato». Ora Albanese circonda Cetto di
Il suo personaggio racconta i vizi storici dell’Italia di sempre
Cetto, il chiaroveggente del potere di oggi di Riccardo Paradisi vita, di territorio, di ambientazione, gli dà una storia e una trama, gli costruisce intorno un film «Abbiamo voluto rappresentare un carattere di politica nazionale. È forse la prima rappresentazione ironica, comica, di un certo cinismo politico» ma ricorda anche che il suo unico fine è riportare l’attualità: «Non voglio dare un messaggio, io non sono un educatore né un politico. Raccontiamo serenamente il vero, quello che esiste ma che non viene raccontato. Il cinema storicamente racconta i tempi. Cambia il linguaggio, cambiano i gesti e i colori anche. Osserviamo con onestà quello che cambia, senza citare nessuno». Sicché se la tentazione è legittima è sbagliato identificare Cetto la Qualunque con un replicante berlusconiano, come nel non lontano 2006 fece per esempio Daniele Capezzone, l’attuale portavoce del Pdl che nella sua precedente vita da segretario radicale paragonò il Cavaliere al personaggio di Albanese a causa delle continue promesse mai mantenute, molto simili a quelle negli sketch di Che tempo che fa e ora del film.
E certo anche Albanese ha dato un suo contributo alle facili pantografie raccomandando in uno stacco televisivo alla polizia di non fermare due sue accompagnatrici non proprio costumate perché «nipoti di Churchill e di Otello» e però, appunto, sarebbe assolutorio per tutto il resto della politica italiana. Dal suo cuore romano, spesso così trasversalmente stracafonal alla sua immensa e spesso così orrida periferia meridionale, settentrionale o centrista. Troppo comodo identificare Cetto La Qualun-
que con un uomo solo. Non solo perchè La Qualunque può essere chiunque – in «liberté, egalité, ’ntu culu a te» sembra essere più la sinistra giustizialista nel mirino che la destra di governo – ma perché la qualunque non è necessariamente un politico.
È chiunque è sempre pronto a moralizzare e predicar bene salvo poi razzolare da fare schifo, chi giudica senza timore d’essere giudicato, chi esibisce coscienza civica in pubblico e pratica il più estremo familismo amorale in privato, chi accusa l’evasione altrui evadendo quando può. Insomma l’Italia incapace d’autocritica e di equilibrio, di pietas soprattutto, sempre sospesa tra snobismi autoassolutori e compiacimento involuto della propria volgarità, tra il servilismo e piazzale Loreto, tra destre e sinistre capaci di scambiarsi anche questi ruoli ma incapaci di una cultura e una prassi da classi dirigenti. Ma sarebbe qualunquista anche dire che è l’Italia, che sono gli italiani ad essere così, come il nostro Cetto, perché gli italiani sono peggiori di come giudicano se stessi – ritenendo che gli italiani siano sempre gli altri – ma sono in fondo migliori di come li giudicano gli antitialiani di professione. Che magari alloggiano a Parigi perché dall’italia sono fuggiti, per l’orrore della volgarità imperante proclamano presumendo una qualche superiorità morale, salvo poi esercitare le loro baronie nepotiste nelle italiche università, riempiendole di parenti e amici. Parlano meglio di Cetto La Qualunque, hanno più cultura e strumenti, ma per questo, se possibile, fanno ancora più schifo di lui.
il paginone
19 gennaio 2011 • pagina 9
ue” giornata italiana
el tempo. Il loro Paese è il nostro Paese: purtroppo o per fortuna? suoi film e il suo lavoro di comico e parodista sono genuini. Se fa da cartina al tornalsole di una sociologia sconfortante è solo perché lui, i suoi film, la sua arte di guitto, non è sconfortante. È rigorosa e laboriosa, nella più perfetta tradizione del fool.
Ha successo perché i suoi film e il suo lavoro di comico e parodista sono del tutto genuini
Checco, come ti frego la società dell’ignoranza di Bruno Giurato desso lui chiede scusa, perché il suo film è quello che ha incassato di più in assoluto in Italia, e ha superato perfino i due mezzi film di Benigni che rispondono al nome di La vita è bella, tanto celebrati sull’erta filosofica della poesia dopo Auschwitz (anche se il film più forte a riguardo, filosofico davvero, e più atrocemente umoristico è stato Train De Vie di Radu Mihaileanu). Adesso lui, Luca Medici, in arte Checco Zalone, chiede scusa: «Non è dai soldi - commenta divertito - che si misura il vero valore di un film, specie se ne prendi pochi come nel mio caso. Chiedo scusa al maestro Benigni. Quando a Hollywood si rincoglioniranno e mi daranno tre Oscar allora si potrà dire che l’ho superato». Ma intanto i fatti sono fatti. E per una volta raccontano le cose per come stanno. Che bella giornata, come il precedente Cado dalle nubi, non sono propriamente film comici, sono dei bisturi punk nell’epa cicciotta del paese. Parlano alla pancia, anzi: tagliano la pancia dell’Italia.
A
Ci sarebbe da considerarli segni di degenerazione, segni apocalittici di un’Italia in cui, sì, la “bella vita”, è l’ultimo possibile desiderio. L’unico vero sentimento comune in questi 150 anni d’Italia unita pare sia il sogno dei soldi, del potere con più di un pizzico di bunga bunga, dalla Milano che pippa alla Roma Godona, al Sud che mafia (voce del verbo mafiare). L’unico sogno comune sarebbe un sogno di evasione, di contenuti nulli, un waka waka spettrale senza presa sul mondo. Nascondersi, stare schisci all’insegna dell’“aspettando godrò”. E forse ha successo per quello Za-
lone, come nell’America in ginocchio degli anni Trenta dopo il crollo di Wall Street andavano di moda i boogie woogie scacciapensieri. Si può mobilitare tutto il repertorio apocalittico: dall’orchestra del Titanic all’imperatore Onorio che mentre Roma veniva invasa dai Vandali allevava polli a Ravenna, dalle 120 giornate di Salò di Pasolini ai topi, topi dappertutto nel Nosferatu di Werner Herzog. Si può fare insomma, di un tipo come Zalone il segnale dei brutti tempi, un tavolo su cui consumare una spensierata abbuffata di niente. Una versione di rigorosa inconsapevolezza del film di Marco Ferreri, la grande abbuffata, appunto. E intanto il regista Gennaro Nunziante ci inzuppa il pane, nel contrasto fattuale e monetario tra Zalone e Benigni: «Nel cinema d’autore - dice - ci si sfida a chi ce l’ha più lungo... il piano sequenza. Non vorrei che nel cinema di intrattenimento ci si sfidasse a chi ce la più grosso... l’incasso!». Insomma, sia Zalone sia Nunziante evitano accuratamente e intelligentemente il confronto col maestro Benigni. Solo un fuoriclasse come Carmelo Bene si è potuto permettere di dire quel che pensava davvero del toscano. Ma in questo caso, appunto, non di contrasto estetico si tratta, non è in gioco la forma del film o la qualità della comicità, è in gioco l’analisi sociologica. Leggere il successo di Checco Zalone come segno di degenerazione si può, è legittimo. Ma ci sono un paio di aspetti da considerare oltre questo. La leggerezza dei film di Zalone ha successo in un’Italia imbarbarita, come segnale dei brutti tempi, bene. Mettiamo sia così. Ma diciamola tutta. Zalone si salva da questo processo perché i
Esempio. A Zelig Checco, con l’interminabile carrellata di pezzi “nello stile di...” ha fatto ridere tutti quanti con le parolacce e la volgarità esibita (memorabile il Tiziano ferro di Non me lo so piegare o i Negramaro di U pollu cusutu nculu o la Carmen Consoli violentata da zio Santuzzo che puzzava di merluzzo). Ma è stato anche un impareggiabile demistificatore di certe tendenze buoniste del panorama musical-messianico. Ha levato la pelle al buon Jovanotti in più di un’occasione. La taranta del Centrodesta, con la celebre rima evitata tra Gelmini con una parola che finisce sempre in -ini, supera senza parere la categoria del giochino d’avanspettacolo e si proietta in una dimensione diversa. Cioè quella della satira, di solito frequentata da personaggi appunto come Benigni e altri ancor più seriosi interpreti del decorso politico e civile. Solo che lui, Checco, non lo dice, non teorizza e non si lamenta. Gli bastano applausi, share e incassi, e dietro a questo rimane politicamente indecifrabile. È politico e impolitico, come tutti i veri fool. In una memorabile intervista a Daria Bignardi, quando ancora c’erano Le invasioni barbariche su La7, ha definito quest’ultima una rete “di micchia”. Come dargli torto, se in seconda serata, ancora, si ha difficoltà a superare la soglia del 3% di share? E per arrivare al cinema. Se bastasse fare cinema pecoreccio o carne di porco per sbancare al botteghino e riflettere lo stato di disimpegno se non menefoutisme dell’Italia attuale allora perché nello scorso Natale abbiamo assistito al crollo dei cinepanettoni? Non è cinema scacciapensieri anche quello? Evidentemente c’è una ragione dietro al successo dei film di Medici, ed è una ragione non sociologica ma formale. E secondo chi scrive è la finta volgarità. Zalone è volgare perché mette in scena spesso cose basse. Ma la sua volgarità ha sempre una forma. Le scene dei suoi film, il primo e ancora di più il secondo, non la tirano in lungo. Non hanno niente a che vedere con le carrettelle dell’avanspettacolo. Prendono (ebbene sì, molto sobriamente) il meglio degli insegnamenti della tradizione comica italiana, innestandoli su un personaggio grezzo nei contenuti, ma senza gigionismi, conservando una mirabile asciuttezza di sceneggiatuta e facendo filare il film. Per cui il paragone con Benigni sarà fuori luogo. Ma lui, Zalone, sa far ridere meglio di tutti: rivela il peggio dell’Italia solo come reazione. Perché lui è un magnifico e talentuoso professionista. Dall’affilato bisturi punk. E lo sfascio che rivela sono tutti fatti nostri, non suoi.
mondo
pagina 10 • 19 gennaio 2011
Un fattore accomuna i “dittatori” del Nord Africa: il dato anagrafico. Sono tutti over 70 e senza veri delfini
Le repubbliche dei raiss Dopo la caduta di Ben Alì, a tremare sono Mubarak, Bouteflika e Gheddafi di Enrico Singer oncef Marzouki, un oppositore tunisino che dopo anni in esilio a Parigi è rientrato ieri in patria e che spera di partecipare alle prossime elezioni presidenziali, lo ha spiegato in modo chiaro. «Per il momento siamo davanti a un paradosso: la Tunisia ha cacciato il dittatore, ma la dittatura è ancora in agguato. La dittatura non era, e non è, soltanto Ben Alì, la dittatura è il sistema. In base a quale Costituzione e con quale legge elettorale la gente andrà a vota-
M
che quello che più li minaccia e li spaventa - il terrorismo e l’emigrazione - è conseguenza diretta della dittatura e della corruzione. E che sono questi i nemici da combattere per disinnescare il pericolo del fondamentalismo». Le sue parole di allora, come i suoi dubbi di oggi, sono una denuncia precisa. Per decenni la Tunisia di Ben Alì è stata considerata il modello per eccellenza del Paese arabo moderato perché era impegnata in una lotta senza quartiere contro i gruppi islamisti ed era aperta
I Paesi dove il contagio potrebbe presto arrivare sono Egitto e Algeria. Realtà molto diverse tra loro, ma con un pericoloso comune denominatore: il fondamentalismo islamista re? Una cosa è poter presentare una candidatura, tutt’altro è avere la garanzia che le elezioni saranno libere e regolari». Le promesse del governo provvisorio, insomma, sono ancora tutte da verificare, i ministeri-chiave sono rimasti in mano agli uomini del partito del vecchio raìss ed è presto per dichiarare vittoria. Una transizione annunciata di sei mesi da qui al voto può nascondere mille insidie. Moncef Ben Mohamed Bedoui-Marzouki sa bene di che cosa parla. Non è un dissidente qualunque. Ha 65 anni, è un medico e dal 1981 al 2000 ha insegnato all’università di Sousse. Da sempre lotta per la difesa dei diritti dell’uomo. Ha lavorato anche per Amnesty International ed è stato presidente della Lega tunisina per i diritti umani. Nelle presidenziali del 1994 ha tentato di sfidare Ben Alì ed è stato messo in carcere. Il 25 luglio del 2001 ha fondato un partito che, con i nostri canoni, si potrebbe definire socialdemocratico - il Congresso per la Repubblica - che non è stato riconosciuto dal regime e così, per ora, è fuori anche dal governo provvisorio. Nel dicembre di quello stesso anno, si è rifugiato in Francia. Arrivò a Parigi nel clima rovente del dopo 11 settembre e pronunciò subito parole scomode: «Le dittature non sono mai state tanto floride nel mondo arabo come adesso. Sarebbe tempo che tutti i dirigenti occidentali capissero
agli investimenti stranieri per favorire il suo sviluppo economico. In nome di questi due punti cardinali della politica del regime che è stato appena rovesciato dalla “rivolta del gelsomino”, tutto il resto era perdonato. O, quantomeno, ignorato.
Che Paese arabo moderato non significasse automaticamente anche democratico era una verità ben nota da sempre, tanto a Washington che a Roma o a Parigi. Non ci volevano i files rivelati di Wikileaks per scoprire che il clan di Ben Alì e di sua moglie Leila Trebelsi era «una specie di mafia che aveva esteso i suoi tentacoli su tutto il Paese», che controllava il potere in modo assoluto, che truccava le elezioni, che manipolava l’informazione, che riservava per sé e per i suoi fedelissimi il piatto più succulento del boom economico lasciando agli altri le briciole. Sarebbe, tuttavia, troppo facile liquidare come un “errore di giudizio” il sostegno che è stato a lungo offerto al presidente-dittatore e archiviarlo tra le colpe del postcolonialismo. In realtà, l’appoggio occidentale e in particolare europeo a Ben Alì - come a Hosni Mubarak in Egitto, a Abdelaziz Bouteflika in Algeria o al recentemente sdoganato Muammar Gheddafi in Libia - nasce da un’analisi che anche molti diplomatici, per una volta concordi, fanno in privato. In nessuno
dei Paesi di quest’area, e più in generale nel mondo arabo, esiste un regime che si possa considerare democratico secondo i nostri parametri. Partendo da questa premessa, se dittatura - o “autocrazia” che è termine più digeribile - deve essere, che sia almeno moderata. In poche parole, che non sia ostile all’Occidente, che collabori nella lotta al terrorismo, che isoli i fondamentalisti che hanno dichiarato la guerra santa contro gli infedeli, che mantenga il carattere laico dello Stato e che sia disposto a buoni accordi commerciali. Il male minore. Come impongono le regole della realpolitik. Un altro dissidente tunisino, il giornalista e scrittore Taoufik Ben Brik, ha definito quella di Ben Alì, «una dittatura per bene»: formula che si potrebbe applicare a molte altre realtà di questa parte del mondo. Un po’ come Richard Nixon che diceva di Pinochet. «È un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana». Certo, se la scelta è tra il regime che ha retto per quasi 24 anni la Tunisia e quello fondato trent’anni fa da Khomeini in Iran che minaccia il mondo con i suoi missili e, forse, con l’atomica, diventa difficile contestare la realpolitik che, fin qui, ha guidato le diplomazie occidentali. Ma anche volendo accettare il massimo del realismo nella condotta della politica internazionale - del resto lo facciamo anche con la Cina, con la Corea del Nord, o con la stessa Russia neoimperiale di Putin - sarebbe, questo sì, un errore imperdonabile non capire i mutamenti che stanno accadendo sotto i nostri occhi. La rivolta dei giovani tunisini, che si è poi estesa a tutte le fasce della società, è cominciata per il pane ma si è subito trasformata in una rivolta per la democrazia, la grande chimera del mondo arabo. Anche Giorgio Napolitano ha invitato l’Unione europea a «dare risposte concrete e convincenti alle attese delle popolazioni dei Paesi della sponda Sud del Mediterraneo». Da Bruxelles dicono di essere pronti a fornire assistenza per organizzare il processo elettorale e «un sostegno duraturo verso la transizione democratica». A questo punto, dopo tanti tentennamenti, c’è da au-
Il partito islamico chiede la legalizzazione
Tunisi, il governo perde pezzi E ieri da Alessandria ad Algeri altri giovani si sono dati fuoco di Antonio Picasso a prevista espansione delle proteste, dalla Tunisia al resto del nord Africa, si sta realizzando nel modo più drammatico. Ieri, tre egiziani si sono dati fuoco, emulando il gesto del venditore ambulante tunisino che, a novembre, aveva protestato in questo modo contro il carovita. Si è tratta di un avvocato di 52 anni e un giovane non meglio identificato, entrambi del Cairo. Il loro gesto estremo, però, è stato interrotto dalla folla. Alcuni passanti si sono accorti che i due si erano cosparsi il corpo di benzina e li hanno così fermati. Non è successo lo stesso ad Alessandria. La città, già testimone della strage dei copti il 31 dicembre scorso, ha dovuto assistere impassibile alla morte del 25enne Ahmed Hashem al-Sayyed. Disoccupato e, a giudizio della polizia, sofferente di gravi disturbi psichici, il giovane è arso vivo nella pubblica piazza.
L
La tensione, quindi, sembra che sia passata dalla Tunisia direttamente in Egitto, senza toccare la Libia al momento. La scorsa settimana, del resto, Gheddafi aveva opportunamente abrogato i dazi sui generi alimentari. Una mossa che, forse, l’ha salvato dalle proteste che stanno investendo i Paesi vicini. Altri episodi di contestazione si stanno registrando in Mauritania e, come già avvenuto, in Algeria. Da qui è giunto infine l’augurio da parte del presidente Abdelaziz Bouteflika, al suo omologo ad interim tunisino, Foued Mebazaa, di saper riportare l’ordine nel Paese. Anche Algeri teme un coinvolgimento nelle contestazioni. Il regime egiziano di Hosni Mubarak, tuttavia, resta il più in bilico. Sempre ieri, Mohammed El Baradei, ex direttore generale dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) e ora candidato alle elezioni presidenziali di no-
mondo
vembre, ha dichiarato che un cambiamento per il Paese è «inevitabile». Un cambiamento suggerito anche dal rifiuto del papa copto, Shenouda III, di celebrare pubblicamente l’epifania oggi. Per ragioni di sicurezza, la cerimonia si svolgerà lontano dai riflettori. Segno che i cristiani hanno ancora paura. Nel frattempo, in Tunisia il governo di unità nazionale presieduto da Mohammed Ghannouchi stenta a prendere quota. Il principale sindacato del paese, l’Unione per il Lavoro
zione, i suoi leader hanno proclamato il boicottaggio delle prossime elezioni presidenziali. L’intenzione del movimento islamista è di non presentarsi al voto per la scelta del nuovo capo dello Stato, ma di concorrere alle sperate elezioni legislative.
È infine tornato a Tunisi, dopo anni di esilio in Francia, Moncef Marzouki, leader del Cpr, partito della sinistra laica. In generale, la colpa di Ghannouchi sarebbe quella di aver chiamato a sé alcuni esponenti del Raggruppamento CostituzionalDemocratico, movimento che faceva capo a Ben Alì. Quest’ultimo partito, però, non deve essere confuso con il Raggruppamento per la Cultura e la Democrazia. L’acronimo (Rcd) è facile ai fraintendimenti. L’esperienza di governo del primo e di manifesta opposizione del secondo, invece, pongono i due soggetti politici tunisini su piani diametralmente opposti. Il premier Ghannouchi intanto ha respinto le critiche al suo nuovo governo. Ha affermato che «i ministri confermati hanno le mani pulite e hanno sempre agito nell’interesse del Paese». inoltre, ha promesso che «tutti coloro che hanno avuto un ruolo nella repressione della protesta popolare ne risponderanno davanti alla giustizia».
Gli avvenimenti di questi giorni sono per il mondo arabo quello che fu Solidarnosc per l’Europa dell’Est. L’inizio di una lenta trasformazione (Ugtt), che contava tre uomini nel nuovo esecutivo, si è ritirato dalla partita dichiarando di non voler sedere allo stesso tavolo con i rappresentanti del deposto regime. Contestualmente, la polizia ha un corteo organizzato nella capitale da altre rappresentanze lavorative. Tra i manifestanti, spiccava Sadok Chourou, esponente di rilievo del movimento islamista Ennahdha, messo al bando dal vecchio regime. Chourou, 63 anni, è tornato in libertà in ottobre, dopo vent’anni di carcere. Come l’Ugtt, anche Ennahdha ha annunciato di voler fermare il governo provvisorio. Durante la manifesta-
gurarselo. Anche perché la Tunisia può davvero diventare un modello da imitare. Qualcuno parla di una «Danzica araba», ricordando i primi colpi di Solidarnosc al regime comunista polacco. Si prevede già un effetto-domino.
Ma il contagio è insito nella natura stessa di quelle che l’ambasciatore Sergio Romano, qualche giorno fa sul Corriere della Sera, ha definito “le Repubbliche dei patriarchi” perché, al di là delle differenze o delle similitudini tra i regimi, c’è un dato anagrafico da non trascurare. Se Zine el-Abidine Ben Ali ha 75 anni ed era a capo della Tunisia dal 1987, il presidente egiziano Hosni Mubarak ha 82 anni, è al potere dal 1981 e si accinge a completare il suo quarto mandato. Muammar Gheddafi, guida della rivoluzione libica, ha 69 anni e comanda il Paese addirittura dal 1969. Il presidente algerino Abdelaziz Bouteflika ha 74 anni, è stato eletto per la prima volta nel 1999 e ha iniziato il suo terzo mandato nel 2009. Sono tutti militari, hanno tutti“aggiustato” la Costituzione per eliminare la clausola che limitava il numero dei mandati. Tutti sono sfuggiti a un numero imprecisato di attentati. E tutti, compreso Ben Alì che non ci è riuscito, non hanno alcuna intenzione di lasciare il loro trono, se non attraverso una pilotata successione. Mubarak spera di trasmettere il potere al figlio Gamal. Gheddafi si accinge a scegliere fra due figli, di cui uno è quello arrestato in Svizzera per una lite domestica. Bouteflika non ha eredi designati, ma il potere algeri-
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no è stato, sin dalla fondazione dello Stato, nelle mani di una oligarchia militare ed è lì che già sgomitano i pretendenti. Le strutture oligarchiche e familistiche, oltre ad essere la causa principale della corruzione che domina tutto l’apparato statale e che ne ha screditato l’autorità agli occhi dei cittadini, hanno il loro vero punto debole nel problema della successione. I raìss, in genere, non allevano delfini perché sanno molto bene che questi si possono facilmente trasformare in orche assassine per accelerare il trapasso del potere, proprio come ha fatto Ben Alì che, nel 1987, rovesciò il padre-padrone della Tunisia, Habib Bourghiba. Ma adesso, per tutti, è arrivato - o non tarderà - il momento naturale dell’uscita di scena. Il terremoto politico è in moto e una scintilla, come quella che esplosa in sordina in Tunisia il 17 dicembre scorso, può incendiare una miccia già innescata. I Paesi dove il contagio potrebbe arrivare più in fretta sono Egitto e Algeria. Realtà molto diverse tra loro, ma con un pericoloso comune denominatore che si chiama fondamentalismo islamista. Mubarak - il vicepresidente che si rialzò incolume tra le poltrone insanguinate del palco sul quale fu assassinato Sadat - da quando è diventato presidente ha cercato di tenere a bada il movimento dei Fratelli musulmani (che quell’attentato avevano organizzato) attraverso l’opera martellante del Mukhabarat, il potentissimo servizio segreto che costa ogni
te identità nazionale, una élite mercantile e intellettuale, ma non riesce a sfamare i suoi tanti cittadini (quasi 80 milioni) e ad abbassare la percentuale dell’analfabetismo (il 35 per cento della popolazione). E nell’ultimo mese è stato anche teatro dei sanguinosi attacchi alla comunità cristiana copta, la più numerosa minoranza religiosa del Paese. Anche questo è un funesto e non accidentale rivelatore della tensione che cova in attesa delle elezioni presidenziali del prossimo anno che dovrebbero sancire la transizione pacifica al dopo-Mubarak. Se non ci saranno le sorprese, violente, che molti temono.
In Algeria la minaccia fondamentalista ha un altro nome: si chiama Fis, Fronte islamico di salvezza. La modernizzazione di tipo sovietico tentata nel Paese dopo la conquista dell’indipendenza dalla Francia nel 1962 è clamorosamente fallita alla fine degli Anni Ottanta e ha avuto per effetto l’irresistibile ascesa del partito religioso che ha vinto il primo turno delle elezioni del dicembre 1991. I militari sono tornati in campo, hanno annullato il risultato delle urne e, da allora, è cominciata una guerra civile che ha fatto tra 150 e 200mila morti e ha letteralmente messo in ginocchio per buona parte del decennio una delle più vivaci società civili della regione. Bouteflika, nel 1999, ha avuto almeno il merito di porre fine all’era del terrore diffuso e sistematico, ma ha manipolato la costituzione e ha continuato a di-
Le strutture oligarchiche e familistiche, oltre ad essere la causa principale della corruzione che domina tutto l’apparato statale, hanno il loro vero punto debole nel problema della successione anno un miliardo e mezzo di dollari e controlla un apparato quattro volte più vasto di quello dell’esercito. Una repressione che è stata capace, finora, di non far esplodere la bomba, ma non di renderla definitivamente innocua. Nonostante gli arresti di migliaia di militanti e il divieto di presentarsi alle elezioni con un loro partito, i Fratelli musulmani sono riusciti a conquistare il 20 per cento dei seggi in Parlamento sotto la copertura dei cosidetti “candidati indipendenti” e rappresentano la forza maggiore di opposizione al regime dell’ormai anziano faraone. Senza contare che ci sono frange ancora più estreme: dalle cellule di al-Qaeda (non bisogna dimenticare che l’ideologo e “vice” di Osama bin Laden è l’egiziano Ayman al-Zawahiri), agli infiltrati iraniani che tentano di ripetere l’effetto-Hamas già realizzato a Gaza: egemonizzare il movimento fondamentalista sottraendolo al potere sunnita per spostarlo sulle posizioni della rivoluzione khomeinista sciita. L’Egitto è il più grande Stato arabo della regione, ha una for-
fendere, nell’interesse dell’oligarchia militare di cui è espressione, una economia tendenzialmente chiusa e sospettosa. Il Paese è cresciuto del 3,7 per cento l’anno, in media, tra il 2001 e il 2009, ma non quanto era necessario per dare lavoro sufficiente al gran numero di giovani - il 70 per cento della popolazione che, come in Tunisia, vorrebbe entrare nel mondo produttivo e finisce, invece, per restarne in gran parte fuori. L’Algeria, si sa, ha una enorme ricchezza naturale, ma il gas e il petrolio sono una rendita che gonfia le casse dello Stato senza trasformarsi in significativi progetti sociali perché è spartita tra i ristretti gruppi che si dividono il potere (finendo per favorire la rete islamista sempre in agguato). E che alimenta la disperata protesta. Anche l’altro giorno un disoccupato si è dato fuoco nel villaggio dell’oasi di El Oued ed è in fin di vita. Sono così cinque le persone che hanno tentato di immolarsi, imitando il gesto del tunisino Mohammed Bouazid Samir che è già diventato il simbolo di una rivolta non ancora finita.
quadrante
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Asia Bibi è sempre più in pericolo
Cocaina, colpo grosso a Madrid
LAHORE Asia Bibi, la cristiana
MADRID. La polizia spagnola ha
pakistana condannata a morte per blasfemia e finita nel mirino dei fondamentalisti islamici, potrebbe essere trasferita nel carcere femminile di Multan per motivi di sicurezza. Come spiega AsiaNews, la donna, 45enne e madre di 5 figli, non godrebbe infatti di adeguata protezione nel carcere di Sheikhupura. Agli appelli per la sorte di Asia si aggiunge anche quello del marito, Ashiq Masih, che parla di “vita in pericolo”. Un rapporto ufficiale dell’11 gennaio rivela che la gravità delle minacce alla vita di Asia Bibi è cresciuta in modo esponenziale dopo l’omicidio del governatore del Punjab, Salman Taseer, che aveva sostenuto la sua causa e auspicato una revisione della legge sulla blasfemia.
scoperto e smantellato il più grande laboratorio di cocaina d’Europa. L’indagine, durata due anni, ha portato all’arresto di 25 persone. Il laboratorio era situato all’interno di una proprietà nei pressi di Madrid. Sono stati confiscati anche 300 chili di droga pronta per la distribuzione, 33 tonnellate di prodotti chimici, 2 milioni di euro in contanti, armi, automobili di lusso, 470 telefoni cellulari oltre a beni mobili e immobili per un valore di 50 milioni di euro. In manette sono finiti colombiani e spagnoli, alcuni dei quali lavoravano in uno studio legale di Madrid che si presume abbia contribuito a riciclare proventi sospetti. L’organizzazione si serviva di guardie del corpo 24 ore al giorno.
Kamikaze in Iraq, oltre 60 morti TIKRIT. È di almeno 60 morti e decine di feriti il bilancio dell’attentato suicida di ieri mattina nella città irachena di Tikrit. Gran parte delle vittime sono reclute di polizia, che si erano radunate sin dal primo mattino davanti al centro reclutamento della città natale del defunto ex presidente Saddam Hussein, a circa 160 km a Nord di Baghdad. Non ci sono ancora rivendicazioni sull’attentato - 20 anni dopo l’operazione Desert Storm - ma fonti della sicurezza tendono ad attribuire la responsabilità dell’attentato al ramo iracheno di Al Qaeda. «Non può essere che Al Qaeda, che ci sta massacrando», ha commentato il vicegovernatore della provincia di Salahuddin, Ahmed Abdul-Jabbar.
Il ministro della Difesa israeliano esce dal Labour per potersi finalmente muovere più liberamente nel governo Netanyahu
L’Indipendenza di Barak
Rimpasto di governo e tensione a Gaza, mentre Medvedev arriva in Cisgiordania di Pierre Chiartano è qualche sussulto politico in Israele, ma sembra essere più un assestamento che una rivoluzione. L’uscita del ministro della Difesa, Ehud Barak, dai laburisti e il suo annuncio di voler formare un nuovo partito, scuote l’ambiente politico, ma rafforza l’attuale governo israeliano. Il progetto da tempo era nella testa di Barak, come hanno confermato a liberal fonti del ministero degli Esteri di Gerusalemme. E forse saranno proprio gli ex compagni di partito dell’ex generale di Tsahal a tirare un sospiro di sollievo, visto che il Labour stava andando a picco nei sondaggi. Il partito che fu di Ben Gurion, padre della Patria, di Golda Meir, la salvatrice del Paese durante il lungo periodo delle guerre arabe, si sentiva a disagio a dover condividere e puntellare la politica di un governo come quello Netanyahu. Due ministri laburisti – Isaac Herzog agli Affari Sociali e Avishay Braveman alle Minoranze – avevano già annunciato le loro dimissioni, lunedì. Il primo ministro aveva chiesto subito al nuovo partito Atzmaut (indipendenza) l’apertura di colloqui di coalizione per determinare il ruolo dei suoi esponenti nell’esecutivo. Poi ieri mattina la notizia: dopo intensi negoziati portati avanti nella notte, Benjamin ed Ehud avevano deciso di assegnare ad Atzmaut, quattro dicasteri, secondo il quotidiano Haartez. Dunque Barak manterrà il ministero della Difesa. Shalom Simhon, che lo ha seguito nel nuovo partito, passerà dal ministero dell’Agricoltura a quello delle Infrastrutture nazionali, rimpiazzando il laburista Benjamin Ben-Eliezer. Il parlamentare Matan Vilnai prenderà il posto di Avishay Braverman, come ministro delle Minoranze e infine il deputato Orit Noked sarà nominato ministro dell’Agricoltura al posto di Simhon. Il nuovo partito Atzmaut conta in tutto cinque deputati. Una mossa, quella del ministro della Difesa, per superare le critiche interne dei laburisti che mal digerivano l’appoggio a un governo di centrodestra, come quello Netanyahu. Una difficoltà che nel
Era diventata ormai una convivenza impossibile quella tra i laburisti e il ministro della Difesa del governo di Benjamin Netanyahu. Con l’uscita dall’esecutivo dei membri laburisti ricomincerà la ricostruzione del vecchio partito, ormai a picco nei sondaggi, basata sui tradizionali valori fondativi della sinistra israeliana
C’
tempo si era tramutata anche in perdita di consensi elettorali, tanto da rischiar di ridurre ancora la pattuglia di laburisti alla Knesset di soli 13 parlamentari.
Forse da lunedì, con l’uscita di Barak dal partito, c’è una speranza per il Labour di «ritornare ai valori fondativi del partito» che lo vedevano collocato a sinistra degli schieramenti, con posizioni di sionismo moderato e un approccio laico rispetto all’ortodossia di partiti confessionali come lo Shas. La diretta conseguenza è stata quindi la possibilità per i ministri laburisti di abbandonare subito il governo, per Barak di essere una migliore stampella per Netanyahu e di poter riprogettare il proprio percorso politico. Non c’è dubbio che una mossa simi-
le avrà delle ricadute anche sull’altro partito d’opposizione Kadima. Che ha reagito duramente, con un giudizio tranchant di un suo rappresentante: «questa mossa dimostra come Barak e Netanyahu siano disposti a tutto pur di sopravvivere» ha dichiarato Meretz Horowitz. Sarà «centrista, sionista e democratico», la creatura politica di Barak, nel corso di una conferenza stampa presso la Knesset, il Parlamento monocamerale dello Stato ebraico, e trasmessa in diretta da radio e televisione nazionali. Barak, che dei Labour era finora il leader, ha aggiunto che alla stessa Knesset «è stata presentata per iscritto la richiesta di riconoscimento della nuova formazione». «Al primo punto del nostro ordine del giorno ci sarà lo Stato,
poi il partito, quindi la comunicazione e solo per ultimi noi stessi», ha proseguito Barak, sottolineando che obiettivo di Indipendenza sarà «tutto quanto è positivo e corretto per Israele», mentre l’ispirazione sarà quella di far rivivere lo spirito del Mapai, storico movimento della sinistra israeliana a suo tempo guidato da David Ben Gurion, e nel 1968 confluito nei laburisti. Non è chiaro se e quali ripercussioni avrà la spaccatura del Labour, che vanta cinque dicasteri e che con tredici seggi sui centoventi totali del Parlamento è la terza forza nella variegata compagine di governo. Anche se per molti potrebbe essere un’occasione per risalire la china. Si sa tuttavia che il Likud, partito del premier conservatore Benjamin Netanyahu, ha dato disposi-
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e di cronach
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
Omicidio Hariri, entro l’anno avvio del processo. Tensioni in Libano L’AJA. Il processo per l’attentato dell’ex Premier libanese Rafic Hariri potrebbe iniziare a settembre-ottobre «con o senza l’accusato». Lo ha detto il cancelliere del Tribunale speciale del Libano, Herman von Hebel, durante un’intervista presso la sede del tribunale di Leidschendam, vicino L’Aja. La dichiarazione arriva dopo che ieri sera la procura del Tribunale Speciale per il Libano (Tsl) - presieduto da Antonio Cassese e che indaga sull’attentato contro l’ex primo ministro libanese, Rafic Hariri, nel 2005 a Beirut - ha presentato l’atto d’accusa. I documenti hanno ancora ”carattere confidenziale”, ma la tesi più accreditata è che la procura punti l’indice su alcuni membri di Hezbollah. Il partito di Dio, che ha sempre negato qualsiasi coinvolgimento e bollato il Tribunale come “uno strumento di Israele”, la scorsa settimana è uscito dal governo libanese di Saad Hariri, il figlio del premier ucciso, proprio come mi-
Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)
sura di pressione sulle autorità libanesi. E il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah domenica ha fatto sapere che il partito sciita si difenderà contro qualsiasi accusa, senza specificare con quali mezzi. Gli atti presentati dalla procura saranno adesso analizzati dal giudice Daniel Fransen, che dovrà decidere se vi siano le prove sufficienti per avviare un processo e, in tal caso, rendere pubblici i nomi dei sospettati.
Da sinistra, Matan Vilnai, Benjamin Netanyahu e Gabi Ashkenazi. Nella pagina a fianco: Ehud Barak
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato
zioni ai propri membri affinché appoggino la mossa dell’alleato. Durante la conferenza stampa Vilnai aveva puntualizzato che Indipendenza cercherà di rafforzare i tentativi per riavviare il processo di pace con i palestinesi. «Lasciamo un partito, e una casa, che amiamo e rispettiamo», aveva concluso il ministro della Difesa, ammettendo però che «l’attuale situazione nel Labour non era sempre salutare», con allusione alle lotte intestine in corso ormai da mesi, dopo che le elezioni del febbraio 2009 sancirono il peggiore risultato nella storia della formazione socialista.
Il nuovo partito Atzmaut conta in tutto cinque deputati e quattro ministri, compreso quello della Difesa
«Il Labour è diventato un posto insopportabile», gli aveva fatto eco il vice ministro della Difesa, «in cui la vita parlamentare è impossibile. A ogni riunione non si sapeva chi fosse insieme a te, e chi invece fosse sul punto di andarsene da qualche altra parte». Sarebbe interessante scoprire anche la posizione di quella che era considerata una stella nascente dei laburisti, come il generale Gabi Ashkenazi, già capo di stato maggiore dell’Esercito israeliano. Ma ci vorrà ancora qualche anno prima che possa scendere in campo. I problemi per Barak però non si limitano al fronte interno. Il ministro aveva lanciato qualche giorno fa un avvertimento a Hamas, affinché mettesse fine ai continui lanci di razzi contro il territorio israeliano. «Che non ci mettano alla prova. In definitiva, se i
lanci proseguiranno, ci saranno molte più vittime dall’altra parte del confine», aveva affermato Barak durante un sopralluogo fra gli insediamenti israeliani a ridosso della Striscia di Gaza. Ora con le mani più libere rispetto a un partito tiepido su di una politica di reazione militare a Gaza, il ministro potrebbe decidere più facilmente un’eventuale azione.
Un cambiamento percepito anche oltre il confine della Striscia. un dirigente di Hamas aveva dopo poco dichiarato che la sua organizzazione «è interessata a mantenere la tacita tregua in corso con Israele». A seguito dell’intervento del ministro, un aereo senza pilota israeliano aveva colpito con un razzo Muhammed Jamil al-Najar, un membro delle brigate al-Quds della Jihad islamica. Secondo
Israele, proprio miliziani della Jihad islamica avrebbero moltiplicato negli ultimi tempi i lanci di razzi contro Israele. Anche se la caduta del governo di Saad Hariri in Libano, tirato giù dalla sedia da Hezbollah, mentre era in visita negli Stati Uniti, potrebbe far presagire uno scenario di rapido deterioramento della situazione sui confini d’Israele, al momento non ci sono avvisaglie di nulla del genere. Barak ha comunque fatto subito capire la mission della nuova formazione politica, dichiarando che l’interesse principale di Indipendenza sarà «prima lo Stato, poi il partito e per ultimo il nostro interesse».
E se a Gaza volano i razzi, nei Territori vola la diplomazia moscovita. Il presidente russo Dmitri Medvedev infatti ha cominciato ieri la sua prima visita nei Territori palestinesi nel corso della quale ha incontrato, a Gerico, il presidente Mahmud Abbas (Abu Mazen). «Gerusalemme è la capitale» del nuovo Stato palestinese, ha dichiarato il presidente russo. Oggi, invece, Medvedev sarà di nuovo ad Amman dove avrà un colloqui con il re giordano Abdallah II. La visita nei Territori palestinesi è la prima compiuta da Medvedev in qualità di capo di Stato. In origine, il leader del Cremlino avrebbe dovuto recarsi anche in Israele, ma poi la visita è stata annullata per via di uno sciopero del ministero degli Esteri israeliano.
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grandangolo Il commiato del Capo di Stato Maggiore della Difesa
Tutto quello che non sono riuscito a fare (forse perché non volevano)
Dal ricordo commosso dei nostri militari caduti in missione agli auguri a Biagio Abrate, il suo successore. Il generale Camporini si assume ogni responsabilità e non dimentica niente nel suo addio alle Forze Armate: compresa una critica feroce a chi non ha mai sposato la sua visione interforze. L’unico modello possibile per riformare la Difesa di Vincenzo Camporini oco più di mille giorni fa, ricevevo dall’Ammiraglio Di Paola la responsabilità di guidare le Forze Armate, compito impervio per il quadro strategico con cui dobbiamo confrontarci in questo scorcio di secolo in una situazione di crisi finanziaria generalizzata che ha toccato tutto il mondo; compito reso peraltro più agevole dallo straordinario patrimonio accumulato dai miei predecessori - l’Ammiraglio Venturoni, il Generale Arpino, il Generale Mosca Moschini e l’Ammiraglio Di Paola, per citare solo quelli post riforma dei vertici del 1997. È difficile oggi, nel momento in cui passo il testimone nelle mani capaci del Generale Abrate, è difficile, dicevo, resistere alla tentazione di fare un bilancio, di elencare le cose fatte, le cose che si stanno facendo, di raccontare per sommi capi la storia delle Forze Armate in questi tre anni travagliati.
P
Anni intensi, in cui lo strumento militare è stato impegnato nelle circostanze più varie; da quelle tipicamente operative nei teatri globali - dall’Afghanistan all’Oceano Indiano, ad Haiti - a quelle di supporto alle autorità civili, sia per la sicurezza interna, sia per rimediare a difficoltà di talune amministrazioni locali, sia in quelle più dolorose di soccorso in occasione di calamità naturali, ove le Forze Armate, come sempre nel passato, si sono confermate strumento efficace e pronto, con risposte immediate. At-
tività e risultati che hanno guadagnato ad Esercito, Marina, Aeronautica e Carabinieri crescenti livelli di fiducia da parte dei cittadini, al punto da risultare tra le Istituzioni di cui ci si fida di più e su cui si sa di poter contare. Ma più che di ciò che si è fatto in questi tre anni, preferisco parlare di ciò che non sono riuscito a fare.
Alla riunione del Consiglio Supremo di Difesa del 2 ottobre 2008 dissi queste parole: «Vorrei parlarvi delle Forze Ar-
Alla riunione del Consiglio Supremo del 2008 dissi queste parole: «Vorrei parlarvi dell’esercito che vorrei» mate che vorrei; della mia visione di uno strumento efficace, agile, sostenibile e usabile sia nel quadro strategico attuale, sia in situazioni che solo i futurologi possono azzardarsi a delineare». In quella circostanza descrissi un percorso lungo e faticoso, fatto di scelte difficili e dolorose che avrebbe però portato già
nel breve-medio termine ad un utilizzo più razionale ed efficiente delle risorse. Chiedevo: «l’accentramento della logistica, sottraendo tale responsabilità ai Capi di Stato Maggiore di Forza Armata; la riduzione degli enti centrali, integrando alcune funzioni allo Stato Maggiore della Difesa; il ridimensionamento sostanziale del concetto stesso di territorialità, che ha poco senso nell’era dell’informatica; la razionalizzazione delle strutture addestrative, con accorpamenti e chiusure delle entità non più sostenibili; un ridisegno delle carriere, con norme di esodo agevolato e quindi con un ribilanciamento dei gradi».
Da allora, su questa strada i passi avanti non sono stati molti e talvolta precari e il processo di riforma è solo agli inizi. Non sono stato neppure capace di unificare ed accentrare le strutture delle singole Forze Armate per l’insegnamento delle lingue straniere. In sintesi non sono stato capace di trasmettere compiutamente alle classi dirigenti di Esercito, Marina, Aeronautica e Carabinieri il concetto che Interforze non è solo un insieme di lettere dell’alfabeto, ma l’unica speranza perché il futuro, anche prossimo, non veda un crollo verticale delle capacità operative. In questo si sintetizza il messaggio e l’augurio che faccio all’amico Biagio; che da oggi assume la responsabilità della gestione di questa macchina complessa e degli Uomini e Donne meravi-
gliosi che ne fanno parte. Fra le cose che non ho saputo fare, c’è un macigno che peserà per sempre; il non essere riuscito a salvare venticinque vite.
Comandante, dia l’attenti Sottotenente, Giovanni Pezzullo; Caporal Maggiore, Alessandro Caroppo; Maresciallo di Prima Classe, Arnaldo Forcucci; Primo Maresciallo, Concetto Gaetano Battaglia; Primo Caporal
Maggiore, Alessandro Di Lisio; Capitano, Antonio Fortunato; Sergente Maggiore Capo, Roberto Valente; Caporal Maggiore Scelto, Massimiliano Randino; Caporal Maggiore Scelto,
19 gennaio 2011 • pagina 15
Il caporalmaggiore dell’VIII reggimento alpini freddato da una raffica di colpi
Agguato a Bala Murghab, un falso militare uccide Luca Sanna di Luisa Arezzo uca Sanna si era sposato appena quattro mesi fa, nel suo paese della Sardegna, Samugheo. E come ogni militare amava guardare lontano, lasciandosi dietro le spalle la paura di non tornare a casa. Da Daniela, sua moglie, da suoi genitori, Rita e Antonio, dai suoi fratelli Dario e Giuseppe e dai suoi amici. Ma così non è stato. Luca Sanna, classe 1978, caporalmaggiore dell’VIII reggimento alpini, è morto ieri in Afghanistan. In una dinamica ancora avvolta dal mistero (ma oggi il ministro della Difesa La Russa riferirà in Parlamento) ma che sembra scongiurare l’ipotesi di un incidente, del cosiddetto fuoco amico. A colpire alla testa il giovane militare nell’avamposto Highlander a Bala Murghab, nel nord-ovest del Paese, sembrerebbe essere stato - secondo le parole del nostro Ministro - un uomo che indossava una divisa afghana (particolare su cui però al momento le voci divergono) «che si era avvicinato con ogni probabilità adducendo uno stratagemma e dicendo che gli si era inceppata l’arma». L’uomo, appena giunto nei pressi del militare italiano e di un suo collega, rimasto ferito a una spalla e non in pericolo di vita, avrebbe «esploso colpi d’arma da fuoco colpendo i due militari». Il punto è che così come arrivato, il killer è anche sparito. E per Sanna, centrato alla testa, non c’è stato nulla da fare. «Il tragico evento - ha aggiunto il ministro La Russa - è avvenuto alle 12.05 ora italiana», proprio mentre in Italia si svolgeva il passaggio di consegne fra il generale Camporini e il suo successore a Capo di Stato Maggiore della Difesa, Biagio Abrate, alpino come Sanna. Circa la dinamica dell’incidente, sono due le ipotesi al vaglio degli investigatori: o che il terrorista non fosse un militare ma indossasse l’uniforme, oppure «meno probabile» - che fosse un infiltrato nell’esercito afgano, arruolatosi proprio per compiere azioni di questo tipo. Una modalità non nuova in Afghanistan, ma certamente la prima del genere per il nostro contingente. La Russa ha poi spiegato che «l’attentatore si è potuto allontanare» e per questa ragione «non è possibile dire se indossava una divisa, come sembra probabile, o se fosse un infiltrato ab origine».
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Sopra, un militare italiano nella Fob di Bala Murghab, in Afghanistan. Nella pagina a fianco il generale Vincenzo Camporini e, in basso, il generale Biagio Abrate. A destra il caporalmaggiore Luca Sanna, morto ieri in uno scontro Matteo Mureddu; Caporal Maggiore Scelto, Giandomenico Pistonami; Caporal Maggiore Scelto, Davide Ricchiuto; Caporal Maggiore Scelto, Rosario Ponziano; Sergente Maggiore, Massimiliano Ramadù; Caporal Maggiore Scelto, Luigi Pascazio; Caporal Maggiore Scelto, Saverio Positano; Capitano, Marco Callegaro; Sottotenente, Mauro Gigli; Caporal Maggiore Capo Scelto, Pierdavide De Cillis; Capitano, Alessandro Romani; Caporal Maggiore Scelto, Gianmarco Manca; Caporal
Fra le cose non fatte, c’è un macigno che peserà per sempre: il non essere riuscito a salvare venticinque vite Maggiore Scelto, Francesco Vannozzi; Caporal Maggiore Scelto, Sebastiano Ville; Primo Caporal Maggiore, Marco Pedone; Primo Caporal Maggiore, Matteo Miotto; Consigliere Diplomatico, Pietro Antonio Colazzo - Funzionario dell’Aise. A Loro si devono aggiungere altri trentaquattro, caduti in attività di servizio in patria e addestrative; caduti quindi nel diuturno sforzo per mantenere le prestazioni dello Strumento Militare ai massimi livelli. Comandante, ora può dare il riposo
Nessuno, sia ben chiaro, tra gli Uomini e le Donne delle Forze Armate vuole fare l’eroe; tutti vogliono tornare a casa dalle loro famiglie, i loro amici. Ma tutti non esitano a porre a rischio il proprio futuro, sapendo che possono perdere la vita o rimanere permanentemente e irrimediabilmente menoma-
ti. Questo è il vero eroismo quotidiano di tutti e di ciascuno, in qualsiasi incarico e in qualsivoglia attività. È questa, del mio commiato dal Servizio attivo, l’occasione giusta per un pensiero a chi mi è stato vicino, la mia famiglia.
Ho scelto questa sede per la cerimonia, tra le ali più gloriose dell’Aeronautica di cui faccio parte, perché il mio addio all’uniforme può così avvenire davanti alle tre donne della mia vita: Silvana che mi è stata accanto per quarant’anni, che esattamente tre anni fa ci ha lasciato e le cui ceneri sono custodite dalle acque del lago che oggi dà così splendida immagine di sé; nostra figlia Marta, che è la figlia migliore che chiunque possa desiderare, e Paola che ha generosamente accettato di accompagnarmi per quel che resta del giorno. A loro ho chiesto forse troppi sacrifici, così come ogni uomo e donna con le stellette fa con i propri cari, senza il cui pieno sostegno non sarebbe possibile dare all’Italia ciò che ci viene quotidianamente chiesto. E me ne vado sereno: ciò che ho fatto è il massimo che potevo fare e chi mi succede ha tutte le qualità per riuscire dove non sono riuscito io. Il Generale Biagio Abrate è saggio, preparato, capace, con un’esperienza di vertice in questo momento ineguagliabile. Sono certo che saprà e potrà ottenere dalla struttura il supporto straordinario di cui mi sono giovato. Lo attendono tempi difficili - ma quali sono mai stati tempi semplici? - ed è l’Uomo che potrà affrontare a viso aperto le sfide che gli verranno poste. Un augurio fraterno, Biagio, l’augurio di un amico che ha potuto constatare di prima mano la Tua lealtà, la Tua dedizione, il Tuo amore per il nostro Paese. E in quest’anno, in cui la Nazione festeggia il proprio centocinquatesimo anniversario, voglio infine gridare con commozione: Viva le Forze Armate e Viva l’Italia!
Quello che è certo, è che Luca Sanna era un veterano della missione, essendo al suo terzo incarico nel Paese, e che non avrebbe mai fatto avvicinare una persona sospetta alla base. La Fob di Bala Murghab, così come i distaccamenti che ne costituiscono la cornice di sicurezza, non sono luoghi dove la gente può circolare liberamente, dove si entra e si esce impunemente. Dunque l’agguato è stato studiato nei minimi dettagli.
A solo 18 giorni dall’uccisione di Matteo Miotto, nell’avamposto Snow nel Gulistan, l’Italia paga dunque un nuovo tributo di sangue alla missione Isaf. «Registriamo un abbassamento delle minacce con gli ordigni esplosivi improvvisati (Ied) - ha continuato ieri il ministro - ma si comincia a manifestare un’inversione di tendenza data dal numero crescente di scambi di colpi d’arma da fuoco negli avamposti del nord e del sud della nostra regione di competenze». Una minaccia che impone di verificare se siano necessarie ulteriori misure di sicurezza per i nostri soldati e che ha portato il ministro a chiedere di parlare a breve con il comandante della missione Nato in Afghanistan, il generale americano David Petraeus. Immediato il cordoglio del capo dello Stato. In una nota diffusa dal Quirinale, Napolitano ha espresso «i suoi sentimenti di solidale partecipazione al dolore dei famigliari del militare caduto nella missione internazionale per la pace e la stabilità in Afghanistan, e un affettuoso augurio al militare ferito». Anche il presidente del Consiglio Berlusconi ha inviato le sue condoglianze: «Alla famiglia - ha detto il premier - vanno il mio cordoglio e la mia vicinanza, e al militare ferito i miei auguri di pronta guarigione. Ai militari impegnati nelle diverse missioni rinnovo l’appoggio e la gratitudine di tutto il governo per la professionalità e l’umanità con le quali garantiscono libertà e sicurezza nelle più tormentate regioni del mondo». È toccato invece al generale Claudio Tozzi, comandante della Regione militare Sardegna, andare a casa da mamma Rita e papà Antonio per il compito più difficile: dirgli che Luca non c’è più.
ULTIMAPAGINA
Diplomazia. Il presidente cinese non ha mai ottenuto un ricevimento di Stato. Oggi Obama gliene regala uno
Hu Jintao e quella cena attesa di Vincenzo Faccioli Pintozzi l simbolismo e il protocollo sono elementi irrinunciabili nella cultura cinese.Tanto più se parliamo di rapporti internazionali o di ospitalità: Pechino guarda con estrema attenzione a ogni particolare, e invia (per chi sa coglierli) messaggi importantissimi anche soltanto attraverso la scelta del menu da servire. In questo senso, ovviamente, coglie gli stessi messaggi e non scusa eventuali incomprensioni da parte dell’ospite. Un cinese non offre mai un posto lontano dal padrone di casa all’ospite di onore: e se lo fa, vuole sminuirlo. In questo senso, la frustrazione di Hu Jintao ha trovato finalmente pace ieri sera, quando alla Casa Bianca si è svolta una cena informale alla presenza dei padroni di casa, del Segretario di Stato Clinton e qualche altro boiardo statunitense. Ma il vero punto topico, per Hu Jintao, è il pranzo di Stato previsto per oggi che il leader cinese agognava sin dal 2002. Conviene spiegare meglio: Hu Jintao guida la Cina da quasi dieci anni, e il suo mandato è in scadenza. L’anno prossimo, salvo sorprese, l’Assemblea nazionale del popolo dovrà ratificare la successione al potere del suo vice Xi Jinping, sancendo l’inizio della Quinta generazione della dinastia comunista. E in questi dieci anni non ha mai trovato posto alla tavola più ambita
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tenda speciale era stata montata per proteggere i tavoli ordinati dall’amministrazione di Franklin Delano Roosevelt proprio per le cene di Stato. Il menu comprendeva aragosta, manzo dell’Oregon e patate dello Yukon. Mistero invece, fino al momento in cui scriviamo, sulle pietanze che sono pensate per Hu. Molto meno edonista di Jiang, è noto per i gusti frugali e la maniacalità con cui prepara i propri interventi. Qualcuno dice che la First Lady Michelle Obama stia pensando all’opzione “fusion”, una serie di piatti che uniscano i gusti americani con la tradizione culinaria cinese. Ma questo, agli occhi di un cinese, sarebbe in pratica riconoscere la supremazia asiatica su quella occidentale. Tutto questo, ovviamente, non toglie nulla all’importanza dell’incontro in sé. Cooperazione militare, questione valutaria e andamento del mercato sono argomenti che i due leader hanno in qualche modo già aggiustato. È prevista la firma di una serie di accordi economici per un totale di 500 milioni di dollari, ma sono contratti di prammatica, poco più che foglie di fico per le travagliate economie locali. Ma va detto che, forse senza effetti visibili, questa bilaterale è forse il momento più importante di confronto fra Cina e Stati Uniti negli ultimi trenta anni. A rendere difficili le relazioni è soprattutto il problema valutario. Di recente Hu è intervenuto sulla questione – con una inusuale intervista concessa al Washington Post - minimizzando le critiche Usa di “manipolazione” del cambio e spiegando che Pechino aveva adottato “un regime di tassi di cambio fluttuante” determinato dalla bilancia dei pagamenti internazionale e dall’andamento di domanda e offerta. E le questioni commerciali domineranno il vertice: l’incontro è stato preceduto da un rafforzamento
Al leader cinese pesa moltissimo il paragone con il suo predecessore Jiang Zemin, che venne accolto da Clinton alla Casa Bianca con un pasto a base di aragoste e manzo dell’Oregon dell’Occidente, quella della Casa Bianca.Va detto che è stato anche sfortunato: il predecessore di Barack Obama, George W. Bush, semplicemente non amava i rituali della diplomazia e, a lunghi ed estenuanti pasti ufficiali, preferiva spuntini di lavoro. Ma il bruciore di stomaco per il leader comunista non si è mai placato dato che il suo, di predecessore, aveva invece messo in cantiere ben due cene con il presidente Clinton. Che aveva sfruttato, tornato in patria, come simbolo evidente del suo successo nell’essersi accreditato con gli Stati Uniti a maggior gloria della Cina. In quell’occasione vennero serviti 230 ospiti nell’ala ovest della Casa Bianca, dove una
10 ANNI dello yuan operato dalla People Bank of China considerato però dagli Usa insufficiente, e comunque revocabile in qualunque momento. Secondo il Segretario al Tesoro Timoty Geithner, infatti, Pechino «deve fare di più per rivalutare lo yuan e non praticare concorrenza sleale sulle merci, che ha prodotto 260 miliardi di dollari di surplus commerciale del Paese asiatico nei confronti degli Stati Uniti e portato a 3mila miliardi il pacchetto di riserve».
Obama intende anche affrontare con il collega Hu il problema di diritti umani alla luce della vicenda del Nobel Liu Xiabao, ancora in carcere. Importanti anche le discussioni sul ruolo internazionale di Pechino nella grandi crisi come l’Iran e la Corea del Nord. Ma, come dimostrato in passato, è difficile che su questi temi il leader americano ottenga soddisfazione. L’incontro Usa-Cina arriva anche in un momento in cui la percezione dei rapporti con Washington in Cina è sui livelli minimi da anni: secondo un sondaggio del China Daily oltre la metà dei cinesi crede che nel 2010 le relazioni tra Pechino e gli Usa si siano deteriorate. Dei 1.443 intervistati, quasi 4 su 10 ritengono addirittura che le relazioni siano “pessime”, ma 6 su 10 sono convinti che i rapporti tra Washington e Pechino rimarranno stabili in futuro. L’importante è che il pranzo sia soddisfacente.