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he di cronac
La società non deve esigere nulla da chi non si aspetta nulla dalla società
George Sand
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • VENERDÌ 21 GENNAIO 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Il premier è messo alla berlina sulla stampa internazionale: per l’«Economist» è come Cetto La Qualunque
La maggioranza silenziosa Insistiamo: può un’intera classe politica ridursi al ruolo di veline del Capo? Nel Pdl continua la complice unanimità con Berlusconi. Solo Bossi dice: «Silvio abbassi i toni». Poi interviene la Chiesa con Bertone: «Adesso basta cattivi esempi». E Napolitano: «Più sobrietà» 1 2 3 4 Il fattore Lupi: Cl è come la Cina prima gli affari, poi i valori
Il problema non è Il fattore Pisanu: È stato perseguitato. solo dei cattolici: se nessuno Ma ora è diverso: o i deputati laici dà peso alla morte indagato è il premier sono senza morale? del senso dello Stato non l’imprenditore
di Vincenzo Faccioli Pintozzi
di Errico Novi
di Riccardo Paradisi
di Gabriella Mecucci
Quello della fede in politica è un tema già molto dibattuto, ma l’atteggiamento della compagine cattolica del Popolo della Libertà merita quealche parola in più.
Tra le ipotesi che si fanno su Silvio Berlusconi, uno emerge con più forza: a parte le private inclinazioni, c’è anche un’aperta sfida al mondo e alle istituzioni.
C’è un momento in cui le contraddizioni creative diventano contraddizioni e basta. L’uomo che s’è fatto istituzione getta la maschera e si riscopre antipolitico.
Berlusconi è “perseguitato” dalla magistratura e il Rubygate è solo l’ultimo frutto avvelenato: così si difende il premier.
Tre domande e una certezza
È iniziata la sfida dell’islam del Nordafrica
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Anche il Terzo polo e (a sorpresa) il Pd bocciano la mediazione di Calderoli
Un coro di no al federalismo Comuni e Regioni contro la bozza. La Lega: «O passa o si vota»
di Daniel Pipes di Francesco Pacifico improvvisa e pressoché inspiegabile uscita dell’uomo forte della Tunisia, Zine El Abidine Ben Ali, 74anni, dopo 23 anni di potere, potrebbe avere delle implicazioni in Medioriente e per il mondo musulmano. Come ha osservato un giornalista egiziano: «Ogni leader arabo guarda alla Tunisia con paura. Ogni cittadino arabo guarda alla Tunisia con speranza e solidarietà». Io la guardo con questo insieme di sentimenti. Durante la prima fase dell’indipendenza, fino a circa il 1970, i governi dei Paesi di lingua araba venivano spesso rovesciati. a pagina 10
L’
EURO 1,00 (10,00
ROMA. Ormai lo hanno capito tutti: il futuro della legislatura passa per il federalismo. Se il decreto sulla ripartizione dei fondi sarà approvato, allora il governo continuerà ad avere l’appoggio della Lega che - finalmente - potrà vantare qualche successo dopo quindici anni di minacce. Altrimenti, si va alle urne dritti dritti: facendo campagna elettorale contro tutti quelli che ancora una volta hanno impedito la Grande Riforma. Ieri Bossi lo ha detto senza mezzi termini: «O passa il decreto o si va alle urne». I timori di Bossi derivano dal fatto che anche l’opposizione ha capito che il futuro della maggioranza è appeso a quel sì. Quindi tutti, ieri, hanno bocciato la mediazione di Caldeorli su costi e benefici. No hanno detto i Comuni, che vogliono più soldi. No hanno detto le Regioni, che vogliono garanzie. No ha detto il Terzo Polo, che ha chiesto pèiù tempo per discutere nuove modifiche. E no,a sorpresa, ha detto anche il Pd. a pagina 6 CON I QUADERNI)
• ANNO XVI •
NUMERO
14 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
pagina 2 • 21 gennaio 2011
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Solo Bossi prova a frenare un po’ Berlusconi: «Abbassi i toni»
Interviene la Chiesa. Bertone dice: «Basta cattivi esempi» di Franco Insardà
ROMA. Il caso Ruby preoccupa il Vaticano che, come ha dichiarato ieri il segretario di Stato,Tarcisio Bertone «spinge e invita tutti, soprattutto coloro che hanno una responsabilità pubblica in qualunque settore amministrativo, politico e giudiziario, ad avere e ad assumere l’impegno di una più robusta moralità, di un senso di giustizia e di legalità». E come capita ogni qualvolta che la situazione diventa grave ma non seria – il parallelo dell’Economist tra il Cavaliere e Cetto La Qualunque docet – ecco Umberto Bossi diventare pompiere. E intimare all’amico Silvio e ai nemici magistrati di «darsi una calmata». E spiegare che per lui le elezioni senza Berlusconi sono un’ipotesi tanto credibile da puntare su Rosi Mauro come premier... A meno che non salti il federalismo fiscale. E se c’è da ricucire preferisce partire dall’alto: dal Colle, definendo il presidente Napolitano «uomo di grande buon senso». Dopo l’ennesimo vertice serale con il Cavaliere che ha prodotto l’annuncio di 6 o 7 importanti riforme “condivise”e un pranzo con i suoi il Senatur ha lanciato l’ultimatum agli alleati in fibrillazione e alla ricerca di soluzioni per un eventuale dopo-Berlusconi. Mentre per il 59 cento dei partecipanti a un sondaggio di Sky Tg24 Berlusconi fa male a non dimettersi. Intanto sul governo si abbatte la tegola Bondi. Il futuro del ministro dei Beni Culturali, infatti, è sempre più in bilico dopo che i due suoi predecessori (Francesco Rutelli e Rocco Buttiglione), insieme con il finiano Fabio Granata. hanno depositato la mozione di sfiducia individuale. Quella del Terzo Polo si aggiunge alle mozioni presentate da Pd e Idv, dopo i crolli di Pompei. La mozione è stata calendarizzata per il 25 gennaio, e dovrebbe essere votata entro la fine della prossima settimana. Come si legge nel testo il ministro «a differenza di altri suoi colleghi, non è stato in grado di far valere la propria iniziativa presso il presidente del Consiglio, presso il ministro dell’Economia e in seno alla collegialità del Consiglio dei ministri, non riuscendo così ad arginare un irreparabile guasto delle politiche pubbliche per la cultura in Italia, che la linea prevalente nel governo tende a definire come un costo superfluo per le finanze pubbliche».
Dura ironia dell’«Economist»: il Cavaliere è come Cetto La Qualunque
I rappresentanti del Terzo Polo hanno anche dichiarato di essere pronti a ritirare la mozione nel caso in cui il ministro Bondi accetti le loro proposte sulla cultura, che saranno presentate come emendamenti al decreto Milleproroghe. Si tratta di sbloccare le assunzioni in particolare per i sovrintendenti, prorogare la tax credit e lal tax shelter per il cinema. la revoca del divieto ai Comuni di investire in iniziative culturali, il reintegro del Fus con altri 200 milioni e del fondo per la tutela del patrimonio con altri 300 milioni. Rocco Buttiglione ha spiegato il senso dell’azione: «I numeri saranno quelli che saranno, a noi interessa difendere la cultura italiana e offrire il nostro sostegno a tutto quel mondo che da anni vede le rassicurazioni fornite da Bondi continuamente disattese». E Francesco Rutelli ha aggiunto: «La cultura è in coma, Bondi faccia sì che il coma non diventi irreversibile». Per Fabio Granata «l’atto di sfiducia politica va oltre Pompei, perché il ministro ha deluso tutti gli operatori della cultura». Riparte così la sfida dei numeri alla Camera tra maggioranza e opposizione, mentre si ridimensiona la forza del gruppo dei “responsabili”. Infatti se non fosse per due deputati in “prestito”dal Pdl (Vincenzo D’Anna e Mario Pepe) non sarebbero riusciti neppure a formare il gruppo parlamentare, vista anche la defezione di Calogero Mannino. I numeri della maggioranza si spostano di poco dai 314 del 14 dicembre scorso, quando si votò la fiducia al governo, ai 315 con l’ex Fli Silvano Moffa. Sulla vicenda Pier Ferdinando Casini ha commentato: «Sono sempre gli stessi che avevano votato la fiducia... ».
Ancora una volta ci si interroga sul silenzio dei parlamentari del Pdl
Quattro riflessioni sulla politica delle veline Nemmeno la pericolosa «dichiarazione di guerra» contenuta nel nuovo videomessaggio di Berlusconi ha rotto il fronte della complicità nei confronti del premier. Senso dello Stato, valori e etica pubblica e privata sembrano non avere più peso nella maggioranza
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IL FATTORE LUPI
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Cl come la Cina: prima gli affari poi i valori Tutti dicono di «aspettare le parole della Chiesa» prima di pronunciarsi su certi comportamenti. E allora viene da chiedersi: un politico ha dei valori perché ci crede o perché gli conviene?
uello della fede in politica è un tema talmente dibattuto che ogni parola in più sull’argomento rischia di essere ridondante. Ma l’atteggiamento della compagine cattolica del Popolo della Libertà merita questo rischio, soprattutto a fronte delle ultime rivelazioni riguardanti il presidente del Consiglio dei ministri attualmente in carica, Silvio Berlusconi. Lasciando da parte almeno per un attimo l’aspetto della rilevanza penale della questione, merita un esame più attento la rilevanza morale del tutto. Se è vero – verissimo, sacrosanto – che l’Italia è uno Stato laico e che le istituzioni devono essere rette dal più saldo spirito repubblicano, è altrettanto vero che la politica (soprattutto quella di governo) è fatta da rapporti umani. Con i propri leader e con i propri elettori, ai quali va resocontata l’attività propria e del partito di cui si fa parte. Un qualunque deputato del PdL che si professi di religione cattolica dovrebbe tenere a mente anche la morale propagata dalla propria fede e smetterla di fare “la velina” del capo del governo: il rischio è che i politici cattolici divengano simili ai funzionari comunisti che reggono la Cina contemporanea, un Paese dove la priorità assoluta è fare affari a scapito di diritti, doveri e soprattutto morale.
di Vincenzo Faccioli Pintozzi
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Quando si parla di libertà religiosa violata, questa compagine è abbastanza compatta nel gridare allo scandalo. Se si deve puntare il dito contro un regime lontano, ci sono schiere di onorevoli dalla schiena dritta pronti a invocare la libertà dell’uomo predicata da Cristo a costo della vita e a chiedere “posizioni ferme”, “condanne inappellabili” e addirittura “interventi urgenti” a qualunque organo venga loro in mente. Ma, se si inizia a mettere sull’altro piatto della bilancia un qualunque aspetto economico o di convenienza, lo stesso dito perde vigore e abbassa di molto il tenore delle richieste. La stessa Cina nominata prima offre uno spunto di riflessione e una conferma. Nel gigante asiatico, ogni giorno, avvengono crimini contro l’umanità documentati e assurti a legge da parte del Partito
comunista locale. Oltre alla persecuzione contro i fedeli che non intendono sottostare al controllo statale, si contano aborti forzati e sfruttamento della forza lavoro, requisizioni di terre e minacce alle libertà di espressione e di pensiero. Eppure, quando si deve dire una parola contro Pechino, i cattolicissimi esponenti della nostra politica evitano. Con poche, ammirevoli eccezioni, l’atteggiamento di alcuni esponenti di Comunione e Liberazione - per non parlare di altri movimenti ecclesiastici ancora più “intransigenti” nel campo del rispetto della dottrina - che siedono negli scranni di Montecitorio assomiglia esattamente a coloro che devono trattare con la Cina: si parla di diritti soltanto se questi non intaccano gli affari.
cattolica preferisce un amorale che firma leggi buone a un moralista (anche sincero) che firma leggi cattive.
Ma questo modo di fare può reggere soltanto in politica estera. Quando riveste invece l’interno diventa un’ambiguità che rasenta l’omertà. Ci si sarebbe aspettato da più di una persona con incarichi di rilievo nel PdL quanto meno una censura del comportamento del premier. Che offende ogni principio in cui un cattolico crede. Il problema ha degli aspetti
Risponde Messori al suo intervistatore, che lo interroga su vizi privati e pubbliche virtù: «Preferirei un politico dalla vita privata irreprensibile che fa buone leggi. Detto questo, ricordo che il peccato che più fa adirare Gesù nei Vangeli è l’ipocrisia, vale a dire il presentarsi come ossequiosi e morali, ma poi avere una vita privata che va da tutt’altra parte. Il cristiano de-
che riguardano anche il Vaticano. La realpolitik della Chiesa cattolica, una filosofia di governo bimillenaria, predica prudenza nei confronti dell’atteggiamento privato dei governanti, di qualunque latitudine siano. Come spiega molto bene Vittorio Messori in un’intervista apparsa sulle pagine del Giornale, la Chiesa
ve confrontarsi con il mondo così com’è e dunque, per rispondere alla domanda, è certamente meglio un politico puttaniere ma che faccia buone leggi di un notabile cattolicissimo che poi fa leggi contra-
ci cattolici. Che tuttavia usano proprio questo argomento per giustificare il loro vergognoso silenzio davanti a questo numero spropositato di violenze alla loro sbandierata morale.
Il dubbio è che la morale cattolica venga usata soltanto in campagna elettorale, per recuperare preferenze da quel bacino che fece dell’Italia un Paese sostanzialmente democristiano nei quattro decenni successivi alla conclusione del secondo conflitto mondiale. Un dubbio legittimato anche da una riflessione sull’operato generale di questi uomini politici. Cosa hanno fatto negli ultimi vent’anni in nome dei valori che dicono di difendere? Quasi nulla, e questo è un fatto.
Le leggi morali del cristianesimo non sono solo un vessillo per le prossime elezioni. Bisogna farci i conti
rie alla Chiesa». E il ricordo di Giulio Andreotti che firma la legge sull’aborto non deve sfiorare le menti più cattive. Ma questi sono i pensieri e gli atteggiamenti della gerarchia vaticana: per quanto anch’essi da un certo punto di vista censurabili, o se si preferisce realistici, non hanno nulla a che fare con la questione dei politi-
Non ci si aspetta alcun atto di eroismo, non si vuole vedere nessuno immolarsi sulla pira dei valori. Ma basterebbe tenere a mente gli insegnamenti che non soltanto la Chiesa e i cattolici, ma soprattutto le brave persone conoscono, per alzarsi in piedi ed esprimere il proprio dissenso. Il rischio è quello di sembrare meri esecutori di un sistema politico simile a quello dei regimi totalitaristi del bel tempo andato, quando si predicava bene e si razzolava molto male.
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NON SOLO I CATTOLICI
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Ma i deputati laici sono privi di morale? Nel Pdl non s’indigna nemmeno chi, per cultura, dovrebbe avere a cuore la dignità della Cosa pubblica
ra le ipotesi che si fanno sui comportamenti di Berlusconi, sulla loro origine, uno emerge con più forza: a parte le private inclinazioni, c’è anche un’aperta sfida al mondo, al proprio potere, alle attese che incombono rispetto a una figura istituzionale. Se dopo il caso D’Addario, o il caso Noemi, ancora insisti, è anche perché vuoi dimostrare che ogni cosa ti è consentita, che te ne puoi infischiare delle conseguenze, che il tuo potere non teme scandali. E questa però è l’epitome del Cavaliere e della sua smisurata idea di grandezza. Paradossale e irragionevole. Ma gli altri? Quelli che gli stanno attorno pensano tutti la stessa cosa? Che a loro, o meglio al loro leader, tutto è consentito? E dunque bisognerebbe supporre che la mania di grandezza investa anche gli attendenti del premier, pervasi dalla sacralità e dall’intangibilità della loro missione. Bisogna ricorrere a un’ipotesi simile, paradossale anche questa, se si vuole rispondere a un’altra domanda: e perché mai dovrebbero esprimersi solo i cattolici, nel Pdl, su Berlusconi? Cosa c’entra con il rispetto dei più elementari principi della morale essere o non essere cattolici? I laici del Pdl davvero non devono pronunciare una parola sui comportamenti del premier? Perché essere laici fino a prova contraria presuppone la sussistenza di una visione talmente elevata dello Stato da sollevarla alle altitudini rarefatte dove non si possono alterare i cardini del vivere civile nemmeno con le convinzioni che attengono allo spirito. Al di là della fede, di qualsiasi altra prospettiva ideale, è lo Stato che viene prima di tutto. È la missione civile. Il rispetto dei principi della democrazia. Se è così un “laico del Pdl” dovrebbe avere a cuore più di tutti la difesa delle istituzioni repubblicane. E la loro dignità.
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Cioè ci si aspetterebbe che Tremonti, o un laico-cattolico come Sacconi, o ancora Cicchitto e chi come lui (Brunetta, per fare un altro esempio) incarna la tradizione socialista nel Pdl, che qualcuno di loro si imbarazzi. E non solo, Si indigni, reagisca. Dica di sentirsi offeso lui per le istituzioni offese. In gioco ci so-
di Errico Novi no questioni che riguardano, a pensarci bene, più la prospettiva di un laico che di un cattolico. Perché sì, Berlusconi disintegra i principi di sobrietà e di continenza minime a cui un cattolico, un credente, può fare riferimento. Ma su questo terreno, come è evidente, nessuno davvero potrebbe scagliare la prima pietra. Nel caso bunga bunga, Ruby e festini di Arcore però esce a pezzi soprattutto la dignità della donna. Il ruolo, l’immagine femminile nella società. E non sono, questi, temi che un laico dovreb-
C’è anche un’altra questione: quella delle donne che dovrebbero ribellarsi al loro ruolo avvilente be avere a cuore? Ma Margherita Boniver – per fare il nome di una parlamentare della maggioranza di cui è difficile non avere stima – che è laica, di tradizione socialista, che è una donna, e che è in particolare una donna impegnata sul fronte dei diritti umani; la Boniver dunque come può non provare disgusto per tutto questo? E come si fa a reprimere un simile impulso, un simile inevitabile schifo, sotto il tappeto della convenienza? Davvero l’aura benefica del plurivincitore di campagne elettorali Silvio Berlusconi irradia tanta luce da abbagliare tutti?
Si deve credere questo. Perché alla suggestione secondo cui Silvio è talmente al di sopra di tutto da potersi permettere tutto, be’, in una simile suggestione un laico non può precipitare. Non può per struttura culturale. E non c’è nemmeno da attendere che la Chiesa intervenga. Anzi,
un laico dovrebbe rivendicare il diritto a difendere questa vicenda come il campo in cui deve esprimersi l’autonomo giudizio della politica. Persino un Marcello Pera (laico per formazione ma tra i pochi politici amici del Papa) dovrebbe guardarsi dal ridurre tutto a uno sfregio dei rapporti tra Berlusconi e il Vaticano. Dovrebbe quasi temere che il disdoro per le cattive abitudini del Cavaliere si risolva in un paternalistico buffetto assestato da Bagnasco. Non è proprio il caso, a maggior ragione se ti chiami Tremonti, di attendere la prolusione che il presidente della Cei pronuncerà lunedì. Già sussiste un fatto che indipendentemente dalle vicissitudini pornografiche dovrebbe suscitare indignazione: l’uso personale, privato, delle istituzioni pubbliche compiuto dal premier con la telefonata in questura. Non si confonde l’influenza del proprio ruolo con il funzionamento dello Stato per faccende che più private non potrebbero essere. E non venite a raccontarci che il Pdl muore se muore Berlusconi. Abbiano rispetto, ministri e parlamentari del primo partito italiano, dei voti che hanno ricevuto. Abbiano rispetto di una rappresentanza politica che esiste a prescindere da Silvio Berlusconi. E che non merita di essere sacrificata all’indisciplina e alle stravaganze di un uomo di potere.
Non ha senso la fuga da un imbarazzo che se rimosso ora si amplificherà in futuro: superato Berlusconi, chiusa la sua stagione, cosa resterà delle parole pronunciate per difenderne l’intangibilità? Come si potrà fare i conti con gli infingimenti di questi giorni? Se esiste il problema di una sopravvivenza del centrodestra così come è apparso in questi anni, esso attiene anche all’immagine che oggi il centrodestra di governo dà di se stesso. Resterà un esercizio di difesa incondizionata nei confronti del capo. La negazione dei fatti e la forzatura nell’analisi. L’interpretazione piegata a un ostinato conflitto con la magistratura. Anzi, alla santificazione del Cavaliere come vittima di un pluriennale complotto. Poi però più niente. Non le idee. Non la forza della rappresentanza. Non una cultura di governo. Solo i coriandoli di una festa privata di cui il Paese ha dovuto sopportare il frastuono.
IL FATTORE PISANU
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Nessuno dà peso alla morte del senso dello Stato
Per il premier, le istituzioni sono solo strumenti di lotta politica e partitica di Riccardo Paradisi è un momento in cui le contraddizioni creative diventano contraddizioni e basta. In cui – per capirsi – la feconda dialettica dell’outsider che entra in politica senza essere della politica, che si fa uomo di Stato continuando a non esserlo, si trasforma in un gioco di reciproca elisione, di pericolosa impasse. Insomma nei confronti di Silvio Berlusconi si può nutrire il giudizio più equanime, si può concordare sul fatto che sia esistito nei suoi confronti un processo di demonizzazione, si può ammettere che nei suoi confronti si sia mossa un’impressionante macchina da guerra mediatico-politico giudiziaria. Si può persino arrivare ad ammettere che alcuni fuor d’opera di questo premier outisider possono essere contestualizzati – per citare Monsignor Fisichella –
C’
dentro la lunga transizione italiana, dentro l’anomalia perdurante dello scontro permanente tra potere politico e potere giudiziario...
Però appunto a questo sforzo di comprensione dettato dal buon senso e da una cultura di moderatismo politico dovrebbe corrispondere uno sforzo speculare. Insomma sembra incredibile che il presidente del Consiglio – considerando appunto certi contesti a lui non proprio favorevoli – non abbia fatto, dopo un quindicennio di incarichi istituzionali, nemmeno un passo dentro la sfera della propria costituzionalizzazione, che l’outsider sia rimasto tale e senza guadagnare un’idea dello Stato e delle Istituzioni come fenomeni di più lunga durata e di più vasta portata simbolica della propria, pur straordinaria, personalità. Non negandosi però il pri-
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LA DIFESA SBAGLIATA
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Sì, è stato perseguitato ma questa volta è diverso Ora è indagato per fatti commessi da premier, non per quel che fece prima di scendere in politica
erlusconi è “perseguitato”dalla magistratura e il Rubygate è l’ultimo frutto avvelenato delle “toghe rosse”. È questo l’argomento principe dei difensori del premier, ed è comprensibile che sia così perchè una tesi è sostenibile solo se contiene al suo interno parti importanti di verità. Non a caso si dice che la migliore bugia è una mezza verità. E allora partiamo da una prima certezza: il comportamento della Procura milanese nei confronti del premier ha assunto in passato, più volte, le forme dell’ accanimento giudiziario. Berlusconi però non è stato il solo “perseguitato”: alcuni personaggi politici della Prima Repubblica hanno subito trattamenti simili. Si può infatti ben dire che negli ultimi venti anni, a partire cioè da Tangentopoli, i magistrati si sono resi responsabili di parecchie e gravi forzature verso esponenti della Dc, del Psi e di altri partiti minori. Dunque, Silvio Berlusconi è in buona e nutrita compagnia. Questa non è una scusante, anzi, è un’aggravante per alcuni pubblici ministeri. L’accanimento verso il premier viene in genere dimostrato elencando dati quantitativi: 28 processi, oltre 2500 udienze, 110 indagini aperte, 500 perquisizioni nei suoi uffici. E non c’è dubbio che questi siano numeri impressionanti. Ma c’è qualcosa di ancora più stringente per certificare la“persecuzione”: sono i tempi in cui è iniziata la martellante attività giudiziaria. Sino a quando Berlusconi si era limitato a fare l’imprenditore di successo non era stato raggiunto nemmeno da una sparuta comunicazione di garanzia, subito dopo essere “sceso in campo”partì la grandinata: avvisi di reato, indagini, processi uno dietro l’altro. Ma c’è di più: tutti i crimini di cui Berlusconi venne accusato a partire dal ’93-94 sarebbero stati commessi molti anni prima, appunto quando era semplicemente un imprenditore, senza che la Procura milanese avesse a tempo debito dato mostra di accorgersene.
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vilegio di farsi scudo dei simboli istituzionali come è avvenuto con il durissimo videomessaggio in cui Berlusconi ha sferrato un attacco alla magistratura presentandosi dietro l’usbergo del tricolore e della bandiera europea. Mostrando cioè l’immagine d’un istituzione che rischia d’essere sfregiata. Ma ammesso che un’inchiesta giudiziaria contro un’alta
Dopo un quindicennio di incarichi istituzionali il premier resta ancora un outsider, ma ormai è solo un difetto sfera dello Stato sia uno sfregio lo sono sicuramente anche certi contegni impropri per una carica istituzionale. Perché non è necessario essere dei moralisti, dei Robespierre o, come direbbeVittorio Feltri, dei sepolcri imbiancati, per definire improprie le serate di Arcore, i cotè con Lele Mora, la scuderia rotante di veline e letterine.
Si certo, l’obiezione è che Berlusconi non è un’ipocrita , che la
sua forza, la sua capacità fusiva con la gente stia proprio nella sistematica rupture con il protocollo, nello strappo guascone col cerimoniale. Ma a parte il fatto che son cerimoniali, parodistici anche quelli che da quanto s’apprende si celebrano ad Arcore, è proprio l’adesione a certe forme che rendono il privilegio del potere anche un sacrificio, un ascesi laica che imbriglia libertà e impulsi personali, che costringe il politico in un’immagine a cui essere sempre all’altezza. Immagine peraltro costantemente insidiata, minacciata, da poteri concorrenti, da avversari palesi o nascosti, ma anche da amici veri e presunti, dalla propria stessa ombra che come dice Carl Schmitt, in pagine memorabili, s’affaccia soprattutto nella solitudine dell’uomo di potere. una solitudine che non è mai tale e che per questo è intollerabile. Ecco, se assieme all’Elogio della follia libro a cui Berlusconi ha sempre detto d’aver ispirato la propria vita, il Cavaliere avesse letto anche le poche, dense ed essenziali pagine del Dialogo sul potere di Schmitt avrebbe colto al volo il senso di questo ragionamento. Dentro cui è racchiusa quella cosa che viene comunemente definita senso dello Stato. Perché lo Stato – come potrebbe spiegar bene al Cavaliere per esempio Beppe Pisanu che dalla prossimità con Moro si ritrova a quella con Mora – ha una sua storia, una sua vita, un’anima propria, una sua impersonale sacralità. Funzionale a garantire alle comunità e alle generazioni prospettiva e continuità storica. Qualcosa di più dei lacci e lacciuoli del noto refrain.
È difficile negare dunque che fu l’ingresso in politica a scatenare contro il Cavaliere il ciclone giudiziario. Ed è impossibile non accorgersi che l’occhio del ciclone era situato nel Palazzo di Giustizia meneghino. Tutto
di Gabriella Mecucci questo destò preoccupazione nei più. L’elettorato berlusconiano si indignò e si radicalizzò. E anche i più tiepidi sostenitori del Cavaliere o i critici meno faziosi, almeno su questo punto, si schierarono a sua difesa. Sin qui, la parte di verità contenuta negli argomenti dei difensori del premier. Oggi però, nella squallida storia del Rubygate, molte delle caratteristiche delle passate vicende giudiziarie sono assenti. Cominciamo col dire che non si è andati a “spulciare”
Tutto è nato da una normale e banale retata nel mondo della prostituzione, senza usare le intercettazioni il passato per trovare un qualche reato commesso una decina d’anni fa e farne materia di indagine. Il crimine, e cioè l’aver avuto rapporti sessuali con una minorenne, sarebbe stato commesso nel 2010, ora che Berlusconi è presidente del Consiglio, e i magistrati ci sarebbero arrivati partendo da una retata contro la prostituzione: allora è spuntato il nome del premier e da lì sono partite le intercettazioni che hanno riguardato all’inizio solo le escort e il loro giro. Non sono state invece “spiate”le telefonate né di parlamentari, né di ministri, né del capo del governo. Né tantomeno di altri importanti ospiti di Arcore. È solo attraverso le conversazioni fra le “ragazze” e, successivamente, quelle di Nicole Minetti, di Emilio Fede e di Lele Mora che si viene a conoscenza dei festini e del reato che vi sarebbe stato consumato. Dove sta la persecuzione? L’indagine non ha nessuna delle caratteristiche di accanimento verificatesi in
precedenti vicende riguardanti Silvio Berlusconi.
Ma c’è di più, anni addietro, le telefonate registrate passavano dalle mani dei magistrati direttamente alle prime pagine dei giornali, oggi sono uscite solo quando sono arrivate in Parlamento. Sono finite sulla stampa, dunque, non per volontà della Procura, ma perché qualche deputato ha deciso così. Naturalmente si può fare tutta la dietrologia che si vuole, ma i tempi ci dicono che il percorso è stato questo. Una prassi molto diversa da quella invalsa per quasi due decenni, quando gli indagati si trovavano sui giornali le loro telefonate, quelle delle loro mogli e dei loro figli senza nemmeno aver ricevuto l’avviso di garanzia. Naturalmente anche oggi si è messo in moto un gigantesco polverone mediatico, ma questo è pressoché inevitabile. Proviamo ad immaginare che cosa succederebbe sulla stampa nazionale ed internazionale se alcune intercettazioni rivelassero che Angela Merkel organizza festini a casa sua con una decina di fusti brasiliani, di cui uno diciassettenne. Sarebbe un terremoto. Berlusconi poi è recidivo: dopo lo“scandalo Noemi”e lo“scandalo D’Addario” anziché quietarsi, ha rilanciato come farebbe un giocatore di poker professionista, non certo un politico navigato e responsabile. La sua è prima di tutto una sfida al buonsenso. Se non c’è persecuzione nell’indagine per il reato di prostituzione minorile, altrettanto si può dire per la concussione. Questa nasce quando Berlusconi in persona telefona alla Questura di Milano e chiede che Ruby (arrestata per furto) venga “affidata” (se non è minorenne perché“affidarla” a qualcuno, non basta “rilasciarla”?) al consigliere regionale Nicole Minetti, raccontando l’esilarante balla della “nipote di Mubarak”. Tutto nasce dal premier e - ammetteranno i tanti avvocati difensori del Cavaliere che il suo comportamento è tale da provocare la richiesta di qualche chiarimento in più. L’inchiesta aperta a Milano può dunque essere considerata non suffragata da tutte le prove utili. Può basarsi su interpretazioni inesatte e da verificare più attentamente. Può essere giusta o sbagliata, ma è impossibile bollarla come una bieca persecuzione.
diario
pagina 6 • 21 gennaio 2011
Parlamento Ue: «Battisti in Italia»
Verdini indagato per fatture false
Il 17 marzo è festa dell’Unità d’Italia
BRUXELLES. Ieri è stata appro-
FIRENZE. Denis Verdini è inda-
vata dall’Europarlamento, con un solo voto contrario e due astenuti, una risoluzione bipartisan presentata da tutti i partiti italiani nella quale l’Unione Europea chiede al Brasile di consegnare il terrorista alla giustizia italiana. l voto dell’Assemblea di Strasburgo è giunto al termine di un dibattito a tratti vivacemente polemico, con interventi soprattutto di eurodeputati italiani, naturalmente favorevoli alla risoluzione, e portoghesi, contrari. Ad ogni modo il commissario Stefan Fule, intervenuto a nome dell’Esecutivo, ha detto che la Commissione non ha modo d’intervenire in questa vicenda. Al dibattito erano presenti anche alcuni familiari delle vittime di Battisti.
gato per fatture false. Nuove «operazioni» del coordinatore del Pdl sono al centro delle indagini della Procura per l’inchiesta sui suoi rapporti con l’imprenditore Riccardo Fusi, ex presidente di Btp. L’accusa ritiene che Verdini possa aver emesso delle fatture, per circa 300 mila euro, per attività mai svolte e che possa averle fatte passare per consulenze. Secondo quanto ipotizzato dagli investigatori, beneficiari delle «collaborazioni fittizie» di Verdini sarebbero stati alcuni studi legali che avevano ottenuto consulenze per un mutuo da 150 milioni concesso nel 2008 alla Btp da un pool di banche: Mps, Unipol, Cariprato, banca Mb e Credito Cooperativo fiorentino.
ROMA. Il 17 marzo sarà festa nazionale ma soltanto per il 2011 in occasione delle celebrazioni del 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia. Lo ha detto Gianni Letta presentando gli eventi di quella occasione. Giuliano Amato, presidente del comitato dei garanti per le celebrazioni dell’Unità d’Italia ha invece illustrato alcuni degli eventi celebrativi che si svolgeranno in tutta Italia: «Nella notte del 16 ci sarà la notte Tricolore con iniziativa in tutti i Comuni che vorranno organizzarne». Quindi verranno ricordati e recuperati «i luoghi della memoria come la domus mazziniana a Pisa, Solferino, dove ci fu la celebre battaglia, e Caprera, un sito su cui puntiamo molto con la realizzazione del museo garibaldino».
Coro di no alla bozza di mediazione sui fondi municipali: tutti chiedono modifiche e i tempi del decreto si allungano
S’è incagliato il federalismo Terzo Polo, Pd, Comuni e Regioni: così non va. E Bossi: senza riforma si vota di Francesco Pacifico
Dopo il no di Comuni, Regioni e Pd alla bozza presentata ieri dal ministro Calderoli, è arrivata una nota firmata dai responsabili economici del Terzo Polo, Gianluca Galletti (Udc), Mario Baldassarri (Fli) e Linda Lanzillotta (Api), che chiede tempo: «Non siamo contrari alla riforma, ma il testo che riforma la fiscalità municipale così com’è non va»
ROMA. Una cosa sono gli slogan, un’altra la politica. Umberto Bossi può minacciare che «se non si fa il federalismo, si va a votare». Roberto Calderoli, invece, è costretto a riaprire le trattative con opposizioni e enti locali per salvare il decreto sulla fiscalità municipale, che sulla carta dovrebbe essere approvato entro il 28 gennaio. E siccome i margini si stringono ogni ora che passa, il ministro per la Semplificazione normativa ha provato a salvare il salvabile: ha respinto la richiesta dell’Anci di ridiscutere il tutto in Conferenza unificata, quella che avrebbe dovuto concludere quasi un mese fa, ma ha accettato di valutare al Consiglio dei ministri di oggi una più generale proroga alla delega sul federalismo fiscale (sulla carta in scadenza il prossimo 21 maggio). E non sono mancate rassicurazioni ai sindaci, da sempre preoccupati di non recuperare con l’Imu e la cedolare secca quanto perso in termini di gettito con l’abolizione dell’Ici sulla prima casa.
A ben vedere l’ex dentista di Bergamo non poteva fare diversamente. Perché il quadro, politicamente parlando, è desolante per il Carroccio e il governo. Il Pd e il Terzo Polo hanno chiesto sei mesi in più per ridiscutere in Parlamento su una materia – il federalismo – che Tremonti e Bossi pensavano di definire a colpi di decreti legislativi e regolamenti. I sindaci pretendono di tenere in casa proprio più proventi del gettito fiscale raccolto sul territorio. E si parla di un tesoretto da 400 milioni di euro. Le Regioni, invece, si sono ac-
corte che nel Milleproroghe non ci sono quelle norme necessarie per sbloccare i 400 milioni di euro da destinare al trasporto sanitario o gli altri fondi garantiti per la spesa farmaceutica. Tanto da presentare 5 pagine fitte di emendamenti al testo, per ricordare al governo che queste misure erano il prezzo pattuito per concedere il loro via libera alla nuova fiscalità regionale. Con (sulla carta) 14 voti a favore e 14 voti contro, nel centrodestra non si può che sperare nell’ausilio del Terzo polo. Questa mattina l’udc Gianluca Galletti, il finiano Mario Baldassarri e la rutelliana Linda Lanzillotta presenteranno una serie di
emendamenti al testo. Ma è facile comprenderne il contenuto leggendo la nota che ha annunciato la decisione dei centristi: «Il testo sul federalismo», scrivono i tre, «così com’è non ci piace e pertanto presenteremo un emendamento al Milleproroghe per prorogare i tempi della delega. Se ce lo bocceranno, noi voteremo no». Nonostante le modifiche fatte da Calderoli e Tremonti, Udc, Fli e Api contestano in primo luogo la copertura della nuova cedolare secca, l’assenza di veri sgravi agli inquilini e una certo centralismo nella definizione della futura Imu. Al Terzo polo poi non piacciano gli aut aut della Lega, il legare
l’approvazione del decreto alla durata della legislatura. Galletti (Udc) respinge «i ricatti di Calderoli. Noi siamo nel merito non ci facciamo ricattare. Lo abbiamo sempre detto: noi votiamo le cose fatte per bene, e questa è fatta molto male». Secondo i centristi, «per approvare i decreti attuativi del federalismo infatti ci sarebbe tempo fino a maggio visto che la legge 42 del 2009 ha dato al governo 24 mesi di tempo per emanare i decreti attuativi». Quindi ci sono gli spazi «per migliorare il testo, visto che lo stesso Calderoli lo ha modificato più volte non riuscendo però a trovare ancora la quadra». Di conseguenza, non sembra
aver fatto presa su alleati e avversari la minaccia di Umberto Bossi che, senza una rapida approvazione del federalismo fiscale, l’unica strada sarebbe stata quella delle elezioni. Ma a dirla tutta, il Senatùr non aveva del tutto sbagliato le previsioni su quanto potrebbe accadere nel breve futuro. Accanto alla richiesta a Berlusconi e ai magistrati di fare un passo indietro, il leader della Lega aveva spiegato che non si saranno scossoni perché non c’è nessuno a Montecitorio che, tranne il Carroccio, vuole andare a votare. E non a caso aveva anche elogiato il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano: «C’è anche il Capo
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Si rischia una brusca frenata per il turismo
Oggi i funerali di Luca Sanna, l’alpino ucciso in Afghanistan ROMA. È tornata ieri in Italia la salma del caporal maggiore degli alpini, Luca Sanna, ucciso nell’avamposto della base di Bala Murghab da un infiltrato talebano nell’Esercito afgano. L’aereo che lo trasportava è atterrato in mattinata all’aeroporto militare di Ciampino: ad accogliere la bara, avvolta nel tricolore, i presidenti di Senato e Camera, Renato Schifani e Gianfranco Fini, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta, i familiari dell’alpino ucciso martedì scorso nei pressi di Bala Murgab, nell’ovest dell’Afghanistan. Presenti, tra gli altri, anche il ministro della Difesa Ignazio La Russa, il nuovo capo di Stato Maggiore della Difesa, generale Biagio Abrate, i vertici militari. Dopo l’autopsia, il feretro è stato trasferito presso la camera ardente allestita al Policlinico Militare ”Celio”a Roma,
g i u d i z il e t t e r ep r o t e s t es u g g e r i m e n t i
che è rimasta aperta dalle 16 alle 19. Le esequie solenni si terranno invece nella Basilica di Santa Maria degli Angeli, sempre nella capitale, questa mattina alle 10. Alla cerimonia funebre, riferisce il Quirinale, sarà presente anche il capo dello Stato Giorgio Napolitano. Intanto, il caporalmaggiore Luca Barisonzi, gravemente ferito nello scontro, ha riportato il blocco degli arti. Barisonzi è stato trasferito la notte scorsa all’ospedale di Ramstein in Germania.
Vorrei esprimere le nostre perplessità sull’introduzione della tassa di soggiorno nei decreti attuativi del federalismo fiscale. Per ridare fiato e corsa al turismo c’è bisogno di misure volte a favorire una maggiore competitività delle imprese turistiche. La tassa di soggiorno va esattamente nel senso contrario. Chiedo, pertanto, un intervento del ministro Brambilla a difesa degli interessi del settore turistico che rischia di vedere frenata la timida ripresa in corso per l’appesantimento fiscale di questo nuovo balzello introdotto per risanare i bilanci comunali, penalizzati negli ultimi anni dalla riduzione del gettito Ici.
Lanfranco Massari - FederCultura Turismo Sport
TASSA DI SOGGIORNO? COSÌ È ANTIFEDERALISTA La tassa di soggiorno fino a cinque euro è un’imposta anti federalista. Con un balzello simile, una famiglia composta da padre, madre e due figli potrebbe essere costretta a pagare fino a venti euro in più a notte. Mi sembra un tentativo maldestro di celare un caso evidente di aumento della pressione fiscale. E poi, che senso ha, specie in un periodo di crisi come questo, tassare proprio il settore del turismo che invece dovrebbe e potrebbe fungere da traino per la ripresa della nostra economia? Mi piacerebbe sapere cosa ne pensa il ministro Brambilla.
Gian Luca
dello Stato che dice cose di buonsenso. È un uomo di grande buonsenso». La parola passa al Consiglio dei ministri di questa mattina. Ma non meno decisiva sarà la giornata di lunedì, quando arriverà alla Bicameralina guidata da Enrico La Loggia la relazione del Tesoro sugli impatti del federalismo municipale. Proprio ieri mattina Calderoli aveva spiegato che le prime rilevazioni dimostrerebbero che non ci saranno cali eccessivi di gettito per i Comuni. Ma quel report è dirimente, come ha spiegato il presidente di Legautonomie e sindaco di Pisa Marco Filippeschi, perché «la fretta con la quale il ministro vuole portare a casa l’approvazione del decreto sul federalismo municipale lo sta portando a fare concessioni a destra e a manca in modo spesso improvvisato. Sconcerta infatti che si sia passati da un’ipotesi all’altra senza produrre elementi tecnici e finanziari certi». Del tema si è discusso anche ieri mattina al direttivo dell’Anci. Da un lato c’è la sensazione che la somma tra l’avvio alla compartecipazione all’Irpef, la nuova cedolare secca e le norme inserite da Calderoli per alleggerire sul patto di stabilità siano sufficienti per recuperare tutto il gettito perso con l’abolizione dell’Ici. Dall’altro, però, preoccupa la decisione di dare all’esecutivo la facoltà di aggiornare ogni anno l’aliquota dell’Imu o il rafforzamento dei già esistenti paletti alle addizionali locali.
In questa chiave vanno considerate le pressioni arrivate al presidente Sergio Chiamparino. Il primo cittadino di Torino è da tempo stretto tra i suoi colleghi del centrosinistra (come il sindaco di Livorno, Alessandro Cosimini) che propondeva per la linea dura con il governo e l’ala del centrodestra (come i vicepresidenti Osvaldo Napoli e Attilio Fontana) che invece vuole riconoscere gli sforzi fatti dall’esecutivo. Da qui la mediazione di Chiamparino con le proposte di riportare il testo in commissio-
Dopo l’altolà del Senatùr, Calderoli accetta di mediare sui tempi dell’approvazione
Dall’alto: Roberto Calderoli, Vasco Errani, Giulio Tremonti e Sergio Chiamparino. Nella pagina a fianco, Umberto Bossi
ne unificata il testo (questa respinta) e di ampliare il gettito dei tributi da mantenere nel proprio territorio e di permettere anche gli enti più piccoli di applicare la tassa di soggiorno. «L’Anci», ha spiegato il sindaco di Torino, «non si schiera perchè non ci sono le condizioni politiche per dire di sì o no». Fatto è che «il decreto così com’è non va. Ci sono molte incertezze su numerosi punti». Soprattutto, ha aggiunto, «il testo contiene ancora troppe incertezze sui tempi e sui valori e ciò non consente una piena valutazione degli effetti che le nuove norme potranno provocare sul territorio». Da sottolineare poi «la totale mancanza di una regolamentazione della perequazione, da cui dipende la tenuta dell’assetto complessivo così come definito dalla legge 42. Il fondo di perequazione non si sa come è composto e come funziona».
Sintetizza Guido Castelli, primo cittadino di Ascoli che nell’associazione dei sindaci ha la delega sulla mobilità: «La proposta del governo va nella direzione di maggiore stabilità ai Comuni, ma il percorso va migliorato, alla luce dei due miliardi e mezzo di tagli e di una manovra che brucia ancora». Gli effetti dell’ultima Finanziaria di luglio si notano anche nel complesso rapporto con le Regioni. Ieri il presidente della Conferenza dei governatori, Vasco Errani, ha presentato una serie di emendamenti per vedere applicato l’accordo stretto con l’esecutivo in cambio del via libera al decreto del fisco regionale. In primo luogo sono stati chiesti meccanismi per attivare i finanziamenti promessi al trasporto pubblico locale e per ripristinare il Fondo nazionale per la non autosufficienza. Due partite da 400 milioni l’una. Ma a peggiorare i rapporti tra centro e periferia dello Stato anche la nuova ripartizione del Fondo sanitario nazionale: visto che si regge sul principio dell’anzianità della popolazione, soltanto Lombardia e Veneto si dicono soddisfatte.
VEEMENZA DI ROSY BINDI Nei talk show televisivi emerge Rosaria (detta Rosy) Bindi, passionaria e accanita cattolica di sinistra. È irrefrenabile e vincente nel dibattito e nel battibecco, per foga, veemenza e prevaricazione. Vuole dominare. Si reputa monopolista della verità. Si scalda e diventa paonazza: parla, interrompe, depotenzia e disturba l’esposizione dell’avversario (in modo ripetuto e falloso). È recidiva. Dovrebbe ottemperare meglio alla correttezza.
Franco Padova
L’IMMAGINE
Un calcio ai mali di stagione Un recente studio statunitense dimostra che chi pratica regolarmente attività sportiva dimezza il rischio di contrarre acciacchi di stagione. Non badate, quindi, al freddo e alla pioggia di questi giorni e fate sport I CARABINIERI INDAGANO SU SEGNALAZIONE DI UNA SENSITIVA Non hanno dato esito le ricerche avviate in Friuli, in Carnia, dai carabinieri per ritrovare Yara Gambirasio, la ragazza di Brembate di Sopra (Bergamo) scomparsa da 55 giorni. Una sensitiva - scrivono i giornali locali - aveva detto ai carabinieri che «la tredicenne avrebbe potuto trovarsi lungo un torrente nei pressi dell’abitato di Viaso, nel comune di Socchieve». I controlli sono scattati. I carabinieri hanno cercato l’adolescente, o qualsiasi indizio riconducibile a lei, per due giorni, ma senza risultati. Alle ricerche hanno partecipato anche alcune unità cinofile. «Si è trattato di una segnalazione non completamente circostanziata, ma che ha richiesto in ogni caso un’approfondita verifica», ha detto semplicemente il magistrato che coordina le indagini. Comprendo la disperazione di chi indaga che si attacca a tutto, ma il tutto doverebbe essere, per l’appunto, qualcosa a cui attaccarsi. Mi domando come potranno essere giustificati i soldi spesi per carabinieri e cani che sono stati inviati in Friuli da una sensitiva.
Vincenzo Donvito
INVIDIA DIFFUSA E DISTRUTTIVA La diffusa invidia è tormento, avversione e rancore verso chi emerge, per capacità, successo e fortuna. L’invidia è il piacere di danneggiare e distruggere, senza trarne vantaggio: può concretarsi anche nel vandalismo della guerriglia urbana. Normalmente, l’invidioso non è ladro o truffatore, ma gode delle disgrazie altrui: egli vorrebbe vedere l’altro espropriato, umiliato e spogliato. L’invidia è spesso mascherata da nobili termini, come equità e giustizia sociale. Gradi elevati di progressività tributaria, interposizione pubblica, redistribuzione e assistenzialismo derivano anche dall’invidia, la quale permane pure in una società economicamente livellata. L’invidioso è amareggiato ed evita spesso la competizione e l’emulazione: il suo occhio fa d’ogni mosca un elefante e vede più il male che il bene.
Gianfranco Nìbale
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il paginone
Scritta e prodotta tra l’85 e il ’93 da Bellocchio e Berardinelli, rappresentò un fert a Storia, ormai lo sappiamo, ben difficilmente può dirsi magistra vitae. Però consente almeno qualche paragone, utile a metterci in guardia da ideologie troppo schiacciate sui dettagli più vistosi del presente. Prendiamo ad esempio la letteratura italiana: come è noto non è mai stata troppo forte né nel teatro “scritto”né nella narrazione romanzesca. Non di rado, su questi generi ha anzi coltivato pie illusioni: in alcuni periodi di passaggio tra un’epoca culturale e l’altra, interi battaglioni di sedicenti autori epici o tragici si sono affannati a vergare pagine da cui emana appena un pallido aroma d’Arcadia, e da cui affiorano pochi lacerti lirici ben isolabili dal contesto.
L
Ma nel frattempo, ecco che qualche strano scrittore ibrido, qualche saggista diviso tra l’azione pubblica e la solitaria fecondità dell’otium, imprimeva invece al corso della letteratura una svolta decisiva. Tenendosi alla «verità effettuale della cosa», autori di questo tipo hanno spesso rappresentato il proprio tempo e l’antropologia dei propri connazionali attraverso brevi trattati metafisico-poli-
Definita dagli autori un’«opera a puntate», contiene descrizioni insuperate della società italiana a cavallo tra la Prima e la Seconda Repubblica tici, operette morali, o magari severe indagini etico-storiche travestite da racconto. Davanti a una simile circostanza, già evidenziata dal De Sanctis, vien subito da domandarsi cosa abbia significato per la letteratura italiana il ’900: cioè il secolo che prima ha voluto uccidere i chiari di luna - insieme con l’artigianato artistico - e poi, verso gli anni ’60, ha liquidato il romanzo. Il fatto, però, è che quest’epoca non si può giudicare senza tener conto di una nuova variabile indipendente: ossia la comunicazione di massa. I media (post)moderni uccidono ogni giorno la vecchia e tragica cultura letteraria, per risuscitare ogni giorno le sue icone in forme mitico-farsesche. Forse il romanzo è morto davvero: ma certo siamo sommersi da quel suo surrogato che è la fiction scritta, una pubblicità subliminale “nobilitata”da plot zeppi di strizzate d’occhio all’attualità giornalistica. Quando non sceglie un naturalismo di seconda mano, questo “romanzo” mutante si fonde spesso col reportage. Si tratta quasi sempre di accoppiamenti populistici o
Dio è morto, Marx pu snobistici, che sviliscono l’uno e l’altro genere, e servono a consentire a chi li sfrutta di non dover rispondere né sul piano estetico né su quello documentario. Quanto alla poesia, possiamo ben dire che si trova in uno stato di marginalità anarchica. Nell’Arcadia del Duemila tutti scrivono versi e nessuno li legge. C’è chi diventa una piccola star a causa di eccezionali trascorsi biografici, o soltanto per una longevità inattesa; e c’è anche chi si garantisce un buon nome, almeno nella ristretta cerchia degli addetti ai lavori, per le notevoli doti mondane o per la professione esercitata (leggi: docente universitario). Ma agli altri il destino riserva un’indifferenza che finisce per parificare i buoni ai cattivi, e anzi favorisce spontaneamente un naif di primo grado o un ancor più insidioso “naif erudito”. Ora, la domanda è: tra l’opprimente fiction seriale, l’avvilente compagnia dei poeti kitsch, e lo sparuto gruppo di furbi opinionisti, che posto rimane per gli scrittori ibridi ma sobri, civili ma saturnini, cui si accennava all’inizio? Ma intanto: esistono ancora scrittori che rifiutano sia gli alibi collettivi sia i narcisismi mistificatorî, scrittori che si tengono distanti sia dagli equivoci del mercato sia dalle mitologie minoritarie, che mettono in campo la loro soggettività senza eluderla e tuttavia senza assolutizzarla? La risposta è sì. Esistono, e sono pochi. Si tratta di intellettuali necessariamente “instabili”e “nomadi”, perché costretti a ridefinire quasi a ogni passo il punto di vista da cui osservare la frenesia socio-letteraria che li circonda: stagione dopo stagione, cercano a latitudini sempre diverse luoghi di sosta in cui si possa rimanere provvisoriamente sospesi tra pathos della distanza e intervento pubblico, tra malinconia e rivolta, con un piede dentro e uno fuori dal caos che s’intende analizzare. Non di rado, questi intellettuali si sono addirittura autosabotati, per non subire la pressione dell’odierna entropia culturale: e hanno poi trasferito i germi migliori dei due generi in una forma saggistica ecologicamente limpida, mossa, frammentaria. Questa lunga introduzione serviva a spiegare perché ritengo che tra i maggiori scrittori italiani degli ultimi trent’anni ci siano pochissimi narratori e pochissimi poeti; e perché, anche in mezzo a una tale eletta schiera, mi sembra che quasi nessuno raggiunga il livello di certi saggisti. Un’ottima conferma alla tesi è offerta da un grosso volume uscito qualche mese fa per l’editore Quodlibet. Si tratta della riproduzione fotografica integrale dei dieci numeri di Diario: rivista, o meglio opera a puntate, scritta e prodotta artigianalmente tra l’85 e il ’93 da Piergiorgio Bellocchio e Alfonso Berardi-
Da Quodlibet arriva in libreria la riproduzione fotografica integrale dei dieci numeri della nota rivista di Matteo Marchesini nelli. I due si sono conosciuti nella redazione dei Quaderni piacentini, che il primo ha fondato e diretto per vent’anni. Bellocchio è nato nel ’31, Berardinelli nel ’43: e al di là delle differenze caratteriali, questi dodici anni pesano. Senza mai perdere la sua peculiare lucidità, Bellocchio ha scontato sulla propria pelle le illusioni della Nuova Sinistra; Berardinelli, invece, ne ha solo vissuto di striscio gli ultimi fuochi, spiando i movimenti extraparlamentari con occhi da intruso, e non riuscendo a gridare gli slogan dei cortei nemmeno da ragazzo. D’altra parte, il redattore più giovane appare anche il più equilibrato. È pron-
to a sfuggire alla cristallizzazione dei ruoli, ma anche a ritornare sui suoi passi: e sembra aver trovato una discreta formula omeopatica per dosare le proprie presenze pubbliche.
Nel redattore anziano, invece, si avverte un’amarezza definitiva, unita a un’accidia masochista che è rotta ogni tanto da secchi, tremendi, luminosi epigrammi, o da rare e straordinarie prove critiche degne dei grandi dilettanti settecenteschi. Comunque, terminata a metà anni ’80 l’esperienza dei Quaderni, entrambi gli autori hanno sentito l’urgenza di sostituire quello strumento col-
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tile terreno culturale, satirico e politico in un’epoca di grandi cambiamenti sociali
ure, “Diario” invece... la retorica del progresso, oscillanti tra attitudine satirica e intransigente testimonianza morale, tra volontà polemica e dolente scetticismo: Kierkegaard, Leopardi,Thoreau,Tolstoj, Baudelaire, Weil, Herzen, Orwell, Rabelais. Sulle pagine di Diario, concepite tra Roma, Piacenza e un’osteria bolognese, hanno pubblicato per la prima volta alcuni dei loro saggi migliori, facendo rigorosamente i conti col proprio passato. Così, due decenni dopo la guerriglia intercorsa tra i Quaderni e Pasolini, Bellocchio ha aggiunto all’ormai sterminata bibliografia sul poeta delle Ceneri quello che resta forse il suo ritratto più penetrante ed equo; mentre Berardinelli ha analizzato impietosamente i limiti del plumbeo profetismo che caratterizza l’opera del suo maestro Fortini. Accanto al medaglione fortiniano, il redattore più giovane ha poi allineato una coerente serie di pezzi satirici su altri «stili dell’estremismo»: quelli di Zolla, Calasso,Tronti. Perché se gli avversari di fine anni ’70 erano i maniaci della semiotica (e della polemica resta infatti un’eco sul primo numero di Diario), ora gli idoli dell’Occidente postideologico sono soprattutto gli esteti e i nichilisti a buon mercato (vedi Cioran), gli «uomini superiori» che sorvolano sulle proprie responsabilità concrete per librarsi nell’etere di una presunta aristocrazia del pensiero (Heidegger, Carl Schmitt), o più semplicemente i rappresentanti di una critica “en artiste” sempre più midcult (Citati). In queste pagine, Piergiorgio Bellocchio (a destra), Alfonso Berardinelli (a sinistra), un disegno di Michelangelo Pace (qui sopra) lettivo, ormai ridotto a una falsa avanguardia senza truppe alle spalle, con un esercizio che li ponesse di fronte alla loro inevitabile condizione di “individui soli”. In Diario, infatti, l’eredità del marxismo eretico fortiniano fa attrito con un corrosivo pessimismo illuminista che rifiuta i ricatti della Storia; e i riflessi francofortesi si mescolano al disincantato “senso comune” della migliore tradizione anglosassone. I tempi dominati dalla nuova uniforme middle class esigono una vigilata autarchia: ed ecco allora in sottofondo, a far da contrappunto all’autore di Verifica dei poteri, la lezione ironica di Cases, l’urbana eleganza di Giacomo Debenedetti, e l’esplicita antologizzazione di grandi intellettuali del passato. Di solito, guardacaso, si tratta appunto di saggisti insieme “impegnati” e solitari, interessati al mondo e tuttavia un po’ misantropi, demistificatori e pudicamente refrattari al-
A questa altezza, Bellocchio e Berardinelli combattono “a mani nude”contro gli ormai coincidenti eserciti degli apocalittici e degli integrati. Infatti l’apocalissi va di moda come un Armani, e la piena integrazione nella società dei consumi si trucca con superciliosi snobismi piccolo-borghesi, con una retorica dell’indignazione civile profusa dalle colonne dei nuovi giornali in cui si specchia il ceto medio riflessivo. A questo proposito, si legga nel secondo numero il brano magistrale che Berardinelli dedica alla Repubblica di Scalfari, «club esclusivo, ma di massa» di una sinistra che è orfana del marxismo ma vuole continuare a sentirsi up to date. Subito dopo l’uscita di questa satira, Bellocchio pubblica un saggio in cui fissa una massiccia pietra tombale sopra la figura di Umberto Eco. Malgrado sia poi confluito in un volume einaudiano, questo profilo ha avuto troppi pochi lettori, e l’effetto irreversibile di una tale disgraziata invisibilità risulta oggi sempre più palpabile: un giovane cresciuto negli anni ’90, o peggio negli anni zero - cioè ai tempi in cui l’autore del Nome della rosa
è ormai canonizzato come un santo da calendario - se non avanza oltre le prime pagine penserà subito a una pura “provocazione”. Invece Bellocchio si limita a descrivere Eco così com’è. Cita in abbondanza, e si esibisce in un esilarante tour de force stilistico che è una perfetta sineddoche della prosa di Diario: monta insieme apologhi e aforismi, appunti satirico-biografici e pannelli saggistici, recensioni letterarie e condensatissimi pamphlet. Con questi mezzi mette in ridicolo l’elefantiaca letteratura critica che per misurare Il nome della rosa ricorre a metri spropositati, anzi vertiginosi: ad esempio c’è chi paragona il libro al poema di Dante; e chi sottolinea come, in tempi grami di teologia negativa, Eco si neghi impavidamente il livello anagogico scrivendo una Divina Tragedia. Ma la tragedia per eccellenza del ’900 è il giallo: ecco dunque che il cerchio si chiude. Il romanzo echiano diventa un microcosmo che contiene in nuce il macrocosmo, e che evoca qualunque paragone concepibile da mente umana. Forse è proprio così, conclude perfidamente Bellocchio: ma solo nel senso che «tutto, in Eco è déjà lu». Però la parte migliore della sua requisitoria è quella in cui stigmatizza la bolsa retorica sul coraggio civile che satura gli articoli di Sette anni di desiderio: «ecco la frase: “Nervi saldi, staremo a vedere”(p. 236). Mirabile sintesi del pensiero, dell’atteggiamento morale, insomma dello stile di Eco. Reggetevi forte, ragazzi: si va al cinema. Sincronizziamo i cronometri: la merenda è alle cinque. Il faut être absolument modernes: parlerò alla Festa dell’Unità. Recita le tue ultime preghiere: scacco al re. Ci siamo e ci resteremo - in poltrona. Calma e sangue freddo: cameriere, il conto. Parafrasando un’arguzia cara a Eco, bisogna avere un coraggio da leone e nervi d’acciaio per non scoppiare a ridere di fronte a siffatte manifestazioni di forza d’animo e autocontrollo. Ma il significato vero di questo atteggiamento si nasconde nel suo perfetto rovescio. Su con la vita, arriva la nube radioattiva. Allegri, ragazzi: si va all’inferno». Per i redattori di Diario, modelli negativi come Eco o Asor Rosa, come Citati o i dirigenti ex comunisti, incarnano prima di tutto un rapporto ormai equivoco, bassamente strumentale e dunque insostenibile tra politica e cultura: da una parte il segretario di partito che tenta di rimpiazzare il fascino perduto dell’ideologia ostentando blasonate letture adelphiane o addirittura scrivendo romanzi, dall’altra l’intellettuale che finge di poter trasferire sulla prassi amministrativa i propri schemi teorici, mentre in realtà non può che sfruttarli in maniera soubrettistica. Ma se le cose
stanno così, quale cantuccio rimane al critico per denunciare questo mondo di surrogati, in cui s’incoronano con vecchi titoli nobiliari truci sottoculture di massa? Per chi scrivono questi saggisti se il loro antico pubblico è sparito, e ormai ne hanno davanti uno che non distingue più il cibo fatto in casa da quello precotto? Forse, da “individui soli”, non possono che cercar di raggiungere altri inermi “individui soli”: gettare un esile seme e stare a vedere se il vento lo porterà in plaghe magari lontane ma feconde. In ogni caso, ecco come Berardinelli descrive questa condizione aporetica: «Non solo la Politica, del resto, ma anche la Cultura ci sta intorno come un orizzonte di fatalità. Riuscire a difendersene sarebbe già un risultato sorprendente e raro. (...) Il fenomeno con cui oggi abbiamo a che fare non è più quello descritto dai critici della cultura di venti o cinquanta anni fa. La vecchia Kulturkritik aveva quasi sempre davanti a sé un coacervo di sotto-cultura facilmente identificabile».
«La vera novità che giornali come la Repubblica ci propongono è invece non l’intrattenimento evasivo che inganna le masse, ma l’involuzione e la degradazione della funzione critica, la massificazione e l’usura della cosiddetta “alta cultura”. La ragione per la quale non esiste più da tempo la “critica dell’ideologia”è proprio qui. Oggi, quel tipo di intellettuale che per coscienza politica o per snobismo praticava lo stile culturale definito “critica dell’ideologia”ha socialmente e intellettualmente perduto il suo punto di osservazione dovuto a un distacco, a un’imperfetta o rifiutata integrazione, a un disagio da esclusione o da repulsione. È questo il motivo per cui oggi mancano anche i destinatari di un discorso di Kulturkritik. Come potrebbe il nuovo ceto colto avere voglia di “demi-
Oggi, tra l’opprimente fiction seriale, gli avvilenti poeti kitsch e il gruppo di furbi opinionisti, esiste qualcuno in grado di prendere il testimone? stificare” ciò che esso stesso produce, adora e sogna?». La domanda resta aperta: anche perché non valgono le soluzioni catoniane, non contano le arringhe di divi che si fingono circondati dal deserto perfino quando hanno un potente microfono sulla bocca, o le omelie di frati che più sferzano le folle più provocano mediatiche sindromi di Stoccolma e adorazioni fervidissime. Berardinelli e Bellocchio lo sanno bene: perciò hanno fatto Diario. Ma anche l’esperienza di questa rivista, che contiene descrizioni insuperate della società italiana a cavallo tra la Prima e la Seconda Repubblica, ha dovuto accettare un termine di scadenza piuttosto breve. L’instabilità e l’afasia, per gli intellettuali che vogliono onorare la loro funzione senza diventare mistagoghi, sono sempre dietro l’angolo. Oggi, però, Quodlibet riaffida meritoriamente al vento librario questo raro seme. Speriamo che trovi terreni fertili. Tuttavia, un fatto resta: chi volesse raccogliere il testimone di Diario, troverebbe a disposizione solo cantucci ancora più inospitali.
mondo
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Gli Stati Maggiori dei Paesi Ue sono in allerta. Così come la Nato e l’intelligence. Perché se la situazione precipita bisogna essere pronti
Mediterraneo in fiamme I Paesi del Nordafrica sono i nostri dirimpettai. E se crollano, sono guai di Stranamore a domanda non è se, ma quando il Mediterraneo diventerà un’area di crisi capace di minacciare la sicurezza dell’Europa, cominciando ovviamente dai paesi meridionali più esposti, come Italia, Francia, Spagna. Gli Stati Maggiori, con discrezione, studiano tutte le ipotesi, comprese quelle più catastrofiche, che prevedono conflitti e scontri combattuti quanto sui cieli e sui mari dell’ex Mare Nostrum. E non solo. Però è curioso che nelle migliaia di pagine che i quotidiani e i migliori analisti di politica estera stanno dedicando alla implosione del regime tunisino, ai fermenti stroncati in Algeria, alle difficili prospettive dell’Egitto, della Libia, della Siria, del Marocco, del Libano, ben poche prendano in esame le conseguenze che tutto questo ha è potrà avere per la sicurezza europea. Al massimo si discetta della penetrazione del radicalismo islamico o dei possibili rischi terroristici, ma ci si ferma li. E invece…. La destabilizzazione dei vecchi regimi, delle dittature militari o dinastiche più o meno arcigne con le quali i paesi occidentali e l’Europa sono abituati a trattare (in poche parole «i nostri fi-
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In alto, i reparti speciali italiani durante la parata del 2 Giugno. Scene di saccheggio in Tunisia all’indomani delle proteste. Nella pagina a fianco: un “battaglione” di milizie talebane gli di puttana» rappresenta in prospettiva anche un problema di difesa vera e propria, non solo di sicurezza. E di questo l’intelligence e le istituzioni militari occidentali sono perfettamente consapevoli, da tempo. Vi sembra che esageri? Eh no, per niente. Provate solo a immaginare cosa accadrebbe in Egitto se la successione del “faraone”Mubarak non fosse adeguatamente pilotata o se si arrivasse ad un conflitto interno e
ad una disgregazione dell’attuale apparato di potere.
Per ora Mubarak, a dispetto dell’età e dei malanni, ha una presa formidabile sul paese, ma apparentemente la stessa cosa doveva valere per Ben Alì in Tunisia. Appunto. Con alcune differenze. L’assetto futuro della Tunisia è tutt’altro che certo e lo spettro di una guerra civile non è ancora esorcizzato, ma la Tunisia non desta soverchie
preoccupazioni per quanto riguarda la dimensione militare, né ha un potenziale demografico o risorse naturali tali da suscitare un immediato allarme. Le cose sono completamente diverse per l’Egitto, un paese che ha un apparato militare decisamente consistente e relativamente moderno, aggiornato progressivamente grazie agli aiuti e ai sistemi d’arma forniti dall’occidente, in particolare dagli Usa. Il vecchio strumento
militare basato sulla tecnologia sovietica è stato rimpiazzato un pezzo alla volta da Forze Armate consistenti, decentemente addestrate ed equipaggiate con materiali prevalentemente occidentali e statunitensi, ai quali si aggiungono sistemi cinesi. Le Forze Armate sembrano essere saldamente controllate e fedeli al regime. Già, sembrano. Ma la loro occidentalizzazione è solo parziale, perché il fattore demografico porta pro-
Al Jazeera e internet hanno avuto un ruolo decisivo nella caduta di Ben Ali e continueranno ad averlo. Gli islamici lo sanno
Tre interrogativi e una certezza: la sfida è cominciata improvvisa e pressoché inspiegabile uscita dell’uomo forte della Tunisia, Zine El Abidine Ben Ali, 74anni, dopo 23 anni di potere, potrebbe avere delle implicazioni in Medioriente e per il mondo musulmano. Come ha osservato un giornalista egiziano: «Ogni leader arabo guarda alla Tunisia con paura. Ogni cittadino arabo guarda alla Tunisia con speranza e solidarietà». Io la guardo con questo insieme di sentimenti. Durante la prima fase dell’indipendenza, fino a circa il 1970, i governi dei Paesi di lingua araba venivano di frequente rovesciati quando le truppe sotto il controllo di un colonnello insoddisfatto affluivano nella capitale, occupavano il palazzo presidenziale e le emittenti radiofoniche e poi annunciavano un nuovo regime. Solamente nel 1949, i siriani hanno subito
L’
di Daniel Pipes tre colpi di stato. Col tempo, i regimi hanno imparato a proteggersi grazie ai servizi di intelligence, al fatto di fare affidamento su familiari e membri tribali, sulla repressione e altri meccanismi. Ne sono seguiti quarant’anni di stabilità sclerotica e sterile. Con solo qualche rara eccezione (l’Iraq nel 2003 e Gaza nel 2007) i regimi sono stati scalzati e in casi ancor più rari (il Sudan nel 1985) il dissenso dei civili ha avuto un ruolo significativo.
Poi fa la sua prima apparizione Al-Jazeera, che focalizza un’ampio pubblico arabo su argomenti di sua scelta e quindi è la volta di Internet. Oltre alle informazioni a buon mercato, dettagliate e tempestive, Internet offre altresì segreti
senza precedenti (ad esempio l’ammasso di cablogrammi della diplomazia di WikiLeaks) come pure crea l’occasione per incontrare gente con le stesse idee (attraverso Facebook e Twitter). Lo scorso dicembre queste nuove forze sono confluite in Tunisia provocando un’intifada ed estromettendo rapidamente un radicato tiranno. Se si elogia il rovesciamento di un padrone ottuso, crudele e avido per mano di coloro che sono privati dei diritti civili, si guarderà con trepidazione alle implicazioni islamiste di questo sovvertimento nel prossimo futuro. La prima preoccupazione riguarda la stessa Tunisia. Malgrado tutte le colpe, Ben Ali è stato un nemico acerrimo dell’islamismo combattendo non solo i terroristi,
ma anche (un po’ come nella Turchia degli anni precedenti al 2002) i moderati jihadisti delle aule scolastiche e degli studi televisivi. Ma da ex-ministro degli Interni, Ben Ali ha sottovalutato gli islamisti, vedendoli più come criminali che come ideologi impegnati. Il fatto che egli non abbia permesso lo sviluppo di visioni islamiche alternative potrebbe ora rivelarsi un grosso errore.
Gli islamisti tunisini hanno avuto un ruolo esiguo nella sconfitta di Ben Ali, ma di certo si precipiteranno a sfruttare l’opportunità che si è presentata loro, ossia che il leader storico della principale organizzazione islamista della Tunisia, in esilio dal 1989, ha annunciato il suo ritorno nel Paese. Ma il 77enne presidente ad interim Fouad Mebazaa manterrà la vecchia guardia al potere?
mondo conflitti, uscendone sempre con le ossa rotte… e questo è un bel problema. Che accadrebbe se un Egitto con un potente dispositivo militare, con soldati addestrati e preparati in esercitazioni con i colleghi statunitensi e dei Paesi Nato cambiasse orientamento, abbandonasse la linea politica di Mubarak, allentasse i legami con l’occidente e ricominciasse a guardare male Israele o magari volesse affermarsi nei confronti degli altri paesi vicini?
Se vi vengono i brividi… avete ragione! E se è vero che in mancanza di assistenza, ricambi, manutenzione gli aerei, i carri armati, i mezzi, specie quelli più sofisticati, dopo un po’ smettono di funzionare, è anche vero che ciò avverrebbe gradualmente e nell’arco di tempo, ammettendo che i “fornitori” chiudessero immediatamente i rubinetti. Anche in questo caso l’esperienza iraniana insegna. L’Egitto rappresenta il nodo cruciale. Ma che dire della Siria, che a quanto risulta alla stessa Aiea aveva davvero un programma clandestino nucleare militare con supporto
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salda. Per non parlare della situazione sempre più difficile in Magreb. Quanto al Libano, le cui Forze Armate sono state ricostruite, a basso livello, con aiuti occidentali e statunitensi, la “bomba”del processo Hariri è innescata e le conseguenze di una sua deflagrazione potrebbero essere drammatiche, il che tra l’altro aumenta l’importanza ed i rischi della missione Onu Unifil, nella quale l’Italia è fortemente impegnata. Il quadro generale sulla sponda meridionale del Mediterraneo desta quindi crescenti preoccupazioni che dovrebbero portare ad iniziative ad ampio spettro, compresa la dimensione della sicurezza e della difesa. Non che i paesi Europei o l’Italia non si stiano muovendo con una serie di progetti volti al dialogo, all’engagement a livello politico e anche militare con i Paesi mediterranei africani (con una cospicua attività rivolta alla collaborazione anti-terrorismo, che vede in prima linea Francia e Stati Uniti, questi ultimi attraverso il comando Africom), ma tutto questo ovviamente riguarda gli attuali regimi e governi. Quelli che ne prenderanno il
Che accadrebbe se l’Egitto, con un potente dispositivo militare e con soldati addestrati dai Paesi Nato, abbandonasse la linea politica di Mubarak e ricominciasse a guardare male Israele? gressivamente nei ranghi giovani più o meno islamicamente ideologizzati. A questo si aggiunga la “bomba” demografica, che da all’Egitto un potenziale umano senza equivalenti nella regione. Pur non possedendo una industria aerospaziale e della difesa indipendente, l’Egitto ha ottenuto un certo grado di autonomia e almeno la capacità di produrre su licenza una parte degli armamenti, anche sofisticati, di cui ha biso-
gno. Non solo, anche se ha ridotto le ambizioni di un tempo, non ha rinunciato a studiare missili balistici, armi chimiche e a fare più di qualche pensiero sul nucleare. Se tutto questo vi ricorda l’Iran pre-Khomeini, avete ragione, anche se l’Egitto ha per fortuna una politica estera più moderata e ben poche velleità di assurgere al ruolo di potenza regionale. Di contro, l’Egitto confina con Israele, con il quale ha combattuto più
Le forze moderate avranno la coesione e la sagacia per scoraggiare l’impennata islamista? La seconda preoccupazione riguarda la vicina Europa, già estremamente incompetente nell’affrontare la sfida islamista. Se Ennahda assumerà il potere per poi espandere le sue reti, fornire mezzi finanziari e forse mandare clandestinamente armi agli alleati nella vicina Europa, questo potrebbe esacerbare i problemi esistenti. La terza preoccupazione, che è quella maggiore, riguarda il possibile effetto domino sugli altri Paesi di lingua araba. Questo rapido, apparentemente semplice e relativamente incruento colpo di stato potrebbe incoraggiare globalmente gli islamisti a eliminare i loro stessi tiranni. È il caso di tutti e quattro i paesi litoranei del Nord Africa - il Marocco, l’Algeria, la Libia e l’Egitto - come pure della Siria, della Giordania e dello Yemen a est. Il fatto che Ben Ali si sia rifugiato in Arabia Saudita implica che anche questo Paese potrebbe essere sulla lista e perfino il Pakistan non è esente. In antitesi con la rivoluzione iraniana del
iraniano e nord coreano? E meno male che Israele ha colpito prima che fosse troppo tardi, come fece a suo tempo in Iraq. Né c’è da stare molto più allegri guardando alle vicende interne in Libia. Solo apparentemente i generali algerini sembrano in grado di tenere sotto controllo il paese, però al contempo tornano a rivaleggiare, anche militarmente, con il tradizionale avversario, il Marocco moderato e la cui monarchia e tutt’altro che
posto potranno avere agende e obiettivi profondamente diversi. Ovviamente la prima risposta alla crisi di stabilità consiste nell’aumentare gli strumenti di monitoraggio e analisi: intelligence, elettronica (satelliti, aerei con e senza pilota da spionaggio, unità navali etc.) ed umana, per conoscere meglio realtà complesse, i futuri possibili protagonisti e i loro obiettivi. Poi intensificare i contatti, gli scambi, la collaborazione con
l’apparato di sicurezza interna, sempre più cruciale per governi traballanti (e infatti molti paesi della regione fanno shopping per aumentare la sorveglianza dei confini e delle aree costiere e per rendere più moderno e capace il sistema di sicurezza, compresi i “pretoriani”) così come quella con le Forze Armate. Poi occorre prestare attenzione a cosa si vende a questi paesi, tenendo d’occhio tutti i programmi di procurement e gli sviluppi tecnologici autarchici. Infine, sarà bene cominciare a prepararsi alle eventualità più negative. Quella più immediata e banale potrebbe essere un conflitto che coinvolga Israele con uno o più dei suoi vicini. Si può pensare al Libano, ma in prospettiva anche alla Siria e financo all’Egitto.
Una prospettiva drammatica, ma che non va trascurata. E si guarda realisticamente al futuro a medio e lungo termine, non si possono escludere rischi diretti, in termini ad esempio di sicurezza degli approvvigionamenti energetici, dei traffici marittimi, delle zone economiche esclusive in mare, ma anche di difesa aerea e antimissile. Per non parlare del contrasto della proliferazione di armi per la distruzione di massa. La Nato e gli Usa si agitano tanto (e giustamente) per ciò che potrebbe arrivare sulle nostre teste dalla Corea del Nord o dall’Iran, ma sarà bene considerare anche minacce a noi molto più vicine. E considerando che i tempi ed i costi necessari per creare o potenziare le capacità militari sono estremamente lunghi (mentre si fa molto in fretta a disarmare o a rinunciare a capacità esistenti) è davvero il caso di cominciare a muoversi ora. Cogliendo l’essenza di quel che sta avvenendo dopo anni di incubazione.
do») si applica a Ben Ali e a molti altri uomini forti arabi, gettando la politica governativa degli Usa in un’apparente confusione. L’ambigua dichiarazione a caldo rilasciata da Barack Obama che plaude «al coraggio e alla dignità del popolo tunisino» può opportunamente essere interpretata sia come un monito per diversi altri bastardi che come un apprezzamento del tipo “meglio tardi che mai” di fatti delicati in loco.
Se si elogia il rovesciamento di un padrone crudele e avido per mano di coloro che sono privati dei diritti civili, si guarderà con ansia alle implicazioni islamiste che comporta 1978-79, che ha richiesto un leader carismatico, milioni di persone in strada e un intero anno di sforzi, quanto è accaduto in Tunisia si è svolto rapidamente
e in modo più comune e riproducibile. Ciò che Roosvelt ha presumibilmente detto di un dittatore latino-americano («È un bastardo, ma è il nostro bastar-
Mentre Washington vaglia le opzioni, io esorto l’Amministrazione ad adottare due linee politiche. Innanzitutto, rinnovare l’impegno a favore del processo di democratizzazione avviato da George W. Bush nel 2003, ma stavolta con cautela, intelligenza e modestia, riconoscendo che la sua difettosa attuazione ha inavvertitamente agevolato gli islamisti ad acquisire più potere. In secondo luogo, occorrerà focalizzare l’attenzione sull’islamismo, considerandolo come il maggiore nemico del mondo civilizzato, nonché stare dalla parte dei nostri alleati, inclusi quelli in Tunisia, per combattere questo flagello.
quadrante
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Rischio genocidio in Costa d’Avorio
Mosca salva Lukashenko
Nucleare: al via il vertice dei 5+1
NEW YORK. L’Onu ha potenzia-
MINSK. La Russia risparmia al-
ISTANBUL. Comincia oggi sul
to la propria missione di pace in Costa d’Avorio: in una risoluzione adottata all’unanimità il Consiglio di Sicurezza ha autorizzato l’immediato invio di altri duemila soldati e tre elicotteri armati nel paese dell’Africa occidentale, dove l’ex presidente Laurent Gbagbo si rifiuta di dimettersi nonostante la vittoria del leader dell’opposizione Alassane Ouattara sia stata riconosciuta a livello internazionale. Nel dibattito al Consiglio di Sicurezza, Y. J. Choi, Rappresentante speciale del segretario generale e capo dell’operazione in Costa d’Avorio (Unoci), ha dichiarato che i rinforzi saranno essenziali per evitare l’esplosione di un genocidio.
la Bielorussia l’isolamento internazionale. Mentre la Ue discute la possibilità di riattivare le sanzioni nei confronti dell’uomo forte di Minsk, il presidente Alexander Lukashenko, a Mosca il premier Vladimir Putin annuncia che concederà ai “cugini”bielorussi sussidi per il settore petrolifero per 4,124 miliardi di dollari. Lukashenko, un leader autoritario al potere ininterrottamente dall’indipendenza bielorussa soprannominato dall’ex presidente Usa George W. Bush «l’ultimo dittatore d’Europa», sarà oggi il protagonista di una nuova cerimonia d’insediamento alla quale non saranno presenti né rappresentanti dell’Unione europea, né degli Usa. Ci sarà, invece la Russia.
Bosforo il vertice con i Paesi dei 5+1 con l’Iran, che cerca di mostrare fermezza, escludendo qualsiasi negoziato sui controversi programmi nucleari di Teheran. «noi accogliamo la via della cooperazione ma occorre sapere che la nazione iraniana non cederà di una virgola sul nucleare», ha avvertito il presidente Mahmoud Ahmedinejad. Dall’altra parte, i sei Paesi coinvolti nei negoziati (i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza e la Germania) sono invece decisi a far sì che all’ordine del giorno vi siano anche i programmi atomici. Secondo l’Aiea, l’Iran avrebbe prodotto 3.200 chili di uranio arricchito al 5% e una 40ina di Kg al 20%, destinati al reattore di Teheran.
«Troppi migranti». Atene costruisce una barriera al confine con la Turchia lunga 13 chilometri e alta 5 metri. E l’Europa tentenna
Un altro Muro in Europa?
Dalla Grecia è record di ingressi clandestini nella Ue: 31mila in 8 mesi di Gilda Lyghounis
Il progetto è già avviato: più che un muro di cemento, sarà una barriera di filo spinato sostenuta da una base fissa e da colonne in calcestruzzo. Atene ha escluso che il fil di ferro sarà attraversato da corrente elettrica, ma ci saranno sensori per segnalare tentativi di passaggio
ATENE. Sarà lungo 12 chilometri e mezzo e alto cinque metri il muro anti-immigrati che la Grecia si appresta a costruire ai confini con la Turchia, nella regione del fiume Evros vicino alla cittadina di Orestiada. «Il governo ha il dovere di difendere i diritti dei cittadini ellenici e di coloro che vivono a norma di legge nel nostro Paese», ha dichiarato la settimana scorsa il ministro della Difesa del cittadino (equivalente al nostro ministero degli Interni) Kostas Papoutsis. «Arginare il flusso degli immigrati che dall’Anatolia si riversano nell’Unione europea attraverso la Grecia è anche una prova del nostro senso di responsabilità verso Bruxelles». Il progetto è già avviato: più che un muro di cemento, sarà una barriera di filo spinato sostenuta da una base fissa e da colonne in calcestruzzo. Il ministro ha escluso che il fil di ferro sarà attraversato da corrente elettrica, anche se ci saranno sensori in grado di segnalare tentativi di passaggio. Bruxelles ha però subito espresso diffidenza e riserve riguardo alla decisione greca. «I muri o i reticolati sono misure di breve periodo che non permettono di affrontare in maniera strutturale la questione dell’immigrazione clandestina», ha affermato il portavoce della commissaria Ue alla Sicurezza, Cecilia Malmstrom, spiegando come «la gestione delle frontiere è una questione tra Stati», ma sottolineando come «in certi casi le frontiere nazionali sono allo stesso tempo frontiere dell’Unione europea». E una buona gestione delle frontiere e dei flussi migratori, ha aggiunto il portavoce, «passa per il dialogo con i Paesi di provenienza e i Paesi di transito degli immigrati».
Forti polemiche anche in Grecia. «Sarà un muro della vergogna», ha protestato il Kke, il partito comunista greco che con l’11% dei voti alle ultime elezioni amministrative di novembre si è confermato la terza forza politica del Paese, dopo i socialisti al governo (che hanno il 34,6% dei consensi) e il centro destra di
Nuova democrazia (33%). Lo sdegno è comune anche alla sinistra riformista del Syriza e ai Verdi: «È un’iniziativa ipocrita e disumana. La costruzione del muro non solo non bloccherà chi cerca salvezza nel Vecchio Continente, ma sarà il simbolo della trasformazione dell’Europa dei diritti umani nell’Europa dei ricchi». «Speriamo - ha messo in guardia Eleanna Ioannidou, portavoce dei Verdi - che le nostre condizioni di crisi economica non arrivino mai al punto di spingere gli stessi greci a cercare una fuga all’estero e incontrare, a loro volta, simili barriere dell’orrore». Da parte sua il governo snocciola le cifre contenute nell’ultimo rapporto Frontex (l’Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle fron-
tiere esterne degli Stati membri dell’Unione europea, istituita nel 2004 e presente in Grecia dal novembre 2010 con 200 guardie che collaborano con le autorità locali nella zona dell’Evros).
Secondo questo rapporto, diramato il 10 gennaio scorso, la Turchia continua ad essere il maggiore Paese di transito verso l’Europa di un ingente flusso di migranti e di persone richiedenti asilo politico. Un flusso che vede in prima linea gli esuli afgani, ma ultimamente anche un inedito picco di arrivi algerini. Lungo le rive del fiume Evros, che segna per 206 chilometri il confine fra Grecia e Turchia, solo nel periodo che va da gennaio a settembre 2010 è passato il numero record registrato negli ultimi
anni in tutta l’Ue di 31mila migranti. Il rapporto Frontex fa anche riferimento al tratto lungo 12,5 chilometri in cui sorgerà il muro: ogni giorno, da questo punto, l’unico non segnato dall’Evros, entrano in Grecia 350 persone. La polizia greca precisa che più della metà dei 47mila migranti entrati nel Paese l’anno scorso l’ha fatto attraverso questi pochi chilometri, tutti via terra e quindi facili da attraversare. Mentre solo dall’inizio del 2011 sono già tre i cadaveri di aspiranti immigrati restituiti dalle acque del fiume. Sempre Frontex sottolinea la mancanza di una vigilanza notturna nella regione. Anche di qui la decisione del governo ellenico di costruire una barriera simile a quella già eretta dalla Spagna intorno alla cittadina di Ceuta,
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e di cronach
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
Maxi retata antimafia a New York. Arrestati oltre 100 boss
Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri
NEW YORK. Più di cento arresti, sei famiglie mafiose coinvolte, per la più grande retata criminale mai effettuata a New York, secondo l’Fbi. A finire nella rete degli investigatori, leader importanti dei clan italiani a Manhattan: membri delle famiglie Gambino, Lucchese, Genovese, Bonanno e Colombo, e anche i De Cavalcante, questi ultimi basati nel New Jersey. Tra le accuse associazione mafiosa, omicidio, traffico di droga, gioco d’azzardo e estorsione. Alcune accuse risalgono a diverso tempo fa, tra omicidi commessi negli anni ’80 e ’90. L’operazione è iniziata prima dell’alba ed ha colpito sia papaveri importanti delle principali famiglie mafiose che piccoli bookmaker, ed alcuni esponenti corrotti dei sindacati. La zona degli arresti si estende dalla città di New York, passando per Rhode Island, il New Jersey fino al New England. La retata arriva in un momento storico in cui, secondo le autorità federali e di polizia, si as-
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)
siste in una forte ripresa delle attività criminali nelle zone interessate, dopo vent’anni di declino. Le famiglie mafiose sono state fortemente indebolite dall’attività investigativa basata sulla deposizione dei pentiti. Proprio l’indebolimento dell’attività criminale insieme alla ricalibrazione delle forze investigative dopo gli attentati dell’11 settembre, avrebbero contribuito ad allentare la presa sull’attività mafiosa, che però negli ultimi tempi si andava ricostituendo.
Da sinistra: Ilkka Laitinen, direttore di Frontex; un soldato greco; Erdogan. Nella pagina a fianco, immigrati
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato
enclave ispanica in Marocco. O al muro che divide gli Stati Uniti dal Messico. Ma proprio la soluzione “filo spinato”ricorda tristemente ai greci un altro muro contro la cui esistenza si scagliano da decenni: quello che divide la Repubblica di Cipro, a maggioranza greco-cipriota, dalla zona dell’isola occupata dall’esercito turco dopo l’invasione del 1974, autonominatasi Cipro nord.
Il dibattito sul muro-anti immigrati è accesissimo ad Atene. Proprio ieri, dopo settimane di polemiche, il Parlamento ha approvato la nuova legge sul diritto d’asilo che, fra le altre cose, ha istituito un’Agenzia centrale a cui faranno riferimento gli uffici periferici che raccoglieranno le domande di asilo politico, secondo le norme stabilite da Bruxelles. «Il dato positivo di questa legge è che nella nuova Agenzia e negli uffici decentrati lavorerà solo personale civile e non appartenente alla polizia», commenta Amnesty International, che da anni si batte per un’accoglienza dignitosa ai migranti in suolo ellenico. Basti pensare che finora Atene ha concesso il diritto d’asilo solo in casi rarissimi: è stato accordato solo a 8 persone su 25mila che ne avevano fatto richiesta nel 2007. «Tuttavia sollecitiamo il governo greco ad assicurare all’Agenzia risorse adeguate», continua l’ufficio ateniese di Amnesty, «inclusi personale qualificato e adeguati servizi di inter-
Il governo invoca un precedente “democratico”: la cinta che separa gli Usa dal Messico. Erdogan (per ora) resta in silenzio pretariato per le persone che si rivolgono a questa nuova autorità». Vedremo se potranno essere beneficati dalla nuova legge i 161 disperati - 90 afgani, 30 palestinesi e 41 iraniani, che si sono rifugiati da pochi giorni nel Politecnico di Atene, luogo simbolo del diritto d’asilo, perché dalla fine della dittatura dei colonnelli nel 1974 garantisce per legge protezione agli studenti che vi si rifugiano nei giorni di cortei e scontri di piazza con la polizia. Secondo un reportage del quotidiano Eleftherotypia del 14 gennaio, il presidente della comunità afgana di Atene, Yunus Mohamed, ha lanciato un Sos: «Fra i 90 miei compatrioti che stanno conducendo uno sciopero della fame per avere l’asilo politico, ci cono famiglie con bambini piccoli. Vivono in Grecia da 24 anni». In
un’aula accanto, ci sono donne palestinesi con i loro bambini: «Secondo la legge europea le domande di asilo dovrebbero essere esaminate nel giro di tre mesi, con un limite massimo di due anni. Ma nessuno ci ha ancora risposto!». Altra aula, altra etnia: gli iraniani in fuga dal regime degli ayatollah. Fra i 41, ci sono 7 donne e 4 bimbi: «È venuto qualcuno dal rettorato per dirci di andarcene», dice uno di loro, Emir Reza. «Non ci pensiamo neanche».
La maggior parte sono laureati, ma la strada per ottenere il diritto d’asilo con la nuova legge è quasi impossibile: in teoria, la loro domanda è già scaduta. «Eppure la parola “asilo politico” è una parola greca», tuona dalle colonne del quotidiano conservatore Kathimerini l’editorialista Petros Papacostantinou, ripreso dal britannico Guardian. «Proprio il governo socialista che ha ceduto a ogni richiesta dell’Ue e del Fondo monetario internazionale, riducendo i greci alla povertà, ora si comporta in modo disumano verso gli immigrati. Che vanno benissimo a tutti quando raccolgono fragole, pagati in nero, nei campi, o quando sono morti per costruire il villaggio olimpico nel 2004. Ma ora il governo ha bisogno di distogliere i cittadini dagli esplosivi problemi sociali. Quale capro espiatorio migliore dei migranti clandestini?», conclude Papacostantinou. © Osservatorio Balcani e Caucaso
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cultura
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Tra gli scaffali. Dal “Decameron illustrato” alle “Icone arabe”, passando per gli “Spiriti” e i “Gioielli del Novecento”
L’arte, minuto per minuto Pittura, architettura, ceramiche e fotografia: “viaggio estetico” nelle nuove pubblicazioni di Marco Vallora arà un pretesto, il rito delle proposte-strenne. Ma è anche un ottimo riepilogo sulla produzione dell’editoria dell’arte. Uno spettacolo, finalmente in edizione più economica (Le Lettere, euro 68, ma per ben 707 pagine iper-miniate) il Decameron illustrato, che Vittore Branca curò nel ’99 per l’editore Diane de Selliers. Non c’è nulla di più godibile di poter seguire le avventure di Nastagio degli Onesti, di Ghino di Tacco, di Gerbino o di Ellisabetta col suo basillico, accompagnati dalla “voce” dipinta di sublimi artisti, pressoché coevi: Beato Angelico, Botticelli, Cossa, Crivelli, Fouquet, Gentile da Fabriano e via, senza contare gli elegantissimi miniaturisti di quella nostrana e vitalissima “chanson de geste”amorosa ch’è la schidionata radunata da Boccaccio.
S
Una gioia senza eguali, da perderci gli occhi. Non troppo lontano da Boccaccio, soprattutto dalla sua “Fiammetta”, ma con debita distanza, si collocano gli Asolani del Cardinal Pietro Bembo, prima opera in volgare sui “ragionamenti d’amore” e testo-chiave per la cultura umanistica. Che fa entrare in scena la filosofia neoplatonica di Marsilio Ficino, in ambito mediceo-fiorentino e bibbia dell’erotica speculativa, cui Lina Bolzoni dedica un magnifico studio sinfonico (eppure leggero e cristallino come un ottetto mendelssohniano): Il cuore di cristallo, Einaudi, pp. 364, euro 34. Densissimo, coltissimo, stratificato, ma anche diramato con grazia romanzesca (“punto di partenza per una serie di percorsi, forse avventurosi”) il saggio s’imbarca tra gli Asolani, alla corte della Regina di Cipro, Caterina Cornaro (esiliata ad Asolo) per analizzare il rapporto tra immagine e testo, inseguendo lo spettro del ritratto doppio, caro a Piero della Francesca, a Lotto e Tiziano, e studiare l’illuminante metafora del cuore di cristallo: “antico sogno di trasparenza”. Per catturare in
trappola l’anima silente. Un salto di secolo. Da Adelphi (pp. 1385+905, euro 150) torna, ma in una nuova versione ampliata, il capolavoro del nostro gongoriano Giovan Battista Marino (posto che non lo si voglia soltanto considerare, alla Croce, il responsabile d’un imperdonabile marinismo enigmistico. Che oggi comunque tornerebbe assai di moda). Questa elegante edizione de L’Adone, non ha soltanto il pregio d’adornarsi d’una millimetrica e avvincente “guida alla lettura” del compianto Padre Giovanni Pozzi, squisito filologo-creativo d’una sorta di iper-poema ben temperato degli affetti, nota dopo nota. Ma soprattutto d’esser vivificato dalle splendide “vignette”a grisaglia del romanizzato Poussin: corollario classicista di questa «macchina demente, coacervo di versi sonori e molto spesso anche ambigui o sordidi o vilmente corruttivi», che Manganelli ebbe la ventura di leggere diciassettenne e che ha nutrito comunque generazioni di artisti e soprattutto di compositori di musiche barocche. Sì, non è uno sproposito religioso: esistono le Icone arabe (Jaca Book, pp. 220, euro 75) che ovviamente non hanno alcun rapporto con il mondo islamico, iconoclasta, ma sono parte di quell’universo arabo-cristiano, o melchita, che trova origine comune in quella figura simbolica, acheropita (cioè non dipinta da mano umana) che è il Mandylion del volto di Cristo, in ambito siro-mesopotamico.
A Edessa, il re Abgar chiede al Messia, così racconta san Giovanni Damasceno, di guarirlo dalla lebbra. Cristo, non potendo lasciare la Terra Santa, prese un panno e, con funzione taumaturgica, vi impresse la propria orma (assai simile ai ritratti frontali dei re Sassanidi. Mentre egizi e assiro-babilonesi
ricorrevano al profilo). Icone e potere di Bissera V. Pentcheva (sempre Jaca Book, pp. 319, euro 46) studia una problematica interessante: la posizione della Vergine,“Madre di Dio a Bisanzio”, che incarna non tanto la figura cristiano-rinascimentale della tenerezza materna, ma del potere regale: fusione di culto mariano e di ordinamento imperiale. Si sa che nelle icone bizantine spesso i monti sono rupi inaccessibili, dimora del diavolo, rocce, dove nemmeno la tenacia dell’eremita sa avventurarsi. Ma in quella tradizione, spesso la Vergine è considerata pure “Montagna di Dio”. E non è certo una sorpresa, che la religione sia legata al simbolismo della montagna sacra: ma questo bellissimo volume su La Montagna Sacra (pp. 250, euro
sere un ben illustrato regesto di alcune collezioni italiane di quella non-arte, un tempo definita tribale, vanta alcuni testi importanti: di Marc Augé, JeanPaul Colleyn, Giovanna Parodi da Passano e Ivan Bargna (curatori della mostra genovese)
Da Adelphi torna, ma in una nuova versione ampliata, il capolavoro del nostro gongoriano Giovan Battista Marino, “L’Adone”, vivificato dalle splendide “vignette” a grisaglia di Poussin 80, Jaca Book) curato da Julien Ries, con vari contributi e moltissime illustrazioni, dimostra come si esplichi questo senso dell’architettura ascensionale, nelle varie culture.
Dalle prime pietre camuni e precolombiane, sino agli ziggurat mesoamericani, dalle piramidi e dagl’obelischi egiziani ai Sacri Monti cristiani, senza dimenticare il Monte Athos, la Sacra di San Michele, l’Iran e il Monte Ararat. Su questa linea, ricco di magnifiche fotografie di diversi interpreti ed un saggio armatissino di Lionello Puppi (contro la “colonizzazione della storia” e le troppe mostre mal impostate, che popolarizzano confusamente questa tematica) Ande precolombiane, Forme e storia degli spazi, Jaca Book (pp. 325, euro 92) a cura di Adine Gavazzi, focalizza in modo capillare questo tema dello spazio sacro. Più che un catalogo, L’Africa delle Meraviglie (Silvana, pp.203, eu ) oltre a es-
specchio di un transito dalla vecchia antropologia al nuovo studio “estetico”, di questi feticci, difficili da inquadrare. Lo stesso Bargna, in qualità di docente milanese di questa nuova materia, “etno-estetica”, propone per Jaca Book un interessante volume (pp. 163, euro 22) sull’Arte Africana, che ci aiuta a inquadrare quel mondo, non solo arcaico, ma che giunge sino ai contemporanei: dal pittore Samba, allo scultore in cemento Akpan, ai manufatti kitsch nativi, quali i feretri, in forma di Mercedes Benz o di telefono. A 15 anni già scriveva sulle riviste specializzate di egittologia, presto amico di Kérenyi (con cui entra poi in conflitto, per motivi politici) e di Boris De Rachewiltz, genero di Pound. Studioso di Dumezil, Pascal e Rousseau, e traduttore di Ca-
netti, più noto come germanista e studioso di mitologie (e della destra italiana, con demonizzazioni equivoche da parte della sinistra) morto giovanissimo, Furio Jesi, pressoché ragazzo, aveva curato per la Saie un volume didattico, con pubblicazione di alcuni pezzi inediti, dedicato alla Ceramica egizia. Con questo titolo, il sempre provvidenziale editore Aragno ristampa il volumetto, ormai introvabile, e lo corrobora con alcuni saggi connessi, tra il ’56’73, per esempio su Rilke e l’Egitto, il monumentale impegno manniano di “Giuseppe e i suoi fratelli” e note sul pessimismo egizio, sul museo torinese o il mistero delle piramidi.
Per l’architettura, soprattutto romana, fondamentale (nonostante sia datato al 1888) lo smilzo, profondo, discusso saggio di Heinrich Woelflin su Rinascimento e Barocco (Abscondita, pp.172, euro 21). Umile e protervo nelle sue convinzioni, allievo del “cicerone” Burckhardt, forgiatore della categoria Rinascimento e fresco del suo “grand tour” a Roma, Woelflin, che non ama “studiare i maestri”(anche se fa cominciare tutto dal 1630, burckhardtiano, di Bernini) preferisce analizzare la “vita intima dell’arte” e i mutamenti progressivi degli stili. Avverso a Croce, polemico con
cultura
21 gennaio 2011 • pagina 15
i maggiori studiosi, da Dorfles a Eco, da Lea Vergine a Bellasi a Castagnoli, ed altri scomparsi, come Anceschi, Argan, Fossati, Luzi, Menna: l’enigma-arte. Per sapere come si confeziona una mostra oggi: Federica Pirani, Che cos’è una mostra d’arte, dal curatore sino all’elettricista, utile manuale pratico-didattico (sempre Carocci, pp. 111, euro 10). Vedere ad alta voce (Postmedia, pp. 191, euro 19) è il racconto, disinibito e libero d’un saggista emblematico del milieu artistiamericano, co Jerry Saltz, che dalle pagine anticonformiste del Village Voice ci fa ripercorre le tappe di alcuni artisti baciati dal mercato e di altri eventi, decisivi del mondo mediatizzato d’un’arte assai compromessa, che pare avviata al tramonto o ad un benefico crollo di borsa.
la deriva barocca, studia “con indulgente critica”e“spiegandolo psicologicamente” questo passaggio tra Rinascimento e Barocco, compresa la forbice che passa tra evoluzione e decadenza, quanto un tempo veniva definito come “inselvatichito e arbitrario”.
Scenografo, dopo esser stato capitano di marina, e si avverte, Ezio Frigerio, con la complicità ospitale di Franca Squarciapino, apre le Case di Frigerio: quella Soane di Milano, quella esoticaturca, alla Pierre Loti, di Dikili, quella Grand Siècle di Parigi o quella “napoleonica”di Fregene (Allemandi, pp. 76, euro 35, acconci fotografi come Massimo Listri e Roberto Schezen, ed i biglietti grati degli amici-ospiti). Che cosa succede al celebre teatro milanese del Piermarini, quando Napoleone, nel 1796, entra vincitore a Milano (che ha designato quale capitale della Repubblica Cisalpina) mentre gli Austriaci stanno ritirandosi dal Castello Sforzesco e dalla villa di Monza, e il “pubblico” dei citoyens, che stendhalianamente si “sta annoiando da cent’anni”, entra in fibrillazione ed “ebbrezza”, facendo risuonare la Marsigliese in teatro? Lo racconta il volume vivacemente illustrato di Vittoria Crespi Morbio, La Scala di Napoleone (Allemandi, pp. 150, euro 35) ove la Marcolini, Ros-
sini e Foscolo s’avvicendano a David e Ingres,Viganò propone le sue danze beethoveniane, i Galliari e i Sanquirico schizzano scenografici mondi immaginari ed il testimone Appiani disegna Fasti e petrarcheschi “Trionfi” neoclassici, che Napoleone vinto non riuscirà mai a gustare. Per capirne di più, di libertà e dittatura (del gusto) 1789. I sogni e gli incubi della ragione di Starobinski Jean (Abscondita, pp. 188, euro 22). Il rapporto tra rivoluzione e neoclassicismo e l’arrivo di Goya, per fortuna. Preziosissime collane, quelle delle Carte d’artisti o delle Miniature, proposte sempre dall’Abscondita di Milano, che promette puntuali delle sorprese.
Come questo epocale epistolario ex vallecchiano tra due toscanacci, quali Rosai e Soffici, che ha quasi il doppio degli anni del teppista di via di San Leonardo. Carteggio 1914-1951 (a
cura di Elena Pontiggia, pp. 107, euro 13) che attraversa il periodo delle cocenti avanguardie, della Voce Leonardo Lacerba, del Richiamo all’ordine e dell’in fondo condiviso fascismo (i “mobilini da portare al Duce”). Organizzazione della cultura,
E si capisce anche che cattivo maestro Saltz può esser stato per una critica nostrana, certo più dilettantesca e disarmata. Due modi di raccontare la propria visione estetica. In Autroritratto a stampa (Fausto Lupetti, pp. 402, euro 20) Renato Barilli, ripudia l’eventualità d’un Festschrift di allievi ed estimatori, per il suo pensionamento ed imbandisce una performance di séàzo picaresco dentro la miseria di giornali, musei, gruppi ’63 ed organigrammi di partito. In modo algido e aristocratico, si “rilegge”invece, con un interessante auto-prefazione, il
“L’Africa delle Meraviglie”, oltre a essere un ben illustrato regesto di alcune collezioni italiane di quella non-arte tribale, vanta testi importanti di Augé, Colleyn, Parodi da Passano e Ivan Bargna affari & teoria, il mito di “Cezzanne (sic)”, il bisogno, di fama e soldi: «Alla fine la verità dei valori si farà strada». Tra animosità, infelicità ed incomprensioni. Nietzsche: «Nell’amico rispetta il nemico». Sempre più in rovina, l’arte contemporanea ha bisogno di interpreti. Senza prender posizione, ma talvolta necessiterebbe, Pier Paolo Pancotto propone un rapido e sintetico résumé dell’Arte Contemporanea, dal Minimalismo alle ultime tendenze, (Carocci, pp. 160, euro 18). Claudio Cerritelli, in Critica in dialogo (Mazzotta, pp. 222, euro 28) ne discute con
Gillo Dorfles di Dal significato alle scelte, curato da Massimo Carboni per Castelvecchi (pp. 182, euro 22). Olimpico, dandisticamente distaccato, ma impegnatissimo nel capire la nostra esigenza dà, che non ha più valori ne criteri assicurati di giudizio. Attualissimo ancora oggi. Non è per fortuna “la sceneggiatura di un reality show” redento l’ultima virtuosa fatica di Vittorio Sgarbi: Viaggio sentimentale nell’Italia dei desideri (Bompiani, pp. 310, euro 20). Scegliendo un titolo alla Sterne e dei maestri ingombranti e propizii, come Stendhal, Brandi e Piovene, spegnendo l’interruttore degli eccessi tv e sposando la“bella pagina”ficcante di Longhi ed Arcangeli, Sgarbi compie un prezioso periplo nell’Italia minore, in «quel paese che uno vorrebbe sperare che esi-
sta». E che queste pagine restituiscono. Curiosamente escono due libri abbastanza simili nella sostanza. Fotografare gli spiriti di John Harvey (Bollati Boringhieri, pp. 194, euro 34) indaga lo strano mondo, tra positivismo e decadenza, del «paranormale, nell’epoca della sua riproducibilità tecnica». Ove la fotografia collabora a moltiplicare le presenze, anche truffaldine, di spiriti, poltergeist, ectoplasmi, riscattandosi poi negli esperimenti d’avanguardia, di Hannah Hoch o di Webster. Ma dove è finita la nostra finta-medium Eusapia PaladiClément no? Chéroux, invece, già noto per un’originale analisi di Cartier-Bresson ed un volume Einaudi sul rapporto Torri Gemelle-fotografia, s’interessa ad un tema insolito però illuminante, quale L’errore in fotografia (Einaudi pp. 160, euro 22) stimolante trattato di “erratologia”, o di “fautographie”, per dirla con Man Ray: cancellazioni, lapsus, fallimenti, sorprese, che hanno pur diritto di mettersi in mostra. Gioielli del Novecento di Alba Cappellieri (Skira, pp 243, euro 70) racconta la storia del monile, partendo dall’Art Nouveau e dal Déco di Lalique e Tiffany, per giungere ai gioielli di design-glamour come Sottsass, Vagnelli, Munari, Eisenman, o di artisti quali Martinazzi e Meret Oppenheim, ovvero di stilisti come Westwood e Lagerfeld, che usa un tubo del gas, con rubinetti, quale collana, tempestandolo di strass. Ricchissimo volume di Manifesti del cinema nell’età dell’oro, Hollywood di Ira M. Resnik, con un brindisi di saluto di Scorsese (Jaca Book, pp. 264, euro 75) ci permette di ripercorrere analiticamente la decisiva grafica d’un mondo illusorio, ma onninfluente, posto a confronto con i volti fotografici di divi emblematici: da Carole Lombard a Stroheim, da Noel Coward alla Hepburn, dai Barrymore ad Errol Flynn.
Maestri anonimi di grafica, però geniali. Il volto del sogno. Tutt’altro mondo, povero e belloneorealistico, quello della Hollywood sul Tevere, di Stefano della Casa e Dario Viganò (Electa, pp. 175, euro 35). Spentasi l’autarchia e l’insanguinato odore di guerra, l’America cinematografica colonizza, ma debolmente, l’Italia: con i volti di Amstrong, Hitchcock, Orson Welles ecc. Ed una pletora d’attori, prevalentemente maschi, puntualmente in fregola. «Roma è bellissima, raggiungimi subito». Molte le testimonianze.
ULTIMAPAGINA
“Supermagic” torna a Roma al Teatro Olimpico dal 28 gennaio al 6 febbraio. Per stupire e incantare tutti
Quando i bambini fanno di Laura Giannone arry Houdini diceva che il cervello è la chiave che ci rende liberi ed è per questo che amava la magia, per quella sua capacità di mescolare le realtà e liberare le paure. Supermagic, l’unico festival italiano della magia, da sette anni a questa parte porta nella capitale il gusto misterioso dell’illusionismo e dei giochi di prestigio: dal 28 gennaio al 6 febbraio il sipario del Teatro Olimpico si alza sull’ottava edizione, le luci scendono e il “viaggio” comincia. Il silenzio nella sala diventa pesante, interrotto solo dai continui ohhh dei bambini (e dei genitori).Tutti a cercare di capire come sia potuto succedere, come abbiano fatto; tutti - nella pausa fra il primo e
H
Unico festival italiano di magia, ospita i più grandi illusionisti mondiali. Partito nel 2003 in un piccolo spazio, dal 2007 registra il tutto esaurito il secondo atto - a commentare l’esperimento più riuscito. Non ha limiti di età lo spettacolo. È veramente adatto a tutti.
Ammesso che si abbia la voglia di farsi trascinare in un viaggio dell’assurdo, dove non ci sono certezze e la comprensione diventa un atto irrilevante. Inutile chiedersi come abbiano fatto a far volare tante colombe in platea (tre edizioni fa) o a mimetizzarsi dietro una televisione finta (due anni fa) o far sparire e apparire animali e persone. Supermagic è un appuntamento, non una lezione sul mistero. È un festival nato per gli adulti che ha ovviamente conquistato i bambini. È un festival di maghi, prestigiatori, illusionisti, tra i più affermati al mondo, che in uno spettacolo di luci, colori e soprattutto fantastiche magie, tiene spesso il pubblico col fiato sospeso. Il titolo dello spettacolo di quest’anno è Infinito, tanto per chiarire qual è l’obiettivo. Come sempre, a scegliere i protagonisti dello spettacolo è stato Remo Pannain. Di professione avvocato penalista,
ma appassionato di giochi di prestigio (ha vinto molti premi). È stato quasi per scherzo che, nel 2003, ha messo in piedi la prima edizione di Supermagic (nome scelto in omaggio a Silvan e al suo Super Magic Show). Da allora è passato da 400 posti per 5 repliche al record stagionale di incasso del teatro Vittoria nel 2007, al tutto esaurito del Teatro Olimpico. I numeri parlano da soli.
«Supermagic Infinito dicono gli organizzatori - è un viaggio verso una dimensione dove nulla è relativo, dove i limiti razionali sono superati, dove tutto è magia. Stupore, suspance, divertimento, magia si fondono in uno spettacolo oltre ogni mozzafiato aspettativa. La misteriosa stanza nascosta nei sotterranei di un teatro, una segreta conoscenza, un custode e il suo apprendista, un viaggio verso l’infinità del tempo, attraverso i cicli della vita. Una nuova storia che guiderà gli spettatori tra le esibizioni di artisti straordinari».
OOOH!
La regia dello spettacolo è affidata, anche quest’anno, a Vito Lupo, campione del mondo dei prestigiatori e consulente degli eventi speciali della Disney in Florida. È lui che farà brillare al meglio Yo Kato, il giovane ed eccellente manipolatore giapponese, vincitore del primo premio al Campionato mondiale delle arti magiche nel 2009, nella difficile categoria manipolazione. E Marcel Kalisvaart, l’energico illusionista olandese, vincitore di numerosi premi internazionali tra cui miglior illusionista al Campionato Mondiale delle arti magiche nel 2003 e del Mandrake d’Or. E ancora, Aaron Crow, un sorprendente mentalista belga, vinci-
tore del World Championship of Magic e altri importanti premi internazionali, che si esibisce in tutto il mondo mostrando come la paura sia solo un’illusione della mente.Vik & Fabrini, due irresistibili prestigiatori brasiliani, stelle del Crazy Horse per 13 anni; Jae Hoon Lim, abile illusionista coreano che lavora con le colombe e a quanto pare con effetti sorprendenti. Raymond Crowe, il primo e unico australiano ad apparire al World’s Greatest Magic a Las Vegas e che ha già incantato il pubblico di tutto il mondo con il suo stile da mimo-mago e infine Dany Lary, il più famoso illusionista francese. E se pensate di poter andare a dare una sbirciatina dietro le quinte, scordatevelo: il backstage, come ogni altra edizione, è rigorosamente blindato.